Riflessioni riguardo al saggio “Dei delitti e delle pene” di Cesare
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Riflessioni riguardo al saggio “Dei delitti e delle pene” di Cesare
Dei delitti e delle Pene Riflessione di Vittorio Casali De Rosa classe 2^ A Liceo Classico Grosseto - 01/2012 pag 1 di 4 Riflessioni riguardo al saggio di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” edito per la prima volta in Livorno nel 1764. Di Vittorio Casali De Rosa Il marchese Cesare Beccaria (Milano 1783 – Milano 1794) fece parte dell’Accademia dei Pugni, una libera associazione di giovani patrizi aperta a nuove idee, fondata nel 1761 per iniziativa di Pietro Verri. L’ambiente illuminista, ispirato anche alle idee di Rousseau e Montesquieu entusiasma notevolmente Beccaria, che collabora ad una delle più importanti riviste italiane della seconda metà del Settecento come “Il Caffè”. La sua fama tuttavia, deriva dal breve trattato “Dei delitti e delle pene”, che Beccaria scrive in un breve giro di mesi tra il Marzo del 1783 ed il Gennaio del 1764, e che verrà pubblicato a Livorno nel 1764 in forma anonima. Ho deciso quindi di proporre una chiave di lettura che evidenzi due argomenti, che ritengo essere quelli principali: quello giudiziario e quello morale. L’ambito Giudiziario: L’ambito giudiziario è senza dubbio il più importante dell’opera, tanto che lo stesso saggio è incentrato ad una riflessione in termini utilitaristici sugli ordinamenti giudiziari dei paesi europei dell’epoca, basti pensare che il grande filosofo a cui Beccaria fa riferimento durante tutta la sua opera è Montesquieu, autore dell’opera di carattere anch’essa giudiziario intitolata “Esprit des lois”. Secondo Beccaria l’autorità statale deriva dalla sommatoria di libertà che i singoli individui in “un’epoca remota” hanno ceduto ad un legittimo depositario (che in una monarchia è il sovrano) affinché quest’ultimo ne tutelasse i singoli interessi e ponesse fine a quella che, semplificando, si può definire ‘legge del più forte’. E’ questo uno degli snodi fondamentali della riflessione di Beccaria. Partendo da questo presupposto egli condanna decisamente la pena di morte. La forza di uno Stato infatti deriva dagli stessi cittadini che ne fanno parte, per cui è assurdo pensare che qualcuno di loro rinunciando ad una porzione della propria libertà, intenda con ciò permettere allo Stato (che può agire solo in funzione di quelle libertà) di privarlo del bene più grande che un uomo possa Dei delitti e delle Pene Riflessione di Vittorio Casali De Rosa classe 2^ A Liceo Classico Grosseto - 01/2012 pag 2 di 4 avere, ovvero la vita. Tuttavia Beccaria non esclude totalmente la pena di morte (la critica che egli muovi alla pena di morte infatti non deriva da motivazioni religiose, ma utilitaristiche), essa è ammissibile solo nella misura in cui un cittadino attenti, se rimane in vita, alla salute dello Stato stesso, circostanza che si verifica in momenti particolari come in caso di guerra o di rivoluzione. C’è da notare inoltre che Beccaria scrive in un’epoca in cui le pene venivano inflitte molto spesso non sulla base degli ordinamenti vigenti, ma sulla base dell’arbitraria decisione del giudice, che, trattandosi di processi inquisitori, oltre ad essere giudice talvolta era anche accusatore. Beccaria è un sostenitore della presunzione di innocenza, rimasto come criterio fondamentale dei processi odierni. Tale fenomeno delinea le caratteristiche dei cosiddetti processi “informativi”, che sostituiranno quelli “inquisitori”. Uno Stato illuminato deve avere leggi scritte, chiare e comprensibili, cosicché tutti le possano capire e dunque poter rispettarle. Le leggi, inoltre, non devono essere troppo severe e devono essere eque (in questa concezione Beccaria è molto innovativo e democratico, considerando che egli stesso era nobile), leggi troppo severe ed inique sono infatti inutili dato che l’atrocità delle pene a cui queste condannerebbero avrebbe negli uomini soltanto un “passeggero furore” e non un effetto più duraturo ed efficace (si note a questo proposito i duri attacchi del Manzoni ne “I promessi sposi” alle continue leggi emanate dal governo spagnolo del ducato di Milano, è molto probabile che lo stesso Manzoni, nipote di Beccaria, sia stato influenzato dal pensiero del nonno nel giudicare la giurisdizione spagnola del Seicento), le leggi ingiuste farebbero invece nascere solamente, da parte di quelli che le devono subire, odio verso lo Stato e ne produrrebbero lo sfaldamento. La pena serve per redimere il reo e reintrodurlo nella società, ma non per mortificarlo, né come vendetta nei suoi confronti. Si può da questo comprendere l’ostilità di fondo di Beccaria nei confronti della tortura che, molto spesso, veniva imposta come una vera e propria pena durante gli interrogatori e, dall’altra parte, la sua preferenza verso il lavoro coatto o “lavori forzati”, che oltre ad apportare vantaggio allo Stato stesso, servivano anche al reo per rettificarsi. Beccaria dimostra anche l’inutilità della tortura in termini utilitaristici, egli infatti ritiene che sia ingiusta ed inaffidabile poiché, se utilizzata durante un