Il sogno di Ginevra - Almagesto dello Smeraldo
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Il sogno di Ginevra - Almagesto dello Smeraldo
Quando Artù lo aveva inviato in Bretagna, qualche mese prima, Lancillotto pensava che il suo destino fosse già scritto: era un Cavaliere della Tavola Rotonda e il suo compito sarebbe sempre stato quello di combattere al fianco del suo re. Ma questa volta la missione è molto più delicata: creare un esercito di cavalieri che unisca il potere di tutti i sovrani di quelle terre lacerate da anni di lotte e che combatta in nome dei valori di Camelot. Convincere i barbari a unirsi a lui con la forza però avrebbe portato solo alla perdita di vite umane, così Lancillotto decide di indire un torneo in cui possano gareggiare unicamente i migliori guerrieri di Bretagna. Attraverso i giochi, la superiorità dei combattenti che ha addestrato sarà dimostrata senza spargimento di sangue. Ma il pericolo più grande per i suoi sogni di pace è un esercito di guerrieri provenienti dall'Est che pare inarrestabile: gli Unni, guidati da Attila, stanno radendo al suolo tutto quello che trovano sul loro cammino e hanno preso d'assedio la regione di Benwick. È Lancillotto, in testa al suo esercito di cavalieri, a difendere ancora una volta il regno che lo ha visto crescere e a scacciare gli invasori. Dopo la schiacciante vittoria, Lancillotto comprenderà che la sua vita ormai è segnata: dovrà rimanere in Bretagna, per sempre lontano da Artù Pendragon. Quando però il re rischierà la vita, Lancillotto sarà pronto a dimostrare la sua totale dedizione a Camelot proteggendo la regina Ginevra e l'arma forgiata dalle stelle, Excalibur. JACK WHYTE È nato in Scozia e ha studiato in Inghilterra e in Francia. Si è trasferito nel 1967 in Canada, dove dopo un anno di insegnamento si è dedicato alle sue vere passioni: il teatro, la musica, la scrittura. Ha ottenuto uno straordinario successo con la pubblicazione della serie Le Cronache di Camelot, vero e proprio bestseller internazionale, che comprende i titoli La pietra del cielo, La spada che canta, La stirpe dell'aquila, Il sogno di Merlino, Il forte sul fiume, Il segno di Excalibur, Le porte di Camelot e La donna di Avalon. Questo romanzo è il quarto volume, dopo II cavaliere di Artù, Il marchio di Merlino e II destino di Camelot, della serie che ha come protagonista Lancillotto e che idealmente completa il ciclo arturiano. Per Piemme ha pubblicato inoltre i primi due volumi della sua ultima trilogia dedicata ai cavalieri templari: I custodi del Codice e II leone dei Templari. Vive a Vancouver, è sposato e ha cinque figli. www.camulod.com Illustrazione di copertina: Iacopo Bruno Proggetto Grafico: Cecilia Flegenheimer VOLUME DLB 168 JACK WHYTE Titolo originale dell'opera: The Eagle – Volume 2 © 2005 by Jack Whyte Traduzione di Roberta Maresca / Grandi & associati I Edizione Piemme Bestseller, gennaio 2009 © 2007 – EDIZIONI PIEMME Spa 15033 Casale Monferrato (AL) – Via Galeotto del Carretto, 10 info@edizioni piemme.it – www.edizionipiemme.it ISBN: 978-88-566-0378-1 A mia moglie Beverly, che dopo aver convissuto per oltre un quarto di secolo con la Res Britannica non sa se dare un taglio al passato e partire verso nuovi orizzonti... UNO I Le settimane che seguirono la mia visita a Pelles furono caotiche ma produttive. A poco a poco i nostri soldati si abituavano ai loro nuovi quartieri e alle procedure che stavamo adottando per fronteggiare qualsiasi eventualità. Il nuovo forte interno - Pelles mi aveva spiegato che i Romani lo chiamavano Campidoglio, perché situato in cima a una rupe - acquisì in fretta un'aria di vivace e militaresca efficienza. Gli edifici che ospitavano le caserme entro le mura del castello erano stati assegnati sin dal giorno del nostro arrivo, in modo che ogni soldato avesse un alloggio, una branda, un armadietto per gli indumenti e un piedistallo per l'armatura; inoltre, i bagni della vecchia guarnigione erano stati rimessi completamente in uso, riscaldati da fornaci e ipocausti che fornivano acqua calda per tutto il giorno e tutta la notte. L'antica fucina aveva ripreso a funzionare a pieno ritmo, mentre la prima delle numerose nuove fornaci era già a uno stadio avanzato di costruzione e i nostri carpentieri stavano ultimando le nuove poste all'interno delle stalle, da poco ampliate. Al di là delle mura, gli immensi recinti per i cavalli, progettati per contenere un numero di esemplari sei volte maggiore rispetto all'attuale, erano già finiti, mentre il piazzale rettangolare per le esercitazioni, situato di fronte ai cancelli principali, era stato ripulito dall'erba che lo aveva invaso negli ultimi dieci anni e le sue dimensioni erano state raddoppiate perché potesse accogliere la cavalleria anziché la fanteria. Ora, oltre a svolgere i quotidiani compiti prestabiliti, i nostri soldati ripetevano mattina e sera la familiare sequenza di esercizi che aveva regolato la loro vita a Camelot. L'incontro fra gli uomini di Connor e i mercanti d'armi si era concluso con enorme successo e, sebbene nessuna delle armi appena ordinate fosse ancora giunta a destinazione, parecchie scorte di lance, spade, pugnali, asce e armature erano già in viaggio, e nelle città e nei villaggi circostanti avevano già cominciato a fabbricarne altre. Inoltre Lucio Genaro, il mio aiutante, aveva preso accordi con tre fabbri di Brugis, la capitale della regione, per acquistare tutte le cotte di maglia e i gambali, fabbricati secondo le nostre istruzioni e sulla base di campioni da noi forniti, che riuscivano a produrre da quel momento e con l'accordo che sia loro sia i lavoranti alle loro dipendenze si sarebbero stabiliti in modo permanente all'interno del nostro forte, non appena le abitazioni per le famiglie e le fucine fossero state pronte. Una volta lì, avrebbero lavorato a tempo pieno per realizzare le armature del nuovo esercito di Corbenico, in cambio di un posto sicuro in cui alloggiare e del totale sostentamento loro, delle loro famiglie e degli abili lavoranti che si sarebbero portati dietro. Il primo contingente di reclute di Corbenico arrivò nel giorno prestabilito e toccò a me accoglierlo e cercare di spiegare ciò che ci aspettavamo da ciascuno di loro. Molti di quegli uomini erano giovani e impazienti, ma c'erano anche parecchi veterani, non meno smaniosi ma decisamente più restii ad abbandonare le proprie abitudini. Corbenico non aveva una tradizione militare, perché non era mai stata sotto la dominazione romana. I suoi uomini disponevano di tutte le virtù proprie dei guerrieri, ma erano assolutamente privi di disciplina militare. Quando Corbenico si armava, mobilitando i suoi uomini, questi cavalcavano come singoli membri di un esercito e apprezzavano sopra ogni cosa il valore e la prodezza individuali. Dovevamo cambiare quella visione delle cose, e dovevamo farlo con un intero scaglione di uomini che ci consideravano, non senza un certo disprezzo, stranieri che non parlavano neanche la loro lingua. In qualche modo, con l'aiuto dei nostri soldati e della grazia divina, dovevamo riuscire a farci accettare e ammirare, prima di poterli trasformare in un gruppo elitario e autosufficiente, fiero di sé e della capacità di plasmare altri uomini a propria immagine e somiglianza. Perceval e io avevamo stabilito che lui sarebbe stato il comandante in capo delle reclute di Corbenico e si sarebbe pertanto occupato giornalmente di tutte le questioni relative alla disciplina e all'addestramento, lasciando che io mantenessi la mia dignitas come inviato del re e legato generale a capo di tutte le operazioni. Quando venne il giorno stabilito e tutte le reclute arrivarono per unirsi a noi, le conducemmo nella piazza d'armi situata fuori dei cancelli, dove descrissi in dettaglio i cambiamenti che le loro vite avrebbero subito, il rigoroso programma di addestramento di base, della durata di quattro mesi, che le attendeva e il sostegno che avrebbero ricevuto dai nostri soldati, ognuno dei quali aveva dovuto affrontare lo stesso percorso per prepararsi a ricoprire la posizione attuale. Dopodiché, le feci distribuire lungo il perimetro della piazza d'armi affinché osservassero due dei nostri squadroni, i Blu e i Bianchi, che muniti di scudi ovali e di lance con l'asta di frassino, lunghe dodici piedi e fabbricate sul modello del contus romano, offrivano loro una dimostrazione della complicata prassi necessaria a disporsi in formazione serrata, ottenendo molto di più di un mormorio stupito in risposta alle complesse manovre che eseguirono in assoluto silenzio e, apparentemente, senza alcuno sforzo; gli unici rumori che si udivano erano il cigolio e il tintinnio delle bardature, oltre al suono sordo dei pesanti zoccoli. Quando i due squadroni terminarono la dimostrazione, che si concluse con un attacco frontale in piena regola verso la tribuna dalla quale io e gli ufficiali superiori li passavamo in rivista, gli spettatori esplosero in un grido collettivo, e ne avevano tutte le ragioni, perché la vista di una compatta barriera di soldati a cavallo, formata da quattro file di venti cavalieri ciascuna, che si lanciava verso di noi al galoppo, per poi arrestarsi di colpo a meno di dieci passi dalla tribuna, aveva dato il batticuore persino a me. Nel giro di dieci giorni, il caos generale dovuto alla goffa titubanza degli inizi era del tutto scomparso e le reclute cominciavano a dimostrare di aver capito le istruzioni di base. In quello stesso periodo tornò anche Catone da Auxerre con il suo convoglio di carri e la sua magnifica mandria di cavalli dal lucido mantello nero, cui si aggiungevano numerosi splendidi stalloni e fattrici di razze diverse. Egli cominciò subito a escogitare un generale piano di accoppiamento che gli avrebbe consentito di far nascere i migliori esemplari di razza ibrida esistenti al mondo. Subito dopo mettemmo in pratica il nostro sistema di guardia costiera. Era complesso, ma non macchinoso, e con il passare del tempo si sarebbe rafforzato, anche se inizialmente era costituito da una linea di fuochi di segnalazione sorvegliati da squadre di ragazzi e anziani appartenenti al locale clan dei Corvi, comandato da Clodio. Le postazioni di guardia si estendevano lungo tutta la costa di Corbenico, per trenta miglia verso nord e ventidue verso sud. Ogni cinque fuochi c'era un punto di riferimento fisso dal quale venivano calcolate le distanze. Non appena si avvistava un'imbarcazione nemica, il posto di guardia che l'aveva scorta accendeva un fuoco e a ogni punto di riferimento successivo, in direzione del castello, se ne accendeva un altro. Quindi, un calcolo finale di quattro fuochi indicava che una forza nemica era stata avvistata tra le venti e le venticinque miglia a nord o a sud del castello, a seconda della direzione dei falò di segnalazione; un unico fuoco indicava l'avvistamento di una nave a non più di cinque miglia dal castello. Speravamo che il sistema fosse efficace, e il giovane Junius Merkat, il quale era stato incaricato di garantire il funzionamento della linea, aveva passato diversi giorni ad addestrare i gruppi di guardia volontari alle loro mansioni. A metà della seconda settimana di agosto, la dea franca della fortuna ci offrì l'opportunità di mettere alla prova tutta la nostra organizzazione e il nostro duro lavoro. In un dorato pomeriggio d'estate una sentinella appostata in cima alle nostre mura vide le prime volute di fumo levarsi dal fuoco di guardia più vicino in direzione nord e diede subito l'allarme. Per puro caso, in quel momento mi trovavo proprio sotto di lei e stavo attraversando la corte principale del castello, così mi affrettai a raggiungerla sopra le mura e la trovai che indicava la collina in lontananza. Senza dubbio, era un segnale che non si poteva confondere: due fuochi distinti che bruciavano a una certa distanza l'uno dall'altro e sputavano fumo oleoso e nero come la pece nell'aria pulita. Due fuochi indicavano che l'imbarcazione era stata avvistata fra il posto di guardia del decimo miglio e quello del quindicesimo. Mi accostai al bordo del parapetto e ordinai al comandante delle guardie di suonare l'adunata generale, cosicché tutto il nostro esercito, composto ormai da cinque forti squadroni, si riunisse e fosse pronto a partire prima ancora che arrivasse la seconda serie di segnali, grazie alla quale avremmo conosciuto il numero di navi che componevano la flotta nemica. La seconda fase della segnalazione si basava sul seguente schema numerico: un fuoco indicava tre navi o meno di tre, due significavano un numero di navi compreso fra quattro e sei, tre volevano dire almeno sette, ma non più di dieci, quattro ne indicavano più di undici e cinque una flotta di invasori formata da più di venti imbarcazioni. Poiché ogni nave nemica era dotata di un equipaggio che andava dai trenta ai cinquanta uomini, da dieci navi avrebbero potuto sbarcare dai trecento ai cinquecento soldati, per cui se ce ne fossero state più di dieci le possibilità che si trattasse di un'invasione in piena regola sarebbero aumentate. Quella volta, durante la seconda fase di segnalazione, furono accesi due fuochi, il che significava che avremmo dovuto fronteggiare un gruppo formato da un minimo di quattro a un massimo di sei navi, le quali potevano trasportare dai centoventi ai trecento uomini. In teoria queste cifre lasciavano ipotizzare che saremmo stati numericamente inferiori, tre a uno, ma la realtà era molto diversa. I nemici sarebbero sbarcati a scaglioni ed erano predoni indisciplinati e senza cavalli, decisi a raggiungere l'entroterra il più velocemente possibile per attaccare borghi, fattorie e piccole cittadine, e quindi riportare il loro bottino sulle spiagge senza perdere tempo e senza dover combattere per conquistarlo. Il nostro vantaggio più grande stava nel raggiungere il punto della costa che intendevano attaccare, prima che completassero il loro sbarco, cogliendoli così nel momento di maggior vulnerabilità. Perceval, da vero Ursus, era deciso ad accompagnarmi in quella spedizione e così incaricammo Lucio Genaro di difendere il castello con due squadroni: i Rossi, che quel giorno erano in servizio, e i Dorati, di recente formazione. Noi invece ci dirigemmo a nord con i Bianchi, i Blu e lo squadrone Bianco e Nero; quest'ultimo era stato creato di recente, assieme a quello dei Dorati, e portava come stendardo di riconoscimento un vessillo diviso in quattro parti, due bianche e due nere alternate. Tutti e cinque gli squadroni erano costituiti sia da veterani sia da reclute e, ora che i primi due mesi di addestramento erano finiti, queste ultime sarebbero state messe alla prova in quella che si preannunciava una situazione ideale. Cavalcando in formazione serrata, potevamo percorrere cinque o sei miglia all'ora, così calcolai che per raggiungere il luogo dello scontro ci sarebbero volute due ore, durante le quali avrei avuto molte cose cui pensare. Chiamai Cortix e Quinto a cavalcare accanto a me e a Perceval, quindi chiesi loro cosa sapevano riguardo a ciò che ci attendeva: la natura e la configurazione della fascia costiera e la presenza di villaggi e cittadine vicini all'area minacciata. L'unica cosa certa era che l'area di ricerca si trovava cinque miglia a nord del punto di riferimento situato a dieci miglia dal castello. I nemici erano stati avvistati in quel tratto di costa, ma da lì avrebbero potuto proseguire verso nord o verso sud in cerca di un punto ideale in cui sbarcare; era improbabile, infatti, che tentassero di approdare ai piedi di una scogliera a strapiombo che avrebbero dovuto scalare sia all'andata sia al ritorno. Quinto proveniva dal Sud e sapeva ben poco del territorio situato a nord del punto in cui ci trovavamo, ma Cortix aveva una conoscenza approfondita della zona che costituiva il nostro obiettivo. In quel punto la scogliera digradava, ci spiegò, fino a raggiungere il livello del mare. C'era un villaggio di pescatori proprio dietro il posto di guardia dell'undicesimo miglio e da lì una strada si spingeva verso l'entroterra fino alla piccola città di mercato di Lugubria, un punto focale per la zona circostante, in passato saccheggiata più volte, anche se la cosa non si ripeteva da almeno cinque anni. Questo, secondo i calcoli di Cortix, rendeva la città un bersaglio allettante per i predoni in arrivo, soprattutto se alcuni di loro avevano partecipato alle precedenti razzie. Il suo ragionamento sembrava sensato, così cominciammo subito a preparare l'attacco, basandoci sulla strada esistente e sulle buone probabilità che i predoni scegliessero di utilizzarla. Avevamo due possibilità da considerare. La prima, che riuscissimo a raggiungere la costa anticipando il nemico nel suo sbarco. Se la fortuna ci avesse assistiti e fossimo arrivati lì mentre scendevano dalle loro navi, avremmo potuto attaccarli impedendo loro di lasciare la spiaggia per dirigersi verso l'interno. La seconda, che il nemico stesse già approdando, e a quel punto, non avendo il tempo di bloccarlo sulla spiaggia, avremmo dovuto dirigerci verso l'entroterra per intercettarlo lungo la strada. Ma perché la cosa funzionasse avremmo avuto bisogno di un luogo adatto dove tendere un'imboscata e di informazioni affidabili sugli spostamenti del nemico. Ordinai a Griffyd di mandare sei dei suoi uomini più fidati in avanscoperta sulla costa, per localizzare il punto in cui inizialmente erano state avvistate le navi e scoprire dove si trovava adesso il nemico, per poi mandare indietro qualcuno a riferirci tutto. Anche noi avremmo seguito la costa, tenendoci lontani dal mare per non essere visti, e ci saremmo preparati a muoverci verso la spiaggia o verso l'interno non appena ricevuto il rapporto degli esploratori. Fu allora che cominciai a scoprire gli svantaggi del nostro sistema di segnalazione, primo fra tutti che i fuochi potevano essere scorti non solo da una forza navale in avvicinamento, rivelandole di essere stata avvistata, ma da chiunque guardasse dall'entroterra. Le nostre attività durante l'installazione dei posti di guardia erano state osservate attentamente e gli abitanti della costa di Corbenico erano curiosi quanto noi di constatare quanto il sistema fosse efficace. Adesso, mentre cavalcavamo verso nord seguendo il profilo della costa, cominciai a notare altre persone che si dirigevano verso di noi dall'interno. Non erano molte, poiché quella era una parte del regno di Pelles per lo più disabitata, troppo vicina alla costa per offrire sicurezza e tranquillità alla gente che era costretta a viverci, ma arrivavano in gruppetti di due o tre, a volte anche più numerosi, formati da persone che si erano incontrate lungo il tragitto. Così, non avevamo ancora percorso le prime cinque miglia dal castello che avevamo già un corteo di seguaci e curiosi alle nostre spalle. Quando raggiungemmo il posto di guardia del decimo miglio, erano diventati quasi sessanta e minacciavano seriamente di farci scoprire: molti di loro cavalcavano tra noi e il mare, arrivando spesso sull'orlo della scogliera, dove potevano essere visti con facilità da qualunque predone stesse scrutando la costa per verificare la presenza di qualche attività. Tuttavia, quando espressi la mia preoccupazione a Cortix, egli mi schernì. "Che cosa ti aspettavi, che sarebbero rimasti a casa e si sarebbero nascosti sotto il letto? Queste persone abitano qui, Clothar, e sono abituate a subire razzie, perciò giungono sempre in forze o perlomeno in quanti riescono a reclutare in una distanza percorribile a cavallo, di norma non molti. Ma se la razzia è di modesta entità, una o due imbarcazioni, a volte riescono persino a scacciare gli incursori. Questi lo sanno, amico mio, e se li aspettano, perciò non ti agitare. Andrà tutto a nostro vantaggio, aspetta e vedrai." "Non vedo come. Tu che ne pensi, Perceval?" Perceval si limitò ad alzare le spalle e Cortix ci guardò entrambi con aria stupita. "Come potrebbe essere altrimenti? Pensateci! Queste persone sono come ausiliari. I predoni, aspettandoseli, pensano che occuparsene sia parte dell'incursione. E dal nostro punto di vista non può che essere un vantaggio. Se i predoni terranno d'occhio gli abitanti locali, non si aspetteranno di trovare noi, perciò tutto quello che dobbiamo fare è restare nascosti fino al momento di attaccare." Mi ritrovai a sorridere un po'"imbarazzato. "Non ci avevo pensato." "E come avresti potuto? Il loro modo di guerreggiare è diverso dal vostro. Voi ragionate in termini di soldati e schieramenti. Queste persone, invece, pensano solo a difendere le loro case dai saccheggiatori." Di lì a breve, uno dei nostri esploratori tornò per riferirci che il nemico si trovava a quasi un miglio dalla costa e si dirigeva verso la spiaggia indicata da Cortix come il loro probabile punto di sbarco, a poco più di due miglia da noi. Comunicai la notizia agli altri, quindi spronai il cavallo con la mente affollata da pensieri riguardo alle parole di Cortix sui guerrieri locali. Percorremmo l'ultima parte del tragitto alla svelta, finché non avvistammo la pianura erbosa situata dietro la spiaggia: le navi nemiche si trovavano ancora a mezzo miglio dalla costa. I nostri spettatori erano allineati in cima alla scogliera e brandivano le loro armi, del tutto visibili dalle cinque navi che si avvicinavano al litorale a vele spiegate e con l'equipaggio che remava energicamente. Mi tolsi l'elmo, mi coprii la cotta di maglia con il mantello e insieme a Cortix andai a raggiungerli. Là, dove la scogliera alla nostra destra si diradava fino alla spiaggia, lasciando vedere chiaramente cosa c'era sotto, prendemmo gli ultimi accordi; Cortix ordinò ai membri del clan di scendere e andare a posizionarsi sul terreno compatto che si trovava fra la spiaggia e la strada verso l'interno. Nel gruppo c'erano circa cinquanta soldati, tutti a cavallo, e Cortix ribadì che siccome i predoni in arrivo avevano una superiorità numerica di tre a uno, non era il caso di tentare un attacco diretto, ma di avanzare al trotto disposti su un'unica linea, fingendo di non saper bene come attaccare o se addirittura farlo. La nostra cavalleria sarebbe rimasta dietro di loro, fuori dalla vista degli stranieri, mentre il compito dei membri del clan sarebbe stato quello di indurre i predoni a rompere il muro di scudi che avrebbero formato al momento dello sbarco e partire alla carica. A quel punto, alcuni degli uomini del clan - Cortix nominò uno per uno quanti scelti da lui per eseguire quest'ordine - avrebbero fatto dietro front e finto di fuggire in preda al panico, mentre gli altri si sarebbero stretti a formare due gruppi che avrebbero minacciato di attaccare i nemici, prima di separarsi e scappare anche loro dalla spiaggia, seguiti dagli invasori. Il primo gruppo di fuggitivi sarebbe passato proprio accanto a noi, mentre il secondo, nell'abbandonare la spiaggia, si sarebbe diviso in due, lasciandoci lo spazio per andare incontro al nemico. Saremmo avanzati in uno schieramento cuneiforme a tre punte guidato dallo squadrone Bianco, con quello Blu e quello Bianco e Nero posti rispettivamente a sinistra e a destra della punta centrale, e avremmo sfondato la linea nemica nel mezzo, spaccandola in due e disperdendo i gruppi che ne sarebbero rimasti. I Bianchi, seguiti immediatamente dai dieci arcieri a cavallo di Griffyd, si sarebbero diretti a tutta velocità verso la battigia con la speranza di catturare eventuali stranieri a guardia delle imbarcazioni, mentre lo squadrone Blu e quello Bianco e Nero avrebbero fatto una inversione rispettivamente a sinistra e a destra per tornare indietro e colpire il nemico ai lati con un attacco improvviso e vincente. Il piano funzionò alla perfezione, molto meglio, in realtà, di quanto i più ottimisti fra noi avessero sperato. I membri del clan eseguirono alla lettera gli ordini di Cortix e il nemico reagì come previsto. Quando videro la nostra cavalleria andare alla carica verso di loro, gli avversari si erano ormai riversati in massa contro di noi, assetati del sangue dei membri del clan in fuga. Non ebbero l'opportunità né di riorganizzarsi né di reagire in nessun modo, se non sparpagliandosi per evitare la folla dei nostri in avvicinamento, ed era la cosa peggiore che potessero fare. Il nostro primo attacco li decimò: già solo il peso dei nostri cavalli e delle nostre lunghissime lance fece a pezzi i loro nervi e la loro sicurezza, lasciando sulla sabbia dozzine di corpi inerti. Lo squadrone dei Bianchi, il primo ad attraversare lo scompiglio delle file nemiche, si riversò con fragore direttamente sulla battigia, dove falciò la ventina di uomini di guardia alle imbarcazioni appena approdate, mentre gli arcieri dei Pendragon formarono una linea e cominciarono ad abbattere i predoni rimasti a bordo a comandare le cinque navi in attesa. Era evidente che quegli stranieri non avevano mai avuto a che fare con archi di quella portata e di quella precisione, perché sottovalutarono il pericolo esponendosi a un attacco inesorabile e fatale. Nel frattempo, i restanti due squadroni a cavallo avevano effettuato un'inversione per abbandonare lo schieramento cuneiforme e si erano di nuovo disposti in formazione compatta, con due file di venti uomini ciascuna, lasciando fra un cavallo e l'altro soltanto lo spazio necessario a far passare i cavalieri provenienti dalla direzione opposta. Così attaccarono ancora una volta il nemico da entrambi i lati, separati da una distanza di dieci cavalli: i nemici superstiti, barcollanti dopo la prima carica, furono colpiti dal secondo attacco mentre erano ancora disorientati. Fu una vera carneficina e anche il miglior esempio delle potenzialità tattiche della nostra cavalleria che potessimo fornire. Il massacro - poiché non si poteva assolutamente definire un combattimento - si concluse in pochi minuti, con un'unica perdita da parte nostra, una delle reclute di Corbenico, che morì, però, in modo del tutto accidentale: il suo cavallo s'impennò ed egli cadde a terra spezzandosi il collo. Contammo ottanta morti fra i nemici sul luogo diretto della strage e altri ventidue sulla battigia, ma c'era ancora un numero imprecisato di vittime a bordo delle cinque navi, che si erano tolte alla svelta dalla portata dei nostri arcieri. Arrotondammo a una sessantina il numero di superstiti, molti dei quali feriti, che avevano perso del tutto il loro spirito combattivo. Con gli occhi sbarrati per lo shock si accalcarono sulla sabbia, osservandoci con un'espressione di puro terrore sul volto, convinti che sarebbero stati uccisi all'istante. Mentre ci guardavano, ordinai al mio trombettiere di suonare l'adunata e i nostri tre squadroni si riunirono in silenzio nelle loro formazioni, quindi rimasero immobili a fissare il mare e il mucchio di prigionieri che avevano di fronte. Li lasciai lì in silenzio e mi incamminai verso i prigionieri accompagnato da Perceval, Milo e Cortix e seguito dai miei tre comandanti di squadrone e da sei capisquadra allineati dietro di loro. Nessuno si muoveva né parlava. Alla fine, quando ritenni che l'ansia dei prigionieri fosse giunta al culmine, mi rivolsi a colui che reputai il capo e indicai con una mano in direzione delle loro navi. Quello mi guardò con volto inespressivo, e io ripetei il gesto, stavolta con più insistenza, invitandoli ad andarsene. Il tizio batté le palpebre ripetutamente, guardando con aria perplessa prima me, poi i suoi compagni più vicini, quindi con un misto di esitazione e incredulità i prigionieri cominciarono ad allontanarsi verso il mare, senza mai voltarci le spalle, evidentemente per timore di essere giustiziati da un momento all'altro. Aspettai che fossero abbastanza lontani, dopodiché ordinai ai miei ufficiali di seguirmi, girai il cavallo e tornai al trotto dai miei uomini. Solo allora i prigionieri si resero conto che sarebbero rimasti in vita, così si voltarono e si accalcarono verso la battigia, facendo segno alle navi che li aspettassero. Ma le navi non tentavano nemmeno di avvicinarsi alla terraferma, a quanto pare per non rischiare di esporsi a un altro attacco dei nostri arcieri; così diedi ordine alle mie truppe di ritirarsi al margine estremo della spiaggia e di riorganizzarsi lì in uno schieramento allungato composto da due file. Tuttavia, mentre ci preparavamo alle nuove disposizioni, uno dei prigionieri si separò dai compagni, si mise a correre verso di noi per poi chinarsi ad afferrare una pesante ascia da guerra con la lama a doppio taglio. Forse voleva soltanto riprendersi l'arma e tornare dai suoi uomini, ma morì prima che potesse drizzare la schiena, trafitto in un batter d'occhio da due frecce dei Pendragon. La sua morte cancellò ogni traccia di resistenza da parte dei nemici, che osservammo camminare nell'acqua fino a raggiungere le loro navi, alla fine avvicinatesi abbastanza da permettere ai sopravvissuti di salire a bordo. "Sapevo che li avresti lasciati andare" mormorò Cortix alle mie spalle. "Ma perché?" Continuai a fissare i predoni. "Quelli sono i nostri messaggeri, Cortix. Se fossero semplicemente scomparsi, con tutta probabilità la loro gente li avrebbe creduti dispersi in mare durante una tempesta. Ora tutti quelli che incontreranno sapranno dove sono andati e cosa hanno trovato al loro arrivo. Quelle cinque navi non torneranno più qui e chissà quante altre seguiranno il loro esempio! Dillo ai tuoi uomini, amico mio, perché sono certo che ti chiederanno spiegazioni. È probabile che ora vedano pochi benefici nel lasciare quei lupi liberi di uccidere ancora, ma è soltanto perché in passato hanno subito il loro feroce attacco. Quando avrai spiegato le ragioni per cui li ho lasciati andare, sono certo che i membri del tuo clan la riterranno una scelta ragionevole." Mi rivolsi a Perceval. "A quanto pare il nostro compito qui è finito. Suona l'adunata e andiamo a casa." "E i corpi?" Fu di nuovo Cortix a parlare. "Hai intenzione di lasciarli lì?" Mi guardai attorno. "Tu che cosa proponi? Di seppellirli nella sabbia? Verranno portati via dal mare. E poi dubito che avremmo i mezzi per scavare lassù, oltre la spiaggia, una fossa grande a sufficienza da contenerli tutti. E qui intorno non c'è abbastanza legna per bruciarli. Ottanta cadaveri richiederebbero un intero bosco di tronchi secchi. Secondo me, è meglio lasciarli dove sono, così la marea potrà portarne via almeno un po'. Per qualche settimana lasceranno odore di cadavere, ma gli uccelli e gli animali ne faranno presto piazza pulita, e se i tuoi pescatori passeranno di qua, non dovranno far altro che evitarli." Cortix guardò i corpi un'ultima volta e scrollò le spalle. "Hai ragione. Andiamo a casa." II Il pomeriggio seguente, re Pelles mi invitò a cenare con lui la sera dopo, per discutere dell'incursione ed esprimermi la sua gratitudine per aver dimostrato quanto fosse valida la sua idea originale di creare una cavalleria a Corbenico. Da quando eravamo tornati, ovviamente, lo scontro con i predoni era stato al centro dell'attenzione di tutti; i Rossi e i Dorati erano smaniosi di sentire i dettagli di quanto accaduto, e gli altri, in particolare le reclute di Corbenico che avevano preso parte all'operazione, erano impazienti di raccontare. C'era un nuovo entusiasmo fra gli uomini. L'addestramento si era rivelato efficace e quel primo successo contro un vero nemico ne era stato la chiara dimostrazione, oltre che una ricompensa per i mesi di lavoro cui erano stati sottoposti per arrivare a quel punto. Tutti i membri del comando, dai soldati più anziani ai comandanti di squadrone, attribuirono a quella giornata il merito di aver cambiato l'atteggiamento di molti allievi, persino dei più bravi. Dissi a Perceval dell'invito di Pelles e gli chiesi di accompagnarmi ma, come avevo previsto, lui rifiutò. Preferiva trascorrere il tempo libero in compagnia dei suoi uomini, piuttosto che sprecarlo partecipando a una serata formale come quella. Condividevo il suo pensiero, ma avevo il dovere di incontrare il sovrano, così il pomeriggio seguente, una volta portati a termine i miei compiti quotidiani, intrapresi la cavalcata di due ore che mi avrebbe condotto alla villa di Pelles. Quella sera sua madre e le sue due sorelle si unirono a noi per la cena, un evento per pochi intimi che vide presenti solo noi cinque e un'orda di servitori. Finalmente avevo l'occasione di incontrare quelle donne in circostanze normali, senza che né loro né il re fossero in pericolo. Trovai molto piacevole quella compagnia a tavola, nonostante il carattere della matrona Catalina, che sembrava una donna alquanto arcigna, con uno spirito mordace e pungente. A mano a mano che la cena proseguiva, tuttavia, cominciai a prenderla in simpatia, dimenticando la sua iniziale e sconcertante aria altezzosa, e ben presto scoprii con sollievo che dietro a quell'austera facciata si nascondeva una persona del tutto diversa, una donna divertente, arguta e dalla spiccata intelligenza, in grado di ascoltare e di conversare di qualsiasi argomento, dando prova di essere intuitiva, provocatrice, schietta e piuttosto cinica nei confronti degli uomini e delle loro motivazioni. Il suo spirito acuto, in quella circostanza, mi sembrò ancor più caustico che in precedenza, quando la donna aveva dovuto mantenere un atteggiamento formale. Era ovvio che le andavo a genio, in primo luogo per i servigi che avevo reso a lei e alla sua famiglia, e in secondo luogo perché adesso sapeva che eravamo uniti da un legame di sangue e non avevo alcuna ambizione di regnare in Gallia. Evidentemente condivideva il giudizio del figlio su quell'argomento e di questo ero contento, perché avevo il sentore che non fosse troppo facile entrare nelle sue grazie. Così, l'iniziale soggezione provata nei confronti di quella temibile signora svanì in fretta, e ben presto trovai facile e stimolante discorrere con lei dei progetti che io e suo figlio avevamo ideato per difendere il regno, e persino chiederne il parere per poi ascoltare con deferenza mentre, nell'esprimerlo, dimostrava una conoscenza approfondita delle realtà di Corbenico, ancora estranea, invece, a gran parte dei funzionari del figlio. Affascinato com'ero da Catalina e dalle opinioni che questa aveva su tutto, mi sembrò che la cena trascorresse in fretta e in modo assai piacevole. Le due figlie, al contrario, erano di tutt'altra pasta. Lena, la maggiore, era tanto riservata e taciturna da risultare quasi maleducata, mentre la sorella più giovane, Serena, era talmente espansiva con me che più di una volta mi sembrò addirittura civettuola. Avevo la netta sensazione che si sarebbe dimostrata persino più affabile nei miei confronti se non ci fosse stata la madre, e in seguito ad alcuni suoi commenti fatti apparentemente con gaia innocenza, Catalina le rivolse un'occhiataccia. Uno di questi, l'unico che a mio avviso si potesse considerare abbastanza esplicito - e anche il primo a destare il mio interesse e a spingermi ad ascoltare con più attenzione da lì in avanti - riguardava il fatto che Serena aveva sentito dire grandi cose sulla mia lancia e che era impaziente di vederla in azione. Dopo quelle parole, la madre le lanciò uno sguardo gelido che avrebbe fulminato persino una pietra, ma Serena la ignorò allegramente e si limitò a rivolgermi un sorriso malizioso, grazie al quale le si formarono le fossette sulle guance. Entrambe le sorelle erano più grandi di Pelles, il quale, mi resi conto, era rimasto in silenzio per quasi tutta la cena ad ascoltare la conversazione fra me e sua madre, senza tentare mai di interromperci o di partecipare in qualche modo. Lo guardai diverse volte mentre la madre parlava, ma alla fine capii che per lui era già una gioia stare seduto assieme a noi ad ascoltare quanto avevamo da dire e pensai che la cosa dipendesse dal fatto che, fino a qualche mese prima, era convinto di aver perso per sempre la madre e le sorelle e di essere sul punto di morire. Secondo i miei calcoli il re doveva avere cinque anni più di me, vale a dire ventisette, quindi ipotizzai che le sorelle avessero dai cinque ai dieci anni più di lui, anche se per me era sempre stato molto difficile indovinare con esattezza l'età delle donne a causa degli artifici cui spesso ricorrevano per mascherarla. Considerando che aveva un figlio diciassettenne e che, come avevo sentito dire, si era sposata tardi, Lena doveva avere almeno quarant'anni. Serena, invece, poteva avere un'età compresa fra i trentadue e trentasei anni. Aveva un'unica figlia di sette anni ed era vedova da sei. Ricordo che allora, avendo io ventidue anni, la considerai vecchia. Terminata la cena, le donne si ritirarono e Pelles versò subito a entrambi una coppa del suo vino preferito, per poi avvicinare due sedie al fuoco e farmi segno di raggiungerlo. Era molto eccitato per il modo in cui si era concluso il nostro primo attacco ai Danesi sebbene io non fossi del tutto sicuro che i predoni appartenessero a quel popolo - e volle sapere per filo e per segno cosa mi era passato per la testa dal momento in cui avevo saputo dell'avvistamento. Feci del mio meglio per raccontargli tutto ciò che riuscivo a ricordare e, quando ebbi finito, volle che lo informassi il più possibile riguardo ai progressi delle sue reclute e ai potenziali ufficiali che avevamo individuato nella prima leva. Quella sera parlammo a lungo, disturbati di tanto in tanto solo dai servitori che venivano a ravvivare il fuoco, e quando ci ritirammo, doveva essere quasi mezzanotte. Arrivato nelle mie stanze, trovai un giovane appisolato che, svegliatosi di soprassalto, balzò in piedi dicendo che mi aspettava per aiutarmi a togliere gli abiti e a prepararmi per la notte. Lo ringraziai e lo mandai a dormire, spiegandogli che ero capacissimo di spogliarmi da solo; quindi, non appena se ne fu andato, mi levai le vesti di seta e mi infilai dentro il letto, con gli occhi stanchi e annebbiati. Ma era una di quelle notti in cui Elaine, o una sorta di spirito che prendeva le sue sembianze, sembrava decisa a non farmi riposare. Prima di riuscire finalmente a prendere sonno mi appisolai e mi risvegliai irrequieto e fisicamente eccitato per ben tre volte. Poi mi destai di nuovo, ritrovandomi, però, in una sorta di sogno a occhi aperti, in cui una mano stringeva delicatamente il mio membro inturgidito e un corpo caldo e morbido premeva contro di me, con una pesante coscia appoggiata sopra la mia. Si trattava di Serena, e avrei anche potuto resisterle e mandarla via in modo garbato, se non fossi stato così pronto a ricevere ciò che lei aveva da offrirmi. E lo ero davvero, perciò accettai volentieri, senza protestare. Poco prima che giungesse il mattino, Serena si alzò e sgattaiolò via dalla stanza; mentre facevo il bagno e mi vestivo, mi ritrovai a pensare di aver commesso un grave errore ad accettare i suoi favori e mi sentii piuttosto in colpa per averla assecondata in quel modo dopo che si era infilata nel mio letto. Non avevamo scambiato neanche una parola durante quell'episodio, ci eravamo soltanto avvinghiati, spinti dal desiderio, per poi restare abbracciati in silenzio, muovendoci all'unisono in modo voluttuoso e pigro, accarezzandoci e toccandoci a vicenda finché non ci eravamo sentiti pronti a ricominciare tutto da capo. Avevo perso il conto delle volte che ci eravamo uniti carnalmente, ma mi sentivo soddisfatto e ringiovanito; il mio unico timore era che la stessa Serena potesse tradirsi e rivelare, anche involontariamente, quanto accaduto fra noi. Soltanto una volta vestito e pronto a dirigermi nelle stanze del re, cominciai a domandarmi come avrei dovuto comportarmi nei confronti di quella donna da allora in poi. In realtà non avevo motivo di preoccuparmi. Quando entrai nella stanza in cui il re riceveva le sue visite, Serena era lì e mi salutò con estrema disinvoltura, come se non ci fossimo mai sfiorati neanche con un dito, mai accoppiati come stallone e giumenta per quasi tutta la notte. Mi comportai allo stesso modo e da quel momento ebbe inizio la nostra relazione, un rapporto non molto assiduo, poiché trascorrevo pochissimo tempo nella villa del re. Ma ogni volta che vi alloggiavo, di notte Serena veniva a trovarmi, e mentre ce ne stavamo a letto abbracciati, imparammo a parlare in modo sincero e diretto. Era una donna robusta, ma non grassa, dalle forme generose, con il seno grosso e straripante, l'addome morbido e rotondo, le cosce piene e pesanti, e la pelle incredibilmente morbida e rosea, raggiante di vitalità. "Avevi paura che potessi tradirti?" mi chiese quando s'infilò nel mio letto la volta successiva; mi appoggiai su un gomito per risponderle. Avevo lasciato acceso un lume, con la speranza che venisse da me, e lei non mi aveva fatto attendere a lungo. Adesso era sdraiata lì accanto e mi sorrideva, il suo grazioso corpo abbandonato con fare sensuale e in totale rilassatezza, mentre la luce della lampada proiettava ombre dorate negli incavi della sua figura. "Non avevo paura" replicai. "Al massimo... qualche dubbio." "Mmm." Si spostò pigramente per avvicinare il bacino al mio fianco. "Bene, mio signore della lancia, puoi stare tranquillo, perché nonostante la sfacciataggine che ho dimostrato a cena la prima sera, so anche essere discreta." "Quando hai fatto quel commento sulla mia lancia, tua madre non sembrava pensarla allo stesso modo. Ho temuto smettesse di respirare." "Lo so, ho creduto succedesse la stessa cosa anche a te. Avevi un'espressione che era un tale spasso. Pensavi, forse, di non aver sentito bene? Dovevo pur mettere alla prova la tua tempra prima di infilarmi nel tuo letto. Avresti potuto cacciarmi. Non potevo rischiare di essere respinta dal primo uomo che sceglievo dopo anni." Avevo seri dubbi riguardo all'ultima affermazione, ma non dissi nulla. Serena non mi sembrava il tipo di donna in grado di privarsi del piacere per anni, ma ero abbastanza sveglio da capire che la cosa non mi riguardava. A preoccuparmi, invece, era che la madre potesse insospettirsi a tal punto da cercare di scoprire cosa facesse la figlia dopo che tutti nella villa erano andati a dormire. "Tua madre... è possibile che abbia dei sospetti su... quello che stiamo facendo?" Le sue dita curiose si diressero verso il mio addome, palpandomi con cura. "Mia madre? Certo. Conosce le sue figlie e non è affatto stupida, per questo non dirà nulla, nemmeno se ci trova insieme. Sono la più giovane delle sue figlie, ma ho anche trentasei anni e sono una vedova rispettabile e la mia cara mamma sa bene cosa spinge le donne a comportarsi in un certo modo. Se avesse vent'anni di meno, ora sarebbe al mio posto." Non sapevo come reagire davanti a una rivelazione così sconcertante, ma Serena non si aspettava affatto che rispondessi: le sue dita cercavano una risposta di tutt'altro genere. "Ti ho desiderato fin dal primo istante in cui ti ho visto," disse, con la voce di nuovo roca per l'eccitazione "quando sei venuto a salvarci nella villa di Baldwin. Erano anni che non incontravo un uomo che non puzzasse come un caprone. E ora che ho avuto il piacere di conoscerti più a fondo, non voglio rischiare di perdere quello che ho trovato, perciò ti tratterò come un gradito ospite di famiglia ogni volta che verrai e spero che tu vorrai trattarmi come una gradita fonte di piacere ogni volta che ti ritirerai nelle tue stanze. Che ne pensi?" Le sorrisi. "Stai dicendo che mi vuoi solo perché sono pulito e puoi trarre piacere dal mio corpo?" "Esattamente. E in futuro spero di trarne molto di più... molto, molto di più..." "Non sarà mica incesto? Siamo cugini, lo sai." Scoppiò a ridere e attirò la mia testa sui suoi seni, infilandomi un capezzolo in bocca. "Alla lontana, caro cugino, anche se siamo così intimi..." Per un lungo intervallo non ci fu bisogno di parlare e da quel momento smisi di interrogarmi su noi due. Nei mesi successivi diventammo buoni amici, senza mai averlo desiderato. Serena possedeva un senso dell'umorismo frizzante e malizioso, tanto che riusciva a farmi ridere persino nei momenti più bui, e la nostra condotta di giorno, quando eravamo lontani dalla camera da letto, divenne così naturale e spontanea che persino i sospetti di Catalina alla fine si placarono, anche se suppongo che si sia chiesta come mai le mie visite alla villa fossero diventate all'improvviso così frequenti. Per fortuna, per mettere a tacere qualunque sospetto, riuscivo sempre a trovare motivazioni plausibili per recarmi alla villa a conferire con Pelles, finché questi non si rimise abbastanza in forze da poter uscire di nuovo a cavallo; a quel punto le mie visite ripresero con una frequenza del tutto rispettabile, che non destasse alcun sospetto. III La flotta di Connor Mac Athol, ormai di ritorno, fu avvistata il secondo giorno di settembre. Mi diressi subito al porto, ma passai l'intera giornata ad angustiarmi senza poter fare nulla, mentre le sue navi tentavano di raggiungere la costa lottando contro un forte vento di terra. Guardare dalla cima della scogliera i suoi pesanti vascelli arrancare per le raffiche intermittenti e i turbinii improvvisi, che spesso li respingevano al largo, mi fece riconsiderare del tutto le difficoltà cui devono sottoporsi i marinai per via dei capricci del clima e, benché fossi impaziente di vedere arrivare Connor a riva, in un certo senso ero anche soddisfatto perché sapevo che il suo avanzare così lento non significava che non avesse voglia di raggiungermi. La mia frustrazione, invece, derivava in gran parte dalla smania di sapere quali notizie portava da Camelot. Erano trascorsi quasi sei mesi da quando ero partito da casa e continuavo a pensare a tutte le cose, reali o immaginarie, che potevano essere accadute in mia assenza. Non riuscivo a credere a nessuna di esse, poiché erano soltanto fantasie prive di fondamento, ma l'insieme di quelle eventualità mi faceva morire d'impazienza. Il giovane Bors, a capo del nuovo scaglione di reclute in arrivo da Camelot, era laggiù, da qualche parte in mezzo al mare, ma sapevo che non lo avrei rivisto finché non avesse portato a termine il suo compito di supervisionare lo sbarco e il trasferimento di uomini, cavalli e attrezzature, cosa che sarebbe durata per il resto di quella giornata e gran parte della successiva. Avevo già ordinato al capo dello squadrone Rosso, quel giorno di guardia sulla spiaggia, di riferirgli che lo avrei aspettato al castello il pomeriggio seguente, sul tardi. Per il momento la mia unica preoccupazione era Connor: finché la flotta non fosse entrata sana e salva nel porto e tutti i membri del suo equipaggio non fossero sbarcati, sarebbe rimasto, almeno sulla carta, al comando di quell'operazione, per non abbandonare gli incarichi a lui assegnati. Ma ero certo che, non appena fosse stato in grado, avrebbe affidato ogni responsabilità al capitano della sua flotta e al suo straordinario equipaggio. "Sono vecchio ormai e ho una gamba sola," mi aveva detto a giugno, prima di partire di nuovo alla volta della Britannia "e mi fa male stare in piedi sul moncone per troppo tempo. Così ho addestrato Shaun Dito Indice a svolgere le mansioni al mio posto, all'inizio e alla fine del viaggio, e lui ha insegnato a un branco di pivelli a eseguire alla lettera i suoi ordini. Lascio a lui tutta la responsabilità e sono lieto di poterlo fare. Ha soltanto una mano siamo una bella coppia di menomati, noi due - ma per indicare, quella gli basta, e ha buoni polmoni per gridare, perciò nessuno potrà mai avere dubbi su chi sta indicando o su cosa sta dicendo. Shaun è il mio fedele e leale segugio, pertanto lascio che sia lui a occuparsi della caccia sia all'inizio sia alla fine del viaggio, mentre io osservo in silenzio. Semplifica la vita a entrambi." Alla fine, quel pomeriggio tardi, quando il sole era già basso nel cielo, la galea di Connor attraccò al molo e io lo vidi scendere a riva, reggendosi al paranco costruito sulla sua nave appositamente per quello scopo, quindi barcollare per qualche istante, prima di riacquistare l'equilibrio dopo tante settimane passate a bordo della nave. Aveva visto già da un pezzo che ero là ad aspettarlo e mi accolse con un abbraccio caloroso, mentre inveiva allegramente contro i venti capricciosi; poi si allontanò di nuovo e cominciò a schierare le sue truppe per lo sbarco, che sarebbe proseguito fino a tarda sera, per poi riprendere all'alba con l'attracco di nuove navi. Tornai sulla scogliera che sovrastava il piccolo porto, dove mi sedetti a osservare sconsolato e impotente l'attività sempre più frenetica che si svolgeva sotto di me, con la sola alternativa di aspettare che Connor ritenesse di poter affidare tranquillamente i restanti compiti a Shaun Dito Indice e alla sua banda. Lo fece che era ormai quasi buio, e per poco non scoppiai a ridere dallo stupore quando lo vidi risalire il pendio che scendeva fino alla spiaggia guidato da due dei miei soldati, ognuno con una torcia accesa. Connor, il marinaio da una gamba sola, non era mai stato un abile cavallerizzo e a causa del suo arto di legno gli risultava difficile confrontarsi con i ripidi pendii. Così gli avevo messo a disposizione un carretto a due ruote comodo e ben ammortizzato che lo aspettava in cima alla salita. Connor, dopo aver lanciato alcune grosse bisacce sul retro del carro, si issò senza difficoltà e andò a occupare il posto del conducente. Legai il mio cavallo dietro il carretto e lo trainai per sei miglia, dalla costa fino al castello. "È tutta roba per te, da Camelot" grugnì Connor, indicandomi le borse. "Per lo più da parte di Merlino. Lì in mezzo dovrebbe esserci anche una lettera che ti ha mandato il re. Questi documenti aspettano di essere letti da settimane ormai, alcuni forse da mesi." "L'inchiostro non sbiadirà certo durante la notte" osservai. "È di notizie che sono avido, di pettegolezzi su un posto che non sia questo, per una volta. Com'è andato il tuo ritorno a casa? Sei arrivato nei tempi prestabiliti, quindi presumo tu non abbia incontrato grossi impedimenti. I tuoi concittadini sono soddisfatti di quanto trovato da te durante il primo viaggio?" "Sì, abbastanza, ma non c'era niente che potesse davvero farli sorridere. Lo sapevo fin dalla nostra partenza: li avevo avvisati di non aspettarsi miracoli, eppure speravano di ricevere più di quanto ho portato loro. Non è sempre così che vanno le cose? La gente se ne sta a casa a fare nulla e poi si aspetta l'impossibile da quelli che partono per cercare di ottenere qualcosa." "Sembri amareggiato." "Bè, lo sono stato, ma c'era da aspettarselo. A ogni modo, l'importante è che siamo approdati qui con successo e abbiamo gettato le basi per ottenere cose sempre migliori, adesso e in futuro. Così sono tornato con maggiore consapevolezza di ciò che ci serve veramente: risparmiare tempo, riducendo il numero di viaggi e l'intervallo che occorre per scaricare una nave e ricaricarne un'altra. L'ultima volta ci abbiamo impiegato decisamente troppo e abbiamo perso quasi un mese. Non possiamo permettere che accada di nuovo. Ebbene, i fabbri hanno lavorato per noi durante la nostra assenza?" "Sì, e in modo impressionante. Ci sono armi e armature ammassate ovunque, ma lontane dalla spiaggia in modo che non intralcino le operazioni di sbarco; da lì potrete caricarle facilmente non appena avrete finito. Lucio Genaro ha trattato con i fornitori e sembra molto soddisfatto. Se avesse avuto qualche rimostranza, me ne avrebbe parlato." "Le armature sono un'altra cosa che vorrei cambiare. Prenderò quelle già pronte perché sono stato io a richiederle, ma durante l'ultimo viaggio mi sono reso conto che trasportare il metallo comporta troppe difficoltà, non ne vale la pena. Ci serve soprattutto riempire le nostre stive di armi da taglio: spade, pugnali, lance e teste d'ascia. E di pelli bovine per le corazze. Non ci avevo pensato prima, ma possiamo benissimo fabbricarcele da soli: con il cuoio bollito, battuto più volte ed essiccato faremo pettorali, gambali ed elmi. Se lavorato bene è resistente quanto il ferro, ma per ottenere un buon risultato abbiamo bisogno di più pelle di quanta ne possediamo al momento. Abbiamo bisogno che tutto il nostro bestiame rimanga in vita e che si riproduca. Perciò ora comprerò pelli essiccate, conciate e imballate, da caricare la prossima volta. Saranno molto più semplici da stivare a bordo rispetto alle armature di ferro. Anche gli scudi possiamo fabbricarli in patria, così come le aste delle lance e i manici delle asce." Mentre lo ascoltavo annuivo colpito, ma non sorpreso che avesse individuato subito le sue priorità. Soltanto quando fui sicuro che non avesse altro da aggiungere, insistetti perché soddisfacesse le mie curiosità. "Dunque dimmi, ti prego, com'era la situazione a Camelot quando eri là?" Connor tirò su con il naso, per poi allungare le braccia e drizzare la schiena. "Più o meno come al solito... Donuil e Shelagh, sua moglie, si assumono la responsabilità di ogni cosa quando Merlino è via; mi hanno fatto trovare loro tutto pronto, come promesso. Eppure questa volta, stranamente, Merlino c'era, anche se si è fatto vedere solo il giorno in cui dovevo ripartire. Artù, invece, stando a quanto mi ha riferito Merlino, era impegnato in una campagna al Nord e mancava da più di un mese." "Una campagna?" Non mi aspettavo una notizia del genere e sperai che la cosa non avesse a che fare con Connlyn, un signore della guerra. "Contro chi? Quanto tempo fa è accaduto?" "Quindici giorni fa, mentre ero lì, ma se vuoi informazioni più recenti devi chiederle a qualcun altro. Il tuo uomo, Bors, saprà tutto. Non mi sono più fermato a Camelot mentre tornavo a Dalriada. Non ne ho avuto il tempo. Ho lasciato tutto il carico di Camelot a Glevum e fatto vela verso nord con la mia roba. Anche lì non ho avuto il tempo per molto altro, a parte preparare il carico e portarlo a bordo. Tutto quello che so l'ho sentito dire da altre persone: ci sono dei problemi da qualche parte al Nord, dal vostro versante del Vallo. Hanno fatto alcuni nomi, ma nessuno di essi mi diceva niente, così ho lasciato stare. Artù si è sposato, lo sai?" Rimasi a bocca aperta. La disinvoltura con cui mi aveva annunciato quell'evento mi lasciò senza voce e, mentre cercavo di digerire la notizia, cominciai ad agitarmi. Quello che aveva detto mi era chiaro, ma le parole gli erano uscite dalla bocca come se non avessero nessun significato particolare. Provai una fitta di dolore, persino di gelosia, al pensiero che Artù avesse compiuto un passo così importante senza che io fossi lì a condividere la sua gioia. Mi pesava soprattutto il fatto che, dopo le numerose volte in cui si era aperto con me e aveva affermato con veemenza di non voler prendere moglie, non mi avesse neppure informato delle sue intenzioni. Ma poi il mio buon senso prevalse sulla stupidità e mi vergognai di aver anche solo pensato una cosa simile. Artù Pendragon era prima di tutto il mio re, poi il mio amico; se c'era qualcuno che aveva degli obblighi verso l'altro, quello ero solamente io. Egli non era affatto tenuto a consultarmi per qualsiasi decisione né tanto meno informarmi di qualunque cosa gli passasse per la testa. Ma per quanto mi sforzassi di dominare i pensieri e le emozioni contrastanti che si affollavano dentro di me, un dolore profondo, che a malincuore riconobbi derivare da quello che la parte più intima di me percepiva come un tradimento, minacciava di serrarmi la gola. Quell'istante davanti a Connor, del tutto ignaro del danno che mi aveva arrecato con un'unica breve affermazione, mi era sembrato interminabile. Artù si era sposato. Alla fine riuscii a respirare con calma, stupito che il mio interlocutore non avesse notato nulla di strano, e quando gli risposi mi sforzai di sembrare disinvolto. "Sposato? Il re? È una cosa davvero... inaspettata. Quando è successo?" "In primavera, mi pare, durante il nostro primo viaggio qui. Non chiedermi il giorno preciso, perché non lo so. Ricordo solo che quando siamo tornati a Glevum per scaricare, ci attendeva la notizia che il re aveva preso moglie." "Quindi le nozze devono essere avvenute poche settimane dopo la nostra partenza... ad aprile o a maggio." Mi sforzai di ridere. "È tipico di Artù, non perdersi in chiacchiere. Ma dove ha trovato una sposa in così poco tempo? Non che in questi ultimi anni gli siano mancate pretendenti." "È stata lei a trovare lui, a quanto ho sentito. O meglio, è stato suo padre. Un re del Nordovest, di un posto lontano da Camelot e forse più vicino alle nostre isole che ai possedimenti di Artù. La vecchia fortezza dei legionari che si trova lassù, quella grande... come si chiama?" "Deva? Stai parlando di Chester, il regno di Simmaco?" "Sì, è proprio quello il posto e anche l'uomo. Simmaco. Che razza di nome è?" "È romano. Gesù, dunque ha sposato Cynthia. L'avevo messo in guardia da quella donna." Connor ora mi guardava in modo strano, con un sopracciglio inarcato. "Tu lo hai messo in guardia da lei?" "È una storia lunga, Connor. Una volta l'ho incontrata e non ci siamo piaciuti per niente... non posso credere che Artù l'abbia sposata. Quella donna è in grado di amare soltanto se stessa." "Sì, bè, questa è la tua opinione e potresti anche avere ragione, ma tu sei solo un lanciere acclamato. Pendragon è un re, e quelli del suo rango sposerebbero anche una donna gobba e strabica, con i peli sotto il mento e i porri, se fosse necessario per garantire la prosperità e la difesa del proprio regno. E, se la cosa è avvenuta così in fretta come mi hanno riferito, immagino che il tuo amico Artù abbia avuto i suoi buoni motivi per compiere un tale gesto... e l'amore, sempre ammesso che ve ne fosse, deve essere stato in assoluto il fattore meno importante." "Lo so, lo so... hai ragione ma, dolcissimo Gesù, con quella si è accollato un vero fardello. Una volta ne parlammo e lo avvisai di stare alla larga da lei... gli dissi che quella donna, a causa del suo egoismo e della sua pessima condotta, lo avrebbe portato alla morte o lo avrebbero spinto a ucciderla. Cynthia di Chester! Non posso crederci..." Mi resi conto che stavo parlando troppo e che rischiavo di tradire una confidenza fattami, così cambiai argomento. "Quanti uomini hai portato con te stavolta?" "Intendi uomini di Camelot, per te? Duecento fra soldati e ufficiali, più il solito seguito... cuochi, stallieri, carpentieri, addetti al montaggio delle tende, sei scalpellini e qualche fabbro. In totale, l'elenco conta duecentoquarantatré anime, più tutti i cavalli, i bagagli e gli attrezzi. Come avrai visto, stavolta abbiamo portato una flotta più numerosa. Dodici grosse navi da carico in più." Si stiracchiò sul sedile per poi guardarsi intorno nell'oscurità. "Dove mi stai portando? Siamo in viaggio da ore e davanti a noi ancora non si vede neanche una maledetta luce." "Il forte è lì, nascosto dietro questa altura. Arriveremo presto." "Non abbastanza" borbottò Connor. "Sono abituato a viaggiare per mare, io... con questo coso sotto il mio vecchio culo secco sento ogni sasso che pestiamo." Quando finalmente superammo la bassa vetta, avvistando il forte in lontananza, Connor rimase sbalordito, e anch'io, perché era la prima volta che lo vedevo di notte da una certa distanza. Era una vista che scoraggiava e intimoriva persino al buio, con il bagliore dei numerosi fuochi di guardia da cui si diffondevano chiazze di luce che mettevano in evidenza le imponenti mura e le merlature. Vedendo il forte, Connor, stupito, borbottò qualcosa, ma non disse altro finché le sentinelle non ci diedero il chi va là e ci lasciarono passare oltre il cancello principale sotto le torri difensive che lo fiancheggiavano. Una volta dentro, lo aiutai a scendere, aspettando che piantasse saldamente il suo arto di legno sui ciottoli, prima di affidare il carro e gli animali allo stalliere di turno, quindi lo condussi verso la sezione amministrativa principale. Lanciai le bisacce sulla mia scrivania e con un gesto del braccio indicai la stanza. "Come vedi, non manca quasi niente ormai. È tutta un'altra cosa rispetto alle tende sul fianco della collina che piantammo il giorno del nostro arrivo cinque mesi fa." "È vero, te lo concedo." Connor stava ancora studiando la stanza e, mentre seguivo il suo sguardo, cominciai a rendermi conto per la prima volta degli enormi progressi che avevamo fatto in così poco tempo. L'enorme spazio era illuminato a giorno da due grandi fuochi, che ardevano uno a un capo e uno all'altro della sala principale, oltre che da una sfilza di luminose torce montate su alcuni supporti lungo la parete e da un copioso numero di candele e ceri collocati sulla fila centrale dei tavoli, dove alcuni dei chierici di Dynas stavano ancora lavorando, nonostante l'ora tarda. I tavoli centrali erano muniti di alti divisori rivestiti di scaffali e armadietti, che erano già quasi colmi di pergamene e registri; io e Connor ci fermammo un istante a guardare uno scrivano che riordinava alcuni libri, assicurandosi che ognuno fosse al proprio posto. "Andiamo, ti mostrerò la sala da pranzo degli ufficiali, dopodiché uno dei nostri soldati ti condurrà al tuo alloggio e poi a fare un bagno, se ti va." Connor annuì e mi seguì nel locale cupo ma ben arredato che costituiva lo spazio comune in cui tutti gli ufficiali si riunivano quando erano fuori servizio e, dopo che ebbe ispezionato ogni cosa con cura, annuì di nuovo. "A Camelot non esiste nulla di tanto sontuoso" osservò, e io gli sorrisi. "No, è vero, ma fino a settanta anni fa Camelot non era altro che uno spoglio rudere in cima a un colle. Questo posto è usato costantemente dai soldati di guarnigione da più di quattrocento anni e in tutto questo tempo loro si sono sempre preoccupati di stare comodi." Quella sera, a cena, dopo che Connor ebbe fatto il bagno e si fu cambiato gli abiti, gli presentai i miei ufficiali, alcuni originari di Camelot, altri nativi di Corbenico e da poco nominati. Poi restammo seduti fino a tardi ad ascoltarlo mentre ci deliziava con i suoi racconti di gioventù, in cui narrava nei minimi particolari di quando, come ammiraglio della flotta del re dell'Eire, aveva incontrato per la prima volta Merlino Britannico ed era stato coinvolto negli affari di Camelot. Era già passata la mezzanotte quando finalmente mi coricai sulla mia branda e mi addormentai sapendo che il mio primo compito dell'indomani sarebbe stato quello di leggere i documenti arrivati da Camelot. IV Il mio sonno fu breve e agitato, così mi alzai molto prima dell'alba e quando uscii dalla sala da bagno degli ufficiali, dopo una sauna e un massaggio, il sole non era ancora spuntato all'orizzonte. A quell'ora il forte era già in piena attività, con i soldati che andavano avanti e indietro intorno a me e gli ordini giornalieri di quelli più anziani e dei capisquadra ai loro uomini che echeggiavano fra le mura. Andai dritto nel mio ufficio e mi chiusi la porta alle spalle, quindi posizionai delle candele nuove su un candelabro, le accesi e portai il tutto sulla mia scrivania. Il mio capo scrivano mi aveva osservato in silenzio e mi conosceva abbastanza da sapere che avrebbe potuto osare disturbarmi solo in caso di vita o di morte. Capovolsi le bisacce che mi aveva portato Connor e rovesciai il loro contenuto sulla scrivania alla rinfusa, poi cominciai a riordinare i diversi documenti. Per la maggior parte si trattava di carte di vario tipo, elenchi dettagliati di tutti gli ufficiali, gli uomini, gli animali e gli attrezzi che erano stati inviati da Camelot, insieme a liste altrettanto chiare di merci e carichi che andavano dai lingotti di stagno e di piombo per gli scambi commerciali di Connor, a utensili da costruzione, casse e barili di provviste. Quanto trasportato a bordo della flotta era stato registrato, ma questi documenti avrebbero avuto davvero un senso per me o per qualunque mio funzionario solo una volta che Shaun Dito Indice e i suoi uomini avessero depositato l'intero contenuto delle navi nell'area vicina al villaggio. Divisi alla svelta le carte prima in due pile - una per uso futuro e una per uso immediato - poi in tre, dividendo a sua volta il secondo gruppo in due mucchietti, da una parte le questioni amministrative che potevano essere sbrigate da altri e quelle personali destinate esclusivamente alla mia attenzione. Quest'ultima pila comprendeva quattro lettere: tre grossi pacchetti di fogli, ognuno dei quali avvolto in un quadrato di morbida pelle conciata, inviati da Merlino in persona e numerati nell'ordine in cui avrei dovuto leggerli, più una lettera indirizzata a me con un semplice Seur Clothar di Benwick, scritto con la calligrafia decisa di Artù. Ovviamente avrei voluto aprire subito quella di Artù, invece la misi da parte e mi apprestai a leggere le tre missive di Merlino nell'ordine da lui stabilito. Erano dense di informazioni e ricche di dettagli, poiché riportavano non solo le opinioni di Merlino sulla nostra prima spedizione e sui ferventi preparativi che si svolgevano a Camelot per il ritorno dei soldati, ma anche le sue disposizioni riguardo la seconda spedizione e un esaustivo resoconto sulla composizione delle truppe inviate con essa. Tuttavia, furono i dettagli aggiuntivi ad affascinarmi davvero, perché nelle sue lunghe lettere Merlino descriveva nei minimi particolari gli eventi più significativi che erano accaduti nel regno di Artù da quando io ero partito in aprile; era già mezzogiorno quando terminai di leggerle tutte, tornando su alcune di esse più volte per essere sicuro di aver capito tutto. A quel punto ero esausto, sopraffatto dall'enorme quantità di notizie spiacevoli che avevo appreso. Fin dall'inizio della prima lettera, la cosa che mi sembrò più inquietante fu la conferma da parte di Merlino che i suoi iniziali sospetti su Connlyn, il signore della guerra del territorio a sud del Vallo offertosi di diventare nostro "alleato", erano fondati. Quell'uomo aveva dimostrato di essere proprio come temeva Merlino: sleale, bugiardo e ambizioso, deciso ad accentrare tutto il Nord della Britannia sotto il proprio dominio, mentre allo stesso tempo simulava amicizia e solidarietà nei confronti di Camelot. Ghilleadh, che aveva preso il mio posto alla guida della spedizione di primavera, composta da due armate con l'incarico di indagare sulle attività di Connlyn, si era diretto subito a nord seguendo le strade romane ed era avanzato molto più velocemente di quanto avessi fatto io l'anno prima; a suo tempo avevo intrapreso un itinerario più lungo che mi aveva portato a visitare altri territori e altri regni durante il tragitto. Ghilly, invece, aveva seguito la strada diretta a nord fino a Luguvallium, nella zona occidentale del Vallo di Adriano, e da lì era avanzato verso est, costeggiando il Vallo stesso, fino a raggiungere il territorio che un tempo era appartenuto a Ushmar e che confinava con la parte occidentale del regno di Connlyn. Una volta arrivato lì, si era lasciato alle spalle la maggior parte del suo esercito, come stabilito, e aveva continuato con un gruppo di soldati scelti, per poi rendersi conto che il regno di Ushmar era già caduto sotto il dominio stabile del popolo di Connlyn e ora veniva presidiato costantemente da forze militari che di sicuro non appartenevano alla Britannia. Senza farsi scoprire, Ghilly aveva aggirato gli stranieri per cercare ulteriori prove dell'inganno e aveva trovato un punto del Vallo in cui era stata aperta una breccia permanente che consentiva di passare indisturbati da nord a sud. Pensando che non avrebbe trovato altro e convinto che quanto visto fosse sufficiente a provare l'inganno e a giustificare una vera e propria chiamata alle armi, Ghilly si era riunito al suo esercito e aveva subito comunicato la notizia a Camelot. Merlino ci teneva a precisare che Ghilly, sospettoso e irrequieto durante tutto il viaggio verso nord, aveva preso attente precauzioni per guadagnare tempo, in caso di necessità, lasciando un drappello di quattro uomini ogni dieci miglia lungo la strada che avevano percorso. Dopo la sua partenza, ogni quartetto si era diviso in due gruppi, posizionatisi a cinque miglia di distanza l'uno dall'altro e poi accampati, per non essere visti, lontano dalla strada, in attesa che accadesse qualcosa. Così la notizia si era diffusa alla svelta da Luguvallium a Camelot, proprio come se l'avesse portata al galoppo un uomo su un cavallo, viaggiando a tappe di cinque miglia giorno e notte, ed era giunta a destinazione in meno di due giorni. Nessuno aveva dubitato della precisione o della veridicità del rapporto di Ghilly, così nel giro di due giorni era stata organizzata una spedizione punitiva e duemila cavalieri capitanati da Bedwyr, con Gwin come comandante in seconda, e supportati da tremila fanti guidati da Sagramore e Gareth, erano partiti per il Nord. I timori di Merlino, tuttavia, non si limitavano al fatto che Connlyn progettasse un'invasione dalla zona a nord del Vallo; egli era convinto che il tradimento di quell'uomo riguardasse anche l'Est e le forze sassoni che si trovavano lì. Era anche preoccupato per la sicurezza di tutto il Nordovest e concentrava la sua attenzione sull'unica grande debolezza di Camelot, che Artù non riuscisse a stipulare un patto con Simmaco, il quale, controllando la grande fortezza di Deva, nella Cambria del nord, era in grado di determinare la sicurezza o il caos di quella regione. Artù era deciso a recarsi al Nord con l'esercito per combattere Connlyn, ma Merlino lo aveva convinto che prima di qualsiasi altra cosa sarebbe stato suo dovere stringere un'alleanza con Simmaco; così il re si era spinto a nord quel tanto che bastava per raggiungere la fortezza di Deva, dove era rimasto con un forte contingente di fanti e cavalieri, mentre il resto dell'esercito continuava a marciare verso Luguvallium. Nonostante la sua riluttanza, e il fatto che lo stesso Simmaco fosse restio a impegnarsi a sostenere Camelot, Artù era riuscito a stipulare un patto con lui, ma questo prevedeva alcune rigide condizioni dettate dal suo nuovo alleato, convinto di rischiare con quell'accordo molto di più rispetto a Camelot. Artù avrebbe dovuto sposare la figlia di Simmaco immediatamente e in seguito nominare il loro primogenito suo erede e successivo riotamo. Artù, combattuto tra la necessità di assicurare pace e sostegno militare al suo regno, grazie alle eccezionali risorse di uomini e armi di cui Simmaco disponeva, e il desiderio di andare a vedere con i propri occhi cosa stesse accadendo al Nord, in quella situazione non aveva avuto molta libertà di scelta, né un vero potere contrattuale con cui negoziare. Aveva accettato le condizioni di Simmaco e firmato un trattato ufficiale, quindi ne aveva mandata una copia sigillata e opportunamente sottoscritta da testimoni a Merlino, ordinandogli di inserire quel patto negli annali del regno. Il matrimonio tra Artù e la figlia di Simmaco aveva avuto luogo il giorno successivo ed era stato consumato la notte stessa, così la mattina seguente Artù era stato libero di partire per il Nord e da quel momento Merlino non aveva più avuto notizie della possibile campagna che si stava svolgendo. La seconda missiva, con pagine scritte nei due mesi successivi, non conteneva molti altri dettagli su quei fatti, ma racchiudeva un secondo involto, cui Merlino faceva soltanto un rapido accenno, dicendo che era giunto qualche tempo prima per vie ignote, portato dall'ufficiale di guardia, che a propria volta lo aveva ricevuto da un uomo in servizio ai cancelli, al quale era stato consegnato da un prete pellegrino. Era indirizzato a me, poiché riportava la dicitura Clothar, cavaliere del re, e pur ignorandone la provenienza, Merlino aveva pensato che potesse essere di qualche importanza. Così lo aveva allegato ai suoi documenti. Dalle parole di Merlino mi sembrò che egli sospettasse, proprio come me, che il mittente di quella lettera fosse una donna. La scrittura sull'involto dal pesante sigillo aveva una delicatezza che denotava, per così dire, scarsa virilità. Quando lo notai il cuore mi balzò in petto per l'eccitazione, perché l'unica donna che poteva scrivermi era Elaine. Avrei voluto aprirlo e leggerne subito il contenuto, ma il mio senso del dovere mi impedì di concedermi quel lusso, così lo posai su un tavolo lì vicino, ripromettendomi di non aprirlo finché non avessi letto tutti i documenti che necessitavano ufficialmente della mia attenzione. Nella parte restante della seconda lettera di Merlino, nonostante il suo spessore, c'erano poche informazioni degne di nota. Merlino mi riferiva tutto quello che sapeva riguardo alle altre zone della Britannia, ma era impotente quanto me davanti all'assenza di notizie dal Nord e non poteva certo affidarsi ai pettegolezzi. Sapeva che qualsiasi notizia attendibile sarebbe stata riferita direttamente a lui, perciò trattava tutto il resto come semplici dicerie basate su chiacchiere e supposizioni. Ma dal Nord continuavano a non arrivare notizie e il tempo trascorreva lento, con lui che si sforzava di tenere a bada la smania di andare lassù a vedere con i propri occhi cosa stesse succedendo. Tuttavia, aveva ricevuto comunicazioni da Simmaco, il quale si trovava a Deva, o a Chester, come la chiamavano gli abitanti del luogo. Dal tono delle sue missive aveva capito che quel sovrano stava rispettando alla lettera il patto stipulato di recente, poiché si annunciava che il regno di Deva (queste ultime parole erano state sottolineate da Merlino) era pronto ad assistere Camelot nella guerra al Nord con un esercito di cinquemila uomini, armati di tutto punto e pronti a marciare al primo ordine di Artù. Non accennava minimamente alla novella sposa di Artù o ai suoi spostamenti, così immaginai che la donna abitasse ancora a Deva con la sua famiglia. L'ultimo commento della lettera di Merlino riguardava due offerte ricevute rispettivamente dai re Kilmorack ed Einar. Il primo regnava nella Britannia centrale e i suoi possedimenti confinavano su tre lati con i territori sassoni. Tutti noi a Camelot avevamo accolto Kilmorack come il più bello e il più capace dei cinque re venuti in visita da Artù nel corso dell'anno precedente per offrirgli la mano delle figlie - il sesto re era Pelinore, un nostro noto e rispettato amico - e avevamo stabilito all'unanimità che Kilmorack era un alleato da coltivare. I suoi problemi erano analoghi a quelli che avevamo noi a Camelot, ma la sua condizione era molto più precaria, poiché i nemici lo circondavano su tre fronti, e valeva la pena di investire le nostre risorse per aiutarlo in modo da consolidare la nostra amicizia. A quanto pareva, ora era venuto da noi non per cercare aiuto, ma per offrircelo. L'offerta di aiuto e di alleanza da parte dell'altro sovrano, Einar, era ancora più sorprendente, giacché questi era un Anglo e non un Britanno. Lui e il suo popolo discendevano dagli invasori che solo un centinaio di anni prima avevano occupato i territori che oggi lui governava. Ma fin dal principio, il popolo di Einar era venuto a cercare terra da coltivare e, una volta trovata, vi si era insediato, lavorandola con operosità senza mai tentare di espandere i propri possedimenti o dichiarare guerra ai pacifici regni confinanti. Quelle persone avrebbero combattuto con ferocia, qualora fosse stato necessario, ma solo per difendere le loro famiglie e i loro territori. La verità, però, era che a Camelot non sapevamo quanto si fossero estese nell'arco di un secolo quelle terre, o quelle famiglie, poiché occupavano un'area, le cosiddette Coste Sassoni, ossia la vastissima zona della Britannia orientale, che da lungo tempo era caduta in mano agli invasori d'oltremare e che per noi era sempre stata terra incognita. Merlino dava un enorme peso all'offerta di Einar, poiché, come mi aveva fatto notare, si trattava della prima prova concreta che l'obiettivo di Artù di unificare tutto il paese era raggiungibile e che la logica del re appariva sensata non solo ai nativi della Britannia, ma anche agli stranieri che vi si erano insediati in modo stabile e che ora, avendo costruito lì le proprie case, desideravano la pace e l'ordine proprio come tutti gli altri. La mancanza di qualsiasi riferimento alla moglie di Artù era ancora in cima ai miei pensieri quando finii di leggere quella lettera e oltre a causarmi una certa preoccupazione - poiché ero convinto, tanto per cominciare, che Cynthia non fosse la donna giusta per Artù -, mi fece anche venire in mente Elaine e la lettera che giaceva sul tavolo lì vicino, tanto che a quel punto mi risultò impossibile ignorarla ancora. Misi da parte gli altri documenti e mi alzai, quindi percorsi la breve distanza che mi separava da quell'involto, lo presi e lo fissai, già sapendo che tutte le mie buone intenzioni erano andate in fumo. Aveva un pesante sigillo, fatto almeno con tre colate di ceralacca, ma non c'era nessuna sigla impressa su di esso e la lettera in sé era piuttosto leggera, il che confermava i miei sospetti sul mittente. Elaine di sicuro non possedeva un sigillo da imprimere sulle lettere e molto probabilmente non aveva neanche la possibilità di scrivere a lungo senza destare la curiosità di altre persone, fra cui il suo nuovo marito. Osservai con maggiore attenzione il mio nome scritto sulla parte esterna dell'involto e la calligrafia mi sembrò più femminile che mai. Riflettei ancora per qualche istante, dopodiché tornai a sedermi e spezzai la ceralacca con il pollice. Avevo letto già diverse righe quando mi resi conto che la lettera non era affatto di Elaine e dovetti leggere ancora un bel po'"prima che la verità mi colpisse, facendomi drizzare sulla sedia. La missiva era molto breve, ma così sconvolgente che invece di distruggerla dopo averla letta, come avrei fatto in condizioni normali, la conservai in mezzo ai miei documenti personali per molto tempo e la ritrovai ancora lì quando, anni dopo, mi trasferii a vivere definitivamente in Gallia. Quando la rilessi, dopo tutti gli sviluppi cui aveva portato, sia direttamente sia per vie traverse, provai lo stesso brivido di terrore. Seur Clothar, Vi avevo messo in guardia da mio fratello quando ci siamo incontrati, parecchi anni or sono, e gli eventi di cui sono venuta a conoscenza ora mi portano a sperare che abbiate tenuto conto del mio avvertimento. Devo comunicarvi alcune notizie a proposito di mio fratello e di certe incresciose questioni riguardo al vostro re, che, a quanto so, voi amate e stimate oltre misura. Non oso scrivere certe cose qui, per timore che qualcun altro possa leggerle, perché quello che ho da dirvi è per le vostre orecchie soltanto e deve essere riferito al re da voi. Quindi, se potete, vi prego di recarvi da me al più presto. Verrei io a farvi visita, ma divento ogni mese più debole e il mio medico sostiene che un viaggio così lungo mi ucciderebbe di sicuro, perciò posso solo sperare che possiate raggiungermi voi. Vivo in quella parte della Caledonia chiamata Gallowa, di cui mio figlio è sovrano. Se riuscirete ad arrivare così lontano, a nord del grande Vallo, è meglio che diciate di avere degli affari da sbrigare con re Tod di Gallowa, ma state alla larga dal confine dei territori di mio fratello durante il viaggio. Vi ho mentito una volta, quando vi ho detto che il mio nome era Judith. Non lo farò di nuovo, né ora né mai. Chiedete della regina Morgas e del castello di Tod di Gallowa. Spero che Dio vi conceda di giungere presto. Questo era tutto. Un breve, conciso e sconcertante messaggio che portò i miei pensieri in una direzione del tutto diversa da quella in cui si erano mossi fino a qualche istante prima. Merlino aveva ragione. Egli aveva detto che la donna di nome Morgas aveva sposato un re di Gallowa di nome Tod, perciò il Tod cui la donna si riferiva nella lettera doveva essere il loro figlio, e quella Morgas la stessa di cui aveva parlato Merlino. Ma cosa poteva mai sapere di tanto importante per Artù da arrivare a scrivermi una lettera? Non sapeva nemmeno chi fosse il mio re prima che glielo dicessi io e aveva riso all'idea che lui fosse il riotamo. Da dove veniva allora tutta quell'urgenza di incontrarmi? Perché l'urgenza c'era, su questo non avevo dubbi. Il solo fatto che si fosse presa la briga di scrivere quella missiva e di inviarla a Camelot dimostrava che, almeno per lei, le notizie di cui era in possesso erano di importanza vitale. Mi chiesi quando fosse stata scritta quella lettera. Era probabile che avesse viaggiato in fretta e fosse arrivata subito a Camelot, dunque doveva risalire al massimo a tre o quattro mesi prima; ma la persona che l'aveva recapitata poteva anche aver impiegato alcuni anni per portarla via terra da Gallowa a Camelot. Ed era evidente che Morgas non godeva di ottima salute, perlomeno all'epoca in cui aveva scritto la lettera. Già quando l'avevo conosciuta io era una donna molto vecchia e debole e da allora erano trascorsi tre anni o forse più. Poteva persino essere morta ormai e, in tal caso, le informazioni che possedeva sarebbero rimaste sepolte con lei. Non sapevo cosa fare. Se fossi stato in Britannia, sarei potuto andare da lei senza problemi, perché mi sarei trovato nel Nord insieme ad Artù per condurre la campagna e la distanza da lì a Gallowa non sarebbe stata poi tanto grande. Ma ero in Gallia, oberato di incarichi amministrativi, e nei giorni successivi ne avrei ricevuti altri. L'unica cosa che potevo fare era scrivere a Merlino e informarlo del contenuto della lettera. Lui avrebbe saputo cosa fare e chi mandare al Nord al mio posto, sempre che lo avesse ritenuto necessario. Lessi di nuovo il punto della lettera in cui Morgas diceva che le notizie erano per le mie orecchie soltanto e mi ricordai quel poco che sapevo di quella regina. Non era una donna da sottovalutare e non c'era verso di costringerla a parlare con qualcuno con cui non desiderasse farlo. Camminai a lungo su e giù per la stanza, sforzandomi di arrivare a una soluzione, ma scrivere a Merlino mi sembrava l'unica strada da seguire. Avrei potuto allegare alla mia lettera per lui un messaggio indirizzato a Morgas, che le venisse recapitato da chiunque fosse stato inviato al mio posto, ma non potevo fare altro. Decisi di accantonare la questione per il resto della giornata e di dormirci sopra, ma sapevo che non c'era tempo da perdere. Ormai era quasi mezzodì, così andai a fare due passi all'aperto per schiarirmi le idee, quindi bevvi un grosso boccale di acqua fresca e tornai al lavoro mangiucchiando un pezzo di pane fresco. La terza lettera di Merlino era noiosa quanto quella precedente, piena di congetture e interrogativi, ma se non altro c'era qualche buona notizia. Le truppe di Artù avevano vinto un'importante battaglia nel Nordovest, in un posto che gli abitanti locali chiamavano Badon e che i Romani avevano nominato Mons Badonicus, o Monte Badon, per via dell'alto colle che dominava la zona. L'esercito di Artù, a quanto pareva, si era scontrato con una numerosa armata di Caledoni, rinforzata da una massa di predoni provenienti dal regno orientale della Northumbria, territorio che un tempo era appartenuto a Vortigern e che adesso era governato da Horsa il Danese. I due eserciti contavano all'incirca lo stesso numero di combattenti, ma i soldati a cavallo di Artù avevano dato una brillante prova di sé, facendo piombare i nemici nel caos prima ancora che i fanti di Camelot li attaccassero, e la disfatta che ne era conseguita aveva lasciato parecchi morti - pochissimi fra le nostre file - sparpagliati per miglia e miglia nel desolato paesaggio settentrionale. Queste erano novità incoraggianti, ma non le informazioni che seguivano. Non si era più saputo nulla di Artù e dei suoi progressi al Nord. La notizia della vittoria era stata riferita da uno squadrone inviato appositamente per quello scopo e i messaggeri erano di buon umore. Non avevano portato nessuna richiesta di rinforzi e Merlino pensava che fosse un buon segno, che la campagna di Artù procedesse senza intoppi. Le distanze erano decisamente troppo grandi per consentire una comunicazione agile fra le due parti, così Merlino, come chiunque altro, poteva solo sperare e cercare di interpretare le poche notizie che riceveva. Dall'enorme riserbo con cui aveva espresso le sue opinioni si capiva quanto fosse confuso e frustrato, malgrado non avesse scritto una sola parola di lamentela. Purtroppo per me, nelle sue esternazioni, non aveva scritto neanche una parola sulle nozze di Artù. V Terminai di leggere tutte le lettere di Merlino, prima di dedicarmi finalmente a quella di Artù e, mentre spezzavo il pesante sigillo posto sull'involucro di pergamena, notai il dragone dei Pendragon avvolto a spirale al centro della colata di ceralacca rossa. Anche questa era una lettera strana e sconvolgente, forse persino di più di quella inviata da Morgas; la lessi diverse volte e a un certo punto la portai con me nella corte per leggerla alla luce del sole, standomene seduto su alcuni gradini. All'inizio della missiva Artù si rivolgeva a me come al suo caro amico Clothar, ma a un certo punto, trascinato dal vortice dei suoi pensieri, doveva essersi rilassato a tal punto da cominciare a chiamarmi Lance. Aveva iniziato quella lettera mentre era accampato sul ciglio di una strada, dopo che aveva marciato per un giorno intero verso nord da Deva a Luguvallium. Era ormai sposato da tre giorni, e aveva trascorso una notte con la sua consorte; evidentemente quella nuova condizione era al centro di tutti i suoi pensieri, tanto da fargli dimenticare ogni timore riguardo a quanto avrebbe potuto trovare una volta arrivato a destinazione, alla fine di quella lunga marcia. Raccontava in modo conciso di aver avviato i preparativi subito dopo aver ricevuto il rapporto di Ghilly, quindi descriveva la composizione delle truppe da lui mandate in avanscoperta nei territori settentrionali. Tuttavia, non aggiungeva altri particolari su cosa avrebbe fatto quando fosse arrivato anche lui lassù e avesse avuto il tempo di valutare la situazione; e questo era abbastanza normale, mi resi conto, dal momento che non poteva sapere cosa lo aspettava. L'argomento principale del suo discorso riguardava la discussione intercorsa fra noi qualche mese prima a proposito dei doveri che si trovava ad affrontare e all'eventualità che, presto o tardi, dovesse scegliere una moglie in base a criteri ben lontani dalle sue preferenze personali. Artù era ancora sconvolto dalla rapidità con cui quelle circostanze si erano realizzate e dalla scarsa influenza che lui aveva esercitato nel determinarle. Adesso era ufficialmente sposato agli occhi di Dio e degli uomini, e non era ancora riuscito a farsi una ragione delle responsabilità che incombevano su di lui. La donna che aveva preso in moglie, in ogni caso, non era l'egocentrica Cynthia di Chester, bensì la figlia più giovane di Simmaco, Ginevra, la ragazzina che io conoscevo come Maia. La figlia maggiore, la megera, aveva sposato già da diverso tempo il sovrano di un altro regno, situato da qualche parte nell'Est, vicino ai territori occupati dai Sassoni. Artù non aveva dimenticato le mie parole sulla figlia minore, vale a dire che mi piaceva; la definivo "una ragazza che cercava con tutte le forze di essere come un maschio", e ora Artù mi informava che lei si ricordava benissimo di me, persino con un certo affetto, che mi chiamava il suo Lanciere, il suo hastatus. A quanto pareva avevo fatto colpo. Quell'informazione mi fece sorridere. Intanto cercavo di immaginare quale metamorfosi doveva aver subito la ragazzina magra dalle gambe lunghe che ricordavo per trasformarsi in una donna abbastanza matura da andare in sposa al sommo re della Britannia; ma nonostante i miei sforzi riuscivo a raffigurarmi soltanto la graziosa e leggiadra fanciulla che con estrema concentrazione prendeva la mira e lanciava i miei giavellotti. Adesso era la mia regina! Per quanto sembrasse strano, ero contento che Artù avesse sposato lei e non la sua terribile sorella. Tuttavia, Artù era meno ottimista di me e, a mano a mano che leggevo, mi resi conto di quanto fosse infelice. Non aveva mai desiderato quell'unione, ma era stato costretto ad accettarla per cogliere l'occasione e sfruttarla al meglio, sebbene non vedesse affatto di buon occhio il legame appena stretto con Simmaco. Rammentava con estrema precisione le parole con cui l'autunno precedente gli avevo descritto quell'uomo; in particolare si ricordava della mia convinzione che un giorno il re del Nord si sarebbe rivelato senza dubbio più attento ai propri bisogni e alle proprie esigenze che a qualunque altra cosa, e che sembrava non avere alcuna considerazione per il benessere, i problemi o le preoccupazioni altrui. Ora che aveva conosciuto Simmaco e si era fatto una propria opinione, Artù era pienamente d'accordo con me, eppure non poteva prendere le distanze da lui e spingerlo a dare il peggio di sé, perché al momento il peggio di Simmaco, grazie alla nuova fastidiosa minaccia rappresentata da Connlyn, avrebbe potuto distruggere tutto quello per cui Artù aveva faticato, arrivando a minacciare la stessa Camelot. E così, con grande riluttanza, il mio re si era rassegnato al bisogno di un compromesso, accettando le condizioni di Simmaco, in cambio del dubbio privilegio di ricevere ufficialmente l'aiuto della fortezza di Deva nella retroguardia. Al momento non aveva alcun timore che Simmaco potesse rimangiarsi la parola. Il dado era stato tratto e lui si aspettava di poter contare sulla lealtà e sul sostegno che il re di Deva si era impegnato a prestare, benché questi aiuti, una volta giunto il momento, potessero rivelarsi limitati o insufficienti. Artù era convinto che la cosa più importante per Simmaco fosse l'obiettivo a lungo termine, vedere il futuro nipote - il primogenito ed erede di Artù - diventare sommo re della Britannia Unita. Artù era sicuro che ormai l'ambizioso signore di Deva avesse rinunciato alla possibilità di realizzare i suoi sogni e diventare riotamo, ma sapeva bene che Simmaco era relativamente giovane e in buona salute e che se fosse diventato il maggior alleato di Camelot - e lo sarebbe diventato senz'altro, se avesse schierato i suoi guerrieri al fianco di Artù avrebbe assunto lui il ruolo di reggente, qualora il padre di suo nipote fosse caduto in battaglia. Soltanto per questa ragione, scriveva Artù, aveva deciso di non generare mai un erede con la figlia di Simmaco. Al solo pensiero che abbandonandosi ai piaceri della carne avrebbe potuto sottomettere la sua amata Britannia e il suo popolo al dominio di Simmaco o di qualcuno come lui, si sentiva impotente e la cosa, giurava, non sarebbe cambiata nemmeno con il passare degli anni. Non provava nessuna antipatia per la giovane donna che aveva sposato, anzi, la trovava amabile e bella, proprio come gliel'avevo descritta, e sapeva che anche lei era stata vittima delle ambizioni e dell'opportunismo del padre. Nonostante avesse trascorso con lei solo poco tempo, Artù aveva capito subito che la ragazza non nutriva grande ammirazione per Simmaco, che vedeva esclusivamente per ciò che era. Da quando la compagnia di Camelot era arrivata a Deva, non l'aveva mai sentita rivolgere la parola al padre e, durante tutta la cerimonia e i festeggiamenti che erano seguiti, non l'aveva mai vista lanciare uno sguardo nella sua direzione. Aveva altresì notato, che a riguardo Simmaco non sembrava affatto dispiacersene: forse egli non vedeva in quel comportamento niente di strano. Tuttavia, scriveva Artù, la sera delle nozze, non appena si erano ritrovati nell'intimità della loro camera da letto, la nuova regina lo aveva guardato dritto negli occhi e gli aveva chiesto perdono per quel matrimonio assurdo, confessandogli con il cuore in mano che quell'unione non era, mai stata suo desiderio né aveva potuto evitarla: un suo secco rifiuto avrebbe mandato il padre su tutte le furie e messo a repentaglio la vita di alcune persone cui teneva molto. Era pronta a essere la moglie e la regina di Artù, gli aveva detto, nel rispetto della cerimonia cui avevano preso parte e dei voti che si erano scambiati davanti a Dio, ma non si sarebbe né offesa né stupita se lui avesse preferito averla come consorte soltanto sulla carta. Era stato un discorso incredibile, che aveva colpito molto Artù, tanto che, nonostante la sua smania di alzarsi presto il mattino seguente per mettersi in marcia verso nord, i due erano rimasti svegli fino a tarda notte per parlare di Simmaco, delle sue ambizioni e del loro ruolo nel favorire o contrastare tali brame. Ginevra non aveva ancora diciotto anni, ma Artù aveva capito che era degna figlia di suo padre e gli somigliava già parecchio per l'atteggiamento cinico e spassionato con cui valutava le situazioni e le alternative che la vita le offriva. Al termine della conversazione avevano consumato il matrimonio e il sangue verginale di Ginevra avrebbe dimostrato che questa aveva assolto al proprio dovere di moglie; tuttavia, all'ultimo momento, con il consenso di Ginevra, ma contro la legge di Dio e le aspettative del mondo, Artù si era tirato indietro e aveva versato fuori il suo seme. I due avevano fatto un patto, mi disse. Finché Simmaco fosse stato in vita, non avrebbero generato un erede, per non alimentare la sua ambizione. L'intimità di quella rivelazione mi sorprese e mi punì allo stesso tempo, tanto che cominciai a vergognarmi della reazione egoistica che avevo avuto nell'apprendere la notizia del suo matrimonio. Rivelandomi quell'informazione e condividendo con me un segreto così personale, malgrado non ce ne fosse alcun bisogno, Artù Pendragon mi aveva reso l'omaggio più grande che avessi mai ricevuto. Eppure, nonostante quella consapevolezza, ero profondamente turbato da quanto confessatomi. Il fatto che la stessa Ginevra avesse deciso di essere sua complice e di aiutarlo a raggiungere gli obiettivi che si era prefissato, per come la vedevo io, non stava né in cielo né in terra. Come riotamo, Artù era obbligato a generare un erede. Quando avevamo affrontato l'argomento, nessuno dei due aveva dubbi su questo e adesso il pensiero che stesse scegliendo di proposito di eludere quell'obbligo mi preoccupava molto. Ma poi mi ricordai le parole esatte che aveva scritto e tornai indietro per rileggerle: non avrebbero generato un erede finché Simmaco fosse stato in vita, per non alimentare la sua ambizione. Eppure questo non mi fece sentire meglio. Artù voleva forse uccidere o far uccidere quell'uomo? In entrambi i casi si sarebbe trattato di un assassinio premeditato e io mi rifiutavo di credere che il mio re fosse capace di pensare una cosa del genere. Ma il significato era chiaro: Artù avrebbe avuto dei figli soltanto dopo la morte di Simmaco. Poi pensai al presunto piano di Simmaco di diventare reggente del nipote: anche quel progetto implicava la morte di un rivale, lo stesso Artù. Che Simmaco potesse "programmare" quella tragedia era un fatto riprovevole dal punto di vista morale, ma possibile, dal momento che Artù era un guerriero in lotta per creare un regno. C'erano buone probabilità che un giorno sarebbe morto in battaglia e, se ciò fosse accaduto, nessuno avrebbe potuto impedire a Simmaco di rivendicare la reggenza. La situazione rivelava l'enorme cinismo di quel nuovo alleato, ma essere cinici non è peccato, e nell'ottica di Artù, e quindi anche nella mia, proprio quel cinismo avrebbe potuto mandare a monte i piani del re di Deva. Dati il sospetto e il disprezzo profondi che nutriva per quell'uomo, Artù sarebbe stato in guardia, in modo da notare qualsiasi accenno di tradimento da parte sua, soprattutto se fossero passati anni senza poter generare un nuovo riotamo. Al minimo segno di slealtà o di tradimento, Artù si sarebbe abbattuto su Simmaco come un fulmine aprendosi una breccia nelle mura di Deva con ogni mezzo a sua disposizione per infliggere la giusta punizione al subdolo e infedele alleato. Così immaginai il mio re e la sua novella sposa uniti nella speranza che il padre della ragazza si dimostrasse ingannevole e infido come prevedevano. Non era una considerazione piacevole, ma la portai con me quando, dopo aver infilato la lettera di Artù nella corazza, uscii nell'aria fresca del pomeriggio. Dato che in quel momento non c'era nulla che richiedesse la mia attenzione, sellai il cavallo e andai a fare una cavalcata in campagna, dove galoppai per un paio di miglia, lasciando che il vento mi scompigliasse i capelli, desideroso che potesse fare altrettanto con i miei pensieri. VI Lo avevo aspettato per tutto il pomeriggio, tuttavia mi ci vollero alcuni istanti per riconoscere l'uomo che quella sera mi venne incontro con passo baldanzoso. Era seguito da un gruppetto di ufficiali e dimostrava di essere lui il capo. Come me, portava la spada da cavaliere appesa proprio dietro la schiena e la grossa elsa gli spuntava oltre la spalla sinistra. Dall'ultima volta che l'avevo visto Bors era cresciuto in modo impressionante. Era successo in gennaio, subito dopo la cerimonia per la sua nomina a cavaliere, quando in qualità di nuovo legato e compagno cavaliere del re era stato inviato in Cambria per prestare il suo primo anno di servizio come comandante in campo sotto la tutela di Bedwyr. Tuttavia, gli eventi che si stavano verificando al Nord avevano interrotto quella missione e dopo che a giugno il principale contingente d'urto era partito per fronteggiare Connlyn, Bors era stato richiamato a Camelot insieme a Bedwyr per formare la guarnigione interna. Ora, quasi nove mesi dopo il nostro incontro, egli era diventato più alto e più robusto e aveva acquisito il tipico portamento deciso di un comandante disinvolto e sicuro di sé. Inoltre si era fatto crescere i baffi alla maniera dei Galli: incredibilmente folti, gli davano un'aria dignitosa; partivano dal labbro superiore e gli incorniciavano il mento squadrato e dalla profonda spaccatura. Anche la sua voce aveva subito un cambiamento radicale ed era diventata bassa e profonda, più simile a un melodioso borbottare. Venne subito da me e ci abbracciammo da buoni amici. Quindi indietreggiò con eleganza, mi salutò, per poi presentarmi i membri del suo seguito, che in gran parte conoscevo già. Tuttavia c'erano un paio di visi di cui non riuscivo a ricordarmi. Mentre mi salutarono chiamandomi magister, si unì a noi anche Perceval, che aveva appena terminato di svolgere tutti i suoi compiti. Sapendo che dovevano essere tutti affamati ed esausti dopo tanto tempo trascorso in mare e i due giorni passati a far sbarcare la loro unità, avevo ordinato che al loro arrivo venisse servita subito la cena. Così mangiammo nella maestosa sala da pranzo degli ufficiali che si trovava nella fortezza, circondati da un lusso capace di impressionare in maniera evidente tutti i commensali, persino Bors, che essendo nato in Gallia e avendo frequentato la Scuola del Vescovo di Auxxerre era più avvezzo alle comodità materiali della Gallia civilizzata rispetto ai nuovi arrivati della Britannia. Connor cenò insieme a noi e io ottenni la gratitudine di tutti gli ospiti quando stabilii che non avremmo parlato di questioni ufficiali finché la tavola non fosse stata sgombrata del tutto dagli avanzi della cena. Aspettai che tutti si riunissero, quindi dissi ai miei ufficiali di invitare i nuovi arrivati ad alzarsi uno alla volta per presentarsi e, dato che il vino scorreva in abbondanza, la serata assunse presto un'atmosfera di rilassata giovialità. Feci sedere Connor e Bors con me al tavolo del magister e passai gran parte della cena a interrogare Bors su quello che stava accadendo a Camelot in quel periodo. Purtroppo il mio amico non poté aggiungere molto di più rispetto a quanto avevo già appreso dalle lettere di Merlino e di Artù. Bors non aveva ancora avuto l'onore di conoscere la nuova regina e, in effetti, era meno informato di me riguardo alle circostanze che avevano portato a quell'unione frettolosa; così, anziché stare tutta la sera ad ascoltare, come avevo immaginato, finii per raccontare a tutti quanto sapevo di Ginevra, spiegando per filo e per segno che l'avevo incontrata anni prima ed era la sola e unica persona che avesse mai dimostrato di possedere un talento naturale nello scagliare le mie lance di bambù. La notizia provocò uno scroscio di applausi per la sposa del sovrano, ma spinse i miei ospiti a pormi delle domande riguardo alle circostanze che avevano portato a quelle nozze e così mi toccò spiegare che Artù si era ritrovato tra due fuochi, Connlyn e Simmaco, il primo che lo minacciava da nord e l'altro che era in possesso della grande fortezza di Deva, la quale gli avrebbe coperto le spalle nella Cambria nordoccidentale. Benché i miei interlocutori fossero tutti a conoscenza della minaccia rappresentata da Connlyn e dai suoi alleati, nessuno sapeva granché di Simmaco; con molta diplomazia cercai di non diffamare il re di Deva e di non accennare minimamente ai pensieri e alle riserve che Artù mi aveva confidato di avere. A un tratto, durante la prima parte della cena, mi capitò di sentire per sbaglio il commento di uno degli ufficiali di medio rango seduti al tavolo vicino, il quale si domandava pigramente cos'altro bollisse in pentola a Camelot. La domanda, per quanto generica, mi ricordò con una punta di fastidio la lettera di Morgas, così mi persi nei miei pensieri e senza volerlo trascurai i miei ospiti finché qualcuno non ridestò la mia attenzione chiedendomi qualcosa. Al termine della cena, chiamai a raccolta gli ufficiali superiori negli uffici del comando, dove affrontammo alla svelta tutte le questioni che attendevano di essere risolte, perché più la serata andava avanti, più era chiaro quanto tutti fossero stanchi e avessero bisogno di una notte di riposo assoluto. Li congedai subito dopo aver stabilito alcune priorità di cui dovevamo occuparci e mi diressi di nuovo nella sala da pranzo degli ufficiali, dove trovai Connor circondato da un capannello di giovani che ascoltavano estasiati i suoi racconti. Il mio arrivo fece disperdere il gruppetto e in pochi istanti io e Connor ci ritrovammo da soli. "Ti preoccupa qualcosa di grave, amico mio, se in una serata come questa, invece di festeggiare, sei così serio. Ti va dunque di parlarne?" Conoscevo bene la sua franchezza e la spontaneità con cui mi aveva posto quella domanda mi portò a rispondere senza esitazioni, cosa che altrimenti non avrei fatto, considerata la fonte delle mie preoccupazioni. "Credo di sì" replicai. "Poiché sei all'oscuro di tutto, il tuo giudizio sarà di sicuro spassionato e sincero. È successo qualcosa di inaspettato... qualcosa che riguarda Artù... e io non so che fare. Avviciniamoci al fuoco e te lo racconterò." Senza ulteriore indugio, gli parlai di quando tre anni prima avevo incontrato Morgas e Connor ascoltò in silenzio finché non ebbi finito; a quel punto presi la lettera della donna, che portavo sempre con me, e gliela porsi. "Sai leggere? Perdonami, se non ho pensato di chiedertelo." Connor si sedette, fissando con aria dubbiosa la lettera che aveva in mano. "Sì, un po'. Sono in grado di leggere una nota di carico e una carta nautica, ma non sono mai stato molto bravo con gli scritti lunghi. Preferirei passare l'intera giornata a districare cime intrecciate piuttosto che un'ora a decifrare questo ammasso di lettere. Leggimela tu, per favore." Si girò sulla sedia per guardarsi attorno. "Non c'è nessuno qui, ma abbassa lo stesso la voce. Sarò tutt'orecchi." Quando finii di leggere, Connor rimase in silenzio a picchiettare con un dito sulle labbra increspate. Non volevo interrompere il flusso dei suoi pensieri, così mi limitai a ripiegare la lettera e a farla sparire, mentre lui seguiva con gli occhi i movimenti delle mie mani. "Mmm" mugugnò alla fine. "Sembra una cosa troppo importante per ignorarla. È evidente che questa donna deve dirti cose che reputa di enorme interesse... anche per Artù e, oserei dire, per la stessa Camelot. Hai deciso cosa fare in proposito? O stai ancora ponderando la situazione?" Non conoscevo la parola che aveva usato, ma pensai che volesse sapere se stavo cercando di prendere una decisione, così annuii. "Ho ponderato e deciso che l'unica cosa che posso fare in concreto è informare Merlino della lettera e lasciare che ci pensi lui." "Potrebbero volerci dei mesi. E se nel frattempo quella donna morisse? È vecchia, a quanto dice. Più vecchia di me." "Cosa te lo fa pensare?" Alzò le spalle. "Il fatto è che la conosco... so chi è, perlomeno. Non l'ho mai incontrata, ma era sposata con Tod di Gallowa - il vecchio Tod, intendo - e la sorella più giovane, Salina, era sposata con mio fratello, Brander. Salina è morta cinque anni fa e non era molto giovane quando se ne è andata... se non ricordo male aveva all'incirca cinque anni meno della sorella, forse anche più di cinque. Perciò se hai intenzione di andare a parlare con Morgas è meglio che ti sbrighi." "E come posso fare? Non ho alcun potere in merito." "Non essere ridicolo, ragazzo. Sei tu il capo qui, giusto? Puoi benissimo fare come ti ha chiesto e andare da lei." "È assurdo, Connor. Raggiungere la Caledonia e lasciare il mio posto?" Non fu troppo colpito dal mio senso del dovere. "Secondo te, quanto è importante questa lettera, davvero?" Ci pensai un istante prima di rispondere. "Deve essere molto importante, almeno per Morgas. E se, come sembra, si tratta della stessa donna di cui ha parlato Merlino, quella che ha conosciuto Uther e a quanto pare è giaciuta con lui, Dio solo sa cosa può avere da dirci." "È quello che credo anch'io. Allora perché non vieni con me?" "Con te?" Connor scrollò il capo, incredulo, e disse con estrema pazienza: "Farò vela verso casa entro una settimana, ragazzo. Come ti ho detto l'altra sera, stavolta mi recherò direttamente a Dalriada e dividerò la flotta quando saremo a nord della Cornovaglia, cosicché i vascelli destinati a Glevum e a Camelot potranno giungere a destinazione, mentre noi proseguiremo verso nord senza perdere tempo". "Ah sì, è vero." "Bè, la rotta mi porterà a circa una lega dalla costa di Gallowa. Si tratta di un regno costiero e la fortezza di Tod si vede dal mare. Non lo sapevi, vero? Potrei lasciarti lì e proseguire, così avresti sette giorni, forse dieci, per risolvere la questione con Morgas, sempre se è ancora viva. Potresti aspettare che io ripassi di lì provenendo da Dalriada. Resteresti lontano da qui poco più di un mese, torneresti alla fine di ottobre, e il tuo amico Perceval mi sembra perfettamente in grado di gestire la situazione durante la tua assenza... Non sei d'accordo, forse?" "Sì, certo. È più che in grado. Ma..." "Ma niente, Clothar. Se quella lettera è così importante come credi, non hai altra scelta. Sono qui, pronto a portarti direttamente a Gallowa. Partiremo fra quattro giorni. Non siamo neanche alla metà di settembre e, visti i venti favorevoli, torneremo entro quaranta giorni. È la soluzione migliore. Cos'altro hai da pensare?" Aveva perfettamente ragione: presi la mia decisione lì su due piedi. La mattina seguente, informai dei miei piani Perceval e Bors, che da quel momento sarebbe stato il suo comandante in seconda e avrebbe dovuto occuparsi dei nuovi arrivi e del nuovo scaglione di reclute di Corbenico. Accettarono la mia decisione senza discutere, lasciandomi libero di tornare alla villa del re per comunicare a Pelles, e quindi anche a Serena, che sarei stato lontano dal suo regno per tutto il mese successivo. Rimasi nella villa una notte, quindi tornai alla fortezza per terminare i pochi preparativi necessari al mio imminente viaggio e in un batter d'occhi mi ritrovai sulla poppa della nave ammiraglia di Connor a osservare la costa della Gallia che si allontanava, scomparendo a poco a poco, e subito dopo le bianche scogliere della Britannia che si innalzavano dalle acque davanti a noi. Non ero ancora del tutto convinto che veleggiare così verso la Caledonia fosse la cosa giusta da fare, ma i motivi che mi avevano spinto a quella decisione erano troppo importanti perché potessi ignorarli. DUE I "Meno male che non stavamo tentando di coglierli di sorpresa." Le cime della scogliera davanti a noi brulicavano di persone che fissavano le nostre navi con un'aria visibilmente ostile anche da quella distanza. Ci eravamo avvicinati con la marea mattutina e, sebbene nessuno di noi potesse dire con esattezza quando eravamo stati avvistati da terra, era evidente che la notizia si era diffusa in fretta. Ben presto potemmo scorgere file e file di persone sul fianco scosceso della collina che uscivano di corsa dai cancelli dell'imponente fortezza di Tod - nessuno di noi l'avrebbe definito un castello - come sciami di formiche di cui si disturbasse il nido. Accanto a me, a prua della sua galea, Connor Mac Athol sogghignava. "Non coglierai mai di sorpresa il popolo di Tod arrivando dal mare, amico mio. È soprattutto per questo che hanno costruito le loro fortificazioni lassù. Abitando così vicino al mare, vivono nel terrore che qualcuno possa fare incursione da un momento all'altro, così trovano sempre il modo di essere notati e di avvistare in anticipo qualsiasi nave tenti di avvicinarsi alla costa. Escono per osservarci e si allineano così sulle scogliere ogni volta che passiamo di qui, in qualunque direzione andiamo, per questo credo che ormai ci abbiano riconosciuti. Tuttavia, stavolta stiamo per toccare terra... o almeno uno di noi sta per farlo." Alzò la voce per rivolgersi a Shaun Dito Indice, che si trovava alle nostre spalle, a mezza nave. "Prepara la scialuppa, Shaun, e facci salire a bordo, ma assicurati che nessun altro cerchi di avvicinarsi insieme a noi. Una sola imbarcazione sembrerà una cosa strana; due farebbero pensare a un attacco. Portaci il più vicino possibile alla riva senza finire a distanza di tiro, poi cala la scialuppa." Tornò a rivolgersi a me. "Sei sicuro di non voler indossare l'armatura? Non conosco per niente queste persone e non ci siamo mai avvicinati tanto, a parte in un'occasione, ma è stato molti anni fa. Non hanno motivo di fidarsi di noi. Non ti posso garantire che una volta sotto tiro non ti lanceranno le loro frecce." Avevamo affrontato quella discussione più di una volta e sapevo che Connor era preoccupato per la mia incolumità, ma avevo deciso, per ragioni che a me sembravano del tutto logiche, di rendere il mio avvicinamento il più semplice possibile. Ero lì per soddisfare la richiesta di Morgas, quella che un tempo era stata la regina di questo popolo e che ormai, per quel che ne sapevo, poteva anche essere morta; ma, giacché non potevo raggiungere la riva a cavallo e dovevo andare a piedi, non vedevo l'utilità di indossare una pesante armatura che mi sarebbe stata soltanto d'intralcio. Di conseguenza, ne avrei indossata una leggera: un corsaletto di cuoio sopra una tunica di cotta di maglia, lunga fino al ginocchio, che era straordinariamente leggera e resistente e che mi era stata regalata anni prima dal vescovo Germano; le mie uniche armi sarebbero state la mia spatha, il mio pugnale e una faretra di lance. Connor voleva che portassi con me anche il mio stendardo, ma io decisi di non farlo, poiché preferivo lasciarlo al sicuro a bordo della sua galea insieme alla mia spada da cavaliere. Avevo intenzione di far visita a Morgas come un ospite qualunque. Ora, mentre la galea avanzava grazie alla spinta dei suoi robusti remi, mi domandai per un istante se non avessi sbagliato a prendere quella decisione, se non avrei fatto meglio a presentarmi nel territorio di questo re sconosciuto con una tenuta un po'"più sontuosa per annunciare la mia dignitas. Ma non appena quel pensiero mi assalì, lo scacciai con un sorriso mesto. La dignitas era qualcosa di intrinseco che si possedeva o non si possedeva. Non si ricavava da armi e stendardi. A un tratto, con un movimento così brusco che mi fece trasalire, la carena si inclinò vertiginosamente, tanto che riuscimmo a vederla sotto di noi. Sentii Shaun Dito Indice gridare una serie di rapidi comandi. La fila destra di remi si alzò dall'acqua con una pioggia di spruzzi e quella sinistra fece girare la galea in tutta la sua lunghezza, lasciandola con la fiancata rivolta verso la riva, mentre alcuni membri dell'equipaggio si affrettavano a slegare e a calare la scialuppa che mi avrebbe portato a terra. Mi voltai di nuovo verso Connor, il quale mi osservava con un'espressione indecifrabile, e gli sorrisi, con la speranza che dal mio volto non trasparisse alcun timore. "Bè, non posso più cambiare idea ormai... perciò suppongo che debba andare..." "Già. E che Dio ti accompagni... il vostro Dio, quello dei cristiani, o quello che preferisci. Se la regina è morta, mostra la lettera al figlio. Anche se non sa leggere, riconoscerà la scrittura della madre; le loro leggi sull'ospitalità dovrebbero garantirti la sicurezza. Fatti trovare qui sulla spiaggia fra una settimana da adesso e restaci finché non arrivo. Stammi bene, giovane amico, e fa’ attenzione a cosa mangi lassù, in mezzo a quei selvaggi." Qualche istante più tardi, dopo essere sceso con cautela a bordo della scialuppa, ero seduto a prua della piccola imbarcazione e venivo trasportato a riva da quattro degli uomini di Connor. Nel frattempo alcune persone stavano scendendo verso la spiaggia, ma non sapevo ancora se per darmi il benvenuto o per farmi prigioniero. I miei rematori salparono di nuovo non appena discesi dalla barca. Camminai a stento fino alla spiaggia da solo, con l'acqua che mi arrivava alle ginocchia, quindi mi fermai ad aspettare che il primo gruppo di persone mi raggiungesse. Parlavano tra loro ad alta voce mentre si avvicinavano, per nulla intimoriti dall'uomo solo che si trovava sulla loro spiaggia: non riuscivo a capire nemmeno una parola del loro gergo incomprensibile. Trovai che la loro lingua somigliasse a quella parlata dalla gente di Connor, ma ogni suono che sentivo mi risultava del tutto estraneo. Gli uomini si accalcarono intorno a me, era evidente che volessero sapere chi ero e cosa ci facevo lì. Iniziai a preoccuparmi un po'"quando alcuni di loro presero a toccare la mia cotta di maglia e uno tentò persino di agguantare la mia spada. Ma quando mi allontanai da lui con un balzo, urtando qualcuno alle mie spalle, sentii delle grida arrivare da dietro la folla, che si aprì per consentire il passaggio a quattro uomini su bassi e robusti ronzini; i loro abiti e i loro vessilli sgargianti, così come i loro cavalli, indicavano che erano capitribù o comandanti di qualche sorta. I quattro non smontarono da cavallo, ma rimasero a fissarmi senza preoccuparsi di mascherare la loro ostilità. Parlai prima nella lingua del popolo di Artù, poi in quella usata per il commercio, conosciuta come lingua costiera, e infine in latino, con la speranza che almeno uno di quegli uomini fosse in grado di rispondermi. A giudicare dalla loro espressione sembrava che nessuno avesse la minima idea di quello che avevo detto e mi sentii mancare, perché mi resi conto che quella gente non aveva mai sentito parlare la mia lingua madre né pronunciare il nome del mio popolo. Alla fine, disperato, drizzai la schiena - ero più alto di qualunque altro uomo lì presente - e mi colpii il petto con il pollice, dissi il mio nome ad alta voce e lo ripetei ancora una volta prima di indicare la fortezza che si trovava in cima alla collina alle loro spalle e di pronunciare il nome del loro re, pregando dentro di me che Connor non si fosse sbagliato e che quello fosse davvero il regno di Tod di Gallowa. "Tod" dissi. "Tod di Gallowa." Le mie parole furono accolte con un silenzio tombale e un'astiosa diffidenza. Con il cuore che prese a battere forte per l'agitazione, feci un altro tentativo. "Morgas, Morgas. La vostra regina, Morgas." Ripetei il gesto muto con il pollice e indicai di nuovo. "Clothar... Morgas." "Morgas." Finalmente uno dei quattro uomini a cavallo parlò e, malgrado avesse solo ripetuto quel nome, gli rivolsi subito tutta la mia attenzione, annuendo e ripetendo ancora una volta i movimenti. "Clothar... Morgas?" Forse era stato il tono interrogativo alla fine della mia affermazione a fare la differenza, non potevo saperlo, ma il tizio con cui avevo parlato mi fece cenno di seguirlo, girò il cavallo e si incamminò su per la collina. Lo seguii a breve distanza, attorniato dalla folla silenziosa, ma sempre incuriosita, e quando cominciammo a inerpicarci per il ripido pendio fui lieto, dopotutto, di non aver indossato la mia armatura completa. Fu un'arrampicata lunga e faticosa. Finalmente arrivammo in cima e mi trovai davanti al genere di fortezza che Camelot era stata secoli prima: un'ampia postazione di difesa circolare, formata da una serie di terrapieni separati da grandi fossati dalle pareti scoscese, ognuno dei quali aveva un'altezza pari a tre uomini. Il posto era facile da difendere e quasi impossibile da espugnare per il nemico, a prescindere da quanto potesse essere imponente l'attacco, perché i difensori potevano semplicemente ritirarsi da un terrapieno all'altro lasciando che gli invasori entrassero e uscissero dai vari fossati, sotto l'offensiva costante che proveniva dall'alto. C'era un'apertura nell'enorme muro esterno, un'ampia galleria che costituiva l'entrata, protetta da rampe laterali e ponti soprelevati, attraverso la quale la mia guida mi condusse, mentre la folla che mi accompagnava come per magia sparì e ognuno degli uomini che la componevano tornò a qualsiasi attività stesse svolgendo prima che le nostre navi fossero avvistate. Quando uscimmo dalla galleria mi ritrovai su un ponte levatoio che ci consentì di superare la voragine del primo fossato interno; da lì proseguimmo su una serie di ponti simili che ci portarono da un terrapieno all'altro passando sopra i fossati a essi interposti. Contai sei anelli di difesa, ognuno con il suo ponte retrattile, e dopo l'ultimo anello vidi la zona centrale, un cerchio dal diametro di circa centocinquanta passi, che rappresentava il posto di comando principale e il punto nevralgico della vita della fortezza. Era quasi del tutto piena di costruzioni, molte delle quali erano semplici capanne tonde o rettangolari, fatte di terra e coperte da un basso tetto di canne. Tuttavia due edifici, molto più grandi di tutti gli altri, erano fatti di paletti e travi di legno. La mia guida mi portò direttamente verso il più piccolo dei due e gridò qualcosa di incomprensibile a una delle tre guardie che si trovavano davanti all'entrata principale, quindi si girò con il palmo della mano rivolta verso di me per avvertirmi in modo inequivocabile di restare lì e aspettare. Dopo un po'"un individuo davvero fuori dal comune uscì dall'ingresso buio e mi guardò appoggiandosi con delicatezza alla parete vicina all'entrata, le braccia incrociate sopra l'enorme petto. L'uomo sembrava un gigante, non tanto per l'altezza quanto per l'immensa mole. Aveva la testa pelata e il volto perfettamente rasato, il che mi sorprese poiché ogni altro uomo che avevo visto da quando ero sbarcato aveva la barba incolta. Pochi istanti più tardi, mi resi conto che in realtà l'uomo era del tutto glabro, non aveva nemmeno le sopracciglia: dovetti sforzarmi di non fissarlo con aria troppo incuriosita. Se quello era il re, infatti, avrebbe potuto facilmente offendersi nel caso di un mio apprezzamento sulla palese differenza che intercorreva fra lui e gli altri uomini, così mi impegnai affinché dal mio volto non trapelasse nessuno dei miei pensieri, ringraziando in silenzio sia Germano sia Merlino per avermi insegnato che bisogna mantenere sempre un'espressione impenetrabile quando si ha a che fare con gli stranieri. Chiunque fosse, quell'uomo aveva lo sguardo fisso e un tantino inquietante, anche se io sapevo cosa stava cercando di fare. Uno studio prolungato e silenzioso può essere un'arma utile per intimidire chi non ha imparato come affrontare questo genere di cose. Per fortuna, avevo utilizzato anch'io quella stessa tecnica parecchie volte e così riuscii a tenergli testa. Gli sorrisi e lui cominciò subito a parlare con voce profonda e tonante all'uomo che mi aveva condotto fin lì. La loro conversazione fu breve e quando terminò l'uomo pelato venne verso di me, le braccia ancora incrociate sul petto, e prese a girarmi intorno, squadrandomi dalla testa ai piedi. Alla fine, dopo il terzo giro, fece un passo indietro, mi guardò negli occhi e parlò in latino fluente. "Il mio uomo, Cyrgus, dice che parli un gergo straniero dal suono altezzoso. Presumo che sia latino, giusto?" "Grazie a Dio, un uomo istruito" dissi, incapace di dissimulare il mio sollievo. "Sì, era latino, ma ho provato anche con la lingua costiera e diversi altri idiomi. Dove posso trovare re Tod di Gallowa?" "Sono io. E tu chi sei?" "Mi chiamo Clothar e vengo da Camelot, nella Britannia meridionale. Vostra madre mi ha scritto, chiedendomi di venire qui a parlare con lei." "Mia madre ti ha scritto?" "Sì. Vostra madre è la regina Morgas, non è così? Spero che stia bene." "Ah! Mi ricordo di te. Devi essere quel tizio che ha conosciuto nel regno di Connlyn. Il cavaliere franco, così ti chiamava. Ma non sapevo che ti avesse scritto, tanto meno che ti avesse chiesto di venire qui. È stata malata a lungo." Qualcosa nel modo in cui pronunciò quelle parole mi fece rabbrividire, perché mi sembrava che lasciassero sottintendere la frase: prima di morire. Tossii e mi guardai attorno: doverlo chiedere mi metteva a disagio. "Lei sta... bene?" Tod scoppiò a ridere, con mio grande sollievo. "Oh, sì, sta bene ora, ma non è qui. Come mai pensavi di trovarla in questo posto?" "Io..." Ero decisamente a corto di parole. "Lei... io pensavo... Mi ha scritto chiedendomi di raggiungerla qui, nel vostro castello. Mi ha detto che viveva con voi." Il gigante rise di nuovo e io mi accorsi che quell'uomo cominciava a piacermi, benché non avessi la più pallida idea di cosa stesse succedendo. "È vero, è vero, ma ora non siamo nel mio castello, questa è soltanto una delle mie roccaforti costiere. Si tratta della residenza di Cyrgus, l'uomo che ti ha portato quassù. Lui comanda per conto mio ed è soltanto un caso che tu mi abbia trovato qui. Vengo da queste parti una volta ogni due o tre mesi per controllare che tutto vada come si deve. Cyrgus mi ha detto che hai chiesto di me chiamandomi per nome, ma il mio è un nome piuttosto comune da queste parti e lui non ti ha prestato troppa attenzione, finché non hai menzionato mia madre. È stata una fortuna che tu lo abbia fatto. C'è soltanto una Morgas a Gallowa. Vieni dentro a fare quattro chiacchiere con me, erano anni che non incontravo un uomo capace di parlare il latino. Entra, entra." Distese le braccia e allungò una delle sue enormi mani per afferrarmi una spalla con sorprendente delicatezza e indirizzarmi verso l'entrata. Venni a sapere che il suo castello si trovava nell'entroterra, a una giornata di viaggio dalla costa, e che Tod vi avrebbe fatto ritorno entro tre giorni, dopo aver visitato un'altra roccaforte situata più a nord. Quella notizia mi lasciò sgomento e gli spiegai subito che avevo soltanto sette giorni prima che le navi che mi avevano portato ripassassero di là per riprendermi e riportarmi in Gallia. Mi disse di non preoccuparmi, perché avrebbe organizzato una scorta che mi avrebbe accompagnato nell'entroterra il mattino seguente e condotto sano e salvo da sua madre; con un po' di fortuna, inoltre, io e lui ci saremmo incontrati di nuovo prima della mia partenza. Nel frattempo, però, insistette affinché cenassi con lui quella sera. Fu una cena intima e incredibilmente civile. Scoprii che Tod era un cristiano osservante e che aveva imparato il latino grazie ai numerosi preti che avevano visitato quel territorio durante la sua infanzia, tutti allievi e discepoli di un missionario dell'Eire di nome Padraic, i cui insegnamenti si erano diffusi in tutte le isole al largo della costa e in gran parte della Caledonia continentale, che lui chiamava Alba. Aveva un'intelligenza acuta e un carattere affabile, amava parlare e così chiacchierammo per tutto il resto della giornata. Apprezzava qualsiasi argomento che non fosse strettamente collegato alla caccia, alla guerra, alla pesca o all'agricoltura, e io fui lieto di accontentare quel personaggio così affascinante e vivace. Gli parlai di Artù e dei suoi sogni, di Camelot e delle sue forze armate, della nostra spedizione in Gallia dopo l'invito di re Pelles e persino di Connor Mac Athol e del suo nuovo regno nelle isole del nord. Tod era a conoscenza di tutto tranne che dell'ultimo argomento, come mi aspettavo, e mi disse con aria afflitta che gli Scoti di Dalriada erano la ragione principale per cui teneva le sue roccaforti costiere così presidiate. Sapeva che sua madre e la regina di quel regno erano sorelle e, sebbene non avesse mai avuto motivo di dubitare dell'amicizia di re Brander Mac Athol, non era altrettanto sicuro che i buoni rapporti fra il suo popolo e i litigiosi abitanti delle isole sarebbero continuati anche dopo la scomparsa di Brander. Era convinto che, prima o poi, gli Scoti di Dalriada si sarebbero abbattuti sui suoi possedimenti in cerca di conquiste. Fino a quel momento non avevano tentato nessuna offensiva, ma si trattava chiaramente di un popolo industre e ambizioso e lui dubitava che si sarebbe accontentato di vivere per sempre nei limitati confini delle isole. Cercai di rassicurarlo insistendo sull'improbabilità di una tale evenienza, ma le mie argomentazioni sembrarono poco convincenti persino a me. Connor e i suoi marinai erano gli unici Scoti che conoscevo e non avevo mai visitato la loro patria, ma sapevo che lassù la popolazione si stava armando per attaccare il continente. Forse non sarebbero arrivati così a sud, ma una volta stabiliti sul continente chi poteva dire fino a che punto o in che direzione si sarebbero spinti? Partii all'alba con una scorta di dieci guerrieri alla ricerca di Morgas e per il viaggio Tod mi prestò uno dei suoi cavalli, non un ronzino. Dovetti cavalcare a pelo, poiché la sella con le staffe a quanto pareva non era ancora conosciuta nei territori così a nord del Vallo, ma la cosa non costituì un problema e mi godetti la relativa comodità di montare un cavallo senza freni. Cavalcammo per tutto il giorno e quando avvistammo il castello di Tod all'orizzonte, il sole era già calato a occidente da molto tempo. II "Stento a credere che voi siate qui, giovanotto... che siate venuto per davvero. In realtà, pensavo che non vi avrei mai più rivisto. Mi aspettavo che, dopo aver letto la mia lettera, sareste stato troppo preso da altre cose, da qualsiasi altra cosa, per prestare attenzione ai vaneggiamenti di una vecchia con cui avevate parlato una volta sola e per così poco tempo. Eppure eccovi qua e direttamente dalla Gallia, per giunta! Dovrei far punire quelle scansafatiche delle mie domestiche per non avermi svegliata appena siete arrivato... ma mi sono state vicine in tutti questi anni... troppi anni... e si preoccupano solo di rendere i miei ultimi giorni i più tranquilli possibile. Eppure, dovrei farle frustare per essere state così ottuse, dovrebbero sapere che il solo fatto di vedere un volto nuovo e di parlare con qualcuno renderebbe i miei giorni più lieti e le mie notti più brevi. Le notti sanno essere davvero lunghe, ragazzo mio, quando si diventa vecchi. Ricordatevelo. Dunque, cosa stavo dicendo?" Le sorridevo in modo spontaneo, chiedendomi come avessi potuto trovarla sgradevole o austera al nostro primo incontro. Adesso era decisamente deliziosa, soprattutto perché era contenta e lusingata del fatto che mi fossi preso la briga di arrivare fin lassù per farle visita sulla semplice base del suo criptico invito. Quando ero arrivato, la sera prima, lei dormiva e le sue severe custodi, tutte piuttosto anziane, erano state istintivamente sospettose nei miei confronti, pertanto non solo si erano rifiutate di svegliarla perché mi accogliesse, ma mi avevano anche avvisato che, a causa dell'età avanzata e delle precarie condizioni di salute della regina, non potevo aspettarmi di vederla prima del mezzogiorno successivo. Morgas era stata informata della mia presenza solo dopo il suo pasto di mezzodì e a quel puntò mi aveva mandato a chiamare immediatamente, furiosa per la presunzione con cui le sue governanti avevano osato decidere chi poteva farle visita e chi no. Le chiamò tutte a raccolta e si scusò abbondantemente per il loro comportamento indegno e arrogante, prima di congedarle in tono stizzito e lasciare che andassero via con le teste ciondolanti per la contrizione, almeno finché non avessero voltato l'angolo. Dopodiché mi sedetti per conversare con lei e per tentare di soddisfare, almeno in parte, la sua insaziabile curiosità riguardo a tutto quello che stava accadendo in Britannia, a sud del Vallo di Adriano. Passarono svariate ore, tuttavia, prima che facesse un qualsiasi riferimento all'oggetto della sua lettera e alle funeste notizie cui aveva accennato in modo tanto misterioso. Mi informò che ogni pomeriggio doveva dormire un'ora e che era giunto il momento del suo pisolino, ma mi promise che quella sera noi due avremmo cenato da soli e che, dopo aver mangiato a sazietà ed esserci messi comodi accanto al focolare, lei mi avrebbe detto tutto ciò che dovevo sapere. Non c'era nulla che potessi fare se non assicurarle che sarei stato pronto quando mi avesse mandato a chiamare e aspettai in piedi in modo rispettoso che le donne la accompagnassero nelle sue stanze private. Dato che avevo di nuovo parecchio tempo da trascorrere, mi recai nelle stalle e presi il mio cavallo, dopodiché feci un giro intorno al castello di Tod, disegnando un grande cerchio per osservarlo da tutti i punti di vista. Era una vera e propria fortezza un edificio a pianta quadrata, progettato unicamente per la difesa fatta di pietra e situata in modo strategico in cima a una lunga e bassa cresta che offriva un'ottima visuale per miglia e miglia in ogni direzione. Trovai quel posto sconcertante: erano chiare le sue origini romane, eppure mi avevano insegnato che quel popolo non si era mai spinto fino alla Caledonia, ossia al di là del Vallo di Antonino, che si trovava a nord della grande barriera di Adriano ed era ormai abbandonato da lungo tempo. Tuttavia, quel castello era la prova evidente che i Romani non si erano solo spinti fin là, ma ci erano anche rimasti abbastanza a lungo da erigere gli imponenti spalti merlati che fissavo ora. Non avevo modo di sapere quando fosse stato eretto quel castello, ma doveva essere successo secoli prima. La cavalcata intorno alla fortezza mi aveva tenuto occupato fino all'ora di cena; al mio ritorno appresi con grande disappunto che le antiche terme romane erano in disuso da talmente tanto tempo che nessuno sapeva più a cosa servissero. Così mi restò un mucchio di tempo per ripulirmi con l'acqua calda delle cucine e rendermi presentabile prima che la regina mi chiamasse alla sua tavola. La cena che consumammo insieme quella sera era squisita, malgrado fosse chiaro che era stata preparata tenendo espressamente conto dell'età avanzata della signora: consisteva in una magnifica selezione di carne stufata, così tenera che non occorreva molta energia per masticarla, coperta da una salsa densa e sapientemente insaporita con verdure ed erbe aromatiche e servita su spesse fette di pane appena sfornato. Non c'era vino, cosa che mi rese felice, sebbene negli ultimi mesi in Gallia avessi sviluppato una certa tolleranza a quello strano sapore; al suo posto ci servirono enormi caraffe di ottima birra, ricca e spumosa, che veniva prodotta proprio lì nel castello. Poi, come promesso da Morgas, la tavola fu sparecchiata, il fuoco venne rifornito di nuovo combustibile e, congedati i servitori, noi due restammo soli a goderci la luce e il calore del fuoco, per parlare tutto il tempo che volevamo. Ormai non stavo più nella pelle dalla curiosità e dovetti reprimere l'istinto di chiederle senza reticenze il perché di tanta segretezza. Lei non mi fece attendere per molto e, non appena iniziò a parlare, mi appoggiai allo schienale, rapito dalla storia che stava per raccontare e lieto di non averle messo fretta, ma di aver aspettato che fosse pronta a farlo a modo suo. "Non posso dire di essere mai stata l'amante di Uther Pendragon," cominciò "ma ho diviso il letto con lui parecchie volte, per diverse settimane." Mi vide sprofondare nella sedia e rise, ma fu una risatina sorprendentemente stridula e infantile. "Vi ho sconvolto! Non vi sareste mai aspettato di sentire una cosa simile da una vecchia signora, non è così?" "No" obiettai, alzando le mani. "No... Sì! Perdonatemi, ma avete ragione. Sono rimasto sconvolto dalla rapidità con cui... voglio dire, proprio all'inizio del... Di certo sapete come catturare l'attenzione dei vostri ascoltatori, mia signora." "Lo credo bene, alla mia età. Inoltre, è la pura e semplice verità. Come ho detto, per un certo periodo abbiamo condiviso il mio letto... oppure il suo. Noi lo abbiamo ingannato, capisci? Gli abbiamo mentito." "Vi chiedo scusa, mia signora, ma non capisco. Ho sentito Merlino Britannico parlare di questi eventi, ma lui non era presente quando si sono svolti, perciò stava solo riferendo quanto udito da altri; quindi, perdonatemi se ve lo chiedo direttamente: chi intendete con "noi"?" "Noi, Ygraine e le sue donne... Oh, va bene, dovrò cominciare tutto dal principio, perché è ovvio che non sapete nulla di questa vecchia storia. Siete troppo giovane, per voi non c'è alcuna differenza tra quanto accaduto cinquanta anni fa nella mia vita e quanto successo cinque secoli fa a Giulio Cesare. Fatemi pensare, allora... Ygraine era la regina di Cornovaglia ed era originaria del luogo che i Romani chiamavano Hibernia; aveva sposato Lot, re della Cornovaglia, per stabilire un'alleanza tra suo padre, un potente capo nella sua terra natia, e quel sovrano. Il suo nome per esteso era Gulrhys Lot e, nonostante sapesse rendersi amabile quando gli faceva comodo, ossia non molto spesso, era in realtà un individuo spregevole e totalmente folle. E più invecchiava, più diventava perfido. A quel tempo c'era una guerra in corso fra Lot e le forze settentrionali di Camelot - qualunque posto a nord della Cornovaglia era "settentrionale" per quella gente - e le armate di Camelot erano capitanate da Uther Pendragon, il quale ci era stato descritto come una bestia feroce. Naturalmente c'era Lot dietro tutto quello, e di lui non ci si poteva mai fidare. Per sicurezza, comunque, la regina, insieme a un gruppo di dame di compagnia di cui facevo parte anch'io, quell'anno aveva trascorso l'inverno nella casa di un vecchio sostenitore di Lot, il duca Herliss, e in primavera sarebbe dovuta tornare alla fortezza del consorte a Golant. Era un viaggio di circa trenta miglia romane, ma eravamo scortate da Herliss in persona e da un intero convoglio di uomini e carri di rifornimenti destinati a Lot. Si riteneva che le truppe di Pendragon non fossero ancora penetrate in modo consistente nel nostro territorio. Scoprimmo che non era affatto così. Un gruppo di soldati di Uther ci tese un'imboscata e catturò tutta la compagnia, compresi gli uomini e i carri con i rifornimenti. Fu un'esperienza terrificante per la regina e per tutte noi. Ma lei era più forte e più ingegnosa di quanto pensassi e mi ordinò subito di prendere il suo posto, di assumere la sua identità e di fingermi la moglie di Lot, mentre lei si presentò come una semplice serva, con la speranza di non essere scoperta. E lo stratagemma funzionò per un bel pezzo. Fui portata via e tenuta separata dalle altre donne, anche se queste avevano il permesso di farmi visita ogni giorno, e Ygraine riuscì a non farsi scoprire. Non so dirvi quando cominciai a rendermene conto - ora penso che fosse evidente fin dal principio, solo che noi ci rifiutavamo di crederlo -, ma Uther Pendragon non era affatto la bestia che ci avevano descritto. Era pulito, tanto per cominciare, così come molti dei suoi uomini, i quali prendevano tutti molto sul serio la pulizia... molto più di Lot e dei suoi seguaci, che puzzavano quasi tutti di pelle di capra stantia. Parlava in tono pacato, o perlomeno io non l'ho mai sentito alzare la voce. Ma soprattutto era rispettoso nei miei confronti e questo non me lo aspettavo. Lui era il mio rapitore e io la sua prigioniera, la sua schiava... e presumibilmente la moglie del suo acerrimo nemico. Davanti ai suoi uomini avrebbe potuto trattarmi come l'ultima delle sgualdrine o gettarmi fra le loro grinfie per farli divertire e nessuno si sarebbe meravigliato. Ma non lo fece. Mi tenne nella sua tenda personale e mi fece sorvegliare notte e giorno; lasciò tutta per me una parte della tenda, separata con un divisorio, e non cercò mai, neppure una volta, di entrarvi senza prima essere invitato." Ero sicuro che si sbagliasse su questo: riuscivo a immaginare come doveva essere bella un tempo quella donna, ero del tutto affascinato dal suo racconto, e cercavo di figurarmi quale reazione poteva aver scatenato la sua avvenenza nel giovane Uther Pendragon, all'apice delle forze, a meno di un anno dalla sua morte. Non ebbi modo di obiettare, comunque, perché Morgas aveva già ripreso la narrazione, persa nei propri ricordi. Inarcò un sopracciglio. "Come vi sarete reso conto, ho detto "senza essere invitato". Già, perché lo invitai diverse volte e lui venne da me volentieri. Naturalmente pensava che fossi la regina Ygraine e io non lo disingannai. Anzi lo incoraggiai, convinta che avrebbe favorito il nostro piano, che poi era tutta una strategia per spostare la sua attenzione dalla vera Ygraine." Fece una breve pausa e quando parlò di nuovo la sua voce era malinconica, permeata da una sorta di rimpianto. "Ero lusingata di essere stata scelta per interpretare il ruolo della regina e, quando accettai il compito, sapevo che forse sarei stata costretta ad andare a letto con il mio rapitore, ma non avrei mai immaginato che la cosa potesse piacermi tanto. Tutte noi avevamo dato per scontato che Uther si sarebbe sentito attratto da me, perché a quei tempi ero molto bella, malgrado possa sembrarvi strano adesso. Ero alta, con le spalle larghe, la vita sottile e due seni pieni e sodi che facevano girare la testa a ogni uomo che incontravo. E avevo i capelli lunghi e biondi, andavo molto fiera della mia chioma... anche dei miei seni, se è per questo... Comunque sia, ero giovane e sana, con tutte le pulsioni tipiche di una ragazza nel fiore degli anni, e mi piacevano gli uomini. Infatti, tra le dame della regina, avevo la fama - immeritata, ci tengo a sottolineare - di essere una un po' facile, disponibile. E Uther era incredibilmente bello e affascinante. Sono certa che vi chiederete perché vi stia raccontando tutto questo. Bè, pazientate ancora un po'. La cosa più sorprendente di questa storia, almeno per me, è che Uther Pendragon sapeva fin dall'inizio che io non ero Ygraine di Cornovaglia. Aveva capito fin dal primo istante che stavamo cercando di imbrogliarlo, e invece fu lui a imbrogliare noi, sfruttando il nostro stesso stratagemma e lasciando che Ygraine si credesse al sicuro, mentre i suoi uomini la tenevano costantemente sotto controllo e ascoltavano tutto quello che diceva. Ma presto scoprì che Ygraine non aveva grandi segreti da rivelare riguardo a Lot e che in realtà lo disprezzava e lo temeva. Poi, in un mite pomeriggio di primavera, mi mandò a chiamare e mi confessò di sapere tutto. Pensavo che lo avesse appena scoperto ed ero terrorizzata, perché immaginavo fosse furioso e che, come minimo, mi avrebbe fatta fustigare per averlo ingannato. Ma lui non era affatto in collera. Mi disse che aveva sempre saputo chi era la vera Ygraine, l'aveva riconosciuta a prima vista dai lucidi capelli rossi, dei quali aveva sentito parlare a Camelot proprio da uno dei fratelli della regina. Poi mi chiese chi fossi e da dove venissi. Quella volta gli dissi la verità, cioè che ero nata nei territori situati al di là del Vallo, ero una delle sette figlie di un piccolo sovrano locale, un tempo famoso guerriero, ed ero stata mandata in Cornovaglia da mio padre, il quale in gioventù era stato molto amico del padre di Lot. Mi chiese anche se ero soddisfatta della mia vita in Cornovaglia e se avevo qualche probabilità di fare un buon matrimonio. Ancora una volta gli dissi la verità, ossia che non ne avevo nessuna, dal momento che tutti gli uomini che conoscevo o erano leccapiedi di Gulrhys Lot o erano morti per mano sua. Fra quelli che erano morti ce n'era stato qualcuno con cui avrei anche potuto sposarmi, ma non avrei mai accettato di diventare l'amante né tanto meno la moglie di uno di quegli individui disgustosi che si erano comprati la sopravvivenza sacrificando e tradendo tutto ciò in cui avevano sempre creduto. Gli confessai che in quel momento avevo il solo desiderio di tornare a vivere nel luogo in cui ero nata, qui al Nord. Mi mandò via il giorno stesso, facendomi scortare fino al mare, dove i suoi soldati, dopo pochissimi giorni, salutarono una piccola flotta di galee mandata dal Nord per incontrarli. Tornai quassù a bordo di una di quelle imbarcazioni e fui riaccolta nella casa di mio padre. Non sono mai più tornata in Cornovaglia da allora e non ne ho mai neanche sentito il bisogno. Non ho più avuto notizie della regina Ygraine e delle altre donne... probabilmente saranno tutte morte ormai, dato che è passato molto tempo. E non ho più neppure sentito il nome dei Pendragon finché non ho conosciuto voi, durante quella visita a mio... fratello." L'esitazione nella sua voce fu minima, ma indiscutibile. La regina Morgas era piuttosto a disagio nel parlare del fratello e tornò subito al suo monologo, quasi fosse lieta di potersi sbarazzare di lui. "Mi avete detto che Uther Pendragon ha generato un figlio, questo Artù, che voi definite il re della Britannia Unita... qual è il termine che avete usato?" "Riotamo." "Sì, proprio quello, il riotamo. Ma all'epoca non capivo come questo fosse possibile e vi confesso che ho ancora qualche dubbio. Uther Pendragon non era un re, era un capo nei suoi territori della Cambria. E Camelot non era un regno, era solo un luogo. Una volta l'ho sentito descrivere come un villaggio situato in cima a una collina." Si fermò un istante, mentre io borbottavo qualcosa fra me e me, e a un tratto tornò a essere la vecchia signora astiosa e priva di senso dell'umorismo che avevo incontrato nella fortezza di Ushmar anni prima. "Che cosa c'è? Ho forse detto qualcosa di buffo?" Trattenni un sorriso e mi schiarii la voce. "Perdonatemi, mia signora, ma ero divertito dalla descrizione che avete dato di Camelot: "un villaggio in cima a una collina"." "E cosa c'è di tanto divertente?" Alzai le mani in segno di resa. "Nulla, mia signora, assolutamente nulla. Mi è solo venuto in mente che un tempo anche Roma era un semplice villaggio in cima a una collina. Perdonatemi, non avevo alcuna intenzione di offendervi." La sua espressione divenne più dolce; annuì. "Avete perfettamente ragione e non mi sono per niente offesa. Un tempo anche Roma era un villaggio in cima a una collina. Ma da quanto tempo Camelot è diventata un regno?" "Non lo è ancora, mia signora. È solo la patria del sommo re e Artù lo è diventato solo quando i vescovi della Britannia gli hanno messo la corona di riotamo sulla testa durante un solenne conclave, neanche cinque anni fa. Ma, ciononostante, discende da sangue reale. Nelle sue vene scorre il sangue dei re degli Scoti di Hibernia, grazie alla madre, Ygraine, e..." "Ma certo... Ygraine era sua madre." La regina corrugò il viso mentre i suoi pensieri fluivano e poi annuì, come se avesse preso atto di qualunque cosa avesse visto nella sua mente e accennò addirittura un sorriso. "Certo, era inevitabile, date le circostanze. Quella di Ygraine era stata una vita triste e priva di amore, da quando aveva sposato Lot. Non ce l'avrebbe mai fatta a resistere al fascino di Uther... sempre ammesso che ci abbia provato. E non si sono mai sposati?" "No, mia signora, mai. Da quello che so, Uther, Lot e Lady Ygraine sono morti tutti lo stesso giorno. Uther e Ygraine ebbero un figlio e vissero insieme per un anno, perciò il bambino aveva tre mesi quando tutti loro perirono durante lo scontro finale di quella guerra. Merlino Britannico non arrivò in tempo per salvare la vita alla madre del bambino. Dato che era sposato con una delle sorelle di Ygraine, egli era lo zio di quel piccolo, che la madre aveva chiamato Artù poco prima di morire. Il bimbo fu l'unico superstite di quel disastro e Merlino lo trovò soltanto per caso, su una barca che galleggiava. Lo portò con sé a Camelot e lo allevò come fosse figlio suo, l'erede di una lunga e illustre dinastia..." Quando tacqui, Morgas fece per parlare di nuovo, ma poi anche lei piombò in un gran silenzio e rimase assorta nei suoi pensieri per molto tempo. Alla fine disse: "Quindi Uther è morto in Cornovaglia... non l'ho mai saputo... non avrei mai potuto saperlo... ho sempre pensato che fosse sopravvissuto a quella guerra, che si fosse sposato e avesse avuto altri figli". "No, signora," replicai in tono dimesso "non sopravvisse." E poi di colpo afferrai il senso delle sue parole e drizzai la schiena. "Che intendete con altri figli? Altri rispetto a chi? Non sapevate nulla di Artù finché io non ve l'ho menzionato, perciò quali altri...? Dolcissimo Gesù! Avete partorito un figlio di Uther Pendragon! È così, non è vero?" "Sì, è così." Il suo viso era il ritratto della serenità. "Avevo già concepito quando me ne andai, suo figlio già cresceva nel mio ventre, anche se non sospettai nulla finché non saltai il mio secondo ciclo. La prima volta non ci badai. Il mio organismo non era mai stato regolare nei suoi cicli e mi era già capitato diverse volte. Ormai erano passati due mesi e io ero tornata sana e salva in patria, dove avevo attirato l'attenzione dell'uomo con cui in seguito mi sposai e rimasi per molto tempo. Lui aveva un figlio di quattro anni, anch'egli di nome Tod, che non aveva mai conosciuto l'amore materno e che adesso mi venera come se fossi la sua vera madre, morta dandolo alla luce. Tod voleva sposarmi prima di tornare qui al Sud nel suo regno di Gallowa, e quando mi resi conto di essere incinta, gli raccontai la verità sulla mia condizione, del tutto convinta che mi avrebbe ripudiata. Non lo fece. Sapeva che ero stata prigioniera e pensò che qualcuno avesse abusato di me contro la mia volontà, così mi disse di non aggiungere altro, non ne parlammo mai più. Ci sposammo subito e io lasciai per sempre il regno di mio padre per trasferirmi qui. Il tempo passò e alla fine partorii. Mio marito non rivelò mai a nessuno che il bambino non era suo, e io custodii gelosamente nel mio cuore quel segreto." "Quindi state dicendo che Artù ha un fratello, giusto? Che non è l'unico erede di Uther Pendragon?" "No, non è un fratello. Da Uther ho avuto una figlia." "Una figlia." La cosa mi sorprese, e in qualche modo fu una delusione: una figlia non avrebbe costituito nessuna minaccia per Artù; in realtà per lui avere una sorella poteva essere una gioia piuttosto che una minaccia. "Uther aveva una figlia? E non avete mai cercato di rintracciarlo per dirglielo?" Mi sorrise in modo tenero e malinconico. "A che prò? Un tentativo simile non avrebbe causato altro che dolore a tutti gli interessati. Non covavo nessun rancore nei confronti di Uther. Mi aveva trattata con umanità e rispetto e mi aveva restituito la vita. La bambina, la nostra bambina, venne accettata da mio marito senza remore; lo incantò e lo amò come un padre, lo amò più di ogni altro uomo sulla faccia della Terra per tutta l'infanzia. Non aveva idea di chi fosse il suo vero genitore e io non avevo alcuna intenzione di far soffrire lei o Tod rivelandolo. Pensai fosse meglio lasciar correre e portare quel segreto con me nella tomba per non ferirla." "Mi rendo conto. E capisco anche i motivi che vi hanno spinta a comportarvi così... Ma perché cambiare idea proprio adesso? La ragazza è venuta a sapere la verità su suo padre?" "No, è morta... la mia adorata bambina è morta... sono passati dieci anni ormai..." Emise un profondo sospiro. "E le ragioni per cui ho intenzione di sciogliere il mio silenzio proprio adesso sono diverse, una però prevale su tutte le altre. Quella che mi ha