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Letterature
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Marcello Muccioli
La letteratura giapponese
a cura di Maria Teresa Orsi
Prima edizione
Sansoni-Accademia 1969
Nuova edizione riveduta e aggiornata
L’Asino d’oro edizioni 2015
© 2015 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via Ludovico di Savoia 2b, 00185 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6443-298-4
ISBN ePub 978-88-6443-299-1
ISBN pdf 978-88-6443-300-4
Prefazione
di Maria Teresa Orsi
1. L’opera
Nel 1957 veniva pubblicato, nel secondo volume di Le civiltà dell’Oriente (a cura di Giuseppe Tucci), il lungo saggio Letteratura giapponese
di Marcello Muccioli, considerato ancora a distanza di tanti anni la
«prima esauriente storia della letteratura giapponese di uno specialista
italiano»1.
Da questa prima versione, ampliata, ulteriormente approfondita e
corredata di una vasta scelta di brani tradotti dall’originale, sono poi
derivate nel 1969 sia Letteratura giapponese, apparsa in Storia delle letterature d’Oriente diretta da Oscar Botto, sia La letteratura giapponese pubblicata da Sansoni nel volume La letteratura giapponese, la letteratura
coreana, a cura dello stesso Muccioli. Proprio quest’ultimo testo è stato,
per decenni, un punto di riferimento insostituibile per seguire il percorso della letteratura giapponese attraverso i secoli, l’unico che offrisse un ampio panorama della produzione letteraria e del contesto storico e sociale in cui essa si era formata, permettendo inoltre al lettore
di stabilire un coordinamento tra le varie opere che, dapprima in modo saltuario, poi sempre più sistematicamente, venivano nel contempo
tradotte e presentate in Italia.
La pubblicazione, a distanza di una decina di anni l’una dall’altra,
delle due diverse edizioni di Letteratura giapponese curate da Marcello
Muccioli si collocava, infatti, in un momento in cui la narrativa giapponese veniva a trovarsi al centro di un interesse crescente, stimolato
da una parte dal ruolo sempre più significativo che l’insegnamento
della cultura giapponese stava assumendo all’interno delle tre università (Napoli, Venezia e Roma) tutt’oggi sedi storiche per eccellenza di
tale disciplina, dall’altra dalle iniziative di case editrici che inserivano,
A. Boscaro, Narrativa giapponese. Cent’anni di traduzioni, Cafoscarina, Venezia 2000, p.
17.
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la letteratura giapponese
sia pure in modo rapsodico, testi di letteratura giapponese nei propri
cataloghi2.
In precedenza, la presenza della letteratura giapponese nel mondo
della cultura italiana era stata abbastanza modesta, quanto meno al di
fuori di ambienti strettamente specialistici. Se si escludono le opere
tradotte a fine Ottocento da autentici pionieri come Antelmo Severini
e Lodovico Nocentini, pubblicate dalla casa editrice fiorentina Le Monnier3, e il contributo offerto da Shimoi Harukichi (1883-1954) che,
mentre insegnava giapponese all’Orientale di Napoli (1921-1926), aveva fondato una rivista, “Sakura”, dando vita anche a una serie di piccoli volumi dove presentava alcuni dei maggiori nomi della nascente
letteratura moderna (da Higuchi Ichiyo- a Yosano Akiko)4, il merito di
aver iniziato la pubblicazione di testi della letteratura giapponese, tradotti dall’originale e curati da specialisti, spetta alle due case editrici
Carabba e Laterza, negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale. Nel 1930 la Carabba aveva pubblicato una delle opere più significative del medioevo giapponese, lo Ho-jo-ki (Ricordi della mia capanna,
1212), nella traduzione di Marcello Muccioli. Sarebbe poi apparso nel
1938 il Kojiki, curato da Mario Marega per Laterza5.
Tuttavia, è solo negli anni del secondo dopoguerra che la letteratura
giapponese inizia a segnalare in modo evidente la sua presenza in Italia, intraprendendo un percorso che trova un primo, seppur di modesta portata, traguardo di popolarità fra la fine degli anni Cinquanta e
lungo l’arco degli anni Sessanta, per poi conoscere una pausa di relativo silenzio nel decennio successivo, seguita da una ripresa quasi inarrestabile che culmina negli anni Novanta, con il successo di autori
come Yoshimoto Banana e Murakami Haruki, e che oggi non sembra
Per un panorama ampio e articolato delle traduzioni di opere letterarie giapponesi
apparse in Italia nel corso del XX secolo, cfr. A. Boscaro, Narrativa giapponese cit.
