Quando l`Africa racconta la Genesi. Alberto Moravia soggettista

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Quando l`Africa racconta la Genesi. Alberto Moravia soggettista
ANGELO FÀVARO
Quando l’Africa racconta la Genesi. Alberto Moravia soggettista
In
La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena,
Atti del XVI Congresso Nazionale Adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, a cura di
G. Baldassarri, V. Di Iasio, P. Pecci, E. Pietrobon e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014
Isbn: 978-88-907905-2-2
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/Atti-diCongresso?pg=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=397
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La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena
ANGELO FÀVARO
Quando l’Africa racconta la Genesi. Alberto Moravia soggettista1
Un caso assolutamente esemplare e unico si propone in questo contributo: Alberto Moravia scrisse un soggetto cinematografico.
Rapidamente quel soggetto divenne un film, per il vivo desiderio di tornare in Africa per assistere alle riprese. La relazione
intende ricostruire le fasi di scrittura, analizzare il testo, verificare la trasposizione filmica, con varianti e mutamenti che
Moravia stesso fece apportare durante la realizzazione, nonostante non ne fosse il regista. L’Africa, dagli anni Sessanta fino
alla morte, nutre gli interessi di Moravia: imparando e conoscere e riconoscere il continente africano, innamorandosi della sua
atmosfera di preistoria, e sostenendo che viaggiare in un qualsivoglia paese africano corrispondeva ad effettuare un viaggio nel
tempo, e non semplicemente nello spazio, egli ripercorre l’esperienza dell’umanità sorgiva. “L’esperienza africana” di Alberto
Moravia venne costantemente tradotta in Italia attraverso una duplice modalità: l’Africa nera, quella per cui il romanziere
provava un’insostenibile nostalgia, si ‘trasferiva’ attraverso una forma di scrittura (immediata), quella giornalistica, con la
pubblicazione di articoli su quotidiani e settimanali, d’altro canto confluiva successivamente nella meditata pubblicazione in
volume (A quale tribù appartieni?, 1972; Lettere dal Sahara,1981; Passeggiate africane, 1987). Oltre alla
diffusione dell’Africa in Italia, procurata con la letteratura, vi è il mezzo cinematografico che egli scelse per ‘tradurre’ la ‘sua’
Africa in Italia. .
Nella vita accadono incontri necessari, esperienze ineludibili, iscritte in quel che si è
soliti appellare destino: l’inevitabile è per definizione ciò a cui non ci si può in alcun
modo sottrarre: per Alberto Moravia l’inatteso e l’inevitabile furono l’Africa, l’amicizia
con Pier Paolo Pasolini e Gianni Barcelloni, la storia varia d’amore e d’affetto con Dacia
Maraini, il cinema.2
Il primo scritto sul cinema risale al 1933,3 e del cinema parla, sedicenne, per la prima
volta, in una lettera alla zia Amelia Rosselli,4 poi per Moravia il rapporto con la decima
musa diviene una inguaribile passione: il cinema (utilizzato e fruito anche come reagente
alla composizione della multiforme produzione narrativa) e la scrittura critica, che
riguarda l’opera filmica impegnano il romanziere de La noia per tutta la sua vita, e
tuttavia non senza un invincibile fastidio quando costretto alla scrittura dei soggetti e
delle sceneggiature, sollecitato dal dovere e dal denaro: «[scrivere sceneggiature] era
uno sfasciume di vita» confessa Moravia a Elkann, e prosegue
avevo sempre la sensazione di dare qualcosa di prezioso, per denaro, a qualcuno che se ne
serviva per i suoi fini. Ho definito sempre lo sceneggiatore come una persona simile alla
governante. Alleva i bambini, poi viene mandata via e il bambino rimane alla madre. Cioè
lo sceneggiatore dà tutto se stesso al regista, ma è il regista che firma il film.5
Con il passare degli anni, dopo il fascismo e gli anni Cinquanta, Moravia potrà
finalmente dedicarsi a scrivere solo per il piacere di scrivere di cinema e per il cinema,
soprattutto occupandosi di critica cinematografica e, sempre e comunque, a partire
dalla sua vasta cultura e dall’amore per la letteratura. Un caso del tutto eccezionale,
propriamente connesso con quel piacere della scrittura per il cinema, è rappresentato da
Il presente contributo è parte di una più vasta ricerca inerente al rapporto complesso e variamente
articolato fra Alberto Moravia e l’Africa.
2 A. MORAVIA, A. ELKANN, Vita di Moravia, Milano, Bompiani, 1991, 123.
3 Cfr. A. MORAVIA, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, a cura di A. Pezzotta, A. Gilardelli,
Milano, Bompiani, 2010, 1441-45. La recensione dal titolo Non mangiate il pesce col coltello, appare su «Oggi
– Settimanale di Lettere e Arti», del 16 luglio 1933.
