dalla confondibilità all`agganciamento parassitario

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dalla confondibilità all`agganciamento parassitario
CESARE GALLI
“Nuova” contraffazione
parassitario.
di
marchio:
dalla
confondibilità
all’agganciamento
Tradizionalmente, il fenomeno della contraffazione di marchio riguardava l’uso di segni
simili al marchio da tutelare per prodotti dello stesso genere o di generi affini: ed era
essenzialmente un problema di confondibilità sull’origine.
I nuovi fenomeni di contraffazione – spesso nati in seno al nostro mercato, ma certamente
molto accentuati dall’importazione di prodotti realizzati a basso costo nei Paesi dell’estremo
oriente – sono invece molto diversi. Un elenco non esaustivo comprende:
• l’uso di marchi identici per prodotti dello stesso genere (o addirittura apparentemente
identici, ma spesso di qualità più scadente), che però vengono venduti attraverso
canali distributivi che escludono l’esistenza di un pericolo di confusione (questa è
forse la contraffazione oggi più comune per i prodotti del mondo della moda e in
generale per i luxury goods);
• l’uso di marchi sempre identici a quello imitato, ma per generi merceologici
diversissimi, così che, egualmente, un pericolo di confusione per il pubblico appare
escluso;
• l’uso di segni che richiamano il marchio, ma lo fanno con modalità tali (la parodia,
ad esempio, ma non solo questa) da indurre il pubblico ad escludere che possano
provenire dall’impresa titolare del marchio imitato, o comunque che siano stati posti
in commercio con la sua autorizzazione;
• l’imitazione non tanto del segno, quanto dei suoi elementi di contorno (come la
confezione: è il cosiddetto look-alike), anche qui con modalità che portano ad
escludere un inganno del pubblico sulla provenienza (il fenomeno è particolarmente
diffuso per i marchi del comparto alimentare, e in generale per i prodotti di largo
consumo);
• l’uso di segni allusivi di una provenienza geografica prestigiosa, che però non è
direttamente richiamata, cosicché sembra difficile configurare un inganno del
pubblico a questo riguardo (in questo caso, più ancora dei marchi, le vittime
dell’imitazione sono le denominazioni di origine; particolarmente accentuato è poi il
fenomeno del c.d. Italian sounding, ossia dell’uso di denominazioni che richiamano
l’Italia, per beneficiare dell’accreditamento che essa gode nel settore alimentare);
• la copiatura pedissequa della forma dei prodotti (spesso realizzata ricavando gli
stampi del prodotto-copia a partire dal prodotto originale).
Per reagire a questa “nuova” contraffazione, si è spesso cercato di dilatare la nozione di
confondibilità, in particolare movendo dalla considerazione che più il marchio è famoso, più
facile sarebbe la confondibilità con esso. Ma è lecito dubitare della correttezza di questo
approccio, perché spesso proprio il fatto che il marchio sia famoso porta il pubblico a
evitare di confondersi, quanto meno in presenza di segni non identici (questo punto è stato
sottolineato da una recente pronuncia comunitaria: Trib. CE, 22 giugno 2004 nel
procedimento T-185/02, Picasso/Picaro), e in realtà anche in presenza di segni identici, ma
usati in contesti tali da escludere la riferibilità al titolare.
Non molto più fruttifero sembra l’approccio che tende a dare rilievo ad una supposta
confondibilità “in astratto”, dal momento che esso non chiarisce da che cosa si debba
“astrarre”. D’altra parte, sempre a livello comunitario, si è invece sottolineato come sia
necessario tener conto di tutti i fattori del caso concreto per determinare se vi sia o meno
confondibilità.
Più interessante è il tentativo, di origine americana, di dare rilievo a fenomeni di “initial
confusion”, cioè di confusione in cui il consumatore incorre solo nel suo primo approccio al
prodotto, e, soprattutto, di “post sale confusion”, cioè di confusione in cui incorre non chi
effettua l’acquisto, ma chi poi vede il prodotto-copia nelle mani di chi lo ha acquistato.
Questo aspetto è stato recentemente valorizzato dalla Corte di Cassazione per applicare le
sanzioni penali della contraffazione previste dall’art. 473 c.p. (e, sotto il profilo della
ricettazione, dall’art. 648 c.p.) (Cass. pen., 12-17 marzo 2004, n. 12926).
