INTERVISTA A STEFANIA UCELLI di NEMI

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INTERVISTA A STEFANIA UCELLI di NEMI
INTERVISTA A STEFANIA UCELLI di NEMI
DIRETTORE RESPONSABILE DI CASCINA ROSSAGO
In occasione della stesura della tesi di laurea magistrale intitolata “Che fine
fanno i bambini autistici?”, il prof. Mario Rossi Monti mi ha suggerito di
visitare la farm community Cascina Rossago, in provincia di Pavia. In questa
struttura residenziale, la prima in Italia per adulti autistici, la dr.ssa Stefania
Ucelli di Nemi mi ha gentilmente ricevuto ed ospitato alcuni giorni, offrendomi
la possibilità di discutere con lei alcuni problemi. Riporto qui di seguito
l’intervista che ho realizzato in occasione del mio soggiorno a Cascina
Rossago
Ilaria Raichi, novembre 2010
D: L’obiettivo del lavoro a Cascina Rossago si può definire più
propriamente educativo o terapeutico?
R: Cascina Rossago è una Residenza Sanitaria Assistenziale, quindi si
pone per definizione obiettivi abilitativi. Noi diamo molta rilevanza ad un’ottica
evolutiva e globale, tanto che stando qui si potrebbe vedere come, ad
esempio, a volte si privilegino scelte che valorizzino prioritariamente gli
aspetti comunicativi ed interattivi piuttosto che lo sviluppo dell’acquisizione di
una maggiore autonomia. Quello che si vuole offrire è una prospettiva per
l’età adulta a persone che altrimenti non ne avrebbero, visto che anche loro
ne hanno il diritto e fondamentalmente per loro l’età adulta consiste nel
potersi distaccare dai genitori; se ciò non accadesse verrebbero inglobati in
una dimensione infantilizzata che oltre tutto diventerebbe contorta perché si
creerebbero legami intrecciati.
D: Fino ad ora le richieste d’ingresso sono arrivate prevalentemente in
modo diretto da parte delle famiglie o sono state mediate dai servizi territoriali
o sanitari?
R: Il nostro è un Ente Privato, accreditato dalla Regione Lombardia, ma
non convenzionato. Quindi le richieste provengono prevalentemente dalle
famiglie. Può anche capitare che ci sia una sollecitazione da parte degli
assistenti sociali comunali ma la richiesta più frequente è quella diretta. La
modalità di accesso dunque non deriva da una scelta nostra, ma dal tipo di
richiesta che ci giunge.
D: Quali sono gli attuali criteri di ammissione e come viene gestita
l’eventuale eterogeneità per età e tipologia dei residenti?
R: In merito a questi aspetti non c’è una vera scelta da parte nostra, ci
sono dei criteri vincolanti che derivano dalle norme di accreditamento. Non ci
sono scelte di esclusione verso certe fasce d’età. Il vincolo riguarda
l’accettazione di persone fra i diciotto ed i sessantacinque anni, questo
perché i criteri di accreditamento per le persone over sessantacinque
cambiano. Da questo punto di vista è chiaro che ci sarebbe piaciuto avere
omogeneità d’età, ma non è andata così. Mentre all’estero si arriva alle
strutture residenziali tramite un percorso consolidato: prima la scuola,
successivamente qualche anno di frequenza presso un centro diurno ed
infine si arriva alla struttura residenziale, in Italia, sia la cultura, sia le scelte
politiche, impostate su criteri di risparmio economico, non sono rivolte a
valorizzare in senso positivo la residenzialità, che invece ha un significato
evolutivo.
Le persone si rivolgono a noi quando i comportamenti dei figli diventano
ingestibili, oppure quando la famiglia per diversi motivi non regge più la
situazione o ancora per problemi di salute di uno o entrambi i genitori mentre
il ragazzo è ancora giovane, oppure a causa dell’età avanzata dei genitori. In
conclusione, ci troviamo ad avere tre gruppi di residenti; alcuni hanno fra i
venti ed i trenta anni e sono figli dei fondatori di Cascina Rossago, il secondo
gruppo è costituito da ragazzi molto giovani, infine il terzo gruppo è costituito
da persone che hanno circa quarant’anni e che hanno genitori anziani.
