INTERVISTA A STEFANIA UCELLI di NEMI
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INTERVISTA A STEFANIA UCELLI di NEMI
INTERVISTA A STEFANIA UCELLI di NEMI DIRETTORE RESPONSABILE DI CASCINA ROSSAGO In occasione della stesura della tesi di laurea magistrale intitolata “Che fine fanno i bambini autistici?”, il prof. Mario Rossi Monti mi ha suggerito di visitare la farm community Cascina Rossago, in provincia di Pavia. In questa struttura residenziale, la prima in Italia per adulti autistici, la dr.ssa Stefania Ucelli di Nemi mi ha gentilmente ricevuto ed ospitato alcuni giorni, offrendomi la possibilità di discutere con lei alcuni problemi. Riporto qui di seguito l’intervista che ho realizzato in occasione del mio soggiorno a Cascina Rossago Ilaria Raichi, novembre 2010 D: L’obiettivo del lavoro a Cascina Rossago si può definire più propriamente educativo o terapeutico? R: Cascina Rossago è una Residenza Sanitaria Assistenziale, quindi si pone per definizione obiettivi abilitativi. Noi diamo molta rilevanza ad un’ottica evolutiva e globale, tanto che stando qui si potrebbe vedere come, ad esempio, a volte si privilegino scelte che valorizzino prioritariamente gli aspetti comunicativi ed interattivi piuttosto che lo sviluppo dell’acquisizione di una maggiore autonomia. Quello che si vuole offrire è una prospettiva per l’età adulta a persone che altrimenti non ne avrebbero, visto che anche loro ne hanno il diritto e fondamentalmente per loro l’età adulta consiste nel potersi distaccare dai genitori; se ciò non accadesse verrebbero inglobati in una dimensione infantilizzata che oltre tutto diventerebbe contorta perché si creerebbero legami intrecciati. D: Fino ad ora le richieste d’ingresso sono arrivate prevalentemente in modo diretto da parte delle famiglie o sono state mediate dai servizi territoriali o sanitari? R: Il nostro è un Ente Privato, accreditato dalla Regione Lombardia, ma non convenzionato. Quindi le richieste provengono prevalentemente dalle famiglie. Può anche capitare che ci sia una sollecitazione da parte degli assistenti sociali comunali ma la richiesta più frequente è quella diretta. La modalità di accesso dunque non deriva da una scelta nostra, ma dal tipo di richiesta che ci giunge. D: Quali sono gli attuali criteri di ammissione e come viene gestita l’eventuale eterogeneità per età e tipologia dei residenti? R: In merito a questi aspetti non c’è una vera scelta da parte nostra, ci sono dei criteri vincolanti che derivano dalle norme di accreditamento. Non ci sono scelte di esclusione verso certe fasce d’età. Il vincolo riguarda l’accettazione di persone fra i diciotto ed i sessantacinque anni, questo perché i criteri di accreditamento per le persone over sessantacinque cambiano. Da questo punto di vista è chiaro che ci sarebbe piaciuto avere omogeneità d’età, ma non è andata così. Mentre all’estero si arriva alle strutture residenziali tramite un percorso consolidato: prima la scuola, successivamente qualche anno di frequenza presso un centro diurno ed infine si arriva alla struttura residenziale, in Italia, sia la cultura, sia le scelte politiche, impostate su criteri di risparmio economico, non sono rivolte a valorizzare in senso positivo la residenzialità, che invece ha un significato evolutivo. Le persone si rivolgono a noi quando i comportamenti dei figli diventano ingestibili, oppure quando la famiglia per diversi motivi non regge più la situazione o ancora per problemi di salute di uno o entrambi i genitori mentre il ragazzo è ancora giovane, oppure a causa dell’età avanzata dei genitori. In conclusione, ci troviamo ad avere tre gruppi di residenti; alcuni hanno fra i venti ed i trenta anni e sono figli dei fondatori di Cascina Rossago, il secondo gruppo è costituito da ragazzi molto giovani, infine il terzo gruppo è costituito da persone che hanno circa quarant’anni e che hanno genitori anziani. L’attuale