3
A. Severini, Uomini e paraventi, racconto giapponese di Riu Tei Tane Hico, Le Monnier,
Firenze 1872; Id., Il Taketori monogatari, ossia la fiaba del nonno tagliabambù, Le Monnier,
Firenze 1880; L. Nocentini, La ribellione di Masacado e di Sumitomo, Successori Le Monnier, Firenze 1878.
4
Higuchi Ichiyo-, Palude mortifera, Sakura, Napoli 1921, già in “Sakura”, 5-6, 1920, pp.
123-126. Yosano Akiko, Onde del mare azzurro (Sei-ga-ha), a cura di E. Jenco, Sakura,
Napoli 1920.
5
Kamo no Cho-mei, Ho-jo-ki, a cura di M. Muccioli, Carabba, Lanciano 1930; Yasumaro,
Ko-gi-ki. Vecchie cose scritte. Libro base dello shintoismo giapponese, a cura di M. Marega,
Laterza, Bari 1938.
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Prefazione
aver perso la sua vitalità, ricoprendo una vasta fascia che va dalla letteratura arcaica a quella classica, da quella medievale e premoderna a
quella contemporanea.
Impossibile ignorare, nella prima fase, il contributo sostanziale offerto dalle traduzioni, condotte sull’originale, di Mario Teti, cui spetta
il merito di aver fatto conoscere alcuni dei maggiori scrittori del Novecento, come Mishima Yukio, Kawabata Yasunari e Tanizaki Jun’ichiro-,
che oggi sono presenze imprescindibili nella biblioteca di chiunque sia
interessato al Giappone e alla sua cultura6. Lo stesso merito va riconosciuto ad Atsuko Suga che, dopo essersi trasferita nel 1960 a Milano,
dove ha vissuto per una decina di anni, ha presentato, in impeccabili
traduzioni, una serie di racconti di scrittori, alcuni molto famosi, altri
più di nicchia – ma non per questo meno validi –, come Izumi Kyo-ka,
Ishikawa Jun e Nakajima Atsushi, in una panoramica che va dall’inizio
del Novecento agli anni Sessanta7.
A queste iniziative si aggiungevano quelle di altre case editrici che
presentavano a loro volta scrittori di primo piano, ma ricorrendo nella
maggior parte dei casi a traduzioni già esistenti in inglese o in francese.
In questa operazione l’intervento di traduttori di ottimo livello come
Marcella Bonsanti o di scrittori del calibro di Luciano Bianciardi, se
costituiva una garanzia di raffinatezza ed eleganza di scrittura, non
poteva, però, assicurare la profondità che deriva sia dalla conoscenza
diretta del testo originale, sia dalla familiarità con la cultura che lo ha
prodotto8.
Lo stesso discorso vale anche per le opere appartenenti al mondo
Ricordiamo, fra le opere tradotte da Mario Teti: Tanizaki Jun’ichiro-, Gli insetti preferiscono le ortiche (Tade kuu mushi), Mondadori, Milano 1960; Kawabata Yasunari, Mille gru
(Senbazuru), Mondadori, Milano 1965; Id., Koto (Koto), Rizzoli, Milano 1968; Id., La
casa delle belle addormentate (Nemureru bijo), Mondadori, Milano 1972; Mishima Yukio,
Il padiglione d’oro (Kinkakuji), Feltrinelli, Milano 1962; Id., Il sapore della gloria (Gogo no
eiko-), Mondadori, Milano 1967.
7
Atsuko Suga, a cura di, Narratori giapponesi moderni, Bompiani, Milano 1965. Sempre
Atsuko Suga ha inoltre tradotto: Abe Ko-bo-, La donna di sabbia (Suna no onna), Longanesi,
Milano 1972; Inoue Yasushi, La montagna Hira (Hira no shakunage), Bompiani, Milano
1964; Kawabata Yasunari, Il suono della montagna (Yama no oto), Bompiani, Milano 1969;
Id., Bellezza e tristezza (Utsukushisa to kanashimi to), Einaudi, Torino 1985; Tanizaki Jun’ichiro-, Diario di un vecchio pazzo (Fu-ten ro-jin nikki), Bompiani, Milano 1965; Id., Vita segreta del signore di Bushu- (Bushu- ko- hiwa), Bompiani, Milano 1970; Id., Libro d’ombra (In’ei
raisan), Bompiani, Milano 1982.