L’attuale gruppo di residenti dunque non è omogeneo né come età né come
percorso educativo e di vita. Questo sia perché ovviamente i più grandi
hanno avuto stimoli diversi e più scarsi rispetto ai più giovani, sia in relazione
alle singole scelte familiari.
Un’altro aspetto importante da considerare riguarda il fatto che ci sono
differenze nelle tipologie di autismo. L’autismo è una sindrome che raggruppa
patologie di origine molto diversa. Ci sono persone che hanno autismo con
epilessia (e sono la maggioranza. Altre, veramente poche, che presentano
un autismo di tipo primario. Esistono infine altri casi nei quali i soggetti
autistici sono affetti anche da altri patologie, per esempio una malattia
metabolica o una Sindrome di Down con evoluzione autistica. La tipologia di
autismo quindi è eterogenea. La selezione è basata sul fatto che sia presente
la diagnosi di autismo con conseguente disturbo della comunicazione e poi
ovviamente è fondamentale che le persone possano realmente giovarsi del
fatto di stare qui. Ad esempio, ho valutato non idonea per questa struttura
una ragazza “gestibilissima” sul piano comportamentale, ma che aveva
bisogno di altro, di un intervento più attivo, più fisico; il nostro approccio
basato sul lavoro comune, lo svolgere le attività in casa e fuori in un piccolo
gruppo non sarebbe stato adatto, non sarebbe bastato e quindi non l’abbiamo
inserita in struttura. L’esclusione riguarda anche coloro che hanno handicap
motori perché la scelta abitativa che abbiamo fatto e le strutture a nostra
disposizione non sono adatte ed attrezzate in questo senso.
All’estero farm community di questo tipo possono attuare scelte più
selettive, dato il maggiore numero di strutture e il loro alto grado di
specializzazione. Ad esempio ad Hof Meyerwiede scelgono solo persone
autistiche che vengono valutate adatte a svolgere un lavoro e utilizzano
quest’ultimo come strumento riabilitativo. Noi creando una struttura specifica
per gli autistici in Italia, dove non ne esistono altre, non possiamo fare tutte
queste scelte, perché siamo tenuti ad accettare persone anche più gravi.
Dobbiamo quindi mettere in conto che ci saranno alcuni che svolgeranno
meno il lavoro o che ad esempio prima dovranno fare molte attività motorie,
come la piscina, perché si trovano ancora in una fase di iperattività molto
marcata. Un ultimo criterio di selezione consiste nel valutare se una persona
può vivere in una struttura come la nostra, che è completamente aperta.
D: Come si svolgono i percorsi d’inserimento e di sostegno nella fase di
separazione dalla famiglia a Cascina Rossago?
R: Il lavoro in questo senso è rivolto soprattutto alla famiglia. Infatti
abbiamo visto che il soggetto, soprattutto se grave, fa una netta differenza fra
una situazione interna ed una situazione esterna alla famiglia. E’ importante
che il nuovo utente faccia una prima esperienza della struttura, per capire se
può piacergli o meno e dopo una fase esplorativa, che dura circa tre giorni, o
comunque per un breve periodo, è possibile procedere con l’inserimento. I
ragazzi autistici capiscono rapidamente che si tratta di una struttura
residenziale, anche grazie al fatto di vedere altre persone che vi abitano. Chi
ha più bisogno di essere seguita è la famiglia, che in genere fa molta fatica
ad accettare la situazione. In ogni inserimento realizzato a Cascina Rossago
siamo stati molto rispettosi dei tempi della famiglia e abbiamo effettuato un
inserimento per volta, con tempi lunghi, non solo per individualizzare bene il
programma, formare il personale e così via, ma proprio per rispettare
l’elaborazione del distacco. Può capitare che una persona sia residente nella
struttura da una anno e la famiglia non abbia ancora del tutto accettato la
separazione. In questa ottica avvengono anche le uscite; all’inizio avevamo
deciso che tutti i residenti tornassero a casa ogni quindici giorni;
successivamente abbiamo scelto di tenere in considerazione le esigenze
delle singole persone e quelle delle loro famiglie. Questo processo è
fondamentale, perché se la famiglia non riesce ad avviarsi verso il sentiero
dell’elaborazione del distacco, ad un certo punto creerà involontariamente
degli ostacoli all’inserimento dell’utente.