spinto a scrivervi. Per anni sono stata convinta di non aver detto a nessuno la verità, ma mi ero dimenticata di averlo confidato a mia sorella Morag all'inizio, appena scoperto di essere incinta. Non sapevo cosa fare e mi fidavo ciecamente di lei. Morag e io eravamo amiche oltre che sorelle. Eravamo le due figlie maggiori e ci raccontavamo tutto. Lei aveva molta più confidenza con me che con le altre nostre sorelle, tutte molto più giovani. Morag aveva soltanto un anno più di me, ma fu lei a insistere perché dicessi a Tod la verità sul bambino... ero già al secondo mese di gravidanza ormai e lei mi convinse che non avrei mai potuto mentire sulle date e sui tempi di un simile evento. La cosa mi spaventava, ma si rivelò la scelta giusta: fui sempre grata a mia sorella per quel consiglio, anche se dopo la mia partenza non la vidi mai più. Così quando nacque la mia bambina la chiamai Morag, come lei." "E...?" Non riuscivo a capire dove volesse arrivare, ma ciò che disse dopo mi lasciò esterrefatto. "Morag lo disse a nostro fratello, Connlyn. Era soltanto un bambino all'epoca, viziato all'inverosimile da una moltitudine di sorelle più grandi che lo adoravano, tanto che capì molto presto come manipolare le persone... e non dimenticò mai ciò che Morag gli aveva detto. Non so proprio quando e perché lo abbia fatto, ma sono sicura che glielo abbia confidato, perché è stato lo stesso Connlyn a parlarmene." Restai in silenzio per un istante a riflettere prima di replicare, poi mi rivolsi di nuovo a lei con aria perplessa. "Quindi Connlyn sa che Artù ha, o meglio aveva, una sorella. Che cosa c'è di male? Vostro fratello si è dimostrato un bugiardo e traditore oltre che un nemico imprevedibile e pericoloso, ma il fatto che sappia di una sorella morta... non capisco come possa mettere in pericolo Artù o Camelot." "Mi rendo conto che voi non riusciate a capirlo. Ma c'è dell'altro." Un vero e proprio brivido mi attraversò, facendomi spuntare la pelle d'oca, e capii che non mi sarebbe piaciuto quello che stavo per ascoltare. "Che altro?" "Molto altro. Prima vi ho detto che avevo sei sorelle. Una delle più giovani si chiamava Salina ed era la più bella di tutte. Quando sposai Tod la conoscevo appena, perché c'erano otto anni di differenza fra noi, ma molto tempo dopo la rincontrai e diventammo amiche. Bè, a causa di una lunga storia che ora non hai bisogno di sapere, Salina visse fin dalla prima infanzia nelle isole Orcadi, situate nel lontano Nordest, e divenne la figlia adottiva del sovrano locale dopo che il figlio di quest'ultimo, che avrebbe dovuto sposarla una volta raggiunta la maggiore età, era stato catturato e ucciso durante una razzia. Anni dopo, quando gli Scoti che ora governano le isole a ovest di qui si misero in contatto con il re delle Orcadi, Salina conobbe e sposò il loro re, un uomo di nome..." Era ovvio che si stava sforzando di ricordare quel nome, così l'aiutai. "Brander Mac Athol." Morgas sgranò gli occhi. "Come fai a saperlo?" "Conosco il fratello. Connor Mac Athol. È stato lui ad accompagnarmi sulla vostra costa. Mi ha detto che vostra sorella era la moglie di suo fratello." "Ottimo!" Sbuffò come se volesse esprimere il suo sconcerto per i casi della vita, dopodiché socchiuse gli occhi e tornò alla sua storia. "Connor Mac Athol è il nome dell'uomo che per primo mi portò notizie di mia sorella Salina, tramite una lettera. Remò fino a riva da solo, sorvegliato dalle nostre guardie, e depositò il pacchetto con la lettera su una roccia affinché fosse recapitato a Tod. Nella lettera Salina mi raccontava della sua vita e mi invitava a recarmi nelle Orcadi, per assistere alle nozze tra lei e questo Brander, che si faceva chiamare re degli Scoti." Si ammutolì di nuovo per un istante e fissò il vuoto. "Non potevo andarci. Tod si era appena ammalato a causa di una pestilenza che poi lo avrebbe ucciso due anni dopo e non lo avrei mai lasciato solo per incontrare una sorella che non avevo mai conosciuto. Ma Morag aveva compiuto da poco quattordici anni e sembrava già una donna, alta, bella e fresca come una rosa. Pensai che le avrebbe fatto bene stare lontano da casa per un po', conoscere altre parti del mondo ed evitare di soffrire nel vedere il padre peggiorare sempre di più. Perciò organizzammo tutto perché andasse lei nelle Orcadi, a bordo di una delle galee di Brander Mac Athol, per assistere alle nozze al posto mio. Restò lassù quasi un anno e fece strage di cuori." Sorrise, di nuovo con aria nostalgica, poi si voltò verso di me e mi guardò dritto negli occhi. "Quando giunse il momento del suo ritorno a casa, si fermarono prima nel regno di Brander e poi salparono sulla galea di Connor per venire qua, ma furono mandati fuori rotta da una tempesta e trascinati a sud, dove trovarono rifugio nella baia di una città chiamata Ravenglass, a dieci miglia da un posto chiamato Mediobogdum, una fortezza romana abbandonata, in mezzo ad alcune colline, dove uno dei più cari amici di Connor Mac Athol aveva scelto di vivere. Com'era naturale, poiché senza volerlo si erano ritrovati così vicini, andarono a fargli visita e fu lì che Morag incontrò un giovane della sua stessa età e se ne innamorò. Si chiamava..." Avevo preso fiato in modo così brusco che mi strozzai con la saliva e fui scosso da una serie di dolorosi colpi di tosse. Quando l'attacco finì, mi vorticava ancora la testa a causa di quello che Morgas aveva detto. "Era sua sorella" esclamai, respirando ancora a fatica. "Dolcissimo Gesù, era sua sorella! E lui la ama ancora, il suo vero amore perduto... Sua sorella..." "Sorellastra, ma questo non fa alcuna differenza. È stata opera degli antichi dèi... quelli che si divertono a sconvolgere i piani e le speranze degli esseri umani. La tragedia è che era stato il Fato a stabilire quello che doveva accadere... aveva addirittura mandato la tempesta che li aveva portati verso sud fino a Ravenglass. Non è stata colpa dei ragazzi. Loro hanno soltanto risposto a degli istinti naturali. Nessuno dei due poteva sapere che c'era qualcosa di sbagliato, perché le persone lì presenti sapevano soltanto che Morag era la figlia di re Tod di Gallowa." "Ma sono stati insieme..." "Sì, è vero. E la loro unione ha dato i suoi frutti. Alcuni ti diranno che il fulmine non colpisce mai due volte nello stesso punto, ma quando ci sono di mezzo i Pendragon, io preferisco credere il contrario." "Buon Dio! Che cosa avete fatto?" "Tutto quello che potevo. Ancora prima di tornare a casa, Morag aveva già un pretendente che la aspettava, un giovane principe norvegese di nome Haakon, che aveva conosciuto nelle Orcadi. Avevo osservato con piacere quanto si fosse invaghito della mia splendida figlia, ma quando Morag tornò a casa era radiosa per quest'altro ragazzo che aveva amato e che aveva promesso di sposare. Il suo nome era Artù, mi disse, veniva da un posto chiamato Camelot e il padre era stato un prode capo guerriero della Cambria, di nome Uther Pendragon." Ancora una volta fra di noi calò il silenzio e io rimasi a fissarla, mentre lei rovistava in qualche angolo remoto della sua memoria. Dopo un po', si lasciò andare a un lungo sospiro ed ebbe un fremito. "Non potete nemmeno immaginare che effetto mi abbia fatto sentire uscire quel nome dalla bocca di mia figlia. In un batter d'occhi, tutta la sofferenza, l'angoscia e la vergogna, che credevo di aver evitato, mi piombarono addosso e mi resi conto di quello che avevo fatto... di quello che i miei anni di silenzio avevano causato. Non riuscii a sopportarlo e, per la prima e unica volta in vita mia, caddi a terra priva di sensi. Quando ripresi conoscenza, ero nel mio letto. Morag era seduta accanto a me e mi stringeva la mano, sconvolta. Pensava che sarei stata felice dopo il suo annuncio e io, invece, ero svenuta per l'orrore. Non so proprio come spiegarvi il comportamento che tenni in seguito, perché non ha senso. Dovete rammentarvi che a quel punto non sospettavo minimamente che Morag potesse essere incinta. Era ancora una bambina e l'idea mi sfiorò soltanto molto tempo dopo. No, ero semplicemente sopraffatta dal dolore, perché ormai la felicità che avevo cercato di darle - sforzandomi in tutti i modi di proteggerla dalla verità - era andata in fumo, distrutta per sempre dalla tragica follia che l'aveva fatta innamorare dell'unica persona al mondo che le era proibita: suo fratello." Sospirò di nuovo e strappò distrattamente qualcosa dalla stoffa del vestito. "Cominciai a piangere insieme a lei e non riuscii più a fermarmi. Piansi per due giorni... proprio io, che non versavo mai una lacrima davanti agli altri. Sapevo che mi stavo comportando come una sciocca, commiserandomi, ma ero incapace di controllarmi e di smettere di piangere. E ovviamente nessuno capiva perché mi comportassi in quel modo. Mio marito stava morendo, questo era noto a tutti, ma erano due anni che si indeboliva pian piano e negli ultimi sei mesi non era riuscito più neanche ad alzarsi dal letto, perciò tutti, me compresa, ormai avevano accettato che la sua morte sarebbe stata una benedizione. Secondo loro era quella la ragione del mio stato... il dolore. Avevano ragione, di dolore si trattava, ma si sbagliavano riguardo alla causa. Soffrivo per mia figlia e per la perdita dell'innocenza che presto avrebbe sperimentato, perché durante tutto quel periodo in cui ero apparsa inconsolabile, la mia mente aveva lavorato senza sosta e ormai avevo capito cosa bisognava fare." "Glielo avete detto." "Sì, gliel'ho detto. Che altra soluzione mi restava? La portai con me a trovare una cara amica che viveva a mezza giornata di viaggio da qui. Morag adorava farle visita, così noi due andavamo spesso da lei tutte sole in groppa a due ronzini, poiché da queste parti non c'era mai il rischio di essere aggredite dai predoni. La cavalcata durava circa quattro ore, perciò potevamo partire subito dopo l'alba e arrivare lì prima di mezzogiorno. Quella volta, però, avevo fatto in modo che la mia amica non fosse in casa al nostro arrivo, ma che tornasse prima di sera. Così ci sistemammo, in teoria per aspettarla, ma in realtà era tutto studiato affinché io avessi il tempo necessario e la giusta intimità per confessare a Morag ogni cosa. All'inizio si rifiutò di credermi, mi disse che dovevo essere impazzita o che mi ero sbagliata, o entrambe le cose... Ma non poté più sfuggire alla realtà, quando cominciai a raccontarle la mia storia. La prese molto male, anche peggio di quanto avevo immaginato, e per un mese non mi rivolse la parola. Poi saltò il ciclo mestruale. Aveva raggiunto l'età dello sviluppo da due anni ormai, anzi quasi tre, pertanto sapevamo che non soffriva delle irregolarità che avevano sempre afflitto me. Così quando saltò il ciclo, sapendo che aveva dormito con quel ragazzo per diverse notti, ebbe il buon senso di venire a parlarne con me. Con quella cosa, naturalmente, guardavo la faccenda sotto un'altra luce. Ma fu la stessa Morag a risolvere il problema: ormai erano settimane che ripensava alla storia che le avevo raccontato e, senza chiedermi niente, andò dal giovane principe delle Orcadi, che stava ancora perlustrando il nostro porto con la speranza di vederla. Non tentò né di ingannarlo né di mentirgli. Gli disse che aveva incontrato un ragazzo e come una sciocca se ne era innamorata, che adesso era pentita, ma portava in grembo suo figlio. Non aveva alcuna intenzione di rivederlo, ma il suo bambino aveva bisogno di un padre. Sarebbe diventata sua moglie a tutti gli effetti, gli disse, se lui fosse riuscito ad accettarla nonostante il suo stato. Deve essere stato umiliante, abbassarsi a tanto e affidarsi alla sua clemenza, ma lui era innamorato pazzo e accettò le sue condizioni, perché era l'unico modo in cui poteva sperare di averla; così si sposarono subito, senza tante cerimonie, e lui la portò nelle Orcadi come sua moglie." Morgas sollevò il mento in direzione del fuoco. "Si è quasi spento. Sarà meglio aggiungere un po'"di torba, prima che sia troppo tardi." Mi accucciai davanti al focolare e presi a smuovere i resti dei tizzoni ardenti che si trovavano sul fondo, ravvivando le fiamme, dopodiché infilai qualche nuova formella di combustibile secco in mezzo alla brace. Tornai a sedermi e intanto mi strofinai le mani per togliere la polvere di torba. Morgas era rimasta a osservarmi mentre attizzavo il fuoco e, quando vidi che i suoi pensieri erano altrove, la incoraggiai con delicatezza a continuare. "Siete rimasta qui, quando lei se ne andò?" "Certo. Che altro potevo fare? Avevo un marito moribondo da accudire. Ma parlai con il giovane Haakon prima che partisse e lui mi promise di mandarmi una nave entro sei mesi, perché pensavamo, e speravamo, che per allora Tod sarebbe morto da un pezzo, liberato finalmente dal dolore che lo aveva afflitto negli ultimi due anni... E così accadde. Tod ci lasciò un mese dopo la partenza di Morag e suo figlio, che ormai era un ragazzo di circa vent'anni, divenne re al suo posto. I restanti cinque mesi trascorsero molto lentamente, ma alla fine una galea venne a prendermi e partimmo per il Nord affrontando un lunghissimo viaggio. Sapete quanto sono distanti le Orcadi?" Scossi il capo. "No, mia signora, non so nemmeno cosa siano." "Sono un gruppo di isole remote e desolate, nel lontano Nordest. Si trovano vicino alle terre della Norvegia, è per questo che sono governate dai Norvegesi. Nessuno qui è interessato a quelle isole." "Ma siete arrivata in tempo per aiutare vostra figlia a partorire?" "Sì, arrivai in tempo, ma non potei fare nulla per lei. Morì durante il parto. Mia figlia era sempre stata una bambina sana e bella ed era diventata anche una donna stupenda, ma quando arrivai nelle Orcadi, la riconobbi a stento. Era dimagrita oltre ogni dire e aveva un aspetto orribile, la sua gravidanza non era stata facile. Sembrava aver perso l'entusiasmo, la voglia di vivere, una volta scoperto che Artù era suo fratello. Si sentiva ingannata - e anche sporca, credo - e aveva semplicemente perso ogni interesse per la vita. Non potevo fare nulla per cambiare le cose, ed era tutta colpa mia. Morag credeva fossi stata io a causarle tutto quel dolore e aveva ragione. Se fossi stata sincera con lei fin dall'inizio e le avessi raccontato la verità sulle sue origini, incontrandolo avrebbe riconosciuto il fratello dal nome e tutta quella sofferenza sarebbe stata evitata." Aspettai qualche istante che continuasse, ma sembrava che non avesse altro da aggiungere, così mi schiarii piano la voce e le rivolsi un'ulteriore domanda. "E il figlio che partorì, mia signora... era un maschio o una femmina?" "Un maschio. Lo chiamammo Mordred. È il figlio del tuo re... figlio e nipote allo stesso tempo, giacché i genitori erano fratello e sorella. Un bel pasticcio... Quando capita una cosa del genere, si sente spesso dire che i figli generati dall'incesto nascono deformi o pazzi, poiché sono i simboli viventi della colpa e del peccato dei genitori. Ma non è questo il caso di Mordred. Il ragazzo è bellissimo, ha occhi grandi, screziati di pagliuzze dorate, che ogni giovane donna vorrebbe conquistare. Ha dieci anni adesso." "E si trova ancora nelle Orcadi?" "No, vive con me, a Gallowa. Lo portai ancora in fasce, non appena fu svezzato dalla balia che lo allattava. Haakon non mosse alcuna obiezione, poiché il bambino non era suo ed era costato la vita alla moglie. Ero addolorata per Haakon, pover'uomo, quasi quanto lo ero per la mia defunta figlia, ma arrivai a ringraziare Dio per quel bambino, perché mi restituì una ragione per vivere. Lo conoscerai domani. È stato fuori per la sua prima battuta di caccia insieme a uno dei suoi zii." "Lui sa di suo...?" "Di suo padre? Sì, lo sa. Fui costretta a dirglielo prima del previsto, quando appresi ciò che quel pazzo di mio fratello aveva in mente per lui. Prima o poi avrei dovuto dirglielo comunque, giacché non volevo commettere lo stesso errore due volte." "E cosa gli avete raccontato di preciso?" "Gli ho detto chi è... l'erede del re di Camelot." "Camelot non ha un re, mia signora. Il sommo re della Britannia Unita vive lì e basta. Ma è questo alto titolo che il bambino potrebbe ereditare... sommo re della Britannia Unita." "Lo sapevo. Re di Camelot era solo una maniera più semplice per spiegare le cose al bambino. Ma anche mio fratello Connlyn lo sapeva... chissà come." Non potevo stare seduto un momento di più. Mi alzai di scatto e cominciai a camminare su e giù per la stanza. "Come poteva saperlo? Come poteva averlo scoperto? Chi poteva averglielo detto? E cosa pensava di poter ottenere con questa informazione?" "Lui pensa di poter ottenere un regno, maestro Clothar. Ne è convinto. Per questo mi aveva mandata a chiamare quella volta in cui mi avete salvata, e sebbene ignorassi ciò che aveva in mente, non mi sarei mai recata da lui se non avesse minacciato mio nipote. Fu un avvertimento sottile, ma inequivocabile per una come me che conosce i vecchi modi di Connlyn. Non mi è mai piaciuto, non mi ha mai ispirato fiducia nemmeno da bambino, e non mi fido di lui neanche adesso. Per questo mi misi in viaggio verso sud, con un falso sorriso di amore fraterno stampato sul volto, per scoprire cosa volesse veramente. Ebbene, voleva farmi sapere che conosceva la verità e pretendeva che portassi da lui il bambino. Aveva un mucchio di idee e progetti e, per quanto lo giudicassi pazzo all'inizio, mi resi conto che era davvero intenzionato a realizzarli. Avevo sempre saputo che era un egocentrico e un manipolatore, che non si curava mai degli altri, se non quando aveva bisogno di loro per raggiungere i propri scopi, ma non sapevo ancora quanto potesse essere avido, ambizioso e spietato. Per fortuna, riuscii a mascherare bene il ribrezzo che provavo nei suoi confronti. Lo ascoltai, cercando di mostrarmi entusiasta, e gli dissi che gli avrei portato volentieri il ragazzo. Quindi tornai qui e raccontai tutto a Tod. Fu allora che vi scrissi quella lettera. Sono passati quasi due anni e non è accaduto nulla, probabilmente perché il mio avido fratello è troppo impegnato a respingere le armate di Artù. Di tanto in tanto ci arriva qualche notizia dalle terre a sud del Vallo, perciò sappiamo cosa sta succedendo. Ma pensiamo che molto presto Connlyn o qualcuno dei suoi alleati verrà a cercare Mordred... Quindi il vostro arrivo è stato propizio." Ormai avevo smesso di camminare su e giù per la stanza e mi ero fermato a guardarla con aria accigliata, le braccia incrociate sul petto. "Come può essere, mia signora? Cosa intendete dire?" "Il ragazzo deve incontrare il padre. Adesso è soltanto curioso, perché non ne ha mai avuto uno, e io gli ho detto la verità, che Artù non sa niente di lui, che non sospetta nulla della sua esistenza. Perciò il ragazzo non ha rancore nei suoi confronti, incontrerebbe Pendragon apertamente, considerandolo per quello che è. Ma tutto potrebbe cambiare se mio fratello posasse le sue grinfie su di lui. Metterebbe Mordred contro suo padre in pochissimo tempo e userebbe il ragazzo come merce di scambio... il figlio di Artù, l'erede legittimo del sommo re. E alla fine, quando un giorno Artù morirà, che sia per una ferita riportata in battaglia, per una malattia o per un tradimento - a Connlyn non interessa come, a lui interessa solo che muoia -, rivendicherà il trono per il nipote e governerà come suo zio e reggente." Mi allontanai da lei a grandi passi per andare verso una delle strette finestre con gli scuri che tenevano fuori l'aria della sera e spalancai le imposte, sentendo la brezza fresca entrare all'istante. Le parlai senza voltarmi completamente. "Ancora non riesco a capire come abbia fatto vostro fratello a scoprire tutte queste cose, mia signora... A meno che non gliele abbiate raccontate voi." "Non siate sciocco, maestro Clothar. Ha saputo da mia sorella che il padre di Morag era Uther Pendragon. Inoltre nessuna delle persone che facevano parte della compagnia con cui Morag viaggiava quando incontrò il giovane Artù trovava strana o scandalosa l'attrazione che provavano l'uno per l'altra. I due erano abbastanza grandi ed erano entrambi belli e pieni di vita. La loro scorta ne parlava con franchezza e diletto, pensando che i due avessero tutto sotto controllo e che fossero entrambi troppo sorvegliati perché potesse accadere qualcosa di sconveniente. Connlyn ha spie dappertutto e una di loro potrebbe essere incappata in questa informazione all'apparenza inutile, ma intrigante... la figlia di Tod di Gallowa e il giovane Pendragon. A quel punto può averla venduta a Connlyn, al quale bastava anche un minimo accenno a quegli eventi. Così quando mio fratello è venuto a sapere che Morag aveva sposato Haakon delle Orcadi pochissimo tempo dopo, avrà fatto i suoi calcoli e avrà tirato le conclusioni. Ma è probabile che abbia semplicemente trovato la cosa divertente e di nessuna utilità, finché Artù Pendragon non è diventato sommo re della Britannia Unita. A quel punto la mente contorta e calcolatrice di Connlyn deve aver cominciato a considerare le eventualità che potevano derivare da ciò che sapeva." Aveva parlato al vuoto che ci divideva, gli occhi fissi su un punto sopra la mia testa, ma adesso stava guardando dritto verso di me. "E così arriviamo ai giorni nostri. Come pensate reagirà il vostro re alla notizia che ha un figlio?" Potei solo scrollare il capo, mentre immaginavo di dare l'annuncio ad Artù. Non avevo la più pallida idea di come avrebbe reagito e lo dissi alla regina. Morgas increspò le labbra e annuì piano. "Credete che lo riceverà?" "Oh, Artù riceverà il ragazzo, su questo non ho alcun dubbio. E quando lo shock per aver saputo che ha un figlio svanirà, probabilmente lo riconoscerà pubblicamente come suo erede. E lo tratterà come merita, con la deferenza che spetta al suo rango e a sua madre, che Artù venera ancora dopo dieci anni... Ma il ragazzo è pur sempre figlio di un rapporto incestuoso, non conta quanto fossero innocenti le loro intenzioni. Non posso prevedere come ciò influenzerà il re. Non lo so proprio." "Ma porterete il ragazzo a Camelot adesso." "Adesso?" "Sì, adesso" disse la regina Morgas. "Quando partirete da qui per fare ritorno dovunque siate diretto. Altrimenti temo che non lo troverete qui la prossima volta e, se Connlyn si impadronirà di lui, soltanto gli dèi sanno quanto dolore ne scaturirà per tutti quelli coinvolti." Senza dubbio aveva ragione, ma mi aveva dato troppe cose su cui riflettere. Così mi ritrovai ancora una volta sveglio fino a notte fonda, angosciato dall'incontro con quell'anziana signora. Poi, sfinito, presi sonno. III Fu piuttosto facile salire a bordo della nave di Connor mentre era in mare, perché ebbi il privilegio di usare il dispositivo chiamato il "paranco dell'ammiraglio", una sorta di braccio girevole costruito sulla nave al solo scopo di spostare Connor su e giù dal vascello, dato che la sua gamba di legno gli rendeva impossibile farlo in qualsiasi altro modo, a parte quando la nave era ormeggiata con il ponte al livello della banchina. Annodai la fune sotto le braccia del giovane Mordred e feci segno ai marinai di issarlo. La fune si distese e il ragazzo ondeggiò nell'aria, gli occhi sbarrati per la paura, finché non scomparve sano e salvo nel pozzo della nave. Qualche istante più tardi, la fune venne gettata di nuovo per me: posizionai in fretta il piede nel cappio che si trovava alla sua estremità, quindi restai aggrappato a essa con aria truce, mentre anch'io venivo issato a bordo della galea. Essendo una creatura terrestre, detestavo restare sospeso sulle acque increspate da onde che avrebbero potuto inghiottirmi vivo e farmi sparire per sempre. Connor mi aspettava sul ponte, con una mano sulla spalla del ragazzo. "Hai trovato qualcosa di prezioso, a quanto pare." Feci l'occhiolino al ragazzo. "Mordred, questo è l'ammiraglio Connor Mac Athol. Connor, ti presento Mordred, un principe delle Orcadi." Connor abbassò il capo quando il ragazzo fece un profondo inchino. "Orcadi, eh? Sei molto lontano da casa, giovanotto." "No, non molto. La sua casa è qui, a Gallowa. È un principe delle Orcadi, ma non ha alcun ricordo di quelle isole, perché sua nonna lo ha portato qui quando era molto piccolo, dopo che sua madre è morta." "Mmm." Connor si chinò e arruffò i capelli al ragazzo. "Io ci sono stato nelle Orcadi, ma è successo diversi anni fa, quando mio fratello Brander sposò la principessa Salina. Tu non eri neanche nato all'epoca. Allora, viaggerai con noi, non è vero? Sarà meglio fare in modo che tu sappia come muoverti sulla nave. Sei mai stato su una nave prima d'ora? No? Bè, ti piacerà, ma non c'è molto spazio a bordo di una galea da guerra come questa, perciò ci sono posti in cui puoi andare e posti in cui non puoi andare. Shaun! Shaun Dito Indice, vieni qui." Quando Shaun ebbe portato via il ragazzo per mostrargli la nave e il suo equipaggio, Connor si rivolse a me. "Chi è?" "Il nipote della regina Morgas." "Questo lo avevo capito. E ho capito anche che la madre è morta. Chi era?" "La figlia della regina." Mi scrutò con gli occhi stretti a fessura. "Caspita. Non lo avrei mai immaginato... Quindi ci resta solo da stabilire chi è il padre. È morto anche lui?" "No." "No. È tutto quello che hai da dire? Devo cavarti le parole di bocca, non è così?" Mi avvicinai a lui e gli parlai sottovoce all'orecchio. "No, non è così, Connor, ma gli altri non devono sentire. Il ragazzo era in pericolo qui a Gallowa. Ha uno zio che è pronto a usarlo come arma. Morgas mi ha chiesto di portarlo via per il suo bene." "Usarlo come arma contro chi?" Anche lui parlava a bassa voce adesso, per impedire che qualcuno origliasse. "Contro di noi... contro Camelot. Lo zio è Connlyn, lo stesso uomo che Artù sta combattendo al Nord. Il signore della guerra." Connor ritirò su la testa. "Lo stesso uomo?" Mi guardò con aria sospettosa, poi chinò di nuovo il capo. "Benissimo. Sono pronto ad accettarlo, ma non credo molto alle coincidenze. Se questo Connlyn cerca di usare il ragazzo come arma contro Camelot, vuol dire che c'è sotto qualcosa. Chi altri potrebbe essere minacciato da un bambino sconosciuto se non Merlino o Artù? Nella vita capita di avere dei marmocchi illegittimi. Capita sempre. E perché mai uno dei due dovrebbe preoccuparsi di una cosa tanto insulsa? Per minacciare Camelot, dovresti minacciare uno di questi due uomini. Ma nulla ha senso qui, a meno che il padre del ragazzo non sia uno dei due. Allora di chi si tratta, di Merlino o di Artù? Io penso che si tratti di Merlino, perché il ragazzo ha dieci anni e questo significa che Artù avrebbe dovuto generarlo all'età di quattordici o quindici anni. Ho ragione?" "Sì, hai ragione." "Allora è Merlino?" "No, è Artù. Aveva quindici anni. Si innamorò di una giovane donna e questa gli diede un figlio senza che nessuno lo sapesse, nemmeno lui. Non ha idea che il bambino esista." Connor si drizzò tutto come un gatto che inarca la schiena in modo minaccioso. "Una giovane donna, hai detto. Quando aveva quindici anni? Come si chiamava quella ragazza, lo sai?" "Sì, Morag." "E Artù ha generato un marmocchio con lei!" "Parli come se la conoscessi." "Ma io la conosco! Sono stato io a portarla a Mediobogdum, il luogo in cui ha conosciuto Artù, quando siamo stati mandati fuori rotta dalla tempesta. Ma non c'è stato niente tra lei e Artù. E lei era sotto la mia responsabilità, perciò come puoi immaginare la sorvegliavo con attenzione. Sarei pronto a giurare che non è successo niente fra quei due." "Allora giureresti il falso, perché è stata proprio la madre di Morag a raccontarmi la verità. La ragazza portava un bambino in grembo quando tornò a casa, anche se non lo sapeva. Si era innamorata di un giovane di nome Artù Pendragon e voleva diventare sua moglie. Quando la madre venne a conoscenza del suo stato, la diede in sposa a un signorotto norvegese delle Orcadi e Morag partì per il Nord insieme al suo nuovo marito. Ma le cose non andarono bene. Morag aveva il cuore infranto e morì mentre dava alla luce il bambino." "Ma allora perché la madre le avrebbe fatto una cosa simile?" Il tono di Connor si fece più alto e io gli tirai una manica per avvertirlo di abbassare la voce. "Perché non aveva altra scelta." "C'è sempre un'altra scelta." "Non proprio, Connor, non quando l'alternativa è l'incesto." L'ammiraglio alzò la testa di scatto e sgranò gli occhi. "Cosa?" "Morag e Artù erano fratello e sorella, Connor, entrambi nati da Uther Pendragon, anche se nessuno dei due poteva saperlo. Nessuna delle due madri era al corrente della gravidanza dell'altra. I due figli crebbero a centinaia di miglia di distanza e il loro padre morì prima che compissero un anno di vita. I ragazzi non potevano sapere in nessun modo che nelle loro vene scorresse lo stesso sangue, perciò l'incesto che ne conseguì fu commesso in modo del tutto innocente, ciononostante fu reale. Tutto rimase un mistero, avvolto da segreti e silenzi... La regina Morgas mi ha detto che si è trattato di un piano degli antichi dèi, che si divertono a confondere le speranze e i desideri dei mortali e io sono portato a crederle. Eppure non c'è posto per queste cose fra i piani e le attività dell'unico e misericordioso Dio che mi hanno insegnato a venerare." Connor si allontanò da me e, afferrata una delle funi a cui era fissata la sedia a dondolo dalla quale comandava la sua galea e la sua flotta da molti anni, si calò con cautela, ma anche con un'abilità dovuta alla pratica, sul sedile sospeso e saldamente fissato; dopodiché sollevò la gamba di legno e l'appoggiò sul poggiapiedi che si prolungava dalla sedia. Non disse nulla per un bel pezzo, poi inspirò rumorosamente e replicò con voce sommessa, quasi stesse parlando fra sé e sé. "Bè, almeno adesso capisco perché quel bastardo di Connlyn pensa di aver trovato l'occasione giusta..." Si interruppe quando uno dei suoi marinai si avvicinò in attesa di avere la parola. "Sì, Tearlach. Cosa c'è?" L'uomo bofonchiò qualcosa che io non capii e Connor snocciolò una serie di ordini, per poi congedare quel tizio e rivolgersi di nuovo a me. "Perdonami Clothar, ma la flotta non si governa da sola e pare che i miei uomini insistano perché prenda le decisioni al posto loro. Che stavo dicendo? Connlyn, il bastardo traditore, e il suo occhio per i facili profitti. Credo che abbia commesso un grave errore di valutazione e questo gli costerà caro. Ma il ragazzo... il ragazzo sa chi è suo padre?" "Sì. Sa di essere il figlio di Artù." "E che ne pensa di questa cosa? Si sentirà furioso, offeso, perché è stato abbandonato?" "Per niente. Mi pare che non si sia fatto un'idea sbagliata della faccenda. Non ha mai conosciuto suo padre, ma nessuno lo ha mai indotto a credere che fosse stato abbandonato o trascurato da lui. Sembra che il ragazzo sia cresciuto felice e amato in mezzo a familiari affettuosi che, malgrado non siano Britanni, ma più vicini ai Pitti, direi, sono riusciti a crescerlo come si deve. Ho grandi speranze per il ragazzo." "Sulla base di che cosa?" grugnì Connor. "A parte il fatto che nutri una naturale simpatia per lui? Ammetto che nei pochi istanti che ho trascorso con lui mi è sembrato piuttosto simpatico, ma come pretendi di sapere cosa c'è in fondo al suo cuore?" "Perché ha un fantastico senso dell'umorismo, Connor, e ha soltanto dieci anni. Sa già ridere di se stesso e questa è una cosa magnifica. Deve ringraziare i suoi zii e i suoi cugini per questo, perché non ricordo di aver mai incontrato un intero clan che mi sia stato subito così simpatico." "In che senso sa ridere di se stesso? A me sembra un'idiozia." "Bè, non lo è e tu dovresti sapere quanto è importante, perché possiedi il suo stesso dono. Un uomo che non sa prendersi in giro non potrà mai vedere l'umorismo in niente e in nessuno, e questo è un tragico difetto, a prescindere da chi sia la persona in questione. Perché nella mancanza di umorismo c'è il seme del male e della distruzione. Le persone che si ritengono degne di ammirazione e che non riescono a immaginarsi come oggetto di ilarità sono troppo serie e, cosa ben peggiore, credono di avere il diritto di inculcare le loro convinzioni agli altri. Dio ci salvi dagli uomini privi di senso dell'umorismo, perché questi sono anche crudeli e implacabili." Vidi Connor e anche se non mi guardava, notai che si era leggermente inorgoglito alle mie parole. "Connor, mi piace quel ragazzo. Mordred è una persona gentile e affidabile, del tutto estranea alla cattiveria o al malcontento." A quel punto Connor emise un lungo sospiro e si girò sulla sedia per guardarmi. "E sia" disse. "Ti credo. Ma cosa farai ora? Perché hai portato con te il ragazzo?" "Devo portarlo a Camelot, per fargli conoscere il padre." Connor scrollò il capo. "Pessimo motivo. Per quel che ne sai, Artù non si trova nemmeno a Camelot. Un attimo fa hai detto che sta combattendo da qualche parte al Nord, proprio contro lo zio del ragazzo. Perciò a che serve portarlo là e farlo aspettare? Sai com'è la gente... si spargeranno delle voci sul suo conto e Artù scoprirà la verità ancora prima di arrivare a casa. E, conoscendolo, dubito che gli faccia piacere che gli affari della sua famiglia siano oggetto di chiacchiere in tutto il territorio. Oltre che sconsiderato, questo modo di gestire la situazione sarebbe terribilmente ingiusto sia per il ragazzo sia per il padre. È meglio che lo porti con te in Gallia." "In Gallia? Questo sì che sarebbe sconsiderato. Perché dovrei farlo? Voglio portarlo a Camelot, da Merlino. Lui saprà cosa farne." "Sì, può darsi, ma in ogni caso lasceresti il ragazzo impantanato lì e finirebbe sulla bocca di tutti. E può anche darsi che Merlino non sappia cosa farne, malgrado ciò che pensi." Mi puntò il dito contro in modo perentorio, per zittirmi prima ancora che potessi interromperlo; quando riprese il suo tono si fece più tagliente. "Merlino non è più l'uomo che era quando lo conobbi... è umano, come tutti noi, nonostante quello che la gente stupida e ignorante mormora riguardo al suo rapporto con la stregoneria. È invecchiato. Sono passati più di trent'anni da quando ci incontrammo - tu non eri neanche nato - e con il passare dei mesi, per non parlare degli anni, si fa sempre più anziano e meno agile sia dal punto di vista fisico sia mentale, proprio come me. Noi due abbiamo una certa età ormai, e so bene come diventano gli uomini, invecchiando. Merlino non ha più la flessibilità o... come diavolo si dice? Non ha più... l'elasticità mentale che aveva una volta. Credimi, sarebbe molto meglio se gli scrivessi dalla Gallia, spiegandogli per filo e per segno quello che hai appreso dalla regina Morgas, compresi tutti gli eventi che sono alla base di quanto è successo, e lascia che escogiti un piano per conto suo. Merlino prende molto sul serio le sue responsabilità oggigiorno e mio fratello Donuil si fa costantemente in quattro per spianare la strada a quel vegliardo e rendergliela meno accidentata. Ma ogni volta che vedo Donuil, o ricevo sue notizie, non fa altro che lagnarsi di come sia diventato difficile trattenere Merlino in patria e farlo concentrare unicamente sugli affari di Camelot. Troppe cose richiedono la sua attenzione e oggi come oggi egli spreca troppe energie cercando di risolvere questioni che non dovrebbero proprio interessarlo. Si è assunto il compito di rappresentare Artù con i clan della Cambria e della Cornovaglia e così viaggia di continuo da nord a sud per fare visita a questo e a quello e tenere il re aggiornato su quanto dice e pensa il suo popolo. È troppo vecchio per queste cose, ma è troppo testardo per smettere. Tuttavia, quando Artù è lontano da Camelot, secondo Donuil, Merlino passa la maggior parte del tempo lì per fare le sue veci, parla a nome del re ed è diventato il suo siniscalco, proprio come Donuil è diventato l'aiutante di Merlino." "Lo so," ribattei "ma di sicuro la faccenda del ragazzo ha la priorità. Quando si troverà faccia a faccia con lui, Merlino..." "Merlino reagirà come riterrà opportuno in quel momento, Clothar, e se è oberato di problemi, come spesso accade di recente, con Camelot in guerra, potrebbe rifiutarsi di riconoscere l'importanza di questa situazione." Stavo per dirgli che Merlino avrebbe reagito con prontezza a quella notizia, ma mi resi conto che Connor si era fatto una sua idea e che non potevo dire niente per fargliela cambiare. E intanto aveva già ricominciato a parlare. "Merlino non sa nemmeno che hai lasciato la Gallia, non è vero? Come pensi che reagirebbe, allora, se ti vedesse a Camelot quando hai degli importanti compiti da portare a termine in Gallia? Non pensi che si arrabbierebbe? Io credo proprio di sì e non avrebbe tutti i torti." Rimuginai su quello che aveva appena detto, e più ci pensavo più mi convincevo che Connor aveva ragione. Sarebbe stata una mossa sciocca e sconsiderata condurre il ragazzo a Camelot senza preavviso per poi abbandonarlo al suo destino. Ma l'unica alternativa possibile a quel punto era portarlo con me in Gallia, anche se non vedevo proprio a chi potesse giovare la cosa. E così, alla fine, in preda alla frustrazione, posi la domanda che mi frullava nella testa già da un po'. "Che cosa ci guadagno portando il giovane Mordred in Gallia?" "Un'opportunità, ragazzo... e un attimo di respiro. Una volta che avrai messo al sicuro il ragazzo in Gallia, avrai la certezza che non potrà essere rapito, adescato o istigato da quel bastardo di suo zio, il che ti libererà da una grave fonte di preoccupazione. Quindi potrai sederti e prenderti tutto il tempo necessario per scrivere a Merlino e spiegargli cosa hai scoperto, raccontandogli quello che è accaduto negli ultimi venticinque anni senza che nessuno a Camelot lo sapesse e che ha portato le cose al punto in cui si trovano ora. Dopodiché consegnerai a me la tua lettera perché la porti in Britannia non appena vi farò ritorno, ed entro pochi giorni dalla mia partenza sarà a Camelot nelle mani di Merlino, che si prenderà del tempo per riflettere su quello che gli avrai detto, trovando un modo civile per affrontare la situazione e dare la notizia ad Artù. Nel frattempo, mentre aspetterai di ricevere una risposta da Merlino o forse addirittura da Artù, avrai modo di spiegare al ragazzo come funzionano le cose a Camelot e di insegnargli qualunque cosa pensi che gli serva sapere... per esempio come comportarsi, come vestirsi, come presentarsi quando finalmente incontrerà il padre. Che ti piaccia o no, appartiene al popolo dei Pitti, è uno straniero e ne ha anche l'aspetto. Una volta portato in Gallia avrai tutto il tempo di trasformarlo. Fagli tagliare i capelli come si deve, fagli indossare dei vestiti simili ai tuoi, insegnagli le basi delle buone maniere e dei modi civilizzati dei Romani... non lo dico in modo sarcastico. Sono sincero, almeno in parte. Diamine, puoi persino insegnargli a cavalcare e a combattere alla maniera del tuo popolo. Ne avrai tutto il tempo e gli antichi dèi sanno che al ragazzo non farà male acquisire nuove abilità." Riconobbi che il ragionamento di Connor era sensato, così il dado fu tratto. Annuii con approvazione e gli chiesi di riportarci direttamente in Gallia. IV Mi ripromisi di fare amicizia con il giovane Mordred durante il viaggio verso la Gallia, poiché sapevo che doveva essere confuso e forse anche un po'"spaventato dalla repentinità con cui tutto era capitato. Ricordavo molto bene il panico e la confusione che io stesso avevo provato quando, a dieci anni, la mia vita era stata sconvolta e ridotta in frantumi nel giro di poche ore: ero stato portato via dalla mia casa sotto la custodia del vescovo Germano, un uomo che in seguito avrei imparato ad amare, ma che all'epoca per me era un estraneo, un estraneo al quale era stato affidato il pieno controllo della mia vita. All'inizio Mordred fu diffidente nei miei confronti, accettò in modo abbastanza educato che facessi parte della sua nuova vita, ma ciò nonostante fu restio a concedermi la sua amicizia prima che gli mostrassi qual era la mia vera natura. La cosa mi divertiva e mi piaceva allo stesso tempo, perché indicava che il ragazzo era un tipo giudizioso, che non si lasciava abbindolare. Mi comportai sempre in modo amichevole con lui durante i primi giorni che trascorremmo a bordo della galea di Connor e ben presto, quando seppe che ero amico di suo padre e che volevo parlare di lui, Mordred divenne impaziente di sapere tutto quello che potevo dirgli, tanto che spesso finimmo con il chiacchierare per ore sulla prua di quell'imbarcazione lunga e stretta, dove c'era minor rischio che intralciassimo il funzionamento del vascello e il lavoro del suo equipaggio. Il ragazzo aveva una sete insaziabile di informazioni riguardo a suo padre, ma la cosa che trovavo più curiosa e ammirevole era la mancanza di rancore nei suoi confronti. In una delle nostre prime conversazioni, mi chiese molto apertamente se credevo davvero che suo padre ignorasse ciò che era accaduto una volta separatosi da Morag e gli risposi con franchezza, assicurandogli che Artù sapeva solo quello che mi aveva raccontato: che Morag era morta all'incirca un anno dopo averlo lasciato nel forte romano abbandonato di Mediobogdum. Questa era l'unica cosa che gli era stata riferita. Non aveva saputo, e continuava a non sapere, cosa fosse successo a Morag, né tanto meno che nelle Orcadi era nato Mordred, il giorno in cui lei era morta. Giurai al ragazzo che Artù era del tutto ignaro della sua esistenza. Dalla sua faccia capii che mi credeva, poiché annuì e sgranò quegli occhi screziati di pagliuzze dorate che lo marcavano in modo inequivocabile come figlio di Artù. Poi mi spiazzò quando mi chiese se secondo me Artù lo avrebbe accolto e riconosciuto sapendo che ogni giorno, al solo guardarlo, avrebbe finito per ricordarsi di essere stato a letto con la propria sorella. Era il tipo di domanda a cui avrei avuto difficoltà a rispondere persino se mi fosse stata posta da un adulto, ma sentirmela rivolgere da un ragazzino di dieci anni fu un evento davvero inaspettato, così cominciai a farfugliare in cerca di parole che non fossero né troppo esplicite né troppo incomprensibili per lui. Mordred aspettò paziente, con gli occhi puntati su di me, finché non riuscii a far ordine nei miei pensieri e formulare una risposta; quindi ascoltò con attenzione ciò che gli dissi, annuendo di tanto in tanto. Non tentai di tergiversare. Una volta superato lo shock iniziale, ammisi che non potevo conoscere la risposta, perché l'unica persona in grado di rispondere a quella domanda era Artù e neanche lui sarebbe riuscito a farlo in modo sincero finché non si fosse trovato davanti alla realtà. Tuttavia, spiegai a Mordred, ci voleva un uomo coraggioso e dai sani principi morali per accettare quella verità e affrontarne le conseguenze con onore e buona fede, e secondo me, gli dissi, Artù era quel genere di uomo. Ma se non fosse stato così?, mi chiese Mordred. Se suo padre non avesse creduto che era colui che affermava di essere? Nonostante le nostre certezze, Artù poteva benissimo credere che quella storia fosse stata ordita contro di lui da Connlyn, spalleggiato dalla regina Morgas. In quel caso la sua vita sarebbe stata in pericolo? A quella domanda potei rispondere con più facilità, in modo convincente e autorevole, e riuscii a tranquillizzarlo, certo che la sua vita non sarebbe mai stata messa a repentaglio né da suo padre né dagli amici del re. Il ragazzo sembrò accettare anche questo con straordinaria equanimità e ancora una volta mi meravigliai della sua compostezza. Non avevo mai conosciuto una persona così giovane con una simile padronanza di sé, eppure pensavo che dovesse pur esistere in lui, dietro quella facciata, una parte più fragile... paure o dubbi che teneva ben nascosti. Perciò cercai di distrarlo parlando di argomenti più piacevoli, argomenti che ritenevo più adatti a un ragazzo della sua età. Gli raccontai di Camelot e dei cavalieri della Tavola Rotonda, quindi passai a descrivergli il sistema di addestramento che ultimamente stavamo mettendo in atto, in base al quale i ragazzi della sua età, detti scudieri, diventavano apprendisti di singoli cavalieri e seguivano un programma che avrebbe insegnato loro tutte le abilità e le regole, sia etiche sia militari, che si richiedevano a un aspirante cavaliere. Questo stimolò la sua immaginazione, come speravo, e divenne smanioso di sapere cosa avrebbe dovuto fare per entrare nel programma di addestramento. Gli dissi che non appena fossimo arrivati sani e salvi in Gallia, gli avrei presentato il mio giovane scudiero Rufus, il quale avrebbe cominciato a mostrargli le mansioni di base, e che avrebbe potuto lavorare per me insieme a lui finché non avessimo deciso a quale cavaliere di Camelot assegnarlo in modo permanente. Così quando avrebbe finalmente fatto ritorno in Britannia, per incontrare suo padre, sarebbe stato esperto nella disciplina praticata fra i cavalieri del re. Da quel momento, volle sapere tutto ciò che potevo dirgli sui compiti che uno scudiero doveva svolgere ogni giorno e, quando alla fine avvistammo la costa della Gallia, ero certo di essermi conquistato la sua fiducia e la sua stima. Era un ragazzo solare, alto e robusto per la sua età, con un sorrisetto furbo e un'intelligenza acuta; a volte, guardandolo, mi sembrava che non potesse esserci alcun dubbio su chi fosse suo padre, perché aveva gli stessi colori di Artù, dai capelli castani striati di ciocche biondo cenere ai grandi e sfavillanti occhi gialli da aquila. Quando sbarcammo in Gallia, presentai Mordred come un principe delle Orcadi e informai tutti che suo zio era re Tod di Gallowa e sua nonna la regina Morgas, la madre di Tod, e che io avevo promesso alla regina di occuparmi della sua istruzione. A nessuno venne in mente di farmi altre domande, il che mi rese immensamente felice. Sapevo che Connor Mac Athol avrebbe tenuto la bocca chiusa e avevo già deciso di rivelare a Perceval, Bors e Tristano come stavano realmente le cose non appena avessi stabilito quale fosse il miglior piano d'azione da seguire. Nel frattempo, era arrivata la fine di ottobre e l'inverno era alle porte. Connor si stava già preoccupando delle condizioni atmosferiche, scrutava l'orizzonte in continuazione e arringava i suoi marinai senza pietà, nel tentativo di far stivare il nuovo carico in tempo per lasciare le coste della Gallia prima che le burrasche invernali lo costringessero a restare in porto. Non aveva nessuna voglia di trascorrere l'inverno in Gallia, a prescindere da quanto potesse essere rilassante il soggiorno. Il lavoro che mi aspettava al mio ritorno in Gallia era febbrile e mi ci tuffai a capofitto senza ulteriore indugio. Il giorno dopo il nostro sbarco, Mordred era stato già messo a lavorare con Rufus, che aveva solo due anni più di lui; così potei dedicarmi a quelle particolari questioni che attendevano il mio personale intervento sin da quando ero partito per la Britannia. Per fortuna erano poche e le sbrigai in quattro e quattr'otto, lieto che Perceval e i suoi ufficiali avessero portato avanti il grosso del lavoro quotidiano e avessero stilato tutti gli elenchi dei turni e gli orari di addestramento necessari per il nuovo scaglione di reclute. Sarebbe stato compito mio, se fossi stato in Gallia, ed ero davvero contento di essermelo risparmiato. Ma qualunque cosa facessi in quei primi giorni, non smettevo mai di pensare alla lettera che avrei dovuto scrivere a Merlino. Il nuovo gruppo di reclute di Corbenico, i Secondi Figli, come si facevano chiamare loro con orgoglio, avevano già quasi terminato il secondo mese di addestramento di base e stavano procedendo molto più in fretta rispetto al primo gruppo, dato che stavano già sviluppando quello che Lucio Genaro chiamava spirito di squadra. C'era da aspettarselo, perché i soldati del primo scaglione erano stati i pionieri che avevano esplorato i segreti della disciplina di gruppo e avevano affrontato la paura dell'ignoto; guerrieri indipendenti per tradizione, non sapevano cosa li aspettava, mentre adesso aiutavano persino ad addestrare gli uomini che erano arrivati dopo di loro. Non esisteva più nessuna terra incognita nelle questioni di cavalleria per i futuri guerrieri di Corbenico. Gli uomini del primo scaglione avevano davvero spianato la strada a tutti i compatrioti che avrebbero seguito le loro orme. Quando mi si presentò l'occasione di ispezionare i soldati di Corbenico e le nuove reclute, notai subito il cambiamento che tutti avevano subito. Trasudavano sicurezza, e persino gli ultimi arrivati dimostravano di essere già veri soldati di cavalleria, membri di una squadra e non più singoli individui come erano stati in passato. Pelles fu lieto di rivedermi a Corbenico, così come sua sorella Serena, che venne a darmi il benvenuto nel mio letto, quando mi ritirai nella mia stanza la prima notte che trascorsi alla villa. La salute del re era migliorata in modo impressionante; fino a qualche mese prima, non avrei mai immaginato che potesse essere così attivo ed entusiasta dei nostri progetti per lo sviluppo della sua nuova divisione di cavalleria. Il successo della nostra impresa con il primo gruppo di guerrieri era stato uno dei motivi principali della sua spettacolare guarigione e, da quando ero partito per la Britannia, il re aveva cominciato a trascorrere almeno metà del suo tempo nei quartieri a lui destinati all'interno del nostro nuovo forte. Aveva instaurato un solido rapporto di amicizia con Perceval e dava del tu sia a Bors sia a Tristano. Durante la mia assenza si era persino preoccupato di risolvere il problema di Baldwin, l'assassino rimasto impunito. La cosa mi incuriosiva, perché, quando ero partito per la Britannia, Baldwin era tenuto ancora prigioniero nelle celle adiacenti le scuderie della villa e credevo che Pelles volesse farlo giustiziare di nascosto, e se lo sarebbe proprio meritato. Ma mio cugino non era né un sanguinario né uno stupido. Aveva portato Baldwin, sotto stretta sorveglianza, a vedere le strutture per l'addestramento e le attività che si svolgevano nel castello di cui ci eravamo impadroniti. Baldwin, che non era mai stato uno sprovveduto, aveva notato l'organizzazione e la disciplina delle nuove reclute e dei nuovi apprendisti di Corbenico, i quali lavoravano tutti con passione e diligenza sotto la supervisione degli istruttori di Camelot. Gli erano stati mostrati anche i programmi di addestramento, oltre ai numerosi collaboratori amministrativi e ai cavalieri impiegati allo scopo, e lui aveva capito che la nuova potenza militare di Corbenico era già diventata di gran lunga più forte di qualunque esercito potesse pensare di mandarle contro dai suoi territori. Alla fine del giro, Pelles aveva di nuovo accusato Baldwin di vile tradimento e di tentato omicidio, un delitto che prevedeva una morte particolarmente lenta e atroce, e gli aveva ricordato quanto meritasse di essere ucciso per mano sua. Ma poi lo aveva lasciato libero, ordinandogli di tornare a casa e minacciando di invadere i suoi possedimenti e di ucciderlo se mai lui o qualcuno del suo popolo si fosse fatto ancora vedere a Corbenico. Ammanettato e legato alla sua sella, Baldwin era stato accompagnato al confine dei suoi territori da una scorta di cavalieri armati fino ai denti e lì era stato liberato, senza armi e con indosso solo gli abiti che portava al momento dell'arresto, il giorno del nostro arrivo. All'inizio, mentre ascoltavo quella storia, non ero sicuro che rilasciare Baldwin fosse stata una cosa saggia e glielo dissi, ma il re mi rivolse un sorriso e scacciò le mie preoccupazioni con un cenno della mano, quindi mi spiegò di aver analizzato a fondo la questione prima di agire ed era assolutamente certo che Corbenico non sarebbe mai più stata minacciata da quell'uomo o dal suo popolo. Non replicai altro e accettai la decisione di Pelles: ormai il dado era tratto e non si poteva più tornare indietro, ma continuavo a nutrire qualche dubbio riguardo all'opportunità di quell'azione. Fu Perceval a tranquillizzarmi, quando il giorno dopo gli chiesi la sua opinione. Ammirava la lungimiranza di Pelles e mi fece subito notare il vantaggio principale, a cui io non avevo ancora pensato, che derivava dall'aver liberato Baldwin. Rilasciando quel nemico, Pelles aveva neutralizzato anche i suoi figli, nessuno dei quali credeva che il padre avrebbe fatto mai ritorno a casa. Convinti che fosse sparito per sempre dalla loro vita, essi avevano cominciato a litigare fra loro in attesa che giungesse il momento, a loro avviso imminente, in cui il vecchio sarebbe morto durante la prigionia e il suo "regno" venisse spartito fra loro tre. La verità era che ognuno dei fratelli credeva che, dopo una buona dose di trattative, sarebbe stato lui a governare il territorio di Baldwin nella sua interezza e le tensioni erano già alle stelle, con bande di uomini armati al servizio di ogni fratello che si aggiravano dappertutto e si azzuffavano fra loro; non si era ancora arrivati alla guerra aperta, ma l'ostilità fra i vari gruppi aumentava di giorno in giorno. Pelles aveva saputo tutto questo dalle sue spie ed era convinto che, scoppiata una guerra civile così vicino ai suoi confini, i suoi territori sarebbero stati inevitabilmente invasi e la sua gente coinvolta in qualche misura nello scontro. Sapeva anche che il suo reparto di cavalleria non era affatto pronto a contrastare a pieno un'invasione nemica; non aveva ancora avuto il tempo di smussare gli spigoli e ogni giorno, ogni settimana e ogni mese di addestramento in più si sarebbero rivelati davvero preziosi. Così aveva deciso di liberare il prigioniero, perché tornasse a casa a ristabilire l'ordine fra i suoi figli riottosi e riportasse tutta la pace e la prosperità che poteva. Baldwin avrebbe avvertito i figli che Corbenico ormai rappresentava una minaccia ed era possibile che a quel punto quelli cercassero di organizzarsi meglio. Ma la cosa avrebbe richiesto tempo e più esperienza di quella che avevano a disposizione, mentre gli uomini di Pelles, nel frattempo, avrebbero continuato ad allenarsi e a migliorare le loro attività e il loro reclutamento, diventando sempre più forti. Quando Perceval ebbe finito di elogiare con entusiasmo la sagacia di Pelles nel gestire quella situazione, mi era spuntato un largo sorriso sul volto e annuivo con approvazione, convinto anch'io che Baldwin fosse molto più utile a Corbenico da vivo, che da morto per mano di Pelles. Il tempo passava in fretta e io non avevo ancora scritto la lettera a Merlino, più che altro perché non la ritenevo così urgente. L'altra metà della flotta di Connor non era ancora tornata da Camelot ed era attesa da un momento all'altro, ma finché le navi non fossero arrivate e il loro carico non fosse stato portato a terra, non vedevo la necessità di mettermi a scrivere quella lettera e lasciai volentieri che i suoi contenuti mi ribollissero nella mente. Tuttavia, avevo commesso un errore di valutazione: Connor, infatti, dato il ritardo, non aveva alcuna intenzione di aspettare che il resto della flotta arrivasse. Era ben lieto di lasciare che lo scambio commerciale tra Camelot e la Gallia fosse gestito dalle persone che aveva lui stesso delegato a quello scopo e mi sorprese mandandomi a dire di aver acquistato e raccolto gran parte del materiale necessario per quella spedizione. A quanto prevedeva, nel giro di quattro o cinque giorni la sua flotta sarebbe stata caricata e pronta per fare rotta verso casa, il che comportava un periodo di intensa attività da parte mia, perché non potevo permettere che partisse senza l'importantissima lettera che dovevo scrivere a Merlino. Sapevo inoltre che Connor avrebbe preso il mare con o senza il mio messaggio per Camelot, non appena fosse stato pronto e fosse capitata la marea giusta. Così mi ritirai nei miei alloggi e dissi in tono perentorio che non volevo essere disturbato per nessun motivo. Poi mi sedetti a scrivere. Iniziai quella missiva parecchie volte, non ricordo nemmeno quante. Quando mi fermavo a rileggere quello che avevo scritto, mi sembrava sempre di non aver trovato l'introduzione adatta o il collegamento giusto fra gli elementi essenziali della situazione che dovevo descrivere, oppure che non l'avevo affrontata dal punto di vista migliore. Così ricominciavo da capo, mentre i fogli accartocciati si accumulavano sempre più numerosi ai miei piedi. Alla fine, tuttavia, trovai una versione che a un primo sguardo non mi parve da condannare e continuai a lavorarci finché non mi accorsi che avevo esaurito la mia riserva di informazioni e che non avevo altro da aggiungere. La lettera era lunga nove pagine, fitte della mia calligrafia piccola e stretta, e quando la terminai mi resi conto che avevo lavorato tutta la notte e che l'alba non doveva essere lontana. Asciugai con la sabbia l'inchiostro dalla mia firma e piegai la missiva con cura; bruciate tutte le brutte copie, portai con me la lettera e provai a vedere se riuscivo a dormire qualche ora. Il mattino successivo, dato che mi sentivo stranamente bene nonostante la maratona notturna, lessi di nuovo la lettera alla luce del giorno e notai con grande piacere che niente sembrava impreciso o sbagliato. La avvolsi per bene in un morbido pezzo di pelle di camoscio, legai l'involto e vi apposi il sigillo con la ceralacca, quindi lo infilai in un resistente cilindro di cuoio che Connor avrebbe portato con sé in Britannia. E alla fine, con un notevole senso di soddisfazione, mi recai nelle cucine in cerca di qualcosa da mangiare. V Due giorni dopo la partenza di Connor per Dalriada, l'ultimo giorno di ottobre, l'altra metà della sua flotta arrivò da Camelot, portando uno degli ultimi contingenti del nostro reparto di cavalleria e facendo aumentare il numero dei cavalieri britannici ben addestrati che si trovavano in Gallia, ormai saliti a circa quattrocento. Ancora una volta, avevano con sé i loro cavalli ammaestrati e io ritenni indispensabile portare con me Tiberio Catone quando andai a ispezionarli, subito dopo il loro arrivo, poiché sapevo quanto egli fosse smanioso di esaminare i nuovi purosangue presi in prestito da Camelot. Aveva già cominciato a fare accoppiare i nostri stalloni più grandi con le sue cavalle nere delle foreste germaniche e il suo entusiasmo per quel compito aveva contagiato i nostri soldati, i quali scommettevano fra loro sulla taglia e sul peso dei puledri di razza ibrida che ne sarebbero nati. Il nostro corpo di ufficiali fu ampliato grazie ai nuovi arrivi, con il risultato che il programma di reclutamento e di addestramento di Pelles si sarebbe espanso ulteriormente e che stavolta il suo reparto di cavalleria sarebbe stato autosufficiente anche se le nostre forze fossero tornate in Britannia. L'ufficiale superiore a capo del nuovo scaglione era Sagramore, un vecchio amico e compagno cavaliere, che non vedevo da quasi due anni, perciò il suo arrivo fu una sorpresa molto gradita. Ma, poiché aveva portato con sé delle lettere di Merlino, per festeggiare il nostro incontro avremmo dovuto aspettare che io leggessi quali notizie contenevano. Come al solito, però, per quanto fossero prolisse, le lettere di Merlino contenevano ben poche informazioni concrete su come stava procedendo la campagna contro Connlyn al Nord e assolutamente niente riguardo alla novella sposa di Artù o ai suoi spostamenti. Tuttavia c'erano un mucchio di informazioni relative agli affari interni di Camelot e dei borghi vicini, compresa la notizia che qualche mese prima Elaine aveva dato alla luce un figlio maschio. A un tratto sentii vacillare le gambe e dovetti sedermi subito. Per fortuna non c'era nessuno lì che potesse notare il mio improvviso dispiacere, perché se qualcuno mi avesse chiesto qualcosa, non avrei saputo rispondere. Restai appollaiato sul bordo di una sedia per un po', non so proprio se sia stato per qualche istante o per mezz'ora. Ricordo solo di aver pensato che Elaine - la mia bellissima e meravigliosa Elaine - aveva avuto un figlio da un altro uomo. Non importava che quell'uomo fosse suo marito, colui che aveva sposato ufficialmente davanti a Dio e agli uomini. L'angoscia che provai era unicamente frutto dell'egoismo e dell'autocommiserazione: nella mia mente vedevo solo il volto radioso di Elaine che mi sorrideva. I miei pensieri furono interrotti da Bors, che fece capolino dalla porta per dirmi che re Pelles era arrivato e mi cercava. Misi in ordine alla svelta le lettere di Merlino, formando una pila e bloccandola con un pugnale arrugginito e vecchio di secoli che qualcuno aveva trovato nelle viscere del castello alcuni mesi prima. Quindi scrollai il capo con forza, come per scacciare tutte le idee egoistiche e inopportune, e uscii a grandi passi nella luce pomeridiana per compiere il mio dovere e accogliere il mio ospite, il quale se ne stava sotto il sole a ridere insieme a Perceval, Bors e un gruppetto di ufficiali superiori. Avevo incontrato Pelles tre volte da quando ero tornato dalla Britannia, ma in quella occasione egli mi prese subito in disparte e mi disse che voleva parlarmi di una cosa importante di cui non avevamo mai parlato prima. Ovviamente ero incuriosito, perché dal suo atteggiamento - e dall'espressione guardinga, quasi preoccupata sul suo volto - si vedeva che qualunque cosa volesse dirmi non si sentiva affatto a suo agio. Lanciai uno sguardo in direzione degli altri, i quali non prestavano alcuna attenzione a noi, e proposi a Pelles di prendere il suo carro per andare a fare una gita in campagna, in modo da poter parlare a lungo e in privato. Pelles aveva fatto passi guarigione, ma non era distanze a cavallo e così si due ruote che era stato da gigante per quanto riguardava la sua ancora il caso che percorresse lunghe spostava con un veloce e leggero carro a costruito appositamente per lui ed era trainato da una coppia di cavalli castrati perfettamente assortita. Lui acconsentì e allora mandai un messo nelle scuderie per prendere il carro e un altro nelle cucine per un fiasco di vino e un cesto di cibi che avremmo portato con noi. Afferrai io le redini e ben presto ci ritrovammo lontani dal castello sul sentiero che correva in cima alla scogliera, parallelo alla spiaggia. Il mio regale cugino, tuttavia, era un po'"troppo silenzioso per una scampagnata come quella, così decisi di affrontarlo di petto per capire cosa gli causasse quella palese apprensione. "Sei triste, cugino. Cosa ti turba?" Pelles arrossì e guardò il mare alla nostra destra. "Non sono triste, Clothar. A disagio, forse, ma non triste... devo chiederti una cosa, ma non ci riesco." "Perché?" "Forse... forse perché temo che mi giudicherai ridicolo e sciocco." Parlai in tono allegro e scherzoso, mentre tenevo gli occhi puntati sul sentiero pieno di solchi davanti a noi. "Ridicolo e sciocco... tutt'e due le cose insieme? Bè, cugino, potrei farlo, se sapessi di che cosa stai parlando, ma anche se ti giudicassi tale, che male potrebbe mai farti?" Anche senza guardarlo, sapevo che mi stava scrutando, probabilmente con aria un po' accigliata, per cercare di stabilire se fossi serio. Non gli fornii nessun aiuto e continuai a parlare con il volto privo di espressione. "L'anno scorso di questi tempi non sapevi nemmeno della mia esistenza e se all'epoca qualcuno ti avesse detto che ti ritenevo uno sciocco non ti sarebbe importato affatto, perché la mia opinione sul tuo comportamento ti sarebbe sembrata del tutto insignificante. Ora sai chi sono e il fatto che cerchi la mia approvazione mi lusinga, ma questa non ti serve oggi più di quanto non ti servisse un anno fa." Solo allora mi voltai a guardarlo. "Hai capito qualcosa di quello che ho detto?" Mi fissò a bocca aperta e poi mi rivolse un sorriso. "No," confessò "ma non è una novità. Di rado capisco quello che dici." "Va bene, allora, andiamo avanti. Cos'è che ti preoccupa e perché pensi che ti riterrei uno sciocco?" "Perché potresti pensare che voglio muovermi troppo in fretta." "Muoverti? In che senso?" Quando tutta la storia venne fuori, capii subito perché si sentiva così a disagio: perché, anche se in apparenza quello che doveva dirmi era molto semplice, era ovvio che sotto la superficie si nascondevano delle insidie non indifferenti. Pelles mi informò che, mentre mi trovavo in visita dalla regina Morgas, aveva ricevuto numerose offerte da alcuni re dei territori limitrofi, signori con cui lui non aveva mai avuto niente a che fare. Circa tre settimane dopo la mia partenza aveva ospitato due messaggeri nella sua villa, uno dei quali era stato inviato dal sedicente re dei Parisi, i quali ormai avevano dato il loro nome all'antica postazione romana di Lutetia, sulle rive del fiume Senna, chiamandola Parigi o Parisia, mentre l'altro era stato mandato dal sovrano di un antico regno che si estendeva lungo la costa a sud dei territori dei Parisi. Ascoltai senza fare commenti, sapendo che nessuna delle tribù di cui stava parlando godeva di vero potere da diversi secoli e che in tutta la mia infanzia non ne avevo mai sentita nominare nemmeno una. La presenza di Roma aveva gettato le tribù minori della Gallia nel dimenticatoio. Ora che le legioni avevano abbandonato la Gallia, costrette a tornare in Italia per cercare di respingere le invasioni degli Unni e dei Goti, il vuoto lasciato dalla loro partenza veniva rapidamente colmato da altre persone a caccia di potere signori della guerra e altri uomini ambiziosi che si facevano chiamare re, tutti in cerca di una parvenza di legittimità - perciò sembrava del tutto naturale, sosteneva Pelles, da sovrano legittimo e regnante, che molti di essi provenissero, o almeno affermassero di provenire, dagli antichi clan che dominavano la Gallia preromana. Tuttavia, mi fece notare, era irrilevante che le rivendicazioni di potere in arrivo da questi neonati sovrani fossero inconsistenti e illegittime. Essi detenevano già il potere, perciò chiedere che questo diventasse legittimo era pura affettazione. E non era rilevante neanche il fatto che Pelles di Corbenico fosse un sovrano riconosciuto e rispettato, la cui legittimità non era mai stata messa in discussione. Per uomini palesemente aggressivi e ambiziosi come quelli, certe considerazioni erano banali e insignificanti in confronto all'urgenza dei loro piani. L'importanza della loro visita a Corbenico stava nel fatto che questi uomini - re o signori della guerra, che dir si voglia - si erano presi la briga di venire a parlare di persona con Pelles, anziché mandare dei legati. Questo poteva voler dire soltanto una cosa: che la notizia della nuova forza militare di Corbenico si era diffusa oltre i confini, senza dubbio in seguito alla vittoria che avevamo riportato su quella flotta di incursori qualche mese prima. Si era sparsa la voce e queste persone volevano vedere con i loro occhi cosa avesse in mente, e in mano, Pelles, con la sua divisione di cavalleria rinnovata, e valutare l'entità della minaccia che questo potenziamento poteva rappresentare per i loro progetti. "Capisco cosa vuoi dire, cugino. Si stanno chiedendo quanto tu sia diventato forte." "Esatto e alcuni di loro non sono molto sottili nel porsi questo interrogativo." "Pensi che oserebbero metterti alla prova?" "No." Non c'era la minima traccia di esitazione nella sua risposta, ma Pelles aveva qualcosa da aggiungere. "Dubito che qualcuno di essi sia tanto forte da sfidarci da solo, perché il nostro potenziale - e anche la nostra forza effettiva, se è per questo - è ancora sconosciuto e i loro eserciti sono formati solo da forze di fanteria. Alcuni di essi, anche se pochi, hanno a disposizione un po'"di uomini a cavallo, ma sono selvaggi e indisciplinati, proprio come eravamo noi prima del vostro arrivo. Non sono cavalieri... non come li intendiamo noi, perlomeno. Ma, novellini o no, questi uomini sono arroganti e superbi e non è affatto improbabile che due o tre di loro uniscano le forze per attirarci in battaglia e cercare di capire di che pasta siamo fatti. Ancor più interessante, comunque, è l'ipotesi che abbiano paura di Attila e dei suoi Unni. Se è questo il caso, e ho il sospetto che lo sia, questi re probabilmente stanno cercando alleati, in ansia come sono per la loro prosperità. Non posso biasimarli. Gli Unni sono una minaccia reale. Soltanto uno sciocco potrebbe negarlo ormai. Teodorico non è un sovrano immaginario e non si parla d'altro che della furia di Attila nei suoi confronti." "Qualcuno di questi re ha chiesto la tua alleanza?" "No, ma sono venuti qui insieme per caso e nessuno di loro ha voluto mostrare il minimo segno di debolezza al suo vicino. Se fossero venuti separati, in momenti diversi, credo che il risultato sarebbe stato diverso." "Mmm... Che cosa hai mostrato loro mentre erano qui?" "Molto poco. Quasi nulla, in realtà. Hanno visto quello che potevano vedere con i loro occhi e io non ho tentato di nascondere niente, ma allo stesso tempo non ho dato loro nessuna particolare dimostrazione. Hanno visto tutto quello che è avvenuto qui durante il loro soggiorno, perciò avranno capito che i nostri soldati si muovono e agiscono in gruppo, piuttosto che come singoli guerrieri, ma non possono aver intuito quanto sarebbe devastante la nostra cavalleria in battaglia." Rimasi in silenzio per un attimo, prima di aggiungere: "Sono felice di sentirtelo dire. Allora, a parte quello che hai detto riguardo ai tuoi visitatori, come mai hai tanta paura che io ti giudichi uno sciocco? Quello che mi hai raccontato finora mi sembra perfettamente logico e non ci vedo niente di sciocco. Dunque hai intenzione di mettere in atto una sorta di dimostrazione, giusto?". Mio cugino non disse nulla, ma vidi le sue sopracciglia schizzare verso l'alto per lo stupore. "Allora, ho indovinato?" "Mmm..." Era ovvio che i suoi pensieri erano altrove, ma il suo sguardo divenne subito più penetrante; poi annuì. "Sì, è così. Credo sia il caso di fare qualcosa... ma non so ancora bene cosa. All'inizio avevo pensato di portare con me un valido gruppo di soldati e di presentarmi agli altri sovrani della zona, ma poi mi sono reso conto che in questo modo sarei soltanto andato in cerca di guai. Sono dei re, ma non li considererei miei amici neanche con un enorme sforzo dell'immaginazione. Inoltre sarebbe un viaggio lungo e faticoso, e io non sono ancora abbastanza forte per affrontarlo. Significherebbe anche indebolire la nostra posizione qui in patria, perché priverei le reclute degli insegnamenti che potrebbero ricevere dai veterani venuti con me. Perciò ho accantonato l'idea. E poi questa mattina ho deciso di chiedere consiglio a te. Sono convinto di dover fare qualcosa, ma non riesco a decidere quale sia la scelta migliore. Per questo mi sento uno sciocco." "Non ce n'è motivo, cugino." Mi ero guardato intorno in cerca di un posto in cui fermarci a mangiare e adesso stavo portando il carro fuori dal sentiero, verso un gruppo di alberi situato sul fianco scosceso di una collinetta. "Non c'è niente di sciocco in quello che hai detto. Hai illustrato il problema alla perfezione e ora bisogna occuparsene." Lo guardai con un sogghigno, ma ero serissimo. "Quello che ti serve è una guerra minore... non un evento su larga scala che duri anni e anni, ma un intervento breve e deciso che ci consenta di affrontare un nemico numericamente superiore e di sconfiggerlo alla svelta, affermando la nostra supremazia in modo così palese che soltanto un pazzo suicida possa pensare in futuro di attaccare Corbenico. Questa sarebbe la soluzione migliore, ma è abbastanza difficile attuarla a breve termine. Come hai detto anche tu, questi re hanno conquistato il potere da troppo poco tempo per stringere un'alleanza con loro. Non possono ancora permettersi di avere fiducia nei loro amici, tanto meno nei loro nemici. Uno di loro potrebbe attaccarti un giorno, ma dubito che qualcuno possa essere tanto stupido da farlo adesso, senza conoscere nemmeno le tue potenzialità. Perciò, ci serve qualcosa di diverso, un altro tipo di dimostrazione che faccia capire, in modo pacifico ma inequivocabile, che con Corbenico non si scherza." Tirai le redini e fermai il carro vicino agli alberi, dove notai con gioia un minuscolo ruscello che serpeggiava in mezzo all'erba, ai piedi della bassa collina. "Ecco, scendiamo qui e andiamo a riposare i nostri ossuti fondoschiena sull'erba soffice per un po'. Possiamo mangiare e bere qualcosa mentre aspettiamo che ci venga l'ispirazione." Ma fu soltanto il giorno dopo che una possibile soluzione mi venne in mente, spuntando quasi dal nulla. Avevo lavorato tutta la mattina per portare a termine un compito che detestavo - stilare l'elenco dei turni di servizio per il mese successivo - e non appena ebbi finito, verso mezzogiorno, andai fuori e salii in cima alle mura, quindi mi appoggiai al parapetto e lasciai che la brezza mi schiarisse le idee. Proprio sotto di me, fuori dalla cinta muraria, due squadre formate da dieci reclute ciascuna stavano combattendo a piedi con indosso l'armatura completa e, sebbene non potessi vedere i volti di quegli uomini, riuscivo a immaginare le loro fronti aggrottate per la concentrazione mentre cercavano di mantenere la formazione e combattevano divisi in singole unità di cinque uomini, sotto l'occhio vigile di un gruppo di istruttori anziani. Il rumore sordo delle spade di legno che usavano per esercitarsi si levava forte e chiaro e quella scena a un tratto mi fece tornare in mente un giorno della mia infanzia, alla Scuola del Vescovo di Auxerre, quando insieme ai miei compagni di classe ero stato coinvolto in una gara di abilità con un premio ignoto. Un premio ignoto. Quella frase innescò tutta una serie di reazioni. Il solo fatto che si parlasse di premio implicava una ricompensa di grande valore per chi vinceva; non si sapesse poi in che cosa consistesse questo premio aggiungeva un pizzico di mistero; e la combinazione delle due cose faceva sì che ogni partecipante si battesse con tutti i mezzi contro i vari sfidanti. Ricordavo ancora l'eccitazione di quel pomeriggio e il mio cuore cominciò ad accelerare il battito quando mi resi conto che tutto era stato organizzato da un uomo