gruppo di residenti dunque non è omogeneo né come età né come percorso educativo e di vita. Questo sia perché ovviamente i più grandi hanno avuto stimoli diversi e più scarsi rispetto ai più giovani, sia in relazione alle singole scelte familiari. Un’altro aspetto importante da considerare riguarda il fatto che ci sono differenze nelle tipologie di autismo. L’autismo è una sindrome che raggruppa patologie di origine molto diversa. Ci sono persone che hanno autismo con epilessia (e sono la maggioranza. Altre, veramente poche, che presentano un autismo di tipo primario. Esistono infine altri casi nei quali i soggetti autistici sono affetti anche da altri patologie, per esempio una malattia metabolica o una Sindrome di Down con evoluzione autistica. La tipologia di autismo quindi è eterogenea. La selezione è basata sul fatto che sia presente la diagnosi di autismo con conseguente disturbo della comunicazione e poi ovviamente è fondamentale che le persone possano realmente giovarsi del fatto di stare qui. Ad esempio, ho valutato non idonea per questa struttura una ragazza “gestibilissima” sul piano comportamentale, ma che aveva bisogno di altro, di un intervento più attivo, più fisico; il nostro approccio basato sul lavoro comune, lo svolgere le attività in casa e fuori in un piccolo gruppo non sarebbe stato adatto, non sarebbe bastato e quindi non l’abbiamo inserita in struttura. L’esclusione riguarda anche coloro che hanno handicap motori perché la scelta abitativa che abbiamo fatto e le strutture a nostra disposizione non sono adatte ed attrezzate in questo senso. All’estero farm community di questo tipo possono attuare scelte più selettive, dato il maggiore numero di strutture e il loro alto grado di specializzazione. Ad esempio ad Hof Meyerwiede scelgono solo persone autistiche che vengono valutate adatte a svolgere un lavoro e utilizzano quest’ultimo come strumento riabilitativo. Noi creando una struttura specifica per gli autistici in Italia, dove non ne esistono altre, non possiamo fare tutte queste scelte, perché siamo tenuti ad accettare persone anche più gravi. Dobbiamo quindi mettere in conto che ci saranno alcuni che svolgeranno meno il lavoro o che ad esempio prima dovranno fare molte attività motorie, come la piscina, perché si trovano ancora in una fase di iperattività molto marcata. Un ultimo criterio di selezione consiste nel valutare se una persona può vivere in una struttura come la nostra, che è completamente aperta. D: Come si svolgono i percorsi d’inserimento e di sostegno nella fase di separazione dalla famiglia a Cascina Rossago? R: Il lavoro in questo senso è rivolto soprattutto alla famiglia. Infatti abbiamo visto che il soggetto, soprattutto se grave, fa una netta differenza fra una situazione interna ed una situazione esterna alla famiglia. E’ importante che il nuovo utente faccia una prima esperienza della struttura, per capire se può piacergli o meno e dopo una fase esplorativa, che dura circa tre giorni, o comunque per un breve periodo, è possibile procedere con l’inserimento. I ragazzi autistici capiscono rapidamente che si tratta di una struttura residenziale, anche grazie al fatto di vedere altre persone che vi abitano. Chi ha più bisogno di essere seguita è la famiglia, che in genere fa molta fatica ad accettare la situazione. In ogni inserimento realizzato a Cascina Rossago siamo stati molto rispettosi dei tempi della famiglia e abbiamo effettuato un inserimento per volta, con tempi lunghi, non solo per individualizzare bene il programma, formare il personale e così via, ma proprio per rispettare l’elaborazione del distacco. Può capitare che una persona sia residente nella struttura da una anno e la famiglia non abbia ancora del tutto accettato la separazione. In questa ottica avvengono anche le uscite; all’inizio avevamo deciso che tutti i residenti tornassero a casa ogni quindici giorni; successivamente abbiamo