E’ però evidente che queste forme di confusione non intaccano direttamente la funzione del
marchio come indicatore di origine: e hanno in comune con la confondibilità “tradizionale”
essenzialmente il fatto di sfruttare parassitariamente i valori di avviamento commerciale
incorporati nel marchio.
Sembra dunque opportuno ripensare la protezione del marchio come rivolta oggi
principalmente contro questo sfruttamento parassitario, che fa leva sull’indebita
appropriazione del “messaggio” legato al marchio: un concetto questo che non è in realtà
alternativo a quello di confondibilità, ma di cui piuttosto la confondibilità rappresenta un
caso particolare.
Questo profilo sembra essere stato colto dai Giudici comunitari nella sentenza di Corte
Giust. C.E., 23 ottobre 2003, nel procedimento C-408/01, là dove sottolineano che il
pregiudizio cui l’art. 5.2 della Direttiva n. 89/104/CEE si riferisce, in alternativa all’indebito
vantaggio, come presupposto specifico per la tutela dei marchi rinomati, è la conseguenza
“di un certo grado di somiglianza tra il marchio d’impresa ed il segno, a causa del quale il
pubblico interessato effettua un confronto tra il segno ed il marchio, vale a dire stabilisce
un nesso tra gli stessi, se non addirittura li confonde” (punto 29 della decisione).
Spostando l’attenzione dal (solo) messaggio distintivo al complesso di elementi che il
marchio comunica (che possono riguardare non solo la provenienza, ma anche la qualità e le
suggestioni), la “nuova contraffazione” può essere combattuta in modo più efficace, sia a
livello civile, sia a livello penale.
Su questa base, alcune recenti pronunce del Tribunale di Milano hanno ritenuto contraffatto
uno dei più importanti marchi italiani nel settore dei luxury goods da un nome di persona (in
realtà, uno pseudonimo) simile a tale marchio, che veniva usato in funzione non distintiva
nella prestazione di servizi attinenti al mondo dello spettacolo, sulla base del collegamento
che il pubblico poteva instaurare tra il nome e il marchio e del conseguente vantaggio per
l’utilizzatore del nome (e detrimento per il titolare del marchio); e hanno quindi vietato
qualsiasi uso di tale pseudonimo nell’attività economica (si veda in particolare Trib. Milano,
ord. 1° settembre 2006, in IP_LAW_GALLI Newsletter – Novembre 2006, dove si legge
anche il relativo ricorso).
Questo discorso vale sia per la contraffazione di marchio, sia per quella delle denominazioni
di origine, che nella recente legislazione sono protette non più soltanto contro l’inganno del
pubblico, ma più in generale contro lo “sfruttamento indebito della reputazione della
denominazione protetta” (Regolamento n. 2006/510/CE su DOP e IGP).
Anche per ciò che riguarda le forme dei prodotti, la sottolineatura dell’aspetto parassitario
della copiatura assume speciale rilievo, e consente di considerare sussistente la violazione
non solo quando vi sia confondibilità, ma anche quando sussista semplicemente il “nesso”
di cui parla la Corte di Giustizia, ossia quando l’imitazione sfrutta l’accreditamento sul
mercato di cui il prodotto imitato gode.
Per le forme, il problema rimane piuttosto quello di stabilire quali di esse possono essere
tutelate come marchio e contro l’imitazione servile: anche qui, peraltro, la Corte di Giustizia
ha chiarito che “la ratio degli impedimenti alla registrazione” previsti dall’art. 3.1, lett. e
della Direttiva n. 89/104/C.E.E. (corrispondente all’art. 18, lett. c l.m.) “consiste nell’evitare
che la tutela del diritto di marchio sfoci nel conferimento al suo titolare di un monopolio su
soluzioni tecniche o caratteristiche utilitarie di un prodotto che possono essere ricercate
dall’utilizzatore nei prodotti dei concorrenti” (Corte Giust. C.E., 18 giugno 2002, nel
procedimento C-299/99, Philips; questo insegnamento è stato ribadito anche in successive
decisioni ed anche con riferimento ai colori, per i quali è stata tra l’altro sottolineata
l’importanza dell’accreditamento sul mercato conseguito dal segno).
Sempre per le forme, e sempre in chiave di repressione del parassitismo, va inoltre ricordata
la nostra giurisprudenza sulla c.d. “ripresa diretta della prestazione”, e cioè sull’ipotesi in
cui la copia delle forme, anche non dotate di un autonomo valore di mercato, avvenga con
modalità in sé scorrette, quali appunto la copiatura realizzata a partire dall’originale,
risparmiando tutti i costi di progettazione. Il ricorso alle norme in materia di concorrenza
sleale sembra in questo caso particolarmente opportuno, proprio contro molte realizzazioni
provenienti dall’Estremo Oriente.
