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“VIOLAZIONE E TUTELA DEL DIRITTO”
PROF. GUIDO BEVILACQUA
Università Telematica Pegaso
Violazione e tutela del diritto
Indice
1
IL CONSENSO DEL TITOLARE ------------------------------------------------------------------------------------------ 3
2
IL RISCHIO DI CONFUSIONE -------------------------------------------------------------------------------------------- 4
3
CONFONDIBILITÀ IN CONCRETO E IN ASTRATTO ------------------------------------------------------------- 6
4
IL RISCHIO DI ASSOCIAZIONE ----------------------------------------------------------------------------------------- 8
5
IL GIUDIZIO DI CONFONDIBILITÀ ------------------------------------------------------------------------------------ 9
6
LA CONTRAFFAZIONE DEL MARCHIO ----------------------------------------------------------------------------- 11
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Il consenso del titolare
La legge specifica che i diritti conferiti al titolare del marchio dalla registrazione
<<consistono nella facoltà di far uso esclusivo del marchio>>.
La <<facoltà>> in questione è poi ampiamente analizzata, e lo è, correttamente perché si
tratta di una esclusiva, in termini negativi, vale a dire come possibilità di vietare ai terzi determinati
comportamenti.
Prima di passare ad elencare questi comportamenti, tuttavia, la legge (art. 20/1 c.p.i.)
dichiara che il diritto di vietarli a terzi riconosciuto al titolare è subordinato all’assenza di un suo
consenso a che i comportamenti medesimi vengano posti in essere (<<il titolare ha diritto di vietare
a terzi, salvo proprio consenso>>).
Sembra evidente che ove questo consenso dovesse venire inteso semplicemente come
mancanza nel titolare della volontà di far valere l’esclusiva, e cioè come mera tolleranza della
contraffazione, la norma sarebbe pleonastica o del tutto ovvia.
Ciò induce a ritenere che il consenso in questione in realtà abbia un significato diverso, e
precisamente che esso richiami un consenso esplicitamente manifestato dal titolare, seppure con
quelle caratteristiche di precarietà, e quindi di revocabilità ad nutum, che caratterizzano il
cosiddetto consenso dell’avente diritto.
Naturalmente poi, la norma si riferisce anche a un consenso di natura contrattuale a non fare
valere l’esclusiva nei confronti di uno o più determinati terzi (cd. accordi di coesistenza).
La previsione che il consenso del titolare possa legittimare comportamenti confusori, ed in
particolare la coesistenza sul mercato di marchi eguali o confondibili, costituisce il punto di
emersione più evidente del carattere dominicale e privatistico attribuito al diritto sul marchio dalla
legge attuale.
Tuttavia lo <<statuto di non decettività>> del marchio stesso dovrà di nuovo qui operare,
vuoi con un’applicazione analogica delle condizioni di liceità della cessione e della licenza di
marchio (cui il <<consenso>> del quale stiamo parlando è certamente analogo) previste all’art. 23
c.p.i., vuoi con l’imposizione di un onere di differenziazione esterno al marchio a carico del
beneficiario del consenso.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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2 Il rischio di confusione
I comportamenti dei terzi che il titolare del marchio ha il diritto di vietare, vale a dire il
contenuto del suo diritto di uso esclusivo, consistono anzitutto nell’uso, nei diversi modi che
vengono elencati nell’art. 20 c.p.i. di un marchio identico per prodotti identici [art. 20/1 a) c.p.i.].
Quest’uso è vietato a prescindere da qualsiasi rischio di confusione, e perciò anche nel caso
in cui un simile rischio possa escludersi. È evidente tuttavia che di solito la confondibilità sarà in
questa ipotesi presente.
Quando invece potrà escludersi, la tutela non concernerà più valori distintivi, ma sarà volta
a reprimere operazioni di agganciamento parassitario. Un’interpretazione rigorosa del termine
<<identico>> usato per il marchio anche all’art. 20 c.p.i., potrebbe portare a ritenere che l’ipotesi di
identità senza confondibilità sia da escludersi, presupponendo una presenza di elementi
differenziatori nel secondo segno che contraddirebbe l’identità: ciò naturalmente in quanto si
ritenga che la valutazione della confondibilità vada fatta in relazione anche ai segni in sé
considerati, ed a prescindere da elementi di differenziazione ad essi esterni, vale a dire in astratto.