scelto di tenere in considerazione le esigenze delle singole persone e quelle delle loro famiglie. Questo processo è fondamentale, perché se la famiglia non riesce ad avviarsi verso il sentiero dell’elaborazione del distacco, ad un certo punto creerà involontariamente degli ostacoli all’inserimento dell’utente. Inizialmente i contatti con le famiglie erano informali ed in parte lo sono tutt’ora, ad esempio per quanto riguarda le telefonate quotidiane, le visite in struttura e così via. Successivamente si è passati a fare un report, che viene aggiornato e che dovrebbe avere una cadenza bimestrale. Per ora non siamo riusciti a farlo frequentemente perché siamo oberati dal lavoro burocratico richiesto dalla Regione, in relazione all’accreditamento, ma rispettare questa cadenza sarebbe il nostro obiettivo. Recentemente abbiamo iniziato anche ad utilizzare film; l’idea è nata dal fatto di aver utilizzato alcuni filmati per presentare il nostro lavoro a convegni o ad associazioni per genitori. Alcuni di questi potevano risultare fuori luogo o in qualche modo offensivi per i residenti. Nel contempo altri filmati privi di “filtri” sono stati usati per il lavoro di supervisione. Abbiamo verificato che quest’ultimi, più realistici, avevano efficacia maggiore che non quelli preparati appositamente. Abbiamo quindi cominciato ad utilizzare questi “spezzoni” anche per far vedere ai genitori cosa sono capaci di fare i loro figli. L’effetto è risultato più immediato rispetto a quello dei report. Per fare un esempio, una ragazza, che è apparentemente molto chiusa e passiva, con molti blocchi e paure, ma capace di comprendere molte situazioni, è riuscita anche a dire qualcosa attraverso la comunicazione facilitata1. Abbiamo mostrato alla mamma ed alla sorella un filmato in cui questa ragazza suonava il pianoforte con un’educatrice, che cercava di entrare in comunicazione con lei attraverso il suono. Anche se la residente suonava in modo stereotipato, successivamente si vedeva che la ragazza era felice, rideva ed all’improvviso diceva “papà”. Il padre è un ottimo musicista e quando la residente era piccola aveva cercato di utilizzare la musica per entrare in comunicazione con lei. Tutto ciò dimostra che questo metodo può 1 La Comunicazione facilitata si colloca all’interno delle strategie di comunicazione aumentativa alternativa. Con essa s’intendono forme di comunicazione che sostituiscono, integrano o aumentano il linguaggio verbale. L’allenamento a questa forma di comunicazione consiste nello sviluppo di abilità comunicative attraverso l’indicazione con il sostegno di un partner o facilitatore. Quest’ultimo fornisce al soggetto facilitato un supporto fisico, ma soprattutto fornisce un supporto emotivo alla persona. In conclusione, la comunicazione facilitata si propone di sviluppare abilità comunicative, migliorare l’organizzazione del pensiero, permettere al soggetto di partecipare alla vita sociale, esprimere scelte, fare richieste, anche legate alla quotidianità, sviluppare il massimo livello possibile di autonomia comunicativa e di pensiero, promuovere l’integrazione tra il soggetto e la realtà (Biklen, D. Cadei, P. Benassi, F. La Comunicazione Facilitata, Omega Edizioni, Torino, 1999). essere molto efficace e che vale la pena di organizzare meglio questo aspetto, intensificando la condivisione del percorso. D: Cascina Rossago concretamente si prospetta come una soluzione residenziale definitiva per tutti i residenti? R: In Francia e Germania ho notato che alcuni residenti, che erano meno gravi rispetto ai nostri, dopo un periodo di tempo passato in struttura, sono riusciti a trovare una collocazione esterna ad essa. Al momento, fra le persone che abbiamo a Cascina Rossago, dopo aver svolto un percorso di lavoro con noi, due potrebbero, attraverso una progressiva assunzione di responsabilità e conoscenza da parte degli abitanti del paese, (processo che