Inizialmente i contatti con le famiglie erano informali ed in parte lo sono
tutt’ora, ad esempio per quanto riguarda le telefonate quotidiane, le visite in
struttura e così via. Successivamente si è passati a fare un report, che viene
aggiornato e che dovrebbe avere una cadenza bimestrale. Per ora non siamo
riusciti a farlo frequentemente perché siamo oberati dal lavoro burocratico
richiesto dalla Regione, in relazione all’accreditamento, ma rispettare questa
cadenza sarebbe il nostro obiettivo.
Recentemente abbiamo iniziato anche ad utilizzare film; l’idea è nata
dal fatto di aver utilizzato alcuni filmati per presentare il nostro lavoro a
convegni o ad associazioni per genitori. Alcuni di questi potevano risultare
fuori luogo o in qualche modo offensivi per i residenti. Nel contempo altri
filmati privi di “filtri” sono stati usati per il lavoro di supervisione. Abbiamo
verificato che quest’ultimi, più realistici, avevano efficacia maggiore che non
quelli preparati appositamente. Abbiamo quindi cominciato ad utilizzare
questi “spezzoni” anche per far vedere ai genitori cosa sono capaci di fare i
loro figli. L’effetto è risultato più immediato rispetto a quello dei report. Per
fare un esempio, una ragazza, che è apparentemente molto chiusa e
passiva, con molti blocchi e paure, ma capace di comprendere molte
situazioni, è riuscita anche a dire qualcosa attraverso la comunicazione
facilitata1. Abbiamo mostrato alla mamma ed alla sorella un filmato in cui
questa ragazza suonava il pianoforte con un’educatrice, che cercava di
entrare in comunicazione con lei attraverso il suono. Anche se la residente
suonava in modo stereotipato, successivamente si vedeva che la ragazza era
felice, rideva ed all’improvviso diceva “papà”. Il padre è un ottimo musicista e
quando la residente era piccola aveva cercato di utilizzare la musica per
entrare in comunicazione con lei. Tutto ciò dimostra che questo metodo può
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La Comunicazione facilitata si colloca all’interno delle strategie di comunicazione aumentativa alternativa.
Con essa s’intendono forme di comunicazione che sostituiscono, integrano o aumentano il linguaggio
verbale. L’allenamento a questa forma di comunicazione consiste nello sviluppo di abilità comunicative
attraverso l’indicazione con il sostegno di un partner o facilitatore. Quest’ultimo fornisce al soggetto facilitato
un supporto fisico, ma soprattutto fornisce un supporto emotivo alla persona. In conclusione, la
comunicazione facilitata si propone di sviluppare abilità comunicative, migliorare l’organizzazione del
pensiero, permettere al soggetto di partecipare alla vita sociale, esprimere scelte, fare richieste, anche
legate alla quotidianità, sviluppare il massimo livello possibile di autonomia comunicativa e di pensiero,
promuovere l’integrazione tra il soggetto e la realtà (Biklen, D. Cadei, P. Benassi, F. La Comunicazione
Facilitata, Omega Edizioni, Torino, 1999).
essere molto efficace e che vale la pena di organizzare meglio questo
aspetto, intensificando la condivisione del percorso.
D: Cascina Rossago concretamente si prospetta come una soluzione
residenziale definitiva per tutti i residenti?
R: In Francia e Germania ho notato che alcuni residenti, che erano
meno gravi rispetto ai nostri, dopo un periodo di tempo passato in struttura,
sono riusciti a trovare una collocazione esterna ad essa. Al momento, fra le
persone che abbiamo a Cascina Rossago, dopo aver svolto un percorso di
lavoro con noi, due potrebbero, attraverso una progressiva assunzione di
responsabilità e conoscenza da parte degli abitanti del paese, (processo che
è già avviato), vivere in modo autonomo e lavorare, magari come aiutanti.