che si trovava lì con me in quel momento: Tiberio Catone. Mi girai di colpo e scesi quasi di corsa le scale che portavano dal bastione alla corte del castello. Pochi istanti più tardi, ero nell'ufficio di Catone, situato a meno di un quarto di miglio fuori dalle mura del castello, e me ne stavo appollaiato su uno sgabello di legno abbastanza comodo ad aspettare che lui terminasse di scrivere gli appunti che stava buttando giù quando ero arrivato, mentre mi gustavo tutti gli odori familiari ed evocativi che circondavano quel vecchio nel suo alloggio. Fra questi predominava quello di sterco e sudore di cavallo, mescolato all'aroma dolce del fieno e a quello polveroso e caratteristico della paglia vecchia, il tutto esaltato dal familiare e per niente sgradevole odore del corpo di Catone. Quel miscuglio di aromi mi riportò improvvisamente ai tempi in cui ero un allievo e fremevo di entusiasmo per ogni cosa che imparavo. A un certo punto Catone drizzò la schiena, posò la penna e si alzò in piedi, invitandomi a seguirlo. Mi condusse fuori da quella stanzetta angusta in cui teneva i registri e attraverso il cortile acciottolato delle stalle, finché non raggiungemmo la porta principale della sua abitazione; quindi mi fece entrare e versò a ciascuno un boccale di birra schiumosa da un barilotto di legno che era appoggiato contro il muro vicino alla finestra. Fatto ciò, prese due piccoli coltelli e un paio di piatti di legno da una mensola bassa e sistemò sul tavolo uno spicchio di formaggio stagionato, una pagnotta di pane fresco e una ciotola di uva essiccata al sole che aveva preso da una scatola di legno chiusa da un coperchio. Pasteggiammo in silenzio per un po'"come due amici, dopodiché il vecchio mise via il tozzo di pane che stava mangiando e buttò giù le ultime sorsate di birra, per poi ruttare rumorosamente e chiedermi come mai avevo bussato alla sua porta in maniera così inaspettata. Gli raccontai il più brevemente possibile del colloquio che avevo avuto con Pelles il giorno precedente, descrivendogli la visita dei due sovrani e le motivazioni che a essa aveva attribuito il re. Catone ascoltò in silenzio, la bocca increspata per la concentrazione, ma quando cominciai a parlare della gara che si era tenuta alla Scuola del Vescovo alzò di colpo la mano per fermarmi. "Vuoi organizzare una cosa... una cosa del genere, eh? Una competizione, qui a Corbenico." Annuii. "Sì, ma aperta a tutti gli sfidanti. E non semplicemente qui a Corbenico... al castello, dove le mura parlano da sé. Una competizione con le armi, rivolta a chiunque abiti nella regione e voglia prendervi parte, con premi abbastanza importanti da attirare il fior fiore dei combattenti." "Che genere di premi?" Esitai appena. "Cavalli, tanto per cominciare. Abbiamo gli esemplari più belli, più grandi e meglio addestrati del mondo, ognuno di essi vale quasi dieci volte di più di qualunque mandria. E anche armi. Metteremo in palio splendide armi, di ottima qualità. E borse di monete d'oro e d'argento. Potremmo rendere la gara davvero allettante." "Sì, potreste, ma se non ho capito male lo scopo dell'evento sarebbe di dimostrare la forza e la superiorità della cavalleria di Corbenico. È così o sbaglio?" "No, magister, non sbagliate, ma che cosa intendete dire?" Quando mi sentì usare quel titolo, Catone aggrottò le sopracciglia e mi ripagò subito con la stessa moneta scrollando le spalle, la voce carica di ironia. "Assolutamente niente, magister... assolutamente niente. Ma organizzare una competizione del genere potrebbe anche non giovarvi granché. Perché la vostra idea funzioni, i vostri uomini dovrebbero vincere tutti premi, e sconfiggere tutti gli sfidanti. Tutti. Altrimenti sarebbe uno spreco di tempo e di energie, perché se la vostra vittoria non risulterà del tutto schiacciante e i forestieri vinceranno anche solo una delle prove più importanti, il messaggio non sarà quello che volete comunicare voi." "E quale sarà?" "Nel caso in cui qualcuno dei tuoi uomini venga battuto, risulterà che sarete temibili, data la vostra ricercata e arrogante milizia a cavallo, ma non necessariamente invincibili. Non credi?" "No, non credo." Stavo cercando di tergiversare; all'improvviso mi sentivo infastidito da quello che stava dicendo Catone, perché una parte di me sapeva che era vero. "Non credo, perché per tutto il torneo la nostra cavalleria sfilerà senza sosta. Dominerà l'evento. Sembrerà..." "Non capisci." Il suo tono fu piatto e inequivocabile. "A chi importa cosa sembrerà? Chi presterà attenzione a queste cose? Non c'è niente di magico nella cavalleria, Clothar. Ci sono soldati di cavalleria acquartierati in questa regione da secoli. Cavalleria germanica, la migliore che Roma abbia mai avuto. Si trovava proprio qui a Corbenico, più di un secolo fa. Certo era diversa dalla vostra, non c'è paragone. Lo so io, lo sai tu e lo sa anche la vostra gente, ma non interessa a nessuno da queste parti. Un uomo a cavallo è un uomo a cavallo. Alcuni sono più grossi di altri, ma fondamentalmente sono tutti uguali. Sono cavalieri." Mi fece segno di non protestare, prima ancora che potessi aprire bocca. "So che questo non ti piace e che non è vero, Clothar, ma è quanto pensa la gente! E devi accettarlo. Queste persone credono che la vostra nuova cavalleria sia solo una versione più moderna di un'idea vecchia, che non durerà a lungo, perché è già stata sperimentata in passato, proprio in questa regione, e non ha funzionato perché va contro un principio fondamentale: se Dio avesse voluto che i cavalli si comportassero come un gregge di pecore, avrebbe dato loro un mantello di lana soffice. Inoltre i vostri soldati sono Corbenicani, del posto. Vivono qui. Ciò significa che tutti gli abitanti della zona sanno cosa aspettarsi da loro: si aspettano che falliscano, perché è questo che si aspetta di solito la gente dalle persone con cui vive. La gente teme e odia le nuove idee. La gente vuole che falliscano perché, se riuscissero, le cose inevitabilmente cambierebbero... cose che non hanno alcun bisogno di cambiare. Perciò non ti illudere con questi discorsi sulle aspettative e sulle percezioni, magister Clothar. Quello di cui devi preoccuparti è come si comporteranno i nuovi cavalieri di Corbenico se farete una cosa del genere: come agiranno. È quello che faranno, o meglio quello che la gente li vedrà fare, che conta e se anche uno solo di loro verrà sconfitto in combattimento da un forestiero, sarà questa l'immagine che gli spettatori porteranno con sé. Non sarà: "Hai visto come sono belle le formazioni dei Corbenicani e quanto sono grandi i loro cavalli?". Ma sarà: "Hai visto come il campione dei Parisi... come si chiama... ha disarcionato quello stupido e presuntuoso corbenicano?". La gente è maligna, Clothar, e ama dileggiare chi cerca di porsi al di sopra degli altri e poi cade. Devi evitarlo, giovane amico, a tutti i costi." Mi resi conto che non avevo mai sentito Tiberio Catone entusiasmarsi tanto per qualcosa che non fosse un cavallo e non lo avevo mai neanche sentito parlare così a lungo, ma soprattutto le sue parole mi rammentarono una conversazione simile, che avevo avuto qualche anno prima con Artù Pendragon, a proposito della forza e del potere delle percezioni della gente. Mi alzai da tavola e andai vicino alla finestra, riflettendo su quello che aveva detto Catone, mentre guardavo i recinti per i cavalli che si trovavano lì fuori. Poi mi voltai di nuovo verso di lui. "State dicendo che non funzionerà? Che dovrei lasciar perdere?" "No, dannazione! Non sto affatto dicendo questo. Dico solo che se vuoi intraprendere questa strada, faresti meglio ad assicurarti che gli uomini selezionati per combattere siano i migliori a tua disposizione e a fare in modo che sappiano che gli taglierai le palle se ti deluderanno. Non pensare nemmeno per un istante di affidarti a volontari per questa impresa. Tutti i volontari verranno da fuori. Il tuo compito principale sarà quello di selezionare gli uomini migliori per ogni contesa. Non puoi permetterti di far combattere qualcuno che non sia il migliore nella sua categoria e dovrai farli allenare a tempo pieno, sfruttando al massimo le loro capacità, almeno per un mese prima dell'evento, perché niente può essere lasciato al caso. Il caso gioca sempre un ruolo nelle gare di abilità, ma sarà solo una piccola parte se i tuoi uomini saranno addestrati e allenati alla perfezione... per quanto sia umanamente possibile." Mi ritrovai a sorridere. "Qualcuno potrebbe definirlo un imbroglio." Catone non ricambiò il mio sorriso. "Stiamo parlando di guerra" ribatté, con lo stesso tono piatto e deciso che aveva usato poco prima. "Ti prego, non perdere di vista l'obiettivo principale. Dopo tutto, sei stato tu a proporlo. Mi riferisco al guerreggiare, Clothar. Non esistono imbrogli in guerra: ci sono le strategie, i sotterfugi e gli inganni palesi. Qualsiasi stratagemma è lecito in nome della vittoria. Se porterai avanti questo piano, scommetterai tutto, compreso il futuro del regno di Pelles, sulla capacità dei tuoi uomini di riportare una vittoria schiacciante. La posta in gioco è alta, Seur Clothar di Camelot. Tanto alta che, a mio parere, dovresti chiederti se valga la pena o meno di assumersi un simile impegno. Se deciderai per il sì, allora dovremo metterci subito all'opera. Dovremo prendere alla svelta decisioni molto importanti: dove e quando si terranno questi giochi, che tipo di prove comprenderanno, come verranno strutturate, che aspetto avranno le aree destinate ai vari combattimenti, quali armi verranno usate, quali saranno le regole da seguire e quali i criteri da applicare per esprimere il giudizio finale. E posso dirti sin da ora che è già troppo tardi per farlo quest'anno, ci vorrebbe molto più tempo di quello che abbiamo a disposizione. Ti servirà un anno per fare tutto come si deve. Ci vorranno mesi per organizzare l'intero evento, perciò ci lavorerai tutto l'inverno e i preparativi dovranno essere ultimati prima di poter annunciare che questi giochi si terranno. Già solo per questo - per spargere la voce - occorreranno mesi e saremo pronti a diffondere l'annuncio in primavera. E se mai faremo tutto ciò, dovremo farlo in concomitanza con una festività importante, l'equinozio di primavera o il solstizio d'estate, e invitare tutti a prendervi parte, sia la gente comune sia i concorrenti. E tutti, spettatori e concorrenti, dovranno essere invitati a portare con sé le proprie mogli e fidanzate. E se radunerai così tanta gente, dovrai essere in grado di intrattenerla per tutto il giorno, ogni giorno, dall'alba fino al tramonto e di farla stare comoda e di darle da mangiare in abbondanza per tutto il tempo necessario." Si tirò il labbro inferiore e abbozzò un sorriso mentre mi guardava con un sopracciglio aggrottato. "Avrai molte cose cui pensare nei prossimi giorni, credo." Gli sorrisi. "Sì, è vero, ma la decisione non spetta a me. Devo riferire tutto a re Pelles e vedere se l'idea è di suo gradimento, ma mi piacerebbe dirgli che voi mi aiuterete con i preparativi. Lo farete?" L'anziano magister equitum ricambiò il mio sorriso e annuì. "Con i preparativi sì, ma non con i lavori di fatica. Sono troppo vecchio ormai per spalare letame." TRE I "Bene, amico mio, spero che quando tutto sarà finito penserai sia valsa la pena di fare tanta fatica. Perché, se anche riscuoterà un enorme successo fra i nostri ragazzi, fra le donne e la gente comune, avrai un mucchio di concorrenti furibondi, che si lamenteranno perché le regole erano truccate." "Lascia che si lamentino, Sag. Non mi importa." Sagramore era stato nominato maestro dei giochi qualche mese prima - era stato uno dei primi incarichi che io e Pelles avevamo assegnato dopo aver deciso di procedere con quell'idea - e da allora ero diventato quasi immune alle sue preoccupazioni, ripetendomi in tono paziente, fin dal principio, che lui non riusciva a cogliere l'essenza di quello che stavo cercando di fare. Sagramore era un bravo soldato, un cavaliere esemplare, un amico sincero e leale, ma la natura non gli aveva donato un grande intelletto né la capacità di formulare teorie convincenti. Escogitare tattiche gli veniva naturale quando si trovava in azione, ma le strategie e i progetti a lungo termine non erano proprio il suo forte. Come magister ludorum, maestro dei giochi, aveva concentrato tutte le sue energie su un unico obiettivo, quello di portare a termine i suoi compiti e assicurarsi che i giochi fossero organizzati alla perfezione o quasi ed era alquanto turbato dal fatto che mi adoperassi in ogni modo per rendere più facile la vittoria per i nostri uomini a scapito dei concorrenti stranieri. L'idea che questi giochi fossero stati concepiti come strumento politico destinato a un unico scopo andava al di là della sua capacità di comprensione. Sag era fermamente convinto che il mio onore non mi avrebbe mai permesso di fare qualcosa di ignobile, tuttavia non era a suo agio con alcune delle decisioni che avevo preso e con alcuni degli ordini che avevo impartito; inoltre credeva che agli ospiti franchi non sarebbe piaciuto quello che avevo fatto per minare le loro probabilità di vittoria. A preoccuparlo ancor di più era la possibilità che, se davvero i Burgundi stavano arrivando per partecipare ai nostri giochi, questi sarebbero stati ancora meno contenti dei Franchi locali e di sicuro più ostili. "Che si lamentino, Sag, che lo facciano pure. E spero che i Burgundi vengano, anche se sarei sorpreso di vederli. Da queste parti non sono molto più popolari di quanto lo fossero ai tempi in cui ero ragazzo. Franchi o Burgundi che siano, però, coloro che parteciperanno al nostro spettacolo saranno tutti sulla stessa barca... quando si renderanno conto di quello che sta succedendo sarà troppo tardi e avranno già ricevuto una lezione. Preferisco che siano furiosi con me alla fine dei giochi e sappiano cosa li aspetterebbe qualora decidessero di provocarmi, piuttosto che vadano via vittoriosi e convinti di essere superiori, perché poi saremmo costretti a dar loro una lezione più dura sul campo di battaglia." Sagramore era in piedi accanto a me sugli spalti merlati del castello, le braccia incrociate sul petto protetto dall'armatura, e si grattava il mento con l'unghia del pollice mentre scrutava con gli occhi socchiusi l'enorme recinto che era stato costruito davanti ai cancelli principali. Era un quadrato di duecento passi per lato, recintato con degli steccati. Duecento passi più a nord e facilmente visibili dalla nostra posizione sopraelevata, le rupi della scogliera si susseguivano in modo regolare da sudovest a nordest, un centinaio di piedi sopra alle onde che si infrangevano. Ero orgoglioso dell'arena che avevamo costruito per ospitare i giochi di re Pelles. Ai nostri carpentieri era servito più di un mese per costruire i ripidi spalti sul lato nord e su quello est dell'enorme campus - l'area in cui si sarebbero svolti i combattimenti - che erano stati progettati in modo tale da offrire un'ottima visuale alla folla di spettatori che ci aspettavamo di avere. Dietro la tribuna est, ben nascosto, c'era l'accampamento dei concorrenti ospiti, completo di stalle e spiazzi per le esercitazioni, sia degli uomini sia dei cavalli. All'accampamento dei concorrenti si accedeva tramite la strada che costeggiava il lato sud dell'enorme quadrato, rasentando il muro di cinta del castello su cui ci trovavamo noi. Inoltre, tutto il lato ovest del quadrato era suddiviso in varie sezioni che consentivano di accedere all'immensa distesa di edifici e recinti - molto più grande dell'arena principale - che costituivano le scuderie di Tiberio Catone. Nessuno sapeva chi sarebbe venuto fra i ranghi della nuova e vecchia aristocrazia della Gallia settentrionale, ma erano stati messi a disposizione terreni e strutture anche per loro. Pensavo che Sag non replicasse più al mio ultimo commento e mi stupii quando alla fine annuì con un grugnito. "Può anche darsi, Lance, ma se io fossi un fuoriclasse che ha percorso centinaia di miglia per partecipare a questi giochi e scoprissi che era tutto organizzato affinché per me fosse impossibile vincere, non sarei molto contento. Credo che andrei a cercare il responsabile." Si girò con un sogghigno. "Il maestro dei giochi." Scoppiai a ridere per la sua battuta, ma mi rifiutai di dargli ragione. "Sono tutte stupidaggini, Sag, e lo sai" gli dissi. "Ne abbiamo già parlato. Non è affatto impossibile vincere. Noi abbiamo solo fatto in modo che sia il più difficile possibile, così se qualcuno di loro vincerà se lo sarà guadagnato fortemente. E i nostri uomini, i migliori che abbiamo, si stanno allenando duramente per questo evento. Che c'è di male? Sono passati sei mesi da quando si è sparsa la voce che Pelles di Corbenico avrebbe organizzato un torneo in occasione dell'equinozio di primavera, una competizione fra i guerrieri più forti in assoluto, con ricchi premi in palio. Vuoi farmi credere che ci saranno dei fuoriclasse che parteciperanno senza prima essersi allenati? È forse possibile?" "Bè, no, ma..." "Niente ma, Sag. Certo, abbiamo alcuni vantaggi che gli altri non possiedono, questo è vero. Ma cerca di non perdere di vista lo scopo principale di questi giochi. Dobbiamo dare un saggio della nostra bravura, per dimostrare che siamo decisamente migliori, più forti e più versatili di tutti gli altri guerrieri. E siamo pronti." Indicai con la mano l'immenso quadrato che si trovava sotto di noi. "Sembra tutto perfetto. Credo che oggi non avremo neanche bisogno di scendere laggiù. Possiamo vedere tutto da qui. Ti viene in mente qualcosa che dobbiamo andare a controllare di persona?" "No, magister. E anche Bors e Perceval pensano che sia tutto pronto." Fui felice di sentirglielo dire. Mancavano tre settimane all'inizio dei giochi e mi stupiva il fatto che fossimo riusciti a finire tutto prima della data prestabilita. Fui prodigo di complimenti per il lavoro favoloso che era stato svolto da tutti. Alle nostre spalle, fra le mura posteriori del castello e il confine del bosco che si trovava a un miglio da lì verso l'entroterra, era stata creata un'intera città, che appariva come un reticolo formato da grandi rettangoli delineati con cura, in previsione dell'arrivo di una folla di visitatori molto numerosa. Le linee che disegnavano il reticolo erano chiaramente le arterie principali e le vie secondarie, e i rettangoli formatisi erano suddivisi in siti spaziosi che avrebbero ospitato tende, carri e animali. Ogni rettangolo aveva il suo punto di rifornimento idrico, con abbondante acqua fresca per tutti gli utilizzi, ma fra tutte le opere che avevamo realizzato la più spettacolare, a mio avviso, era un complesso sistema di latrine comuni separate da tramezzi. Le latrine erano situate sopra una serie di condotti recintati e riempiti con le acque dirottate da un vicino torrente per portare gli escrementi lontano dalla zona abitata, fino alle rupi che sovrastavano la spiaggia. Il sistema era stato progettato da un gruppo di ingegneri che Pelles aveva fatto venire a sue spese dalla vicina città di Brugis, dove questi avevano realizzato il sistema idrico cittadino. Quello fu il primo progetto in assoluto che intraprendemmo per prepararci ai giochi, ci vollero settimane per disegnare il sistema e mesi per costruirlo. Secondo la stima dei costruttori avrebbe potuto soddisfare le esigenze di un migliaio di persone, calcolando che ognuna di esse lo avrebbe usato tre volte al giorno. La cosa più sorprendente riguardo al sistema dei canali di scarico, almeno per me, era che, quando fossero terminati i festeggiamenti e tutti fossero ripartiti, sarebbe rimasto lì per un mese ad asciugarsi, quindi sarebbe stato smantellato e non sarebbe rimasta nessuna traccia della sua esistenza, perché le varie parti che lo componevano sarebbero state utilizzate per altri scopi. Qualche mese prima avevamo mandato alcuni messaggeri a invitare qualsiasi città, castello, avamposto o borgo del nordovest della Gallia si trovasse fra noi e Parigi e da allora stavamo ricevendo resoconti che annunciavano un consistente afflusso di visitatori. Pelles e la sua famiglia - persino sua madre, la regina Catalina erano emozionatissimi per l'avvicinarsi di quell'evento, perché nulla di così grandioso aveva mai avuto luogo a Corbenico, e tutti sapevano quanto poteva essere importante il suo esito per il futuro del regno. C'era un'atmosfera euforica in tutta Corbenico, si aveva la sensazione di trovarsi alle soglie di un grande avvenimento. Mi passai le dita fra i capelli e Sagramore si voltò verso di me con un mezzo sorriso. "A cosa pensi?" mi chiese. "Non capisco se ti stai grattando la testa o strappando i capelli." Mi lisciai la testa con entrambe le mani e risi, mio malgrado. "Un po'"tutte e due le cose, credo, Sag. Abbiamo terminato il grosso dei preparativi e a giorni la gente comincerà ad arrivare: ospiti e viaggiatori di passaggio, soldati e cavalieri, re e duchi con tutto il loro seguito, mercanti di ogni genere, venditori ambulanti e spazzini, prostitute e musicisti, acrobati e giocolieri, borsaioli, ladri, mimi, venditori di cibo, bevande e tutto ciò che si può immaginare. E a mano a mano che arriveranno, la massa crescerà sempre di più finché l'intero territorio sarà irriconoscibile. E a quel punto, aneleremo tutti alla pace e alla tranquillità di queste ultime settimane, per quanto possano essere state frenetiche. Ma a quel punto, tu sarai il maestro dei giochi e io mi limiterò a essere il comandante della guarnigione. Mentre siamo ancora noi stessi, ci converrà andare giù a parlare con i cuochi per tentare di convincerne qualcuno a darci uno spuntino. Che ne dici? Andiamo, allora, vieni con me." II I visitatori cominciarono ad arrivare dopo una settimana, il primo gruppo fu una compagnia teatrale itinerante che si era messa in viaggio verso nord dalla città di Luguvallium, a sudest di Auxerre, non appena aveva saputo dell'imminente giostra. Originari di Massilia, il più antico porto commerciale della costa sudorientale della Gallia, i commedianti viaggiavano senza sosta da cinque anni offrendo spettacoli e divertimento al pubblico di tutte le regioni sudorientali della Gallia, ma le incursioni degli Unni avevano impedito loro di percorrere i soliti itinerari e li avevano costretti ad andare a ovest in cerca di nuovi spettatori. Ci dissero che avevano sentito parlare di noi la prima volta a Luguvallium, a quasi quattrocento miglia da Corbenico, e quella informazione ci spiazzò, perché era la dimostrazione oggettiva di quanto in fretta le cose potessero sfuggire di mano. Fino a quel momento, non avevamo mai immaginato che la notizia delle nostre attività potesse viaggiare in modo così veloce ed efficace, ma, quando ce ne rendemmo conto, cominciammo subito a spremerci le meningi per trovare una sistemazione a tutti gli ospiti. Quelle persone avevano percorso il doppio della distanza che avevamo calcolato noi. Se il loro arrivo era indice di quello che potevamo aspettarci nel mese successivo, allora gli alloggi che avevamo predisposto e tutto il nostro sistema logistico non sarebbero stati sufficienti. Quello stesso pomeriggio arrivarono altri visitatori, li avevamo avvistati dai nostri bastioni verso mezzogiorno. Pelles mi mandò a dire che doveva parlarmi al più presto e dopo neanche un quarto d'ora stavo già andando da lui. Dalle parole del messaggero avevo capito che il re sapeva chi erano i nuovi arrivati ed era già in agitazione. Ormai conoscevo bene mio cugino e avevo capito che era una di quelle persone di norma placide e imperturbabili, ma che detestano essere all'oscuro degli eventi che non sono in grado di controllare. Quando arrivai, vidi che era circondato dai membri del suo consiglio di capi clan e da qualche consigliere anziano. Durante la riunione che seguì, io e Pelles discutemmo fino a tarda notte le opinioni dei consiglieri, e la mattina seguente alcuni di questi tornarono con noi al castello, dove ci aspettava un'intera squadra di ufficiali, convocata da un messaggero che avevamo mandato avanti. Quel pomeriggio revisionammo a fondo tutte le disposizioni che avevamo dato per gestire l'afflusso di forestieri previsto, e tre ufficiali dipendenti dal nostro quartiermastro, che avevano già dimostrato una discreta abilità, furono messi a studiare ulteriori modi per fronteggiare le richieste inaspettate, nel caso ce ne fosse stato bisogno. A quel punto non c'era molto altro da fare, ma il solo fatto di dedicarsi alla faccenda ebbe su tutti un effetto calmante e creò almeno l'illusione che tutto fosse sotto controllo, così Pelles poté tornare alla sua villa sicuro che i suoi capi avrebbero riferito le parole giuste alla propria gente. Il fatto che avessimo inviato diversi gruppi di soldati come rinforzo a sorvegliare gli accessi al nostro territorio per evitare le intrusioni di forze militari nemiche fu accettato, ma non apprezzato dai nostri ufficiali superiori. Tre giorni dopo l'arrivo della compagnia teatrale, sopraggiunsero altri visitatori, un piccolo convoglio di carri che trasportava quattro famiglie di mercanti accompagnate da una scorta di dodici guardie. Avevano appena cominciato a sistemarsi nel nuovo accampamento, quando arrivò un altro gruppo, stavolta una compagnia di circa quindici guerrieri, tutti venuti per gareggiare e già in uno stato di euforia. Il rivolo si trasformò in un fiume in piena e la popolazione della città improvvisata alle spalle del castello divenne ogni giorno più numerosa. Così quando giunse il momento di dare inizio ai giochi, non avevamo più idea di chi fosse arrivato e da dove, ma sapevamo che più di tremila persone soggiornavano nei dintorni del castello, più o meno il numero che avevamo previsto. Solo molto tempo dopo appurammo che il gruppo di attori itineranti era l'unico a essere arrivato da oltre le duecento miglia di distanza. In aggiunta ai tremila visitatori, avevamo tutto il nostro reparto di cavalleria e le normali forze di guarnigione, nonché diverse migliaia di Corbenicani di Pelles, i clan che abitavano la regione. Alla fine dei conti, i nostri quartiermastri stavano fornendo vitto e alloggio a più di diecimila persone al giorno e avrebbero continuato a farlo per quasi un mese. Una volta avviati, i giochi divennero presto un evento molto più grande ed eccitante di quello che avevamo immaginato. Lo spirito competitivo fra i concorrenti era stato spaventoso fin dall'inizio e gli spettatori cominciarono subito a fare il tifo per i loro campioni preferiti. Le scommesse aumentarono con sempre maggiore entusiasmo, la gente puntava su qualunque cosa e ogni giorno si creavano dal nulla diverse fazioni per sostenere i vari campioni o gruppi di campioni che si mettevano in evidenza. La competizione fu spietata e priva di compromessi in ogni gara e in ogni categoria, e le acrobazie non mancarono, poiché le menti migliori di Corbenico e di Camelot si erano dedicate all'ideazione di un programma di prove e contese che avrebbero sondato fino in fondo l'abilità di chiunque vi avesse preso parte. I soldati di fanteria combatterono individualmente, in coppia o a gruppi, usando le mani nude o addirittura i caestus di cuoio, i guanti da combattimento utilizzati dai gladiatori che erano stati tanto cari ai Romani per secoli; alcuni usavano spade e scudi di legno da esercitazione, mentre altri ancora combattevano con tozze e pesanti clave di legno, fingendo che fossero pugnali e asce, con lance senza punta e lunghe e pesanti verghe che di solito servivano per gli allenamenti. Con il proseguire dei giochi, questi folti gruppi di guerrieri ben equipaggiati divennero via via meno numerosi, a mano a mano che gli arbitri e i giudici selezionavano gli "sconfitti" e si arrivava a un unico vincitore per ogni categoria. In altri punti del grande campo quadrato, c'erano uomini che combattevano con lance e giavellotti, fionde e altre armi da lancio, quali archi e frecce. Ma in un modo o nell'altro, i cavalieri erano sempre visibili dappertutto. Ovviamente i cavalieri erano la sola ragione per cui avevamo radunato tanta gente e gli aspetti equestri dei giochi furono i più curati. I Franchi erano sempre stati fieri dei loro cavalli e del loro modo di cavalcare. Stando alle loro leggende, erano stati i primi a considerare un uomo e il suo cavallo come due creature affini. I Romani, invece, non erano famosi per i loro cavalieri e avevano cominciato a conquistare il mondo prima ancora che i Franchi diventassero noti. Le loro legioni erano formate soprattutto da fanteria e i pochi soldati a cavallo che avevano non erano veri e propri cavalieri: erano arcieri o lanciatori di giavellotti che sfruttavano la velocità e l'agilità dei cavalli per formare uno scudo protettivo mobile davanti alle armate, mentre i legionari si stringevano per creare le loro invincibili formazioni da combattimento. Alcuni secoli dopo Giulio Cesare, i Romani poterono fare grande affidamento sulla cosiddetta cavalleria germanica, feroci guerrieri che per combattere meglio cavalcavano con entrambe le mani libere e controllavano il cavallo soltanto con le gambe. Fra i membri di questo reparto gli elementi franchi si consideravano primi inter pares, primi fra pari. Tuttavia, in quel momento, durante il breve svolgimento dei giochi di Pelles, dovevamo dimostrare ai nostri vicini franchi - e farlo in modo convincente - che il loro tempo era finito, che la nuova cavalleria di Corbenico era salita alla ribalta. Non si trattava di un compito facile da affrontare e portare a termine, pertanto tutti gli eventi che si svolsero nell'arena principale erano stati studiati per attirare l'attenzione sulle prestazioni della cavalleria. Tutti i servizi di scorta da e per il campo furono eseguiti da gruppi di cavalieri, in cui sia gli uomini sia i cavalli erano agghindati, abbigliati ed equipaggiati in modo impeccabile e si muovevano in perfetta sincronia, come se fossero davvero saldati insieme. Tutti i premi e i riconoscimenti furono assegnati dentro l'arena davanti a una formazione di cavalieri, anche se la maggior parte delle formazioni era piuttosto estesa e i singoli cavalieri erano posizionati con estrema cura in modo da consentire a tutti di vedere quello che stava avvenendo sul campo. Le premiazioni che avevano luogo al centro del campo erano semplici e dignitose, a buon diritto emozionanti e decisamente adatte a mettere in luce i risultati ottenuti dai vincitori, ma erano sempre valorizzate da un contesto di prontezza militare, con l'arena che sembrava interamente coperta da file ordinate di cavalieri attenti e abbigliati in modo sfarzoso. La dimostrazione di forza non fu esigua, ma neanche troppo aggressiva. Rifletté semplicemente gli aspetti reali dell'attuale vita di Corbenico, in cui tutto ruotava intorno alla nuova cavalleria. Sulle tribune affollate erano tutti a conoscenza della perfidia che solo due anni prima Baldwin aveva dimostrato nei confronti di Pelles e dei cambiamenti verificatisi a Corbenico da quando noi eravamo giunti dalla Britannia, inoltre capivano che Pelles aveva compiuto determinati passi soltanto per proteggere se stesso e il futuro del suo regno. Le gare equestri nell'arena erano state progettate in modo da mettere in risalto la differenza fra i cavalieri di Corbenico e tutti gli altri. Dovevamo assicurarci che da allora in poi, quando qualcuno avesse parlato di cavalleria, si sarebbe figurato vaste e ben addestrate schiere di uomini a cavallo che si muovevano e combattevano come una singola entità, così immensa e travolgente che avrebbe potuto annientare qualsiasi forza si fosse trovata di fronte. Dovevamo dimostrarlo, perciò avevamo ideato delle prove in cui alcune squadre di cavalieri avrebbero collaborato per accumulare punti in termini di tempo, coordinazione e cooperazione. La differenza fra i nostri soldati e tutti gli altri balzò subito all'occhio. I cavalieri franchi erano sempre stati molto orgogliosi della loro prodezza, ma idolatravano la bravura individuale e le singole prestazioni, senza avere la minima idea di cosa volesse dire comportarsi come parte integrante di un gruppo. Combattevano come singoli guerrieri e nelle rare occasioni in cui le circostanze li obbligavano a farlo insieme, scendevano quasi sempre da cavallo e lottavano fianco a fianco come un blocco statico. Fin dalle prime gare del giorno inaugurale dei giochi, i valori opposti delle due parti divennero clamorosamente evidenti, poiché i cavalieri corbenicani annientarono gli avversari franchi in ogni tipo di gara, dalla corsa a staffetta alla giostra di squadra. I Franchi all'inizio erano scettici e anche sprezzanti, si facevano beffe dei metodi e delle elaborate manovre messe in atto dai Corbenicani, ma dopo la decima sconfitta consecutiva smisero di dileggiarli e cominciarono a concentrarsi sulla vittoria. Tuttavia più si sforzavano di vincere e meno ci riuscivano. Constatarono anche l'ineluttabile verità, cioè che più le squadre in gara diventavano numerose, più aumentavano le probabilità che loro venissero sconfitti. Presi singolarmente, nelle gare individuali, se la cavavano abbastanza bene, e noi mandammo i nostri uomini migliori a partecipare a quegli scontri, decisi a vincere a tutti i costi. Ma in gruppi più grandi, cinque contro cinque o dieci contro dieci, la coordinazione e la compattezza dei nostri blocchi di cavalleria vanificavano gli sforzi dei Franchi, indipendentemente dalla foga con cui ci attaccavano o dalla determinazione con cui cercavano di sconfiggerci. Ma l'evento più sconcertante si verificò alla fine della seconda settimana dei giochi, durante uno di questi scontri, una gara nella quale i nostri uomini dovettero combattere contro un egual numero di forestieri, che si erano messi insieme e avevano passato diversi giorni ad allenarsi per potenziare le abilità richieste in quella competizione. I nostri avversari avevano combattuto meglio di quanto ci aspettassimo e, anche se erano in svantaggio, la nostra vittoria sembrava meno schiacciante del solito. Poi, all'improvviso, si unirono, misero a terra le armi e cambiarono le regole della gara. Fino a quel momento avevano perso otto uomini, contro i nostri cinque, e cominciavano a spazientirsi, mentre la frustrazione cresceva. Stavamo usando spade di legno da esercitazione e lunghe lance senza punta, ma i colpi che venivano sferrati erano tutt'altro che innocui e molti degli uomini che si erano "ritirati" da entrambe le parti lo avevano fatto perché davvero feriti. Gli arbitri, per la maggior parte guerrieri franchi locali, stavano facendo un lavoro magnifico: stando in mezzo alle nostre armi che ondeggiavano e roteavano, era forte il rischio per loro di perdere la vita o anche solo un arto mentre cercavano di tenere il conto dei colpi assestati e di stabilire se avrebbero potuto uccidere o mutilare l'uomo che li aveva ricevuti. Fu allora che, d'un tratto i concorrenti franchi smisero di combattere e, abbassate le armi, si riunirono al centro del campo, lasciando che i nostri uomini cavalcassero impotenti intorno a loro, senza capire cosa stesse accadendo. Prima che qualcuno di noi potesse prendere di nuovo l'iniziativa, uno dei Franchi si alzò sulle staffe, portò la spada di legno sopra la testa e lanciò una sfida gridando talmente forte che la sua voce risuonò in tutta l'arena e arrivò anche alle tribune che la circondavano. "Ascoltatemi tutti! Propongo di mettere fine a questa assurdità. Lancio una sfida ai Corbenicani a nome di tutti quelli che come me sono venuti qui per combattere. Propongo che Corbenico scelga un campione... un solo uomo... per affrontare uno dei nostri. E che il risultato di quello scontro decida chi è il vincitore di questa competizione." Quando finì di parlare calò un silenzio incredibile, durante il quale la gente rifletté sulla sua proposta, a cui seguì subito un coro di risposte affermative esplose dalla folla di forestieri. Quella di un duello fra campioni era una tradizione antica e onorevole, non solo fra i Franchi ma fra tutti quei popoli che i Romani avevano definito barbari, ed era anche una soluzione pratica e di tutto rispetto. L'esito di molte battaglie era stato deciso in quel modo, nello spazio aperto situato fra due eserciti avversari, dopo che i rispettivi comandanti si erano resi conto che non aveva senso decimare le proprie truppe, quando si poteva determinare la supremazia di una delle due parti con una sola prova di forza individuale. Quel portavoce del gruppo franco stava proponendo di fare lo stesso e ora aveva ripreso a gridare, cancellando le ultime tracce di ripensamento. "Uno contro cinque, dicono. Uno di loro - uno qualunque - può battere cinque di noi. Bè, ne abbiamo abbastanza di sentire chiacchiere. Adesso vogliamo i fatti. Siamo stanchi della millanteria dei Corbenicani perciò li sfidiamo a dimostrare che quanto affermano è vero, sempre che ci riescano. Lasciate che uno di loro uno qualunque - si batta contro di me... uno contro uno, da uomo a uomo, usando le armi che preferisce." Qualcuno in seguito disse che avremmo dovuto prevedere una simile eventualità, ma io non credo che avremmo potuto, per il semplice fatto che i concorrenti che avevamo di fronte non costituivano un esercito. Non erano neanche collegati da un punto di vista geografico e la maggior parte di essi riusciva a farsi capire a stento dagli altri, ricorrendo a espressioni zoppicanti e imprecise della lingua costiera, il linguaggio raffazzonato che si usava per gli scambi commerciali. Nessuno avrebbe potuto immaginare che ci avrebbero visti come un nemico comune e si sarebbero uniti contro di noi. Prima che il capo dei nostri avversari finisse di parlare, stavo già valutando i rischi e decidendo un'eventuale linea d'azione. Mi resi conto che quell'uomo era diventato a tutti gli effetti il loro capo e in quanto tale la sua sfida doveva essere raccolta: quel combattimento, dunque, spettava solo a me. Non potevo proprio tirarmi indietro e lasciare che qualche subalterno lo accettasse. In quel momento, un'immagine si fece largo nella mia mente, il volto del mio giovane scudiero, Rufus. La scacciai, infastidito dalla sua irrilevanza, mi misi subito a valutare le condizioni dello scontro e le armi a mia disposizione. Avevo con me solo il mio spadone di legno per le esercitazioni e uno scudo leggero, mentre, come potevo vedere, il mio avversario aveva in mano una lunga lancia appuntita e un paio di giavellotti leggeri in una faretra appesa dietro la schiena, più una lunga spada di legno molto simile alla mia. Vidi di nuovo il giovane Rufus nella mia mente fissarmi con gli occhi sgranati mentre aspettava che rispondessi a una domanda. Scacciai di nuovo la sua immagine, ma proprio in quel momento capii cosa significava. Potevo usare le armi che preferivo, il mio avversario lo aveva detto molto chiaramente e ne aveva impugnate diverse per spiegarlo. Avrei preferito usare le mie lance, ma erano micidiali. Il giovane Rufus, tuttavia, nella sua voglia di imitarmi in tutto ciò che facevo, aveva creato delle copie straordinariamente perfette delle mie lance. Non aveva a disposizione del bambù - nessuno ce l'aveva - ma aveva fabbricato le sue copie, che ormai erano arrivate a sei, con un impeccabile legno di frassino invecchiato e lavorato, assistito da un vecchio artigiano franco con cui aveva fatto amicizia subito dopo il nostro arrivo in Gallia. Erano più lunghe e avevano un'estremità un tantino più spessa e pesante rispetto ai miei proiettili; avevano la punta smussata ma erano abilmente bilanciate per compensare l'assenza delle pesanti punte di metallo che caratterizzavano le armi vere, e il leggero assottigliamento dell'asta all'altezza dell'impugnatura consentiva di applicare su di esse lo stesso tipo di corde da tiro che usavo sulle mie lance. Rufus ormai non andava da nessuna parte senza le sue adorate lance e io lo avevo visto neanche un'ora prima, mentre mi trovavo dentro i recinti a prepararmi per quella gara. Mi alzai sulle staffe, ma non riuscii a scorgerlo in mezzo alle frotte di ragazzi accalcati lungo lo steccato che separava i recinti dall'arena. Agitai lo scudo per attirare l'attenzione di Quinto Milo, il quale si era rivelato uno dei migliori ufficiali della cavalleria di Pelles e un prode guerriero. "Accetta, Quinto. Raccogli la sfida. Digli che combatterò io, ma che devo prima andare a cercare un'arma. Ma non dirgli il mio nome... dì soltanto che sono un capo squadra. E parla con gli arbitri al posto mio. Dì loro che cosa sta succedendo e fai che comunichino i dettagli agli spettatori. Torno subito." Spronai il cavallo, ma prima di partire al galoppo tirai con forza le briglie per non farlo reagire agli speroni. Mi era appena venuta in mente un'idea scandalosa e mi resi conto che stavo sorridendo. Ero in collera, ma avevo la mente fredda e libera da pensieri: avevo preso la mia decisione andando contro il buon senso e qualsiasi logica. Mi rivolsi ancora a Quinto: "Ti rendi conto che queste persone ci hanno appena chiamati bugiardi? Hai sentito cosa ha detto quell'uomo. Si prendono gioco di noi, sfidandoci a combattere con loro uno contro uno. Bene, gli daremo del filo da torcere. Forse non saremo migliori di loro, ma abbiamo armi e capacità superiori alle loro ed è questo che conta. Perciò accetta la sfida... in tutte le sue parti. Uno contro uno, per cinque volte. Io contro i cinque migliori fra loro". "Ma Clothar..." "Fallo, Quinto, e non contraddirmi. Non fare mai più il mio nome ad alta voce. Il combattimento è mio e non ho intenzione di farmi sconfiggere da un arrogante spaccone che viene dalle rive sperdute di un fiume, il cui nome non ha mai sentito nessuno. E ora vado a scegliere delle armi. Quando daranno l'annuncio sarò già tornato." Mi recai subito all'elaborato padiglione che ospitava il re ed era situato nell'angolo sudovest del campo; Pelles mi venne incontro, poiché immaginava fosse accaduto qualcosa di strano. Gli raccontai in fretta quello che era successo e gli spiegai il mio proposito. In suo onore, bisogna dire che non batté ciglio, malgrado sapesse bene quanto me cosa sarebbe potuto accadere se avessi perso la sfida. Si fidò senza obiezioni né commenti, e gliene fui grato. Chiamò un messaggero per comunicare la sua approvazione agli araldi, dopodiché ci salutammo e io ripartii in cerca delle mie armi. Mentre cavalcavo lungo il confine ovest del campo, vidi il giovane Rufus; era proprio dove pensavo, in cima allo steccato, il più vicino possibile all'azione, in mezzo a un gruppo di scudieri con i colori e le insegne dei cavalieri che servivano. Rufus indossava una semplice tunica marrone chiaro e iniziò a fissarmi ancor prima che io lo individuassi. Non appena capì che stavo cercando lui, saltò giù dallo steccato e mi corse incontro. Mi sporsi in avanti e gli tesi la mano, quindi lo issai sul cavallo perché montasse dietro di me. "Le tue lance da esercitazione" gli dissi, voltandomi appena. "Se le hai qui, puoi prestarmele?" "Certo, mio signore!" Dal suo tono capii che era stupito: non solo sapevo delle sue lance, ma volevo addirittura prenderle in prestito. "Bene. Hanno le corde attaccate?" "Già arrotolate, signore. Sono nella capanna del maestro Catone, laggiù." "Grazie, allora. Vai a prendermele, per favore. Cercherò di non spezzarne neanche una." Andò in fretta a prendere le armi e me le portò, quindi passai qualche istante a controllare che fossero pronte, anche se sapevo che non ce n'era bisogno. Erano l'orgoglio e la gioia di quel ragazzo e le trovai in ottime condizioni. Annuii con approvazione, mi buttai dietro le spalle la lunga faretra in cui erano racchiuse, issai di nuovo il ragazzo e lo riportai dagli amici che ci guardavano attoniti, dopodiché spronai il cavallo per raggiungere verso il folto gruppo di cavalieri che si trovava al centro dell'arena. Gli araldi erano in procinto di dare l'annuncio, quando arrivai: il comandante della squadra blu, che al momento era nell'arena, avrebbe affrontato in uno scontro a due il comandante della squadra rossa. Qualora il comandante dei Blu fosse risultato il vincitore della gara, la squadra rossa avrebbe accettato la sconfitta e abbandonato l'arena. Se il comandante dei Blu avesse perso, invece, il comandante dei Rossi sarebbe rimasto nell'arena e avrebbe combattuto contro lo sfidante blu successivo, finché non avesse sgominato cinque campioni di seguito o non fosse stato egli stesso sconfitto. La folla esplose in un delirio di grida di acclamazione e di scherno e mi sembrò di sentire aumentare le puntate delle scommesse mentre mi dirigevo verso l'angolo sudovest del campo per attendere il segnale che avrebbe dato inizio al combattimento. Il mio primo avversario stava facendo la stessa cosa verso nordest. Raggiunsi l'angolo del campo e girai il cavallo, quindi esclusi gli spettatori dalla mia mente e mi concentrai solo sull'arena e su quello che mi aspettava. I miei uomini e tutti i miei avversari, tranne cinque, stavano lasciando il campo per entrare nella zona dei recinti. Nell'angolo opposto, a circa un quarto di miglio di distanza, i miei cinque avversari mi osservavano, il capo al centro del gruppo e leggermente più avanti rispetto agli altri. Non sapevo quasi nulla dell'uomo con cui stavo per scontrarmi, nemmeno da dove venisse. Era alto e snello, con gli arti lunghi, affusolati e piuttosto muscolosi. Aveva i capelli di un pallido biondo dorato, perché alcune ciocche gli fuoriuscivano dall'elmo. Sapevo solo che preferiva la lancia alla spada e avevo il sospetto che fosse un abile lanciatore di giavellotti, già solo per come portava i due proiettili appesi dietro la schiena, ma dubitavo che fosse bravo quanto me a lanciarli da un cavallo al galoppo e questa era proprio la tattica che volevo adottare per farlo cadere alla svelta. Un suono di corno diede inizio alla gara e io spronai subito il cavallo, portandolo con delicatezza dal trotto al piccolo galoppo, mentre allungavo una mano dietro di me e prendevo una lancia dalla faretra; quindi mi avvolsi l'estremità della corda da tiro non troppo stretta intorno alle dita. Davanti a me, chinato sul collo di un cavallo molto più piccolo ed esile del mio, il primo avversario stringeva ancora la lancia tenendola lontana dal corpo, con la punta leggermente rivolta verso il basso, ma pur sempre abbastanza parallela al suolo, mentre avanzava lesto verso di me. Aspettai che percorresse circa metà della distanza che ci separava e poi mi sporsi in avanti, spostando il peso sul piede sinistro che tenevo nella staffa; sentii il cavallo rispondere al mio comando, girando a sinistra. Il mio avversario fece per venirmi incontro, così portai il cavallo al galoppo e cominciai a girare in tondo senza avvicinarmi a lui. Quello reagì all'istante, virando con forza a sinistra e partendo all'inseguimento, così quando si rese conto che la mia era stata una semplice finta, che avevo disegnato un piccolo cerchio solo per dirigermi di nuovo verso di lui, non ebbe il tempo di fare niente. Partii al galoppo, gli passai davanti e mi posizionai alla sua sinistra a una distanza di dieci cavalli; quando mi sfrecciò accanto mi alzai sulle staffe e scagliai la lancia. Il proiettile percorse con un sibilo la distanza che ci separava e lo colpì con vigore alla spalla sinistra, prima di deviare verso l'alto e risuonare fragorosamente urtando contro il suo pesante elmo con la visiera. L'impatto, del tutto inaspettato e molto più devastante di quanto avesse potuto prevedere, lo sbalzò dalla sella facendolo volare. A quel punto non mi curai più di lui, poiché ero sicuro che fosse praticamente morto e che non avrebbe mai potuto rimettersi in piedi e rimontare in sella dopo quella caduta. Mi allontanai e andai alla carica dei quattro compagni rimasti, controllando il cavallo con le ginocchia, mentre allungavo una mano dietro di me per prendere un'altra lancia e mi preparavo a scagliarla. Il secondo dei campioni franchi incitò tardivamente il cavallo con un forte calcio, nel tentativo di portarlo alla velocità necessaria per combattere. Non impugnava nessuna lancia, a quanto pareva. Aveva uno scudo leggero e una lunga spada di legno e cavalcava rannicchiato sulla sella, per offrirmi il più piccolo bersaglio possibile mentre sfrecciava verso di me. Resistette ancora meno del suo capo. Al primo lancio lo colpii in pieno sul capo chino, precisamente al centro della calotta dell'elmo, mentre lui correva verso di me come un dardo lanciato da una balestra. Quando vennero a prenderlo per portarlo fuori dall'arena, appresi più tardi, era ancora privo di sensi. Dopo aver visto la rapida fine dei due compagni, il terzo uomo si avvicinò più lentamente. Anche lui brandiva una spada di legno e aveva uno scudo leggero, ma era più cauto e forse anche più intelligente dei suoi predecessori. Gli girai intorno per un po'"e lui mi lasciò fare, limitandosi a girare il cavallo per non perdermi di vista e a tenere sempre lo scudo alto davanti a sé per proteggersi. Presto mi fu chiaro che sperava di far stancare il mio cavallo in modo da rendere tutto più semplice, così smisi di girare e restai di fronte a lui per un po', quindi sollevai la lancia e valutai quanta distanza c'era fra noi due e quanto tempo ci avrebbe impiegato per spostare lo scudo e parare il colpo. Quando capii che era pronto a rimanere lì tutta la giornata, in attesa che facessi io la prima mossa, decisi di accontentarlo. Partii alla carica verso di lui, mi sollevai sulle staffe e scagliai la lancia con forza, dopodiché, proprio come avevo previsto, lui girò bruscamente il cavallo verso destra e sollevò come una falce il braccio con lo scudo, respingendo la mia arma, che volò con uno stridio oltre la sua spalla. Quando aveva visto il mio lancio e aveva iniziato a girare il cavallo di lato, io mi ero già avvicinato parecchio e stavo sganciando la mia lunga e pesante spada di legno dallo sperone della sella. Lo avevo sotto tiro prima ancora che potesse spostare lo scudo e lo colpii fra il collo e la spalla con una forza micidiale che lo fece annaspare e poi aggrappare istintivamente allo sperone della sella, mentre scivolava da un lato e si schiantava a terra finendo quasi sotto gli zoccoli del suo cavallo. I miei compagni mi raccontarono in seguito che la folla ormai era in visibilio, ma io non mi rendevo conto di niente, mentre mi sfilavo dal polso il laccio della spada da esercitazione e la appendevo al gancio della sella. Stavo già per prendere un'altra lancia controllando con la coda dell'occhio l'angolo opposto del campo, quando mi accorsi che non c'era nessuno degli ultimi due avversari. Il cuore mi balzò in gola per la paura e, non appena sentii tuonare gli zoccoli alle mie spalle, tirai con forza le redini del mio cavallo, strattonandolo verso sinistra. Il mio quarto avversario era già nel pieno dell'attacco e mi assestò un violento colpo prima che potessi prepararmi. Tuttavia il mio scatto laterale, trasformato dal mio magnifico cavallo in una curva straordinariamente stretta, non fu dettato né dall'istinto né dall'intuito, a dispetto di quello che poteva sembrare. Fu il risultato di un allenamento intenso e ponderato, ossia di mesi e mesi di esercizi ripetitivi ed estenuanti, studiati per andare contro ogni istinto umano o animale e ostacolare qualunque avversario con un'azione inaspettata in un momento di grande tensione. Fu la mossa migliore che potessi fare in quella circostanza, perché l'avversario che mi aveva attaccato era mancino e la curva che disegnai con il mio spostamento verso sinistra mi portò talmente lontano dal suo raggio d'azione che quello perse la mira. La sua lunga e pesante spada da esercitazione sfiorò la parte posteriore del mio elmo e rimbalzò fragorosamente al di là delle mie spalle. Il rapido colpo non mi causò grandi danni, perché stavo già girando, ma sentii la lunga lama di quell'arma scagliata con forza colpire la faretra che portavo appesa dietro la schiena e strappare la tracolla, facendo volare via l'astuccio con tutte e tre le lance che conteneva. Quindi, poiché sapevo che stava per arrivarmi un altro colpo, stavolta di rovescio, tirai il piede destro fuori dalla staffa e buttai in avanti il corpo, per poi scivolare di lato con il piede sinistro saldamente posizionato nella staffa e aggrapparmi con la mano destra allo sperone della sella, pronto a sollevarmi di nuovo. Non appena sentì che la mia testa si trovava più in basso della sua, il mio cavallo reagì come gli era stato insegnato durante l'addestramento, virando bruscamente a destra con un'impennata, per fare da scudo con il suo corpo e difendermi dall'attacco. Sentii l'arma urtare contro la sella vuota, mentre stavo già perlustrando il terreno davanti a me nell'ardente speranza di ritrovare la faretra con le lance appena perse. Era quasi alla mia portata, la sua vicinanza mi allettava ma non potevo afferrarla. A quel punto il mio avversario attaccò di nuovo e il suo cavallo urtò contro il mio mentre lui si sporgeva in avanti per colpire la mano con cui ero aggrappato allo sperone della sella. Posso solo presumere che sia andata così, perché non potevo vederlo e il suo colpo non mi raggiunse mai, ma questo è quello che avrei cercato di fare anch'io al posto suo. Qualunque fosse il suo intento, mi aiutò, perché il mio cavallo scalciò in segno di protesta e si allontanò abbastanza da consentirmi di raccogliere la faretra con le lance senza che lui se ne accorgesse. Così distesi subito la gamba sinistra, facendo leva sulla staffa mentre lanciavo in aria la destra e tornavo a sedermi a cavalcioni sulla sella, mentre il mio cavallo mi portava via e si dirigeva alla sinistra del mio avversario, disegnando un grande cerchio. Non appena fui di nuovo seduto, cominciai a preparare una nuova lancia mentre controllavo il cavallo con le ginocchia e cercavo di non farmi distrarre dal rumore degli zoccoli che si avvicinavano di nuovo alle mie spalle. Avvolsi l'estremità della corda da tiro intorno al mio dito indice, ripresi le redini con la mano sinistra e stavolta mi voltai di colpo verso destra, senza perdere la mira. Il mio avversario non vide quasi il proiettile finché non lo colpì sotto il braccio destro, passando sotto lo scudo che aveva sollevato troppo e troppo in fretta: gli si conficcò nel fianco tra l'ascella e la vita. Era un colpo mortale, anche se non era riuscito a disarcionarlo. Anche lui era fuori combattimento. Rivolsi la mia attenzione all'ultimo dei suoi compagni, che aveva cavalcato dietro di lui per tutto il tempo senza partecipare a nessuno degli attacchi, ma che era pronto ad agire nel caso che avessi vinto ancora. Adesso era fermo e mi fissava; erano immobili sia lui sia il suo cavallo e, anche se non riuscivo a vedergli la faccia nascosta dietro la visiera, sapevo cosa stava pensando. Era il quinto in classifica fra i suoi pari e io avevo sconfitto tutti i primi quattro. Dato che era rimasto solo lui ad affrontarmi, sperava di essere avvantaggiato dal fatto che fossi esausto dopo aver combattuto contro i suoi compagni. Ma non era così. Tutto quello che avevo fatto era stato scagliare alcune lance con abilità letale, superando tutti in astuzia. E adesso aspettavo che anche lui mi attaccasse. Non mi sorprendeva affatto la sua esitazione, anzi sentivo addirittura uno spasimo di compassione per quel tizio, così gettai le mie ultime due lance una dopo l'altra, impugnai la mia spada da esercitazione e con uno slancio della gamba destra scivolai a terra, dopodiché diedi al mio cavallo una pacca sul dorso e gli ordinai di allontanarsi. Solo allora sentii il rumore della folla, che dopo aver trattenuto il fiato per tanto tempo emise un sonoro mormorio e poi tacque. Una volta capito che aveva qualche reale probabilità di battermi a piedi, nello scontro a due con le spade, in assenza di strani proiettili, l'uomo combatté bene, ma non era abituato a maneggiare una spada così pesante come quelle che usavamo noi tutti i giorni per esercitarci, perciò si stancò subito. Quando fu chiaro che per lui era diventata una fatica immane brandire l'arma, lo finii alla svelta: scaraventai la sua spada da un lato e lo feci inciampare, dopodiché gli premetti la punta della spada sulla gola scoperta. In quel momento, quando sconfissi l'ultimo dei miei cinque avversari in un angolo dell'arena, sotto gli occhi degli spettatori seduti sulla tribuna davanti a me, e sentii la folla che urlava e mi acclamava, provai solo un fugace senso di soddisfazione, che si amplificò quando uno degli arbitri si avvicinò per restituirmi i sei giavellotti del mio scudiero. Quando lo ringraziai per la sua premura, tuttavia, mi resi conto che la natura dei suoni che mi circondavano era cambiata. Una vaga sensazione di disagio si impadronì di me, così mi guardai indietro. La cavalleria di Corbenico stava entrando nell'arena. Sapevo che la loro decisione di uscire dai recinti che si trovavano lungo un lato del campo doveva essere stata estemporanea, eppure si muovevano in blocchi, procedevano in fila senza parlare rispettando le rigorose formazioni che ormai erano diventate parte integrante della loro vita. Galli e Britanni avanzarono insieme a scaglioni, in silenzio, finché l'intero reparto di cavalleria di Corbenico non si arrestò davanti a me e mi fissò, facendomi sentire orgoglioso e umiliato allo stesso tempo. Gli unici suoni che si udivano fra le sue file erano lo sbuffo o il nitrito dei cavalli e il rumore sordo degli zoccoli quando qualcuna di quelle bestie scalpitava o si impennava per sfuggire alla puntura di un insetto. Vidi re Pelles cavalcare in mezzo agli altri, circondato dai suoi capi clan, e dirigersi verso di me. Mi accorsi che ai margini dell'enorme campo erano allineati numerosi osservatori franchi, arrivati dagli accampamenti per i forestieri che erano stati allestiti dietro gli spalti. Non c'era bisogno di parlare. Il messaggio era chiaro a tutti. Qualche istante più tardi, Pelles mi tese la mano; io gliela presi e mi chinai su di essa. Quando alzai lo sguardo, il re mi stava sorridendo. "Ben fatto, cugino" disse. "Ora puoi congedare i tuoi uomini. I giochi sono finiti per oggi, perché chi altri potrebbe mai superare le tue prestazioni? Vieni a mangiare con noi, adesso." I miei comandanti mi osservavano, in attesa del segnale. Non appena lo diedi, le truppe di cavalleria radunate nel campo cominciarono a disperdersi, sempre in silenzio e sempre rispettando le formazioni in modo rigoroso. Quell'episodio così spontaneo segnò la vera fine dei giochi del re: sembrava che i concorrenti stranieri non avessero più lo spirito adatto. Ciononostante, i giochi ottennero un grande successo, poiché gli insegnamenti dati erano stati osservati e fatti propri. Da quel momento, in tutto il nordovest della Gallia, i guerrieri cominciarono a prestare grande attenzione alla cavalleria di Pelles e alle sue tecniche di combattimento. Tuttavia, dalle lezioni imparate non nacque un vero movimento equestre, perché le uniche fonti di insegnamento valido erano Camelot e la stessa Corbenico e, anche quando qualche interessato cercava di portare via a Pelles gli ufficiali di grado più alto, allettandoli con denaro e cariche importanti, quei tentativi erano destinati a fallire perché agli altri mancava la formula che era stata importata da Camelot e che era fondamentale per la riuscita di un'impresa come quella: la secolare tradizione della cavalleria e gli sperimentati programmi di accoppiamento e riproduzione dei cavalli. La storia di quella sfida contro i cinque campioni fu tramandata nel tempo, anche se con il passare degli anni venne notevolmente alterata. Mi capitò di risentirla parecchi anni dopo, quando ormai ero vecchio, e scoppiai a ridere, perché non avrei mai immaginato che qualcuno potesse credere a una simile corbelleria, ma alcuni dei miei compagni più giovani provarono una grande gioia nel dirmi che quella era la mia storia e che ero io l'eroe di cui si parlava. Rimasi esterrefatto e mi sentii quasi in imbarazzo per il modo esagerato in cui venivo ricordato, anche se il mio nome non veniva mai menzionato in quel racconto. Era una ridicola distorsione di quanto accaduto realmente, una versione colorita di volta in volta fino a perdere qualsiasi traccia di veridicità. In quel racconto, anziché vivere nel castello che sovrastava il mare, ero un forestiero, uno straniero venuto da lontano per cercare di sconfiggere il malvagio signore del castello, ed ero stato costretto ad affrontare uno dopo l'altro gli implacabili guerrieri che lui mi aveva mandato contro, finché non avevo sgominato tutta la banda ed ero entrato nel castello, di cui mi ero impadronito dopo aver trucidato il re. III Ero in Gallia da più di due anni e il nostro organico di Camelot al completo era arrivato a contare più di seicento uomini, di cui quasi cinquecento erano ufficiali e soldati. Il reparto di cavalleria di Pelles aveva solide basi ormai, con i suoi allevamenti di purosangue e destrieri, con i campi armati, le guarnigioni e gli efficaci programmi di reclutamento, pertanto le attività di consiglio e supervisione svolte da me e dai miei funzionari erano diventate superflue. I militari di Pelles, guidati da Cortix e Quinto Milo, erano diventati competenti quanto i miei. Cortix e Milo comandavano insieme quattro ali complete dell'esercito, formate da circa duecentottanta uomini ciascuna, compresi gli ufficiali. All'inizio li avevamo chiamati squadroni, ma, nell'assumere il comando, Milo aveva deciso di riprendere l'antico nome usato dai Romani per i reggimenti di cavalleria e, anche se persero gran parte della loro forza quando gli uomini di Camelot furono rimandati a casa, l'avrebbero recuperata in pieno nel giro di sei mesi, una volta terminato l'addestramento del nuovo scaglione di reclute. Come sempre, le ali erano quelle dei Rossi, dei Bianchi, dei Blu e dei Dorati. I nostri soldati originari di Camelot - gli istruttori del nuovo esercito - ora formavano lo squadrone dei Bianchi e Neri, che aveva le insegne a scacchi ed era diventato un'entità autonoma, quasi un reparto di truppe ausiliarie. Mentre i giorni passavano sulla scia dei giochi, mi ritrovai a pensare sempre più spesso alla necessità di tornare a Camelot, dove la guerra contro Connlyn al Nord era diventata una spina nel fianco per Artù e per la sua visione della Britannia. Le mie preoccupazioni giunsero al culmine una sera, mentre ero a tavola con Pelles, nella sua sala da pranzo principale, dove si teneva una cena in onore dei suoi nuovi comandanti di squadrone: un giovane e brillante cavaliere di nome Serdec, che discendeva dal clan dei Lupi, guidati da Getorix, e un certo Gaio Balbo, un guerriero per metà romano del clan degli Orsi, comandati da Chilperico, suo nonno per parte di madre. I due uomini erano stati iniziati alla Confraternita di Corbenico, nome altisonante che gli ufficiali di Pelles si erano assegnati meno di un anno prima, quando erano stati giudicati idonei a essere cavalieri anche senza l'aiuto di Camelot; i festeggiamenti erano quasi giunti al punto in cui al re e ai suoi ospiti personali era consentito allontanarsi dalla baldoria, anzi ci si aspettava che lo facessero, per lasciare i giovani subalterni ai loro divertimenti. Stanco delle buffonerie e delle urla dei miei sottoposti ubriachi, osservai pigramente il giovane Mordred avvicinarsi a uno dei tavoli portando con estrema cautela una brocca grande e pesante; si mordeva il labbro tutto concentrato, mentre si sforzava di non versarne neanche una goccia. Arrivò al tavolo, che era occupato da alcuni dei soldati più anziani, e allungò le braccia per depositare il suo fardello, ma non riuscì a sollevarlo a sufficienza e neanche a metterlo abbastanza lontano. Prima che potesse rovesciare la brocca, comunque, uno degli uomini si girò e gliela tolse, quindi la posò abilmente sul tavolo con una mano, mentre con l'altra arruffava i capelli al ragazzo. Vidi Mordred arrossire con aria gaia quando un altro si girò e gli fece l'occhiolino, prima di passargli un grosso pezzo di soffice pane con sopra una bella fetta di maiale arrosto. Il giovane Mordred l'agguantò con gli occhi che gli brillavano e ringraziò annuendo, prima di squagliarsela con un largo sorriso sul volto, mentre già addentava con aria famelica il suo premio. Come tutti gli altri "ragazzi" del castello - scudieri, sguatteri, stallieri e apprendisti di norma non avrebbe dovuto ricevere niente finché ognuno degli uomini seduti nel Salone Grande non avesse mangiato a sazietà, perciò quell'atto di beneficenza da parte dei soldati più anziani rappresentava davvero un grande privilegio. In quel momento, la vista del ragazzo che correva felice in mezzo ai tavoli degli ufficiali, ignorato da tutti, mi ricordò con una forza dirompente che quello era il figlio di Artù Pendragon, il sommo re della Britannia Unita, e che il padre non sapeva ancora della sua esistenza. Il fatto che Artù fosse ancora all'oscuro voleva dire che non avevo ancora compiuto a pieno il mio dovere, peccando di negligenza, perché conoscevo la verità da quasi un anno ormai. Così mi resi conto che era quella l'origine dell'inquietudine che provavo da settimane o addirittura da mesi. Avevo capito già da un pezzo ormai che Merlino non aveva detto niente ad Artù a proposito del ragazzo, non ritenendo l'informazione trovata nella mia lettera abbastanza importante da sottoporre all'attenzione del re. Ma anche se non sapevo per quali motivi potesse pensare una cosa del genere, decisi che si sbagliava: era decisamente ora di portare in patria il giovane Mordred per fargli conoscere il padre. E la matrigna. Ed era anche decisamente ora che riportassi a casa i miei soldati, tutti quanti. Il loro compito in Gallia era finito e adesso il regno di Pelles poteva sopravvivere senza di loro. Il flusso dei miei pensieri fu interrotto quando Pelles si alzò, costringendo tutti quelli che sedevano al suo tavolo a fare altrettanto, ma mentre lo seguivo fuori dalla sala e salutavo con il capo le facce sorridenti che incontravo qua e là durante il tragitto, decisi che avrei discusso la questione con lui più tardi, qualora se ne fosse presentata l'occasione. In quei giorni Pelles era un sovrano più attivo che mai e sembrava perennemente circondato da messaggeri e supplicanti di qualsiasi genere. Anche mentre usciva dalla sala, era attorniato da quattro uomini abbigliati in modo sontuoso, due dei quali avevo catalogato subito come idioti fanfaroni, e tutti si davano da fare per catturare la sua attenzione. Li osservai con aria mesta, poiché sapevo che non avrei avuto molte probabilità di riuscire a strappare Pelles alle loro grinfie quella sera. In effetti passarono altri tre giorni prima che potessi parlargli in privato. E anche quella volta ci riuscii solo grazie alla complicità di sua sorella Serena, la quale con un semplice stratagemma mandò a chiamare Pelles: come al solito, lui lasciò tutto e corse immediatamente da lei. Serena gli disse che avevo bisogno di parlargli, dopodiché ci lasciò soli. Non appena iniziai a esporgli i miei pensieri, mi resi conto che fino a quel momento l'eventualità che io potessi fare ritorno a Camelot insieme ai miei soldati non lo aveva neppure sfiorato. Fu profondamente colpito nel sentire quello che avevo da dirgli e sembrò perdere un po' della sua sicurezza, quando cominciò a considerare le conseguenze di quella decisione: l'effetto più evidente della nostra partenza sarebbe stato il grande vuoto che avremmo lasciato nel sistema di difesa che Pelles aveva creato per il suo regno. Anche i recinti e le stalle di Corbenico sarebbero sembrati molto più grandi e vuoti, perché al momento di partire, avremmo portato con noi più di un migliaio di cavalli da guerra ben addestrati. Passai l'ora successiva a cercare di rassicurarlo sul fatto che la nostra partenza sarebbe stata molto graduale, così come era stato il nostro arrivo, e che prima che avessimo terminato di caricare gli uomini e i cavalli a bordo delle navi della nostra ultima flotta, i suoi uomini avrebbero già ripopolato i recinti e finito di addestrare altri cavalli per i soldati di cavalleria. Alla fine Pelles cominciò a vedere le cose nella mia ottica, ma quando ci separammo era pur sempre un uomo avvilito, un re con tanti grattacapi. QUATTRO I Il periodo che seguì la decisione di tornare a Camelot con i miei uomini fu uno di quei momenti che sfuggono totalmente al nostro controllo e che tutti sperimentano almeno una volta nella vita. Lo accettai, persino mentre lo vivevo, come una lezione di umiltà impostami a dimostrazione di quanto fossi impotente di fronte agli eventi che il mondo crudele mi aveva fatto piombare addosso. Fu un periodo dominato da un caos che scardinò tutte le mie certezze e da avvenimenti rapidissimi che si svolsero senza alcun tipo di logica; un periodo in cui all'improvviso sembrò accadere tutto quello che poteva accadere, in cui gli eventi si susseguirono con un ritmo così serrato e travolgente, che a volte perdevo la cognizione del tempo e non capivo più l'importanza dei singoli fatti. Il terremoto cominciò subito dopo la conversazione avuta con Pelles e mi costrinse a tornare alla svelta in Britannia molto prima che la nostra strategia di ritiro venisse messa a punto; fui scortato da alcuni dei miei uomini e da un numeroso contingente di cavalieri franchi, che re Pelles inviò come guardia d'onore straniera per portare a re Artù di Britannia i suoi ringraziamenti e i suoi saluti, oltre a un'offerta di aiuto militare. Le ragioni alla base di questi sviluppi erano semplici: con l'ultima flotta arrivata da Camelot all'inizio della primavera, ci giunse voce che Artù era stato gravemente ferito durante una scaramuccia con alcuni alleati stranieri di Connlyn. La rabbia e lo sdegno di Merlino erano tangibili persino attraverso la sua lettera, trasparivano in modo palese dalle linee marcate della sua grafia furiosa. Si era sforzato di spiegare lo scontro come un banale incidente, per quanto terribilmente inopportuno, anziché come una battaglia persa dalle armate di Artù, ma la descrizione vivida e allarmante che ne aveva dato bastò a mettermi in agitazione e a farmi correre da Pelles per informarlo che sarei tornato a Camelot con la prima nave in partenza da Corbenico. Stando al resoconto di Merlino, Artù e Ghilleadh erano stati colti di sorpresa mentre cavalcavano fianco a fianco, un po'"più avanti rispetto al resto delle truppe d'assalto di Ghilly. Si erano incontrati poco prima nell'accampamento principale di Artù, dove Ghilleadh si era presentato senza preavviso, e si stavano dirigendo verso l'avamposto di Ghilly, situato all'incirca due miglia più a nord: poiché dovevano parlare di alcune faccende personali - in tutti gli eserciti ci sono delle malelingue, persone dotate di orecchie lunghe e di una curiosità insaziabile - si erano allontanati dal resto dei soldati con una simbolica scorta di dieci uomini, poi sparpagliatisi nei dintorni a debita distanza. Avrebbe dovuto essere una cavalcata tranquilla, perché più di una settimana prima Ghilly aveva unito la sua forza d'assalto con la fanteria di Gareth e le loro truppe combinate avevano scacciato il nemico da tutta la regione, lasciando la campagna circostante praticamente nelle mani di Artù. Qualcuno però aveva dimenticato di dire agli alleati di Connlyn che tornare lì dopo una tale disfatta sarebbe stata una follia, così un gruppo ramingo di circa cento guerrieri di Alba con la pelle dipinta di blu, i cosiddetti Pitti o Gente Dipinta delle leggende romane, era arrivato in cima a una collina mentre si dirigeva nel sud della Britannia dai suoi territori situati oltre il Vallo e si era ritrovato ai suoi piedi un drappello di cavalieri che gli andava incontro percorrendo uno stretto sentiero fiancheggiato da alberi. I guerrieri di Alba avevano attaccato senza esitare, poiché vedendo solo uomini a cavallo avevano capito che si trattava di nemici; così avevano colto i nuovi arrivati di sorpresa per poi sopraffarli. Come sempre, prima avevano ucciso i cavalli con una grandinata di lance e frecce, e subito dopo attaccato i cavalieri rimasti a piedi prima che potessero radunarsi. Ghilly, mi informava Merlino nella sua lettera, era stato il primo a morire, colpito al volto da una freccia e in seguito decapitato dopo essere caduto da cavallo. Anche il destriero di Artù, che era accanto a quello di Ghilly, era stato ucciso non appena l'attacco aveva avuto inizio. Dopo che una freccia gli si era conficcata nell'occhio, l'animale era crollato così velocemente che il re aveva avuto a malapena il tempo di togliere i piedi dalle staffe. Era caduto a terra con le gambe ancora divaricate, tramortito dall'impatto con il suolo, il piede destro bloccato sotto il peso del cavallo morto, e mentre si dimenava impotente era stato colpito da due lance, una delle quali avrebbe anche potuto ucciderlo. La prima lancia era stata deviata dalla corazza ed era penetrata in profondità sotto l'ascella, perforando il muscolo, da cui era fuoriuscito talmente tanto sangue da farlo sembrare morto. L'altra lancia aveva provocato danni ancora più gravi. Destinata a colpirgli lo stomaco mentre Artù era sdraiato a terra in modo scomposto e prendeva a calci il cavallo morto per liberarsi la gamba, l'arma aveva colpito di rimbalzo il ginocchio protetto dalla maglia di ferro e aveva trovato un grosso squarcio nel gambale corazzato proprio vicino all'inguine. La lunga punta affusolata della lancia si era conficcata quasi perpendicolarmente nella gamba ed era penetrata tanto a fondo da trafiggere l'inguine e trapassare il pube prima di piantarsi nel bacino; se l'uomo che la maneggiava non fosse stato ucciso prima che potesse girare l'asta o gettarsi con tutto il suo peso sull'arma, Artù sarebbe morto all'istante. Ma la maggior parte dei soldati di Ghilly cavalcavano proprio dietro il loro comandante, anche se purtroppo non abbastanza vicino, ed erano accorsi non appena sentiti i primi segni della battaglia. Erano arrivati dopo pochi istanti, ma, quando avevano raggiunto