4 A. MORAVIA, Lettere ad Amelia Rosselli, Milano, Bompiani, 2009, 188-189.
5 MORAVIA, ELKANN, Vita di Moravia, cit., 123.
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un soggetto filmico, scritto integralmente da Moravia, per l’insopprimibile necessità di
comunicare un grande amore e non per dovere, offerto a Gianni Barcelloni e a Dacia
Maraini, affinché ne ricavino la sceneggiatura, e poi l’uno ne curi anche la regia: Abramo
in Africa.6
Che Moravia venga chiamato a commentare e a didascalizzare documentari,
soprattutto sull’Africa, è comprovato dalle numerose e continue apparizioni in video e
nel sonoro,7 ma Abramo in Africa8 è qualcosa di molto differente: è l’unico soggetto nel
quale si racconta una vicenda epica e non si documenta semplicemente una situazione
storica, sociale, politica o anche antropologica africana.
La genesi del film è narrata dal regista Gianni Barcelloni: «L’idea è venuta dopo il
viaggio con Pasolini [per girare Appunti per un’Orestiade africana]. Alberto era innamorato
dell’Africa Nera. E anch’io lo ero diventato, forse più di lui. Tre anni dopo quel primo
viaggio, dissi: “Alberto, dobbiamo tornare in Africa”, e lui con entusiasmo mi rispose:
“Certo, quando?”, “Dobbiamo inventarci qualcosa. Perché non scrivi un soggetto
cinematografico ambientato in Africa Nera?”. “Ci penso”». Ma l’impaziente Moravia
non resiste e: «Dopo una settimana mi chiamò per darmi un manoscritto […]. Era il
soggetto di Abramo in Africa. Lo lessi, mi affascinò e trovai i finanziamenti in Rai, anche
se il progetto di questo film non era certo rivolto al grande pubblico». Prosegue con
precisione il regista: «Siamo nel 1972, epoca politicamente bollente, dove il terzo mondo
era ancora al centro degli interessi progressisti. Alberto mi disse: “Te lo regalo”. Non
restava che trarne una sceneggiatura». Moravia ha scritto quel che desiderava scrivere,
non voleva dedicarsi anche alla sceneggiatura. «Lui stava con Dacia. Avevamo affittato
per l’agosto una villa sul lungomare di Sabaudia, insieme a Pasolini, quando ancora non
avevano costruito la loro casa comune sulla spiaggia». Così, in un tempo record, la
sceneggiatura è pronta: «in tre settimane, Dacia Maraini e io, con la supervisione di Pier
Paolo, scrivemmo la sceneggiatura di Abramo in Africa. A ottobre dissi ad Alberto: “Ti va
se andiamo io e te, in Africa, a fare i sopralluoghi per il film?”». Ovviamente, «Ne fu
ben felice. Così partimmo per la Nigeria dove il film era ambientato (allora la Nigeria
già estraeva molto petrolio, e lo sfruttamento del petrolio era una componente
importante del film)».
L’Africa accoglie Barcelloni e Moravia che si recano nel continente nero per effettuare
tutte le ricerche necessarie alla realizzazione del film:
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Moravia scrive un altro soggetto che viene pubblicato sui numeri 137-138 di «Cinema nuovo»,
gennaio-febbraio, marzo-aprile 1959, La vendetta, ma non ne sarà mai tratta una sceneggiatura né
realizzato un film.
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Nel 1974, Moravia cura il soggetto e la sceneggiatura del documentario Alcune Afriche, per la
regia di Andrea Andermann; ancora nel 1974, commenta il documentario Ultime grida della savana, per la
regia di Antonio Cimati; nel 1975, commenta il documentario Gli Elmolo, per la regia di Dacia Maraini;
sempre nel 1975, commenta il documentario sceneggiato e diretto da Alfredo e Angelo Castiglioni Magia
nuda; nel 1984 offre la voce e commenta con le sue note di viaggio il documentario di Andrea Andermann
Africa dove; nel 1987 realizza il commento e offre la voce al reportage dall’Etiopia L’altra faccia del sole per la
regia di Gianni Barcelloni Corte.
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Abramo in Africa (1973), regia di G. Barcelloni, soggetto A. Moravia, sceneggiatura G. Barcelloni e
D. Maraini. Produzione Cosmoseion per la Rai-Tv. Il film viene presentato alla Mostra del Cinema di
Venezia il 5 settembre 1973.