Attualmente i residenti stanno già facendo lavoretti di questo genere, come
ad esempio prendere la legna e segarla al deposito. Tuttavia questa
possibilità riguarda una minoranza di utenti..
D: Se la maggior parte delle persone trascorrerà in struttura tutta la vita,
come pensa diventerà nel tempo Cascina Rossago?
R: Alla domanda “cosa succederà quando invecchiano?”,
personalmente in questo momento risponderei che evolverà la struttura. In
altri casi, pensando a chi ha intrapreso questa strada prima di noi, come ad
esempio a Dunfirth in Irlanda o a Somerset Court in Inghilterra, i responsabili
di queste strutture hanno conservato alcuni luoghi per i loro ospiti anziani,
creando in seguito un nuovo spazio per i giovani. Secondo i fondatori di
Cascina Rossago è quest’ultima la prospettiva auspicabile dal momento che
all’inizio si sono preoccupati di creare una struttura utilizzabile nel presente,
ma subito dopo hanno pensato al “dopo di noi”. In conclusione, speriamo di
attuare un adeguamento della struttura che invecchia con i residenti e che si
crei una nuovo spazio per i più giovani; inoltre è da notare il fatto che non
esiste letteratura sull’invecchiamento in questo tipo di contesto.
D: Qual è il rapporto numerico operatore/utente all’interno della
struttura?
R: In alcuni momenti di necessità si può ottenere il rapporto numerico
uno a uno, ma il rapporto normale, naturalmente durante il turno, è uno a
quattro. Su ventiquattro residenti nel momento attuale vi è solo un utente che
necessita costantemente di un rapporto uno a uno e penso ne necessiterà a
lungo. Inoltre può succedere che altri residenti richiedano un’attenzione
particolare. Fortunatamente però visto che io lavoro in convenzione con
l’Università di Pavia e che Paolo Aliata ha curato molto i rapporti con altre
Università, abbiamo un’altissima richiesta di tirocinio da parte di studenti. In
questo modo abbiamo la possibilità di affiancare tirocinanti per periodi di
buona durata ad un educatore in modo ben organizzato. Inoltre possono
essere presenti anche dei volontari che rappresentano per noi una risorsa
molto utile.
D: Quali scelte vengono fatte per la formazione del personale e
riguardo al materiale per le valutazioni?
R: Inizialmente abbiamo fatto un uso sistematico di uno strumento
chiamato AAPEP2, ma in seguito ci siamo resi conto che se quest’ultimo non
veniva utilizzato per fare un programma, non poteva essere sensibile a
cambiamenti globali in relazione a metodologie differenti, quindi esauriva la
sua funzione in un contesto come il nostro. La somministrazione di questo
strumento è servita comunque a mostrare un cambiamento positivo in varie
aree, nella fase di valutazione dopo un anno di distanza, evidentemente
anche in funzione di un maggiore stato di benessere complessivo.
Attualmente un dottorando si occupa di approfondire lo studio di strumenti per
valutare la qualità della vita degli utenti, che sembrano più appropriati alla
nostra metodologia di lavoro.
Per quanto riguarda la formazione del personale,al momento
dell’assunzione gli ASA3 non hanno una formazione specifica per lavorare
con l’autismo. Del resto nemmeno i laureati in Scienze dell’Educazione o in
Riabilitazione Psichiatrica hanno una formazione specifica. La formazione si
realizza quindi all’interno della struttura.
Utilizziamo spesso specifiche situazioni che si verificano nella struttura stessa
come spunto per la formazione: ci focalizziamo su alcuni aspetti e
modifichiamo eventualmente parti del lavoro svolto. In particolare viene
utilizzata moltissimo la riunione quotidiana del passaggio delle consegne,
momento in cui si riflette sulla situazione di ogni ragazzo e che diventa una
occasione di formazione. Ad esempio, se si verifica un comportamentoproblema lo utilizziamo come punto di partenza per ragionarci e confrontarci,
oltre che rivelarlo tramite la scheda predisposta. Una delle cose più difficili, è
insegnare agli operatori a fare interventi coerenti e mirati, ma flessibili, nel
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AAPEP o Profilo Psicoeducativo per Adolescenti ed Adulti è uno strumento che fa parte dell’Approccio
TEACCH, ovvero un’organizzazione di servizi su base statale, creata in America da Eric Schopler, che offre
servizi alle persone con autismo; offre inoltre formazione e consulenza alle scuole.