Nelle altre ipotesi (marchi identici – prodotti affini; marchi simili – prodotti identici; marchi
simili – prodotti affini) l’uso da parte di terzi di un marchio uguale o simile a quello del titolare è
vietato quando, a causa dell’identità o somiglianza fra i due segni, nonché a causa dell’identità o
affinità fra i prodotti contrassegnati, può determinarsi <<un rischio di confusione tra il pubblico,
che può consistere anche in un rischio di associazione fra due segni>> [art. 20/1 b) c.p.i.].
La legge conferma così, almeno per queste ipotesi che peraltro sono le più frequenti (i casi
di assoluta identità di marchi e prodotti sono rari, un qualche scostamento soprattutto nei segni è
quasi sempre presente. Potrebbe porsi il problema del grado di identità richiesto per dar luogo
all’<<identità>> di cui parla la legge: ad esempio un’identità solo fonetica ma non grafica sarebbe
<<identità>>?); la legge conferma così, che almeno nelle ipotesi più normali il marchio,
coerentemente alla sua funzione distintiva, è tutelato solo nei limiti della possibilità di confusione.
Possibilità di confusione che, per verificarsi, abbisogna del concorso di due elementi, e
precisamente di una identità o somiglianza fra i segni da un lato, e di una identità o affinità fra i
prodotti contrassegnati dall’altro.
Il rischio di confusione di cui si tratta concerne, almeno in linea di principio, l’origine dei
prodotti o servizi, e non consiste in una mera confondibilità fra segni o fra prodotti.
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Ciò è coerente con la funzione del marchio che è ancora prevalentemente funzione di
indicazione appunto d’origine, trova conferma nel fatto che la legge pone l’identità o somiglianza
fra segni (e perciò anche la confondibilità fra segni) e la identità o affinità fra prodotti (e perciò
anche la confondibilità fra prodotti) su di un piano diverso dalla confondibilità cui si riferisce come
elemento costitutivo della fattispecie parlando di <<un rischio di confusione per il pubblico>>: e
precisamente sul piano delle cause di quest’ultimo. Si avrà dunque un comportamento vietato in
quanto si possa ritenere che l’uso da parte del terzo di un segno eguale o simile per prodotti eguali o
affini possa indurre il pubblico a ritenere che i suoi prodotti provengano in realtà dall’impresa del
titolare del segno.
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3 Confondibilità in concreto e in astratto
Si badi peraltro che il rischio di confusione di cui alla norma va valutato, secondo una
accreditata opinione, in astratto, o quanto meno anche in astratto, vale a dire con riferimento ai due
marchi in contestazione, in sé considerati, a prescindere dall’uso che del segno venga fatto in
concreto da parte del presunto contraffattore, che potrebbe, in concreto appunto, non essere
confusorio per l’aggiunta al marchio di elementi di differenziazione, ovvero per altre caratteristiche
di quell’uso (ad esempio palese carattere <<falso>> del prodotto, a causa dei modi e del prezzo cui
il prodotto viene venduto e della più scadente qualità di esso). In questo senso sembra deporre il
fatto che in sede di valutazione della novità il giudizio di confondibilità non potrebbe che essere
condotto in astratto, e che le parole usate per l’ipotesi di violazione del diritto (<<un rischio di
confusione per il pubblico>>) sono identiche a quelle usate in tema di novità dell’art. 12 c.p.i. Si
pensi d’altra parte che pretendere una possibilità di confusione in concreto legittimerebbe non solo
le copiature delle grandi marche poste in essere dai falsari e smerciate per le strade (in relazione alle
quali certamente nessuno si confonde), ma altresì ogni ipotesi in cui l’acquirente appunto sia
consapevole di non comprare un prodotto originale, per ragioni di prezzo, di qualità, di canali di
distribuzione, ecc. Se poi si pensa ai marchi di forma, in base alla tesi qui criticata la contraffazione
dovrebbe escludersi ogni qual volta la forma distintiva sia accompagnata da un marchio
denominativo o figurativo diverso da quello usato dal titolare e cioè praticamente sempre (la forma
caratteristica delle bottiglie è ad esempio spesso registrata come marchio, e poiché le bottiglie sono
accompagnate da un’etichetta, la diversità di questa legittimerebbe sempre l’impossessamento del
marchio di forma altrui). In conclusione il giudizio sul rischio di confusione per il pubblico andrà
condotto dal giudice anche immaginando una situazione diversa da quella reale, ricostruendo la
percezione del pubblico stesso anche in relazione ad un raffronto fra i due segni che prescinde dal
modo e dal contesto in cui il secondo (ma anche il primo) sia di fatto usato.