è già avviato), vivere in modo autonomo e lavorare, magari come aiutanti. Attualmente i residenti stanno già facendo lavoretti di questo genere, come ad esempio prendere la legna e segarla al deposito. Tuttavia questa possibilità riguarda una minoranza di utenti.. D: Se la maggior parte delle persone trascorrerà in struttura tutta la vita, come pensa diventerà nel tempo Cascina Rossago? R: Alla domanda “cosa succederà quando invecchiano?”, personalmente in questo momento risponderei che evolverà la struttura. In altri casi, pensando a chi ha intrapreso questa strada prima di noi, come ad esempio a Dunfirth in Irlanda o a Somerset Court in Inghilterra, i responsabili di queste strutture hanno conservato alcuni luoghi per i loro ospiti anziani, creando in seguito un nuovo spazio per i giovani. Secondo i fondatori di Cascina Rossago è quest’ultima la prospettiva auspicabile dal momento che all’inizio si sono preoccupati di creare una struttura utilizzabile nel presente, ma subito dopo hanno pensato al “dopo di noi”. In conclusione, speriamo di attuare un adeguamento della struttura che invecchia con i residenti e che si crei una nuovo spazio per i più giovani; inoltre è da notare il fatto che non esiste letteratura sull’invecchiamento in questo tipo di contesto. D: Qual è il rapporto numerico operatore/utente all’interno della struttura? R: In alcuni momenti di necessità si può ottenere il rapporto numerico uno a uno, ma il rapporto normale, naturalmente durante il turno, è uno a quattro. Su ventiquattro residenti nel momento attuale vi è solo un utente che necessita costantemente di un rapporto uno a uno e penso ne necessiterà a lungo. Inoltre può succedere che altri residenti richiedano un’attenzione particolare. Fortunatamente però visto che io lavoro in convenzione con l’Università di Pavia e che Paolo Aliata ha curato molto i rapporti con altre Università, abbiamo un’altissima richiesta di tirocinio da parte di studenti. In questo modo abbiamo la possibilità di affiancare tirocinanti per periodi di buona durata ad un educatore in modo ben organizzato. Inoltre possono essere presenti anche dei volontari che rappresentano per noi una risorsa molto utile. D: Quali scelte vengono fatte per la formazione del personale e riguardo al materiale per le valutazioni? R: Inizialmente abbiamo fatto un uso sistematico di uno strumento chiamato AAPEP2, ma in seguito ci siamo resi conto che se quest’ultimo non veniva utilizzato per fare un programma, non poteva essere sensibile a cambiamenti globali in relazione a metodologie differenti, quindi esauriva la sua funzione in un contesto come il nostro. La somministrazione di questo strumento è servita comunque a mostrare un cambiamento positivo in varie aree, nella fase di valutazione dopo un anno di distanza, evidentemente anche in funzione di un maggiore stato di benessere complessivo. Attualmente un dottorando si occupa di approfondire lo studio di strumenti per valutare la qualità della vita degli utenti, che sembrano più appropriati alla nostra metodologia di lavoro. Per quanto riguarda la formazione del personale,al momento dell’assunzione gli ASA3 non hanno una formazione specifica per lavorare con l’autismo. Del resto nemmeno i laureati in Scienze dell’Educazione o in Riabilitazione Psichiatrica hanno una formazione specifica. La formazione si realizza quindi all’interno della struttura. Utilizziamo spesso specifiche situazioni che si verificano nella struttura stessa come spunto per la formazione: ci focalizziamo su alcuni aspetti e modifichiamo eventualmente parti del lavoro svolto. In particolare viene utilizzata moltissimo la riunione quotidiana del passaggio delle consegne, momento in cui si riflette sulla situazione di ogni ragazzo e che diventa una occasione di formazione. Ad esempio, se si verifica un comportamentoproblema lo utilizziamo come punto di partenza per ragionarci e confrontarci, oltre