il luogo dello scontro, gli unici due sopravvissuti erano Artù e un giovane soldato, il quale era morto qualche giorno più tardi a causa delle ferite riportate. Quando mi aveva scritto, tre settimane dopo l'attacco, Merlino non sapeva ancora se il re si sarebbe salvato oppure no, e il suo timore traspariva con estrema chiarezza dal resoconto dell'incidente. Nella settimana che seguì, Pelles e la sorella Serena fecero di tutto per farmi rilassare e non farmi pensare a quanto era accaduto al mio re e più caro amico, ma fu un compito ingrato quello che si assunsero. Non avevo modo di sapere se Artù era ancora vivo e se era migliorato, perciò dovevo essere insopportabile a causa della frustrazione e della mia fervida fantasia. Nella mia mente non facevo altro che vedere il re in una vasta gamma di situazioni, che andavano dal frenetico delirio al lento declino, gli occhi infossati e le ferite infette e cancrenose, il suo destino spezzato da una mera coincidenza: l'essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. In ogni istante della giornata mi domandavo come stesse davvero il re e mi maledivo perché non potevo fare assolutamente niente per migliorare la sua situazione. Era ancora vivo o era morto a causa delle ferite? E se era ancora in vita, migliorava o peggiorava? Era in via di guarigione o diventava sempre più debole? La mia agonia era accentuata dal pensiero che se Artù fosse morto prima di conoscere suo figlio non me lo sarei mai perdonato. Aveva bisogno di vedere il giovane Mordred e soprattutto avevo bisogno io che lui incontrasse il ragazzo e lo riconoscesse come suo figlio, nonostante la tragicità della situazione. Non mi ero mai sentito così impotente in vita mia e sapevo che dovevo tornare a Camelot il più presto possibile, e dunque imbarcarmi su una delle navi ancorate nel porto di Pelles. E così aspettai, con una punta di irritazione, che le navi si preparassero, troppo lentamente, a salpare di nuovo. La notizia della morte di Ghilleadh fu un vero shock, tanto che mi rifiutai di crederci. Ghilly non poteva essere morto, soprattutto non in quel modo così banale, volgare e ignobile; era inconcepibile, non volevo crederci. Noi due avevamo ancora un mucchio di cose da fare insieme, tante missioni da compiere e tante storie da raccontarci. Nella vita ci sono momenti in cui la verità è semplicemente inaccettabile. Una notte mi svegliai gridando il suo nome e sentendo il suo familiare odore nell'oscurità che mi circondava. Mi sollevai su un gomito e strizzai gli occhi nel buio pesto della stanza; fu allora che mi tornò in mente un episodio: ero fra le braccia di Elaine, con la testa appoggiata sui suoi seni, e lei mi aveva chiesto quale fosse il mio preferito tra i compagni cavalieri di Artù. Ghilleadh, avevo risposto. Egli era, ed era sempre stato fin dal principio della nostra amicizia, l'incarnazione di tutte le qualità che secondo me i nuovi cavalieri di Artù dovevano possedere: era forte, ma anche generoso e gentile, onesto, schietto, leale e fidato fino alla morte, un amico fedele e un implacabile paladino della giustizia, incapace di mentire e del tutto alieno alla corruzione, alla vigliaccheria e alla calunnia. Se fossi stato un ragazzo in cerca di un eroe, il mio amico Seur Ghilleadh avrebbe avuto tutti i requisiti necessari. E adesso era morto, disarcionato dal suo cavallo e decapitato da un selvaggio con il volto dipinto di blu. Credo che sia stata di Serena l'idea di inviare con me in Britannia una guardia d'onore composta di cavalieri franchi. Lei e Pelles cercavano in tutti i modi qualcosa che potesse farmi passare la smania di prendere il comando di una nave - una qualsiasi - e di partire subito per la Britannia. Pelles valutò l'idea e convocò subito dei volontari, sapendo che qualsiasi soldato qualificato fra le sue file avrebbe colto al volo l'occasione di recarsi in Britannia come membro di un'elitaria guardia d'onore e la cosa provocò un'attività frenetica in tutto l'esercito, in cui si esaminarono e selezionarono gli elementi più qualificati. Naturalmente, dato che sulla carta, ero io il comandante generale delle forze di cavalleria di Pelles, sia a Corbenico sia in Britannia, la decisione finale spettava a me; fu uno stratagemma astuto, in effetti, che riuscì a farmi dimenticare, a volte per ore e ore, i problemi che mi tormentavano. Insieme a Mordred, mi imbarcai su una nave che avrebbe fatto ritorno in Britannia, scortato da una guardia d'onore con quaranta cavalieri e un gruppetto di miei uomini. Portai con me Bors, come unico ufficiale di Camelot, e sei dei migliori uomini di Pelles, fra cui Quinto Milo, il quale non nascose affatto il suo desiderio di incontrare Merlino Britannico in carne e ossa. Pelles venne a salutarci di persona, sapendo che saremmo tornati entro l'anno e che gli avrei scritto regolarmente per informarlo su quello che accadeva in Britannia. Mentre ero in piedi sul piccolo ponte di poppa della nave e guardavo i miei amici scomparire a poco a poco all'orizzonte, capii che avrei dovuto sentirmi in colpa a lasciarli lì, ma in Britannia mi aspettavano talmente tante preoccupazioni che non potevo permettermi di tormentarmi per aver abbandonato gli amici per qualche mese. Sarebbero stati in grado di gestire qualsiasi situazione si fosse presentata in Gallia. Avrei tanto voluto avere la stessa certezza riguardo a ciò che mi aspettava in Britannia. II Quando lasciammo la Gallia le brezze primaverili avevano già cessato di spirare e la nostra traversata fu tranquilla; una volta arrivati in Britannia, risalimmo la costa occidentale fino all'antico porto fluviale di Glevum. Il porto era molto diverso da quando avevamo cominciato a usarlo come punto di sbarco, dopo aver riparato e rimodernato le vecchie banchine e i vecchi depositi. Attraccammo senza problemi e non perdemmo tempo a schierare le nostre formazioni. Avevo avuto una lunga discussione con Shaun Dito Indice, il capitano della nave, riguardo alle condizioni del sommo re e alle notizie che avrebbe dovuto riferire a Connor e a re Brander. Alla fine Shaun aveva acconsentito a rimanere cinque giorni a Glevum, in attesa di ricevere gli ultimi aggiornamenti sulla salute di Artù, informazioni che avevo promesso di comunicargli per mezzo di una lettera il più presto possibile. Lasciammo le navi saldamente ormeggiate lungo l'argine e partimmo difilato per Camelot prendendo la grande strada che portava ad Aquae Sulis e procedendo abbastanza in fretta. Nessuno sapeva del nostro arrivo, ma non fui sorpreso quando, prima ancora che raggiungessimo Camelot, mi dissero che Merlino mi stava aspettando. Subito dopo aver avvistato in lontananza il forte sulla collina, vidi un cavaliere avvicinarsi al trotto e in pochi istanti riconobbi la postura goffa del mio vecchio amico Gwin. Era un brillante ed esemplare comandante di fanteria e, quando le circostanze lo richiedevano, era anche un cavaliere dotato e versatile, nonostante sembrasse sempre a disagio quando era in sella a un cavallo. Quando vide che lo salutavo con la mano, tirò le redini e si fermò sul ciglio della strada ad aspettare che lo raggiungessimo, quindi spronò il cavallo e venne a stringermi la mano, dandomi il benvenuto con un placido sorriso prima di lanciare uno sguardo enigmatico alla mia scorta di soldati franchi, che abbagliavano nelle loro cotte di maglia di bronzo, nelle corazze e negli elmi di metallo brunito. Li salutò grugnendo, un verso che in qualche modo fu incoraggiante; dopodiché alzò lo sguardo verso lo stendardo blasonato che sventolava sopra i loro elmi. "Una testa di cervo? Deve essere l'emblema di quel re franco, non è così?" "Sì, è così... Se intendi re Pelles di Corbenico." Gwin rimase a fissarmi, in attesa che aggiungessi qualcosa, che gli rivolgessi la domanda che si aspettava. "Come sta Artù?" Increspò le labbra e distolse lo sguardo. "Non posso dirtelo" mormorò. "In realtà lo so come sta, ma Merlino mi ha ordinato di non dirti nulla e di portarti da lui prima che potessi andare da qualche altra parte e parlare con qualcuno. Sai che Merlino non chiede mai niente, ma quando vuole davvero una cosa, te lo fa capire senza usare mezzi termini. E adesso ti sta aspettando a casa sua." "Ma il re è vivo, vero?" "Ma sì, certo." Gwin mi guardò allibito, come se non potesse credere che avessi fatto quella domanda, e finalmente, per la prima volta da quando avevo ricevuto la notizia dell'imboscata, mi sentii meglio. "Come faceva a sapere che stavamo arrivando... Merlino, intendo?" Gwin mi lanciò uno sguardo con un sopracciglio inarcato. "Questa sì che è una domanda stupida, Lance, persino per un franco! Mi stai chiedendo come fa Merlino a sapere quello che sa? Credo che non lo sappia nemmeno lui..." Annuii di nuovo e spronai il cavallo a rimettersi in moto. Erano passati più di due anni dall'ultima volta che ero stato lì e il mio sguardo vagava di qua e di là, mentre ci avvicinavamo alle pendici del colle su cui sorgeva Camelot per poi imboccare la strada ripida e tortuosa che conduceva ai cancelli principali. Durante tutta l'arrampicata incontrammo un flusso costante di persone che andavano in entrambe le direzioni, ma non vidi nemmeno un volto noto, il che, insieme al fatto che nessuna di queste persone sembrava curarsi del nostro passaggio, mi fece riflettere su quanto fossero abituati ormai gli abitanti di Camelot a vedere dei guerrieri stranieri aggirarsi da quelle parti. I nostri cavalieri franchi indossavano tutti la cotta d'arme di bronzo, il segno inequivocabile che erano stranieri, eppure nessuno dei numerosi passanti prestò loro la benché minima attenzione. Pensai che fosse perché erano tutti sicurissimi che nessun nemico di Camelot avrebbe mai osato andare lì in mezzo a loro. Era ovvio che confidavano pienamente nel fatto che la cavalleria del re li avrebbe difesi da un'eventuale incursione di forze nemiche, ma la verità era che da quando eravamo sbarcati nessuno ci aveva intimato il chi va là o aveva fatto qualche tentativo di identificarci. Rispetto a quando ero partito c'erano alcuni edifici in più in mezzo agli alberi che circondavano il piazzale per le esercitazioni, ma la cosa non mi sorprese. Da quasi un secolo Camelot era una comunità in via di sviluppo e gran parte dei terreni coltivabili e dei fitti boschi che circondavano la fortezza centrale ospitavano da tempo gli alloggi dei numerosi soldati e coloni che ormai pullulavano ovunque. Alla fine della strada, nell'area antistante i cancelli principali, trovammo ad accoglierci il corpo di guardia del forte riunito sotto il comando dell'ufficiale di turno, Seur Gareth, un altro dei compagni cavalieri di Artù originario della Cambria. Ci salutò in modo molto formale, dandoci il benvenuto in patria e accogliendo i nostri ospiti franchi con grande cortesia, prima di indicare i cancelli aperti alle sue spalle e di ordinare a una squadra di guardie di accompagnarli alle scuderie. A me, invece, riferì un messaggio molto più diretto: Merlino Britannico mi aspettava nelle sue stanze. Scesi da cavallo e lasciai cadere le redini a terra, quindi, accompagnato da Rufus, mi incamminai senza ulteriore indugio verso l'edificio che ospitava il centro amministrativo e lasciai il cavallo legato lì in attesa che il giovane Mordred andasse a prenderlo per portarlo nelle stalle. Sembrava che tutti a Camelot sapessero del mio ritorno in Britannia, perché ricevetti dei sorrisi cordiali e del tutto privi di stupore da quanti incontrai lungo il tragitto mentre mi recavo nelle stanze di Merlino, che si trovavano in una delle lunghe costruzioni destinate a ospitare le caserme. Non appena arrivai nell'angusto vestibolo che si trovava davanti alla porta del suo soggiorno, mi tolsi l'elmo e il pesante mantello da viaggio, quindi alzai le braccia per permettere a Rufus di slacciare le fibbie che si trovavano sotto le ascelle in una posizione assai scomoda e che servivano a tenere ben ferma la mia corazza. Rufus appoggiò con delicatezza l'armatura dietro la porta, da dove poi l'avrebbe ripresa, dopodiché si girò per aiutarmi a togliere la tunica di maglia e i pesanti gambali allacciati. Ammassò la tunica di maglia vicino alla corazza e io gli ordinai di portare tutto nell'alloggio temporaneo assegnatomi e di cercare Mordred, probabilmente nelle stalle, per dirgli di aspettare lì finché non fossi andato a prenderlo. Rufus ascoltò con attenzione, quindi salutò e uscì, portando sulla spalla la cintura a cui era attaccata la mia spada e sul braccio il mio lungo mantello piegato con cura. Guardai la porta chiudersi di scatto dietro di lui e poi mi voltai con la mano alzata, pronto a bussare alla robusta porta di legno del soggiorno di Merlino. Prima che potessi farlo, però, la porta si spalancò e un uomo che non avevo mai visto mi fece cenno di entrare. Chinò il capo quando varcai la soglia e poi se ne andò chiudendo la porta alle sue spalle. La stanza, più grande di come me la ricordavo, era pervasa da una luce tremolante, ma al tempo stesso immersa nella penombra, e le piccole finestre sulla parete in fondo contribuivano ben poco a illuminare l'ambiente, soprattutto in quei primi giorni di primavera, quando il sole era ancora basso nel cielo. La voce di Merlino arrivò dalla profonda e tetra oscurità che permeava l'angolo accanto al focolare con la base di pietra. "Entra, maestro Clothar, siediti e mettiti comodo. È passato molto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti." Come sempre era avvolto dalla testa ai piedi nei suoi voluminosi abiti neri e si alzò per venirmi incontro, anche se non accennò minimamente a darmi la mano. Contraccambiai il saluto nel modo più caloroso possibile, ma mi accorsi che lui guardava oltre la mia spalla, come se si aspettasse di vedere qualcuno dietro di me. "Dov'è il ragazzo? Non lo hai portato?" "Dalla Gallia, sì. Ma pensavo che non fosse il caso di portarlo a questo incontro." "E perché mai?" Alzai le spalle. "Perché quel ragazzo mi piace e non voglio vederlo soffrire. Non potevo sapere che genere di trattamento gli avreste riservato. Non avete risposto alla lettera in cui vi parlavo di lui e, dato che non sapevo cosa ne pensavate, non mi sembrava il caso di esporlo a un inutile tormento. La situazione in cui si trova il ragazzo non dipende in nessun modo da lui. Egli non ha colpe. Come ho detto, mi piace molto e non voglio vederlo soffrire senza motivo. Avrà tutto il tempo di affliggersi se suo padre lo ripudierà. Come sta il re? Sa del ragazzo?" Merlino non tentò affatto di tergiversare. "Non bene come vorrei e no, non sa del ragazzo. Migliora di giorno in giorno, ma ha rischiato di morire e ci vorrà molto tempo prima che possa tornare a cavalcare o a combattere. Fondamentalmente è per questo che ho deciso di non dirgli nulla del ragazzo. Non sapevo proprio come avrebbe reagito a quella notizia nelle condizioni in cui si trovava all'epoca e non volevo rischiare di causargli un dolore ancora più grande. E a essere sinceri, non è cambiato nulla in questo senso." Si girò dall'altra parte e parlò rivolto verso il fuoco, così dovetti sforzarmi per sentire quello che diceva. "Ci sono stati momenti in cui era talmente consumato dalla febbre da indurmi a credere che lo avremmo perso, ma ogni volta lui raccoglieva le forze e combatteva per superare la crisi." Fece un'altra pausa e dal movimento del cappuccio che gli copriva la testa intuii che doveva essersi girato leggermente verso di me. "Se fossi un devoto cristiano, giurerei che è merito di Dio se Artù è scampato alla morte così tante volte... cinque, per l'esattezza, a quanto mi ricordo. È stato privo di sensi per quasi tre settimane subito dopo il suo ferimento, ma non dormiva, si girava e si rigirava nel letto in preda al delirio, senza riuscire a riposare. È diventato pelle e ossa per la rapidità con cui è piombato nell'incoscienza. Come sai, abbiamo ottimi medici qui a Camelot, ma nessuno ha potuto fare niente se non aspettare e osservare; lo stesso vale per i guaritori che sono venuti da fuori per offrire il loro aiuto." "E la regina?" "Che vuoi sapere? È rimasta sempre al suo fianco, a parte quando era troppo esausta. Abbiamo fatto dei turni, in modo che per tre settimane intere Artù non rimanesse mai solo. Poi finalmente la febbre è scesa e lui ha cominciato a migliorare. Ma non può ancora alzarsi dal letto e solo ora ha cominciato a mangiare cibo solido." "Quindi la regina ha mostrato un sincero interesse per Artù? La cosa mi sorprende, maestro Merlino. Voi non me lo avete mai detto e io non ve l'ho chiesto: vi piace Lady Ginevra?" Merlino rispose all'istante. "Provo un enorme rispetto per lei e questo diventa sempre più sincero a mano a mano che la conosco meglio. La ammiro anche molto. Ha una... una personalità così forte che la rende piacevolmente diversa... e ha coraggio e fiducia nelle proprie capacità. È l'unica persona alla quale ho detto del ragazzo. Pensavo che dovesse saperlo, così l'ho informata non molto tempo fa e dalla sua reazione ho capito di aver fatto bene a fidarmi di lei. Non avrai nessun problema con la regina per quanto riguarda il figlio di Artù. Capisce perfettamente la situazione e il ragazzo ha tutta la sua comprensione." "Credete che vorrà incontrarmi?" "Mi ha già chiesto di accompagnarti da lei subito dopo il nostro colloquio. Prego, siediti accanto al fuoco e riposati. Devi essere stanco, ma abbiamo molte cose di cui discutere, perciò ti ho fatto portare qualcosa da bere e da mangiare. Serviti pure. È tutto su quel tavolo nell'angolo." "Grazie, lo farò tra un istante. Ma prima ho bisogno di parlarvi e di porvi alcune domande. Come procede la guerra al Nord? Chi è a capo dell'esercito mentre Artù si trova qui? Stiamo facendo progressi contro Connlyn?" "Mmm. Ottime domande. La guerra al Nord è durata anche troppo, come tu ben sai. Negli ultimi tempi le cose hanno cominciato a mettersi meglio per noi, forse perché abbiamo schierato un vasto numero di uomini sul campo... quasi cinquemila in totale, di cui mille sono cavalieri. Finché rimaniamo sulle strade romane, possiamo muoverci rapidamente e il nemico non può resisterci. Purtroppo questo lo sanno anche le truppe avversarie, perciò rimangono sulle colline e nelle zone montagnose, tenendosi alla larga dalle strade. Bedwyr ha il comando generale e Pelinore è il suo vice. Sotto la loro guida c'è un re guerriero della Cambria settentrionale di nome Rience. Forse non lo hai mai incontrato, ma è un vecchio amico di Artù. Sono cresciuti insieme. Rience è al comando delle truppe di fanteria e Balan, uno degli ultimi nominati fra i compagni cavalieri, è a capo della cavalleria. Se stiamo facendo progressi contro Connlyn? Credo di sì. Se riuscissimo a portarlo in battaglia, lo distruggeremmo. Ma è troppo cauto - o soltanto ben informato - per lasciarsi attirare in una battaglia in cui potrebbe trovarsi in inferiorità numerica e pertanto essere sconfitto." "Che volete dire con ben informato? Avete qualche sospetto sui suoi consiglieri?" Merlino inspirò profondamente per esprimere il suo disappunto. "Ho... più che qualche sospetto, ma non ho la certezza necessaria per dare ordini che possano cambiare la situazione attuale. Tuttavia, ho degli uomini che stanno indagando e un bel giorno avrò la prova che i miei sospetti sono fondati. E non appena la otterrò, gli informatori di Connlyn diminuiranno fino a scomparire." "Una spia, dunque. Sospettate di qualcuno in particolare?" "Sì. Ma come ti ho detto, non ho alcuna prova. Non ancora. A parte questo: l'alleanza che Connlyn ha creato è strana... Oltre alla sua gente, che vive a sud del Vallo, ha radunato Pitti di Alba, Norvegesi, Sassoni di vari tipi, Angli e persino qualcuno dell'Eire occidentale. Un bell'esercito, ma formato da tanti gruppi separati. Combattono tutti in modo diverso, credono in cose diverse, anche le loro lingue e i loro comportamenti variano da un gruppo all'altro, per questo i nostri uomini hanno la sensazione di combattere contro sei eserciti nemici differenti." Continuò a parlare della situazione al Nord ancora per un po'"e quando ebbe finito, gli dissi tutto quello che dovevo riferirgli sulla guardia d'onore di re Pelles che avevo portato con me e lo aggiornai sulla situazione in Gallia. Gli dissi che secondo me il reparto di cavalleria di Pelles ormai era abbastanza forte da essere autosufficiente e che avevo cominciato a preparare le mie truppe per un eventuale ritorno a Camelot. Merlino ascoltò con attenzione tutto il mio discorso e solo quando parlai della possibilità di fare ritorno a Camelot con i miei battaglioni alzò una mano per zittirmi. Quando mi fermai per obbedire al suo ordine, lui mi suggerì di aspettare prima di far preparare i miei uomini a lasciare la Gallia. Mi disse che prima di essere ferito nell'imboscata Artù aveva parlato di altre questioni da sbrigare laggiù. Ero curioso, ma prima che potessi chiedergli qualunque cosa, Merlino cominciò a incalzarmi con domande sul giovane Mordred. Sapeva già tutte le informazioni fondamentali, perché nella mia lettera gli avevo raccontato per filo e per segno la mia visita a Morgas, perciò le domande riguardavano espressamente il ragazzo: il suo carattere, il suo temperamento, il suo atteggiamento verso il padre e qualsiasi altra cosa Merlino ritenesse importante sapere. Alcune di queste domande mi lasciarono di stucco, poiché riguardavano cose che non mi erano mai venute in mente fino ad allora, ma risposi a tutte con franchezza e alla fine gli chiesi se dovevo mandare a chiamare il ragazzo in modo che potesse incontrarlo e trarre le sue conclusioni. Merlino però sollevò delle obiezioni e disse che preferiva aspettare che io incontrassi la regina Ginevra, dopodiché avrebbe potuto conoscere il ragazzo insieme a lei. Lasciai intatti il cibo e le bevande che mi avevano portato, perché Merlino mi disse che la regina mi aspettava a Villa Britannico, al piano che si affacciava sulla valle, così mi congedai per correre da lei. Merlino non fece nessun tentativo di unirsi a me, disse solo che mi avrebbe accompagnato fino alle stalle, dove potevo riprendere il mio cavallo per recarmi alla villa, che si trovava a circa un miglio dai cancelli principali della fortezza. Da lì, mi spiegò, la regina stessa mi avrebbe condotto dal re, a patto che Artù fosse stato sveglio e abbastanza forte da potermi ricevere. Vista la mia espressione incuriosita, Merlino mi spiegò che la coppia di novelli sposi si era stabilita a Villa Britannico non appena Ginevra era discesa dal regno di suo padre per trasferirsi a Camelot. Artù aveva deciso che le condizioni di vita nel forte in cima alla collina erano a dir poco primitive in confronto ai lussi offerti dall'antica villa in cui la famiglia Britannico era vissuta per quasi due secoli e mezzo di fila, anche se da qualche anno veniva utilizzata per la gestione agricola e per dare alloggio a ospiti e dignitari stranieri. Così aveva ordinato che la vecchia casa fosse rimessa interamente a nuovo, per poi stabilirvisi con la sua consorte. Quella spiegazione mi fece capire, più di qualunque altra cosa quali cambiamenti erano intercorsi a Camelot durante la mia assenza. Prima che partissi per la Gallia, per arrivare ad Artù si doveva per forza passare per Merlino, a meno che il re non fosse direttamente coinvolto. Adesso quel ruolo di potere era stato assunto dalla moglie di Artù e la cosa mi portò a riconsiderare completamente la questione della regina, che ero abituato a ricordare come una ragazzina esile, con le gambe lunghe e gli occhi grandi. Era ovvio che le cose erano cambiate ormai, perché adesso mi trovavo nel suo regno, dove persino Merlino Britannico la riveriva come la signora di Camelot e la moglie del sommo re della Britannia Unita. Avevamo lasciato da poco l'alloggio di Merlino, diretti alle stalle, quando notai un altro segno dell'importanza di Ginevra. Due sottufficiali ci passarono accanto e ci salutarono in silenzio, ognuno di loro aveva uno sgargiante distintivo di stoffa azzurra appuntata sul lato sinistro del petto. I due erano membri della Guardia della Regina, mi spiegò Merlino, un gruppo di guardie del corpo personali creato da Artù subito dopo il matrimonio per proteggere Ginevra, quando aveva capito che sarebbe stato lontano da Camelot e dalla moglie per molto tempo o almeno finché la guerra al Nord non fosse finita. Entrare a far parte della guardia e ottenere il diritto di indossare quel vivace distintivo blu, "l'Azzurro della Regina", come veniva chiamato, era diventato ben presto un obiettivo molto ambito, mi assicurò Merlino, lasciando intuire l'alta considerazione che i soldati avevano della loro regina. I due ragazzi, Rufus e Mordred, mi stavano aspettando all'ingresso delle stalle e, non appena mi vide, Mordred fece un passo avanti per farsi notare. "Quello bruno è Mordred" dissi a Merlino e lo vidi irrigidirsi in modo quasi impercettibile mentre ci avvicinavamo ai ragazzi. Sapevo che stava studiando nei minimi dettagli l'aspetto e l'atteggiamento di Mordred. A quanto pareva anche il ragazzo se ne era accorto, perché a un tratto si fermò e il sorriso scomparve dal suo viso. Allora mi ricordai che i ragazzi non avevano mai visto Merlino Britannico prima di allora e che la sua immagine, indistinguibile e minacciosa sotto quelle lunghe vesti nere e quel pesante cappuccio, avrebbe intimorito anche me. Una volta raggiunti i ragazzi, li presentai entrambi per nome e loro si inchinarono piegando il busto in avanti come gli era stato insegnato e salutarono con deferenza il maestro Merlino, anche se avevano tutti e due gli occhi sgranati e il volto pallido per la paura. Merlino rispose con un semplice cenno del capo, per poi ignorarli; quindi mi chiese di portare i suoi omaggi alla regina e mi lasciò solo con Rufus e Mordred. "Bene, ora che avete conosciuto Merlino avrete qualcosa da raccontare." Il mio tentativo di essere spiritoso non ebbe molto successo, perché i ragazzi pensarono che stessi dicendo sul serio. Scrollai il capo e li congedai con un cenno della mano. "Sellate i cavalli, andiamo a fare un giro. Io sellerò il mio. Voi due pensate ai vostri e fate alla svelta. Ho un appuntamento con la regina Ginevra e non ho alcuna intenzione di fare aspettare la signora per colpa della vostra pigrizia. Muovetevi!" III Villa Britannico era cambiata parecchio dall'ultima volta che vi ero stato e sapevo che non era la prima volta nell'arco della sua lunga storia. L'ultima volta che avevo visto quel posto era stato attaccato da una banda di sventurati e incapaci predoni e, in quello scontro, per salvare la vita ad Artù avevo quasi perso la mia. Ormai i segni di quell'attacco erano spariti del tutto. Gli edifici minori che erano andati in fiamme erano stati tutti ricostruiti o rimpiazzati e i campi intorno alla villa, che all'epoca erano destinati alla coltivazione di ortaggi, avevano lasciato di nuovo il posto a prati fioriti, cespugli e distese di terreno erboso delimitate da vialetti fiancheggiati da siepi. Le guardie in servizio all'entrata principale scattarono sull'attenti e ci diedero il chi va là mentre ci avvicinavamo, fissandoci con un misto di indifferenza e circospezione. Nessuna delle due batté ciglio nel sentire il mio nome, e fui davvero sollevato quando il loro capo squadra uscì dalla casa e mi riconobbe, perché cominciavo a credere che avrei dovuto faticare un bel po'"per essere identificato e ammesso all'interno della villa. Invece mi lasciarono passare e il capo squadra mi condusse nelle stanze della regina, quelle che un tempo, mi aveva detto Artù una volta con orgoglio, erano appartenute ai suoi nonni paterni, Luceia Britannico e Publio Varro. Devo ammettere che mentre mi dirigevo verso le stanze reali ero curioso. L'ultima volta che avevo incontrato Ginevra, lei aveva dodici anni e l'impressione generale rimastami era quella di una ragazzina non ancora formata, ma flessuosa e leggiadra. Mi aveva fatto pensare a un cerbiatto o a un puledro di razza, tutto occhi e gambe, con l'aria goffa, ma destinato a trasformarsi in una creatura di straordinaria bellezza ed eleganza. La guardia fuori dalla sua porta mi diede di nuovo il chi va là, stavolta in tono pacato, quindi aprì i battenti con fare rispettoso e annunciò il mio arrivo. Quando entrai, la regina stava scrivendo seduta a un tavolo di fronte al focolare, ma si alzò subito e mi guardò. L'impatto con i suoi grandi e vivaci occhi azzurri fu devastante per me, nonostante la distanza che ci separava. Erano proprio della stessa sfumatura di ceruleo del cosiddetto "Azzurro della Regina". Una folta frangia di capelli neri le copriva la fronte, le trecce grosse e lunghe erano nascoste da un velo bianco che portava sulla testa come uno scialle. Gli zigomi erano magnifici, alti e pronunciati, e anche se il velo le copriva il collo lungo e sottile non aveva importanza perché adesso mi ricordavo del suo contegno regale ed elegante. La sposa di Artù, per farla breve, era la creatura più bella che avessi mai visto e sembrava del tutto inconsapevole della sua bellezza o dell'effetto che questa aveva sugli uomini. Prima che potessi raccogliere i miei pensieri e provare ad aprire bocca per salutarla, Ginevra mi stava già venendo incontro con passo svelto e agile, il volto illuminato da un sorriso smagliante. L'avevo vista sorridere solo due volte da ragazzina e mai per merito mio, così avevo sempre pensato che fosse una di quelle persone serie e prive di senso dell'umorismo che non si divertono mai. Adesso, con quella raggiante aria da donna matura mi accoglieva di nuovo nella sua vita. "Seur Clothar di Benwick. Lance, come vi chiama il re" esordì, con lo sguardo colmo di gioia. "Finalmente siete qui. No, non inginocchiatevi, Seur Clothar," disse e mi fece cenno con entrambe le mani di fermarmi "non qui e non davanti a me. Non ve lo permetterò. Vi ho sempre conosciuto come Clothar, fin dal nostro primo incontro al santuario di sant'Albano, e da allora in poi ho sempre pensato a voi come al mio hastatus, il mio lanciere, a volte chiedendomi che fine aveste fatto. Ma il nome che vi ha dato Artù è perfetto. Lance. Vorrei chiamarvi anch'io così se la cosa non vi dispiace." Mi strinse le mani fra le sue, chinò il capo all'indietro e mi guardò con gli occhi socchiusi. "Siete cambiato, cresciuto... vi siete fatto più grande, ma non più vecchio, per intenderci. Più aggraziato, più... abile. Mio marito vi elogia più di chiunque altro." "E come sta lui, mia signora?" domandai, prima che quelle parole lusinghiere mi facessero arrossire. "Migliora di giorno in giorno. Vi condurrò presto da lui. Ma prima vorrei dirvi alcune cose... cose che non voglio far sentire a nessun altro, nemmeno ad Artù." Il mio stupore doveva essere evidente, perché la regina strinse di nuovo gli occhi e il suo sguardo si fece più penetrante. Sapevo di avere il volto in fiamme ma, dato che me ne stavo lì impalato senza dire una parola, Lady Ginevra mi sorrise di nuovo e continuò in tono più soave, con una voce che mi sorprese per la sua profondità e il suo calore, poiché proveniva da una donna molto giovane che non aveva ancora raggiunto la soglia dei vent'anni. "Non dovete avere paura di parlare apertamente con me, amico mio. Quando ci siamo conosciuti, al santuario di sant'Albano, voi eravate l'unica persona che mi parlava... l'unica ad accorgersi di me e a rivolgermi un gesto gentile o un complimento quando ne avevo disperatamente bisogno. Vi comportavate da amico, senza sperare di ottenere qualcosa in cambio. Perché adesso dovreste avere soggezione di me? Per il semplice fatto che sono una regina? Dopotutto il re è un vostro caro amico e lo sarò anch'io, se me lo concederete." A quelle parole la mia timidezza e il mio imbarazzo svanirono, ritrovai la voce e da quel momento non ci fu mai più un attimo di tensione tra me e Ginevra. La ringraziai per la sua accoglienza e, quando si voltò per condurmi nella stanza tenendomi ancora per mano, fui sorpreso che ci fossero altre persone lì a osservarci. Erano tutte donne - le dame della regina - e Ginevra me le presentò una per una. Le salutai una alla volta, sorridendo ora senza sforzo, e dopo che l'ultima ebbe pronunciato il suo nome e risposto al mio inchino la regina le mandò tutte a lavorare dalla parte opposta della stanza, dove non avrebbero potuto sentire quello che noi due avevamo da dirci. Quindi mi accompagnò a una sedia che si trovava vicino al fuoco e prese posto di fronte a me. "Gradite del vino, Seur Clothar?" Quando rifiutai con un educato cenno del capo, la regina sorrise e si sistemò la gonna. "Noi due abbiamo molte cose di cui parlare. Da dove volete cominciare?" "Da vostro marito, mia signora. Come se la passa veramente?" "Migliora ogni giorno, come vi ho detto... ora posso dormire sonni tranquilli, perché so che non morirà durante la mia assenza. Tuttavia, per altri aspetti, sono meno ottimista. Lui è la lealtà fatta persona, lo sapete." "Sì, lady, è vero." "Lo è fin troppo, so quello che dico. Sono figlia di mio padre, dopotutto, e ho imparato molto da lui, non perché mi abbia insegnato qualcosa, sia ben chiaro, ma perché l'ho osservato. Artù si fida di mio padre come alleato. È per questo, e solo per questo, che accuso mio marito di essere sciocco. Non vuole assolutamente che si parli male di mio padre e, finché non avrà la prova inconfutabile del contrario, continuerà a trattarlo come un suo alleato e un suo pari. Ma mio padre vuole venderlo a Connlyn." Quelle parole furono come una secchiata d'acqua gelata: mi tolsero il fiato, malgrado fossi già al corrente dei sospetti di Merlino. Eppure confesso che sulle prime la velocità con cui Ginevra aveva denunciato Simmaco mi lasciò imbarazzato e incredulo. Come poteva un figlio condannare il proprio padre con tanta freddezza?, mi chiesi. Ma poi ricordai di chi si stava parlando e delle condizioni che regolavano l'unione di Artù e Ginevra. Simmaco aveva grandi piani per il nipote che, secondo i suoi calcoli, Artù e Ginevra avrebbero generato. Ciononostante, mi sentii in dovere di spendere almeno una parola in suo favore, così feci qualche stupido commento sul fatto che forse il giudizio della regina era un po'"troppo severo. La sua fronte si corrugò in modo netto e la luce nei suoi occhi crebbe fino a diventare una fiamma incandescente. "Severo?" ripeté. "Non vi rammentate di mio padre ai tempi del santuario? A quanto ricordo io, non ha fatto granché per attirarsi la vostra simpatia e la vostra comprensione." Si interruppe, inclinò la testa da un lato e mi guardò negli occhi con aria solenne. "So che Artù vi ha confidato del nostro patto per ostacolare il sogno di mio padre di impossessarsi del titolo di riotamo. Ne siete al corrente, non è vero?" Annuii, e lei continuò. "Bè, ormai sono due anni che non svolgo i miei doveri di moglie, e di madre, e mio padre comincia a sospettare che io sia sterile... che sia incapace di procreare. Ai suoi occhi questo rappresenterebbe un tradimento da parte mia, che lo autorizzerebbe a cercare un risarcimento per quello che lui considera un mio difetto. E così ha deciso di stringere un'alleanza segreta con Connlyn." "Avete le prove, mia signora?" "No, ma conosco molto bene mio padre. Sceglie sempre la strada più vantaggiosa per sé. Sono fermamente convinta che mio padre sia in grado di tradire in nome della politica e del profitto personale, perché per tutta la vita ne ho avuto la dimostrazione e non mi servono prove per saperlo." Fece una pausa e mi fissò con le labbra increspate. "Anche Merlino lo sa, ma lui ha bisogno di prove. Ve ne ha parlato?" "Sì, ma solo di tradimento in generale. Non ha mai nominato vostro padre." "No, non lo farebbe mai." Esitò, mentre scrutava il mio volto. "Avete una domanda da farmi. Di che si tratta?" Alzai le spalle. "Non è una domanda, mia signora, non proprio. È più un'osservazione... Quale vantaggio potrebbe trarre vostro padre da un'alleanza con Connlyn? Quell'uomo si è rivelato un seccatore, più tenace di molti altri della sua razza, ma è pur sempre un novizio del Nord. Le sue armate non sconfiggeranno mai Camelot." "No, forse no, ma potrebbero succhiarle il sangue, prosciugare le sue risorse costringendo Artù a combattere una lunga ed estenuante guerra lontano da casa e, quando mio padre riterrà che i tempi siano maturi, potrà attaccare con le sue truppe approfittando della distrazione di Artù." Alzò un dito. "Non fate quella faccia così sconvolta, caro Lance. Ho visto fare cose di gran lunga peggiori dal mio adorato padre. Voi potete chiamarlo tradimento, ma per lui è sopravvivenza. Ma ora c'è un elemento imprevisto, non è così? Mordred cambia tutto... Simmaco non sospetta nemmeno che esista e potete stare certo che Connlyn non glielo dirà mai, perché lui e mio padre hanno lo stesso progetto in mente: regnare come sommo re dopo la morte di Artù. Mentre Connlyn si vede come reggente di Mordred, mio padre sogna di diventare reggente del figlio che non ho ancora generato... e che non ho ancora concepito! Connlyn non sa che Mordred si trova qui a Camelot o che è stato in Gallia con voi, ma se Artù lo riconosce come proprio figlio renderà inoffensivi Connlyn e mio padre in un colpo solo." "E riconoscerà il ragazzo?" Ginevra scosse il capo. "Non ne ho idea. Non sa ancora della sua esistenza e sono stata io a insistere su questo. Quando ci è giunta la notizia, Artù si trovava di nuovo al Nord e dopo che è stato ferito ho ritenuto che non dovesse preoccuparsi di niente, solo di restare in vita, così ho proibito a Merlino di rivelargli qualsiasi cosa. Non so come reagirà quando lo scoprirà, posso solo immaginarlo. Perché sorridete?" "Avete detto di aver proibito a Merlino di rivelargli qualsiasi cosa. Trovo che sia notevole... e divertente. Sono davvero poche le persone che oserebbero proibire qualcosa a Merlino." Mi sorrise in modo fugace, con quell'aria furbesca da ragazzina, rivelando una bocca larga con una fila di denti scintillanti. "Ah, posso farlo perché sono tutti uomini. Merlino è dolce e mansueto come un agnellino se lo si prende nel modo giusto." La sua espressione si fece di nuovo seria. "Ma dico la verità, non so proprio come reagirà Artù scoprendo di avere un figlio. Date le sue condizioni questa notizia e i pensieri che la cosa potrebbe scatenare nella sua mente rischierebbero di causargli gravi danni, persino di ucciderlo. Non voglio correre questo rischio e pertanto devo proibire anche a voi di parlare ad Artù del ragazzo. Lo capite?" Restai in silenzio per un istante, poi annuii. "Certo, mia signora, ma quanto durerà questo silenzio?" "Una settimana, o forse di più. Non sono in grado di dirlo adesso e nemmeno i dottori. Ma Artù diventa ogni giorno più forte e ieri per la prima volta da quando è stato ferito ha mangiato del cibo solido. Dicono sia un buon segno, che è in via di guarigione. I medici sostengono che da ora in poi vedrò progressi miracolosi. Comunque vi prometto che non appena si sarà rimesso abbastanza da sopportare lo shock vi accompagnerò io stessa da lui per dargli la notizia." "E voi come vi ponete nei confronti del ragazzo, mia signora? Desiderate incontrarlo?" "Certo che desidero incontrarlo, non appena sarà possibile. E vi farà piacere sapere che sono ben disposta nei suoi confronti perché, stando a quello che dice Merlino, a voi il ragazzo piace e lo ammirate molto." "È vero. Trovo che sia squisito. È un ragazzo forte, onesto e sincero, e non ha affatto l'indole del macchinatore. È proprio il genere di ragazzo che un giorno vorrei come figlio. Ringrazio la sua famiglia per questo... la famiglia di sua madre, intendo. Ho incontrato diversi suoi zii mentre ero in visita dalla regina Morgas e li ho trovati tutti molto piacevoli. Hanno insegnato dei valori importantissimi a Mordred." "Buono a sapersi." La regina accennò un sorriso mentre parlava con aria quasi meditabonda. "Naturalmente, la sua indole e la sua affabilità possono dipendere più dai genitori, dato che suo padre è chi sappiamo noi. E sono certa che la madre avesse delle qualità notevoli, a giudicare dall'effetto che ha avuto su mio marito." "Artù deve per forza conoscere tutta la verità?" Non avrei mai pensato di farle quella domanda, ma le parole mi uscirono di bocca prima che potessi trattenermi. Ginevra mi guardò con gli occhi sgranati. "Per forza...? Come potrebbe essere altrimenti? Che cosa volete dire?" "Non lo so," replicai, mostrando io stesso una certa perplessità "ma sono mesi ormai che ci penso e a quanto pare per le persone che sono al corrente di questi fatti non c'è assolutamente niente di male nell'accaduto... niente di riprovevole o di peccaminoso, anche se l'incesto è il peccato più grave che si possa immaginare." La regina mi fece subito segno di tacere e si guardò nervosamente intorno, temendo che qualcuna delle sue donne potesse aver sentito. "State attento, Clothar. Quella non è una parola da pronunciare ad alta voce, soprattutto in un ambiente come questo. Tuttavia, concordo con voi. Credo che nessuno abbia delle colpe in questa vicenda, si tratta piuttosto di tragica ignoranza." "A quanto ne so," ripresi "voi e Merlino siete le uniche persone in Britannia a conoscere questi fatti... a parte me e Mordred, ovviamente." Mi schiarii la voce, quindi le dissi cosa avevo in mente. "Forse non c'è bisogno di dire proprio tutto ad Artù in questo momento. Voglio dire, non subito, non ora che è malato e non è in grado di affrontare la situazione. Ma potremmo dirgli quasi tutto. Gli faremo conoscere Mordred e quando saprà che è figlio di Morag, se gli daremo la notizia nel modo giusto, sarà felicissimo e avrà un buon motivo per accogliere il ragazzo e onorare la memoria della madre..." Mi interruppi, poiché a un tratto mi resi conto che quanto avevo appena detto poteva essere frainteso da una giovane che non sapeva ancora di preciso quale ruolo avesse fra gli affetti del marito. Ginevra, tuttavia, era una donna molto intuitiva. "Ah! La memoria della madre" ripeté. "Pensate che la cosa mi abbia irritato. Bè, non è così, Lance. Il re e io abbiamo parlato a lungo di come lui ha perso Morag e di come il nostro rapporto, nato in circostanze del tutto infauste, sia di tutt'altra natura." Annuii e sorrisi con enorme sollievo all'idea di non averla infastidita, e la sua reazione accrebbe la stima che avevo nei suoi confronti, ma tacqui per un istante, poiché sapevo che qualsiasi cosa avessi aggiunto sarebbe stata superflua. Anche Ginevra rimase in silenzio, la fronte corrugata per la concentrazione, ma alla fine scosse il capo. "No, Lance, questo è un rischio che non voglio correre. Le probabilità che accada un disastro sono troppo alte. E poi il ragazzo conosce la verità e ha solo... quanti anni ha adesso? Undici o dodici? Potrebbe tradirsi in ogni momento e il segreto verrebbe svelato con conseguenze di gran lunga più nefaste di quelle che si avrebbero se dicessimo ad Artù tutta la verità fin dall'inizio." Mi resi subito conto che aveva ragione. Il ragazzo conosceva la verità e non ci vedeva nulla di vergognoso, perciò sapevo che se avessimo presentato le cose in un altro modo sarebbe stato lui che ne avrebbe sofferto di più, se non altro per la confusione che si sarebbe creata nella sua mente. Annuii con la pena nel cuore e restammo di nuovo zitti per un po', finché non mi tornò in mente la questione di Simmaco. Certo, era un tipo pericoloso, ma quando la figlia poco prima aveva parlato di lui mi era sembrato che sapesse come gestire la situazione. Così tornai sull'argomento. "Vostro padre, mia signora. Ammesso che ciò che dite sia vero e visto che nessuno qui è pronto ad agire sulla base di un sospetto, senza avere le prove di una vera e propria azione illecita, credo che in questo momento lui si senta libero di fare quello che vuole. Avete idea di come potremmo mettere fine a tutto ciò?" "Ho un'idea... Se avessi un abile lanciere al mio servizio, egli potrebbe risolvere la questione a vantaggio di tutti con un semplice lancio di giavellotto." Quell'ipotesi era così realistica che rimasi senza fiato, ma ribattei prontamente: "Sì, potrebbe farlo, ma in assenza di una prova concreta che dimostri in modo inconfutabile la slealtà di Simmaco, quell'uomo potrebbe essere accusato di un assassinio ingiusto". La risposta della regina fu secca e pungente. "Mio marito, il vostro re, si trova in un letto non lontano da qui ed è stato quasi sul punto di morire. E tutto per colpa di un traditore." "Perdonatemi, mia signora, ma mi è stato riferito che lo scontro con il nemico era stato accidentale. Nessuna delle due parti sapeva che l'altra si trovava lì, finché non si sono incontrate." "Sì, ma se non fosse stato per uno sporco e imperdonabile traditore non si sarebbero mai incontrate. Connlyn e la sua marmaglia dovevano essere annientati un anno fa... o perlomeno sei mesi fa. Non è stato così perché Artù non è mai riuscito a metterlo con le spalle al muro. Ogni volta che ci avvicinavamo a lui, Connlyn spariva nel nulla, evitando le nostre armate; alla fine Artù e Ghilly ci erano talmente abituati che passavano un mucchio di tempo a fare i loro piani in segreto e li mettevano in pratica con molta cautela, muovendosi di soppiatto e usando gli stratagemmi più astuti. Eppure Connlyn riusciva sempre a sfuggire senza difficoltà. A quel punto era impossibile non pensare che ricevesse informazioni dettagliate da una persona fidata e vicina ad Artù. Era chiaro come il sole, e altrettanto evidente era anche che chiunque stesse procurando le informazioni a Connlyn ricopriva una carica alta, perché i subalterni venivano messi al corrente dei dettagli solo al momento di entrare in azione. Ho riflettuto e ho tirato le mie conclusioni in base ai fatti che conoscevo. C'erano solo nove o dieci persone che potevano avere accesso a quelle informazioni così delicate. Una di queste era Artù, un'altra Merlino, poi c'erano Ghilleadh - non riesco ancora a credere che se ne sia andato, che riposi in pace - Bedwyr, Gareth e Gwin e infine i tre re che Artù reputava i suoi più grandi alleati: Pelinore, Rience della Cambria settentrionale e Simmaco di Chester. Fra tutti costoro, mio padre spicca come una pustola infetta." "Capisco. Allora ditemi, come mai non siete riuscita a convincere il re di questo?" "Per colpa della sua nobiltà. Simmaco, mi ha subito fatto notare Artù, non era quasi mai presente quando venivano preparati i piani. Pertanto, se anche avesse voluto tradirlo, non avrebbe avuto modo di farlo. Ho tentato invano di spiegargli che mio padre assolda un'infinità di ignobili individui specializzati nell'ingraziarsi altre persone più affidabili a cui spillare facilmente tutte le informazioni che possiedono. Artù si è semplicemente rifiutato di credere che stesse accadendo una cosa del genere. Per questo ho detto che è stato sciocco in quest'unica, ma cruciale occasione." "Dunque mi chiedete di uccidere vostro padre, mia signora?" Drizzò la schiena quasi allarmata. Aveva un'espressione attonita, forse perché per la prima volta si era resa conto di cosa aveva proposto. Vidi i suoi occhi spalancarsi e poi riempirsi di lacrime che le rigarono le guance. Scosse il capo con delicatezza. "No" sussurrò. "Non è questo che voglio. Risolverebbe molti problemi, ma non posso chiedere né a voi né a nessun altro di fare una cosa del genere." Mentre osservavo il suo viso bagnato di lacrime, capii che sarei andato ad ammazzare suo padre senza pensarci due volte se solo mi avesse risposto diversamente. E solo allora mi accorsi che la deferenza, la fedeltà, la devozione e l'affetto che fino a quel momento avevo riservato ad Artù ormai erano rivolti in eguale misura a lei, la sua consorte e mia regina. Tirai un respiro profondo. "Credo di conoscere un modo per scovare questa banda di furfanti e ottenere la prova che dimostri qual è il ruolo di vostro padre nella faccenda." Ginevra scacciò le lacrime con un battito di ciglia. "Credo che Mordred sia la soluzione a tutto questo... Mordred, i suoi zii, la mia guardia d'onore franca e il nostro caro amico Connor Mac Athol, che ci ha portati qui a bordo della sua galea e che si trova ancora a Glevum, in attesa di ricevere notizie sulle condizioni del re. Se riesco a tornare a nord del Vallo fino a Gallowa e a ottenere rinforzi da re Tod per i miei soldati franchi, credo di potermi avvicinare a Connlyn abbastanza da riuscire a catturarlo o a ucciderlo." Adesso la regina mi guardava con la fronte aggrottata. "Non lo troverete mai. Non avete sentito quello che ho detto? Ha spie ovunque. Mio padre potrebbe essere la più importante e la più infame di tutte, ma sono un esercito e gli riferiscono qualsiasi cosa succeda per le strade della Britannia. Connlyn è inafferrabile, evanescente. È uno spettro, un fantasma. E anche quando compare da qualche parte, raramente si tratta di lui in persona. Usa degli uomini che gli somigliano per confondere il nemico." "Potrà anche riuscirci con la maggior parte dei suoi nemici, ma non con me. Conosco quell'uomo. Ho passato un po'"di tempo con lui prima che mancasse alla parola che ci aveva dato. Lo riconoscerò, quando lo vedrò. Quanto alle spie, che spiino pure quanto vogliono. Non useremo le strade. Navigheremo verso nord fino a Gallowa senza farci avvistare dalla terraferma. Le spie di Connlyn avranno tutte gli occhi e gli orecchi puntati verso sud e chi origlierà le nostre conversazioni non capirà una parola di quello che diranno i miei Franchi, perché nessuno parla la loro lingua e quando comunicherò i miei piani ad alta voce lo farò in lingua franca. Soltanto voi e Merlino saprete di che si tratta. Mi recherò a Gallowa e porterò il ragazzo a fare visita alla famiglia, dopodiché manderò a riferire a Connlyn, tramite Morgas, che Mordred si trova lì e vuole conoscerlo. Con l'appoggio e la protezione di Tod di Gallowa e della mia guardia d'onore, ci dirigeremo a sud attraversando il Vallo per andare da Connlyn e quando lo incontreremo mi occuperò io di lui. Se sarò abbastanza fortunato da prenderlo vivo, lo costringerò a rivelare quali sono le sue fonti. Se vostro padre lo ha aiutato, scoprirò come e quando. E a quel punto Artù avrà le sue prove." "Potete farlo davvero? Non metterete in pericolo il ragazzo? E se vi trovaste in condizione di non poter vincere, malgrado i vostri sforzi? Così avreste consegnato Mordred direttamente nelle mani di Connlyn." "È vero, ma non sono così stupido. Connlyn non ha mai visto il giovane Mordred, perciò non sarebbe in grado di distinguerlo dal mio scudiero Rufus. Lascerò Mordred al sicuro dalla nonna, che sarà felice di rivederlo, e porterò Rufus all'incontro con Connlyn. In questo modo, se qualcosa dovesse andare storto, Mordred sarebbe salvo. Il ragazzo sarebbe ugualmente al sicuro se restasse qui a Camelot, certo, ma credo che i suoi congiunti preferirebbero vederlo vivo e vegeto e sentire da lui che lo trattiamo bene, anziché fidarsi della mia parola." "E credete che questo re di Gallowa vi aiuterà?" "Re Tod? Sì, credo di sì, soprattutto se penserà di aiutare suo nipote a ottenere rispetto e prestigio a sud del Vallo. Sarebbe un vantaggio enorme per noi se Artù riconoscesse Mordred prima della nostra partenza per il Nord." "Capisco, ma quando pensate di partire?" Mi guardava con attenzione, una minuscola ruga le si era formata fra le sopracciglia. Scrollai le spalle. "Il più presto possibile. Forse dopodomani, anche se domani sarebbe meglio." "Così presto?" "Prima è, meglio è, mia signora. Pare che abbiate qualche problema con la discrezione oggigiorno a Camelot, perciò prima partirò e prima saprò che i miei piani sono al sicuro. Inoltre la flotta di Connor non rimarrà più di cinque giorni a Glevum e ne è già passato uno." "Merlino sa che intendete partire così alla svelta?" "No, mia signora. Non lo sapevo neanche io prima di dirlo a voi. Ma mi sembra la cosa giusta da fare." "Mmm." Dal tono Ginevra sembrava distante, era evidente che i suoi pensieri correvano all'impazzata mentre lei fissava un punto lontano oltre la mia spalla. "Dubito che ci sarà il tempo di dire ad Artù del ragazzo e di lasciare che lui lo riceva e lo riconosca come erede di Camelot o addirittura come successivo riotamo." Alzò una mano in modo perentorio, anche se io non avevo tentato affatto di interromperla. "Devo farlo io... da sola. Se saprà la notizia da me anziché da Merlino l'accetterà più facilmente. Con voi due protesterebbe. Con me sarà più propenso ad ascoltare e a riflettere." Tamburellò con le dita sul bracciolo della sedia, le labbra increspate e lo sguardo pensieroso. Alla fine fece di sì con la testa. "Sa che siete qui ed è impaziente di vedervi, ma credo che dovreste rimandare il vostro incontro a domani mattina. Lasciatelo a me stasera. Conosco mio marito e so che vorrà rimanere da solo per pensare, dopo che lo avrò informato. Preferisce sempre stare da solo quando deve digerire una cattiva notizia o incassare una sconfitta, è fatto così. Passerà la notte a riflettere su quello che gli dirò e probabilmente vi manderà a chiamare domani mattina presto. Nel frattempo questa sera potreste preparare i vostri uomini per la partenza." "E cosa intendete dire di preciso al re, mia signora?" "Esattamente quello che mi avete detto voi su Mordred, sulla sua storia, sui suoi genitori e sul progetto di Connlyn di sfruttarlo. Poi gli dirò che avete intenzione di veleggiare verso nord fino a Gallowa e di usare la presenza di Mordred come esca per attirare Connlyn." "Capisco." Ero davvero colpito dalla rapidità con cui quella ragazza afferrava i concetti. Molti dei miei ufficiali non sarebbero stati altrettanto acuti. "Allora posso chiedervi come reagirà secondo voi a tali parole?" Mi rivolse un sorriso fugace. "Potete chiederlo, Seur Clothar, e io vi dirò quello che penso, ma potrei sbagliarmi di grosso. Tuttavia secondo me il re accoglierà di buon grado la vostra idea di avvicinarci da nord. Abbiamo un bisogno disperato di qualcosa che rovesci l'attuale corso degli eventi. Ora accompagnatemi dal ragazzo." "Non ce n'è bisogno, mia signora. È qui anche lui. L'ho portato con me, nel caso aveste deciso di incontrarlo, perciò se volete aspettarmi qui lo condurrò subito da voi." La regina si alzò, e io feci lo stesso, ma prima che lei potesse compiere un passo, alzai una mano e lei si fermò, inarcando un sopracciglio con aria interrogativa. "Perdonatemi," dissi "ma non dovremmo avvertire Merlino di quello che sta per accadere? Cioè che volete informare il re?" "Potete avvertirlo voi, se volete. Approverà la vostra decisione." Notò l'espressione dubbiosa nei miei occhi e aggiunse: "Siete mancato per due anni, Seur Clothar, e Merlino Britannico non è più... bè, non è più il guerriero che ha condotto il suo esercito contro la Cornovaglia. È un uomo vecchio ormai e, anche se la sua opinione è preziosa come sempre, il suo ruolo è meno attivo e più analitico. Artù è l'unico ad aver voce in capitolo e Merlino sarà d'accordo con qualsiasi sua decisione". Potei solo chinare il capo e accettare la sua risposta, quindi la lasciai in compagnia delle sue dame e mi recai a prendere il giovane Mordred Pendragon per farglielo conoscere. IV Artù mi mandò a chiamare quella sera tardi, proprio quando stavo per andare a letto, e il tizio che venne ad avvertirmi non era incline alla cordialità. Mi comunicò con un grugnito che il re voleva vedermi e mi guidò nel piccolo labirinto di corridoi che collegavano le stanze reali all'alloggio assegnatomi poco prima dal maggiordomo della regina. Al mio arrivo nella camera dell'ammalato, mi aspettavo di trovare Ginevra, ma di lei non c'era neanche l'ombra. Merlino invece era presente, con mia grande sorpresa, ma non ebbi il tempo di riflettere sul perché. Mi sforzai di non lasciar trapelare nessuno dei miei pensieri, quando mi ritrovai faccia a faccia con Artù, ora terribilmente diverso dall'amico che conoscevo e amavo. Fin dalla prima volta in cui lo avevo visto, avevo pensato che Artù Pendragon fosse un uomo massiccio, non semplicemente robusto. In una comunità di uomini già alti, forti e muscolosi egli era un vero fenomeno, più grande di chiunque altro, sotto ogni aspetto. Era più alto di tutti e le sue spalle erano larghe quasi il doppio delle mie; il torace era ampio e profondo, le gambe lunghe e piene di muscoli. Ma dall'ultima volta che lo avevo visto le cose erano cambiate parecchio. Adesso sembrava gracile in quel letto enorme, perché a causa del dolore e della malattia aveva perso peso in modo preoccupante e aveva il volto scavato e stanco, segnato da solchi profondi e pallido. Per fortuna, ben presto scoprii che la sua mente funzionava ancora alla perfezione. Non tentò di mascherare la sua gioia quando mi vide, mi sorrise e mi invitò ad avvicinarmi al letto. Trovai la cosa lusinghiera e incoraggiante allo stesso tempo e quando gli tesi la mano in risposta al suo invito lui la prese e la strinse forte. La sua voce era fioca, con un percepibile tremolio, ma Artù riuscì comunque a ridere e a scherzare sulle sue condizioni, osservando che fino a una settimana prima era incapace di muoversi senza l'aiuto di qualcuno e di parlare ad alta voce. Al momento trovavo anch'io difficile parlare, perché per l'emozione avevo un nodo in gola che minacciava di soffocarmi, ma mi sforzai di deglutire e la voce mi uscì molto più allegra e ferma di quanto pensassi. "Sono lieto di trovarvi così bene, mio signore, ma non c'era bisogno di arrivare a tanto per dimostrarmi che avevo torto." Vidi Artù sgranare gli occhi quando riconobbe l'ironia nella mia voce e capì che lo stavo prendendo in giro, ma con un sussurro mi domandò cosa diavolo andassi blaterando. Piegai le labbra all'ingiù e, dopo un'alzata di spalle, allargai le braccia lasciando i gomiti attaccati ai fianchi, per poi chinare il capo, consapevole che quel gesto tipicamente gallico lo avrebbe fatto sorridere. "Non vi ricordate?" gli chiesi, mentre lo guardavo con aria da allocco. "Ebbi con voi una discussione sull'invulnerabilità, un pomeriggio in cui eravate intrattabile e di pessimo umore. Io dissi che Excalibur e le circostanze in cui l'avevate ricevuta, durante la vostra incoronazione, vi conferivano un'aura di invulnerabilità; al che voi diventaste davvero odioso e affermaste di non essere affatto invulnerabile." Feci un passo indietro e allargai di nuovo le mani verso di lui per indicare il letto. "Avevate ragione voi, ovviamente, e io torto, ma lo avrei ammesso volentieri dopo un po'... non c'era bisogno di dimostrarmelo così." Mi fissò incredulo per alcuni istanti, poi cominciò a ridacchiare, mentre si lamentava e si contorceva tenendosi le costole a causa del dolore provocato dalle risate. "Vai al diavolo, stupido gallo," sibilò alla fine "nonostante mi sia pentito di non averti fatto giustiziare, è bello averti di nuovo qua. Aiutami a tirarmi su." Non appena lo aiutai a trovare una posizione comoda, Artù mi chiese della nostra impresa in Gallia e volle sapere per filo e per segno tutto quello che stavamo facendo laggiù; così lo aggiornai sulle ottime condizioni di Pelles, sui progressi del suo nuovo esercito e sul successo dei recenti giochi del re. Gli dissi anche che a mio avviso dovevamo cominciare a prepararci a riportare in patria i nostri soldati. Artù annuì e con gesto inequivocabile mi disse di accantonare per un attimo la questione e di passare ad altro; quindi mi ricordai che Merlino aveva accennato al fatto che il re aveva nuovi progetti per la Gallia. In quella circostanza mi era sembrato che Merlino non stesse parlando di Pelles o di Corbenico, ma quando lo guardai in cerca di un indizio qualsiasi vidi solo la sua sagoma scura e minacciosa e non riuscii a capire a cos'altro avesse potuto alludere. Parlai ancora ad Artù di Pelles e dei suoi nuovi soldati, descrivendogli la guardia d'onore che il re di Corbenico aveva mandato per scortarmi e per portare i suoi ringraziamenti e i suoi omaggi allo stimato amico Artù Pendragon, sommo re della Britannia Unita. Non so quanto tempo mi servì per esaurire le mie riserve di informazioni sulla Gallia, ma quando alla fine terminai il mio resoconto, Artù mi osservò per qualche istante, quindi indicò con una mano la sedia che si trovava accanto al letto. "Siediti. E pensa." Lanciai di nuovo uno sguardo a Merlino, poi obbedii e, dopo essermi seduto, mi sporsi in avanti. "A cosa, mio signore?" "Pensa al mio nome, tanto per cominciare, parlami come amico. Pensa alle risposte che darai alle mie domande... quelle che sto per farti." Non dissi nulla, ma mi chiesi cosa stesse accadendo. "Mia moglie dice che ho un figlio, Mordred, e che sua madre era la mia adorata Morag. Tu sai di Morag, Lance. Ti ho parlato di lei e di come l'ho persa più di dieci anni fa, quando ero solo un ragazzo. Ora vengo a sapere che all'epoca ero più uomo di quanto pensassi e che quando Morag lasciò il nostro forte, lassù sulle montagne del Nord, portava già in grembo mio figlio. Come puoi immaginare, questa storia mi ha colto del tutto impreparato, perché non ho mai sospettato niente del genere." Chiuse gli occhi, tirò un respiro profondo e li riaprì. "Da allora non penso ad altro. E ho alcune domande, per questo ho mandato a chiamare voi due." Guardai ancora una volta in direzione di Merlino, la cui sagoma spiccava in controluce con dietro le fiamme del focolare alle sue spalle, ma lui non ricambiò il mio sguardo. "Quali sono queste domande?" Non avrei voluto chiederglielo, ma davanti al silenzio di Merlino non avevo altra scelta. "Bè, credo che Ginevra sia contenta per me. Ma per qualche motivo, sento che io dovrei essere più contento di quanto sono." Esitò e mi resi conto che stava scegliendo le parole con cura. "Sei andato su al Nord, Lance, dopo essere stato chiamato dalla regina Morgas di Gallowa, la madre di Morag, che è anche la sorella di Connlyn. Una volta arrivato, hai scoperto perché ti aveva chiesto di andare da lei: perché ho un figlio e Connlyn, lo zio del ragazzo, vuole usarlo per indebolire me e avanzare delle pretese su Camelot. Così hai portato il ragazzo con te in Gallia. E qui sta il problema, Lance. Questo è accaduto quasi un anno fa. Ora io mi chiedo, perché non mi hai detto dell'esistenza del ragazzo? A quanto pare hai raccontato tutto a Merlino in una lettera ricca di particolari. Non è così, Merlino? Hai mai ricevuto una lettera del genere da Clothar?" "Sì, l'ho ricevuta." Quelle parole arrivarono come un'eco da sotto il cappuccio. "Allora dimmi, di grazia, cosa ti ha impedito di mandare il ragazzo qui su una delle navi di Connor di ritorno dalla Gallia? Sarebbe potuto venire direttamente a nome tuo, Clothar, e tu avresti potuto spiegarmi chi era. Perché questo non è successo? E perché questa regina Morgas non ha tentato prima di informare qualcuno dell'esistenza del ragazzo?" "Lei..." Artù mi scoccò un'occhiata. "Lei cosa?" Imprecai a fior di labbra contro la mia impulsività. "Lei non ne era a conoscenza." Questo ovviamente non era vero, perché Morgas sapeva che Artù era coinvolto fin da quando aveva scoperto la gravidanza della figlia e la tremenda verità che si celava dietro di essa. L'unica cosa che non sapeva era che nel frattempo Artù Pendragon era diventato sommo re della Britannia. Quella fu in assoluto l'unica volta che mentii ad Artù, ma lo feci per disperazione, perché a quel punto non potevo dirgli la verità senza parlare in modo esplicito e brutale dell'incesto che c'era sotto. "Dovete tener presente," continuai "che è una donna anziana e vive nelle aspre terre al di là del Vallo, che non ha contatti con la Britannia e non aveva idea di quello che stava accadendo qui prima che il fratello la invitasse a fargli visita. Vi ricorderete che la regina Morgas era diretta proprio dal fratello quando l'ho salvata. Bè, durante quella visita, Connlyn le disse quello che aveva scoperto a proposito dei genitori del ragazzo e, a quanto pare, sapeva molte più cose di lei. È una storia lunga, ma Connlyn l'aveva saputa quasi per caso anni prima, dopo che Morag era tornata a casa e aveva avuto il bambino. La sorella maggiore di Connlyn, anche lei di nome Morag, gli aveva raccontato tutto all'epoca e lui aveva conservato con cura quelle informazioni anche se non avevano molto senso per lui, perché è il genere di uomo che non dimentica e non tralascia mai una cosa che può tornargli utile in futuro. Finché anni dopo non sentì pronunciare di nuovo il vostro nome, e apprese che eravate diventato riotamo. A quel punto per Connlyn divenne molto importante il fatto che avevate un figlio e che questo aveva un legame di sangue anche con lui. È stato allora che le sue ambizioni sono cresciute e lo hanno sopraffatto. Quando Morgas si recò a fargli visita, dopo che noi l'avevamo salvata, Connlyn le disse di mandare il ragazzo da lui, pensando che sarebbe stata contenta di sapere che un giorno il nipote sarebbe potuto diventare re della Britannia. Ma si sbagliava. Aveva fatto male i calcoli e la regina si rivolse a me. Non aveva mai avuto molta simpatia e fiducia nei confronti del fratello e temeva per il benessere del nipote, così decise di scrivere a me perché ero l'unica persona di Camelot che conosceva." "Lo capisco. Ma non capisco perché ci hai messo tanto tempo a riferirmi quello che ti ha detto." Stavolta non potevo proprio evitare di rispondere, così annuii mentre mi contorcevo per l'imbarazzo. "Avrei potuto portare qui Mordred quando sono tornato in Gallia da Gallowa, ma Connor me lo ha sconsigliato. Mi ha fatto notare che non potevo essere affatto sicuro di trovarvi a Camelot al mio arrivo... e aveva ragione, perché all'epoca stavate combattendo al Nord, come venni a sapere in seguito. Mi ha anche spiegato che se voi non eravate in sede, io sarei dovuto tornare in Gallia lasciando il ragazzo qui, in mezzo a persone estranee e solo come un rospo in uno stagno. Non mi sembrava una cosa molto saggia da fare... presentare il ragazzo a tutti, e in particolar modo alla regina, come il figlio che non sapevate di avere e poi abbandonarlo a se stesso, per di più senza che voi sapeste nulla della sua esistenza... così l'ho tenuto con me, in attesa di un'occasione più favorevole." "Questo non ha senso, Lance. È passato un anno. Devo forse pensare che in un anno non ci sia stata mai un'occasione più favorevole?" Prima che potessi rispondere, Merlino si avvicinò e si appollaiò con cautela sul bordo del letto, prestando attenzione a non urtare il re. "Diglielo, Clothar" intervenne, la voce profonda e altisonante. "Puoi farlo meglio di me." E così parlai al re della tragica disavventura che aveva inconsapevolmente avuto con la sorella, senza tralasciare alcun dettaglio riguardo alle complesse situazioni che erano alla base di quel rapporto, e feci del mio meglio per sottolineare che nessuna delle persone coinvolte era a conoscenza della verità. Mi accorsi che Artù si era terribilmente irrigidito mentre parlavo. Sembrava che la sua testa stesse sprofondando sempre di più nel cuscino, come se fosse diventata all'improvviso troppo pesante per il collo. Il movimento del suo torace si fece impercettibile e il volto acquisì a poco a poco la rigidezza e l'inespressività di una maschera, che non vennero turbate neanche da un battito di ciglia. Nel frattempo, sapendo che Merlino era lì accanto, sentivo che l'impazienza e la frustrazione minacciavano di avere la meglio su di me, perché sebbene fosse fisicamente presente il maestro non mi stava affatto aiutando. Ciononostante continuai a parlare e ripetei pedissequamente tutta la triste storia; quando alla fine tacqui, Artù era ancora immobile e sembrava non curarsi di noi. Il silenzio divenne sempre più lungo e profondo, e io persi la cognizione del tempo, finché Merlino non allungò una mano e mi toccò il ginocchio per farmi capire che dovevo andare dalla regina e lasciarlo solo con Artù. Mi alzai in modo ubbidiente e feci per andarmene, del tutto convinto che il re se ne sarebbe accorto e mi avrebbe trattenuto, ma questi non fece nulla, e quando richiusi alle mie spalle la pesante porta a due battenti della camera reale, mi sentii molto amareggiato. La regina si era già ritirata per la notte, mi dissero, così mi domandai se anziché aspettare invano una nuova chiamata di Artù, non fosse più saggio cercare di dormire un po'"finché ne avevo l'opportunità, anche se quella notte dubitavo fortemente che sarei riuscito a chiudere occhio. Alla fine decisi di andare a letto e, con mia grande sorpresa, poco prima dell'alba mi resi conto di aver dormito sodo; non riuscivo neanche a ricordare di essermi coricato. Dovevo aver preso sonno all'istante, malgrado tutte le mie preoccupazioni, e quando mi svegliai mi sentivo riposato e pronto ad affrontare il nuovo giorno. Feci il bagno nelle splendide terme della villa e nelle cucine rimediai del pane appena sfornato e del porridge d'avena caldo fatto con il latte fresco, dopodiché, prima che sorgesse il sole, mi incamminai di nuovo verso le stanze reali, giusto in tempo per incontrare l'uomo che Artù aveva mandato a chiamarmi solo qualche istante prima. Quando entrai di nuovo nella sua camera, Artù sembrava calmo e padrone di sé. O quantomeno, lo trovai più riposato e a suo agio della sera precedente, cosa che mi sorprese un po' date le condizioni in cui lo avevo lasciato. "Vieni" disse non appena mi vide. "Siediti." Quando mi fui accomodato, mi fece un cenno col capo e si schiarì la voce. "Ti ringrazio, amico mio. Quello che hai affrontato ieri sera era un compito difficile e te la sei cavata bene. Neanche a me sarebbe piaciuto comunicare una simile notizia. Ci ho pensato molto e poi Merlino, dopo averti mandato a dormire, mi ha fatto analizzare di nuovo le circostanze in cui era avvenuto il mio primo incontro con Morag. Adesso capisco che nessuno avrebbe potuto agire altrimenti, perché al tempo nessuno sapeva cosa stava accadendo veramente. Sono anche d'accordo sul fatto che il ragazzo, mio figlio, sia del tutto innocente e che non abbia nessuna colpa in questa vicenda. Perciò dobbiamo fare in modo che non soffra a causa di eventi che vanno al di là della sua comprensione e del suo controllo. Ecco, prendi questo." Mi tese la mano chiusa e io gliela presi, quindi sentii un oggetto duro e pesante cadere nel mio palmo. Prima che potessi vedere di cosa si trattava, però, Artù allungò le dita e le richiuse intorno alla mia mano, quindi mise l'altra sotto la mia e mi strinse il pugno. "Dai questo al ragazzo, perché è suo. Merlino e mia moglie mi hanno informato che hai un'enorme simpatia per lui." "Sì, mio signore. È vero." "Bene, perché se è così, allora ci sono buone probabilità che lo trovi simpatico anch'io. Ora vai a dargli questo, poi portalo da me quando vuoi." Mi lasciò la mano. "Posso vederlo, mio signore?" Dato che acconsentì, aprii il pugno e guardai cosa conteneva: un anello d'oro massiccio con il sigillo, un dragone rosso smaltato impresso sulla losanga piatta che costituiva la parte superiore. "Era di suo nonno... il sigillo personale di Uther Pendragon, indicava che era il capo dei clan dei Pendragon della Cambria. Ce l'ho da quando ero ragazzo. Me lo ha dato Merlino e siccome era tutto ciò che possedevo di mio padre l'ho custodito con cura per tutta la vita. A quanto sembra, mio figlio non ha mai conosciuto il suo vero cognome e non sa neanche di avere un'eredità che lo aspetta come capo dei Pendragon. È ora che sappia tutto questo, perciò dagli l'anello e portalo da me, ma lascia che si meravigli solo dell'anello in quanto dono... del suo valore e della sua bellezza... non dirgli niente del suo vero significato. Quello sarà compito mio. Per diventare re della Federazione dei Pendragon ci vuole una nomina, non è un diritto ereditario, e non so quale criterio si applicherà per la creazione del prossimo riotamo. Ma il rango di capo dei Pendragon si trasmette al primogenito. Perciò, portami il ragazzo, per favore." Nei decenni successivi, sentii spesso dicerie azzardate e fantasiose su Mordred di Britannia e sul presunto ruolo che aveva avuto nella rovina del padre, ma le trattai sempre come sciocchezze inventate da uomini boriosi, tronfi e meschini che non conoscevano affatto la verità ed erano capaci solo di sputare veleno. Uno era arrivato a dire, sebbene non in mia presenza, che Mordred aveva corrotto la regina e si era servito del grande amore che il re nutriva per lei per distruggere Camelot. Mi adirai quando lo venni a sapere, ma poi ci risi sopra, perché non molto tempo prima avevo sentito dire anche di me la stessa identica cosa, cioè che avevo tradito il mio migliore amico per amore della sua ipocrita moglie e così avevo distrutto Camelot. Questo mi fece capire che quando si verificano eventi catastrofici, la gente si sente obbligata a manipolare la verità, come quanto realmente accaduto fosse troppo insignificante per aver portato a conseguenze tanto terribili e disastrose. Non ho mai dimenticato quello che vidi il giorno in cui Artù, riotamo di Britannia, conobbe e accolse il suo unico figlio, Mordred Pendragon, perciò non ho mai dato peso alle storie che la gente invidiosa raccontava sul ragazzo. Una simile malvagità non poteva appartenere al Mordred che conoscevo io. L'incontro fra Mordred e suo padre fu un evento intimo al quale prendemmo parte solo io, la regina Ginevra e Merlino Britannico, il quale fu l'unico a non piangere per la commozione, anche se ovviamente non potevo esserne sicuro, visto che come al solito aveva il volto del tutto coperto dal grosso cappuccio della sua tunica. Per quanto mi riguarda, a un certo punto ero talmente commosso che dovetti strofinarmi gli occhi e deglutire con forza per mandare giù il groppo che avevo in gola, e in quel momento sentii i singhiozzi della regina, che si trovava accanto a me. Artù cominciò senza scomporsi, prima accogliendo il ragazzo in modo formale, quindi spiegandogli il significato del prezioso anello con il sigillo di suo padre e il motivo per cui quel giorno lo consegnava a lui, in quanto nipote di Uther; ma poi chiese a Mordred di avvicinarsi e quando questi si chinò sul letto, il re allungò una mano e seguì il profilo del suo