Nella stessa chiave sembra possibile affrontare anche il fenomeno del look-alike. Anche
l’aspetto esteriore del prodotto è infatti tutelabile non solo nell’ipotesi in cui vi sia un
pericolo di confusione (che normalmente è escluso), ma anche quando l’imitazione
comporti comunque un effetto di “richiamo” che sfrutta parassitariamente l’accreditamento
commerciale del prodotto, determinando un “agganciamento” alla notorietà di esso.
Anche in questo caso si possono citare alcuni recenti precedenti del Tribunale di Milano, ed
in particolare un’ordinanza del 17 gennaio 2006 (in IP_LAW_GALLI Newsletter – Aprile
2006, sempre col relativo ricorso): il Tribunale ha infatti ritenuto che la copia identica di un
prodotto noto sul mercato può essere considerata illecita, sia come contraffazione di un
“segno distintivo di fatto”, vietata dal Codice della Proprietà Industriale, sia come atto di
concorrenza sleale, e ciò non solo in caso di confondibilità, ma anche soltanto in relazione
all’agganciamento parassitario alla notorietà del prodotto imitato e all’immagine
commerciale del produttore di esso.
Come tale, questa pronuncia segna un decisivo progresso anche nel rafforzamento della
protezione dei nostri prodotti contro le imitazioni provenienti dall’Estremo Oriente, oggi
molto spesso realizzate “a ricalco” attraverso metodi di digitalizzazione del prodotto
originale effettuati utilizzando un “tastatore” elettronico o un sistema al laser (come era
avvenuto anche nel caso concretamente deciso dai Giudici milanesi), che consentono di
risparmiare così anche i costi (tutt’altro che trascurabili) per la progettazione degli stampi.
CESARE GALLI
Avvocato, a capo di uno Studio specializzato in Proprietà Industriale e intellettuale con sede
principale a Milano e studi collegati a Parma, Brescia e Verona, e Professore universitario,
ordinario di Diritto industriale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma,
nonché membro del Comitato Tecnico dell’Alto Commissario per la Lotta alla
Contraffazione.
Nel corso della sua attività si è occupato di importanti cause, in Italia e all’estero, relative a
tutte le branche del Diritto industriale, in particolare marchi, domain names, denominazioni
d’origine e brevetti per invenzione, affrontando più volte problematiche di carattere
internazionale e con aspetti cross-border.
Di pari passo con lo svolgimento della sua attività professionale, ha percorso tutta la carriera
universitaria sino al conseguimento della cattedra, ed ha al suo attivo un grande numero di
pubblicazioni in materia di marchi, brevetti e diritto d’autore, tra cui i volumi: Il diritto
transitorio dei marchi (Milano, Giuffré, 1994); Funzione del marchio e ampiezza della
tutela (Milano, Giuffré, 1996); I domain names nella giurisprudenza (Milano, Giuffré,
2001); e La nuova legge marchi² (Milano, Giuffré, 2001, quest’ultimo scritto insieme al
Prof. Vanzetti);.Il futuro dei marchi e le sfide della globalizzazione (Padova, CEDAM, 2002
– curatore e autore di uno dei saggi) e Le nuove frontiere del diritto dei brevetti (Torino,
Giappichelli, 2003 – curatore e autore di uno dei saggi).
Membro di INDICAM e di AIPPI, nella seconda è responsabile del Gruppo di lavoro sui
marchi ed a livello internazionale è stato Co-Chairman del gruppo di lavoro AIPPI su
marchi e denominazioni d’origine, ed ora è stato nominato Chairman di quello dedicato alle
limitazioni al diritto di marchio, in vista dell’ExCo in programma a Singapore nell’ottobre
2007.
Nel 2004, in occasione del varo del Codice della Proprietà Industriale, è stato sentito come
esperto dalla Commissione Attività Produttive della Camera dei Deputati. Nel 2005 è stato
chiamato a far parte della Commissione di esperti costituita presso il Ministero delle Attività
Produttive per la revisione del Codice, e nel 2006, come si diceva all’inizio, è stato
nominato membro del Comitato Tecnico dell’Alto Commissario per la Lotta alla
Contraffazione.
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