L’AAPEP è un test il cui obiettivo è quello di fornire una valutazione delle abilità effettive e potenziali di
queste persone in quelle aree che sono essenziali per il loro funzionamento semi-autonomo sia a casa che
nella comunità, al fine di verificare che la persona autistica sia pronta per un inserimento lavorativo nella
struttura residenziale; inoltre fornisce informazioni riguardo alla funzionalità di tale inserimento (Lord, C.
Schaffer, B. Schopler, E. Watson, L. R. La Comunicazione Spontanea nell’Autismo, Edizioni Erickson,
Trento, 1997).
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ASA è una sigla che indica gli Operatori Socio Assistenziali.
senso che spesso l’educatore è portato ad avere un atteggiamento ipereducativo nei confronti dell’utente e a fissare delle regole ferme alle quali
attenersi; perciò la cosa più difficile da insegnare è la flessibilità, che
permette di valutare caso per caso, volta per volta. In più gli educatori devono
accettare che anche se lo stile deve essere omogeneo, ognuno di loro ha un
suo modo di mettere in pratica l’intervento. Inoltre teniamo sempre una
riunione che vede presenti le persone del turno uscente ed entrante: la
riunine può riguardare un caso, un’attività, un argomento o una supervisione
esterna. A questo proposito, dato che la mia formazione è clinico-dinamica,
dal momento che sono una Psichiatra e Psicoanalista, abbiamo ritenuto utile
avere una supervisione anche da parte di un comportamentista. Infatti
pensiamo effettivamente che lavorando con la disabilità grave il
comportamentismo sia un approccio utilissimo, che adotta strumenti semplici
per indirizzare determinati interventi, come ad esempio l’osservazione. Sono
così emerse cose molto interessanti e mi sono convinta che sia possibile
integrare in maniera molto efficace il punto di vista psicoanalitico con quello
comportamentista. Quest’ultimo fornisce infatti strumenti utilizzabili in modo
rapido, concreto ed avvicinabile alle procedure. Il primo invece consente di
capire tutta un’altra serie di aspetti, di valorizzare la relazione, la
comunicazione e di osservare elementi indispensabili in questo tipo di
situazione, come le dinamiche di gruppo nell’équipe. Un gruppo di lavoro
impegnato in turni attivi di sette ore, nella residenzialità, va soggetto a
movimenti molto importanti, che vanno compresi e gestiti nel modo
opportuno.
D: State progettando strumenti valutativi specifici per l’approccio che
adottate?
R: Questo è un aspetto che abbiamo un po’ accantonato perché sono
troppi gli aspetti ai quali lavorare. Per ora un gruppo di psicologi e dottorandi
sta studiando alcuni strumenti di valutazione, che riguardano la qualità della
vita degli utenti ed un’altra serie di test, che ci permettono di far fronte anche
alle richieste di valutazioni diagnostiche che ci arrivano per situazioni esterne
e che si effettuano in collaborazione con psichiatri e psicologi dell’Università
di Pavia.
D: In cosa consiste nello specifico la “stimolazione cognitiva” di cui si
parla nel vostro sito?
R: Per non creare fraintendimenti, voglio precisare che quando ero
andata a visitare le comunità all’estero ero rimasta molto colpita da come
tutto fosse strutturato su un piano operativo. Anche se era posta molta
attenzione agli strumenti comunicativi, era evidente che prevaleva il piano
operativo. Ciò non stupisce perché con i ragazzi autistici è molto più facile
adottare questo tipo di strategia rispetto ad altre. Inoltre dopo una certa età è
difficile continuare un percorso cognitivo per la tendenza dei residenti ad
irrigidirsi ulteriormente. L’idea di quella che noi chiamiamo “attività cognitiva”,
forse in modo un po’ ambizioso per il momento, è di utilizzare alcuni momenti
della giornata, come le ore verso sera o le giornate in cui non si può stare
all’esterno, per fare un lavoro di mantenimento delle capacità espressive e di
comunicazione già presenti e dei percorsi cognitivi acquisiti per consolidarli
ed ampliarli. Ad esempio, se qualcuno è in grado di usare il computer è
possibile adoperare questa competenza in relazione ad attività che si fanno a
Cascina Rossago, come etichettare i materiali o anche cose più complesse.