processo, non è legittima dato che viola la presunzione d’innocenza rompendo Dei delitti e delle Pene Riflessione di Vittorio Casali De Rosa classe 2^ A Liceo Classico Grosseto - 01/2012 pag 3 di 4 il patto stipulato fra il cittadino e lo Stato, mentre se utilizzata allo scopo di far confessare il presunto colpevole è uno strumento insicuro. Infatti il vero colpevole sarà restio a confessare anche sotto tortura a causa della paura della pena, mentre chi non è colpevole ma viene ingiustamente accusato confesserà più facilmente per far cessare il supplizio. Inoltri chi è di costituzione fisica più robusta resisterà maggiormente al supplizio della tortura, mentre chi è di costituzione più debole sarà anche disposto ad asserire il falso pur di far cessare il dolore. Il carattere comune alla riflessione di Beccaria nell’ambito giudiziario è l’utilitarismo, criterio secondo il quale è “utile” ciò che porta la maggior felicità per il maggior numero di persone possibile. L’autore è molto pragmatico da questo punto di vista perché sarebbe utopico pensare che una legge possa essere vantaggiosa per la totalità assoluta della popolazione; qualcuno infatti sarà sempre scontento di qualsiasi provvedimento, per questo un buon governo deve far sì che la maggior parte della popolazione ne tragga vantaggio accettando che la minoranza si sacrifichi momentaneamente per il bene comune. Si può ora intendere una delle più celebri affermazioni del Beccaria “Ogni atto di autorità che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico”, l’”assoluta necessità” a cui fa riferimento l’autore è proprio quella serie di fatti o di azioni a cui debba essere posta fine per la tutela delle singole libertà, per l’interesse comune, quindi per la salute dello Stato. Secondo Beccaria uno stato non dovrebbe prodigarsi tanto a punire i crimini quanto a prevenirli, a questo proposito sono dedicati gli ultimi capitoli del saggio; l’autore sostiene che per prevenire i crimini tutta la forza della nazione debba essere incentrata a difendere le leggi dello Stato e mai a distruggerle, che queste ultime “favoriscano meno le classi degli uomini (Es. nobiltà, clero, etc…) che gli uomini stessi”, egli è convinto che il timore delle leggi sia salutare, mentre invece si deve evitare che un uomo, all’interno di uno Stato, tema un suo simile. Gli uomini dovrebbero essere quindi “cittadini”, nel senso moderno del termine, e non “sudditi”. La celebre frase “volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà.” Riassume la posizione, oltre che del Beccaria, anche di altri illuministi del Settecento, in uno Stato, infatti, in cui siano sparsi “lumi” è sconfitta Dei delitti e delle Pene Riflessione di Vittorio Casali De Rosa classe 2^ A Liceo Classico Grosseto - 01/2012 pag 4 di 4 “l’autorità disarmata di ragioni” e la “calunniosa ignoranza” (Ovvero quella autorità imposta non con fini utilitaristici ma per consuetudine, per religione o per comodità). L’ambito morale: Possiamo individuare in Beccaria una morale sotto molti aspetti laica, egli infatti non è ateo, ma ritiene che per uno Stato sia necessaria una morale non religiosa, lo Stato deve infatti mirare all’utile collettivo e non può permettere che alla sua giurisdizione vengano imposti limiti dovuti ad un approccio religioso alle leggi. E’ interessante sotto questo punto di vista quanto egli dica nel Cap. XVIII, intitolato “Dei giuramenti”: Beccaria molto astutamente vanifica l’utilità e contrasta la legittimità dei giuramenti, dice che nella maggior parte degli uomini la religione tace quando parla il proprio interesse. Un uomo infatti non contribuirà mai alla propria distruzione anche se sotto giuramento, e nessuna legge potrà mai spingere l’uomo ad andare contro il proprio istinto di conservazione. Importante è anche la considerazione che egli fa riguardo al suicidio; infatti anche se questo è considerato da parte della Chiesa un peccato gravissimo, non costituisce reato in sé e per sé; anzi il suicidio per Beccaria è meno svantaggioso per lo Stato rispetto all’espatrio, il suicida infatti lascia i suoi beni terreni all’interno dello Stato, mentre chi fugge si porta con sé parte dei suoi averi. Beccaria separa i delitti dai peccati: commette un delitto chi viola una legge dello Stato. Tutto ciò che non è vietato da una legge statale è lecito, mentre il peccato non è punibile da parte dello Stato. Il delitto è competenza dell’autorità secolare, mentre il peccato è competenza dell’autorità spirituale. In uno “Stato illuminato” i due ambiti sono separati. Sono importanti anche le accuse, benché molto velate (all’epoca infatti il Sant’Uffizio era ancora molto importante), ai processi per eresia svoltisi nei secoli precedenti, nel Cap. XXXIX, intitolato “Di un genere particolare di delitti”. A tale proposito può essere ricordato il giudizio negativo dato dal Manzoni riguardo agli untori ed ai processi per eresia ne “I Promessi Sposi”, anche in questo caso probabilmente lo scrittore milanese fu influenzato dal pensiero del nonno e dalla cultura illuministica che conobbe durante il periodo trascorso in Francia.
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