8
Dazai Osamu, Il sole si spegne (Shayo-), trad. dall’ingl. di L. Bianciardi, Feltrinelli, Mi6
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la letteratura giapponese
classico, pubblicate tra la fine della seconda guerra mondiale e il decennio successivo, come Diari di dame di corte nell’antico Giappone9, o
quella che è unanimemente considerata la più importante e complessa
opera di narrativa della classicità giapponese, il Genji monogatari (La
storia di Genji), lungo romanzo scritto intorno all’anno 1000 da una
dama di corte conosciuta come Murasaki Shikibu, le cui traduzioni
italiane, ricalcate, forse con una sola, incerta eccezione, sulla famosa
versione in lingua inglese The Tale of Genji, nata dalla penna di Sir Arthur Waley negli anni 1925-193310, erano apparse, seguendo peraltro
un percorso abbastanza tortuoso, tra il 1935 e il 195711.
Nel periodo in cui Muccioli scriveva la sua Letteratura, quindi, accanto alla produzione più strettamente scientifica, il panorama della letteratura giapponese aveva assunto in Italia una dimensione abbastanza
consistente; al suo arricchimento aveva contribuito lo stesso Muccioli,
affiancando alla già citata traduzione dello Ho-jo-ki altri importanti contributi: le traduzioni dello Hyakunin isshu (La centuria poetica, prima
metà del XIII secolo) di Fujiwara no Teika e dello Tsurezuregusa (Ore
d’ozio, 1331 ca.) di Kenko- Ho-shi, alle quali si aggiungeva il fondamentale e pionieristico apporto di testi del teatro classico e premoderno12.
lano 1959; Id., Lo squalificato (Ningen shikkaku), trad. dall’ingl. di M. Bonsanti, Feltrinelli, Milano 1962.
9
Diari di dame di corte nell’antico Giappone, a cura di G. Valensin, Einaudi, Torino 1946.
10
Murasaki Shikibu, The Tale of Genji, trad. dal giapp. di A. Waley, Allen & Unwin,
London 1925-1933. Comprende 6 volumi: I. The Tale of Genji; II. The Sacred Tree; III. A
Wreath of Cloud; IV. Blue Trousers; V. The Lady of the Boat; VI. The Bridge of Dreams.
11
Prima della seconda guerra mondiale, nel 1935, e poi nel 1942 erano comparse
parziali traduzioni dei capitoli iniziali. Nel 1944-1947, per qualche stravagante decisione della casa editrice Bompiani, appariva una terza traduzione italiana, intitolata La signora della barca. Il ponte dei sogni, che presentava, in due diversi volumi e con due titoli
diversi, 10 degli ultimi 13 capitoli del Genji monogatari. Essi rappresentavano la traduzione italiana parziale, a cura di Piero Jahier, degli ultimi 2 libri tradotti da A. Waley, il
quinto (The Lady of the Boat) e il sesto (The Bridge of Dreams). E sempre sulla versione di
Waley si basava La storia di Genji, pubblicata dall’editore Einaudi nel 1957 e ripubblicata in seguito più volte, formata dai primi 41 capitoli dell’originale, con l’esclusione di
Suzumushi, che già era assente nella versione di Waley. Per un attento e completo esame
delle traduzioni del Genji monogatari apparse finora in Italia, cfr. A. Maurizi, Il Genji
monogatari in Italia, in “Testo a Fronte. Semestrale di teoria e pratica della traduzione
letteraria”, 51, Marcos y Marcos, Milano 2014, pp. 119-129.
12
M. Muccioli, a cura di, La centuria poetica, Sansoni, Firenze 1950; Id., Il no- di Tomoe,
in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli”, n.s., IV, Napoli 1952, pp.
155-197; Id., Il no- di Shunkan, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli”, n.s., V, Napoli 1953, pp. 189-252 (entrambi poi in M. Muccioli, a cura di, Il teatro
viii
Prefazione
Questi ultimi erano inseriti all’interno di un’altra opera di fondamentale importanza, curata da Muccioli e pubblicata nel 1962, Il teatro
giapponese che, pur presentandosi come un accurato e ben documentato strumento di studio, era in grado di offrire anche al lettore non
specialista un panorama affascinante delle arti dello spettacolo giapponese. Le traduzioni, parte integrante e sostanziale del trattato, sono
dimostrazione non solo della padronanza della lingua e dell’aderenza
allo spirito dell’originale – qualità che si ritrovano puntuali in tutte le
traduzioni a cui Muccioli si è dedicato –, ma anche della sua convinta
predilezione per la letteratura classica.