Lavoriamo anche sulla comunicazione facilitata, ma è un intervento
complesso e richiede un adeguato contenimento in relazione a obiettivi
definiti, altrimenti può avere esiti molto difficili da gestire. Con alcuni ragazzi
si riprendono anche in mano lavori svolti in anni precedenti durante l’iter
scolastico. Per adesso non è stato ancora adottato un programma del tutto
sistematico, ma prevediamo di organizzarlo meglio in futuro, perché sembra
possa offrire buoni risultati.
D: Quale materiale o modalità vengono adottati per la strutturazione
quotidiana dell’attività?
R: Il lavoro viene strutturato giorno per giorno e questa è in larga misura
un’esigenza dell’operatore stesso, anche per non comunicare incertezza agli
utenti. Tutti gli elementi dell’intervento devono essere in armonia fra loro, e
allo stesso tempo contestualizzati. Abbiamo notato che questa enorme cura
del contesto regala risultati formidabili perché i progressi principali vengono
raggiunti grazie a quest’ultimo che funge da contenitore e permette che
stimoli motivanti siano ben accettati; un approccio decontestualizzato non ci
interessa. Gli strumenti di programmazione isolati potrebbero far pensare ad
una procedura molto rigida. In effetti nella realtà sono presenti elementi
statici, ma è presente anche una flessibilità rispetto alle esigenze di ogni
utente dato che le esigenze dei singoli utenti non sempre coincidono. Le sole
necessità o abilità dei ragazzi non definiscono in modo rigido l’attività. Si tiene
conto anche delle preferenze individuali e della possibilità di accoppiare nello
stesso tipo di lavoro persone che hanno magari competenze disomogenee,
ma che sono compatibili come personalità. Osserviamo anche le relazioni
preferenziali che vanno strutturandosi nel tempo.
La motivazione naturalmente è un aspetto molto importante, non si
apprende niente senza di essa. Però, se in un metodo comportamentista
molto di base, la motivazione può essere addirittura un cioccolatino, noi
invece lavoriamo su una motivazione interna che anche gli autistici hanno.
Per cui se ad un ragazzo piacciono gli spazi aperti e gli animali potrà stare in
stalla; se ad un altro gli piace star seduto e decorare farà la ceramica. Dietro
tutto ciò, si cela una filosofia dell’insegnamento. Ad esempio se un ragazzo è
iperattivo noi gli insegniamo prima delle attività motorie, ad esempio andare
in stalla o andare a raccogliere le castagne, dopo di che sarà lui che ci
segnalerà cosa gli piace più fare. Questo è un atteggiamento che possiamo
intendere come filosofico perché possiamo usarlo anche con i bambini privi di
patologie, ovvero diamo importanza a quella che è la loro motivazione sulla
base della soggettività. Noi vogliamo far emergere quest’ultima e lavorarci.
Quindi di conseguenza viene anche insegnato come rispettare alcune
bizzarrie di queste persone se sono portatrici di elementi soggettivi che
altrimenti non si esprimerebbero. Altro aspetto importante riguarda il fatto che
tutto quello che insegniamo agli utenti deve avere un significato non solo di
per se, ma deve essere spiegato e capito dai ragazzi. Infine anche
l’imitazione ha grande valore, come descriviamo nel nostro libro4. Noi
partiamo dal fatto che se parliamo di autismo degli adulti, a partire da un
disturbo dello sviluppo, i deficit che esitano non sono né statici né globali.
