La poetica pascoliana
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La poetica pascoliana
La poetica pascoliana Il passaggio dalla visione oggettiva a quella soggettiva La poetica pascoliana riflette la situazione culturale fra Otto e Novecento, caratterizzata dal rifiuto del Positivismo, dalla sfiducia nella scienza e perfino nella ragione umana come metodo principale di conoscenza. Per Pascoli la realtà non conta tanto in se stessa, cioè come realtà oggettiva, quanto per come l'uomo riesce a vederla e a «sentirla» dentro di sé, come realtà soggettiva. Le piccole cose, quelle della campagna, per esempio, o i gesti dell'infanzia, assumono per lui più importanza delle cose grandi (per esempio i fatti della storia): infatti, se le si guarda con attenzione e si entra in rapporto con loro, esse possono farci intuire i valori autentici della vita. Il punto è che non si può capire la realtà con il ragionamento, ma soltanto immedesimandosi con essa, come fanno i bambini e i poeti. In questa ottica, alla poesia spetta un compito di rivelazione: incapaci di penetrare con la ragione i segreti della natura, gli uomini possono averne una percezione grazie appunto alla poesia. Il fanciullino ed il poeta Le concezioni di Pascoli sulla natura e sugli scopi della poesia sono espresse in un lungo e importante scritto, Il fanciullino, pubblicato nel 1897 sulla rivista fiorentina «Il Marzocco». Secondo Pascoli, in ogni uomo c'è un «fanciullo», capace di commuoversi e di sperimentare ogni giorno emozioni e sensazioni nuove. Spesso tale «fanciullino» è soffocato e ignorato dal mondo esterno, degli adulti, ma se si risveglia fa sognare a occhi aperti, fa scoprire il lato attraente e misterioso di ogni cosa, fa volare con la fantasia in mondi meravigliosi. Proprio come nel tempo dell'infanzia, tale «fanciullino» ha conservato la facoltà di «parlare» con gli alberi, i fiori, gli animali, e in qualsiasi momento si può tornare ad ascoltarne la voce. Il fanciullino osserva le piccole-grandi cose della campagna con una prospettiva rovesciata: • le cose grandi le vede piccole (il brillare delle stelle, per esempio, gli pare un «pigolio»); • le cose piccole le ingrandisce (un ciuffo di fili d'erba gli sembra una foresta). Il suo metro di giudizio differisce radicalmente da quello degli uomini adulti, civilizzati; è un individuo di natura, non di cultura. Nella metafora di Pascoli, questo fanciullo non è una condizione anagrafica, ma una condizione interiore. Essa rappresenta quella natura pura e ingenua, candida e innocente, che, nella psicologia di un individuo, può conservarsi anche in età avanzata; l'individuo cresce e invecchia, ma il «fanciullino» rimane piccolo dentro di lui, «e piange e ride senza perché». L'importante è non soffocare definitivamente questa voce, che ancora vibra nella parte dell'anima rimasta, appunto, «fanciulla». Chiunque riesca a conservarsi fanciullo, dice Pascoli, può: • guardare la realtà circostante con stupore ed entusiasmo; • percepire così il lato bello e commovente di ogni situazione; • oltrepassare, con la fantasia, le apparenze comuni e banali. In altre parole, il fanciullino è colui che sa osservare poeticamente il mondo: le sue facoltà sono le stesse del sentimento poetico. Infatti, nell'ottica di Pascoli, il poeta è precisamente colui che, come i fanciulli, ha mantenuto l'infantile capacità di meravigliarsi e d'intuire, piuttosto che di ragionare. Da lui non potrà che nascere una poesia «fanciulla»: essa rinuncerà all'eloquenza, alla dottrina, all'imitazione dei grandi scrittori del passato, e s'ispirerà piuttosto allo stormire delle fronde, al 1 canto dell'usignolo, all'arpa che tintinna. Rifuggirà le grancasse, scrive Pascoli, cioè i modi solenni da poeta-vate, perché il fine della poesia è solo la poesia «pura». Se invece l'arte nasce per affermare messaggi esterni (sociali, religiosi o politici), tradisce se stessa e si consegna alla retorica. La posizione di Pascoli è molto vicina all'«arte per l'arte» di parnassiani e simbolisti. Pascoli sviluppa ulteriormente il parallelismo tra fanciullo e poeta: • il fanciullo osserva ogni cosa con occhio incantato, perché tutto gli parla di orizzonti sconosciuti e affascinanti; anche il poeta-fanciullo sa cogliere le misteriose relazioni (le corrispondenze di Baudelaire) e analogie che sussistono tra le cose; • il fanciullo «vede» le cose in maniera discontinua, slegata; anche il poeta-fanciullo esprime le proprie immagini in maniera istintiva, pre-logica, se non irrazionale; • il fanciullo vede solo primi piani, non il vicino e il lontano, o il prima e il dopo, e tutto gli appare parimenti importante; ugualmente, al poeta-fanciullo sfuggono le giuste dimensioni perché egli giustappone, una dopo l'altra, le immagini e le sequenze, senza rielaborarle nel giusto ordine; • il fanciullo non si sente affatto superiore rispetto alla natura, e anzi s'immerge con timore in essa, parla agli animali e alle nuvole, s'immedesima con i fili d'erba; anche le parole del poeta-fanciullo sono quelle incontaminate della gente semplice di campagna, cioè sono parlate dialettali, gerghi di arti e mestieri, i versi degli uccelli. Tutto concorre a ringiovanire l'espressione poetica. Il simbolismo dell'autore La poetica del «fanciullino» fa di Pascoli un poeta genuinamente simbolista: la parola poetica si carica della soggettività dell'io-poeta, che dice le cose non come sono, ma come le sente. Ciò è vero per quasi tutti i poeti, ma lo è in particolare per i maestri del Simbolismo europeo (Rimbaud, Mallarmé): l'intima conoscenza della realtà può essere espressa solo mediante il simbolo. Cose e presenze naturali sono viste come emblemi di altre realtà, rappresentazioni di un mondo ignoto e invisibile, messaggi da ascoltare e decifrare. Il simbolismo di Pascoli è meno intellettuale e più istintivo. Quella del «fanciullino» è una visione «bassa»: essendo privo di filtri culturali, di aspettative o finalità ideologiche, egli può percepire il mondo solo in maniera infantile, ingenuamente. Il suo sguardo si ferma incantato su ogni cosa, si lascia dominare dai particolari, senza riuscire più a ricostruire una o visione d'insieme, salda e razionale. Il poeta-fanciullo si fissa ora su una foglia (su questa foglia) ora su un fiore (su questo fiore), rimane senza fiato davanti a nuvole, stelle, voli d'uccello. Ciascuna di queste realtà, per lui, è un flash (un'immagine-simbolo) del mistero indefinibile del mondo. Perciò le ambientazioni di Pascoli non sono mai sintetiche, ma sempre analitiche; invece di offrire visioni bene ordinate, affastellano dettagli. Egli non conosce, o rifiuta, lo sguardo «onnisciente» del poeta-intellettuale, capace di ritrovare il senso dell'assieme. A Pascoli non interessava offrire al lettore tutti i dati importanti di un certo quadro, quanto, piuttosto, moltiplicare i punti di vista, accavallare i piani della visione. Perciò i simboli del poeta-fanciullo non si caricano (quasi) mai di tensione intellettuale. Quando Pascoli si sforza di «costruire» i propri simboli, ottiene risultati poco convincenti, come avviene, per esempio, in Il libro, uno dei Poemetti. Esso rappresenta allegoricamente la condizione del pensiero umano, che cerca di decifrare il proprio destino e di «leggere» nella propria misteriosa natura: come fa una mano che sfoglia le pagine di un vecchio libro aperto su un leggio, alla ricerca di qualcosa che non trova mai. Qui siamo appunto davanti a un'allegoria, calcolata in modo intellettualistico. Le presenze simboliche 2 Ben più suggestivi sono i simboli spontanei di Pascoli, perché si legano al mondo interiore del poeta-fanciullo. Un mondo che affiora sulla pagina dallo stretto contatto con la vita semplice della campagna, dalle sue umili presenze: le campane, i fiori, gli uccelli. Le campane suonano, come in La mia sera, soprattutto per evocare un'atmosfera di sogno, per accendere la memoria felice dell'infanzia; la loro voce è spesso mimata da parole onomatopeiche (don don, dondolio e simili). I fiori di Pascoli divengono spesso (come in Digitale purpurea e II gelsomino notturno) il simbolo della sessualità bloccata: il suo è un mondo senza amore e senza sessualità, perché privo di vere relazioni con il mondo degli altri. Infine, gli uccelli sono gli animali più citati dal poeta: essi si collegano da un lato al simbolo fondamentale del «nido» (vedi oltre), dall'altro appaiono come abitatori di quella misteriosa regione (il cielo) da cui anche le campane mandano la loro voce, e che suggerisce messaggi e voci struggenti, anche se non sempre decifrabili. Pure il canto degli uccelli viene reso da Pascoli attraverso il frequente ricorso all'onomatopea, come in Dialogo. Invece l'uccello notturno, la civetta