viso con la punta delle dita. "Morag" disse a un tratto. "La rivedo in te. Hai il naso di tua madre, ragazzo, e anche i suoi occhi." Quando si accorse di quella somiglianza il re si sciolse e strinse il ragazzo al petto, dopodiché tutti e due iniziarono a piangere e a singhiozzare in modo convulso. Lady Ginevra, incapace di trattenersi si avvicinò e li abbracciò entrambi e per un attimo i tre formarono un quadro altamente drammatico. Quando le lacrime si esaurirono e ognuno riprese il controllo di sé, Artù era concentratissimo su quello che doveva fare. Mi chiese come si sviluppava il piano che la sera prima avevo proposto alla regina e poi domandò a Mordred se era disposto a prendervi parte, tanto da tornare a Gallowa con me e convincere suo zio ad aiutarmi a scovare Connlyn. Il ragazzo non mostrò alcuna esitazione e il suo entusiasmo era chiaramente sincero, così Artù mi diede il permesso di prendere la mia guardia d'onore franca, che già fremeva al pensiero di una vera battaglia, e di andare a sconfiggere Connlyn. Era d'accordo sul fatto che la mia piccola forza d'urto avesse più probabilità di entrare in contatto con i nemici, malgrado le circostanze disperate, di quante ne avessero avute le sue armate in passato. L'unica condizione era che portassi con me cinquanta degli instancabili esploratori dei Pendragon sotto il comando di Gwin, che era cresciuto in mezzo alle loro montagne, conosceva le abitudini e il linguaggio laconico di quei soldati e ora, pur essendo un membro dei cavalieri della Tavola Rotonda, godeva della loro simpatia, oltre che del loro rispetto e della loro ammirazione. Accettai con gioia, poiché Gwin era uno dei miei preferiti fra gli amici di Artù e i terribili archi dei Pendragon con le loro frecce letali ci avrebbero dato un vantaggio non indifferente sul nemico, soprattutto in alcune zone, dove la nostra cavalleria franca non sarebbe stata in grado di attuare le sue manovre. Andai subito a darmi da fare con gli ultimi preparativi e Merlino venne via con me: doveva scrivere una lettera che Shaun Dito Indice avrebbe consegnato a Connor e a re Brander, nel loro regnoisola, subito dopo aver lasciato noi a Gallowa. In essa li informava nei dettagli sullo stato di salute del re, annunciava loro la sua imminente guarigione e comunicava i nostri piani di attaccare Connlyn da nord. Mentre Merlino era occupato con quella missiva, andai a cercare Gwin per informarlo del suo nuovo incarico e dirgli di scegliere i cinquanta esploratori da portare con sé. Era felice di venire con noi e anche maliziosamente incuriosito dalle mie guardie franche, tanto che mi propose di scommettere che nessuna di loro sarebbe riuscita a pronunciare il suo nome nel modo corretto, ma che tutte lo avrebbero pronunciato più come Gwain. Sogghignai e gli feci cenno di andarsene; lui si mise a ridere e andò a selezionare i suoi uomini, sapendo che avrebbe vinto la scommessa se solo fossi stato tanto sciocco da accettarla. Passai il resto della mattinata a organizzare le mie guardie franche e a prepararle a fare ritorno a Glevum, dove c'erano navi ad attenderci. CINQUE I Arrivammo a Glevum parecchie ore prima del tramonto, il giorno dopo aver lasciato Camelot. Caricammo tutti i cavalli e gli arcieri con la loro attrezzatura, le loro munizioni e provviste, sulle navi di Shaun Dito Indice il giorno seguente e la terza sera eravamo già fuori dall'estuario del fiume e in piena rotta. Il tempo fu clemente durante il nostro breve viaggio notturno verso nord e attraccammo proprio ai piedi della fortezza posta in cima alla scogliera, che una volta avevo scambiato per il castello di Tod. Apparteneva a un capotribù di nome Cyrgus, di cui mi ricordavo bene, e aspettammo lì finché i suoi uomini non cominciarono a scendere verso la spiaggia. Ormai erano abituati ad avvistare le galee di Connor in lontananza e siccome era la terza volta che vedevano approdare qualcuno sulle loro spiagge, non ci vennero incontro brandendo le armi con aria minacciosa. Chiamai Mordred sulla prua della nave e lo nominai interprete in quella missione, perché ricordavo bene l'imbarazzo che avevo provato quando non ero riuscito a comunicare con Cyrgus e i suoi uomini. Portammo a riva la nostra scialuppa e Mordred si mise subito al lavoro, chiedendo esplicitamente del capotribù e spiegando che eravamo venuti per vedere re Tod, ma che prima avremmo atteso lui sulla spiaggia. Ovviamente Cyrgus era già lì, stava solo aspettando il momento adatto per fare la sua apparizione, e non appena capì che avevamo un interprete con noi si avvicinò a grandi passi. Tuttavia non riconobbe Mordred finché non se lo trovò di fronte; a quel punto inarcò le sopracciglia stupito. Mordred lo salutò con disinvoltura, come se fosse del tutto sereno e sicuro del suo rango: era un principe che parlava con un capotribù. Poi gli disse che ci serviva un posto per scaricare il bestiame e il resto del carico, problema che si risolse senza difficoltà poiché gli abitanti del luogo avevano costruito una banchina molto funzionale a meno di mezzo miglio romano da lì, in una stretta e profonda insenatura non visibile quando ci si avvicinava dal mare. Dato che la comunità di Cyrgus non possedeva cavalli e neanche le strutture necessarie al benessere dei grandi animali, quella notte ci accampammo sul fianco della collina vicino alle mura della fortezza. Avevo spiegato al capotribù tramite Mordred che i miei compagni erano cavalieri franchi inviati da re Artù per portare i suoi saluti e i suoi omaggi a re Tod e, anche se sono convinto che ignorasse il significato della parola "franco", egli accettò la mia spiegazione con tutta la cortesia possibile. Poi ci offrì qualcosa da mangiare, ma noi rifiutammo e preferimmo le nostre razioni di cibo, consapevoli che le leggi dell'ospitalità in quelle terre settentrionali prevedevano si offrisse vitto e alloggio, a prescindere da quanto questi potessero scarseggiare. Grazie alla mia visita precedente, sapevo che da quelle parti non era facile procurarsi il cibo e che Cyrgus avrebbe apprezzato la nostra autosufficienza. Gli proposi, invece, di mangiare con noi, invito da lui declinato con la stessa cortesia: non voleva che i suoi uomini lo vedessero cenare nel lusso, benché relativo, mentre loro non potevano fare lo stesso. Poi si accomiatò e ci lasciò alle nostre faccende. Il giorno successivo, all'alba, eravamo già diretti verso l'entroterra ed essendo tutti a cavallo, a metà pomeriggio scorgemmo la grande fortezza romana di Tod a base quadrata. La nonna di Mordred fu lieta di rivederlo, non si aspettava che il nipote tornasse a Gallowa mentre lei era ancora in vita, e lo portò subito con sé per farsi raccontare tutto quello che aveva fatto da quando si erano lasciati un anno prima. Suo figlio Tod, il gigante e pelato re di Gallowa, era altrettanto felice di vedere me, perché da quando ero partito non aveva più pronunciato una parola di latino. Ma non appena risposi alla sua prima domanda, ossia qual buon vento mi riportava a Gallowa, lui si accigliò e alzò la mano aperta per dirmi di tacere, quindi mi invitò a fare una cavalcata insieme. L'ultima volta che ero stato lì mi aveva prestato uno dei suoi cavalli, i beni a lui più cari. Stavolta, sapendo che era la cosa giusta da fare, decisi su due piedi di regalargli uno dei nostri destrieri più belli, un magnifico cavallo baio castrato, con il torace ampio, le zampe lunghe e proporzionate e una macchia bianca sulla fronte a forma di croce quadrata. Era uno dei meglio addestrati. Con quel dono lo feci ammutolire per un istante, cosa che non capitava molto spesso, come sapevo dal nostro primo incontro, perché Tod era un uomo solo e assai colto che non aveva molte persone della sua levatura con cui parlare veramente. Adesso, incapace di trovare le parole per esprimere la sua gratitudine, si limitò ad ammirare il suo nuovo cavallo. Montai sul mio in silenzio e aspettai che Tod facesse lo stesso; poi lo condussi fuori dai cancelli nell'aperta brughiera che circondava la sua roccaforte. Diverso tempo dopo, tirammo le redini insieme per fermarci su una bassa cresta da cui si vedeva il castello in lontananza; gli domandai se quel posto aveva un nome. Tod mi guardò con la fronte corrugata, poi sogghignò. "Come sai, sono stati i Romani a costruirlo, ma se gli hanno dato un nome specifico si sono dimenticati di farcelo sapere. La mia gente lo chiama come lo chiamavano gli antichi abitanti, ossia quelli che per i Romani erano i Pitti, la Gente Dipinta. Nella lingua antica questo posto era Glenlochar, e così viene chiamato anche oggi" disse, per poi cambiare argomento: "Dunque hai visto quanto è bello il mio nuovo cavallo? È il migliore che abbia mai cavalcato. Parlami ancora di quei cavalieri con la cotta di maglia che hai portato con te. Dicevi che sono originari della Gallia? Allora che ci fanno qui a Gallowa?". Gli spiegai esattamente perché si trovavano lì con me. "Capisco. Quindi sei qui per mettere in trappola Connlyn... con trenta uomini a cavallo e due ragazzi contro le sue migliaia di soldati. È molto... bè, non so come dire, amico franco... molto... non so... molto audace, forse. Ammirevole... Ma di certo anche molto stupido. La ricerca della parola esatta è proprio quello per cui apprezzo tanto la lingua dei Romani... la sua varietà, la sua finezza. Prova a spiegare la stessa cosa nella mia lingua. Ah! C'è da diventare matti! Perciò quello che non mi dici, ma che speri io intuisca, è che hai bisogno di aiuto per questa impresa. Vuoi che prenda le armi contro mio zio, un mio parente?" Lo guardai dritto negli occhi. "Sì, è così. E se riesci a guardare l'uomo che si cela al di là della parentela, capirai perché." "Mmm. L'audacia non ti manca, amico Clothar. Ma vale lo stesso per mio zio Connlyn, solo che la sua audacia mi disturba e mi preoccupa parecchio, da un po'"di tempo a questa parte. Non mi è mai interessato granché quello che cercava di fare nel suo regno, a sud del Vallo. Si trova in un altro paese... in Britannia. Questa è Alba e il Vallo finora è servito a tenere lontana la corruzione delle terre del Sud. Ma ora mio zio si è circondato di alleati con cui io non vorrei mai avere niente a che fare, e quegli alleati si considerano sempre più liberi di agire come pare loro nel mio dominio e con la mia gente. È cominciato tutto un anno fa, poco dopo la tua visita, e non era niente di preoccupante all'inizio, solo qualche banda di predoni stranieri che approdavano nei nostri territori mentre si dirigevano a sud. Ma all'incirca un mese dopo la prima incursione accadde di nuovo e stavolta uccisero alcuni dei miei uomini. Li inseguimmo, ma non riuscimmo a trovarli e mi lamentai con Connlyn. Mio zio mi ignorò e quando mi rivolsi di nuovo a lui, mi rispose che non si sentiva responsabile dei crimini commessi da qualche straniero di passaggio, che dovevo chiudere il becco e smetterla di seccarlo a quel modo." Si interruppe e indicò una grossa lepre che veniva verso di noi a lunghi balzi, ignara della nostra presenza. Quando Tod alzò il braccio, però, la lepre rimase immobile, nascosta nel sottobosco, lasciando intravedere soltanto le orecchie. "Ebbene," continuò Tod, quando fu chiaro che l'animale non si sarebbe avvicinato ulteriormente "ho chiuso il becco e solo qualche giorno fa mi è giunta voce che due famiglie sono state cacciate dalle loro case con il fuoco e massacrate da stranieri bianchi, perciò mi pare evidente che smettere di seccarlo non è stata una buona soluzione. Di recente, tre giorni fa in effetti, ho deciso di diventare ancora più seccante e fastidioso per mio zio Connlyn, così ho invitato la mia gente a riunirsi qui entro una settimana e a portare le armi. Perciò non sarò io ad aiutare te e a sentirmi in colpa subito dopo, ma sarai tu ad aiutarmi e al tempo stesso a farmi sentire a posto con la coscienza." Guardò di traverso la leggera faretra di lance di bambù che era appesa come al solito a un gancio della mia sella. "Credi di poter colpire quella lepre con una delle tue armi? Sono venuto senza il mio arco e quell'animale sarebbe un'ottima cena per stasera, se solo riuscissimo a catturarlo. Il mio cuoco, lain, con la carne di lepre fresca riesce a cucinare un pasto degno degli dèi." Scelsi una lancia e la preparai, avvolgendomi la corda da tiro intorno al dito indice; poi spronai il cavallo ad andare verso la lepre, che scappò non appena iniziai a muovermi. Grazie alle zampe di dietro, lunghe e muscolose, si allontanava a grandi balzi e cambiava direzione ogni volta che toccava terra per prendere una nuova spinta. La osservai nel tentativo di stabilire quanto fosse andata lontano e in che modo variasse la direzione da un salto all'altro, ma alla fine mi preparai, mi alzai in piedi sulle staffe e scagliai forte la mia lancia verso l'animale, colpendolo all'apice di un salto e perforandogli il petto. Così, in un batter d'occhio, da una creatura di guizzante bellezza era diventata un ammasso di membra tremanti infilzato dall'estremità di un bastone. Accanto a me, Tod drizzò la schiena con un grugnito, poi si avvicinò a cavallo alla lepre morta, che ormai non tremava più, e scivolò a terra, dove la raccolse ed estrasse la lunga estremità appuntita della lancia, per poi pulire la lama sulla pelliccia dell'animale. Dopodiché, afferrata la lepre per le orecchie, mi porse l'arma dalla parte del manico. Tornò in sella, mentre io ravvolgevo il laccio di cuoio e riponevo la lancia nella faretra. "È stato incredibile ed è ovvio che non si è trattato di fortuna. Ti capita mai di mancare un colpo come quello?" "Dipende dalla distanza, dal terreno e dalla velocità. Ma da quella distanza e con quel proiettile, praticamente mai. Forse su una ventina di lanci potrei sbagliarne uno, ma uno solo." "Mmm." Si affaccendò per infilare la lepre dentro una delle sue bisacce. "Come pensavi di adescare Connlyn?" "Mandandogli a dire che Mordred è con me e vuole che lo porti a conoscere lo zio." "E ti aspetti che Connlyn ci caschi, per il semplice fatto che vuole avvicinare il ragazzo." "Vuole e deve, perché il ragazzo è la chiave per Camelot e di conseguenza per la reggenza del giovane riotamo. Naturalmente non porteremo Mordred con noi. Al suo posto verrà Rufus, il mio scudiero. Sono quasi coetanei e Connlyn non ha mai visto Mordred, perciò non si accorgerà della differenza. Riterrà il ragazzo che gli presenteremo suo nipote." "Quindi temi che Connlyn possa uccidere Artù?" Dovetti fare uno sforzo per non dire che ci era già andato molto vicino, purtroppo. "No, ma pensa di poterlo uccidere e crede - o ha bisogno di credere - che Artù esiterebbe a togliere la vita al proprio figlio." "E lo pensi anche tu?" "Che Artù esiterebbe? Artù non prenderebbe neanche in considerazione l'ipotesi." "Cosa ti fa credere che Connlyn ti risponderà? Sa chi sei e conosce la tua fedeltà nei confronti di Camelot. Perché dovrebbe fidarsi di te, un cavaliere di Artù?" Alzai le spalle. "Non lo farebbe mai... in nessun caso. È per questo che speravo di ottenere il tuo appoggio, se non il tuo aiuto militare. Una lettera da parte tua a Connlyn sarebbe l'ideale." "Sì, o meglio ancora un messaggero fidato, uno dei miei capi, che Connlyn conosce. Gli dirò che il ragazzo è stato al Nord con mia madre, per far visita ai suoi parenti norvegesi, ed è tornato da poco. Connlyn non sa che è falso e crederà a quello che vuole sentire. Ma lo informerò anche che abbiamo di nuovo qualche problema con i suoi alleati e pretenderò di poter attraversare in tutta tranquillità i suoi territori - che io considero ostili - per arrivare nel luogo scelto da lui per il nostro incontro. E farò il finto tonto... attraversare in tutta tranquillità vorrà dire "scortati da alcune sue guardie del corpo personali". Credimi, i suoi territori pullulano di stranieri di ogni tipo. Gli farò capire che temo per l'incolumità dei miei uomini, perché ho già perso intere famiglie per colpa dei suoi alleati. Una lettera che garantisca un passaggio sicuro sarebbe inutile. Abbiamo bisogno di una scorta, di uomini forti e facilmente riconoscibili come suoi sudditi, che possano proteggerci e usare come arma di difesa l'ira di Connlyn, qualora ci trovassimo in pericolo lungo il tragitto." "E che mi dici dei miei trenta cavalieri? Non credi che qualcuna di queste guardie del corpo di cui parli potrebbe chiedersi chi sono e da dove vengono? I soldati di cavalleria come i nostri sono una rarità fuori da Camelot." Tod ridacchiò, i denti forti e regolari gli comparvero sul volto glabro. "Certo che potrebbero, Clothar, certo... anzi lo farebbero di sicuro. Ma i tuoi cavalieri non si lasceranno avvistare. Tu e i tuoi soldati, con un centinaio di uomini del mio clan, procederete parallelamente a noi senza farvi notare, lontano dal trambusto che si genererà, ed entro un paio di giorni alcuni dei miei si procureranno tutte le armature e le insegne che contraddistinguono le guardie di Connlyn, cosicché sembreranno anche loro addetti a garantirci un passaggio sicuro. Non appena scopriremo dove si terrà l'incontro, te lo farò sapere e uniremo le nostre forze nei pressi di quel punto. Dopodiché avrà inizio la caccia e i più lenti saranno perduti. Torniamo indietro ora. I miei uomini cominceranno ad arrivare domani e saranno tutti qui nel giro di una settimana. Nel frattempo, però, lain ci preparerà questa lepre per cena." "Quanti uomini hai chiamato?" "Otto per ogni gruppo di dieci... erano tutti quelli che potevo radunare, purtroppo. Dovremmo arrivare quasi a duemila, quando la chiamata sarà finita." "Duemila! E li arruolerai tutti?" "Ah, bè... questo è il problema. Una volta che li hai chiamati a raccolta è difficile rimandarli a casa senza che si siano sporcati di sangue. Sono uomini orgogliosi, tutti guerrieri a cui non piace fare la figura degli stupidi, essere maltrattati o disdegnati. Perciò sì, li arruoleremo tutti, forse io ne prenderò un quarto e il resto verrà con te, vi muoverete accanto a noi inosservati e nessuno sospetterà la vostra presenza finché non sarà troppo tardi." II Due ricordi mi rimangono di quel viaggio intrapreso verso sud, dalla fortezza di Tod fino ai territori della Britannia settentrionale su cui Connlyn aveva delle mire. Il più vivido riguarda l'enorme bastione difensivo chiamato Vallo di Adriano e l'effetto che ebbe su di me quando lo vidi per la prima volta giungendo da nord. Lo avevo visto in altre occasioni prima di allora, ma sempre dall'altra parte, quella dei difensori, dove tutto, passerelle, vie d'accesso e scale, era stato progettato per salire facilmente in cima al muro. La vista dalla parte degli invasori era del tutto diversa e decisamente spaventosa. Dopo aver lasciato il castello di Tod ci eravamo diretti a sud, verso il cosiddetto estuario del Solway, per poi seguire la strada litoranea fino alla città romana abbandonata di Luguvallium e all'estremità occidentale del Vallo. Avevamo girato attorno alla città in direzione nordest, preoccupandoci di restare nascosti, per poi puntare verso sud, finché all'improvviso non era comparso il Vallo, e avevamo capito a prima vista quanto fosse intimidatoria quella barriera. La sua vista mi aveva frenato, sebbene sapessi che quella fortificazione era stata abbandonata alcuni decenni prima e restava ormai sguarnita. La differenza più grande e più impressionante era che il Vallo da quel lato appariva enorme e privo di fronzoli, un semplice muro di pietra, dell'altezza di tre uomini, che si estendeva a perdita d'occhio a destra e a sinistra e aveva davanti un fossato profondo e pieno di erbacce - una classica fossa romana - con le pareti alte e ripide che facevano sembrare il muro sovrastante ancora più imponente. Eravamo usciti da un folto gruppo di cespugli, in cima alla lunga e ripida cresta di un monte, quando ci trovammo davanti una visione molto più maestosa di quella che ci aspettavamo. Certo, sapevamo che il muro era da qualche parte davanti a noi, ma finimmo proprio nel punto in cui era stata aggiunta l'antica torre con il cancello che doveva consentire ai soldati della guarnigione romana di accedere liberamente alle terre situate a nord. L'imponente torrione era sei piedi più alto del muro e nelle pareti sottostanti si scorgeva in modo nitido la sagoma di entrate che un tempo erano protette dalla torre. Quelle porte, però, si erano rivelate una maledizione più che una buona idea ed erano state murate poco dopo la loro costruzione. Ora la facciata spoglia si ergeva sopra di noi sormontando un fossato profondo, che era stato ovviamente ricavato con grande fatica dal substrato roccioso davanti al muro. Il fossato era largo all'incirca ventisette passi e profondo nove, manteneva le stesse dimensioni per tutta la lunghezza del muro e, anche se quella parte era stata invasa dall'erba nel corso dei secoli, la roccia viva sulla parete scoscesa del fossato situata di fronte a noi sembrava ancora solida come doveva essere stata per quegli sventurati che lo avevano scavato. Avevamo risalito il pendio a piedi con grande fatica, portando ognuno il proprio cavallo per le briglie, poiché era impossibile cavalcare in mezzo ai fitti arbusti di biancospino che ricoprivano il terreno nella zona circostante, e quella vista, così inaspettata dopo l'ardua salita, ci lasciò letteralmente senza fiato. Sentii Bors dire qualcosa alle mie spalle e con la coda dell'occhio lo vidi afferrare lo sperone della mia sella. "Dolcissimo Gesù," mormorò "è quello il Vallo? È più grande di come me lo immaginavo." "Ti aspettavi forse di poterci salire sopra con un balzo?" Visto che anche gli altri si stavano accalcando vicino a lui, alzai la voce e passai dal latino al franco per farmi capire dai nostri compagni. "L'imperatore Adriano fece costruire questa barriera diversi secoli fa, amici miei, per tenere lontani dalla Britannia i barbari del Nord. Questo era il confine dell'Impero Romano e fu una delle più grandi costruzioni di tutti i tempi. Lungo settantasei miglia, attraversa l'intera parte settentrionale della Britannia. È alto diciotto piedi e ha alla base un fossato che lo segue per tutta la sua lunghezza. Ci sono un forte ogni sei miglia e una costruzione difensiva più piccola ogni miglio. Le porte di cui potete notare la sagoma sulla pietra consentivano ai legionari di fare incursione da questa parte, in Caledonia, ma svolgevano anche la funzione inversa, perciò furono murate. Ora la barriera che si trova qui davanti a noi è abbandonata e indifesa, ma è pur sempre impressionante, perché dobbiamo comunque oltrepassarla." "Come faremo?" Non mi voltai a vedere chi mi avesse rivolto quella domanda. Mi limitai ad alzare una mano per indicare il muro davanti a noi. "Alcuni si arrampicheranno lì sopra con l'aiuto di piedi di porco e picconi, poi libereranno il passaggio, buttando giù quelle pietre. Mi servono dei volontari." Ci volle un intero pomeriggio per perforare il Vallo di Adriano e passare dall'altra parte, senza nemmeno dover combattere contro dei difensori; ma lo avevamo previsto, perciò avevamo lasciato il castello di Tod tre giorni prima della sua compagnia, calcolando un giorno intero per penetrare attraverso il Vallo e altri due per dirigerci verso sud seguendo un percorso parallelo al loro, il che comportava alcune difficoltà. E giungiamo al secondo ricordo che ho di quel viaggio. Ci sono solo due strade a nord del Vallo, una a est e una a ovest di Luguvallium, entrambe in pessime condizioni. Proseguono verso sud, dopo il Vallo, ma a congiungerle ci sono soltanto cinquanta miglia di aspra pianura dalla vegetazione selvaggia. Questa potrebbe sembrare un'osservazione irrilevante, ma solo per coloro che non si fermassero a riflettere sulle strade e sulla loro importanza. I Romani costruirono vie lunghe e dritte con l'unico scopo di far spostare gli eserciti il più velocemente possibile da un luogo all'altro e poi allestirono accampamenti difensivi per consentire ai legionari di perlustrare, difendere e preservare quelle strade per un uso futuro. Alla fine intorno a ogni accampamento sorsero dei villaggi, che poi divennero città, e il traffico si sviluppò lungo le vie di collegamento, il commercio fiorì e la popolazione crebbe. Ma tutto cambia non appena si oltrepassano i confini dell'Impero. A quel punto, è ovvio quanto diventino persino più importanti le strade. Dove ci sono loro, la gente viaggia, e quando la gente si sposta spesso lascia la via battuta per avventurarsi nel territorio circostante, provocando nel corso dei secoli con la propria presenza, al proprio passaggio, un diradamento della vegetazione selvaggia su entrambi i lati della strada. I fuochi da campo accesi con negligenza generano sempre dei violenti incendi, che diradano il sottobosco e consumano i detriti accumulatisi nel tempo. Così alla fine ai lati delle vie di pietra si creano degli ampi spazi vuoti in cui la vegetazione si dirada a causa del passaggio di mandrie di bestiame e animali dagli zoccoli fessi. Laddove non ci sono strade, invece, il sottobosco diventa più esteso e folto, a volte viene bruciato in alcuni punti durante i mesi estivi da disastrosi incendi causati dai fulmini. Quando mancano le vie di percorrenza, la gente si sposta di rado dal luogo in cui è nata. Nascono villaggi e piccoli insediamenti e i campi che li circondano vengono ripuliti per il raccolto, gli alberi abbattuti per ottenere legname da costruzione e combustibile e i terreni disboscati per essere coltivati o usati come pascolo comune. Gli abitanti sviluppano nuove abilità e le condividono con i loro vicini, così il commercio locale cresce, ma raramente ci sono contatti tra insediamenti confinanti, perché senza le strade ogni viaggio, persino il più breve e il più banale, diventa un'impresa colma di pericoli e difficoltà. Gli animali e il bestiame non possono muoversi liberamente nel sottobosco soffocante delle lande circostanti, dove ogni albero che muore e cade si schianta al suolo e rimane lì, dove viene ricoperto dal muschio, dall'erba rigogliosa e da nuovi alberelli, finché non si decompone per essere riassorbito dal terreno. Questo rende quasi impossibile per un uomo a cavallo muoversi facilmente, perché il cavallo rischia di spezzarsi una zampa a ogni passo. Di conseguenza, il nostro faticoso viaggio verso il regno di Connlyn fu un vero incubo. Su una battuta strada romana, i miei soldati a cavallo avrebbero percorso otto miglia in una sola ora. Nelle foreste prive di strade a sud del Vallo, inframmezzate da tratti di suolo imprevedibile e roccioso, da infide paludi e acquitrinosi pantani situati sul fondo delle valli che si aprivano fra le colline, fummo abbastanza fortunati quando riuscimmo a percorrere un miglio in quattro o cinque ore. Ciononostante, facevamo dei progressi, e Gattric, il comandante in seconda di Gwin, a capo degli esploratori dei Pendragon, sapeva sempre con precisione dove ci trovavamo e quanta strada avevamo percorso. Quando Gwin venne a riferirmi da parte di Gattric che ci eravamo spostati di trenta miglia a sud e che dovevamo mandare dei perlustratori a est per incontrare re Tod, acconsentii senza fare obiezioni e gli dissi di ordinare ai suoi uomini di trovare uno spiazzo in cui potevamo accamparci fino al ritorno degli esploratori. Non era una richiesta da poco, perché il nostro era un gruppo numeroso, composto anche dai miei quaranta cavalieri franchi e i loro sette ufficiali superiori, fra cui io, Bors e quattro ufficiali di Corbenico sotto il comando di Quinto Milo, nonché Rufus travestito da Mordred, Gwin con i suoi cinquanta esploratori dei Pendragon e circa un migliaio di uomini di Tod di Gallowa. Malgrado il numero, tuttavia, mi sentivo sempre più scoraggiato da quando ci eravamo lasciati il Vallo alle spalle. Gran parte della maestosa barriera si estendeva su pendii aperti e per tutta la sua lunghezza, da entrambe le parti, c'erano delle strisce di terra larghe cento passi che erano state sgomberate secoli prima e tenute pulite fino a quando il Vallo era rimasto presidiato. Quelle strisce oltre a consentire ai soldati della guarnigione di passare rapidamente dall'altra parte del Vallo offrivano al nemico un campo di tiro sgombro. Sarebbe stato facile seguire la striscia che si trovava alla base del Vallo fino alla nostra meta, ma equivaleva a pura follia, perché data la sua accessibilità e la sua desolazione doveva essere usata di continuo dalle truppe di Connlyn nei loro spostamenti. Dovevamo attraversare lo spazio aperto alla svelta, per poi addentrarci nel folto bosco che si trovava dall'altra parte, avanzando su un terreno incolto e impraticabile per trenta miglia. Per tutto il tragitto non feci altro che pensare a una cosa che mise a dura prova il mio addestramento, il mio entusiasmo e la mia speranza: i cavalieri e gli arcieri sarebbero stati del tutto inutili su quel tipo di terreno e la cosa mi coglieva del tutto alla sprovvista. Su quel suolo accidentato e disseminato di pietre, la mia cavalleria non poteva svolgere a pieno la sua funzione e i miei arcieri non sarebbero riusciti a vedere abbastanza lontano da prendere la mira contro eventuali bersagli. In quel contesto, l'unico tipo di combattimento efficace sarebbe stato il corpo a corpo brutale e senza regole degli uomini di Tod, e la prospettiva non mi allettava per niente. Avevo trascorso troppi anni ad addestrarmi per accettare l'idea di essere sconfitto da un famelico selvaggio solo perché non avevo lo spazio sufficiente per maneggiare le mie armi. Non c'era motivo di preoccuparsi, comunque, perché quando tornarono gli esploratori dei Pendragon portarono con sé re Tod, accompagnato da una decina di guardie del corpo personali. Tod fu estremamente risoluto riguardo al da farsi e cominciò a impartirmi ordini come se fossi una delle sue reclute. "Dovevo venire di persona" cominciò. "Questa cosa è troppo importante per rischiare di rovinare tutto a causa dell'interpretazione errata di qualche sventurato intermediario, perciò volevo guardarti negli occhi per dirti quello che so e sentire la tua risposta con le mie orecchie. Connlyn si trova in una roccaforte, una vecchia fortezza circolare situata su una collina, praticamente irraggiungibile, a meno che lui non voglia essere raggiunto. Di tanto in tanto esce, sempre accompagnato da una scorta armata, ma i miei uomini dicono che nell'ultimo mese se ne è stato chiuso fra quelle mura peggio di un neonato in fasce e che non c'è verso di arrivare a lui senza il suo permesso. Se ne sta rinchiuso là dentro, non ha contatti con gli abitanti della campagna circostante e non permette a nessuno di entrare nel forte. Persino il mio inviato, Liam, ha fatto fatica a raggiungerlo, nonostante portasse una bandiera bianca e delle lettere da parte mia." "Hai parlato con lui?" Tod inarcò un sopracciglio, quasi spazientito dalla mia interruzione. "Con Connlyn? No. Come avrei potuto? Non hai sentito cosa ho detto? Liam, uno dei miei capi, è entrato lì dentro e gli ha parlato per conto mio, gli ha detto che stavo arrivando da Gallowa insieme al giovane Mordred. Quel bastardo gli ha risposto che dovevo aspettare che lui mi mandasse a chiamare." "Quale bastardo?" Fu Bors a rivolgergli quella domanda, ma Tod non distolse lo sguardo da me. "Quel bastardo di mio zio, quel bastardo di Connlyn. Il signore della guerra che si aspetta che i suoi reali parenti stiano ad aspettarlo come lacchè." Mi guardava di traverso ora, e io non riuscivo a decifrare la strana espressione che aveva sul volto. Poi mi chiese: "Conosci un tizio di nome Lanar?". "Dal tuo tono si direbbe che dovrei conoscerlo," risposi "ma non riesco a collegare questo nome a un volto." "È uno degli uomini di Connlyn." A quella notizia, il nome e il volto a esso collegato mi tornarono subito alla mente. Lanar era l'uomo da cui avevo saputo che Morgas era la sorella di Connlyn, l'uomo che lo stesso Connlyn mi aveva assegnato come interprete al nostro primo incontro e che aveva partecipato con me all'assalto contro Knut Occhio Guercio. Mi ricordai di aver pensato che Connlyn lo avesse trattato in modo severo, sebbene a mio avviso Lanar avesse fatto un ottimo lavoro. Lo avevo pagato bene, e grazie a lui ero riuscito a scoprire il significato della parola morgas. "Adesso me lo ricordo. Rimase con noi per un breve periodo di tempo, fu il nostro interprete la prima volta che venni qui. Che cosa ha fatto?" "Ha chiesto di te... o meglio di un guerriero franco che aveva conosciuto una volta. Liam ha pensato che potesse riferirsi solo a te, dato che non ha mai sentito parlare di altri cavalieri franchi da queste parti." "Ma... Come ha potuto farlo? Perché avrebbe dovuto? Mi conosce in relazione a Camelot, e non a Gallowa." "No, sa che conosci mia madre e sa di Mordred. Non so quali siano i collegamenti di preciso, come abbia fatto a scoprirlo o come sia riuscito a mettere insieme i pezzi, ma ha detto a Liam che voleva parlare con te. Poi è sparito." "Sparito? Vuoi dire che Connlyn lo ha fatto sparire?" Tod scrollò le spalle. "Non lo so. Liam mi ha spiegato solo che quell'uomo sembrava impaurito e una volta detto quello che aveva da dire è scomparso." Piegò la testa da un lato. "Che sta succedendo? Pensi che quel tizio voglia aiutarci a catturare Connlyn? Perché te lo dico, se non è così, non abbiamo nessuna speranza di acciuffare quel bastardo... non fino a quando resterà in quella roccaforte. Negli ultimi anni Liam ha conquistato una decina di fortezze e dice che quella di Connlyn è inespugnabile. È il mio miglior condottiero e sa quello che dice." "Mmm. Allora mi converrà parlare con questo Lanar. Dov'è?" "Nella roccaforte di Connlyn, a due giorni di marcia da qui." "Intendi due giorni di marcia effettiva, o due giorni perché dobbiamo attraversare la foresta?" "Perché dobbiamo attraversare la foresta." "Allora quando partiamo? E cosa facciamo con il grosso delle mie truppe?" "Partiamo adesso. Porteremo alcuni dei tuoi arcieri. Gli altri ci seguiranno a breve distanza, insieme a Bors. Ma prima di partire dobbiamo perlomeno valutare le eventualità che potrebbero presentarsi una volta che avremo raggiunto la roccaforte di Connlyn. Per come la vedo io, le possibilità sono due ed entrambe dipendono da questo Lanar." Si interruppe e chinò di nuovo il capo con aria dubbiosa. "Se riusciremo a ritrovarlo - perché non è detto che ci riusciremo - intendi fidarti di lui?" Contrassi le labbra e ci pensai. "Stando a quello che so di lui, sì. Credo che mi fiderò. Ricordo che mi colpì parecchio il modo in cui trattò con gli uomini di Knut Occhio Guercio. Anche sotto pressione mantiene la calma e, benché non sia un guerriero, non si lascia intimidire facilmente. Sì, se ha qualcosa da offrirci, mi fiderò di lui." "Bene. E sia, allora. Quando arriveremo a destinazione, il nostro primo compito sarà quello di trovare questo Lanar. Dovrò mandare di nuovo Liam nella fortezza di Connlyn, fornirgli un racconto di sventure plausibile da riferire e assicurarmi che sappia cosa dire a Lanar nel caso lo incontrasse. Poi, ammesso che Lanar venga a parlare con noi, sentiremo cos'ha da dire e in base alle sue parole decideremo se agire o meno. In un modo o nell'altro, Bors, tu dovrai tenere i tuoi uomini nella foresta finché non avremo capito quali sono le alternative. Lo so, è frustrante non essere in grado di fare progetti precisi a questo punto, ma è così. Dobbiamo aspettare e vedere. Non abbiamo altra scelta. Qualcuno ha da dire qualcosa?" "Sì" risposi. "Hai detto che, una volta raggiunta la fortezza di Connlyn, avremo due possibilità, entrambe legate a Lanar. Quali sono?" Mi guardò a occhi sgranati. "Oh, le possibilità che abbiamo sono due: combattere oppure no. Se Lanar potrà aiutarci, dandoci qualche consiglio o qualche vantaggio, combatteremo e con un pizzico di fortuna potremmo anche vincere. Se invece non potrà aiutarci, non ci resterà altro che aspettare una mossa falsa di Connlyn, che venga allo scoperto, per coglierlo di sorpresa fuori dalle mura della fortezza. Non mi piace questa eventualità, ma non abbiamo molte alternative." Si guardò intorno e poi annuì. "C'è altro? Qualcuno ha qualche altra domanda?" Nessuno aveva altro da chiedere e, siccome non era ancora mezzogiorno, ci preparammo a partire entro un'ora. III "Lanar, ben trovato! È trascorso molto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti." Sembrava parecchio invecchiato, eppure erano passati solo poco più di tre anni. Gli abiti che indossava non erano migliori di quelli di allora. Aveva sempre avuto la tendenza a stare con le spalle curve, ma adesso l'arco prodotto dal suo collo era più pronunciato e i suoi capelli più grigi e più radi, mentre i segni intorno alla bocca e agli occhi si erano fatti più profondi. Sembrava che negli anni successivi al mio ritorno in Gallia Lanar avesse sofferto e mi domandai di nuovo che tipo di rapporto intercorresse fra lui e Connlyn. Avevo sempre avuto l'impressione che Connlyn esercitasse troppa influenza su quell'uomo per trattarsi di un mero rapporto fra signore e suddito; Lanar era sempre ai suoi piedi, Connlyn usava nei suoi confronti meno riguardo e umanità che verso i suoi cani da caccia. Lo invitai a sedersi su una sedia pieghevole accanto al fuoco. Eravamo accampati nel cuore della foresta, lontano dalla fortezza di Connlyn e, dopo aver letto la missiva che gli avevo fatto recapitare da Liam, Lanar aveva affrontato un viaggio di mezza giornata per venire da me. "Siediti, siediti, Lanar. Ho chiesto ai miei uomini di portarti qualcosa da bere e da mangiare non appena fossi arrivato, perciò dovrebbero essere qui a momenti. Starai morendo di fame." Non dissi quello che pensavo veramente, cioè che a vederlo sembrava davvero deperito. Proprio mentre lui si sistemava accanto al fuoco, arrivò il giovane Rufus con un vassoio di legno carico di cibo fumante in una mano e un pesante boccale nell'altra. Lanar prese il boccale e bevve con avidità, e lo osservai con ammirazione svuotare il bicchiere a grandi sorsi. "Mi dispiace che non sia birra" dissi. "Ma quando si viaggia senza strade, si parte senza carri." "Non importa" bofonchiò Lanar, mentre afferrava una carnosa coscia di pollo e la esaminava con gratitudine. "Gli dèi hanno creato l'acqua molto prima che gli uomini inventassero la birra." Affondò i denti nel pezzo di carne che teneva in mano e ne staccò un boccone, che masticò rumorosamente prima di divorare l'intera coscia con avidi morsi sotto i miei occhi sconcertati. Anche Rufus lo stava fissando a bocca aperta, così attirai la sua attenzione con un cenno. "Portane dell'altro." Quando il ragazzo sgattaiolò via, Lanar mi guardò con un sogghigno e si pulì le dita su una spessa fetta di pane, dopodiché la inzuppò nel sugo della carne che si trovava sul vassoio e inghiottì quel boccone prelibato. Ci impiegò diverso tempo a finire il suo pasto - mangiò tre porzioni di carne e mezza pagnotta di pane -, ma io lo aspettai volentieri e ammirai il suo appetito, finché non drizzò la schiena ormai sazio e si appoggiò allo schienale della sedia, pulendosi le mani sulla tunica. "Era... davvero ottimo" disse, ruttando delicatamente. "Vi ringrazio." "Non ce n'è bisogno, ma sono lieto che tu l'abbia gradito. Mi hanno detto che volevi parlarmi e ti confesso che sono curioso. Vuoi che parliamo adesso o preferisci aspettare ancora un po'?" "No, facciamolo adesso, non abbiamo tempo da perdere." Usò il dorso della mano per togliersi un po'"di unto dalla bocca. "Mia sorella è morta." "Tua... sorella..." Non sapevo cosa dire, perché non ero a conoscenza che avesse una sorella. "Sì, mia sorella. Si chiamava Martha. Era la mia unica parente e la mia più cara amica. Mi ha cresciuto dopo che i nostri genitori sono morti. Era sua moglie... la moglie di Connlyn, intendo. Ma non è stato sempre così. Nostro padre governava queste terre quando eravamo bambini e alla sua morte il potere passò nelle mani di Martha e del suo primo marito, Alisan. Da giovane viaggiavo spesso e un giorno, mentre ero lontano per un lungo viaggio, Alisan fu ucciso. Un incidente di caccia, lo definirono. Dopo neanche un anno Connlyn era sposato con mia sorella, più che altro perché lei aveva bisogno di un uomo che governasse al suo fianco. Tornai a casa l'anno seguente e scoprii che Martha era affetta da un male misterioso e apparentemente incurabile, ma quando cominciai a fare domande venni picchiato da alcuni degli uomini di Connlyn e trascinato al suo cospetto. Non aveva assunto il titolo di re, perché non esisteva la monarchia nel nostro territorio, ma di fatto si comportava come tale. Quasi tutti i suoi possibili oppositori erano stati messi fuori gioco, in un modo o nell'altro: io ero soltanto l'ultimo rimasto. Per qualche ragione, però, pensava che gli servissi per ottenere una parvenza di legittimità... non so. Ma mi fece capire, senza mezzi termini, che la vita di mia sorella era nelle sue mani, che la teneva in ostaggio e se non avessi fatto all'istante tutto quello che mi ordinava, a Martha sarebbe successo qualcosa di molto sgradevole... Neanche allora mi importava granché della mia vita, ma non avrei mai fatto niente che potesse causare dolore a mia sorella. Così Connlyn fu esplicito: se gli fosse accaduto qualcosa di increscioso, Martha avrebbe avuto una morte assai dolorosa. Gli credetti, perché era circondato dagli esseri più vili e malvagi che avessi mai conosciuto. Da allora sono trascorsi otto anni. Poi, neanche un mese fa, trovai Martha terribilmente peggiorata. La sua era una malattia devastante e mortale: non sarebbe vissuta molto a lungo. Così decisi che alla sua morte avrei ucciso Connlyn. Ma poi il capo clan di Gallowa, Liam, ha bussato alla porta di Connlyn e ho saputo che il giovane Mordred stava venendo a conoscere lo zio. A quel punto mi sono ricordato di voi e del vostro rapporto di amicizia con la vecchia regina, così ho escogitato un piano migliore, che mi avrebbe permesso di raggiungere l'obiettivo di uccidere subito il mio nemico. Ho deciso di provare a mettermi in contatto con voi e di aiutarvi a distruggere Connlyn. Era un rischio grosso, ma sapevo che nella peggiore delle ipotesi potevo sempre tornare al piano iniziale, ossia uccidere quel maiale con le mie stesse mani. Poi Liam ha detto che vi conosceva e che eravate tornato a Gallowa. Capii che gli dèi avevano ascoltato le mie preghiere, di certo non li avrei delusi. Poi Liam è tornato l'altro ieri con la vostra lettera, quella in cui mi davate le indicazioni per raggiungervi, e dopo poche ore Martha è morta." "L'altro ieri? Perdonami, amico mio, non lo sapevo. Devi essere sconvolto." Scosse il capo e piegò la bocca all'ingiù. "Non molto, anzi non lo sono affatto, sebbene la cosa possa sembrarvi strana. Sono tutt'altro che disperato. Soffro e piango per aver perso l'amore di mia sorella, ma sono davvero sollevato all'idea che finalmente abbia smesso di soffrire, perché negli ultimi anni la sua vita è stata priva di qualunque gioia..." Guardò un punto lontano, poi scrollò le spalle. "Naturalmente Connlyn non era lì al momento della sua morte. Dubito persino che quel bastardo sappia che se ne è andata. Ma finalmente è lontana dalle sue grinfie. Ho preso le sue spoglie e le ho portate via su un carro; poi le ho sepolte in un posto sicuro, trovato qualche settimana fa, un posto che le sarebbe piaciuto molto, e subito dopo sono venuto a cercarvi. Tuttavia mi sono premurato di avvertire i suoi uomini che sarei andato a seppellire Martha, in modo che non si insospettissero troppo non vedendomi tornare per qualche giorno. In effetti, mi considerano un essere inutile, talmente insignificante da non meritare la loro attenzione. Ma Connlyn potrebbe decidere di farmi uccidere, ora che non ha più niente con cui ricattarmi." "E lascerai che ti uccida?" Lanar mi sorrise e parlò sottovoce, scuotendo il capo. "Credo avrà ben altro per la testa la prossima volta che mi vedrà. Può darsi che non penserà affatto a uccidermi." "Bè, eccoci arrivati al dunque... suppongo che tu abbia qualcosa in mente. Di che si tratta?" "Voglio mettere fine a questa guerra. E a quel viscido di Connlyn... io lo chiamo così. Metteremo fine alla guerra insieme, distruggendo Connlyn." "Ma come possiamo fare? Mi hanno detto che la sua fortezza è inaccessibile. Liam dice che quel forte esiste da mille anni e che finora nessuno è mai riuscito a espugnarlo." Lanar mi lanciò un'occhiata di vero scherno. "E chi glielo ha detto? Uno che ha mille anni? Quella fortezza è stata espugnata ai tempi del mio bisnonno, di cui io oggi porto il nome. Lo so perché il racconto di quell'assedio fa parte delle tradizioni orali della mia famiglia. Prima di allora era nelle mani di un pazzo sanguinario che terrorizzò l'intero territorio, fino a suscitare l'ira dei Romani e causare la sua stessa rovina. Il mio bisnonno, che divenne noto come Lanar il saggio, espugnò la fortezza e uccise il pazzo. E poiché era davvero un uomo saggio, si assicurò che quanto da lui compiuto potesse essere fatto anche in futuro, se mai ce ne fosse stato bisogno." "E di cosa si tratta?" Mi stavo sforzando di non sorridere davanti a quello che mi sembrava un racconto inventato, ma la sua risposta fece subito svanire il mio scetticismo. "Scavò un buco e ci affidò il più grande segreto di famiglia mai esistito. Viene tramandato di padre in figlio e io ora sono l'ultimo a conoscerlo. Il mio antenato Lanar era già vecchio all'epoca, ma era stato addestrato secondo gli usi romani e aveva prestato servizio per anni e anni come ufficiale della legione, ottenendo anche il titolo di tribuno. Era un ingegnere, specializzato nel movimento dell'acqua. Quando ero ragazzo lo sentivo chiamare con il termine "zappatore"..." "Uno zappatore, santi numi! Scavava gallerie!" Lanar chinò il capo con aria compiaciuta. "Sì, esatto, ed è così che è riuscito a espugnare la fortezza. Innanzitutto, essendo un conflitto locale, che si svolgeva molto vicino a casa, ma lontano da guarnigioni numerose, usò i suoi vecchi contatti militari per ottenere il consenso da parte di una commissione di invadere il forte e giustiziare il folle sovrano ribelle. Quindi pose l'assedio al forte sulla collina, facendo lavorare continuamente i suoi scavatori per mesi. Ho sentito dire che ci vollero otto mesi pieni per portare a termine l'assedio. Scavarono una lunga galleria nella collina sotto il forte, superando i terrapieni del castello e arrivando fino al primo fossato interno. A quel punto il forte cadde nel giro di poche ore." Il cuore mi martellava nel petto, esaltato com'ero al ricordo delle Caverne del Re che si trovavano sotto il castello di Ban in Benwick. "Otto mesi di scavi! E che ne è stato della galleria?" "È ancora lì, anche se oggi nessuno si rammenta della funzione da essa avuta un secolo fa, quando fu scavata. Io ci sono entrato. Ora sembra una semplice caverna nel fianco del primo terrapieno difensivo della fortezza, usata per conservare attrezzi e strumenti pesanti. Ma la parete in fondo è spessa soltanto dieci passi e dopo un primo strato di argilla levigata rimane solo del pietrisco leggero. Dietro di essa si cela la galleria. Si inclina bruscamente verso il basso alla base della collina, poi si snoda per circa duecentocinquanta passi sotto terra prima di finire in un'altra caverna, situata a ovest della collina in una vecchia miniera da cui i Romani estraevano la pietra per le pavimentazioni. Anche lì l'ingresso della galleria è nascosto e bisogna scavare per trovarlo, ma sono convinto che, una volta sferrato l'attacco, l'intero assedio volto alla riconquista della roccaforte si concluderà in mezza giornata..." Non c'era nulla di profetico nelle sue parole; aveva soltanto affermato una verità nota, sulla base della quale decidemmo di agire all'istante. Riunii subito a consiglio i miei comandanti e quelli di Tod e quest'ultimo fece da interprete per i propri uomini, quindi ideammo un piano molto semplice che, se fosse andato in porto - e non vedevo ragione per cui non dovesse accadere, calcolando sempre di avere un pizzico di fortuna -avrebbe prodotto un risultato a dir poco miracoloso: la fine della guerra che stava dissanguando Camelot da quasi tre anni. Tod avrebbe mandato ancora una volta Liam alla roccaforte di Connlyn per annunciare che sarebbe arrivato il giorno seguente insieme a Mordred, ma che non si sarebbe presentato se prima non fosse stato sicuro che lo zio li avrebbe accolti di persona. Il suo sarebbe stato un messaggio dal tono bellicoso e stizzito, tramite cui rispecchiare lo sdegno di un sovrano snobbato, che si era visto costretto a trattare con subalterni e intermediari. Connlyn non sarebbe certo rimasto sorpreso, perché sapeva benissimo di aver trattato il figlio di sua sorella con arroganza e indifferenza. Il tono dunque doveva essere abbastanza deciso, quasi intimidatorio, per sottintendere che se non avesse soddisfatto le richieste di Tod, il re sarebbe ritornato a Gallowa con il suo giovane nipote. Nel frattempo, mentre il messaggio di Tod veniva recapitato e Liam aspettava una risposta, gli uomini del re di Gallowa, di concerto con i miei cavalieri franchi, si sarebbero avvicinati alla collina su cui sorgeva il forte, cercando di non farsi vedere dall'alto. Intanto io, accompagnato dai miei arcieri dei Pendragon e dai venti uomini più forti fra quelli di Tod, tutti armati di picconi e badili, stavo per attaccare i blocchi che ostruivano la galleria nella collina. Se i calcoli di Lanar erano giusti e la galleria aveva almeno un secolo, le probabilità che si fossero verificati crolli e cedimenti nel corso degli anni erano piuttosto alte. Se così fosse stato, avremmo dovuto aprirci un varco in mezzo a un mucchio di macerie, sperando di riuscire ad arrivare in fondo. Se non ci fossimo riusciti, invece, saremmo tornati ad aspettare che Connlyn uscisse dal suo rifugio e, dopo che Tod aveva promesso di arrivare il giorno seguente con il ragazzo, quell'alternativa sembrava molto meno allettante. Cercai di consolarmi pensando che il bisnonno di Lanar, colui che aveva ideato e fatto scavare quella galleria, era stato un ingegnere militare professionista e aveva dedicato otto mesi a quel progetto, il che lasciava supporre che avesse operato con cautela, prestando molta attenzione ai requisiti fondamentali per la sicurezza. Così, mentre conducevo i miei uomini verso la miniera, al calar del sole, ero madido di sudore per l'agitazione. Scoprimmo con gioia che la galleria di Lanar era praticamente intatta, asciutta e persino ben areata, cosa che permise ai nostri uomini di lavorare in modo relativamente tranquillo senza avere paura di soffocare, e alle nostre torce di emanare una luce vivace senza produrre fumo. Più tardi, a battaglia conclusa, quando esaminammo con maggiore attenzione la galleria, scoprimmo che Lanar aveva aggiunto dei condotti per l'aria prima di sigillarla e nasconderne le entrate, ragion per cui un secolo dopo i nostri "zappatori" erano riusciti a liberare in così breve tempo l'accesso dai detriti che lo bloccavano. Quando fummo sicuri di aver raggiunto il sottile strato di viscido fango che chiudeva la caverna dall'altra parte della galleria, ordinai di spegnere le ultime torce; ormai eravamo arrivati così lontano che non volevo rischiare di venire scoperti per colpa di un bagliore intravisto da qualche fessura in quello che in teoria doveva essere il compatto fianco di una collina. Nel cuore della notte mi ritrovai nel buio pesto ad ascoltare ogni piccolo rumore prodotto dalla cinquantina di persone che mi circondava. Sentivo persino il sangue che mi pulsava nella testa. Tirai un respiro profondo, poi dissi: "E sia, allora. Buttiamolo giù". Il silenzio durò pochi istanti, dopodiché si produsse un tonfo improvviso e il rumore di macerie che crollavano, troppo leggero per trattarsi di roccia e, come speravo, troppo debole per essere udito da una certa distanza. Poi ci fu un altro colpo, ancora meno forte, dopo il quale cominciai a vedere delle sagome davanti a me, mentre un flebile bagliore appariva al di là del varco appena apertosi all'estremità della galleria. Aspettammo ancora, con il fiato sospeso e l'orecchio teso, temendo di udire un eventuale segnale di allarme. Alla fine poi riprendemmo a respirare normalmente. "Andiamo, ragazzi. Uscite senza fare rumore" mi raccomandai, pur sapendo che non ce n'era bisogno. Gli esploratori dei Pendragon si muovevano sempre come fantasmi, poiché le loro vite dipendevano dalla loro capacità di essere furtivi, sia di giorno sia di notte. Mentre le loro sagome mi passavano davanti nella penombra, le contai meravigliandomi del fatto che, sebbene riuscissi a vederle, non sentivo alcun rumore. Io intanto non avevo fretta di lasciare il rifugio all'imbocco della galleria, non perché avessi paura di uscire, ma perché indossavo un'armatura che al minimo movimento avrebbe fatto un gran fracasso: finché c'era silenzio lì fuori e le guardie di Connlyn non davano l'allarme, la mia presenza sarebbe stata un inutile inconveniente. Così restai dov'ero, in attesa di sentire le grida e il clangore delle armi, segno che eravamo stati scoperti. Aspettai anche più del previsto e anche se stentavo a crederci, iniziai a rendermi conto che le nostre probabilità di riuscita in quell'impresa così audace aumentavano di minuto in minuto. Il silenzio perdurava e io mi chiedevo come fosse possibile che dopo tanto tempo nessuno ci avesse ancora scoperti. A poca distanza da me le guardie venivano uccise, e si sa che è difficile o quasi impossibile uccidere qualcuno in assoluto silenzio. I sudditi di Connlyn credevano di essere perfettamente al sicuro in quella fortezza che veniva considerata inespugnabile, non sapevano che ci trovavamo nella regione e aspettavano l'arrivo del re di Gallowa, con il nipote della sorella di Connlyn al seguito, per il giorno dopo, perciò erano convinti di non correre rischi. Tuttavia erano pur sempre abbastanza numerosi da poterci annientare, se avessero avuto la possibilità di riorganizzarsi prima che noi terminassimo la nostra avanzata, ma dato che il silenzio si protraeva e le guardie venivano uccise senza far rumore, le probabilità che accadesse una cosa del genere erano sempre più remote. Vidi Gwin, accompagnato da Gattric, il capo degli esploratori, tornare verso di me con aria furtiva e capii che l'alba era vicina. Mentre si avvicinava, Gwin si portò un dito alla bocca, come per dirmi di tacere. Ma proprio in quel momento un lungo e gorgogliante grido vanificò tutti i suoi sforzi, così lui si drizzò di colpo, si guardò attorno e infilò una freccia nel suo lungo arco. "Si aprono le danze, finalmente" borbottò. "Per un attimo ho pensato che li avremmo uccisi tutti senza che nessuno se ne accorgesse." Indicò con il pollice il muro esterno del castello che si trovava alle sue spalle. "I cancelli sono spalancati, le guardie tutte morte. Non ci sono superstiti nell'anello più esterno e neanche nei due successivi. Abbiamo il controllo dei passaggi rialzati, perciò i nostri uomini potranno attraversare i fossati senza problemi, e se qualcuno era sveglio quando siamo arrivati a quest'ora sarà morto. La maggior parte dei nemici si trova al centro, come avevamo previsto. Dovremo affrontare qualche aspro combattimento per arrivare fin lì, ma per fortuna siamo già a metà strada. Gli uomini di Tod dovrebbero varcare i cancelli da un momento all'altro ormai, e io ho lasciato indietro alcuni dei miei per guidarli verso i passaggi rialzati, tramite i quali superare i fossati. Bors e i suoi cavalieri dovranno aspettare fuori ed eliminare chiunque tenti di uscire." Annuii per ringraziarlo di quel rapporto e lui grugnì con aria impaziente. "Devo tornare indietro. Siamo a corto di frecce e tra un po'"si combatterà solo con le spade. Vieni con me?" "Sì, andiamo. Io ti starò al fianco." Ho solo ricordi sfocati della mischia che seguì, perché in quella battaglia svolsi un ruolo da spettatore a cui non ero abituato. Il forte era formato come da serie di grandi anelli concentrici - alti e ripidi ammassi di terra e breccia separati da larghi e profondi fossati - e nel centro c'era un'area pianeggiante in cui si trovavano gli alloggi delle guardie e che fungeva da punto di adunata. Era una formazione difensiva praticamente impenetrabile a meno che qualcuno all'interno non avesse tradito i compagni o, come nel nostro caso, qualcuno all'esterno non conoscesse il punto debole della costruzione e lo sfruttasse per un attacco a sorpresa. Noi ci eravamo riusciti: avevamo conquistato i passaggi rialzati, ovvero ponti levatoi lunghi e resistenti che consentivano ai difensori di correre da un anello all'altro attraversando i fossati, mentre gli invasori tentavano di salire arrampicandosi sui pendii scivolosi di questi canali. Una volta giunti alla prima serie di ponti, i nostri arcieri erano riusciti a eliminare i difensori degli altri e a impedire che le passerelle venissero distrutte o gettate nel vuoto sottostante. Adesso che mi trovavo sull'ultimo anello difensivo prima della zona piana centrale, a pochi passi da uno di quei ponti, guardavo gli arcieri dei Pendragon usare le loro ultime frecce, lunghe e letali, per uccidere senza fatica i nemici troppo lontani e mi chiesi cosa sarebbe successo quando i proiettili fossero finiti. A quel punto niente avrebbe impedito ai nemici di riunirsi nella zona centrale, costringendo i nostri uomini ad avvicinarsi passando su quei ponti levatoi, che ora sembravano così stretti e fragili. Fra i nemici quasi tutti avevano un proprio arco, me ne accorsi solo allora che la luce si faceva più forte. Non avevano niente a che vedere con i lunghi archi dei Pendragon, ma sarebbero stati letali se sfruttati a dovere contro una fila di uomini che percorrevano uno stretto ponte. Sentii un crescendo di urla alla mia destra, quando i guerrieri di Gallowa cominciarono a sciamare attraverso i cancelli, e poi vidi un gruppo di uomini - una decina o forse di più - correre verso di noi dall'anello esterno lungo i passaggi rialzati, ognuno con una pesante faretra a tracolla piena di lunghe frecce. Gattric, che si trovava un po'"più avanti di me, indicò loro di avanzare, e io mi posizionai accanto a lui. "Gwin mi ha detto che stiamo per rimanere a corto di frecce" dissi. Gattric mantenne lo sguardo fisso sui suoi uomini. "Sì, ma voleva dire che iniziano a scarseggiare" borbottò a denti stretti, come se mi stesse facendo una confidenza molto intima. "Facciamo sempre in modo di non rimanere mai del tutto sprovvisti, perché se dovesse succedere significherebbe la nostra morte. Adesso siamo quasi alle ultime scorte, le useremo solo per difenderci... non le scaglieremo più a pioggia come prima, perché non possiamo permetterci di sprecarne neanche una. Dobbiamo assicurarci che i passaggi rialzati siano protetti, finché i ragazzi di Tod non saranno arrivati sani e salvi dall'altra parte per affrontare la parte più importante della battaglia. Sono grossi quei ragazzi e combattono bene... li allevano per questo." Guardammo i suoi uomini distribuire con parsimonia le nuove faretre agli arcieri, che appena le ricevevano correvano a cercare un punto strategico da cui tirare. Cominciai ad avanzare. "Dove vai, franco?" Non avevo sentito Gwin avvicinarsi dietro di me. Mi voltai dalla sua parte, la mano già posata sul fragile corrimano della passerella rialzata, e indicai la zona centrale. "Dove altrimenti?" "Se vai là sei un pazzo, e tra un po'"sarai pure un pazzo morto. Non resisteresti neanche un minuto laggiù. I loro archi non sono lunghi, ma potrebbero sempre raggiungerti. Per adesso non badano a noi, ma se sali sul ponte con indosso quella pesante armatura, li inviterai a usarti come bersaglio. È meglio che aspetti qui con me, finché i guerrieri di Tod non avranno attraversato i ponti, quindi potrai fare lo stesso anche tu. Sei uno dei compagni cavalieri, nonché il comandante dell'operazione, e ho bisogno che tu sia vivo quando tutto sarà finito, perché altrimenti dovrò assumere io il comando e ho altri progetti... E poi cominciano a piacermi i tuoi modi da forestiero." Stavo per replicare con una frase altrettanto ironica, quando udii un rumore di legno spaccato, accompagnato da un coro di urla: uno dei ponti levatoi precipitò nel fossato sottostante, portando con sé tutti quelli che c'erano sopra. L'attacco terminò poco dopo, e quando gli uomini di Gallowa cominciarono a percorrere gli ultimi ponti, i difensori si scagliarono contro di loro, rassicurati dall'assenza di frecce letali. L'entusiasmo dei nostri nemici, infatti, svanì con la stessa rapidità con cui era sbocciato, quando le frecce cominciarono a volare di nuovo, non a pioggia come prima, ma scoccate meticolosamente una o due alla volta allo scopo di colpire i bersagli con una potenza terrificante, malgrado la breve distanza, e perforare persino le armature più robuste. A un tratto un gigantesco guerriero con i capelli biondi e il ventre prominente venne avanti di corsa, gettò a terra la sua ascia e alzò le mani aperte per indicare che si era arreso. Il suo esempio fu contagioso e nel giro di pochi istanti molti altri uomini cominciarono a gettare le armi e a sedersi a terra in gruppi, chiaramente decisi a non combattere più. Mi voltai di nuovo verso Gwin e vidi che mi stava osservando con un sopracciglio inarcato. "Si sono arresi" disse. "Riesci a crederci?" Mi venne spontaneo sorridere: "Sì, ci credo. Sembra che non avessero molte alternative e per la maggior parte delle persone la vita è sempre preferibile alla morte". Guardai il centro del forte, dove il numero degli uomini che si arrendevano aumentava a vista d'occhio. C'erano centinaia di persone laggiù, molte di più di quante mi aspettassi, fra cui anche donne e bambini. Era una zona vasta, comunque, per lo più occupata da capanne e rudimentali edifici in pietra, perciò non riuscivo ad abbracciarla tutta con lo sguardo o a rendermi conto di cosa stesse succedendo nella parte più lontana, anche se potevo vedere chiaramente molti dei nostri uomini muoversi in mezzo ai nemici senza incontrare resistenza. "Credo sia giunto il momento di passare dall'altra parte." "Sì, vengo con te. Ma dov'è Connlyn? Siamo venuti qui per scovare quel bastardo e di lui non c'è neanche l'ombra. Secondo te è ancora qui o ci è sfuggito di nuovo?" "Non mi è mai sfuggito, Gwin, e dubito che lo farà ora." Scendemmo dalla stretta passerella e giungemmo sull'isola centrale del forte, dove i nostri uomini stavano già raggruppando i superstiti in varie file, privandoli delle armi e mettendoli sotto sorveglianza. Fu allora che sentii qualcuno gridare il mio nome. Bors e Quinto Milo che mi facevano segno con la mano dal ponte levatoio alla mia sinistra. "Ci vediamo dopo" dissi a Gwin. "Devo cominciare a ristabilire l'ordine qui, e per farlo ho bisogno di parlare con Bors e Milo." Neanche un'ora dopo, l'ordine era ristabilito. La maggior parte dei prigionieri per il momento era tenuta sotto custodia in uno dei profondi fossati esterni, ma nessuno aveva ancora avvistato Connlyn. Convinto di essere stato snobbato di nuovo dallo zio, Tod era livido di rabbia e, sebbene fossi anch'io ugualmente contrariato, lo sguardo furioso con cui Tod si guardava intorno stimolò la mia curiosità e mi spinse a chiedergli se avrebbe riconosciuto Connlyn, qualora si fossero trovati faccia a faccia. "No" mi confessò, fumante di rabbia. "È per questo che sono così infuriato. Non ho mai incontrato di persona quel bastardo di mio zio." Scoppiai in una risata inopportuna e quando distolsi lo sguardo da Tod vidi un uomo spuntare da dietro il muro di un edificio, a meno di dieci passi da noi. Indossava una lunga tunica grigia e si dirigeva lentamente verso il ponte levatoio più vicino con un bastone da passeggio. Non si era accorto che io e Tod eravamo lì; lo riconobbi all'istante e fu un vero shock, anche a causa di quello che il re di Gallowa aveva appena detto. Sguainai subito la spada e mi precipitai a catturare l'uomo con la tunica prima che potesse raggiungere il ponte, lasciando che Tod mi corresse dietro. C'erano due delle nostre guardie all'inizio del ponte, una per ogni lato, e tutte e due aggrottarono la fronte quando mi videro precipitarmi da quella parte. Indicai l'uomo e feci loro segno di fermarlo: le due guardie incrociarono le lance davanti a lui, dandomi tempo di arrivare e posargli la lama della mia spada sulla spalla destra. "Connlyn" dissi. "Mi chiedevo dove fossi finito." L'uomo si voltò piano, fingendo di non aver fatto nulla di male, e vide Tod per primo. Era evidente che non aveva idea dell'aspetto di suo nipote. Lo squadrò da capo a piedi con aria fredda e disinteressata, pronto a lanciare un commento raggelante e sdegnoso, quando si accorse di me e mi riconobbe con la stessa velocità con cui l'avevo riconosciuto io. Corrugò la fronte, quindi all'improvviso si acquattò e mi colpì forte sul ginocchio destro con il pesante bastone; mentre cadevo a terra, lo vidi agitare il bastone con un ampio movimento circolare e colpire alle gambe una delle due guardie, senza che Tod avesse il tempo di reagire. La guardia precipitò nel baratro alle sue spalle con un grido, cui fece eco quello del compagno, ma a quel punto Connlyn era già sulla passerella del ponte levatoio, e correva veloce, togliendosi la lunga tunica di dosso. Per quanto fossi accecato dal dolore, ricordo di essermi stupito per la velocità con cui correva, dato che non era più un giovanotto. Ma qualcuno doveva aver sentito le urla delle guardie e avermi visto a terra, perché subito dopo sentii di nuovo il rumore secco e sibilante delle frecce che fendevano l'aria. La prima colpì Connlyn alla schiena, sotto la scapola destra, e lo fece cadere a terra a faccia in giù, mentre la successiva mancò il bersaglio passandogli sopra. Dopo quella nuova esplosione di violenza, restammo completamente immobili a guardare Connlyn allungare una mano in cerca di un appiglio e poi alzarsi a fatica con la testa penzoloni. Si voltò piano, ma con una tenacia, a fissarmi e quando incontrò il mio sguardo riuscì a fatica a estrarre un coltello dalla cintura con la mano sinistra. Sapevo che aveva la fama di essere un lanciatore di coltelli micidiale, ma avevo dimenticato che era mancino, anche se ero certo che non avesse abbastanza forza per colpirmi da quella distanza. Quando sollevò il braccio per tirare, venne colpito da altre due frecce: la prima lo prese in pieno petto trafiggendogli il cuore, mentre la seconda gli si conficcò quasi contemporaneamente nella tempia sinistra. Il primo impatto lo spinse indietro e il secondo gli fece perdere del tutto l'equilibrio, tanto che cominciò a girare su se stesso fino al bordo della passerella e cadde nel fossato. La sua scomparsa fu seguita da un lungo silenzio e subito dopo da un'esclamazione collettiva, quasi un sospiro; poi tutti ripresero a muoversi. Più tardi, quella sera, quando ci ritrovammo intorno al fuoco a ripercorrere gli eventi della giornata, stentavamo a credere che alcune cose fossero accadute sul serio. Avevamo perso solo dieci uomini in tutta l'operazione, tre arcieri e sette guerrieri di Gallowa, ma le vittime fra gli uomini di Connlyn erano state una cinquantina, per lo più soldati uccisi nella fase iniziale dell'assedio. Il combattimento corpo a corpo aveva avuto vita breve e procurato diverse centinaia di prigionieri, i quali avevano capito che non valeva la pena di morire per Connlyn e per la sua causa. Il che ovviamente ci aveva lasciati con un altro problema: cosa farne. Fu Tod di Gallowa a proporre di lasciarli semplicemente andare e, anche se all'inizio ottenne in risposta solo incredulità e sdegno, alla fine il suo ragionamento ci convinse che quella era la soluzione migliore. Noi due avevamo discusso senza riserve della situazione nella Britannia settentrionale e io gli avevo parlato dei dubbi che molti di noi nutrivano riguardo alla fedeltà di Simmaco di Chester, così adesso Tod mi ricordò quello che avevo detto; quando sentì pronunciare il nome di Simmaco, Lanar drizzò la schiena e ci chiese se parlavamo del re della grande fortezza situata nel lontano Ovest. Ci disse che non lo aveva mai incontrato, ma che aveva conosciuto uno dei suoi messaggeri per Connlyn, un uomo al quale piaceva vantarsi di quanto fosse importante e di quanto fossero fondamentali i suoi servigi per il re Simmaco. Naturalmente Lanar aveva dato da bere a quell'uomo qualcosa di forte e gli aveva spillato con delicatezza tutte le informazioni possibili sui rapporti che intercorrevano fra il suo amico Simmaco e Connlyn. I ricordi di Lanar ci fornirono le prove di cui avevo bisogno per smascherare il perfido Simmaco. Ma dopo che ebbe ascoltato tutto quello che Lanar aveva da dire, Tod mi sorrise e mi fece notare che già l'illacrimata scomparsa di suo zio aveva sciolto ogni dubbio di Camelot nei confronti di Simmaco. Da quello che ci aveva raccontato Lanar, ormai era piuttosto evidente che Connlyn aveva fatto da cuscinetto per proteggere Simmaco e il suo regno di Chester dalle rapaci orde di stranieri controllate da lui e che per un servizio così prezioso era stato ricompensato con informazioni altamente riservate, che riguardavano i piani d'azione di Camelot durante la campagna al Nord. Ora che Connlyn era morto, niente poteva impedire ai suoi alleati di marciare in massa verso Chester, costringendo Simmaco a entrare in guerra per difendere i suoi territori. Nessuna delle due parti aveva scelta in quella situazione, osservò Tod. L'esercito che era appartenuto a Connlyn poteva espandersi soltanto verso ovest, ora che non aveva più una guida ed era vulnerabile, perché non c'erano altri uomini con le qualità del signore della guerra appena morto. Era penetrato nella Britannia fino al limite massimo e tutti i territori situati a est o a sud erano già controllati dai nuovi arrivati, invasori come loro, che avrebbero difeso a ogni costo i nuovi possedimenti. Poteva dirigersi soltanto a ovest per conquistare nuovi territori e lì il suo maggiore ostacolo, l'unico elemento che avrebbe potuto frenarlo o addirittura sconfiggerlo era Chester, la grande fortezza dei legionari un tempo conosciuta come Deva, che oggi ospitava Simmaco e il suo esercito... un esercito amorfo e misterioso, che fino ad allora non aveva mai dovuto combattere, poiché era al sicuro dentro le grandi mura della fortezza, convinto che la propria reputazione avrebbe tenuto lontano qualsiasi attacco. Una volta che Simmaco fosse stato impegnato in uno scontro diretto per salvarsi la vita - e mi resi conto di quanto fosse vero, non appena Tod mi ci fece riflettere - non avrebbe più avuto il tempo di tramare contro Camelot. Infatti, ignaro di quanto da noi scoperto, probabilmente ci avrebbe addirittura chiesto aiuto, in base alle condizioni previste dal suo patto con Artù. Quando me ne resi conto provai una punta di egoistica e anche un po'"maligna soddisfazione. Adesso che stavo per tornare a Camelot con le prove fornitemi da Lanar - o meglio con Lanar stesso, il quale voleva presentare quelle prove di persona - il patto di alleanza stretto con Simmaco sarebbe stato annullato e lui non avrebbe più potuto avanzare pretese su Camelot, a meno che non avesse deciso di combattere su due fronti diversi, dichiarando guerra a noi e agli invasori stranieri. La mia soddisfazione, però, non derivava tanto da questo, quanto piuttosto dal fatto che lo scioglimento di quell'accordo e la prova della infedeltà di Simmaco avrebbero liberato Artù e Ginevra dal patto di non generare eredi. Quella sera andai a letto con la piacevole consapevolezza di aver fatto senza ombra di dubbio un buon lavoro, sicuro che le notizie gioiose e sorprendenti che avremmo riferito nella parte occidentale della Britannia, durante il nostro viaggio verso sud, avrebbero reso felice chiunque le avesse sentite. IV Prima di poterci dirigere a sud, dovemmo passare ancora una volta a nord: avevamo ricevuto molti rapporti, troppi per ignorarli, in cui si diceva che la foresta a sud era ancora più fitta e impervia di quella da noi attraversata quando eravamo diretti al forte di Connlyn. Così dopo averli privati delle armi e delle armature, rilasciammo i prigionieri e ripercorremmo i nostri passi fino a raggiungere di nuovo il Vallo. Con i suoi soldati da noi rinchiusi nella fortezza sulla collina, la notizia della morte di Connlyn non si era ancora diffusa, e ciò significava che ci stavamo addentrando in un territorio nemico, i cui abitanti non sapevano nulla della morte del loro capo. Lanar ci aveva informati che il nemico poteva resistere sul campo per settimane, addirittura per mesi senza ricevere ordini diretti da Connlyn, il quale notoriamente non comunicava granché con i suoi alleati, non perdeva tempo in sottigliezze, ma pretendeva di ottenere l'obbedienza e la sottomissione assolute attraverso la crudeltà e il terrore, usando una ferocia implacabile che uomini civilizzati come noi non potevano neanche immaginare. Lanar sosteneva che, avendo continuamente a che fare con dei selvaggi, molto più simili alle bestie che al genere di persone a cui noi eravamo abituati, Connlyn aveva da lungo tempo deciso che l'unico modo per dominarli e costringerli a fare quello che voleva era superarli in brutalità. Dopo la battaglia tenutasi al forte, i miei uomini avevano scoperto il nascondiglio in cui Connlyn aveva lasciato l'armatura e qualsiasi altra cosa potesse rivelare la sua identità. Connlyn era più ingegnoso e intraprendente di quanto immaginassi, perlomeno quando si trattava di far notare la sua presenza. La sua armatura era enorme ed era stata creata con un duplice fine: far sembrare più grosso l'uomo che la indossava e non lasciare alcun dubbio sulla sua identità. Era formata da vari strati di pelle di toro, bollita e martellata mentre era ancora umida e malleabile, in modo tale che assumesse la forma del suo corpo muscoloso, ed era tinta di un verde sgargiante e violento, il verde giallastro delle foglie di quercia in primavera. L'elmo in particolare era costruito in modo assai elaborato, perché la parte superiore a calotta