Ovvero, anche se c’è un Disturbo della Teoria della Mente5, essa non è
completamente assente. Abbiamo alcuni filmati in cui si vede un utente che
ha in mano uno spruzzino. Mentre innaffia un terreno di coltura con un ASA,
viene preso dall’idea di farle uno scherzo: fa la faccia furbissima e le spruzza
l’acqua addosso. In questo caso abbiamo un principio di teoria della mente
che diventa un gioco: è la capacità di giocare, di scherzare. Questo viene
riconosciuto anche da persone che occupandosi di autismo, si occupano di
Teoria della Mente, dato che con i bambini autistici propongono una serie di
programmi e di esercizi che tendono a favorire lo sviluppo di quest’ultima.
Quanto detto vale anche per altre problematiche presentate dall’autismo,
come per esempio la mancanza d’intenzionalità, la difficoltà ad intraprendere
azioni intenzionali. Tutto questo va inteso appunto come un deficit né statico
né globale e quindi un aspetto su cui lavorare. C’è molta enfasi sul fatto che
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Ballerini, A. Barale, F. Gallese, V. Ucelli, S. Autismo. L’Umanità Nascosta. Giulio Einaudi Editore, Torino,
2006.
5
Per Teoria della Mente o TOMM s’intende la capacità di attribuire agli altri stati mentali, intenzioni,
credenze e desideri (Premack, D. e Woodruff, G. Does the chimpanzee have a theory of mind? Behavioural
Brain Science, 1, 515-526,1978).
nell’autismo non è presente alcuna possibilità di imitare e quindi le cose non
vengono apprese a causa di questo deficit d’imitazione. In effetti se lei vede
dei filmati di bambini autistici, riconosce delle aree dove l’imitazione è scarsa.
Ma la nostra esperienza ci insegna, pur lavorando con adulti, che se lei crea
un contesto dove l’imitazione è continuamente proposta, questi imitano e
imparano.
Come vedi, gli operatori a Cascina Rossago svolgono le varie attività
insieme ai residenti; sia qualche nostro ammiratore che qualche nostro
detrattore dice “Cascina Rossago è un posto dove non riconosci gli educatori
dagli autistici”, perché magari li vedi tutti due che portano la carriola. Ma
questa non è solo una scelta etica: il fare insieme è punto cardine del
metodo, nel senso che questo diventa il canale attraverso il quale si sviluppa
la possibilità d’imitare. Tutto ciò avviene molto più rapidamente di quello che
si potrebbe pensare riguardo a persone adulte. Non solo. Alcuni di loro, gravi,
inseriti in un contesto di questo genere in cui si fa qualcosa insieme, in un
contesto organizzato che dona un senso, imparano a capire le cose che gli
vengono chieste anche verbalmente, in modo semplice, senza bisogno di
gesti e così via.
In situazioni di questo genere il meccanismo di imitazione
effettivamente si avvia e facilita l’apprendimento. In questo contesto in cui c’è
ricchezza di relazionalità, dov’è presente una focalizzazione su questi aspetti
dell’imitazione e così via, si attivano anche, con estrema gradualità, dei
movimenti di relazione non solo verso gli operatori, ma trai residenti stessi.
Abbiamo con noi un ragazzo molto particolare: ha scritto al computer un libro
di poesie. Purtroppo attualmente, dall’estate scorsa vive un momento difficile,
un periodo depressivo, d’isolamento autistico, quindi sta prevalentemente a
casa. Un suo compagno, (un altro utente), quando è davanti al computer
chiede di lui e dice “forse lo potrei aiutare”. Questi sono dei movimenti
inimmaginabili.
BIBLIOGRAFIA
BALLERINI, A. BARALE, F. GALLESE, V. UCELLI, S. Autismo. L’umanità nascosta.
Einaudi, Torino, 2006.
BIKLEN, D. CADEI, P. BENASSI, F. La Comunicazione Facilitata, Omega Edizioni, Torino,
1999.
LORD, C. SCHAFFER, B. SCHOPLER, E. WATSON, R. La Comunicazione Spontanea
nell’Autismo, Erickson, Trento, 1997.
PREMACK, D. WOODRUFF, G. Does the Schimpanzee have a theory of mind?
Behavioural Brain Science, 1, 515-526, 1978.