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Lo scopo era di trovare i luoghi più adatti per le riprese del film, e individuare i due
protagonisti, padre e figlio (attori non professionisti). Alberto aveva sessantacinque anni, ma
mostrava l’energia e l’entusiasmo di un giovane. Cominciammo da Lagos, la capitale, una
città già caotica, con uno sterminato mercato all’aperto, dove vendevano anche gli oggetti
per la magia nera: per il film noi si cercava il teschio di un cavallo, e lo trovammo con
facilità. Proseguimmo per la maestosa e magica foresta pluviale del Biafra, con le capanne
al riparo di alberi altissimi. A sud del Biafra, sul mare, c’erano i pozzi petroliferi. Poi
salimmo al nord, nella zona di Jos. Il paesaggio era del tutto diverso: una savana arida,
collinosa, cosparsa di enormi massi rossastri che a tratti formavano piccole montagne, di
certo “sputati” da qualche vulcano ai tempi della preistoria. A cena, come d’abitudine, si
parlava di tutto: dall’Africa visitata durante il giorno, alla povera Italia che ci piaceva
criticare.9
Infine, pronta la sceneggiatura, effettuati i sopralluoghi: «Dopo un paio di mesi, poco
prima di Natale, partii da Roma, con due Land Rover a passo lungo, insieme alla troupe
cinematografica e a una coppia di amici che avevo invitato, Roberta e Leonardo
Cremonini, il noto pittore», e
L’accordo era che Alberto e Dacia ci avrebbero raggiunti all’inizio delle riprese. E così
avvenne. Atterrarono a Jos e una Land Rover andò a prenderli per portarli al nostro villaggio.
Rimasero con noi una decina di giorni. […] Leonardo Cremonini dipingeva. Fece anche
due ritratti intensi, a china, uno ad Alberto, l’altro a me. La sera si stava tutti insieme,
cenando. Poi Alberto e Dacia tornarono a Roma.10
Quando Moravia propone il suo soggetto a Barcelloni ha già viaggiato lungamente e si è
innamorato dell’Africa, vi giunge la prima volta nel 1962 con Dacia Maraini e Pier
Paolo Pasolini, nel 1963 vi ritorna, perché Pasolini vuole fare sopralluoghi per un film su
Edipo nero (mai realizzato):11
Gli anni di Dacia [Maraini] furono caratterizzati da una grande scoperta. […] La scoperta
dell’Africa. A partire dal primo viaggio con Pasolini, poi quasi ogni anno, Dacia ed io
facemmo un viaggio in Africa. Non mi è facile definire questa scoperta. Fu la rivelazione
della terra in cui avrei dovuto andare prima, invece ci sono andato molto tardi nella vita.
Avevo ormai cinquant’anni. Avrei dovuto andarci venti, trent’anni prima. Non l’ho fatto,
non so perché. Lo rimpiango. Per me l’Africa è la cosa più bella che esista al mondo.12
“L’esperienza africana” di Moravia viene costantemente tradotta in Italia attraverso la
prosa di viaggio: l’Africa nera, quella per cui il romanziere prova un’insostenibile
nostalgia, si ‘trasferisce’ attraverso una forma di scrittura (immediata), quella
giornalistica, con la pubblicazione di articoli su quotidiani e settimanali, e nel 1972, egli
raccoglie articoli apparsi sul «Corriere della Sera» (dal 1963 al 1972), che pubblica in un
primo volume dal titolo A quale tribù appartieni?.
9 G. Barcelloni in A. FÀVARO, “Un’amicizia lunga vent’anni… Ma Alberto non è morto”. Una conversazione con
Gianni Barcelloni, in Alberto Moravia e gli Amici, a cura di A. Fàvaro, Salerno, Edizioni Sinestesie, 2011, 91. Il
film viene trasmesso dal secondo canale Rai, per il grande pubblico, il 25 giugno, alle 21.00, in prima
serata, dopo essere passato per la Mostra del Cinema a Venezia, l’autunno precedente.
10 Ivi, 92.
11 Cfr. S. CASINI, Cronologia, in A. MORAVIA, Opere /1. Romanzi e racconti 1927-1940, Milano, Bompiani,
2000, LXI-LXII.