Ciò non toglie che pure elementi concreti possono contribuire (non ad escludere), ma ad
affermare il rischio di confusione.
Par certo infatti, che quanto più il marchio imitato sarà noto sul mercato, quanto più la sua
capacità distintiva eventualmente rafforzata con l’uso, tanto più la protezione di esso sarà intensa e
merceologicamente ampia nei confronti del segno contraffattorio, considerato, questo sì, in astratto.
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Con l’adozione del criterio della confondibilità in astratto (intesa nel senso appena precisato)
si viene in realtà ad ampliare la tutela del marchio al di là della sua funzione distintiva tipica,
estendendola ad ipotesi che con una effettiva confondibilità nulla hanno a che fare, e che consistono
in buona sostanza in operazioni parassitarie non confusorie.
È tuttavia necessario tener presente che talvolta la giurisprudenza comunitaria sembra
scostarsi dalla tesi delle sufficienza di una confiondibilità in astratto per dar luogo alla
contraffazione di marchio.
Fermo restando che dal versante del titolare del segno anteriore questo verrà nel raffronto
considerato sempre anche in astratto, cioè quanto meno con una estensione della tutela
corrispondente all’ambito rivendicato nella registrazione, mentre la considerazione delle concrete
modalità con cui è stato usato potrà valere solo in quanto ampli quell’ambito di tutela, per alcune
sentenze comunitarie il segno del contraffattore andrà considerato in concreto, cioè con tutti gli
elementi differenziatori che eventualmente lo accompagnino nell’uso appunto concreto.
Si tratta di un indirizzo giurisprudenziale che non sembra particolarmente rigoroso, ma che è
necessario considerare anche per i riflessi che potrà avere sulla nostra giurisprudenza.
Analogamente a quanto si è detto in tema di concorrenza sleale e confusoria, anche qui ci si
può chiedere se il rischio di confusione rilevante sia solo quello che si verifica per il consumatore
nel momento in cui procede all’acquisto del bene, oppure anche quello che si determina in capo a
terzi che vedano il bene recante il marchio dopo l’acquisto (cd. post-sale confusion). Parte della
dottrina e della giurisprudenza afferma che anche a ipotesi di questo tipo debba applicarsi l’art. 20/1
b) c.p.i.; e la soluzione sembra da condividere.
Discusso è inoltre se assuma rilievo la confusione in cui il consumatore possa cadere prima
dell’acquisto del bene, quando tuttavia sia da escludere che questa confusione permanga al
momento dell’acquisto (cd. pre-sale confusion).
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4 Il rischio di associazione
Il legislatore afferma che il rischio di confusione può consistere anche in un <<rischio di
associazione>> tra i due segni.
Si ritiene prevalentemente che quest’ultima espressione vada intesa nel senso di ampliare il
concetto di rischio di confusione fino a comprendere, oltre all’ipotesi che il pubblico sia indotto a
ritenere che i prodotti del contraffattore provengano in realtà dall’impresa del titolare del segno,
anche quella che esso possa pensare che provengano da un’impresa in qualche modo legata a quella
del titolare da rapporti di gruppo o contrattuali.