o l'assiuolo, con il suo prolungato chiù lancia presagi di morte, apre finestre sull'incubo. Udito nel dormiveglia, il singhiozzo dell'assiuolo suscita angoscia, un turbamento indicibile. Il «nido» e la madre Nella «costellazione simbolica» pascoliana, cioè nel suo mondo - più o meno spontaneo - di simboli e significati, l'immagine simbolica decisiva è quella del «nido». Si tratta anzitutto di un'immagine reale, perché molte poesie vedono gli uccelli quali protagonisti. Ma il nido vale soprattutto come metafora: • «nido» è la casa, in cui rinchiudersi per sfuggire al male che sta fuori; • «nido» è la famiglia, oltre la quale, per il poeta-fanciullo, vi sono solo i malvagi; • «nido» è, per estensione, anche la patria, madre dei suoi figli (cantata dal Pascoli nazionalista). «Il mistero della vita - scrive Pascoli nella Prefazione ai Nuovi poemetti - è grande e il meglio che ci sia da fare è di stare stretti più che si possa agli altri.» Gli studiosi hanno voluto esaminare in chiave psicologica questo motivo poetico del nido; a loro giudizio, esso è un sintomo: • della «regressione all'infanzia» di Pascoli, cioè del suo desiderio di tornare alla condizione infantile di sicurezza; • della sua istintiva diffidenza verso ciò che è sconosciuto, verso il mondo esterno o adulto; • della volontà, per reazione, di restare chiusi e protetti in una piccola cerchia di affetti familiari (la casa, la sorella più cara); • in senso più estensivo, si è visto nel nido un riflesso delle paure che un giovane della società rurale di fine Ottocento nutriva verso la civiltà industriale e borghese. Accanto al simbolo del nido, la figura della madre: la primordiale custode dei riti e dei sentimenti di quanti - vivi e morti, uniti indissolubilmente - si riconoscono nel nido o gli sono appartenuti. Perciò all'immagine del nido si lega quella della culla, sorta di prolungamento del seno materno: il bambino si addormenta tranquillo in braccio alla mamma, dimentica ogni insicurezza, come in un'ovatta candida, anche se fuori infuria la tempesta. È il mito poetico cantato in La mia sera. La crisi dell'uomo contemporaneo in Pascoli Le immagini del nido e della madre sono da interpretare come una reazione al male, a un contesto negativo: il nido è principalmente un rifugio, protetto dalla complicità di chi lo abita, contro il 3 dolore, i lutti, le violenze del mondo. Tutto Pascoli si avvia dall'evento-choc consumatosi quando il poeta aveva solo dodici anni: il padre in una pozza di sangue, ucciso da una cieca violenza. Tutta la storia, da qui in poi, appare cattiva al poeta, e infatti l'immagine del nido si accompagna regolarmente a quella dei pericoli che incombono ai suoi danni. Solo nel nido si può vivere; fuori ci sono unicamente solitudine e incomprensione. Perciò nella poesia pascoliana non c'è vita di paese, manca quel tessuto di relazioni sociali che costituisce invece lo sfondo della società contadina - e che si percepisce anche, per esempio, negli idilli leopardiani. Se le cose stanno così, il male più grande, per Pascoli, è la dispersione del nido, il suo sciogliersi: per esempio quando si deve lasciare la casa, come si narra in Romagna, una delle prime poesie di Myricae; oppure quando muore un fratello o la madre; o ancora, se qualcuno della famiglia si allontana, per sposarsi. Ogni partenza dal nido è un tradimento: così viene giudicato il fidanzamento della sorella Ida in Per sempre. È la biografia stessa di Pascoli a testimoniarci la sua incapacità di «uscire dal nido», cioè di misurarsi con le difficoltà del mondo e di vivere un'esistenza adulta. Alla fine, il nido pascoliano - questa sorta di limbo incantato, che difende chi sta dentro da ogni incursione della vita reale; questo tentativo di recuperare l'infanzia come un'età dell'oro, unico tempo davvero sereno, perché non è soggetto alle delusioni e ai rischi del vivere - diviene un simbolo poetico dell'inettitudine, dell'incapacità di vivere raffigurata da molti scrittori del Novecento. Soprattutto Myricae e i Canti di Castelvecchio sono libri colmi di inquietudini, di dolorosi presentimenti; l'idillio vi appare continuamente turbato, sempre sull'orlo di spezzarsi. Con grande efficacia queste due raccolte poetiche danno voce al fondamentale disagio e alla crisi esistenziale dell'uomo contemporaneo. 4
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