La pubblicazione di La letteratura giapponese nel 1969 si evidenziava
a sua volta come la risposta più completa sia alle esigenze degli studiosi, sia agli interessi di un pubblico più vasto. La sua validità, confermata nei decenni successivi, trova ancora oggi una riprova, quale testimonianza di un momento decisivo nella storia degli studi giapponesi in
Italia, ma anche per l’originalità dei commenti che mantengono nella
maggior parte dei casi tutto il loro valore.
La periodizzazione adottata dall’autore si adegua a quella elaborata
dagli storici giapponesi alla fine del XIX secolo che avevano fatto ricorso al concetto di jidai (traducibile come «epoca» o «periodo»), e utilizza sia i nomi delle località (città o quartieri) dove risiedeva l’autorità
politica del momento, sia i cognomi delle famiglie, non appartenenti
a quella imperiale, detentrici del potere13. A questo sistema di periodizzazione, che peraltro non è privo di discordanze e ambiguità nelle sue
definizioni – e ciò spiega perché spesso ci si trovi davanti a date che
differiscono anche in modo rilevante nel definire i confini di uno stesso periodo –, si accompagna un secondo sistema, conosciuto come
nengo- (lett. «nome dell’anno», di solito tradotto come «era»), di origine
cinese, introdotto in Giappone nel VII secolo e in uso ancora oggi.
Esso riservava alla corte imperiale la prerogativa di decidere l’inizio di
giapponese. Storia e antologia, Feltrinelli, Milano 1962); Zeami, Il tamburo di damasco (Aya
no tsuzumi), Chikamatsu Monzaemon, Gli amanti suicidi di Sonezaki (Sonezaki shinju- ),
Id., Yu-giri e il vortice di Awa, in M. Muccioli, Il teatro giapponese cit.; Kamo no Cho-mei,
Ricordi della mia capanna, Kenko- Ho-shi, Ore d’ozio, a cura di M. Muccioli, Leonardo da
Vinci, Bari 1965.
13
Su cronologie e periodizzazione della storia giapponese cfr. R. Caroli, F. Gatti, Storia
del Giappone, Laterza, Bari 2004, pp. xxviii-xxxiv.
ix
la letteratura giapponese
un’era che, in passato, poteva coincidere con il regno di un sovrano o
solo con una sua parte, anche molto breve, e a cui veniva ufficialmente
dato un nome, in genere di buon auspicio, tratto da passi dei classici
cinesi14. Infine, all’interno di periodi molto estesi nel tempo, come l’epoca Heian (794-1185) o l’epoca Tokugawa (1600-1868), Muccioli
opera un’ulteriore suddivisione in periodi più brevi che coincidono,
come nel caso delle due parti in cui è divisa l’epoca Heian, con i regni
di singoli imperatori, di per sé non particolarmente significativi in termini culturali e letterari, ma le cui date hanno segnato cambiamenti di
grande rilievo per la storia del paese, oppure, come nel caso dell’epoca
Tokugawa, con il passaggio dell’egemonia culturale da una determinata città o regione a un’altra15.
All’interno di ogni periodo, Muccioli presenta una breve introduzione che illustra le caratteristiche più salienti in campo politico, religioso
e artistico, per poi passare alla parte letteraria divisa in varie sezioni: gli
studi cinesi – indispensabili, tenendo conto del sostanzioso ruolo che
essi hanno avuto nel mondo letterario giapponese per molti secoli –,
la poesia, la prosa e il teatro. Per ognuno dei singoli generi la meticolosità delle informazioni, la dettagliata presentazione di autori e opere,
l’elenco minuzioso di scuole e correnti poetiche, la documentazione
così fitta da far supporre un impegno di ricerca pluriennale condotto
soprattutto in Giappone, sono accompagnati da opinioni e analisi che,
se in alcuni rari momenti rivelano il permanere di una visione troppo
eurocentrica per essere oggi accettata, nella gran parte del testo si af Fino al 1868, anno della cosiddetta restaurazione Meiji, che segna l’«apertura» del
Giappone all’Occidente, il nome dell’era poteva essere cambiato, anche più volte, durante il regno di un solo imperatore, in seguito al verificarsi di eventi considerati di buono
o cattivo augurio; ma a partire da quella data, è invalso il sistema di adottare un solo
nengo- per ogni periodo di regno di un sovrano (issei ichigen). Dal 1868 a oggi si sono
così succedute le ere Meiji (1868-1912), Taisho- (1912-1926), Sho-wa (1926-1989) e l’attuale era Heisei (1989 a oggi). Dopo la morte i sovrani prendono, come nome postumo,
il nengo- del proprio regno.