12 MORAVIA, ELKANN, Vita di Moravia, cit., 212-217.
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Già nel primo di quegli articoli, il romanziere osserva: «siamo ormai molto lontani dal
vecchio colonialismo […,] [con] tutto il suo pittoresco alla maniera di Conrad» e rileva
invece:
L’interesse del neocapitalismo per l’Africa, del resto, è giustificato non soltanto dal buon
mercato della mano d’opera e della presenza delle più diverse ricchezze minerarie ma
anche dalla rivalità con il comunismo e dalla necessità di far presto onde sventare con la
rivoluzione consumistica ogni possibilità di rivoluzione politica.13
E quasi sette anni dopo, nell’aprile del 1970, Moravia ricostruisce perfettamente e
lucidamente lo scambio impari fra l’Africa e l’Europa, perché «la scala di valori [degli
africani] era quella dell’immaginazione; quella degli Europei, invece, la scala di valori
del profitto», e afferma crudamente rilevando le differenze: «gli Africani ignoravano il
valore inestimabile della merce umana che fornivano agli Europei in cambio delle
conterie. Ma gli Europei, questo valore lo conoscevano benissimo, il cristianesimo
gliel’aveva insegnato per secoli e così far finta di ignorare, come gli Africani, che un
uomo non è una cosa, è stato il grande delitto degli Europei in quei due secoli». Poi
viene il colonialismo che dà agli Africani «in cambio della libertà […] la burocrazia
amministrativa, poliziesca, militare, il lavoro coatto, il reclutamento per le guerre
europee», infine rammenta Moravia: «Eccoci ai giorni nostri. Il colonialismo se ne va;
ma viene subito il neocapitalismo; è il momento delle cosiddette “materie prime”,
barattate per un’illusoria indipendenza nazionale; e il rapporto tra Europei e Africani
non cambia. La violenza rimane …».14
La soglia della riflessione teorica e la base del soggetto Abramo in Africa sono da reperirsi
in questo cartesiano e limpido ripensamento critico del rapporto e della sproporzionata
relazione storica fra europei e africani. In 24 sequenze, scritto da Moravia con una
perizia e una sintesi illuminanti, il soggetto si concentra all’inizio nella contemporanea
città di Lagos «mostruosa combinazione di speculazione neocapitalistica e di
degenerazione africana»,15 «in un grattacielo, nell’ufficio di una grande compagnia
americana per il petrolio, sul tavolo del presidente viene trovato un oggetto jou-jou»,16
cioè un oggetto utilizzato per la magia nera, una testa di scimmia.
L’ambiente cambia, ci si trova in un villaggio a Enugu nel Biafra, e qui Moravia
segnala: «Okonkwo è un contadino fortunato. Ha diverse mogli, ha bestiame, ha figli,
ha terra. Trova un bimbo abbandonato in una culla sul Niger e l’adotta»:17 poco dopo il
villaggio viene colpito da una tremenda siccità, un oracolo delle colline ordina al
giovane uomo di sacrificargli il figlio adottato e salvato delle acque del fiume, «per
placare l’ira del dio della pioggia».18 Nella sequenza 6, Moravia scrive: «Okonkwo si
sbronza, va a dormire e, all’alba, esce di soppiatto dalla sua capanna insieme al figlio
A. MORAVIA, A quale tribù appartieni?, Milano, Bompiani, 2007, 7.
Ivi, 93-94.
15 A. MORAVIA, Il soggetto Abramo in Africa, in Moravia al/nel Cinema, a cura di A. Aprà, S. Parigi, Roma,
Associazione Fondo Alberto Moravia, 1993, 254-5.
16 Ibidem. A tal proposito si veda, molto interessante sugli oggetti magici in Africa, il saggio di M. AUGÉ, Il
dio oggetto, Roma, Meltemi, 2002, 73-74. Anche, J. S. BRUNER, Il conoscere, Roma, Armando, 2005, 174:
«L’azione esercitata dal fattore intellettuale e tecnico sulla concezione magica del juju nell’Africa
occidentale è un fenomeno che non fa soltanto sorridere». Infine, fra molti per la specificità del tema, A.
BELLAGAMBA, L’Africa e la stregoneria. Saggio di antropologia storica, Roma-Bari, Laterza, 2008.
17 A. MORAVIA, Il soggetto Abramo in Africa, cit., 254.
18 Ibidem.
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adottivo per andare a ucciderlo in un luogo solitario».19 L’uomo si addormenta, per il
caldo, nel sonno vede il dio della pioggia che gli ordina di salvare il bambino, e in
cambio uccidere un capro, così va al mercato, compra un capro, lo uccide, sporca la
camicia del bambino con il suo sangue. Poi si reca fino ad una missione cattolica, affida
il bambino ai missionari, che gli narrano la storia di Abramo, non dissimile dalla sua,
vorrebbero che divenisse cristiano, ma l’uomo scappa. Torna al villaggio, che viene
adesso inondato, l’oracolo rivela che Okonkwo non ha ucciso il figlio, le sue donne lo
abbandonano, perde tutti i suoi beni, fugge in un altro villaggio. «Passano gli anni.
Okonkwo è diventato di nuovo ricco e rispettato. Si è fatto cristiano e come cristiano,
all’età di cinquant’anni, sposa una bellissima ragazza trentenne» così Moravia nella
sequenza numero 11, e procede nella sequenza numero 12: «Un brutto giorno si scopre
il petrolio nelle vicinanze del villaggio di Okonkwo».20 Il figlio adottivo dell’uomo è fra i
tecnici della compagnia petrolifera, dopo essere andato all’università si è sposato e ha
figli. La compagnia petrolifera espropria il villaggio, dando un assegno ad Okonkwo.