che rivelarlo tramite la scheda predisposta. Una delle cose più difficili, è insegnare agli operatori a fare interventi coerenti e mirati, ma flessibili, nel 2 AAPEP o Profilo Psicoeducativo per Adolescenti ed Adulti è uno strumento che fa parte dell’Approccio TEACCH, ovvero un’organizzazione di servizi su base statale, creata in America da Eric Schopler, che offre servizi alle persone con autismo; offre inoltre formazione e consulenza alle scuole. L’AAPEP è un test il cui obiettivo è quello di fornire una valutazione delle abilità effettive e potenziali di queste persone in quelle aree che sono essenziali per il loro funzionamento semi-autonomo sia a casa che nella comunità, al fine di verificare che la persona autistica sia pronta per un inserimento lavorativo nella struttura residenziale; inoltre fornisce informazioni riguardo alla funzionalità di tale inserimento (Lord, C. Schaffer, B. Schopler, E. Watson, L. R. La Comunicazione Spontanea nell’Autismo, Edizioni Erickson, Trento, 1997). 3 ASA è una sigla che indica gli Operatori Socio Assistenziali. senso che spesso l’educatore è portato ad avere un atteggiamento ipereducativo nei confronti dell’utente e a fissare delle regole ferme alle quali attenersi; perciò la cosa più difficile da insegnare è la flessibilità, che permette di valutare caso per caso, volta per volta. In più gli educatori devono accettare che anche se lo stile deve essere omogeneo, ognuno di loro ha un suo modo di mettere in pratica l’intervento. Inoltre teniamo sempre una riunione che vede presenti le persone del turno uscente ed entrante: la riunine può riguardare un caso, un’attività, un argomento o una supervisione esterna. A questo proposito, dato che la mia formazione è clinico-dinamica, dal momento che sono una Psichiatra e Psicoanalista, abbiamo ritenuto utile avere una supervisione anche da parte di un comportamentista. Infatti pensiamo effettivamente che lavorando con la disabilità grave il comportamentismo sia un approccio utilissimo, che adotta strumenti semplici per indirizzare determinati interventi, come ad esempio l’osservazione. Sono così emerse cose molto interessanti e mi sono convinta che sia possibile integrare in maniera molto efficace il punto di vista psicoanalitico con quello comportamentista. Quest’ultimo fornisce infatti strumenti utilizzabili in modo rapido, concreto ed avvicinabile alle procedure. Il primo invece consente di capire tutta un’altra serie di aspetti, di valorizzare la relazione, la comunicazione e di osservare elementi indispensabili in questo tipo di situazione, come le dinamiche di gruppo nell’équipe. Un gruppo di lavoro impegnato in turni attivi di sette ore, nella residenzialità, va soggetto a movimenti molto importanti, che vanno compresi e gestiti nel modo opportuno. D: State progettando strumenti valutativi specifici per l’approccio che adottate? R: Questo è un aspetto che abbiamo un po’ accantonato perché sono troppi gli aspetti ai quali lavorare. Per ora un gruppo di psicologi e dottorandi sta studiando alcuni strumenti di valutazione, che riguardano la qualità della vita degli utenti ed un’altra serie di test, che ci permettono di far fronte anche alle richieste di valutazioni diagnostiche che ci arrivano per situazioni esterne e che si effettuano in collaborazione con psichiatri e psicologi dell’Università di Pavia. D: In cosa consiste nello specifico la “stimolazione cognitiva” di cui si parla nel vostro sito? R: Per non creare fraintendimenti, voglio precisare che quando ero andata a visitare le comunità all’estero ero rimasta molto colpita da come tutto fosse strutturato su un piano operativo. Anche se era posta molta attenzione agli strumenti comunicativi, era evidente che prevaleva il piano operativo. Ciò non stupisce perché con i ragazzi autistici è molto più facile adottare questo tipo di strategia rispetto ad altre. Inoltre dopo una certa età è difficile