15
La scelta operata da Muccioli, che era peraltro la più diffusa in Giappone negli anni
in cui egli scriveva il suo trattato, e che è tuttora ampiamente adottata, è oggi affiancata
da altri tentativi di periodizzazione, che non si limitano a fare riferimento solo alla
storia politica o istituzionale del Giappone, ma che si allargano a definizioni di carattere più «internazionale». Tutt’altro che uniforme nei suoi esiti, tuttavia, questa tendenza
prevede, nella sua forma più comunemente accettata, di dividere la storia politica e
letteraria del Giappone in sei periodi: l’arcaico (jo-dai), l’antico (chu- ko), il medievale
(chu-sei), il premoderno (kinsei), il moderno (kindai) e il contemporaneo (gendai).
14
x
Prefazione
fiancano a valutazioni equilibrate, serene e scevre da pregiudizi; emerge altresì la consapevolezza che il divario culturale esistente fra il Giappone di epoca classica e premoderna e la moderna cultura occidentale
troppo spesso poteva portare, come può accadere ancora ai giorni nostri, a fraintendimenti e giudizi ingiustificati.
In effetti, bisogna riconoscere che Muccioli riesce a evitare l’ambiguità di certe valutazioni troppo superficiali alle quali non era viceversa sfuggito William George Aston, diplomatico e studioso anglo-irlandese (nato in Irlanda nel 1841), considerato uno dei maggiori cultori
di studi giapponesi di fine Ottocento, e autore di due grammatiche di
lingua giapponese (1868 e 1872) oltre che di A History of Japanese Literature (1899), alla quale lo stesso Muccioli fa spesso riferimento.
Nella visione tutta vittoriana dello Aston, troviamo giudizi dove
moralismo e ipocrisia si coniugano con più equilibrate, ancorché sconcertanti, affermazioni: parlando del Genji monogatari, egli lamenta il
deplorevole «lassismo morale che esso descrive», compensato però dal
fatto che «la vita privata dell’autrice è libera da ogni macchia di questo
tipo» e che «il linguaggio è quasi immancabilmente decoroso, e persino raffinato, e che di raro si incontra una frase studiata per far arrossire le guance di un giovane». D’altro canto Aston si affretta a precisare
che, pur con tutti i pregi che i critici giapponesi riconoscono al Genji
monogatari, fino ad affermare che esso meriti di essere incluso fra i capolavori dei romanzi europei, «nessuno, tuttavia, se non un giapponofilo convinto (una specie che non è del tutto sconosciuta), potrebbe
arrivare al punto di situare Murasaki no Shikibu [sic] allo stesso livello
di Fielding, Thackeray, Victor Hugo, Dumas, e Cervantes»16. Un’opinione sulla quale si potrebbe sorvolare, giustificandola con una mentalità
ancora legata a pregiudizi colonialistici, se non fosse stata ribadita,
anni più tardi, nel 1925, da persona di alto calibro intellettuale come
Virginia Woolf. Anche la colta e sensibile Woolf, in un suo saggio intitolato The Tale of Genji, dopo aver scritto che del Genji monogatari apprezza soprattutto la delicatezza, l’eleganza, la mancanza di toni violenti o brutali, e che in esso, attraverso la traduzione (in originale:
«beautiful telescope») offerta dal Waley, «noi possiamo osservare la
W.G. Aston, A History of Japanese Literature, William Heinemann, London 1899, pp.
96-97.
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xi
la letteratura giapponese
nuova stella che sorge, nella piena convinzione che essa sarà ampia,
luminosa e serena», aggiunge subito dopo: «non sarà, tuttavia, una
stella di prima grandezza. No: Lady Murasaki non mostrerà di essere
all’altezza di Tolstoj e Cervantes»17. Verrebbe da chiedersi da cosa dipendesse tale affermazione: se da una inconsapevole forma di eurocentrismo, da un gusto personale, forse troppo personale, oppure dalla traduzione del Waley, per quanto «beautiful telescope» e perfetta nella
forma.