Egli va a riscuotere l’assegno e scopre che è una cifra minima, se ne lamenta con i
sacerdoti cristiani, che gli consigliano di confidare in Dio. Racconta alla giovane moglie
sia del figlio adottivo e sia dell’assegno, le descrive la situazione; la donna sta male, poi
rivela al marito di essere una strega: qualcuno, a suo avviso, ha fatto una fattura al
marito, o meglio il figlio adottivo ha fatto del male al padre. Okonkwo, infine, si reca dal
figlio adottivo per cercare di ottenere una cifra maggiore dalla compagnia petrolifera:
ma il giovane afferma che non può fare nulla, perché il padre ha firmato un contratto e
ha ricevuto quanto pattuito nel contratto.
Nella sequenza 22 si legge: «Questa spiegazione avviene durante un pranzo nella casa
medesima del figlio adottivo, una casa piccolo borghese. Il figlio adottivo ha due figli,
contestatori e maoisti. Essi spiegano a Okonkwo che il suo vero nemico è la società
petrolifera, un ente anonimo, mostruoso, senza faccia, irresponsabile e potente».21 Così
l’uomo va al mercato e compra la testa di scimmia per il jou-jou, si nasconde nei gabinetti
del grattacielo della compagnia petrolifera e nottetempo va a mettere la testa sul tavolo
del presidente. Torna in autobus al villaggio, «all’orizzonte già si vedono le fiammate del
petrolio. Okonkwo carica le sue masserizie su un carretto e lui e la moglie partono per
un altro villaggio».22
La sceneggiatura e il film mostrano alcune differenze notevoli, che Moravia accoglie e
condivide e in più di un caso propone egli personalmente, molto nella sceneggiatura
trova una forma più compiuta dopo il viaggio con Barcelloni effettuato per i
sopralluoghi, prima di girare il film:23 in primo luogo viene eliminata, dai titoli iniziali, la
città mostruosa con grattacieli, il film invece mostra immagini che raffigurano l’Africa
nera, i baobab, il paesaggio della Nigeria, i canyon, i palmeti della Costa d’Avorio e
nelle prime sequenze una macchina da presa entra in un villaggio tribale, con capanne
circolari di fango dai tetti di paglia. Protagonista, sin dal principio, è l’Africa. Nella
prima sequenza filmica un giovane uomo è lavato ritualmente dalla moglie, e poi rompe
delle uova contro un albero, per propiziarsi gli dei prima della caccia e della pesca.
Ibidem.
Ibidem.
21 Ibidem.
22 Ibidem.
23 Non si è riusciti a reperire la sceneggiatura, ma da una ulteriore conversazione con Barcelloni è emerso
che, durante il viaggio effettuato per i sopralluoghi, Moravia ha annotato alcuni riti e alcuni modi di dire,
che poi sono confluiti nel film.
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Mentre pesca, da una cascata vede cadere un grande pentolone, all’interno del quale è
un neonato abbandonato. Lo porta con sé al villaggio, annunciando alla moglie che
viene dallo spirito del fiume: si possono osservare nell’inquadratura della macchina da
presa i due bambini più o meno della stessa età (l’uno biologico, l’altro adottato), figli
della coppia. Un’epidemia di colera si abbatte sul villaggio: le sequenze notturne con i
morti lungo un sentiero avvolti in bianchi sudari generano un’atmosfera drammatica e
carica di un pathos ancestrale, anche la moglie e il figlio biologico di Okoje, questo è il
nome del protagonista del film, muoiono. Si reca da uno stregone che gli annuncia che:
«Lo spirito del fiume ha portato la morte nel villaggio»:24 allora Okoje lascia il villaggio
con il bambino adottato ormai cresciuto (circa cinque anni). I paesaggi africani sono
bellissimi, Okoje giunge nel luogo stabilito, c’è un suono di flauto, sta per uccidere il
bambino con un machete, quando giunge un uomo vestito di bianco (una divinità o un
angelo?), gli offre un capretto nero, il capro espiatorio, così Okoje lo sgozza versando a
terra copioso sangue e imbrattando la camicia del bambino, che viene poi condotto e
lasciato in una missione, esattamente secondo la segnalazione del soggetto di Moravia.
Nuofia, nome del bambino, cresce nella missione.