era sormontata da una sorta di piedistallo a quattro gambe, alto e stretto, che sosteneva un teschio umano dipinto di verde, anziché il solito pennacchio di crine. Dato che non avevo un posto migliore in cui metterla e in quel momento non sapevo proprio cosa farmene, avevo ordinato ai miei uomini di portare l'armatura al nostro accampamento e di lasciarla nella mia tenda; così quella sera, dopo che tutti erano andati a letto, mi ritrovai a contemplarla. Forse fu proprio quel verde, che la rendeva immediatamente riconoscibile, a farmi decidere di utilizzarla, ma in ogni caso quella decisione mi liberò da un pensiero che mi stava angustiando da tempo. Non ricordo chi mi avesse fatto notare che nessuno all'infuori di noi sapeva della morte di Connlyn, ma l'osservazione ci aveva subito portati a discutere sul bisogno di fornire un qualche tipo di prova per dimostrare che il signore della guerra era morto e qualcuno aveva suggerito che il modo migliore fosse tagliargli la testa e portarla con noi conservata nella salamoia durante il nostro viaggio verso nord. Avevo qualche riserva ad accettare quella proposta, la prima delle quali di carattere prettamente personale e tutt'altro che militare: grazie alla mia istruzione e alla mia educazione avevo imparato a rifuggire da quel genere di cose. La violenza in guerra era giustificabile, quando c'era una giusta causa o una sufficiente provocazione, ma la barbarie mai. I cristiani civilizzati non indulgevano a quel genere di azioni, e mettere una testa in salamoia era un atto di barbarie bello e buono. Non mi importava se gli altri facevano certe cose e rimanevo indifferente davanti agli argomenti usati per spiegare l'efficacia e l'immediatezza di quei metodi. Ero stato coinvolto in una guerra civile e fratricida quando avevo solo sedici anni e avevo visto più atrocità io in quei pochi anni che la maggior parte della gente nel corso di una vita. Sapevo per esperienza che il capo reciso di un uomo non si distingueva da quello di un altro, una volta privato del sangue e della vita e ricoperto di sporcizia e grumi di sangue. E poiché sapevo che erano in pochi ad aver conosciuto bene Connlyn, il signore della guerra, quando era in vita, dubitavo che qualcuno fosse in grado di riconoscerlo nelle sembianze della sua testa mozzata. La sua sgargiante armatura verde, invece, con il teschio al posto del pennacchio, era tutto un altro paio di maniche. Chiunque fra i suoi sudditi avrebbe riconosciuto Connlyn grazie a essa, persino da una notevole distanza, e anche chi non lo aveva mai visto prima lo avrebbe identificato sulla base delle descrizioni sentite sulla sua meravigliosa armatura e del terrificante teschio verde che ostentava. Per questi motivi, quindi, pensai che siccome nessuno sapeva ancora della morte di Connlyn, vederlo vivo, o almeno crederlo tale, avrebbe contribuito parecchio ad assicurarci un passaggio sicuro attraverso i territori occupati dalle sue armate. Compiaciuto della mia idea e leggermente allettato dalla sua stravaganza, mi avvicinai all'armatura, presi l'elmo e me lo misi in testa, ma scoprii che era talmente stretto che non riuscivo a calcarlo. Un po'"sbigottito esaminai l'oggetto per vedere se si poteva allargare la calotta di cuoio interna e ingrandire l'apertura in qualche modo. Non si poteva. L'elmo, che dall'esterno sembrava di una misura normale, era stato appositamente creato per stare sulla testa di Connlyn e a quanto pareva questa era molto più piccola della mia. L'involucro esterno era stato reso più spesso in modo da nascondere le reali dimensioni della testa. Incuriosito andai verso l'apertura della tenda e chiesi a una delle sentinelle di guardia di entrare, quindi gli feci togliere l'elmo e indossare quello verde. La testa della guardia doveva essere più grande della mia e l'elmo verde sembrava davvero ridicolo appoggiato sulla sua zucca pelata. Seguirono altri esperimenti, ma ben presto fu chiaro che nessuno nel nostro accampamento aveva la testa così piccola da poter indossare l'elmo del signore della guerra. Tutti cominciarono a prendersi gioco di quel grande farabutto dalla testa minuscola. Diverse ore più tardi, Gwin tornò all'accampamento dopo aver trascorso la serata a esplorare il forte sulla collina. Non appena gli spiegammo a cosa era dovuto tutto quel baccano, Gwin prese l'elmo e se lo infilò senza difficoltà, mettendo a tacere ogni ilarità. Nessuno, infatti, avrebbe mai osato offendere uno dei più illustri cavalieri di Artù. Da quel momento, ogni volta che percorremmo una strada, Gwin indossò l'armatura verde accompagnato da un gruppo di nostri esploratori con indosso gli abiti che avevano recuperato da alcuni soldati morti, di una qualità chiaramente diversa da coloro che nel forte si erano arresi. Questi soldati, una trentina in tutto, avevano cercato di sfuggire alla nostra trappola combattendo, finché non erano caduti uno dopo l'altro sotto le frecce dei Pendragon. Lanar li aveva in seguito identificati come le guardie del corpo personali di Connlyn che, famose per la loro brutalità, si distinguevano dalle altre grazie alle loro tuniche verdi. Avevo spiegato a Gwin l'importanza dell'armatura verde, nonché il risultato che speravo di ottenere grazie a essa, e lui non aveva sollevato obiezioni davanti all'eventualità di indossarla e di montare a cavallo, anche se sapevo che sarebbe stato molto più a suo agio ad andare a piedi insieme ai suoi esploratori. Questi dal canto loro, con mia grande sorpresa, si divertirono quasi a fingere di essere le guardie del corpo di Connlyn. I seri uomini della Cambria, di norma silenziosi, arcigni e notoriamente schivi, di fronte all'opportunità di distrarsi con una pantomima, si calarono nella parte con divertito entusiasmo. Quasi tutte le tuniche che dovevano indossare erano state perforate dalle frecce, perciò non erano né strappate né danneggiate in modo grave, ma solo sporche di sangue. Gli esploratori si presero la briga di lavarle e rilavarle fino a quando le macchie non sparirono quasi del tutto. Visti da una certa distanza, mentre marciavano con i lunghi archi senza corde appoggiati sulla spalla come se fossero lance, sembravano proprio ciò che dovevano sembrare. Incontrammo tre folti gruppi di nemici nel giro di quattro giorni e non avemmo rapporti con nessuno dei tre. Tutti riconobbero da lontano l'appariscente armatura di Connlyn e le tuniche verdi delle sue guardie, così si tennero a debita distanza e ci lasciarono in pace. Quando finalmente raggiungemmo di nuovo il Vallo, guidai i miei uomini verso est per una ventina di miglia senza mai fermarmi, superando quelli che un tempo erano i possedimenti di re Ushmar, il quale era morto ormai da più di quattro anni, e raggiungendo infine la roccaforte principale di Connlyn, il luogo in cui lo avevo incontrato la prima volta. Anche allora riuscimmo a passare indisturbati, poiché la sola vista dell'armatura di Connlyn e delle sue guardie vestite di verde veniva accettata ovunque come la prova della sua identità. I nostri esploratori andati in avanscoperta ci riferirono che la fortezza era pressoché deserta, con solo poche guardie in servizio e tutti gli abitanti evidentemente tranquilli perché convinti di essere al sicuro lì, nel cuore del regno di Connlyn. Aspettammo nel bosco circostante che scendesse la sera, quindi lasciai i nostri cavalieri franchi nascosti lì e, seguito dalle "guardie del corpo" e dalla maggior parte degli uomini di Tod che marciavano disposti in file di cinque, cavalcai al fianco di Gwin in direzione dei cancelli principali alla luce del tramonto. Lanar era proprio dietro di noi, pronto a fare da interprete anche stavolta, e ripassava mentalmente le battute che avevamo provato insieme lungo il tragitto. C'era ancora abbastanza luce perché la gente vedesse i nostri sgargianti colori, ma al contempo il buio che iniziava a pervadere tutto ci aiutava a tenere nascosta la nostra vera identità. Entrammo nella fortezza senza difficoltà. Gwin oltrepassò con gran fracasso il corridoio che si trovava fra le due torri di guardia sorvegliate e poi lasciò che lo guidassi verso la piazza d'armi principale situata davanti alla villa di Connlyn. Prima che arrivassimo sul posto, le persone si stavano già accalcando per darci il benvenuto e gli esploratori dei Pendragon, che adesso avevano rimesso le corde ai loro archi micidiali, si disposero lesti a semicerchio con le frecce puntate contro di loro, facendole piombare tutte nel silenzio e nella confusione. Nel frattempo, gli uomini di Gallowa, guidati da Tod e dai suoi condottieri, avevano rotto le righe e si erano sparpagliati sopra le mura e lungo tutto il perimetro del forte, dopo essersi sbarazzati alla svelta delle poche guardie che avevano tentato di opporre resistenza. Io e Gwin restammo in silenzio davanti alla folla radunata di fronte alla villa, finché un uomo, che doveva essere il responsabile quando Connlyn non c'era, fece un passo avanti e si rivolse a Gwin, il volto contratto per lo sconcerto. "Mio signore, Connlyn..." Gwin alzò una mano e interruppe l'uomo a metà della frase, quindi mi indicò. Quando tutti puntarono gli occhi su di me, domandandosi chi fossi, frugai nelle mie bisacce e tirai fuori un involto ben stretto, che lanciai all'uomo che faceva da portavoce. Quello lo afferrò con entrambe le mani, inarcando le sopracciglia in modo ridicolo, e lo aprì per rivelarne il contenuto: una cintura di pelle verde con la fibbia d'argento riccamente ornata e un pugnale con l'impugnatura d'argento altrettanto elaborato, custodito in un fodero di pelle tinta di verde. Quando li sollevò con aria sgomenta, per mostrarli ai presenti, sguainai la mia lunga spada da cavaliere e la tenni in verticale. "Quelli appartenevano a Connlyn" dissi nella loro lingua a voce alta per farmi sentire ovunque e, quando tutti si accigliarono tentando di afferrare il senso di quello che avevo appena detto, portai la spada verso destra e appoggiai con forza la lama sull'uomo con l'armatura verde che si trovava al mio fianco. "Anche questa armatura era sua. Ma l'uomo che la indossa in questo momento non è Connlyn." Erano le uniche parole che conoscevo nella loro lingua - Lanar me le aveva insegnate durante il viaggio -, ma quelle persone mi avevano capito benissimo e, puntati gli occhi su Gwin, lo osservarono sfilarsi l'elmo con entrambe le mani. Quando videro il suo volto, uno strano grido soffocato si levò dalla folla. Gwin appoggiò l'elmo contro un fianco e si guardò intorno, lasciando che il silenzio si protraesse fino a quando io alzai di nuovo la spada e Lanar si fece avanti per farsi vedere. Lo riconobbero all'istante, non c'era dubbio, ma nessuno aprì bocca e prima di parlare Lanar si soffermò a guardare quelle persone una a una, e quando parlò lo fece lentamente, tanto che le sue parole risultarono chiare persino a me. "Mia sorella, la vostra vera regina, è morta. E così pure l'animale che si definiva suo marito, ma che in realtà era il suo carceriere. Ciò significa che adesso sono io il vostro capo." Fece una pausa e passò in rassegna con lo sguardo le facce degli uomini lì presenti. Alcuni di essi lo fissavano con aria di sfida; altri distolsero lo sguardo, incapaci di sostenere il suo. Io, dal canto mio, mi limitai a fare di tutto per mascherare lo stupore che provai nel sentire le parole di Lanar, perché non mi era mai venuto in mente che potesse ereditare il regno dalla sorella. Tuttavia non aveva ancora finito di parlare e adesso le sue parole trasudavano disprezzo in maniera evidente. "Non ho mai avuto il desiderio di governare qui, nemmeno da bambino. E di certo non lo farò ora. Nessuno lo farà. Questi uomini alle mie spalle hanno il potere di decidere se lasciarvi in vita oppure no. Sono di Camelot e io vengo insieme a loro. Adesso ascoltate cosa hanno da dire... le loro parole passeranno attraverso la mia bocca." Si voltò verso Gwin e gli fece cenno col capo; quando Gwin cominciò a parlare con il suo marcato accento da montanaro della Cambria, che rendeva a malapena comprensibile anche il suo latino, Lanar prese subito a tradurre. "Fra voi potrebbe esserci qualcuno pronto a pregare per Connlyn. Lo spero per lui, ha proprio bisogno di preghiere. Questa guerra è finita. Connlyn il guerrafondaio è morto." Si fermò, per lasciare che gli ascoltatori recepissero il concetto. "Connlyn il bastardo è morto. Connlyn il traditore è morto. Connlyn l'assassino è morto. Camelot ha vinto e Artù Pendragon, riotamo della Britannia Unita, sarà autorizzato a mandare qui il suo esercito al completo, se lo vorrà, per cercare un risarcimento ai danni che il vostro sleale signore gli ha arrecato. Perciò se qualcuno di voi vuole pregare per Connlyn e onorare la sua memoria, può farlo e bruciare con lui all'inferno. Quelli di voi che hanno cose migliori da fare e uomini migliori da seguire, farebbero meglio a sbrigarsi. Quando torneremo, dovrete essere già andati via e dovrete diffondere la notizia che Connlyn è morto. Il vostro signore della guerra, che non valeva poi un granché, è morto e sepolto; è stato sconfitto per sempre dall'esercito vittorioso di Camelot, che non avrà mai rivali." Alcuni dei presenti mostrarono di aver capito le parole di Gwin, ma molti altri avevano un'espressione incredula. Alzai di nuovo la spada e tutti si girarono verso di me. "Mi chiamo Seur Clothar" dissi, con pause regolari per consentire a Lanar di tradurre senza fretta. "Sono un franco, nativo della Gallia, e uno dei cavalieri della Tavola Rotonda di re Artù Pendragon, sommo re della Britannia Unita. Questo accanto a me è Seur Gwin, nativo dell'Eire e cresciuto in mezzo ai clan dei Pendragon di Cambria. Anche lui è un membro dei cavalieri della Tavola Rotonda. Questi arcieri sono dei Pendragon, appartengono anch'essi alla stirpe di Artù, il sommo re. Seur Gwin vi ha detto la verità. Connlyn è morto e così pure sua moglie Martha. Questa guerra è finita, a meno che voi non decidiate di prolungarla. Ora torneremo da dove siamo venuti. Dubito che qualcuno di voi sia tanto stupido da tentare di fermarci o da ostacolare la nostra partenza. Non subirete nessuna punizione per aver sostenuto Connlyn stavolta, perché ho l'impressione che non abbiate avuto molta scelta. Ma questo insediamento ora è confiscato e verrà distrutto. State attenti. Non avremo nessuna pietà per chi si farà trovare qui al nostro ritorno. Andatevene e rifatevi una vita da qualche altra parte. Quando torneremo questo posto verrà raso al suolo e le sue macerie saranno spazzate via per cancellare la malvagità che vi ha soggiornato. Addio." Gwin si rimise l'elmo, quindi ci voltammo in formazione serrata e ce ne tornammo da dove eravamo venuti. V Neanche tre settimane più tardi, dopo aver onorato la mia promessa di distruggere il covo di Connlyn e aver salutato re Tod prima che ripartisse per Gallowa, mi ero messo in contatto con il reparto dell'esercito di Camelot che si trovava al Nord, sotto la guida di Bedwyr, affiancato da Pelinore come comandante in seconda. A capo della fanteria, sotto il comando di questi due, c'era un uomo che non avevo mai incontrato, re Rience, della Cambria settentrionale, il cui regno si trovava oltre il confine della Federazione dei Pendragon, mentre alla guida della cavalleria c'era Seur Balan, uno dei miei cavalieri della Tavola Rotonda. Si erano allarmati quando ci avevano visti arrivare da nord, perché nessuno li aveva ancora avvisati e non sapevano della nostra presenza nella regione. Il nostro avvicinamento da nord, unito al fatto che i loro esploratori non avevano riconosciuto l'armatura di bronzo e gli ornamenti insoliti dei miei soldati franchi, all'inizio li aveva spinti a considerarci una forza nemica - un reparto di cavalleria nemico, un avvenimento del tutto inaspettato - e a reagire di conseguenza, mandandoci contro una spedizione di cinquecento cavalieri e mille fanti, decisamente più numerosa del nostro minuscolo esercito formato da meno di cinquanta soldati a cavallo e cinquanta esploratori. Non tentarono neanche di nascondersi, ma avanzarono in tutta calma e con grande sfarzo, per far sì che notassimo la loro forza e ci sentissimo intimiditi. Quando li vidi arrivare, pregustando già la gioia di quell'imminente incontro, non tentai di farmi riconoscere finché non fummo quasi alla portata dei loro lunghi archi, al che mi fermai e scoprii le mie insegne, quindi le alzai per farle vedere meglio. Dopo pochi istanti sentii un grido entusiastico e vidi Bedwyr venire verso di me al galoppo, accompagnato da Balan e da diversi ufficiali. Fin dal principio la nostra rimpatriata scatenò un'immensa gioia, perché io e Bedwyr non ci vedevamo da anni, ma quando tutti furono informati del fatto che Connlyn era morto e che la guerra era finita, i festeggiamenti divennero ancora più entusiastici e si protrassero per un bel pezzo. Due giorni dopo aver appreso da Lanar che Connlyn era in combutta con Simmaco, Bedwyr passò il comando a Pelinore e gli diede l'ordine di non cercare più di contenere le incursioni degli stranieri da est. I battaglioni di Camelot dovevano cessare le ostilità e intraprendere la lunga marcia verso casa il più presto possibile, lasciando il Nord e la sua difesa nelle mani di Simmaco e del suo esercito. Nel frattempo, dopo aver preso con sé metà delle forze di cavalleria e mille soldati di fanteria, Bedwyr si mise in viaggio con me verso sud e insieme facemmo una deviazione verso Chester, perché nessuno dei due voleva perdere l'occasione di dare a Simmaco una bella lezione. Radunammo le truppe, formate da quasi duemila soldati, sulla pianura antistante le mura della fortezza di Chester, quindi innalzammo l'insegna da guerra di Artù Pendragon, un grande dragone rosso su uno sfondo verde, e aspettammo che Simmaco venisse ad accoglierci. Il re di Chester decise di offenderci ancora una volta, facendoci capire che non aveva nessuna urgenza di raggiungerci; ma ormai, dato che assaporavamo già quello che stava per accadere, non ci importava quanto ci avrebbe fatto aspettare, così ordinammo ai nostri uomini di allestire dei fuochi per cucinare, proprio lì nella piazza d'armi. Questo provocò una reazione immediata e ben presto vedemmo Simmaco venire verso di noi adagiato su una lettiga trasportata da sei uomini corpulenti che, a nostro parere, dovevano essere schiavi. Quando finalmente ci raggiunse e scese dalla lettiga per venire a salutarci, noi ci alzammo in piedi ma non ricambiammo il saluto, così il suo volto divenne paonazzo di rabbia per quel grave oltraggio. Prima che potesse dare sfogo alla sua ira, gli nominai Connlyn. I suoi occhi, ridotti a due fessure, si spostarono velocemente da me a Bedwyr e viceversa. "Che c'entra Connlyn?" bofonchiò. "Perché mi sputate in faccia il suo nome con tale insolenza?" "Perché ho saputo che voi due eravate amici e questo mi sembra un valido motivo per sputarvi in faccia il suo nome, e anche di peggio. Lanar!" L'uomo si fece avanti, gli occhi puntati su Simmaco, il quale a sua volta lo fissava con uno sguardo torvo, chiedendosi in modo palese chi fosse quell'uomo e cosa avesse a che fare con lui. "Questo è re Simmaco, Lanar. Hai sentito molto parlare di lui e ora finalmente lo vedi. Dì al re quello che hai detto a noi... cioè che hai scoperto i rapporti fra lui e Connlyn." "Adesso basta!" Simmaco era furioso. Quando si girò di scatto per rivolgersi a Bedwyr, che fino a quel momento era stato in silenzio, la sua voce somigliava al sibilo di un serpente velenoso. "Come osate insultarmi portando un anonimo e insignificante bugiardo al mio cospetto?" Bedwyr alzò le spalle con aria del tutto disinteressata e mormorò: "Provate con quest'altro allora, sire. Non è né anonimo né insignificante". Alzò un braccio e per tutta risposta Gwin, che era ancora tutto agghindato con l'armatura verde di Connlyn, montò in sella con un agile slancio e spuntò da un compatto drappello di cavalieri, nel quale era rimasto nascosto fino ad allora. Io, Bedwyr e gli altri ufficiali guardavamo tutti con attenzione il volto di Simmaco e tutti lo vedemmo impallidire non appena si rese conto di cosa significasse quella apparizione. Restò impietrito, con la bocca spalancata come se volesse parlare, ma fosse incapace di produrre qualsiasi suono. A un mio cenno il cavaliere vestito di verde arrivò al piccolo galoppo, ma Simmaco rimase ancora ammutolito. Quando Gwin si fermò al mio fianco, mi rivolsi di nuovo a Simmaco. "Questo è Seur Gwin di Camelot e non Connlyn, come di certo pensavate voi. Forse non vi ricorderete di aver incontrato Gwin, ma senz'altro vi ricordavate di aver incontrato Connlyn. Il vostro alleato ormai è morto, per questo Seur Gwin indossa la sua armatura. È stato ucciso dai nostri arcieri mentre cercava di fuggire, da cane bastardo qual era. Spogliato di tutto, ormai, della vita, dell'armatura e di tutti i suoi possedimenti, ha lasciato i suoi alleati e i suoi sudditi senza una guida. Presto questi verranno da voi, Simmaco, e vi attaccheranno, dal momento che Connlyn è morto e le informazioni che gli vendevate non servono più, ma ora non ci sarà nessuno a impedire loro di fare ciò che vogliono. Vi facciamo i nostri auguri. Non cercate l'aiuto di Camelot da oggi in poi. Mordred, vieni avanti." Il ragazzo spronò in modo ubbidiente il cavallo e io lo presentai indicandolo con la mano. "Questo è Mordred Pendragon, Simmaco. È il primogenito di re Artù, nato dalla principessa Morag della popolazione dipinta che vive a nord del Vallo, ed è stato cresciuto senza che Artù sapesse della sua esistenza. Ma adesso si è riunito al padre ed è stato riconosciuto da lui come erede legittimo, accettato pubblicamente e amato dalla sua famiglia." Sorrisi, ma le mie labbra restarono contratte, perché non c'era traccia di umorismo o di divertimento nella mia espressione. "Vostro nipote, che peraltro non è ancora nato, non diventerà mai erede al posto di questo ragazzo. E potete stare certo che, se mai tale nipote dovesse nascere un giorno, per quanto sia improbabile, verrebbe allontanato da voi e dalla vostra perniciosa influenza... non per volere di suo padre, ma per espressa volontà della vostra stessa figlia, la madre del bambino. Ecco, ora sapete cosa ne pensiamo della vostra condotta disonesta. Da anni vi vantate del vostro favoloso esercito, ma nessuno di noi, guerrieri di Camelot, ha mai visto alcuno dei vostri uomini versare una goccia di sangue. Abbiamo fatto noi tutto il lavoro qui, noi abbiamo combattuto e voi ci avete ripagato con il tradimento, con le menzogne e con il disprezzo. Ora basta. Ora combatterete le vostre battaglie da solo. Ma se mai dovesse venirvi in mente di schierarvi contro Camelot, indossate un'armatura resistente, perché vi schiacceremo come uno scarafaggio." Chiesi a Bedwyr se aveva qualcosa da aggiungere, ma lui scosse il capo adagio, mentre fissava Simmaco con gli occhi socchiusi e la faccia di chi ha appena annusato o assaggiato qualcosa di disgustoso. Guardai di nuovo Simmaco, ancora immobile e pallido. "Bene, dunque vi lasciamo, con la speranza di non rivedervi mai più. Non mi siete mai piaciuto, Simmaco, fin da quando ci conoscemmo al santuario di sant'Albano. Eravate subdolo e sgradevole anche allora. Certe cose non cambiano mai, a quanto pare. Perciò ora vi volterò le spalle e andrò a organizzare il nostro ritiro. Spero proprio che cadrete in tentazione e ordinerete ai vostri uomini di punirci per la nostra maleducazione. Questo confermerebbe la bassa opinione che ho delle vostre capacità di comando e allo stesso tempo mi darebbe un ottimo motivo per festeggiare." Quando mi voltai indietro per l'ultima volta, lui era ancora lì nella piazza d'armi a guardarci, con i sei uomini che lo avevano portato sulla lettiga a fargli da sfondo. Mentre ce ne andavamo, dopo quel confronto, nessuno fece commenti, e io stesso, con mia grande sorpresa e delusione, non provai nessuna soddisfazione per quanto appena accaduto. Quegli insulti erano stati del tutto giustificati, Simmaco si meritava ogni parola di condanna che avevamo pronunciato, e molto di più, ma la soddisfazione che mi aspettavo di provare nello smascherare la sua falsità e il suo tradimento stranamente non c'era. Mi ricomposi e continuai a cavalcare in testa alla colonna, insieme a Bedwyr e Gwin. I miei due scudieri erano spariti, come fanno sempre i ragazzi quando pensano di poter sfuggire alla supervisione degli adulti, e avevo il sospetto che si fossero intrufolati in uno dei carri con le provviste per racimolare un po'"di cibo dai cuochi e sedersi comodamente sui sacchi di farina e di grano. Per i successivi dodici giorni proseguimmo verso sud senza intoppi, avanzando alla svelta e godendoci il clima mite e gradevole, finché non raggiungemmo i confini di quel territorio immenso che ormai era Camelot, e a quel punto, eccitati all'idea di trovarci di nuovo a casa e di avere il privilegio di portare notizie di pace, il tempo avrebbe potuto essere dei peggiori che noi non ce ne saremmo accorti. Tutto procedeva bene a Camelot e Dio regnava ancora nei cieli. Eravamo a casa, sani e salvi, e quella notte avremmo potuto riposare in pace, senza nessuna paura, almeno finché non fosse sorta una nuova minaccia per il regno. VI Quando mi recai da Artù, il pomeriggio stesso in cui arrivammo, il re mi sembrò dieci volte più forte dell'ultima volta che lo avevo visto. Si era alzato dal letto finalmente, anche se non era ancora in grado di camminare da solo, ed era avviluppato in una calda vestaglia di lana, accoccolato su una comoda poltrona davanti al fuoco scoppiettante. Sebbene avesse ancora l'aria stanca, il suo volto si era fatto visibilmente più pieno e quell'aspetto smunto, dovuto al pallore e alle borse violacee sotto gli occhi che mi avevano fatto pensare a una maschera funebre, era sparito. Anche le spalle sembravano più larghe, ma quello poteva essere l'effetto della vestaglia in cui era infagottato; le mani, che teneva appoggiate sul ventre, parevano di nuovo forti e abili. Non restammo da soli quella volta, perché Bedwyr e Gwin erano venuti con me a porgere i loro omaggi al re, e io avevo portato anche il giovane Mordred, affinché salutasse il padre dopo la sua assenza; perciò parlammo in generale e, grazie alla notizia della morte di Connlyn e della fine della guerra, nonché della prova del tradimento di Simmaco, lo stato d'animo collettivo fu ilare e gioioso. Erano presenti anche Merlino e la regina Ginevra con le sue dame, cui si aggiunsero alcuni membri anziani del Consiglio, invitati da Merlino, ai quali il re, per esprimere la sua grande soddisfazione, diede l'incarico di organizzare una giornata speciale di giochi e festeggiamenti in modo da celebrare la fine del conflitto al Nord. I servitori si muovevano in mezzo alla piccola folla per versare vino e servire piccole e deliziose focaccine all'avena, farcite con noci tostate e tritate e cosparse di miele; così il tempo passò in fretta e con piacere, finché la regina non stabilì che il marito stava esagerando e aveva bisogno di riposare, pertanto uscimmo tutti in fila indiana in modo ubbidiente e lasciammo la coppia reale alla propria intimità. Più tardi, quel pomeriggio, mentre ero nelle stalle a esaminare le armi e la selleria, in compagnia degli ormai inseparabili Rufus e Mordred, e davo loro istruzioni su come e quando dovevano farmi trovare l'attrezzatura pulita e riparata, arrivò una delle Guardie della Regina. Mi stava cercando già da diverso tempo: Lady Ginevra mi chiedeva di cenare insieme a lei e al re. Lasciai i ragazzi ai loro compiti e andai subito a darmi una ripulita prima di infilarmi degli abiti puliti e di presentarmi nelle stanze del re all'ora giusta. Stavolta le guardie mi riconobbero e mi lasciarono passare, anche se mi salutarono in modo brusco, quando le guardai negli occhi e feci loro un cenno col capo. Ma non ero preparato a ciò che accadde subito dopo. Quando arrivai alla porta che conduceva nell'appartamento della regina, trovai Ginevra ad aspettarmi da sola e sembrava molto contenta. La salutai chinando il capo, ma prima che potessi dire una sola parola lei osservò: "Siete in anticipo". Poi mi invitò a seguirla in una piccola anticamera, dove mi ordinò con la mano alzata di fermarmi e di aspettarla lì. Chinai di nuovo il capo con deferenza, malgrado lo sconcerto, e quando lo rialzai la vidi uscire e chiudere la porta dietro di sé, lasciandomi lì da solo a domandarmi cosa diavolo stesse succedendo. Dopo un poco, mentre me ne stavo impalato a fissare un focolare vuoto, sentii la porta aprirsi di nuovo alle mie spalle e mi voltai di scatto per salutare la regina, ma invece di Ginevra trovai Lady Elaine a sorridermi. Nel vedere il suo splendido viso rimasi senza fiato e mi dondolai a lungo sulla soglia con espressione attonita, incapace di avvicinarmi, finché lei non pronunciò il mio nome e mi tese la mano. Il suo gesto e il suono della sua voce ruppero l'incantesimo, sebbene solo in parte, e io mi avvicinai in maniera goffa per salutarla, imbarazzato dalla mia postura rigida e dalla mia incapacità di rivolgerle un sorriso. In verità, ero sopraffatto dal panico, incapace di pensare in modo freddo e razionale. Ero pieno di trepidazione e sensi di colpa a causa dei pensieri lussuriosi e volgarmente carnali che mi erano passati per la mente non appena avevo posato lo sguardo su di lei e avevo rivisto quel corpo stupendo, messo in risalto dall'abito fasciante, che avevo spesso ricordato con grande desiderio. Quelle immagini mi fecero vergognare, perché mi sembravano molto lontane da ciò che avrei dovuto pensare. La donna che mi sorrideva in modo così innocente era una dama rispettabile, una donna sposata. Per fortuna almeno l'agonia che patii in quel momento insostenibile e terribilmente lunga - fu un fatto privato e, chissà come, invisibile. Dagli occhi sembrava che Elaine non avesse notato nulla di strano e, quando le presi la mano con un po'"di esitazione per baciargliela in modo formale, lei la ritirò e mi buttò le braccia al collo, quindi mi attirò a sé e mi strinse forte, premendo il suo corpo contro il mio, cosicché sentii le sue morbide forme. Non osavo toccarla con le mani, perciò restai chinato su di lei con le braccia allargate sentendomi uno stupido, ma il suo abbraccio fu talmente lungo che a un certo punto la presi e la scostai, preoccupato per la sua reputazione. Quindi mi guardai attorno con aria colpevole, come se mi aspettassi che ci fosse qualcuno dietro di me a osservare la scena. "Non c'è nessuno" sussurrò Elaine, che a quanto pareva aveva capito benissimo quale fosse il mio timore. "Adesso no, ma sto aspettando la regina e potrebbe entrare da un momento all'altro." Elaine scoppiò in una fragorosa risata. "No, Seur Clothar, non credo. La regina si sta vestendo per la cena e non tornerà. Devo accompagnarti io nel salone all'orario stabilito per cenare con lei e il re." "Lei... Tu... vuoi dire che è stata la regina a mandarti qui?" "Certo. E perché no?" "Perché no? Ma sa che noi due ci conosciamo?" "Lo sa eccome. Abbiamo parlato spesso di te, abbastanza da farti fischiare le orecchie persino nella lontana Gallia." "Di cosa avete parlato? Lei sa... di noi? Voglio dire, che tu e io...?" Elaine sorrise e mi zittì appoggiandomi un dito sulle labbra. "Non risponderò a questa domanda, Sir Lance. Gli uomini non devono sapere quello che si raccontano le donne quando sono da sole. La regina e io siamo molto intime. Sono una delle sue dame di compagnia preferite." "Ma come... e da quando?" "Mi ha chiesto di unirmi alle sue dame non appena si è trasferita a Camelot come regina. Artù l'ha portata al villaggio. Mi ha presentata alla moglie e lei mi ha chiesto quasi subito di venire a Camelot e di diventare una delle sue dame. All'epoca ne aveva solo due e io ero pronta per quel cambiamento. Vieni qui." Si avvicinò di nuovo a me, stavolta con minor impeto, e con deliberata lentezza fece scivolare le mani sul mio petto fino ad agganciarle dietro il mio collo, prima di attirarmi verso la sua bocca vogliosa. La baciai a lungo e con ardore, sentendo il suo corpo morbido e pieno sotto la stoffa del vestito, senza preoccuparmi più dei sintomi evidenti della mia eccitazione. Alla fine mi lasciò andare e fece un passo indietro, con il respiro affannato e il viso rosso per la passione. "Perdonami" disse sorridendo, con voce tremante. "Sognavo di farlo da tanto tempo." "Anch'io, Lady." Come per magia tutta la mia goffaggine e il mio imbarazzo erano spariti; ero tornato a essere me stesso. "Anche quando mi trovavo in Gallia, sei stata sempre nei miei pensieri." Il suo sorriso divenne più largo, poi svanì del tutto, e lei inclinò leggermente la testa da un lato. "Per un attimo mi sei sembrato preoccupato. A cosa pensavi?" "È stato il fatto di averti trovata qui, credo. Non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile. Stavo solo ricordando l'ultima volta che siamo stati insieme." "Sì, è stata un'esperienza meravigliosa, breve ma molto intensa." "Un'intera vita racchiusa in un solo giorno." La sua espressione si fece seria e lei abbassò la voce. "Mi è dispiaciuto molto per la morte del tuo amico Ghilleadh. Potevo immaginare il tuo dolore, perché sapevo quanto fosse importante per te." "Grazie, mia signora" risposi. "Cerco di non pensarci - ogni volta che mi viene in mente, cerco addirittura di trovare altre cose per tenermi occupato - perché non sono ancora pronto ad accettare il fatto di averlo perso. Ti sembrerà sciocco, ma è così. Non riesco ancora a credere che sia morto, anche se ho ucciso l'uomo che ha causato la sua morte. I miei amici dicono che prima o poi mi abituerò all'idea, che il tempo guarisce ogni ferita, ma io non ci credo. Eppure so che se ne è andato e che non tornerà mai più." "Ho un figlio, lo sai?" Quel cambio di argomento mi lasciò sconcertato e mi rammentò all'improvviso che Elaine era una donna sposata, così non potei fare nulla per impedire che un'espressione accigliata comparisse sul mio volto, benché mi sforzassi di reprimerla. Annuii. "Lo so. Me lo hanno detto. Merlino me lo ha comunicato in una lettera... pensava che mi interessasse, dal momento che tutti noi avevamo partecipato al tuo banchetto di nozze. Jonas deve esserne molto orgoglioso." "Mmm... Lui è... Il bambino è bello oltre ogni dire." "Con una madre come te, Lady, non poteva essere altrimenti." "Mmm." Alzò la testa, piegandola quasi all'indietro, per guardarmi negli occhi. "È nato... presto. Soltanto otto mesi dopo il matrimonio." Più che le sue parole, fu il suo tono di voce a turbarmi, ma non ero tanto sicuro di aver sentito bene, perciò non tentai neanche di capire cosa poteva essere stato ad allarmarmi tanto. Elaine notò la mia aria perplessa e mi accarezzò la guancia con dolcezza. "L'ho chiamato Galahad." "Galahad? Tuo figlio. Somiglia un po'"a Ghilleadh come nome." "Sì, lo so. L'ho scelto proprio per questo... Per ricordare te e la tua ammirazione per l'uomo che consideravi uno dei tuoi amici più preziosi. Se da grande mio figlio avrà anche solo una delle qualità tue e di Ghilleadh, sarà molto fortunato e lo sarò anch'io." La sua ammissione non poteva essere più chiara. Sentii il cuore balzarmi in gola. "Allora è..." Mi chiuse la bocca con le dita. "Taci ora, Seur Clothar di Gallia. Il re e la regina ti aspettano. Vieni con me." Si incamminò lesta e io la seguii con il cuore che mi martellava nel petto, ma le sue parole mi avevano scaldato l'anima nel profondo, tanto che passai il resto della serata, e l'intera notte insonne che seguì, in un angoscioso stato di stupore e incertezza, che prese il sopravvento su tutte le altre questioni che dovevo affrontare, ed erano parecchie, tutte molto importanti. Elaine aveva davvero detto quello che pensavo o avevo frainteso la gioia che evidentemente aveva provato nel rivedermi e nel raccontarmi del figlio? Quel bambino era forse figlio mio? E se sì, cosa dovevo fare? Sapevo che avrei dovuto chiederlo in maniera esplicita a Elaine e ovviamente, come succede sempre in questi casi, non ebbi più occasione di parlarle in privato per quella sera, pertanto fui costretto a mordermi la lingua e a sforzarmi di essere quello di sempre, come se niente fosse successo. Se Artù e Ginevra sapevano dell'attrazione che c'era fra me ed Elaine, non lo diedero a vedere, anche se c'eravamo solo noi quattro seduti a tavola quella sera e passammo tre ore consecutive a mangiare allegramente, nella tranquillità più assoluta, serviti da un esercito di domestici che lavorarono senza sosta per assicurarsi che il re avesse tutto ciò di cui aveva bisogno. Mangiammo dell'incredibile pesce fresco appena pescato in un ruscello lì vicino, una succulenta oca con la pelle croccante al punto giusto e ricoperta di erbette, e infine uno stufato di lepre cucinato con rape dolci e carote in salamoia, che fu servito su un'alta fetta di pane ancora caldo di forno. La conversazione fu lieve e spensierata, poiché ci limitammo ad argomenti frivoli in onore del mio ritorno a casa. Soltanto una volta, quando Ginevra tirò fuori la questione del figlioletto della sua dama di compagnia, per dire quanto fosse bello, mi parve di scorgere un guizzo negli occhi di Elaine, ma qualunque cosa fosse consapevolezza, ironia, comprensione o complicità - era sparito tanto in fretta che non sapevo più nemmeno se lo avevo visto davvero oppure no. Quando la cena giunse al termine e la tavola fu sparecchiata, alcune Guardie della Regina accompagnarono Artù a sedersi su una comoda sedia vicino al fuoco che crepitava; subito dopo la regina ed Elaine si accomiatarono e ci lasciarono seduti accanto al focolare. Artù aveva una brocca di vino rosso e un calice appoggiati su un tavolino accanto a sé, mentre io avevo una lucida caraffa di birra fresca, imperlata di gocce, e un grosso boccale. Quando le donne se ne furono andate, Artù fece alcuni commenti molto positivi e lusinghieri su Lady Elaine, quindi mi spiegò che in quel periodo lei e Jonas non si vedevano molto spesso perché Elaine aveva deciso di diventare dama di compagnia della regina, mentre Jonas aveva le sue responsabilità al villaggio. Aggiunse che la lontananza non sembrava infastidire granché nessuno dei due e che le volte in cui erano insieme sembravano soddisfatti della loro vita. Mi ritrovai di nuovo ad ascoltare con attenzione, cercando significati e richiami nascosti, ma neanche stavolta riuscii a carpire nulla e, poiché non volevo far notare il mio interesse per quell'argomento, rimasi in silenzio finché, dopo un po', Artù si appoggiò allo schienale della sedia e prese a fissarmi con aria meditabonda sprofondando il mento nel petto. "Allora, amico mio" cominciò alla fine. "Desideri tornare a Camelot con tutti i tuoi uomini e non posso biasimarti. E so perché stavolta sei venuto da solo, accompagnato dalla tua scorta franca. L'ho capito non appena ho saputo del tuo arrivo: eri preoccupato per me e volevi fare qualcosa per risolvere la situazione con Connlyn." Fissò il fuoco per qualche istante prima di tornare a guardarmi. "Bè, hai fatto qualcosa di spettacolare. Nel giro di poche settimane sei riuscito a ottenere quello che noialtri non siamo riusciti a raggiungere in anni e lo hai fatto senza tanta ostentazione e senza causare scompiglio o imbarazzo a nessuno... tranne che a Connlyn, ovviamente. A lui hai causato entrambe le cose in modo molto efficiente." Fece un'altra pausa, e io aspettai, con il cuore in gola, perché la sua espressione era diventata grave e aveva perso ogni traccia di spensieratezza. "Ho bisogno che tu torni in Gallia, Lance, e che tenga lì i tuoi soldati." Alzò una mano per reprimere qualunque obiezione stessi per sollevare, ma io non tentai affatto di protestare. Lo osservai. Il silenzio si protrasse così a lungo che lui sentì chiaramente il bisogno di aggiungere qualcosa, perché abbassò la mano e riprese in tono pacato: "Davvero non ho altra scelta, amico mio. Sei la mia unica salvezza". "Di che si tratta? Ditemi cosa volete che faccia, Artù, e io lo farò. Lo sapete." "Sì, lo so e mi secca dovertelo chiedere. Non hai mai contestato la mia parola, non hai mai avuto la minima esitazione e non ti sei mai tirato indietro davanti alle mie richieste. Né hai mai cercato di farmi cambiare opinione. Hai sempre fatto tutto quello che ti ho chiesto e ora che sei tu a chiedermi una cosa, per una volta, sono costretto a dirti di no." "Artù! Non importa se non siete in grado di realizzare i miei desideri. Cosa volete che faccia? Questo è quello che conta, perché so che non me lo chiedete per un capriccio o per un tornaconto personale. Qualunque cosa sia, voi ritenete che sia necessaria per la Britannia... per il vostro regno e per il suo futuro." Mi alzai e andai verso l'angolo, dove la sua spada inguainata era appesa al piedistallo per l'armatura, la cintura a cui era attaccata girava intorno alla magnifica corazza da cerimonia con l'aquila d'oro. Sotto gli occhi di Artù, sfoderai Excalibur e gliela portai, quindi gliela porsi dalla parte dell'elsa. "Non potete farla roteare adesso, ma potete impugnarla." Artù strinse fra le dita il manico zigrino e sollevò dal pavimento la punta della grande spada, reggendola per alcuni istanti prima di cedere. Annuii. "È già un progresso rispetto all'ultima volta che vi ho visto, mio signore, ma sono lieto di vedere che vi ricordate ancora come si impugna. Il vostro compito principale adesso è quello di concentrarvi per riacquistare le forze e la mobilità. Tutto il resto non conta, perché finché non riprenderete possesso di queste facoltà, finché non sarete in grado di sedere in groppa a un cavallo e di far roteare questa spada come una volta, non potrete fare nient'altro in modo convincente." Artù annuì, poiché sapeva che era vero. Ricambiai il gesto e continuai. "Naturalmente non c'è bisogno di dirlo. Suppongo che abbiate già un programma di esercizi da seguire per ricominciare ad allenarvi, non appena sarete in grado di camminare, ma vi occorreranno comunque parecchie settimane, forse addirittura mesi, per ritrovare a pieno la forza e l'energia e nel frattempo la vita andrà avanti e la gente continuerà a fare quello che fa di solito. Ora mi dite che devo tornare in Gallia, perciò presumo che laggiù ci siano persone o affari di cui volete che mi occupi per conto vostro e che ci sia anche l'eventualità di uno scontro armato. Giusto?" Artù annuì di nuovo e io gli presi la spada dalla mano per riporla nel fodero, prima di tornare a sedermi. "Bene! Allora ditemi di chi e cosa si tratta, dopodiché spiegatemi cosa volete che faccia." Mi accorsi che la sua mente era altrove, concentrata su qualcos'altro. Ma a un tratto il re si schiarì la voce e drizzò leggermente la schiena con una smorfia, come se qualcosa gli avesse causato una fitta di dolore. "Sai," borbottò "ogni volta che penso a te e a quelle assurdità che andavi blaterando riguardo alla mia invulnerabilità, comincio a irritarmi, ma poi capisco cosa volevi dire veramente e piano piano riesco a soffocare la rabbia. Hai detto che la percezione va ben al di là del concetto di invulnerabilità e che già solo l'idea dell'invulnerabilità crea un'impressione di invincibilità. Ora tutta la Britannia sa che non sono invulnerabile, ma non sa ancora se sono invincibile oppure no. Perciò mi trovi d'accordo con te quando dici che la prima cosa da fare è rimettermi in piedi per montare in sella il più presto possibile. E hai ragione, ci vorrà tempo. Ma per adesso, possiamo permetterci questo lusso. Però non voglio che tu te ne stia seduto qui con le mani in mano ad aspettare che io mi rimetta, quando puoi fare grandi cose per me altrove. Adesso come adesso sei tu l'unico a sembrare davvero invulnerabile, Lance, e io ho bisogno - sia come re sia come comandante - di trarre tutto il sostegno e il nutrimento possibili da quell'aura che ti circonda. Per questo ho bisogno che tu torni in Gallia. Corbenico è un regno minuscolo e isolato, sempre se si può definire isolato un luogo abbastanza grande da avere un re. È lontano, arroccato sulla costa nordoccidentale della Gallia, ed è nascosto, distante dai grandi avvenimenti del mondo. E per questo sono arrivato a credere che Pelles e il suo regno siano assai fortunati. Io non so molto... perciò lascia che ti chieda: quanto sai o pensi di sapere a proposito di quello che succede nelle altre zone della Gallia?" "Intendete a proposito degli invasori, degli Ungari?" "Sì, gli Unni. Hai sentito niente di nuovo dall'ultima volta che ne abbiamo parlato?" "Non molto. Si trovano nella Gallia nordorientale, come avevate detto voi, ma non si sono mai avvicinati a Corbenico, perciò ci giungono solo racconti frammentari su di loro, informazioni confuse, voci e pettegolezzi, per la maggior parte assurdi." "Per esempio? Cosa c'è di tanto assurdo nelle cose che senti?" "Bè, innanzitutto questo loro re. Come sapete il suo nome è Attila e si fa chiamare re degli Unni, oltre a usare titoli ancora più altisonanti. A quanto pare ha giurato solennemente non solo di distruggere e di cancellare ogni strascico della potenza di Roma, ma anche di estirpare per sempre la Chiesa cristiana. Vorrebbero farci credere che non si tratta semplicemente di un'altra tribù di barbari affamati e violenti in arrivo dall'altra parte dei confini dell'Impero, ma di un conquistatore della statura di Alessandro il Macedone, capace di soggiogare tutti i popoli che incontra lungo il cammino verso l'onnipotenza, un re forte e brillante, a capo di un esercito di proporzioni quasi leggendarie. Ho sentito resoconti più attendibili e altri più distorti sulle sue armate, che dovrebbero contare circa duecentomila uomini. Duecentomila! Per quanto possa essere esagerata, è pur sempre una cifra esorbitante. Eppure noi non abbiamo mai visto neanche l'ombra di questi Unni e a quanto ne sappiamo non si sono mai avvicinati ai nostri territori a Corbenico." Gli occhi di Artù erano diventati due strette fessure. "Quindi vuoi dire che, dopo tutto quello che hai sentito, non credi che questi Unni esistano davvero? Che si tratta solo di dicerie? Dell'invenzione di qualche mente troppo fantasiosa?" "Non voglio affatto dire questo. Anzi, tutto il contrario. Gli Unni ci sono... devono esserci, altrimenti non girerebbero così tante voci sul loro conto. Ma io penso che le notizie giunte siano tanto distorte a causa del tempo e della distanza, da risultare irriconoscibili. Le storie che arrivano a Corbenico sono passate prima dalla bocca di un centinaio di persone e ognuna di esse, nel raccontarle, ci ha aggiunto un particolare in più. Ma c'è sempre un fondo di verità in quello che sentiamo e se si riesce a spogliare quelle storie di tutti gli elementi incredibili, resta il fatto che questo popolo, a quanto pare, è disceso dal lontano Nordest, dalle terre situate al di là del Reno e persino al di là del Danubio; l'itinerario scelto lo ha portato ad attraversare la Gallia orientale, passando almeno a duecento miglia da noi. È diretto a sud, nella Gallia meridionale e da lì nell'Iberia. Chissà, forse ha persino intenzione di valicare le Alpi e di arrivare fino in Italia. Questa gente sa benissimo che seminare il terrore è la sua arma più potente, perciò fa di tutto per spargere la voce che i suoi guerrieri sono non solo invincibili, ma anche incredibilmente selvaggi e spietati. Credo che sarei tentato di fare la stessa cosa anch'io, se fossi al suo posto." "Come reagiresti se ti dicessi che hai perfettamente ragione su alcuni punti, ma che su altri hai torto marcio?" Stavolta fui io a fissarlo con gli occhi socchiusi, mentre mi domandavo cosa volesse dire. Ma considerai con attenzione la mia risposta prima di pronunciarla. "Bè, dal momento che siete il mio re e il mio riotamo, immagino che le vostre fonti siano più attendibili delle mie... pertanto ammetto che potreste avere ragione voi, anche se non siete mai stato in Gallia. Adesso vorrei ascoltare con attenzione la vostra spiegazione." "Ascolta, dunque, e credimi, perché quello che sto per dirti mi è arrivato da varie fonti, tutte attendibili, in quanto si tratta di vescovi che operano in Gallia e vivono a stretto contatto con la minaccia di Attila. Anche tu sai per esperienza quanto gli uomini di chiesa comunichino fra loro quando qualcosa minaccia la loro sopravvivenza e il loro futuro. Oltre ad aver giurato di distruggere ciò che rimane dell'Impero Romano, anni fa Attila si è prefissato come scopo quello di portare la Cristianità sotto il suo dominio. Naturalmente non ci riuscirà mai, perché la Cristianità è un'idea, uno stile di vita, e nemmeno il tanto decantato re degli Unni può influenzare, né tanto meno cambiare, il sistema di pensiero e di fede scelto dalla gente. Ciononostante, è pur vero che il mondo civilizzato non ha mai subito una minaccia paragonabile a quella di Attila e dei suoi Unni. Mai. Il titolo completo, che si è assegnato in modo così egocentrico, è Attila, discendente del Grande Nimrod, allevato a Engaddi e per grazia di Dio divenuto re degli Unni, dei Goti, dei Danesi e dei Medi, il Terrore del Mondo. Da notare l'affermazione "per grazia di Dio". Un'affermazione piuttosto strana per uno che vuole distruggere la Cristianità, non credi? E poi "Terrore del Mondo". È una descrizione imprecisa, ma non del tutto sbagliata, perché il mondo intero, a eccezione di Corbenico e della Britannia, è davvero terrorizzato da lui. Pensa a quei titoli, Lance. Quell'uomo ha conquistato la Persia! Tu non credi che il suo esercito conti duecentomila uomini e devo ammettere che sembrava esagerato e impossibile anche a me, ma la cifra che mi è stata riferita - e di questa mi fido - è addirittura settecento. Settecentomila uomini, Lance... e almeno la metà di questi sono a cavallo. Noi potremmo reclutare al massimo diecimila uomini in tutta Camelot e anche meno nella regione di Chester, un tempo nostra alleata. Forse arriveremmo a ventimila in tutto. Ma Attila ne ha sette-cento-mila. Ogni guerriero di ogni territorio e di ogni razza che ha conquistato è stato arruolato nel suo esercito e sono decenni che fa conquiste, per lo più nell'Impero d'Oriente. Quattro anni fa, tuttavia, ha rivolto la sua attenzione all'Occidente, a cominciare dai lontani confini della Gallia nordorientale, proprio sotto il fiume Reno, dove ha attaccato i Burgundi, schiacciandoli come sterpi e sparpagliandoli come un mucchio di foglie morte. E l'anno dopo, poco prima che tu ti recassi a Corbenico, dopo aver diviso in due le sue truppe, ha invaso la Gallia vera e propria. Metà del suo esercito si è diretto a ovest verso il mare, in un posto chiamato Arras, che era ancora occupato dai Romani, e quel gruppo deve essere passato a un centinaio di miglia da Corbenico... deve averlo fatto per forza, per raggiungere Arras, perciò mi stupisce che nessuno laggiù sapesse della sua presenza... anche se, adesso che ci penso, deve essere arrivata da lì la voce sui duecentomila uomini. Comunque, quella metà dell'esercito ha proseguito a sud, dopo aver saccheggiato Arras, mentre l'altra metà composta da più di trecentomila uomini - nel frattempo si è spinta a est, seguendo il corso del fiume Marna, per distruggere l'ultima roccaforte burgunda prima di dirigersi di nuovo a sud. Pare che le truppe si siano riunite formando un unico, mastodontico esercito nelle vaste foreste situate sotto Parigi o Lutetia - pare che venga chiamata con entrambi i nomi ormai - e che da lì abbiano attaccato una città nota come Orléans. L'hai mai sentita nominare?" Risposi di no con la testa. "Anche per me questo nome era nuovo quando l'ho sentito, ma è una cittadina di passaggio attraversata dal fiume Liger o Loira, a seconda della lingua che usi. Il suo ponte sorveglia le principali vie d'accesso al sud della Gallia e alle terre dei Visigoti, dominate da Teodorico. Conosci questo nome, vero?" "Sì, se è quello che penso, suo padre era Alarico, il primo uomo che saccheggiò Roma." "È lui. È un uomo vecchio, ormai, ma ancora forte, ed è anche un cristiano. Orléans è uno degli avamposti più potenti del suo regno. La guarnigione era stata avvisata per tempo dell'avvicinamento degli Unni e si era preparata al loro arrivo, pertanto le truppe di Attila, anziché radere al suolo la città, dovettero metterla sotto assedio. L'assedio non durò a lungo, ma la ferocia con cui i soldati di Attila depredarono e saccheggiarono le terre circostanti fu inverosimile. Massacrarono decine di migliaia di abitanti locali senza nessun motivo, soltanto perché questi avevano avuto la sfortuna di trovarsi lì e di essere indifesi... massacrarono, violentarono e derubarono, uccisero, bruciarono e devastarono unicamente per insegnare alla gente ad avere terrore degli Unni. Pare che un eremita pazzo, vedendo l'ira di Dio in quelle terribili pene inflitte alla popolazione, abbia definito Attila "Flagello di Dio per il castigo dei cristiani". Ad Attila piacque tanto quella definizione che la adottò. Ma il suo destino era già nelle mani di altri. Hai sentito parlare di un certo Ezio?" "Sì, ho già sentito quel nome da qualche parte. Ma non mi ricordo né dove né quando." "È un generale romano, designato da Valentiniano. È considerato l'ultimo dei grandi generali romani ed è stato ufficiale superiore dell'Impero d'Occidente per vent'anni o forse di più. Ha trascorso diversi anni a reclutare soldati in tutto l'Impero per affrontare Attila, facendo irruzione in tutte le locande dell'Italia e della Gallia, a quanto pare, chiamando alle armi chiunque avesse fiato in corpo, pagando persino degli assistenti affinché lo aiutassero e radunando tutti coloro che in quei territori avevano motivo di temere Attila. Ma nonostante tutto, non è riuscito a eguagliare il numero degli Unni, così alla fine si è rivolto a Teodorico e gli ha proposto di unire le forze contro il nemico comune. Teodorico l'ha ritenuta una cosa sensata e così i due eserciti hanno marciato insieme su Orléans per porre l'assedio." Restai seduto ad aspettare, ma Artù ormai fissava il fuoco e non accennava a riprendere il suo racconto. "E ci sono riusciti?" "Non ce n'è stato bisogno. Non appena Attila è venuto a sapere che i due eserciti alleati stavano marciando contro di lui, abbandonò Orléans e fece ritirare le truppe a nordest, in direzione della Marna, dove aveva annientato i Burgundi. Quello è un territorio pianeggiante e brullo, mi hanno detto, fatto di vaste pianure, con pochi alberi e pochissime colline... il territorio perfetto per la cavalleria di Attila. E proprio lì, neanche un anno fa, in un posto conosciuto dalle mie fonti ecclesiastiche come Chalons, si è scontrato con Ezio e Teodorico in una grande battaglia." "Un grande scontro fra cavallerie? Allora perché noi a Corbenico non ne abbiamo sentito parlare?" Il re mi guardò con un sopracciglio inarcato. "Lance, avevi sentito a malapena parlare di Attila e pensavi che il suo esercito fosse grande un terzo di com'era in realtà, non sapevi niente dell'assedio di Orléans né dell'alleanza fra Ezio e Teodorico. Perché allora ti sorprende tanto il fatto di non aver sentito parlare di uno scontro, per quanto importante?" Naturalmente non sapevo come rispondere e così Artù proseguì il suo racconto. Non sapeva granché su come si fosse svolta la battaglia, poiché i suoi informatori erano tutti vescovi e pertanto estranei all'arte della guerra, ma sapeva che non era stato uno scontro fra cavalieri, nel senso in cui lo intendevamo noi. Guerrieri a cavallo, sì, in gran numero, ma non cavalieri addestrati. Diversi informatori gli avevano riferito - chi tramite lettera, chi di persona - che gli Unni si erano avviati alla sconfitta fin dal primo giorno di combattimento, salvati momentaneamente solo per il sopraggiungere della sera. Quel giorno il generale Ezio aveva guidato l'ala destra delle truppe alleate, mentre re Teodorico aveva assunto il controllo di quella sinistra e Sangibano, re degli Alani, che non godeva della fiducia degli altri due comandanti, era stato collocato di proposito nella parte centrale dello schieramento, nel cuore della battaglia. Dalla parte opposta, Attila guidava di persona il centro dell'esercito, a capo dei suoi compatrioti, mentre gli Ostrogoti e la cosiddetta tribù dei Gepidi avevano preso il controllo delle due ali, insieme agli altri popoli assoggettati dagli Unni e divenuti loro alleati. All'inizio, quando la battaglia vera e propria non era ancora cominciata, Ezio era riuscito a manovrare le sue truppe in modo tale che occupassero il fianco di una collina situata di fronte all'ala sinistra dell'esercito di Attila; quest'ultimo, dopo aver intuito l'importanza del terreno rialzato, aveva subito sferrato un violento attacco contro quella parte dello schieramento romano, ordinando agli uomini migliori delle sue truppe di staccarsi dal centro per aiutare l'ala sinistra. Ezio e i Romani, tuttavia, dopo aver conquistato quella posizione strategica, la sfruttarono al meglio e respinsero gli Unni senza difficoltà. Dall'altro lato del campo, re Teodorico, partito alla carica in testa ai suoi Visigoti per attaccare gli Ostrogoti, che formavano l'ala destra dell'esercito di Attila, era stato colpito da un giavellotto e nel trambusto i suoi cavalieri lo avevano travolto, calpestandolo a morte. Ma, anziché scoraggiarsi per la morte del loro re, i Visigoti si erano infuriati per la sua caduta. Avevano sgominato le formazioni che si erano trovati davanti e poi avevano virato a destra per attaccare lateralmente la parte centrale dello schieramento unno, impegnato in uno scontro sanguinoso, ma non decisivo, contro gli Alani. Dopo aver visto ciò che era accaduto, Attila segnalò al plotone centrale di ritirarsi verso il suo accampamento e da lì i suoi arcieri radunati avevano respinto con facilità gli attacchi della cavalleria gotica. Ma il suo piano di battaglia era già andato in fumo quando la notte era scesa sul campo: l'ala destra era stata sbaragliata, con una perdita di chissà quante migliaia di uomini, la squadra centrale era stata costretta a ritirarsi nell'accampamento con analoghi danni e non c'era spazio per avanzare di nuovo. Ma l'ala sinistra, ancora imbattuta, stava affrontando Ezio, il quale per ragioni sconosciute non aveva approfittato del vantaggio iniziale che aveva conquistato su un lato del campo. Quello che era successo la mattina seguente, disse Artù, era una cosa che a osservatori esterni come noi poteva sembrare inaccettabile o addirittura incredibile. Durante la notte il Flagello di Dio evidentemente aveva stabilito che le probabilità di essere sconfitto erano troppo alte per negarle e così aveva deciso di non dare ai suoi nemici la soddisfazione di catturarlo o di ucciderlo. La luce dell'alba rivelò che aveva riposizionato tutte le truppe durante la notte, raggruppandole in un'immensa formazione difensiva tutto intorno all'accampamento, al cui centro aveva costruito una gigantesca piramide - un rogo funebre - fatta con le selle di legno della sua cavalleria. Sopra alla piramide aveva sparso tutte le ricchezze che costituivano il suo enorme bottino di guerra e in cima a tutto, pronto a morire e a bruciare insieme a tutti i suoi averi, circondato da tutte le sue mogli e le sue concubine, c'era lui, con un'aria di sfida sul volto. Ezio, dopo aver visto quanto fatto dal suo nemico e aver capito le sue intenzioni, aveva preso una decisione a molti incomprensibile. Aveva deciso non solo di risparmiare la vita ad Attila, ma di non cercare in alcun modo di stringere d'assedio l'accampamento nemico o di interferire con i preparativi che l'esercito nemico avrebbe fatto prima di andarsene; così Attila e i suoi Unni poterono abbandonare indisturbati quel luogo, dove in teoria sarebbero dovuti morire tutti. Ezio non aveva fornito spiegazioni per quella scelta, e a quanto pareva nessuno gliene aveva domandate. La battaglia era finita e Attila era tornato a casa imbattuto, o almeno così si pensava. Stentavo a credere a quello che avevo appena sentito. "So cosa stai pensando" disse il re. "Ho reagito anch'io allo stesso modo. Perché mai Ezio avrebbe fatto una cosa del genere? Come ha potuto? E, credimi, ho posto queste domande molte volte, nelle mie lettere, senza mai trovare una risposta. Ma poi ho ricevuto una missiva da una persona di cui mi fido e che conosci anche tu, Ludovico, il vescovo di Auxerre. È un uomo intelligente e scaltro, e io tendo a credere che quello che dice sia vero, perché ha interrogato molte persone e ha svolto ricerche approfondite sul conto del grande generale prima di farsi un'opinione. Però vorrei che fossi tu a giudicare." Fece una pausa per raccogliere i suoi pensieri, poi riprese. "Ezio non è affatto stupido, non lo è mai stato, e nemmeno un ammiratore del nostro illustre imperatore Valentiniano III, né uno dei suoi prediletti. E per questo agisce sempre con cautela, senza perdere di vista i propri interessi, ma mostrandosi sinceramente devoto e fedele a Roma... non all'Imperatore, capisci, ma a una visione arcaica ed egoistica di Roma... una visione che è superata ormai da secoli. Contrariamente a quello che avrebbero fatto molti uomini nella sua posizione, Ezio ha capito che l'alleanza con Teodorico, un tempo temibile avversario, era la cosa più logica da fare in quella lotta comune contro gli Unni e così ha cercato e ha ottenuto il favore dei Visigoti. Ma Teodorico è morto in battaglia il primo giorno e i Visigoti si sono fatti onore da soli; inoltre il figlio del re, Torismondo, si è distinto abbastanza sul campo di battaglia da essere proclamato dall'esercito degno successore non solo del padre ma anche del suo famoso nonno, Alarico. Ludovico ritiene che, dopo aver assistito a quella proclamazione, sapendo che l'immagine di un nuovo Alarico avrebbe potuto intimidire Roma, Ezio sia stato influenzato da tutto ciò e abbia deciso di risparmiare gli Unni il giorno dopo semplicemente per autodifesa, o meglio, per quella che Ezio, con il suo singolare punto di vista sulle questioni di Roma, concepiva come autodifesa. Certo è che dopo aver permesso agli Unni di fuggire - ricorda sempre che erano centinaia di migliaia di uomini - ha convinto il giovane e vittorioso re Torismondo a tornare nella capitale del suo regno nella Gallia meridionale e a rimanerci finché non si fosse presentata una nuova minaccia unna. Perciò Ludovico crede, e in questo sono d'accordo con lui, che Ezio abbia scelto in modo del tutto consapevole di non uscire troppo vittorioso, che abbia preferito lasciare un pericoloso avversario a piede libero e di far sopravvivere una potenziale minaccia, in modo da tenere un pericoloso alleato, che rappresentava un'altra potenziale minaccia, al sicuro entro i confini del suo regno e sempre all'erta per eventuali attacchi futuri." Mi servì un bel po'"di tempo per assimilare il concetto, ma poi replicai, ancora perplesso: "Quindi cosa sta succedendo adesso in Gallia? Dov'è finito Attila?". "Dove può essere andato un re sconfitto, con tutti quegli uomini armati? Non ne ho idea, ma le prove in mio possesso indicano che è tornato da dove è venuto, mentre il suo esercito si è diviso in più reparti, tutti ugualmente temibili. Non sappiamo quanti uomini abbia perso nella battaglia di Chalons, ma si parla di decine di migliaia, e si dice che dopo la sconfitta le sue truppe si siano sparpagliate un po'"ovunque." "Allora sono ancora in Gallia?" "Alcune sì." "Temete che possano invadere la Britannia?" "No, Lance, questo mai." Il suo sorriso era sincero. "Quest'orda di Unni ha un esercito di terra, mentre il nostro è un regno insulare. Attila non possiede navi. Non sa nulla di queste cose, pertanto non rappresenta una minaccia per noi. Inoltre dubito fortemente che Attila minaccerà ancora popolazioni civilizzate come le intendiamo noi. Può diventare fastidioso, ma è già stato sconfitto una volta in una battaglia in campo aperto e credo non abbia molta fretta di ripetere l'esperienza." "Allora perché volete che io rimanga in Gallia?" "Per fare le mie veci con i sovrani locali." Non so cosa mi aspettavo di sentire in risposta alla mia domanda, ma di sicuro non le parole che uscirono dalla bocca di Artù; lo guardai battendo le palpebre e sentii un leggero cipiglio formarsi sulla mia fronte. "Quali sovrani, Artù? L'unico sovrano che conosco in Gallia è Pelles, a Corbenico, e voi lo conoscete solo per via indiretta." "Sì, ma lo conosco molto bene sotto questo punto di vista e lui ha un'alta opinione di me. E per questo devo ringraziare te, Lance. Voglio arrivare a conoscere anche questo re dei Goti, questo Torismondo, nello stesso modo... ossia in modo amichevole e benevolo, indipendentemente dal fatto che ci siamo incontrati di persona oppure no. Solo tu puoi riuscire a fare questo per me. Ora hai i tuoi soldati a Corbenico, comodamente acquartierati e piuttosto a loro agio in mezzo ai Franchi. Scommetto che molti di loro parlano già la lingua franca." "Sì, è così. E molti di loro - quasi tutti, in realtà - hanno una donna franca. Altri sono ufficialmente sposati con donne franche e stanno mettendo su famiglia. Abbiamo riflettuto parecchio prima di prendere questa decisione, e avevo intenzione di parlarvene a lungo domani, perché significa che quando dovremo tornare a casa, i miei uomini vorranno restare in Gallia. Ma adesso mi pare che stiate dicendo che nessuno di loro avrà mai il permesso di tornare a casa..." Artù fece una smorfia, forse per mascherare un'improvvisa fitta di dolore, e scrollò il capo. Parlò a denti stretti. "No, non è così..." Tirò un respiro profondo e rauco e contò fino a tre prima di espirare rumorosamente. "Niente affatto." Seguì un'altra pausa, durante la quale si ricompose e riprese a respirare in modo rilassato. "Sto solo dicendo che da ora in poi voglio mantenere una presenza in Gallia, una squadra piccola ma potente che goda della simpatia della gente del posto, uomini che facciano regolarmente la spola tra qui e la Gallia con spedizioni annuali. Che c'è di male? Perché hai quell'aria corrucciata?" "Perché è evidente che soffrite molto. Posso...?" "Non fare nulla. È quasi passato." Non ebbi altra scelta che obbedire. "Spedizioni annuali, avete detto. Come farete a garantirle per diversi anni? Le uniche navi a nostra disposizione sono quelle di Connor Mac Athol, ma lui non vivrà in eterno e neanche suo fratello, il re. E quando loro due non ci saranno più, chi può dire cosa vorranno fare i loro successori? Non abbiamo legami molto stretti con quella gente oggi come oggi. I nostri unici contatti appartengono alla vecchia guardia: Connor, Brander e pochi altri come loro, tutti uomini anziani e probabilmente già con un piede nella fossa." Artù fece un brusco cenno con il capo e parlò di nuovo, stavolta con meno difficoltà. "Lo so, naturalmente, e per questo ho dato ordine di costruire delle navi tutte per noi lungo la costa meridionale della Cambria. Abbiamo già una flotta... è molto piccola, bada bene, sono solo quattro vascelli, ma restano pur sempre quattro in più rispetto a prima. Ho iniziato a lavorare a questo progetto insieme a Merlino prima che tu e i tuoi uomini partiste per la Gallia, perché era ovvio che prima o poi avremmo avuto bisogno di navi per viaggiare in alto mare. Viviamo su un'isola, circondati dall'acqua, perciò dovremmo avere i mezzi necessari per attraversare queste acque quando ci pare e piace. E poi sono navi mercantili, non navi da guerra. Quelle forse verranno in un secondo momento, quando ci avventureremo più lontano. Per adesso, comunque, quelle che ci servono sono soprattutto navi in grado di trasportare cavalli." "Chi sta costruendo queste navi?" "Alcuni degli uomini di Connor, ce li ha prestati per un po'"in modo tale che possiamo addestrare i nostri." "E possiamo addestrare i nostri?" "Sì, Lance, possiamo. Abbiamo sempre avuto dei costruttori di navi. No, ho sbagliato. Abbiamo sempre avuto dei costruttori di barche, imbarcazioni per la pesca e cose di questo genere. Ma adesso stanno imparando nuove tecniche da persone che possono mostrare loro come ampliare il loro modo di ragionare e di operare. Come ti dicevo, abbiamo quattro navi per ora e le nostre attività si stanno espandendo alla svelta. Entro l'anno, mi hanno detto, ne avremo una decina, ed entro tre anni, se tutto va secondo i piani, saremo in grado di costruire più di venti vascelli all'anno." Quella previsione mi sembrava ottimistica, e anche improbabile, ma non ero nella posizione adatta per contraddire il re e non avevo alcun desiderio di spegnere il suo entusiasmo. "Torniamo alla Gallia" proposi. "Cosa pensate che potrei fare di preciso? Parlavate di avvicinarci al re Torismondo, ma questo potrebbe rivelarsi uno di quegli obiettivi facili da prefissare e impossibili da raggiungere." "Perché dici così?" "Perché il suo regno è nella Gallia meridionale, a centinaia di miglia da quello di Pelles." "Sì, lo so. Controlla i territori che i Romani chiamavano provincia di Aquitania, anche se i suoi Visigoti si sono riversati nella parte settentrionale dell'Iberia. Ma i suoi territori cominciano a nord con Orléans, che non è poi così lontana, vero? Si trova neanche mezzo miglio a sud di Parigi. Non è così?" "Forse. Non so quanto sia lontana, in realtà, ma avete detto che si trova sulle rive del fiume Liger e so che questo corso d'acqua segna il confine fra la Gallia settentrionale e quella meridionale, perciò va bene, diciamo che i territori di Torismondo cominciano a Orléans. Allora?" "Allora tu sei già in buoni rapporti con la maggior parte dei popoli che abitano nei territori compresi fra voi e quella città, grazie ai giochi che avete tenuto di recente." Alzai le spalle. "Sì, forse, anche se non tutti sono stati contenti dell'esito finale di quei giochi..." "Forse sono stati scontenti, ma di sicuro sono rimasti colpiti, no? E adesso ti conoscono abbastanza bene da permetterti di attraversare le loro terre senza sollevare obiezioni, a patto che porti con te le tue razioni di cibo e di foraggio e non minacci in alcun modo gli abitanti locali o le loro messi, sei d'accordo? E quando raggiungerai Orléans e dirai che sei andato a incontrare Torismondo, per discutere con lui alcune questioni di cavalleria, sarai condotto sano e salvo nella residenza del re, ovunque essa sia." Il ragionamento di Artù non faceva una grinza e così stabilimmo che sarei tornato in Gallia e avrei fatto esattamente come aveva detto lui; dopodiché parlammo ancora un po'"di argomenti più frivoli finché Artù non ricominciò a lamentarsi per il dolore, cambiando posizione sulla sedia con insofferenza, e il suo volto si fece sempre più stanco. Stavolta, non appena mi accorsi del suo disagio, chiamai le guardie e queste lo trasportarono con tutta la sedia nella camera da letto, dove furono subito raggiunti dal medico di Artù. Sotto la supervisione del dottore, spogliarono il re con delicatezza e lo misero a letto, stando attenti a non rovinare l'ingombrante fasciatura che aveva intorno all'inguine. Restai con Artù finché non si addormentò, grazie a una pozione appositamente preparatagli dal medico, quindi tornai con calma nelle mie stanze, ripensando a tutto ciò che mi aveva detto a proposito degli eventi svoltisi in Gallia senza che io me ne accorgessi. Mi tornarono in mente anche le mie preoccupazioni relative a Elaine e al suo bambino, che poteva anche essere mio... mio figlio! E più pensavo alle complicazioni che potevano scaturire da quella eventualità, più mi meravigliavo con amarezza dello scarso potere che, malgrado i nostri sogni di onnipotenza e onniscienza, abbiamo sulle cose che accadono ogni giorno nel mondo in cui viviamo. La più grande follia nella vita è credere di essere talmente importanti come individui da poter influenzare le circostanze in cui ci troviamo. SEI I Per tutta la vita ho sentito dire dalla gente, seppure in modi diversi, che il momento più tragico nell'esistenza di un uomo è quando si rende conto che il suo corpo sembra avere decenni di più della sua mente e all'improvviso si accorge di essere vecchio. Naturalmente ogni volta che sentivo pronunciare quell'antica massima, sorridevo con aria d'indulgenza e consideravo quell'affermazione sciocca e irrilevante, senza capire quanto fosse vera, perché ero troppo giovane per pensare che un simile momento potesse arrivare anche per me. Ahimè, ora ricordo perfettamente l'istante in cui la verità mi colpì nel vivo. Sono trascorsi più di vent'anni da quella sera, che rammento con tanta malinconia ora che, essendo davvero vecchio, ho le rughe e la testa calva contornata di capelli argentei a dimostrarlo. Accadde durante una riunione che organizzammo a casa mia per festeggiare la maggiore età del mio secondogenito Thoric. C'erano tutti i miei familiari e amici, e a un tratto mi resi conto di non essere io l'anfitrione della serata: il mio primogenito, Arturic, aveva assunto quel ruolo con grande naturalezza, senza che nessuno glielo chiedesse, ed era perfettamente a suo agio mentre si occupava del benessere degli invitati per consentire a me e a sua madre di trascorrere più tempo con gli amici e con tutti gli ospiti in generale. Riconobbi all'istante quel momento, anche se non ne ravvisai subito l'importanza. Mi resi soltanto conto che alcuni nostri amici se ne stavano un tantino in disparte, più che altro per via dell'età avanzata, e che io e mia moglie saremmo stati felici di poter passare più tempo insieme a loro, anziché supervisionare lo svolgimento della festa. Fu allora che notai come le persone più giovani - ovvero la maggior parte di quelle presenti - non si curassero affatto di noi due, considerandoci semplicemente una coppia di anziani degni di rispetto. Avevo sempre fatto io da anfitrione a casa mia e alle nostre feste c'erano sempre stati molti giovani, ma in quel momento mi ritrovai a comportarmi come un ospite, poiché il mio ruolo era stato assunto da mio figlio... a dir la verità, da tutti i miei figli. Non fu una rivelazione devastante e non la considerai affatto come una mancanza di rispetto, ma da quel momento capii che il mio posto nel mondo era stato preso da una generazione più giovane, che aveva molto di più da