In realtà quell’espressione si presterebbe ad essere interpretata in un senso più ampio, cioè
come comprensiva anche dell’ipotesi ad esempio di un mero richiamo alla memoria del pubblico
dell’altro marchio, e quindi di un mero agganciamento non confusorio. Ma una simile
interpretazione viene rifiutata perché la legge parla pur sempre del <<rischio di associazione>>
come di una ipotesi del <<rischio di confusione per il pubblico>>, escludendo dunque che possa
trattarsi di associazione non, almeno in senso lato, confusoria.
D’altra parte in questo senso è decisamente orientata la giurisprudenza della Corte di
Giustizia CE.
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5 Il giudizio di confondibilità
E consideriamo ora i due elementi che devono concorrere per dar luogo al rischio di
confusione. Si tratta anzitutto della confondibilità fra segni.
Quando il marchio usato dal terzo sia identico a quello del titolare, non c’è evidentemente
problema. La esigenza di criteri di valutazione sorge invece quando il marchio adottato dal terzo sia
soltanto simile a quello del titolare. I criteri generali da adottarsi nel raffronto per stabilire se fra due
segni sussista confondibilità sono consolidati in giurisprudenza. Si dice anzitutto abitualmente che il
giudizio va dato tenendo conto dell’impressione di insieme che il raffronto fra i due segni può
suscitare. In particolare si dice che ai fini dell’accertamento della confondibilità si deve procedere
all’esame comparativo fra i marchi in conflitto non già in via analitica, attraverso una
particolareggiata disamina ed una separata valutazione di ogni singolo elemento, ma in via unitaria
e sintetica, mediante un apprezzamento complessivo che tenga conto degli elementi salienti. Al
riguardo, tuttavia, è bene aggiungere che alla fase per così dire <<intuitiva>> della valutazione,
dovrà accompagnarsene una di controllo, che non potrà prescindere da un esame più analitico delle
somiglianze e delle diversità, anche solo per accertare quali elementi debbano ritenersi salienti e
quali invece di minor rilievo.
Su questa base il giudizio finale di impressione avrà più solido fondamento.
Si sostiene poi che la valutazione vada condotta avendo riguardo all’attenzione e alla cultura
del pubblico al quale i prodotti contraddistinti sono destinati. Ciò comporta che il giudizio sarà più
o meno severo a seconda del tipo di prodotti di cui si tratti, nel senso che in caso di prodotti di
consumo più corrente e di prezzo poco elevato, nell’acquisto dei quali si ritiene meno coinvolta
l’attenzione dell’acquirente, si affermerà la confondibilità anche in caso di relativa distanza tra i due
segni, mentre nel caso di prodotto di alto prezzo, magari destinati soltanto ad un pubblico altamente
qualificato sotto il profilo tecnico la confondibilità potrà negarsi anche in ipotesi di notevole
vicinanza, ritenendosi che l’attenzione dell’acquirente sarà in genere tale da escludere la possibilità
che egli realmente si confonda.
Si ritiene inoltre che debba considerarsi il fatto che normalmente il consumatore, specie per i
beni di minuto consumo, all’atto dell’acquisto ha a che fare con il ricordo di uno dei due marchi e
con la presenza dell’altro, sicché la possibilità di confusione sarà più alta di quanto non sarebbe se
egli si trovasse di fronte contemporaneamente ai due segni.
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Come si ricorderà i marchi si distinguono in denominativi, figurativi e misti.
Per i marchi denominativi, si ritiene che nel giudizio di confondibilità si debba aver
riguardo, oltre che all’elemento grafico, anche a quello fonetico: nel senso che la confondibilità non
potrà essere esclusa ove le due parole messe a raffronto graficamente si differenzino ma
foneticamente siano vicine, o viceversa.
Per tutti i tipi di marchio che abbiamo menzionato, poi si dovrà considerare l’eventualità
che, pur non trattandosi di marchi descrittivi, siano tuttavia dotati di un valore semantico. Si è ad
esempio al riguardo ritenuto che l’adozione di un marchio denominativo <<centauro>> fosse
confondibile con un marchio figurativo rappresentato dall’immagine appunto di un centauro.