Nella sequenza successiva, Okoje ha cinquantuno anni, conosce una bella ragazza, che
dice d’essere sterile, se ne innamora, si sposano, dopo complessi rituali di
corteggiamento, nei quali è protagonista la noce di cola. Poco dopo, giunge in quel
nuovo villaggio, su un’auto rossa, un giovane uomo negro in giacca e cravatta, con la
ventiquattrore, è Nuofia, il figlio adottivo. C’è a questo punto il primissimo piano di un
serpente avvolto che alza il capo. Dopo aver magnificato la potenza del denaro, la
bellezza della vita nella capitale, in una casa con tutti i comfort, il ragazzo persuade il
padre a vendere la terra, nella quale c’è il petrolio, alla compagnia petrolifera per la
quale lavora: «Farò in modo che la compagnia ti paghi venti volte più del valore»,25 dice
accendendosi una sigaretta. Segue a contrasto una sequenza nella quale suonatori
africani accompagnano una danzatrice, come in estasi. Mentre dei bambini in una
scuola studiano la storia dei bianchi in Africa, leggono Voltaire, Candido. Una poesia di
Senghor, Notte africana, conclude la sequenza in modo straniante e molto poetico. Okoje
scopre che la moglie è una strega e la porta a sua volta da uno stregone per liberarla:
uno strano rito è compiuto, se la donna vomiterà le erbe avvelenate non è una strega, al
contrario se le ingerirà e non morirà è una strega. La donna vomita, il marito paga lo
stregone in franchi. Okoje si reca, successivamente, a ritirare i soldi dell’assegno della
compagnia, ma scopre che sono una somma irrisoria. La macchina da presa stacca,
genialmente, riprendendo delle scimmie in catene, tenute prigioniere, sotto delle
capanne sopraelevate. Volendosi vendicare della compagnia petrolifera, pensa di farsi
cristiano, ma il missionario spiega che i cristiani nel mondo si imbrogliano gli uni gli
altri, sono uomini deboli, non potenti e con grandi dolori. Infine spiega il significato del
sacrificio e conclude dicendo che per riavere indietro la terra non c’è nulla da fare.
«Posso solo insegnarti a pregare»26 dice per non deludere l’uomo, ma non conosce
neppure gli effetti della preghiera stessa. Questa è una differenza sostanziale che sussiste
fra soggetto e sceneggiatura: l’eroe nell’uno si fa cristiano, nell’altra e nel film non trova
alcuna buona ragione per divenire cristiano, dal momento che questa religione e il suo
Trascrizione dal sonoro della pellicola.
Trascrizione dal sonoro della pellicola.
26 Trascrizione dal sonoro della pellicola.
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dio non gli assicurano il potere necessario a colpire la compagnia petrolifera e
assicurargli la giustizia sulla terra.
Nuova sequenza filmica: Okoje è in città: macchine, grattacieli, paesaggio urbano
fortemente cementificato, grandi strade, ma quel che appare immediatamente posto a
contrasto con la sequenza iniziale dei titoli è la carrellata sugli edifici di civile abitazione
concepiti come alveari tutti uguali e alienanti. Cerca l’abitazione del figlio adottivo,
dopo essere stato derubato e privato della sua terra, lo trova a pranzo con la moglie e un
amico di famiglia, sul tavolo si nota una bottiglia della coca cola, il padre comunica al
figlio il suo dramma. Nuofia dice che non può far nulla, che non conta nulla, e l’amico
del figlio spiega che la compagnia petrolifera dei bianchi è come le cavallette: un tempo i
negri mangiavano le cavallette, oggi le cavallette divorano tutto ciò che appartiene ai
negri. Disperato Okoje cammina per la città: egli è smarrito in un luogo spaesante. Per il
resto il film ripete le indicazioni del soggetto filmico di Moravia. Impressionante la
formula magica che Okoje recita osservando il cranio di cavallo, e non di scimmia, con
cui effettuerà il suo rito di magia nera:
Questo grande cranio di cavallo protegge i doveri dell’ospite e risolve vecchie liti, fa pagare
vecchi debiti, spezza le gambe al toro, svela i cattivi segreti, non fa smarrire nella foresta, fa
parlare il servo come un re, per dieci centesimi, il pensiero di tornare a casa.27
Dopo aver lasciato il cranio sul tavolo da riunione del presidente della compagnia
petrolifera, Okoje torna al villaggio. Muta la conclusione, rispetto al soggetto
moraviano: Okoje fra la veglia e il sonno immagina che un vecchio re gli narri la storia
dell’Africa e della magia. Ma le sue parole non sono tradotte, puri suoni che si perdono
nel paesaggio africano assolato e con un grande baobab in primo piano.