continuare un percorso cognitivo per la tendenza dei residenti ad irrigidirsi ulteriormente. L’idea di quella che noi chiamiamo “attività cognitiva”, forse in modo un po’ ambizioso per il momento, è di utilizzare alcuni momenti della giornata, come le ore verso sera o le giornate in cui non si può stare all’esterno, per fare un lavoro di mantenimento delle capacità espressive e di comunicazione già presenti e dei percorsi cognitivi acquisiti per consolidarli ed ampliarli. Ad esempio, se qualcuno è in grado di usare il computer è possibile adoperare questa competenza in relazione ad attività che si fanno a Cascina Rossago, come etichettare i materiali o anche cose più complesse. Lavoriamo anche sulla comunicazione facilitata, ma è un intervento complesso e richiede un adeguato contenimento in relazione a obiettivi definiti, altrimenti può avere esiti molto difficili da gestire. Con alcuni ragazzi si riprendono anche in mano lavori svolti in anni precedenti durante l’iter scolastico. Per adesso non è stato ancora adottato un programma del tutto sistematico, ma prevediamo di organizzarlo meglio in futuro, perché sembra possa offrire buoni risultati. D: Quale materiale o modalità vengono adottati per la strutturazione quotidiana dell’attività? R: Il lavoro viene strutturato giorno per giorno e questa è in larga misura un’esigenza dell’operatore stesso, anche per non comunicare incertezza agli utenti. Tutti gli elementi dell’intervento devono essere in armonia fra loro, e allo stesso tempo contestualizzati. Abbiamo notato che questa enorme cura del contesto regala risultati formidabili perché i progressi principali vengono raggiunti grazie a quest’ultimo che funge da contenitore e permette che stimoli motivanti siano ben accettati; un approccio decontestualizzato non ci interessa. Gli strumenti di programmazione isolati potrebbero far pensare ad una procedura molto rigida. In effetti nella realtà sono presenti elementi statici, ma è presente anche una flessibilità rispetto alle esigenze di ogni utente dato che le esigenze dei singoli utenti non sempre coincidono. Le sole necessità o abilità dei ragazzi non definiscono in modo rigido l’attività. Si tiene conto anche delle preferenze individuali e della possibilità di accoppiare nello stesso tipo di lavoro persone che hanno magari competenze disomogenee, ma che sono compatibili come personalità. Osserviamo anche le relazioni preferenziali che vanno strutturandosi nel tempo. La motivazione naturalmente è un aspetto molto importante, non si apprende niente senza di essa. Però, se in un metodo comportamentista molto di base, la motivazione può essere addirittura un cioccolatino, noi invece lavoriamo su una motivazione interna che anche gli autistici hanno. Per cui se ad un ragazzo piacciono gli spazi aperti e gli animali potrà stare in stalla; se ad un altro gli piace star seduto e decorare farà la ceramica. Dietro tutto ciò, si cela una filosofia dell’insegnamento. Ad esempio se un ragazzo è iperattivo noi gli insegniamo prima delle attività motorie, ad esempio andare in stalla o andare a raccogliere le castagne, dopo di che sarà lui che ci segnalerà cosa gli piace più fare. Questo è un atteggiamento che possiamo intendere come filosofico perché possiamo usarlo anche con i bambini privi di patologie, ovvero diamo importanza a quella che è la loro motivazione sulla base della soggettività. Noi vogliamo far emergere quest’ultima e lavorarci. Quindi di conseguenza viene anche insegnato come rispettare alcune bizzarrie di queste persone se sono portatrici di elementi soggettivi che altrimenti non si esprimerebbero. Altro aspetto importante riguarda il fatto che tutto quello che insegniamo agli utenti deve avere un significato non solo di per se, ma deve essere spiegato e capito dai ragazzi. Infine anche l’imitazione ha grande valore, come descriviamo nel nostro libro4. Noi partiamo dal fatto che se parliamo