Criteri particolari sono affermati in tema di marchi complessi, cioè di marchi costituiti da
una pluralità di elementi, denominativi e figurativi.
Si dice di solito che questi marchi sono tutelati in ciascuno dei loro elementi, purché si tratti
di elementi nuovi e dotati di capacità distintiva: conseguentemente si dovrà affermare la
confondibilità, e la violazione del diritto del titolare, anche in caso di appropriazione di uno solo di
questi elementi (il che mostra come almeno in questo caso il giudizio di confondibilità venga
condotto in astratto).
Per contro ove alcuni degli elementi del segno siano nuovi e originali, e altri no, la tutela
sarà limitata ai primi ed anzi si cerca, in questi casi di individuare quale elemento possa considerarsi
il <<cuore>> del marchio, vale a dire il suo nucleo più caratteristico, per affermare la violazione del
diritto quando a quel cuore l’altro segno si avvicini. Sempre a proposito di marchi costituiti da una
pluralità di elementi, se questi siano in sé ciascuno privo di capacità distintiva, si dice che la tutela
può riguardare la peculiare e nuova combinazione di essi (marchi di insieme).
Nel caso in cui un soggetto sia titolare di marchi in serie – ossia di marchi che contengono
tutti uno stesso elemento (un prefisso o un suffisso) e che solitamente vengono utilizzati per
contraddistinguere prodotti diversi, ma appartenenti ad una medesima linea – si deve tenere conto,
nel valutare la confondibilità, della possibilità che l’inserimento dell’elemento comune nel marchio
di un terzo induca il consumatore a pensare che questo marchio faccia parte della serie e quindi a
ricondurlo al titolare di essa.
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6 La contraffazione del marchio
La violazione dell’altrui diritto di marchio si verifica dunque con l’adozione, per
contrassegnare prodotti dello stesso genere o di genere affine (o, nel caso eccezionale del marchio
che goda di rinomanza, anche di genere non affine), di un marchio uguale o simile (confondibile).
Vi è chi distingue fra usurpazione e contraffazione del marchio altrui, riservando
all’adozione di un marchio identico la prima parola, a quella di un marchio simile la seconda.
Ma il termine più usato, e che qui adopereremo per tutte le ipotesi, è quello di
contraffazione.
Ciò che secondo la legge il titolare del marchio può vietare a terzi è l’uso del marchio
contraffattorio.
L’uso del marchio consiste nel suo significato più ovvio nella apposizione di esso sul
prodotto o sulla sua confezione, e nella successiva immissione sul mercato del prodotto recante il
marchio.
E’ uso del marchio anche l’utilizzazione del segno nella pubblicità.
All’art. 20/2 c.p.i. il legislatore, tuttavia, fornendo un’ampia elencazione di ciò che il titolare
può vietare ai terzi cioè illustrando il contenuto del diritto di esclusiva, manifesta una nozione assai
ampia di uso del marchio, e quindi di contraffazione, che abbraccia, oltre alle ipotesi tipiche, altresì
una serie di fattispecie ulteriori.
Sono così considerate uso del marchio la mera apposizione del segno sui prodotti o sulle
loro confezioni, a prescindere dalla loro messa in commercio nel territorio dello Stato; l’offerta in
commercio e la detenzione ai fini commerciali di prodotti; nonché, infine, l’importazione di prodotti
contraddistinti dal segno, a prescindere dalla loro destinazione ad essere messi in commercio nel
nostro Paese, e l’esportazione di simili prodotti.
Si noti che ciò che il legislatore vieta è soltanto l’uso del marchio altrui in funzione
distintiva, vale a dire come marchio o anche, dato il principio di unitarietà dei segni distintivi, come
segno distintivo diverso dal marchio (è bene tuttavia segnalare che parte della dottrina e della
giurisprudenza considera contraffazione di marchio anche l’uso di esso da parte del terzo in
funzione diversa, principalmente in casi nei quali questo uso consenta al suo autore un vantaggio
parassitario).
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