Moravia, Maraini, Pasolini, Barcelloni (e Cremonini, come attore in una sequenza
filmica) collaborano ad un grande progetto di cultura, di letteratura, d’arte per fondare e
ri-fondare la consapevolezza della disastrosa presenza dell’occidente in Africa, e al
Radiocorriere Tv, Moravia dichiara che il suo film è: «Una fiaba biblica nell’Africa di
oggi», che esemplifica «il troppo rapido inserimento dell’Africa nel mondo moderno» e
dunque «l’urto fra una società cosiddetta primitiva e la civiltà neocapitalistica».28 Non
tanto di fiaba biblica, a mio avviso, si dovrebbe parlare, quanto invece del recupero di
un epos africano che prende le mosse, a partire dal titolo, dall’analogia con l’epos del
Genesi (Abramo è venerato nella Torah, nell’Antico Testamento, nel Corano): il soggetto
di Moravia chiama in causa la religione, l’ordine civile e sociale dell’uomo africano e il
romanziere con il suo occhio attento e l’onnivora curiosità indaga gli aspetti più
controversi e contrastanti dell’incontro-scontro con l’Occidente. Moravia assume una
prospettiva dialettica e polidentitaria: l’Africa, in quella porzione di Nigeria e di Costa
d’Avorio ove è ambientato il soggetto e girato il film, è lo spazio dell’alterità e della
diversità complementari all’identità, lo spazio nel quale si può attivare il confronto con
l’altro, tentando almeno di sospendere il giudizio, per ascoltare-auscultare le ragioni
dell’altro, ma al contempo è il luogo dove può ancora accadere quel che accadde, fra
epos e religione, alle soglie della civiltà occidentale, cioè che un uomo trovi un bambino
abbandonato sulle rive di un fiume, o che un dio ingiunga ad un uomo di sacrificare il
proprio figlio. L’Africa è il tempo prima del tempo (storicamente inteso). Quel che
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Trascrizione dal sonoro della pellicola.
Moravia racconta la sua Africa, intervento sul «Radiocorriere Tv», 25 giugno 1974, 25-26, 52.
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Moravia vuole cogliere attraverso un film di poesia,29 una poesia speciale quale è il modus
poetico e compositivo dell’epos, è la visione generale dal particolare, ma la civiltà
occidentale è incapace, inabile, fin dalle origini, al confronto e all’ascolto dell’alterità, e
nell’ansia di divorare e consumare tutto, che contraddistingue l’azione dell’uomo
occidentale, l’epos e il sacro africano vengono ridotti a materia di consumo e oggetti di
consunzione, ovvero divengono materia romanzesca. Quando Bachtin asserisce che: «il
passato assoluto, come oggetto dell’epopea, e la tradizione incontestabile, come unica
fonte, determinano anche il carattere della distanza epica, cioè il terzo aspetto
costitutivo dell’epopea come genere letterario»,30 rileva soltanto alcune caratteristiche
dell’epos, ma ben presenti sia nel soggetto sia nel film Abramo in Africa, anzi la vicenda di
Okoje è fin dal principio collocata in un passato assoluto, quello delle capanne
preistoriche di fango, e in conclusione il nostro eroe, non sconfitto e non vinto
completamente, torna a quel passato e a quella tradizione incontestabile con il rito
magico del jou-jou: tutto allora produce l’impressione di quella distanza epica, che
nostalgicamente lo spettatore vorrebbe recuperare, fino all’ultimo fotogramma nel quale
sono il sole divinamente e l’albero del baobab naturalmente a congedarsi dagli
spettatori.
Forte si può cogliere, non tanto nel soggetto quanto nella sceneggiatura e nel film,
l’influenza paesaggistica del precedente film-documentario di Pasolini, Appunti per
un’Orestiade africana (girato già nel 1968-1969): se Pasolini aveva esplicitamente ammesso
che la sua idea di girare un’Orestiade africana nasceva da una constatazione analogica: «mi
sembra di riconoscere delle analogie fra la situazione dell’Orestiade e quella dell’Africa di
oggi, soprattutto dal punto di vista della trasformazione delle Erinni in Eumenidi», più
esattamente al poeta de Le ceneri di Gramsci pare che
la civiltà tribale africana assomigli alla civiltà arcaica greca. E la scoperta che fa Oreste della
democrazia, portandola poi nel suo paese, che sarebbe Argo nella tragedia e l’Africa nel
mio film, è in un certo senso – diciamo così –, la scoperta della democrazia che ha fatto
l’Africa in questi ultimi anni.31
Dunque, intellettualizzando la problematica della transizione dall’Africa coloniale
all’Africa cosiddetta postcoloniale, Pasolini, da nuovo tragediografo che si sarebbe
servito del cinema e non del teatro, cerca nella trilogia eschilea32 il sostegno teorico e
l’exemplum massimo del passaggio dalla civiltà aristocratico-genetica a quella politico
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«Prima della messa in onda, la Rai organizzò una proiezione privata in cui erano presenti amici e
critici. A Bernardo Bertolucci il film non piacque, credo per il fatto che era stato girato con uno stile
opposto al suo, invece Pasolini disse alla fine della proiezione: “È un film in cui c’è un quarto di cinema e
tre quarti di poesia”. Ne fui lusingato. Lo ho rivisto da poco, e mi pare che ci siano alcuni elementi troppo
naif, acerbi, ma ci sono anche delle sequenze davvero belle. Merito dell’Africa»: G. BARCELLONI, in A.