Molti anni più tardi, nel 1980, un’altra intellettuale di primo piano,
Marguerite Yourcenar, ristabiliva un equilibrio esprimendosi in modo
assai diverso: «Murasaki Shikibu è il Marcel Proust del medioevo giapponese; è una donna che ha il genio, il senso delle variazioni sociali,
dell’amore, del dramma umano, del modo in cui gli esseri umani si
scontrano con l’impossibile. Non si è mai fatto nulla di meglio, in
nessuna letteratura»18.
Muccioli, dal canto suo, almeno in questo caso, evita di tentare paragoni, ma il suo giudizio emerge come del tutto positivo, sottolineando alcuni dei pregi che oggi vengono comunemente esaltati quando si
parla del Genji monogatari: «i pregi del romanzo [...] stanno tutti nell’analisi psicologica approfondita dei personaggi e nella mirabile riproduzione della vita, della mentalità e dell’ambiente dove i fatti si svolgono [...]. La lingua del Genji monogatari è quella parlata dell’epoca di
Murasaki ed ella ha saputo farne uno strumento mirabilmente duttile
al servizio della sua arte»19.
Questa capacità di Muccioli di mostrare sensibilità, gusto e soprattutto apertura storica già in linea con gli assunti della critica odierna
ricompare anche altrove. Per esempio, laddove Aston si era limitato a
citare appena o a ignorare del tutto i maggiori scrittori dell’epoca Tokugawa, come Ihara Saikaku, capostipite indiscusso dei cosiddetti ukiyozo-shi (lett. «fascicoli del mondo fluttuante») e rappresentante della nuova
letteratura ispirata alla vita e agli ideali dei ceti urbani e mercantili, che
descrive con uno spirito attento e scanzonato, non privo di cinismo e
17
V. Woolf, The Tale of Genji, in A. McNeillie, a cura di, The Essays of Virginia Woolf, 19251928, Harcourt, Orlando 1994, vol. IV.
18
M. Yourcenar, Les yeux ouverts, Editions du Centurion, Paris 1980, pp. 110-111.
19
Cfr. infra, p. 139.
xii
Prefazione
spregiudicatezza, o come Ueda Akinari, narratore di tempra eccezionale, autore di racconti storici e storie di fantasmi dove malinconia e bellezza si fondono con il pathos e l’orrore, Muccioli dedica ampio spazio
a entrambi, giudicando del tutto fuorvianti i giudizi espressi sul contenuto delle opere di Saikaku da «critici disinvolti»20; sottolinea, anzi,
come sia un grave errore giudicare un autore senza riferirsi ai tempi e
all’ambiente in cui egli è vissuto.
Solo nel caso di Chikamatsu Monzaemon, il maggior autore di testi
teatrali della letteratura premoderna giapponese, anche Muccioli si lascia attrarre da un paragone con Shakespeare, che risolve a tutto sfavore dello scrittore giapponese, con una presa di posizione inaspettatamente tagliente, se paragonata all’equilibrio e all’ampiezza di vedute
che caratterizzano il suo lavoro. Ma forse, a spingere Muccioli verso
una posizione tanto rigida era stata proprio la volontà di stabilire un
paragone fra i due autori, paragone, peraltro, già proposto alla fine del
XIX secolo proprio in Giappone e poi divenuto un luogo comune tanto inutile quanto duro a morire, al punto che ancora oggi viene rispolverato periodicamente.
Alla letteratura sotto l’influsso del pensiero occidentale, titolo e argomento dell’ultimo capitolo, Muccioli dedica uno spazio piuttosto
limitato. Nelle pagine introduttive, infatti, sottolinea come il suo libro
voglia essere soprattutto una storia della letteratura giapponese del
passato, e come abbia accennato alla letteratura moderna, della quale
nondimeno riconosce i meriti, «solo per amore di compiutezza». Del
resto, non aveva mai nascosto il suo moderato entusiasmo per le opere prodotte nel corso del Novecento giustificandolo, come appare evidente anche dal titolo stesso scelto per quell’ultimo capitolo, con l’argomento che esse fossero «la parte meno originale dello sviluppo
letterario del paese, quella che per gli influssi del pensiero occidentale
ci è più vicina»21. È innegabile che l’influsso della cultura occidentale
abbia avuto un suo peso – tuttavia molto meno profondo di quello che
potesse apparire a prima vista – nel Giappone di fine Ottocento e di
inizio Novecento, quando l’entusiasmo per la scoperta di ciò che l’Europa aveva prodotto in campo letterario e il desiderio di un rinnovaCfr. infra, p. 310.
Cfr. infra, p. 6.
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