di autismo degli adulti, a partire da un disturbo dello sviluppo, i deficit che esitano non sono né statici né globali. Ovvero, anche se c’è un Disturbo della Teoria della Mente5, essa non è completamente assente. Abbiamo alcuni filmati in cui si vede un utente che ha in mano uno spruzzino. Mentre innaffia un terreno di coltura con un ASA, viene preso dall’idea di farle uno scherzo: fa la faccia furbissima e le spruzza l’acqua addosso. In questo caso abbiamo un principio di teoria della mente che diventa un gioco: è la capacità di giocare, di scherzare. Questo viene riconosciuto anche da persone che occupandosi di autismo, si occupano di Teoria della Mente, dato che con i bambini autistici propongono una serie di programmi e di esercizi che tendono a favorire lo sviluppo di quest’ultima. Quanto detto vale anche per altre problematiche presentate dall’autismo, come per esempio la mancanza d’intenzionalità, la difficoltà ad intraprendere azioni intenzionali. Tutto questo va inteso appunto come un deficit né statico né globale e quindi un aspetto su cui lavorare. C’è molta enfasi sul fatto che 4 Ballerini, A. Barale, F. Gallese, V. Ucelli, S. Autismo. L’Umanità Nascosta. Giulio Einaudi Editore, Torino, 2006. 5 Per Teoria della Mente o TOMM s’intende la capacità di attribuire agli altri stati mentali, intenzioni, credenze e desideri (Premack, D. e Woodruff, G. Does the chimpanzee have a theory of mind? Behavioural Brain Science, 1, 515-526,1978). nell’autismo non è presente alcuna possibilità di imitare e quindi le cose non vengono apprese a causa di questo deficit d’imitazione. In effetti se lei vede dei filmati di bambini autistici, riconosce delle aree dove l’imitazione è scarsa. Ma la nostra esperienza ci insegna, pur lavorando con adulti, che se lei crea un contesto dove l’imitazione è continuamente proposta, questi imitano e imparano. Come vedi, gli operatori a Cascina Rossago svolgono le varie attività insieme ai residenti; sia qualche nostro ammiratore che qualche nostro detrattore dice “Cascina Rossago è un posto dove non riconosci gli educatori dagli autistici”, perché magari li vedi tutti due che portano la carriola. Ma questa non è solo una scelta etica: il fare insieme è punto cardine del metodo, nel senso che questo diventa il canale attraverso il quale si sviluppa la possibilità d’imitare. Tutto ciò avviene molto più rapidamente di quello che si potrebbe pensare riguardo a persone adulte. Non solo. Alcuni di loro, gravi, inseriti in un contesto di questo genere in cui si fa qualcosa insieme, in un contesto organizzato che dona un senso, imparano a capire le cose che gli vengono chieste anche verbalmente, in modo semplice, senza bisogno di gesti e così via. In situazioni di questo genere il meccanismo di imitazione effettivamente si avvia e facilita l’apprendimento. In questo contesto in cui c’è ricchezza di relazionalità, dov’è presente una focalizzazione su questi aspetti dell’imitazione e così via, si attivano anche, con estrema gradualità, dei movimenti di relazione non solo verso gli operatori, ma trai residenti stessi. Abbiamo con noi un ragazzo molto particolare: ha scritto al computer un libro di poesie. Purtroppo attualmente, dall’estate scorsa vive un momento difficile, un periodo depressivo, d’isolamento autistico, quindi sta prevalentemente a casa. Un suo compagno, (un altro utente), quando è davanti al computer chiede di lui e dice “forse lo potrei aiutare”. Questi sono dei movimenti inimmaginabili. BIBLIOGRAFIA BALLERINI, A. BARALE, F. GALLESE, V. UCELLI, S. Autismo. L’umanità nascosta. Einaudi, Torino, 2006. BIKLEN, D. CADEI, P. BENASSI, F. La Comunicazione Facilitata, Omega Edizioni, Torino, 1999. LORD, C. SCHAFFER, B. SCHOPLER, E. WATSON, R. La Comunicazione Spontanea nell’Autismo, Erickson, Trento, 1997. PREMACK, D. WOODRUFF, G. Does the Schimpanzee have a theory of mind? Behavioural Brain Science, 1, 515-526, 1978.