FÀVARO, “Un’amicizia lunga vent’anni…, cit., 92.
30 M. BACHTIN, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, 458.
31 P. P. PASOLINI, Appunti per un’Orestiade africana, in Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti, S. De
Laude, tomo I, Milano, Mondadori, 2001,1181.
32 Non è questo il luogo per disquisire della traduzione dell’Orestiade eschilea che Pasolini compie su
richiesta di Vittorio Gassman per il XVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche (19 maggio – 15 giugno 1960); è
necessario, tuttavia, rimembrare che la traduzione di Pasolini suscitò insieme ad uno straordinario
interesse vaste polemiche, soprattutto per il carattere politico e poco poetico-allusivo del testo d’arrivo
pasoliniano, rispetto al testo di partenza eschileo.
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La letteratura degli italiani 4. I letterati e la scena
(della polis)-democratica.33 Moravia invece non propone di eliminare il conflitto
della/dalla transizione con il ricorso alla ricomposizione democratica della tragedia
eschilea, paradigma che etno-antropologicamente può avere un riscontro con la
situazione africana, ma, al contrario, rende più aspra e drammatica l’opposizione,
attraverso l’incomponibile devastante azione neocapitalista resa con il mezzo espressivo
dell’epos. Moravia tenta di recuperare l’epos africano nella contemporaneità
neocapitalista, quasi consapevole del fatto che:
l’epica stabilisce un rapporto primario fra la sua materia narrativa ed una qualche vicenda
storica di rilievo per la comunità che la ricorda, sicché essa si distingue dall’altra narrativa
proprio perché il suo non è un rapporto generico con la realtà, bensì con avvenimenti
storici specifici.34
Moravia-soggettista, indossate le vesti del rapsodo che insegna non tanto quel che la
comunità deve ricordare, quanto ciò che non dovrà dimenticare, volge in una duplice
direzione la propria intenzione artistico-letteraria: per un verso intende promuovere una
lata consapevolezza nel popolo africano rispetto alla nuova mutata e mutevole
situazione sociale e economica, storica, risalendo fino alle origini, e per l’altro invece si
ostina a offrire agli europei la coscienza della loro violenza, attraverso la quête di giustizia
e di verità dell’eroe, che risale alle proprie scaturigini identitarie, non solo per ritrovare
se stesso ma anche per non smarrir-si e perdere sé completamente negli effimeri e
ingannevoli allettamenti dell’Occidente.
Il significato più profondo dell’epos filmico di Abramo in Africa risiede in un interrogativo
e nella risposta conclusiva e dirimente: «qualcuno domanderà …: ma come avrebbe
dovuto essere allora, il rapporto tra Africa e Europa?» chiede Alberto Moravia, e
prosegue: «l’Africano non è “diverso” dall’Europeo, non un “altro”. È semplicemente
l’altra faccia dell’Europeo, il suo complemento, la sua alternativa. Sfruttando,
schiavizzando, opprimendo l’Africano, l’Europeo ha in realtà sfruttato, schiavizzato,
oppresso l’“altro” se stesso. La sua violenza è stata, in altre parole, una violenza suicida
esercitata dalla “storia” contro la propria indispensabile e insostituibile “antistoria”».35
Se Pier Paolo Pasolini da poeta si era fatto antropologo, sociologo e storico, il
romanziere Alberto Moravia era ormai divenuto rapsodo-poeta dell’Africa, ignorava
forse che, denunciando lo sfruttamento e gli inganni tessuti dall’Occidente contro gli
africani, si stava trasformando in profeta della inarrestabile devastazione occidentale e
neocapitalistica del continente nero.
33 Non sarà inopportuno rimembrare che Moravia aveva recensito gli Appunti per un’Orestiade africana su
«L’Espresso», 14 febbraio 1971, e fra l’altro, dopo aver definito «operazione culturale» il documentario di
Pasolini, «che rappresenta un’Africa autentica», aveva scritto: «Ora qual è l’equivalente africano
dell’Orestiade, secondo Pasolini? È il passaggio dai miti della cultura tribale e dagli spaventi
dell’animismo alla democrazia e alla ragione delle nuove nazioni ispirate a modelli europei. Si noterà che
ci troviamo una volta di più di fronte allo stesso procedimento analogico ispirato alle scienze umane a cui
Pasolini ha fatto ricorso per film così diversi […]. L’aspetto più interessante di questa tendenza
pasoliniana non è secondo noi la fondatezza dell’operazione, ma il suo motivo recondito. […] in Pasolini
la mediazione culturale è ormai una necessità poetica».
34 A. VARVARO, Letterature romanze del medioevo, Bologna, Il Mulino, 1985, 215.
35
A. MORAVIA, A quale tribù appartieni?, cit., 94.
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