dare, dimostrare e pretendere rispetto a me. Non mi restò altro che accettare la cosa con garbo. Dicono che diventare vecchi abbia i suoi vantaggi e, anche se di norma non sono d'accordo, a volte mi sembra che ci sia un fondo di verità in quest'affermazione. Oggigiorno, per esempio, malgrado dimentichi spesso quanto successo ieri o l'altro ieri, a volte riesco a ricordare con assoluta chiarezza eventi accaduti decine di anni fa. Spesso la mia mente si apre all'improvviso e mi mostra episodi, molti dei quali piacevoli, degli anni passati, quando ero ancora giovane e gagliardo. A quanto pare, il tempo ha scarsa rilevanza quando si è anziani. Ma soprattutto ho capito che il tempo è come una ragazzina dispettosa, sempre presente e in mezzo ai piedi quando sei troppo giovane e pensi che non ti interessi, ma sfuggente e inafferrabile quando desideri conoscerla e viverla a pieno... Più invecchiamo, più il tempo fugge. I ricordi di quella visita a Camelot, all'epoca in cui Artù era invalido e Connlyn morto da poco, sono rimasti nitidi e inalterati nella mia memoria, i volti dei miei amici e delle persone che ho amato sono luminosi e pieni di vita, l'atmosfera che ci circonda è ricca di colori e di speranze. In quel periodo tutti i reparti dell'esercito di Camelot - anche quelli di stanza a Corbenico - si trovavano alla base e la pace regnava su tutte le nostre terre. Sapevamo che non sarebbe durata, perché eravamo circondati su tutti i fronti da invasori stranieri e presto avremmo dovuto darci da fare, se non per respingerli, quanto meno per contenerli. Ma il nostro re diventava ogni giorno più forte, aveva ricominciato a camminare ed era fiducioso che presto avrebbe potuto cavalcare e combattere di nuovo. Mi divertii un mondo ad allenarmi con lui e vederlo recuperare le forze giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, fu una delle gioie più grandi della mia vita, tanto che mi sentivo fortunato e privilegiato a trovarmi a Camelot in quel periodo. Finché le navi di Connor non fossero arrivate da Glevum a riprendermi, non potevo tornare in Gallia e, dato che non potevo fare nulla per accelerare i tempi, dovevo solo rassegnarmi ed essere paziente. In quei giorni trascorsi parecchio tempo pensando a Elaine. Quando le chiesi a bruciapelo se il piccolo Galahad era figlio mio - e fui costretto a portarmi dentro quel dubbio per due lunghi giorni prima di poterglielo chiedere - Elaine mi rispose in modo sincero e diretto. Mi confessò che non lo sapeva con certezza, ma che sospettava di sì. Comunque mi disse ridendo che per lei non faceva la minima differenza se era figlio mio o di Jonas. In entrambi i casi era felice perché noi due eravamo gli uomini che aveva amato di più al mondo e il fatto di non conoscere chi fosse davvero il padre le permetteva di credere che il bambino avesse preso il meglio di ognuno di noi. Ovviamente Jonas non sospettava neanche l'eventualità che il bambino non fosse suo, aggiunse in fretta, perché non fraintendessi. Non ero molto soddisfatto della sua spiegazione e lo ero ancor meno del modo in cui me l'aveva data, perché dal suo contegno capii senza ombra di dubbio che avevo interpretato male le sue parole quando mi aveva parlato della nascita del bimbo la prima volta e che il suo sentimento nei miei confronti era sì amore, ma non il tipo di amore che desideravo. Ricordo che quella sera andai a letto commiserandomi, ma quando mi svegliai la mattina seguente era avvenuto un profondo cambiamento dentro di me: da quel momento pensai a Elaine sempre e solo come alla moglie di Jonas e alla madre di suo figlio. Lo stesso Jonas venne a Camelot qualche giorno più tardi e sembrò contento di vedermi e di stringermi la mano; per quanto mi sforzassi, non riuscivo a scorgere nessuna traccia di gelosia o di sospetto in lui. Insistette affinché conoscessi suo figlio, il piccolo Galahad, e notai con piacere che il bambino, il quale ormai a due anni aveva già imparato a camminare e a parlare, era davvero bello come dicevano, con folti riccioli neri e intensi occhi azzurri. Quel pomeriggio, mentre bevevamo una brocca di birra nel cortile esterno delle cucine, Jonas mi parlò dell'accordo che aveva fatto con la moglie. Elaine trascorreva un mese a Camelot per servire la regina e un mese a casa con lui, nel villaggio in cui era capo della comunità. La cosa stava bene a tutti e due, perché erano entrambi molto felici che il loro figlioletto crescesse con i privilegi derivanti dall'essere un pupillo del re e della regina e che cominciasse subito la sua istruzione. Mentre mandavamo giù diversi boccali di ottima birra, mi resi conto che Jonas mi era davvero molto simpatico e desideravo soltanto il meglio per lui e per la sua famiglia; mi capitò diverse volte di tenergli compagnia, mentre era a Camelot per aspettare che la moglie terminasse di svolgere i suoi servizi e tornasse a casa con lui. Il pomeriggio della loro partenza, mi recai a Villa Britannico insieme ad Artù, che fu trasportato su un carro ben ammortizzato fino alle lussuose terme della villa per il bagno e per farsi cambiare le bende che aveva sulla ferita. Una volta arrivati, lo lasciai alle cure dei medici e dei chirurghi e mi diressi subito nel posto della villa che preferivo, la grande stanza conosciuta come armeria fin dai tempi del suo fondatore, Publio Varro, il quale era morto molto tempo prima della mia nascita. Lì dentro, ancora sulle pareti su cui lui l'aveva disposta, c'era una magnifica collezione di armi antiche e fra queste spiccavano per la loro relativa modernità numerosi pugnali e gladi romani, tutti fabbricati da Varro. Ero in quella stanza ad ammirare quei reperti già da un po', quando sentii un colpetto di tosse alle mie spalle; mi girai e vidi Crasso, uno dei capitani della Guardia della Regina. Come al solito l'uomo era agghindato in maniera impeccabile, con l'armatura lucida e le insegne linde e quasi abbaglianti per la lucentezza. Si scusò per avermi interrotto e mi chiese di andare con lui: la regina voleva parlarmi. Lo seguii un po'"perplesso, poiché ero convinto che la regina fosse rimasta alla fortezza, e mi meravigliai quando vidi Ginevra in compagnia del giovane Mordred su una lunga e stretta striscia d'erba che costeggiava il lato sud della villa. Accanto a loro, appoggiata al muro, c'era una delle mie faretre con le lance e un po'"più lontano, a circa trenta passi da loro, qualcuno, probabilmente una delle guardie, aveva conficcato nel terreno un palo appuntito. Mentre cercavo di ricompormi, guardando a bocca aperta prima Ginevra, poi Mordred e infine le mie lance, Ginevra, dispiaciuta per il mio imbarazzo, venne verso di me con un sorriso che le fece comparire una fossetta sulla guancia. "Perdonate la mia sfrontatezza, Seur Clothar, ma stavo parlando di voi con il principe Mordred e gli stavo raccontando di come noi due ci siamo conosciuti e di come siete diventato il lanciere - il mio hastatus - ma temo che il principe non mi abbia presa molto sul serio quando ho detto che so tirare le vostre lance." Il suo sorriso si fece più largo, e lei si voltò verso Mordred, che divenne tutto rosso. "Così, senza pensarci troppo, ho mandato il capitano Crasso a cercarvi per chiedervi se potevate prendere le lance e offrirci una dimostrazione della vostra bravura. Purtroppo eravate già andato via, ma il capitano Crasso ha visto le lance nella vostra stanza e, pensando che non ci fosse niente di male, ha deciso di portarmele." Gettai uno sguardo a Crasso e anche lui avvampò, poiché si rendeva conto di ciò che aveva fatto e non sapeva come rimediare. "Ovviamente," proseguì la regina "non avrei mai usato le vostre armi senza il vostro permesso, così quando abbiamo scoperto che eravate venuto qui insieme al re vi abbiamo seguito, con la speranza che voleste farci quest'onore. Volete?" Del tutto disarmato dalla sua aria innocente, le sorrisi anch'io e guardai Mordred. "È vero che hai dubitato della parola della regina, Mordred? Stento a crederci, perché so quanto lei sia sincera. Davvero, non ho mai visto una persona tanto portata per il lancio dei giavellotti. Senza alcun addestramento, ha imparato semplicemente osservando me all'opera e scagliato le mie lance in maniera quasi perfetta fin dalle prime volte che ha provato." "Le uniche volte che ho provato!" esclamò Ginevra con una risata. "Perdonatemi, mia signora, avete ragione, ovviamente..." Mi rivolsi di nuovo a Mordred, che spostava lo sguardo da me a Ginevra con la bocca leggermente aperta. "Le prime e uniche volte che ha provato. E non era molto più grande di te, aveva al massimo tredici anni. Dico bene, mia signora?" "Avevo dodici anni all'epoca. È vero." "Tu non hai ancora provato a tirare le mie lance, Mordred. Ti piacerebbe farlo?" Il ragazzo aveva gli occhi sgranati ma, dato che annuì in silenzio, andai a prendere la mia faretra e gli mostrai come erano state concepite e costruite quelle armi e come funzionavano le corde da tiro. Mordred mi osservò affascinato, senza perdersi una parola di quello che dicevo, e la regina guardava altrettanto rapita da sopra la sua spalla. Dopodiché gli spiegai i vari passaggi che servivano per prepararsi al lancio, mostrandogli prima come individuare il punto di equilibrio sull'asta e poi come attaccare e avvolgere al meglio la corda intorno all'impugnatura in modo che si srotolasse un po' alla volta e senza problemi; questo faceva sì che l'asta ruotasse durante il volo, facendo acquistare all'arma potenza e velocità e garantendo una maggiore precisione rispetto a quella che si otteneva con un lancio normale. Naturalmente dovetti dimostrare passo passo quello che spiegavo, compiendo prima i movimenti a velocità normale e poi cercando di ripetere tutto più lentamente in modo tale che Mordred potesse osservare meglio... un'impresa praticamente impossibile. Quella dimostrazione durò circa mezz'ora e quando finì, Mordred moriva dalla smania di fare un lancio, così gli permisi di provare, dopo avere scambiato un sorriso con la regina, mentre lui teneva il capo chino e la lingua fra i denti, tutto concentrato ad avvolgere l'estremità della corda da tiro intorno al suo indice. Il primo lancio fu un disastro, così come i due successivi, ma al quarto tentativo riuscì finalmente a tirare la lancia in direzione del palo che si trovava dall'altra parte del tappeto erboso e il sesto giavellotto si conficcò nel terreno a meno di due passi dal bersaglio. Ormai il principe non badava più a noi, tanto era assorto nei suoi calcoli, mentre cercava di mettere in pratica tutto quello che aveva imparato. Crasso dopo un po'"aveva cominciato ad annoiarsi e, visto che la regina era perfettamente al sicuro con me e il principe, le aveva chiesto il permesso di potersi occupare di altre mansioni. Mentre Ginevra osservava Mordred, presi senza dire nulla una delle mie lance e arrotolai con cura la corda intorno a essa, quindi la porsi alla regina. Ginevra la fissò a lungo con il volto inespressivo, poi mi guardò negli occhi e le spuntò di nuovo il sorriso. "Pensate che ne avrei il coraggio? Sono una regina ormai, non una dodicenne che vuole fare il maschiaccio. Alle regine è consentito fare certe cose?" Inclinai la testa da un lato. "Una delle regine più famose, Boudicca degli Iceni, lo faceva dal retro di un carro da guerra, mia signora, e ha quasi cacciato i Romani dalla Britannia. Dubito che qualcuno vorrà punirvi per aver onorato la sua memoria." "Ah... e se avessi dimenticato come si fa, dopo tanti anni?" "Lo scoprirete subito. Ma l'abilità che avete dimostrato da bambina non è qualcosa che si atrofizza. I talenti naturali resistono. Prendete questo e provate." Ancora oggi non so dire se quel lancio sia dipeso dalla sua abilità o dalla fortuna, ma lei non tenterà mai di ripeterlo perciò posso solo considerarlo una stupefacente dimostrazione di puro talento naturale. Fu un tiro perfetto. La lancia percorse i trenta passi che ci separavano dal bersaglio, la sua punta allungata si conficcò esattamente al centro del palo, a una spanna dall'estremità superiore, facendolo piegare completamente all'indietro sotto il peso considerevole dell'impatto. Mordred, pensando che fossi stato io a lanciare, si girò verso di me con un sogghigno, ma la sua bocca si spalancò cancellando ogni traccia di sorriso che aveva sul volto quando vide che la corda del giavellotto srotolata era ancora unita alla mano protesa di Ginevra. Ci guardò incredulo, quindi tornò a fissare la lunga lancia conficcata nel palo. "Mia signora," disse, con un sorriso tremolante sulle labbra "pensavo che sarei stato il vostro protettore, una volta diventato abbastanza grande, ma credo proprio che sarete voi a proteggere me." Non avrebbe potuto fare commento più appropriato. La regina iniziò a ridere di gusto e io la imitai, ingenuamente convinto che Camelot fosse il posto più adatto per il giovane Mordred e che un futuro radioso attendesse lui e i suoi nuovi genitori. II Dieci giorni dopo quell'episodio ci giunse voce che Shaun Dito Indice era tornato a Glevum e mi aspettava per riportarmi in Gallia insieme alla mia guardia d'onore franca. La sera prima della partenza, Artù - che ormai era in grado di camminare da solo per la maggior parte del tempo - invitò tutti i compagni cavalieri a cenare con lui e la regina, per rendere omaggio ai cavalieri franchi. Merlino mancava da Camelot già da diversi giorni, nessuno sapeva dove fosse né quando sarebbe tornato, perciò era inutile aspettare che si facesse vivo. Artù decise di procedere senza il suo anziano consigliere. Durante quella riunione, il re si scusò per l'assenza di Merlino e ringraziò pubblicamente i guerrieri gallici, riconoscendo loro il merito di aver eliminato Connlyn e di aver messo fine al conflitto nel Nord. A rigor di termini, questa non era proprio la verità, ma i franchi si erano avventurati con me a nord del Vallo e da lì si erano addentrati nel cuore dei territori nemici senza preoccuparsi della loro incolumità, in una guerra che non li riguardava per niente. Meritavano tutte le lodi che ricevettero, e Artù fece di tutto per assicurarsi che i suoi ospiti tornassero in Gallia con un'altissima considerazione dei Britanni conosciuti a Camelot. Nominò cavalieri i due comandanti franchi, Cortix e Quinto Milo, con una cerimonia speciale e consegnò ai restanti ufficiali e a ogni altro membro della guardia d'onore un piccolo dono in ricordo della loro visita: un blasone ricamato a mano, lo stesso che compariva sulla sua insegna personale, quella con il drago rosso dei Pendragon sullo sfondo verde, racchiuso in un'elegante cornice di argento battuto, che andava cucito sul lato sinistro del petto come simbolo della stima del sommo re della Britannia. Consegnò alle guardie anche un magnifico cavallo baio da portare in omaggio a re Pelles. Al termine della cena, Artù mi invitò nelle sue stanze e ripetemmo insieme tutto quello di cui avrei dovuto occuparmi al mio ritorno in Gallia. Dovevo ringraziare Pelles per il suo prolungato aiuto e ottenere da lui il permesso di recarmi a sud fino a Orléans, per poi andare a far visita a Torismondo nella sua residenza, ovunque essa fosse. Una volta trovato il sovrano visigoto, dovevo portargli i saluti del re della Britannia e omaggiarlo con i ricchi doni recati da Camelot. Lo scopo principale della mia visita, naturalmente, era quello di scoprire se era possibile instaurare dei rapporti commerciali con i territori di Torismondo. Artù non sapeva ancora quali merci di scambio possedesse il popolo visigoto, a parte il vino e le armi, forse, ma era sicuro che una volta arrivato lì avrei trovato un mucchio di prodotti da barattare con le generose quantità di solido stagno della Cornovaglia che noi avremmo offerto. Annuivo con approvazione mentre Artù parlava, ma i miei pensieri erano altrove. "A cosa pensi? Hai un'espressione strana sul volto." "Parlando dei territori di Torismondo, mi è appena venuto in mente che durante il viaggio passerò vicino alla casa di Benwick in cui sono cresciuto. Una volta mi diceste che avevo la vostra benedizione se avessi voluto andarci. È ancora così?" "Ma certo. Vai dove vuoi e fatti scortare da tutti gli uomini di cui hai bisogno. Sarà magnifico per te tornare a casa, anche solo per una breve visita. Quanto tempo è passato dall'ultima volta che ci sei stato, dieci anni?" "Sì, all'incirca. Avevo sedici anni quando sono arrivato qui, perciò credo sia così." "Quindi è proprio ora di tornarci. So che adesso tuo cugino è diventato re, anche se non ricordo il suo nome." "Bracco di Benwick. Perlomeno una volta era il re. Adesso non so nemmeno se è ancora vivo." "E come potresti? Hai dedicato la tua vita a me, da quando ti sei trasferito qui. Questo dimostra che ho ragione. È passato fin troppo tempo dall'ultima volta che sei tornato a casa, perciò devi assolutamente andarci quando arriverai in Gallia. A proposito, c'è un'altra cosa che volevo chiederti. Dalla Gallia mi hai scritto una lunghissima lettera in cui mi dicevi che Pelles è tuo cugino e che governa anche a Ganis, il regno che spettava a te di diritto. All'epoca mi hai detto che la cosa ti rendeva felice e, a giudicare dalla spiegazione che mi hai dato, non ne dubito. Ma a volte mi chiedo se per caso non hai cambiato idea. Allora, ci hai ripensato oppure ti ritieni ancora fortunato così come sei?" Scoppiai in una fragorosa risata. "Non potrei essere più fortunato di così! Dio non mi ha creato perché diventassi re, Artù, e lo ringrazio ogni giorno per questo. Quando vedo le rughe che vi segnano la fronte e le zampe di gallina che vi circondano gli occhi, ringrazio il Signore, perché sono ancora giovane e spensierato." Fece per alzarsi fingendosi offeso e io sollevai entrambe le mani in segno di resa. "Perdonate la mia lingua straniera, Seur re. Non voglio essere né fustigato né ucciso." Si lasciò cadere di nuovo sulla sedia, con un leggero sorriso. "Allora rispondi in modo civile alla mia domanda, zotico d'un franco." "Non avete bisogno di altre risposte, perché non ho cambiato idea. Dico sul serio, Artù, sono contentissimo della mia vita. Pelles è un sovrano decisamente migliore di me, per fortuna." Artù sorrise e annuì, mostrando allo stesso tempo un'aria di mesto stupore. "E sia, amico mio. Comunque ti confesso che nessuno fra tutti quelli che conosco avrebbe mai rinunciato con tanta disinvoltura a diventare re. L'idea di essere sovrano alletta tutti, per via del potere e dell'influenza che questo implica." Non trovai difficile confutare la sua tesi. "Ho già tutto il potere che mi serve, Artù. Ho il potere di comandare i miei uomini e soprattutto ho il loro rispetto, che è la cosa più importante. Cosa potrei desiderare di più?" Parlammo di molte altre cose dopo, ma la nostra fu una conversazione casuale e spontanea, una chiacchierata tra due vecchi amici che si intrattengono dopo aver discusso di tutte le questioni più urgenti. Quella sera Ginevra aveva deciso di lasciarci soli, sapendo che sarebbe stata l'ultima occasione che avevamo di passare un po'"di tempo per conto nostro, prima che io tornassi in Gallia. Apprezzai molto la sua considerazione. Parlammo delle campagne che Artù aveva in mente di fare l'anno prossimo dopo essersi ristabilito del tutto e dei suoi futuri rapporti con il padre di sua moglie, Simmaco di Chester. L'argomento mi fece istintivamente pensare al principe Mordred e alla sua eredità, nonché alle complicazioni che potevano sorgere nel caso fosse nato un secondo erede. "È un bravo ragazzo, non è vero?" Artù si infervorò all'istante, lieto di poter parlare di un argomento così piacevole per una volta. "Diventerà un'ottima guida per i Pendragon, ho questo presentimento ogni volta che lo guardo. Non so spiegartelo, Lance, ma quel ragazzo ha qualcosa di davvero familiare, mi ricorda tanto qualcuno." "Sua madre?" "No, non Morag, anche se la rivedo nei suoi occhi e nel modo in cui a volte piega la testa da un lato. Adoravo il modo in cui lei faceva quel gesto, e nostro figlio lo ripete nella stessa identica maniera. No, chiunque sia la persona che mi ricorda, non riesco proprio a metterla a fuoco. Eppure è lì. A volte mi sembra di vederla, ma alla fine mi sfugge. Prima o poi scoprirò di chi si tratta." "Diventerà re della Federazione dei Pendragon, dato che è vostro figlio?" "No." Mi lanciò un'occhiata severa e poi aggiunse: "Almeno non credo, anche se le cose potrebbero cambiare prima che raggiunga la maggiore età, sempre a patto che lui voglia ricoprire quella posizione e che nel frattempo sia riuscito a farsi una reputazione degna di nota. Diventare re di una federazione non è un diritto ereditario, Lance. Bisogna essere eletti. Te l'ho già detto altre volte. Il nuovo re viene scelto alla morte di quello attuale da un'assemblea formata dai capi dei clan che compongono la federazione e non tutti sono dei Pendragon. Persino il nome della federazione può essere cambiato in ogni momento. Oggi si chiama Federazione dei Pendragon perché gli ultimi cinque o sei re erano tutti Pendragon, ma potrebbe non essere così in futuro". "E che mi dite del titolo di riotamo? Un giorno quello potrebbe essere suo?" Artù si rabbuiò. "Non posso risponderti, Lance, perché proprio non lo so... e non credere che non ci abbia pensato." "Non lo sapete? Come è possibile?" "Perché è così. La verità è che non ho la più pallida idea di quello che succederà. Nessuno ce l'ha." Vide la mia espressione confusa e allargò le braccia per esprimere la sua frustrazione. "So che può sembrare assurdo, perché io sono il riotamo e tutti pensano che dovrei sapere certe cose, ma da un certo punto di vista è logico, una volta accettata la realtà della situazione. E cioè che il rango e il titolo di riotamo sono stati inventati o quanto meno presi in prestito dalla leggenda." "Dalla leggenda?" "Dalla leggenda, dal mito, dalla storia... come preferisci. Merlino ha ripescato quel titolo dai racconti dell'antichità. Lo ha rimesso in auge per due ottimi motivi, che riteneva giustificassero ampiamente quello che aveva fatto. Gli serviva qualcosa che mi fornisse una parvenza di legittimità, nel mio tentativo di unificare i restanti clan e regni della Britannia affinché contrastassero le ondate sempre più frequenti di invasioni straniere. E doveva assicurarsi l'appoggio della Chiesa cristiana, doveva fare in modo che essa continuasse a esistere in Britannia, perché era fermamente convinto che l'appoggio della Chiesa fosse di vitale importanza per me, se volevo riuscire nel mio intento. La Chiesa conferisce legittimità a me e alla mia missione, perciò ha in cambio tutta la mia devozione." Fece una smorfia. "Purtroppo per noi, però, la storia del riotamo usata da Merlino potrebbe essere messa in discussione, perché non abbiamo la prova inconfutabile che un riotamo sia esistito per davvero." Restai in silenzio per un po', sorpreso e atterrito da quanto appena udito. "Quindi state dicendo che è tutta una bugia: la vostra monarchia, la vostra missione... Non posso crederci." "No, amico mio, non sto affatto dicendo questo. Intendo solo che nessuno di noi - né io, né Merlino, né i consiglieri - sa cosa accadrà al titolo di riotamo dopo la mia morte. Il rango di riotamo è qualcosa di mitico, riportato in vita per scopi ben precisi. Può darsi che non ci sarà un uomo degno di detenere quel titolo, sebbene anch'io a volte dubiti di esserne all'altezza. Ma una cosa di cui sono certo è che non ho alcun diritto di promettere quel rango e quel titolo a mio figlio, per quanto possa volergli bene." "Allora quale sarà l'eredità di Mordred?" Artù scrollò le spalle. "Sarà il capo dei Pendragon della Cambria meridionale. Non so cosa ha in serbo per lui il futuro, ma potrebbe anche diventare re della Britannia o di Camelot, dato che a quanto pare alla gente qui farebbe molto piacere averlo come sovrano. Ma riotamo?" Scosse il capo. "Non lo so e non lo posso sapere." "E se doveste generare un nuovo erede con Ginevra?" Mi lanciò uno sguardo pungente, con gli occhi socchiusi. "Non succederà, ma perché me lo chiedi?" "L'eredità di Mordred rimarrà intatta?" Le sue labbra si incresparono in un debole sorriso. "Sì. Un altro figlio non intaccherebbe in nessuno modo l'eredità che spetta a Mordred. Non ho nascosto a nessuno il fatto che sia il mio primogenito e Ginevra non ha problemi con questo. Mordred erediterà tutto quello che ho, di qualunque cosa si tratti." Quelle parole, caratterizzate dall'incertezza, mi toccarono nel vivo, perché sapevo che non era stato ancora deciso come designare un successore per Artù, se il re fosse caduto in battaglia o fosse morto a causa di qualche ferita o malattia. Era una situazione insostenibile e la trovavo così assurda che non riuscivo a smettere di pensarci, distraendomi spesso. Ma Artù e i suoi consiglieri si rifiutavano di discuterne, come se avessero dimenticato che la sua morte prematura, a prescindere dalla causa, avrebbe mandato in fumo tutti i loro piani e garantito il crollo totale del regno per la mancanza di una guida. Artù stesso aveva sempre sostenuto che chiunque fra i suoi amici e comandanti più cari - ora i suoi compagni cavalieri - sarebbe stato in grado di governare al posto suo e che lo avrebbe fatto in caso di necessità, ma nonostante l'appoggio di Merlino e di una potente assemblea di vescovi, la resistenza da parte dei sovrani e dei signori della guerra che si annoveravano fra gli alleati di Camelot era disarmante. Era palese che quei sovrani pensavano molto di più ai loro interessi che a proteggere il regno dagli invasori e la cosa faceva infuriare e scoraggiare Artù, per questo, almeno secondo me, egli si rifiutava di affrontare l'argomento della successione. Se Artù diceva sul serio riguardo a Mordred, vedevo finalmente un barlume di speranza in quell'oscurità. E sembrava proprio serio, non aveva ancora finito di parlarne. "E poi, Lance," proseguì "tu sai la verità riguardo alla questione dei figli. Io e Ginevra siamo d'accordo sul fatto di non mettere al mondo degli eredi finché Simmaco sarà in vita. Sarebbe pura follia e se lo facessi firmerei la condanna a morte di Mordred, perché Simmaco non si farebbe scrupoli a toglierlo di mezzo qualora lo percepisse come un ostacolo alla realizzazione dei suoi piani. Ma a parte questo, generare un altro figlio in questo momento sarebbe impossibile, per colpa di questa ferita. Credimi, amico mio. Non ci penso nemmeno. Forse negli anni a venire, se Dio mi permetterà di ristabilirmi abbastanza da potermi abbandonare ai piaceri della carne, potrei fare un tentativo, ma per adesso uso tutte le mie energie per rimettermi in forze e tornare a cavalcare." Si fermò e mi guardò dritto negli occhi, poi mi rivolse un sorriso, che io ricambiai. "Perciò, giovane franco, non ci sono altri figli in vista, per ora. Mordred è l'unico di cui ho bisogno al momento, mi dispiace solo che ci abbia impiegato tanto a trovarmi, ma a Dio piacendo trascorrerò i prossimi anni con lui e lo vedrò entrare nell'età adulta. E alla fine, quando io morirò, lui avrà tutti i requisiti necessari per diventare un ottimo capo, forse addirittura un grande re. So già che li ha. L'ho capito persino nel poco tempo in cui l'ho visto. Quello che gli serve per far maturare quelle doti è una guida. Dopodiché con il tempo diventerà un capo formidabile, adatto al compito formidabile che si troverà davanti." Sapevo esattamente cosa intendeva Artù, perché formidabile era il termine appropriato. Egli stesso aveva cominciato a combattere le orde di stranieri molto prima che io lo conoscessi ma, nonostante i suoi successi, si era trovato a dover difendere i suoi territori da incursioni sempre più frequenti, da parte di un nemico che diventava sempre più potente, grazie ai rinforzi che arrivavano inesorabilmente dai paesi d'oltremare, tutti desiderosi di conquistare un pezzo di terra su cui vivere e prosperare. Piombammo di nuovo in un lungo silenzio, durante il quale ognuno ripensò alle parole appena pronunciate e al loro significato. Alla fine arrivò il momento di ritirarci. Temevo già l'arrivo dell'alba, poiché sapevo che non sarei riuscito a riposare finché non fossi stato di nuovo in mare aperto, a bordo della nave di Shaun Dito Indice, così dissi addio al re in modo estremamente solenne, con l'affetto di un fratello, giurando che appena arrivato in Gallia avrei esaudito tutte le sue richieste e lo avrei tenuto sempre aggiornato sulla situazione. Avevo lasciato una lunga lettera a Merlino con scritto tutto quello che non gli avevo detto, poiché non sapevo che sarei ripartito prima che lui tornasse a Camelot, e la diedi al re pregandolo di consegnarla al vecchio consigliere. E poi, molto prima che fossi pronto, giunse il momento di partire. L'alba spuntò grigia e triste, con il sole che cercava invano di passare attraverso un fitto strato di nubi e un velo di pioviggine, tanto che prima ancora di metterci in viaggio per Glevum eravamo già seduti sulle nostre selle con le spalle ricurve e l'aria mesta. Ma la regina Ginevra era venuta ad augurarci buon viaggio e persino il giovane Mordred si era alzato presto per salutare me e il suo amico Rufus. Ci accomiatammo da tutti i presenti e ci dirigemmo a nord senza ulteriore indugio; quando mi voltai per l'ultima volta, dalla cima di un'altura lontana, le nubi avevano già inghiottito la collina e non si vedeva più nulla. Mi girai di nuovo e continuai per la mia strada con un peso sul cuore. III Da qualche parte, al margine di una delle grandi pagine del suo libro, l'angelo del Paradiso che annota tutte le azioni umane, doveva aver scritto che il cavaliere Clothar il Franco, talvolta chiamato anche Clothar di Benwick o addirittura Clothar di Ganis, non sarebbe mai e poi mai stato capace di mostrarsi amico del re Torismondo di Aquitania. Non so proprio perché l'angelo avesse decretato una cosa simile, ma per quanto mi sforzassi, non riuscivo proprio a nutrire simpatia per il giovane re dei Visigoti, e ancora oggi non so perché. Sarebbe facile condannarlo dicendo semplicemente che era detestabile, ma sarebbe ingiusto, perché non lo era affatto; era un uomo giovane, non ancora nel fiore degli anni, garbato e piacevole alla vista. Aveva ricevuto da poco il titolo di re all'unanimità, durante la battaglia di Chalons, dove si era battuto con eroismo contro Attila, il re degli Unni, dopo che suo padre, re Teodorico, era stato ucciso, e avevo motivo di credere che alle altre persone piacesse. La verità era che a me non piaceva affatto, per ragioni che neanche io riuscivo a spiegarmi, e ovviamente io non piacevo a lui. Dopo essere tornato in Gallia, avevo trascorso circa sei mesi con Pelles a Corbenico ed ero partito alla volta di Orléans, accompagnato da Perceval e Bors, alla guida di cinquecento soldati e quaranta esploratori a cavallo dei Pendragon, non appena i primi germogli primaverili erano spuntati sugli alberi. Metà del nostro equipaggio era composto da uomini di Camelot, mentre l'altra metà era formata da soldati di Corbenico addestrati da noi. Era stato Pelles a insistere, perché all'inizio io avevo pensato di recarmi al Sud solo con i miei cinquecento uomini, ma mio cugino, da sovrano responsabile e previdente qual era, aveva pensato di mandare un gruppo dei suoi in rappresentanza da Torismondo di Aquitania. Voleva far sapere al re visigoto che c'era un valido e sofisticato esercito a sua disposizione nella Gallia settentrionale, qualora avesse deciso di rivolgersi a Corbenico in cerca di alleanza e di scambi commerciali. Accontentai volentieri mio cugino, perché a me non interessava chi facesse parte della mia scorta; i soldati di Corbenico non si distinguevano più da quelli di Camelot ormai, se non per le sottili differenze fra i vessilli e gli elementi distintivi del rango. La mia unica priorità era presentare me e gli uomini che mi accompagnavano come una forza da tenere in considerazione... un disciplinato reparto di cavalleria. Procedemmo alla svelta e senza intoppi durante il nostro viaggio verso sud da Corbenico alla Loira. Il nostro arrivo davanti alle mura della città di Orléans, tuttavia, generò un certo scompiglio e ci vennero subito chiusi i cancelli in faccia. La vista improvvisa di cinquecento cavalieri sconosciuti e schierati in modo ordinato doveva aver turbato la quiete cittadina: ci fu subito chiaro che le porte della città sarebbero rimaste chiuse finché non ce ne fossimo tornati da dove eravamo venuti. Quella però era un'opzione impossibile, perché la città di Orléans difendeva l'unico ponte della regione che attraversava l'impetuosa Loira. Girare intorno alla città in cerca di un punto adatto ad attraversare il fiume avrebbe implicato una deviazione di diverse miglia su un territorio disagevole e ostile. Sapendo di dover affrontare qualunque cosa potesse esserci al di là di quelle mura, avanzai da solo e senza armi, a parte la mia spada da cavaliere, che portavo appesa dietro la schiena come sempre, ma avevo in mano una bandiera bianca per far capire che andavo in pace. I cancelli si aprirono adagio per consentire a sei portavoce di uscire per venire a parlare con me. Come c'era da aspettarselo, quattro di essi erano soldati della guarnigione della città, mentre gli altri due erano membri del consiglio cittadino. Mi presentai e spiegai loro chi eravamo e da dove venivamo, dicendo che eravamo stati mandati in missione diplomatica da re Artù Pendragon di Britannia e da re Pelles di Corbenico, per incontrare il loro sovrano, Torismondo di Aquitania. Dapprima i nostri interlocutori non si sforzarono affatto di mascherare la loro ostilità, e capii subito che il comandante supremo, Claudio, il quale si era presentato come ufficiale superiore e comandante della guarnigione di Orléans, non era molto entusiasta all'idea di lasciar passare cinquecento guerrieri armati, a cavallo e presumibilmente affamati attraverso i cancelli della città, dando loro libero accesso ai ricchi terreni coltivati di cui lui, almeno sulla carta, era responsabile. Non aveva mai sentito nominare Artù di Britannia e non si sforzò di fingere il contrario, anzi tirò su col naso in modo sprezzante. Era armato di tutto punto e indossava un elmo munito di protezioni per le guance, che gli oscurava completamente il volto e mi impediva di decifrare la sua espressione; tuttavia decisi di rischiare, convinto che le rozze maniere di quel comandante derivassero dalla sua insicurezza. Era evidente che non si era mai trovato in una situazione simile prima di allora e per questo si mostrava più aggressivo del necessario, poiché sentiva il bisogno di far vedere ai suoi compagni che sapeva essere ostile e scortese quando le circostanze lo richiedevano. Drizzai la schiena e spronai il cavallo con le ginocchia per farlo andare verso di lui, conscio del fatto che mi stava squadrando da capo a piedi, soffermandosi sulla grande e magnifica elsa che spuntava da dietro la mia schiena. Era un uomo robusto e l'armatura lo rendeva ancora più massiccio, ma io ero più alto e pesante di lui e la mia armatura era più raffinata e maestosa. Intanto il mio cavallo era di qualche spanna più alto del suo e mi consentiva di sovrastare Claudio, anche se mentre lo raggiungevo, cercavo di non farlo in modo troppo palese o aggressivo. "Ti sei avvicinato abbastanza" gridò, quando fui a quasi una lancia di distanza da lui, e imprecò a denti stretti per averlo detto. Tirai le redini e feci un profondo inchino con il capo prima di iniziare a parlare di nuovo, come se fino a quel momento non ci fossimo ancora rivolti la parola. "Comandante supremo Claudio, di sicuro mentre ci avvicinavamo avrete notato dai vostri bastioni che la nostra colonna è accompagnata da dieci carri, ognuno trainato da quattro cavalli bene assortiti. Quei carri trasportano razioni di cibo, per noi e per i nostri animali. Siamo una colonna celere, il che significa che ci fermiamo assai di rado e che il nostro unico interesse è quello di arrivare a destinazione nel minor tempo possibile. Siamo anche autosufficienti riguardo ai viveri, pertanto non costituiamo nessuna minaccia per gli agricoltori delle terre che attraversiamo. L'unica cosa che facciamo per il nostro approvvigionamento lungo la strada - qualunque essa sia - è mandare dei gruppi di uomini a caccia di selvaggina, ogni tre o quattro giorni, per spezzare un po'"la monotonia delle razioni di cibo secco. Il nostro compito è quello di trovare il vostro capo, Torismondo di Aquitania, re dei Visigoti, e di offrirgli qualcosa che egli possa ritenere molto prezioso, da parte del mio capo e riotamo Artù Pendragon. Probabilmente non avete mai sentito parlare del titolo di riotamo prima d'ora, perché è tipico della Britannia. Significa sommo re, sommo re della Britannia Unita. Forse non sapete neanche che la Britannia è stata per secoli fonte di sostentamento per l'Impero d'Occidente. I suoi raccolti hanno sfamato gran parte del mondo occidentale, prima che il famoso antenato del vostro re, Alarico, saccheggiasse Roma. Quando Roma cadde in mano ai Visigoti, la Britannia cessò di inviarle scorte di viveri. Ma le enormi fattorie che mandavano i raccolti a Roma esistono tuttora e sono ancora fertili, capaci di produrre le stesse quantità dei tempi passati. Re Artù vuole offrire a re Torismondo l'accesso a quelle risorse di cibo, a patto che ci siano determinate condizioni commerciali. Tuttavia, a quanto pare, non avete intenzione di farci varcare i vostri cancelli e questo significa che dovremo trovare un altro modo per raggiungere il vostro re. Comunque vi prometto che quando lo incontrerò non mancherò di informarlo che siete stato voi a ordinarci di andare via e di tornare in Britannia." Non ci furono altre discussioni. Claudio inviò subito dei messaggeri a cavallo da Torismondo, dovunque egli fosse, per riferirgli che stavamo andando a incontrarlo. Poteva trovarsi in qualunque parte dell'Aquitania, o addirittura nell'Iberia settentrionale, perché alla fine Claudio confessò che il re aveva viaggiato per il regno in lungo e in largo da quando era asceso al trono. Ma poi scoprimmo che Torismondo si trovava a Carcassonne, nella parte più meridionale del suo regno e, quando arrivammo lì, niente ci impedì di raggiungerlo. Tuttavia, il re ci fece aspettare tre ore in un'anticamera prima di riceverci nella sala del trono e anche allora, malgrado ci avesse accolti con le parole adeguate, non mostrò particolare interesse per il nostro viaggio o per il messaggio che eravamo venuti a recapitargli. Nel corso dell'udienza venne interrotto di continuo da messaggeri che, a quanto pare, portavano tutti comunicazioni urgentissime, finché non arrivai alla conclusione che lo stava facendo di proposito, per farci vedere che era oppresso dalle questioni governative e che il suo tempo, oltre a essere limitato a causa di problemi sempre diversi, era tanto prezioso da non potergli permettere nemmeno di riservare un po'"di cortesia agli ambasciatori di un altro sovrano arrivati a fargli visita. Trassi le mie conclusioni dopo quell'attenta osservazione e, quando l'ennesimo messaggero entrò ansante nella sala delle udienze, accompagnato dalle guardie che si trovavano alla porta, alla fine mi alzai e, sollevando la mano in modo perentorio, interruppi il nuovo arrivato prima ancora che potesse parlare. Quello mi guardò a bocca aperta, insieme al re e ai suoi consiglieri. Prima che il re o il messaggero potessero riprendere l'iniziativa, mi ero già allontanato da loro in modo brusco, dopo aver fatto al re in fretta e furia le scuse mie e del mio signore, Artù, riotamo di Britannia. Nessuno si era reso conto, dissi ai miei interlocutori ammutoliti, che il re visigoto fosse così oberato. Se avessimo saputo quanto era impotente davanti alle questioni che lo assillavano, non avremmo mai pensato di fargli sprecare il suo tempo con la nostra visita insignificante. Gli assicurai che saremmo partiti l'indomani e lo ringraziai di nuovo per essere stato tanto gentile da riceverci, dicendo che avrei informato il mio re che l'Aquitania non aveva bisogno di derrate alimentari né di altri prodotti tipici della Britannia. Detto ciò, mi inchinai e me ne andai insieme ai miei uomini. Per fortuna Torismondo ebbe la presenza di spirito di non provare a fermarci. Anche se si era sentito oltraggiato dall'insolenza con cui avevo espresso la mia opinione sulla sua condotta, e senza dubbio era così, fu abbastanza intelligente da capire che mi aveva spinto lui a comportarmi in quel modo e che se avesse cercato di tirarla troppo per le lunghe, avrebbe ottenuto soltanto guai. Così restò immobile e ci lasciò andare via, cosa che facemmo con grandi inchini e gesti ossequiosi, ma assolutamente privi di vero rispetto, proprio come l'accoglienza che ci aveva riservato lui. Tuttavia, non avevamo ancora percorso tutto il corridoio che si trovava fuori dalla stanza delle udienze, che mi sentii chiamare per nome e vidi uno dei consiglieri anziani che si affrettava a raggiungerci. Quell'uomo, di nome Gundovald, con quell'unica mossa si era guadagnato lo stipendio di un anno intero, qualunque fosse stata la somma che riceveva da Torismondo per i suoi consigli. Dopo aver sfruttato quel breve lasso di tempo per pensare a cosa dire, ci assicurò che il suo capo era costernato per il modo in cui erano andate le cose durante la nostra breve udienza. Ci spiegò che c'era stata una confluenza di sventure, una sfortunata serie di circostanze che non potevano essere previste e che non si sarebbero mai ripetute. Mentre parlava, posando lo sguardo su ognuno di noi in cerca di alleati e di comprensione, vidi nella mia mente l'immagine di Torismondo che lo tirava per la tunica e gli sussurrava all'orecchio che lo avrebbe rovinato se non fosse riuscito a raggiungerci, per rabbonirci e convincerci a non ripartire così in fretta. Devo ammetterlo, sapere che il re si era preoccupato mi lusingava, perciò acconsentii a posticipare la nostra partenza e Gundovald ci accompagnò con calma in una sontuosa sala da pranzo privata, dove ci trattarono come ospiti di tutto rispetto. Dopo circa un'ora, il re si unì a noi, spogliato delle vesti e dei gioielli ufficiali, e si scusò spiegandoci in tono cortese tutto quello che era successo quel giorno. Mentre me ne stavo seduto ad ascoltarlo e a osservarlo, mi convincevo sempre più che stava mentendo e che si sarebbe presto rivelato un alleato pericoloso e forse anche un traditore. Aveva sempre la risposta pronta ed era capace di generare improvvisi scrosci di risa in quella stanza piena di uomini, ma io non riuscii mai a incontrare davvero il suo sguardo, perché ogni volta che ci provavo lui lo distoglieva un attimo prima. Come socio in affari era degno di nota, conclusi, ma come alleato temevo che non sarebbe stato molto affidabile e decisi che avrei informato Artù di tutte le mie riserve. Tuttavia, lasciai che i funzionari del mio contingente dessero il via, senza coinvolgermi di persona, a una trattativa commerciale con i Visigoti per conto di Artù di Britannia e di Pelles di Corbenico, con l'accordo che la maggior parte delle spedizioni commerciali all'inizio sarebbero avvenute via mare, fino a quando non si fossero consolidate la fiducia e l'amicizia fra le due parti e le entrate non fossero state sufficienti a giustificare l'aggiunta di itinerari via terra. Tutti gli interessati erano euforici, sembravo io l'unico a essere infastidito, così li lasciai a definire i dettagli e me ne andai, accompagnato da una decina dei miei soldati, un drappello di esploratori dei Pendragon guidati da un veterano di nome Caerfyn, e da un certo Guntram Barbarossa, un compagno visigoto incaricato personalmente dal re di scortarmi insieme a un portabandiera che per proteggerci portava l'insegna reale. La mia destinazione era la casa di Benwick in cui avevo trascorso l'infanzia, situata a sole duecentocinquanta miglia a nordest di Carcassonne, al di là del confine dell'Aquitania. Avevo fatto dei calcoli preliminari ed ero sicuro che sarei tornato a Carcassonne nel giro di tre o quattro settimane, sperando di avere un po'"di bel tempo e di non fare incontri spiacevoli lungo la strada. Guntram, che aveva ereditato dal padre il nome Barbarossa, era un tipo simpatico e scoppiò a ridere fragorosamente quando gli dissi che speravo di non fare brutti incontri. Mi assicurò che nessuno avrebbe osato disturbare, né tanto meno attaccare, un gruppo di cavalieri che portavano l'insegna del re e ben presto la sua previsione fu confermata. In ogni caso, si vedeva chiaramente che negli ultimi anni quel territorio era stato teatro di combattimenti. Gli chiesi chi si fosse scontrato in quella guerra e non fui sorpreso quando mi rispose che un enorme contingente di Unni, quasi un terzo dell'intero esercito di Attila, si era distaccato dall'armata principale dopo la sconfitta di Chalons e si era diretto a sud, combattendo e saccheggiando molte zone dell'Aquitania, mentre attraversava la Gallia in tutta la sua lunghezza e andava verso i Pirenei con la speranza di penetrare nell'Iberia. Torismondo, avvisato da Ezio di una simile eventualità, nel frattempo si era ritirato dal Nord e si era diretto anche lui a sud a marcia forzata, lasciando che il generale romano ripulisse il campo di Chalons dai resti di quel bagno di sangue. Torismondo aveva seguito un itinerario parallelo a quello degli Unni, ma era riuscito ad avanzare più in fretta perché attraversava i propri territori, mentre gli Unni avevano incontrato resistenza a ogni loro passo. Così i Visigoti si erano fermati ad aspettare e avevano attaccato le truppe unne tendendo loro un agguato dopo l'altro e logorando il nemico con salda perseveranza, finché la schiera di invasori non si era indebolita e alla fine smembrata in tre gruppi più piccoli e più arrendevoli, che il bisogno di trovare sempre nuove fonti di sostentamento aveva spinto a rimanere separati. Un esercito è guidato dallo stomaco, mi disse Guntram, recitando quel vecchio detto con grande piacere, ma centomila anime formano uno stomaco molto grande e affamato che può privare un'intera zona rurale di cibo e conferirle un aspetto desolato, come subito dopo un'invasione di cavallette. Usando delle fortificazioni collegate fra loro, che erano state costruite dai Romani e in seguito rimodernate dal padre, Torismondo, per sbarrare la strada agli Unni, aveva formato una linea rinforzata che dall'estuario della Gironda, sulla costa occidentale, si estendeva verso nordest lungo la riva sud del fiume Dordogna, fino all'antica città romana di Lugdunum, conosciuta anche come Lione, e da lì al Mediterraneo, seguendo la riva occidentale del fiume Rodano. Aveva mantenuto la formazione in modo risoluto, senza risparmiare né uomini né energie, e impedito agli Unni di entrare nei territori situati alle sue spalle, proteggendo i loro ricchi campi, i generosi raccolti e le scorte di grano e vini pregiati, finché gli invasori erano stati costretti a battere in ritirata verso est, in direzione delle Alpi e del confine settentrionale dell'Italia, sperando di trovare un po'"di cibo e una resistenza meno ostinata. Immaginai che volesse dire verso le basse colline ai piedi delle Alpi dove c'era il lago di Genava - in altre parole verso Benwick - e diventai impaziente di raggiungere la casa della mia infanzia, mentre cercavo di pensare quali problemi la assillassero al momento. Poi Guntram mi sorprese, quando si rifiutò di varcare il confine orientale del regno di Torismondo con l'insegna reale, e mi diede una breve lezione sui protocolli attualmente in vigore nei regni della Gallia. Non ne avevo mai sentito parlare e dentro di me pensai che fosse un'assurdità. Lo lasciai lì sulla sponda occidentale del Rodano, dove promise di aspettare fino al mio ritorno, e proseguii per Benwick con la mia piccola scorta. IV Pur sapendo che la zona intorno a Benwick era infestata dalle unità dell'esercito smembrato di Attila, restai sconvolto quando al mio arrivo scoprii che la fortezza di Bracco si trovava sotto assedio. Per me fu un dispiacere enorme vedere il castello di Ban, il luogo in cui ero cresciuto, in quello stato, soprattutto perché, dopo una rapida indagine, avevo scoperto che l'assedio durava da diversi mesi. All'inizio mi sembrò impossibile, per due ovvie ragioni. Primo, la parte posteriore del castello costeggiava il lago di Genava, dunque la fortezza poteva fare rifornimento d'acqua, rendendo inefficace qualunque assedio. Secondo, ragione ancor più valida, sapevo che la fortezza aveva una zona sotterranea segreta, nota come Caverne del Re, proprio la stessa caratteristica che mesi prima mi aveva fatto capire quale potenziale avesse l'antica galleria sotto la roccaforte di Connlyn. Durante la guerra civile che aveva dilaniato Benwick alla morte di re Ban, avevamo usato quel sistema di caverne, che si estendeva per alcune miglia, per far entrare e uscire di nascosto gli uomini dal forte sotto il naso del nemico. L'ingresso alle caverne era ben nascosto in un folto bosco, dentro una piccola grotta dalle pareti rosse situata a circa un miglio dalle mura del castello, ed ero curioso di sapere perché quella volta non era stato usato. La mia perplessità svanì non appena gli esploratori mandati da me in avanscoperta tornarono per comunicarmi che gli Unni erano dappertutto e che si erano accampati nella grotta rossa. Non mi preoccupavo che una volta lì dentro scoprissero il passaggio segreto, perché era impossibile trovarlo: costruito secoli prima da qualche genio dell'ingegneria, era ben nascosto, a meno che uno non sapesse dove guardare, cosa cercare e soprattutto cosa fare con ciò che avrebbe trovato. Quanto all'altra questione, quello di Genava era un lago, non un mare. Interamente circondato dalla terraferma, le poche imbarcazioni che lo solcavano potevano essere facilmente catturate, se il nemico aveva a disposizione tempo, tattiche e risorse. Prima di cingere d'assedio le difese principali, gli Unni avevano trovato il tempo, ed erano riusciti a infestare tutta la riva del lago. Con tutte le imbarcazioni in mano nemica, era complicato rifornire la fortezza e la sua guarnigione. Avevamo raggiunto il lago il pomeriggio del terzo giorno, dopo aver lasciato Guntram sul fiume; ma prima che potessimo risalire la collina davanti a noi e scorgere il castello, Caerfyn e i suoi esploratori tornarono per riferirci quanto scoperto. Il castello era stato preso d'assedio da tutti i lati di terra e, secondo i calcoli di Caerfyn, i nemici dovevano essere all'incirca diecimila, un numero assai inferiore rispetto alle cifre di cui avevo sentito parlare in precedenza a proposito degli Unni, ma in ogni caso sufficiente a impedirmi di avanzare con un gruppo di dieci soldati e sei esploratori. In alternativa, condussi i miei uomini in un bosco ceduo che si trovava nelle vicinanze, dove smontammo da cavallo e ci sedemmo per discutere delle mosse successive, anche se non c'era molto di cui parlare dato che eravamo del tutto privi di informazioni. Mi tolsi l'armatura e presi in prestito la tunica e il mantello verde scuro di uno degli" esploratori per andare insieme a Caerfyn a vedere la situazione con i miei occhi; così trascorremmo le successive tre ore fra gli alberi che si trovavano sul fianco della collina a spiare quanto accadeva nella valle sottostante. C'era solo una minuscola barca da pesca in uso vicino alla riva del lago, a sinistra della fortezza, ma era così lontana che riuscimmo a vederla solo grazie a quella posizione vantaggiosa. Non avevo idea di chi fosse la persona a bordo, ma a giudicare dal modo in cui stava in piedi in equilibrio e lanciava la rete doveva essere un abitante del luogo. A parte lui, comunque, non c'erano altre imbarcazioni sul lago, nemmeno ormeggiate lungo il molo dietro il quale si stagliava la torre del castello. E un calcolo più accurato dei nemici posizionati intorno alle mura rivelò che la stima iniziale di Caerfyn era esatta: si trattava di diecimila uomini, non di più. Ci servivano ancora alcune informazioni, ma stavolta dovevano essere fatti concreti e per ottenerle avremmo dovuto interrogare dei prigionieri. Tornammo al nostro piccolo accampamento provvisorio, dove Caerfyn radunò i suoi uomini per andare a catturare qualche unno. Sapevo bene che ci voleva molta fortuna per trovare qualcuno che riuscisse a capirci e a farsi capire, ma dovevamo fare un tentativo e, mentre me ne stavo seduto lì ad aspettare che gli esploratori tornassero, preoccupandomi per le difficoltà linguistiche, mi ricordai della barca da pesca avvistata poco prima e mi resi conto di quanto potesse esserci utile. Non solo la persona a bordo era qualcuno con cui potevo parlare, ma la sua imbarcazione poteva rappresentare un mezzo per raggiungere il castello e chiunque vi fosse all'interno. Mi ritrovai subito davanti a un dilemma. Avrei dovuto mandare gli esploratori dei Pendragon alla ricerca del pescatore, ma non potevo sapere quando sarebbero tornati. I soldati rimasti con me non avevano visto il pescatore - non avevano ancora visto neanche il lago - perciò non avrebbero saputo da dove cominciare a cercare. Avrei potuto guidarli io, ma questo significava che non sarei stato lì al ritorno di Caerfyn con i suoi prigionieri. Eppure non c'era altra scelta: l'unica cosa di cui avevo la certezza era che il pescatore non sarebbe rimasto in acqua ancora per molto, poiché stava per scendere la sera. E di certo non sarebbe venuto a riva, ubbidiente, se lo avessi chiamato... non con l'intera zona che pullulava di Unni. Dovevo trovarlo al più presto e osservarlo mentre tornava a riva senza farmi notare, quindi catturarlo non appena fosse sceso dalla barca. Probabilmente non era neanche di Benwick, poteva addirittura essere un Unno, ma a quel punto non faceva alcuna differenza. Aveva una barca, proprio quello che mi serviva. Certo che Caerfyn e i suoi uomini non avrebbero avuto difficoltà a seguire le nostre tracce, indossai di nuovo l'armatura alla svelta, presi otto soldati e ne lasciai due ad aspettare Caerfyn per spiegargli le mie intenzioni, quindi mi diressi subito a nord, verso la riva del lago, con la speranza che la barca si trovasse ancora lì. C'era, perciò passammo l'ora successiva a dare la caccia all'uomo che la occupava, seguendo i suoi spostamenti dalla riva in assoluto silenzio, attenti a non farci scoprire, mentre la luce del crepuscolo scemava a poco a poco. Facevamo bene a essere così cauti, perché prima di arrivare a riva, il pescatore fermò l'imbarcazione e vi restò in piedi per un bel pezzo a scrutare con aria sospettosa le rive coperte di canne, in attesa di un qualche segno di movimento o di pericolo. Restammo immobili, respirando a malapena, mentre aspettavamo che l'uomo si convincesse a tornare a riva; sembrò impiegarci un'eternità. Lo vedevo benissimo dal folto gruppo di giunchi in cui ero nascosto e quando finalmente si decise ad avvicinarsi alla riva e riprese a remare, alzai una mano per ordinare ai miei uomini di aspettare e di non fare nulla fino a un mio nuovo cenno. Un leggero stridio indicò che lo scafo aveva toccato il fondo, e io aspettai che il pescatore scendesse dalla barca e la trascinasse a riva, prima di dare il segnale ai miei uomini. A quel punto, l'unico suono che riuscì a emettere, prima di essere atterrato da due agili guerrieri in cotta di maglia, fu un tremulo lamento. Qualche istante più tardi ero già su di lui a tappargli la bocca perché non fiatasse. "Sei di Benwick?" Mi fissava con i suoi occhi enormi, ma annuì con decisione quando sentì che parlavo la sua lingua. Gli premetti la mano sulla bocca ancora più forte. "Anch'io. Se tolgo la mano, prometti di stare zitto?" L'uomo annuì di nuovo, così lo lasciai andare e proprio in quel momento sentii Caerfyn che mi domandava: "Allora, cos'abbiamo qui? Un pescatore?". Caerfyn parlò nella lingua della Cambria, che doveva essere molto simile a quella degli Unni, a giudicare dalla reazione del prigioniero. L'uomo si alzò in preda al panico; dovetti tappargli di nuovo la bocca, per impedirgli di gridare. "Ascoltami. Ascoltami! Amico, questo non è un unno... sembra uno di loro, ma non lo è. Viene dalla Britannia, una terra d'oltremare. Io sono di Benwick. Mio zio era re Ban. Re Bracco è mio cugino. Mi chiamo Clothar, Clothar di Ganis. Ti dice qualcosa questo nome?" Il pescatore annuì di nuovo, stavolta con maggior energia. Gli tolsi la mano dalla bocca. "Cosa sai di me?" "Ti conosco. Conosco la tua faccia. Ero un pastore da ragazzo e tu venivi sempre nel punto della collina in cui portavo a pascolare le pecore... insieme al vecchio Culderico. A lui piaceva andare laggiù e ti insegnava a combattere con la spada. Vi osservavo. Sognavo di imparare a combattere come te un giorno, con una vera spada." "Come ti chiami?" "Orik." Il nome non mi diceva niente, ma mi ricordavo del posto che aveva appena descritto, perché era uno dei preferiti di Culderico, e vagamente anche di un pastorello macilento, con gli occhi molto grandi, le braccia e le gambe magre come stecchini, che ci gironzolava sempre intorno per vedere cosa facevamo. Doveva essere lui, a giudicare dagli occhi che aveva ora. Feci un rapido cenno col capo e lo chiamai per nome, quindi gli spiegai cosa doveva fare per me: volevo che mi portasse con la barca dietro il castello, con il favore della notte. Il pescatore acconsentì senza esitare, poi guardò i miei compagni che si trovavano lì intorno. "Non posso portarli tutti." "No, Orik, soltanto me. La tua barca riesce a trasportare noi due, vero?" Orik fece di sì con la testa. "Allora, mi aiuterai ad attraversare il lago, quindi aspetterai che parli con la persona che è al comando della fortezza e subito dopo mi riporterai qui dai miei compagni. In cambio ti darò due monete d'oro, una adesso e una al nostro ritorno." Gli consegnai l'aura che avevo in mano e lui sgranò di nuovo i suoi grandi occhi. Con quell'unica moneta avrebbe potuto acquistare ben dieci barche da pesca, tutte il doppio di quella che possedeva attualmente, se solo avesse saputo dove trovarle. Qualche istante più tardi, ci trovavamo sulle acque del lago di Genava, con la riva diventata una massa scura alla nostra destra. Le luci di guardia sulle mura del castello si stagliavano chiaramente contro il cielo notturno. Il peggio fu quando, giunti a riva, dovemmo gridare per attirare l'attenzione delle sentinelle, poiché queste, non sapendo chi eravamo, avrebbero potuto lanciarci di tutto da sopra le mura. Ma la fortuna sembrava decisamente dalla nostra parte quella sera, e il primo uomo con cui parlammo riconobbe il mio nome, poiché era stato uno dei miei cavalieri durante il conflitto che avevamo battezzato Guerra di Gunthar. Verificò la mia identità con tre rapide domande riguardo ad alcune persone coinvolte in determinati eventi, e mi disse di aspettare dov'ero. Dopo un po', udimmo dei forti rumori e vedemmo aprirsi una posteria, con i suoi cardini arrugginiti che cigolarono rumorosamente. La luce di una torcia illuminò il terreno davanti a noi, quindi, dopo un lasso di tempo incredibilmente breve mi ritrovai al cospetto del re, mio cugino Bracco in persona. Bracco era più robusto del solito, l'uomo più alto e corpulento che avessi mai visto, i muscoli gonfi e minacciosi, ma perfettamente proporzionati alla sua statura. Le donne lo trovavano affascinante, ma a causa della sua enorme mole egli era sempre timido e goffo in loro compagnia, come se temesse di poter far loro del male solo a causa della sua stazza. Adesso mi guardava esterrefatto, con uno sguardo stralunato, una reazione, credo, del tutto naturale. L'ultima volta che ci eravamo visti avevo solo diciassette anni ed ero cambiato parecchio da allora; da quel momento in poi non aveva più avuto mie notizie e non sapeva del mio soggiorno in Britannia. E adesso ero lì, spuntato dal nulla, nel bel mezzo di un assedio in cui teoricamente nessuno avrebbe potuto avvicinarsi a lui. Il calore con cui mi accolse, comunque, non lasciò adito a dubbi sulla gioia che provò nel rivedermi in modo così inaspettato: mi strinse in uno dei suoi mortali abbracci, al quale per fortuna riuscii a sopravvivere senza ritrovarmi con le ossa rotte; dopodiché lasciammo da parte i convenevoli e passammo subito a discutere della situazione attuale. Bracco mi disse che Benwick era stata cinta d'assedio dagli Unni tre mesi prima. Inizialmente si trattava di un esercito di venti o trentamila uomini, dei quali più di un terzo a cavallo. Erano arrivati a Benwick all'improvviso, avvicinandosi dalla sponda più occidentale del lago, quindi si erano divisi in più gruppi, per poi girare intorno a quello specchio d'acqua, catturando prigionieri, bruciando villaggi e borghi, confiscando o distruggendo qualunque imbarcazione trovassero. All'arrivo degli Unni, Bracco si trovava a sud di Benwick insieme a metà del suo esercito e, quando gli era giunta notizia dell'invasione, ormai era troppo tardi per prendere misure difensive efficaci... e forse persino troppo tardi per raggiungere la fortezza prima che gli invasori se ne impadronissero. Ma fortunatamente erano riusciti a passare sopra il ponte levatoio e a entrare dentro le mura rinforzate, poco prima che i nemici uscissero dal bosco circostante e si lanciassero inutilmente alla carica, mentre lo stretto ponte si alzava davanti a loro. Una volta al sicuro dentro le mura, Bracco si era subito messo in pace con la coscienza: i suoi consiglieri, infatti, avevano agito per tempo non appena ricevuta la notizia dell'invasione e, sapendo che quello era il volere del re, se fosse stato lì, avevano portato in salvo dentro le mura quasi tutta la gente che abitava nei pressi del castello. All'inizio dell'assedio, Bracco non si era reso conto che tutte le imbarcazioni del lago erano state sequestrate o distrutte, né aveva previsto che i nemici avrebbero scelto la grotta rossa per accamparsi. Solo qualche giorno più tardi aveva capito di non poter contare su nessun aiuto e che era stato solo un puro caso se gli esploratori da lui mandati nelle Caverne del Re erano riusciti a raggiungere l'uscita e a chiuderla senza farsi scoprire dagli Unni addormentati nella grotta rossa. Bracco si stava spremendo le meningi per trovare il modo di uscire dal castello e raggiungere la grotta a cavallo, poiché prevedeva che se gli Unni si fossero allontanati per respingere un attacco esterno, uno dei suoi plotoni avrebbe potuto attaccarli alle spalle uscendo dalle caverne. Tuttavia, fino a quel momento non era riuscito a escogitare un piano che avesse qualche probabilità di successo. Per uscire dal castello in massa, avrebbe dovuto radunare l'esercito sotto gli occhi del nemico e abbassare il ponte levatoio, ma entrambe le operazioni avrebbero richiesto parecchio tempo e avrebbero fornito ai nemici le stesse opportunità e gli stessi vantaggi che avrebbe potuto trarne Benwick. Il mio arrivo, però, cambiava tutto. Spiegai a mio cugino che avevo una forza di cavalleria, formata da cinquecento soldati ben addestrati, a meno di duecentocinquanta miglia da lì e che avrei potuto prepararla alla battaglia nel giro di quindici giorni; sebbene non avesse idea del genere di cavalleria di cui parlavo, Bracco intuì subito le possibili implicazioni. Così in meno di due ore ideammo un piano, che in realtà era molto semplice: me ne sarei andato e avrei fatto ritorno dopo due settimane con i miei cinquecento cavalieri e i quaranta esploratori dei Pendragon muniti di lunghi archi, avremmo diviso la nostra squadra in due gruppi, una volta raggiunta Benwick, quattrocento soldati da una parte e cento dall'altra, e avrei mantenuto il controllo di trenta arcieri, lasciando che gli altri dieci accompagnassero il gruppo più numeroso. Calcolammo che avrei tenuto i miei soldati fuori dai confini del regno di Bracco per diciannove giorni, perché non potevamo pensare che ne sarebbero bastati quindici per raggiungere Carcassonne e tornare indietro. Il viaggio avrebbe potuto richiedere quattro o cinque giorni in più, in base a diversi fattori. Se ce l'avessimo fatta prima tanto meglio, così i miei soldati avrebbero potuto godersi qualche giorno di riposo dopo quella sfacchinata. Così decidemmo che all'alba del ventesimo giorno, Bracco avrebbe schierato i suoi uomini fuori dal castello cercando di non dare troppo nell'occhio, sotto la protezione degli arcieri appostati sopra le mura, in modo tale che fossero pronti ad avanzare non appena il ponte levatoio fosse stato abbassato. Nel frattempo, avrebbe mandato alcune centinaia di guerrieri nelle Caverne del Re, in attesa che liberassi l'uscita all'interno della grotta rossa, cosa che avrei potuto fare solo dopo che gli Unni che vi si erano accampati fossero partiti all'attacco. I miei quattrocento cavalieri, guidati da Bors, avrebbero attaccato gli assedianti fuori dalle mura del castello alle prime luci dell'alba e il loro arrivo sarebbe stato il segnale per abbassare il ponte levatoio. Gli uomini di Bracco avrebbero percorso il ponte, per poi schierarsi in più gruppi, reagire e distruggere le torri d'assedio prima che fossero abbastanza vicine da rappresentare una minaccia. Nel frattempo, gli altri cento uomini a mia disposizione avrebbero assaltato la grotta rossa sotto la guida di Perceval, agendo in concomitanza con gli arcieri dei Pendragon, che si sarebbero disposti lì intorno per uccidere i nemici da una notevole distanza. A grotta liberata, avrei aperto l'uscita segreta delle Caverne del Re per consentire a un altro contingente di guerrieri di Bracco di attaccare e annientare i nemici, quindi sarei andato con Perceval in soccorso della nostra squadra davanti al castello. Prevedemmo - ed ero convinto che le nostre previsioni si sarebbero avverate - che il nemico non avrebbe avuto molta voglia di combattere una volta capito che l'assedio era stato rotto e che i difensori avevano ricevuto dei validi rinforzi. Ripresi la piccola barca di Orik per tornare dai miei uomini, prima che i deboli raggi del sole cominciassero a illuminare il cielo a oriente. Allo spuntare del giorno ci dirigemmo lesti verso il confine dell'Aquitania, dove avevamo lasciato Guntram Barbarossa, e da lì proseguimmo per Carcassonne. Grazie alle fantastiche strade che attraversavano quella parte della Gallia, ci impiegammo cinque giorni e non appena fummo arrivati informai re Torismondo, per pura cortesia, di quanto stava accadendo a Benwick e di quello che avevo intenzione di fare. Il re mi offrì subito un migliaio di uomini per rinforzare il mio reparto di cavalleria; se l'offerta fosse arrivata da qualcun altro, l'avrei accettata con piacere, ma non riuscivo proprio a superare la mia istintiva diffidenza nei confronti del re visigoto, così la rifiutai dicendo che avevo un impellente bisogno di fare molto in fretta, cosa che la mia cavalleria era in grado di assicurarmi, al contrario del suo lento reparto di fanteria. Mi irritava già il solo pensiero di incoraggiare i Visigoti a entrare nel minuscolo regno di Benwick: i vasti territori dell'Aquitania adesso si estendevano dalla Loira fino all'Iberia settentrionale. Ci vollero solo due giorni per preparare e rifornire le nostre truppe prima di ripartire per Benwick, sempre accompagnati da Guntram Barbarossa e dal portabandiera del re per essere più protetti. Anche se i nostri pesanti carri con le provviste ci costringevano a viaggiare a una velocità ridotta - la nostra piccola compagnia aveva percorso cinquanta miglia al giorno sulla via del ritorno da Benwick - riuscimmo tuttavia a percorrere trenta miglia al giorno, per lo più grazie alle strade e al tempo clemente; non incontrammo né una goccia di pioggia né un soffio di vento a ostacolarci. Raggiungemmo il confine orientale dell'Aquitania esattamente quando avevo previsto, quindici giorni dopo aver lasciato il castello di Bracco, e chiesi a Guntram di trovare un punto in cui potevamo accamparci e passare qualche giorno, prima di rimetterci in viaggio per Benwick. Eravamo a meno di un giorno di viaggio dal castello e ci restavano ancora cinque giorni prima di partire all'attacco. Tre di questi li trascorremmo in modo proficuo allenandoci al sicuro entro i confini del territorio di Torismondo e il quarto giorno ripartimmo; arrivammo nei punti stabiliti senza essere notati e ci nascondemmo nel bosco ad aspettare l'alba del giorno seguente. Gli Unni, schierati intorno al castello ormai da così tanto tempo, sembravano delusi e annoiati. Si erano rilassati del tutto, poiché non si aspettavano di incontrare resistenza e sapevano che il loro assedio non poteva essere rotto in alcun modo. Non immaginavano che a svegliarli prima dell'alba sarebbe stata una poderosa squadra di cavalieri alla carica, tanto meno una squadra che si muoveva in blocchi disciplinati di guerrieri e cavalli corazzati, impossibili da fermare. Gli Unni non opposero grande resistenza e, non appena videro il ponte levatoio abbassarsi e i difensori del castello uscire di gran carriera per scagliarsi contro di loro, giungendo in aiuto della nostra cavalleria, si arresero definitivamente e batterono in ritirata. A un miglio di distanza, stava accadendo la stessa cosa, ma su scala ridotta. Cento cavalieri, guidati da Perceval, attaccavano a squadre di dieci gli Unni che dormivano fuori dalla grotta rossa, coloro che non erano stati abbastanza fortunati da trovare posto all'interno. Il panico e la confusione che si generarono, insieme alle ovvie conseguenze, erano molto simili a quelli scoppiati al castello di Benwick, con un'unica importante differenza: i miei trenta arcieri Pendragon si erano nascosti in un posto da cui potevano vedere bene l'entrata della grotta stessa, così quando gli Unni cominciarono a correre fuori, in preda al panico, svegliati dal trambusto all'esterno, li annientarono senza pietà. L'azione continuò fino a quando il flusso di uomini non si esaurì del tutto e a quel punto toccò a una squadra scelta entrare nella grotta e finire i superstiti. Fu presto fatto e, quando gli esploratori riemersero dalla grotta pulendo le lame delle loro armi dal sangue dei nemici, Perceval aveva già schierato i soldati e constatato con gioia che nella mischia non avevamo perso neanche un uomo. Li salutai, quindi ordinai ai Pendragon di montare di nuovo in sella e di prepararsi a ripartire al galoppo. Così con un assordante tuonare di zoccoli tornammo al castello di Benwick, dove trovammo il ponte levatoio abbassato e gran parte delle macchine d'assedio unne smantellate. Nessuno aveva tentato di inseguire gli Unni in fuga, perché ovviamente non ce n'era bisogno. Avevano assistito alla sensazionale liberazione della loro preda e si erano scontrati con la disciplina e la tattica dei soccorritori, perciò non avevano alcuna fretta di tornare per ricevere un'altra lezione. Dal giorno della battaglia di Chalons, Attila non era più un nome da temere e i suoi Unni sapevano di aver perso la loro aura di invincibilità. Erano stati di nuovo sconfitti, del tutto spazzati via da un tipo di cavalleria che neanche loro, in teoria i più grandi conquistatori a cavallo della storia, avevano mai visto. A Benwick non si sarebbero più fatti vivi. V Trascorsi due giorni dalla rottura dell'assedio, io e mio cugino Bracco potemmo finalmente sederci a cenare insieme. Ammiravo molto il modo in cui il re amministrava e governava il suo regno, molto più piccolo e meno potente della vicina Aquitania, ma abbastanza vasto da mettere alla prova l'abilità di qualunque sovrano. Gran parte della mia ammirazione derivava dal fatto che sapevo quanto poco Bracco avesse desiderato accollarsi il fardello della sovranità: era un uomo modesto e riservato, nonostante la sua immensa stazza e la sua forza fisica, e tutto quello che aveva sempre desiderato dalla vita erano la pace e la tranquillità. Tuttavia, il destino aveva deciso che Bracco diventasse re di Benwick, alla morte dei suoi tre fratelli maggiori, e dal momento in cui aveva assunto quel ruolo, era riuscito a mettere da parte tutto il resto per dedicarsi ai suoi doveri, sacrificandosi completamente davanti ai suoi obblighi e alle sue responsabilità. In cambio di quell'altruistica dedizione, il suo popolo lo trattava con rispetto e con amore. La parola di Bracco era legge a Benwick e veniva accettata senza obiezioni e senza costrizioni; il re aveva passato i due giorni successivi alla liberazione a visitare in lungo e in largo le zone settentrionali, centrali e meridionali del suo regno, accompagnato da me, da Perceval e da una guardia d'onore formata da alcuni nostri cavalieri, per spiegare alla sua gente che l'assedio era finito e che ogni altra invasione da parte degli Unni - o di qualsiasi altro popolo - sarebbe stata stroncata sul nascere. Era tornato al castello alla fine del secondo giorno, per sbrigare alcune faccende che non potevano aspettare, ma sapevo che nel giro di altre due giornate sarebbe partito di nuovo per fare visita agli abitanti delle zone occidentali e orientali del suo regno. Avevamo mangiato bene quella sera, seduti a un tavolo appartato dal resto dei commensali, e sembrava che a nessuno dispiacesse il fatto che volessimo stare da soli a parlare senza orecchi indiscreti o commenti inopportuni. La maggior parte dei piatti era stata portata via e ormai bere era d'obbligo; il brusio delle conversazioni in corso nella sala si faceva sempre più forte, tanto da diventare quasi assordante. Io e Bracco, ognuno con un boccale di birra ormai calda davanti, eravamo forse gli unici due sobri in tutto il salone, non essendo dei grandi bevitori; mentre facevo questa riflessione mi voltai e vidi che Bracco mi guardava con il sorriso sulle labbra. "Che c'è? Perché sorridi?" La sua espressione divertita si accentuò. "Stavo ripensando a quella volta che abbiamo parlato del matrimonio. Nessuno dei due credeva che si sarebbe mai sposato... io perché temevo di essere troppo grosso per qualsiasi donna e tu perché eri convinto che nessuna donna potesse trovarti interessante. Ti ricordi?" "Sì, mi ricordo benissimo. E avevamo ragione, non è vero?" Bracco scoppiò in una fragorosa risata, poi la sua espressione divenne seria. "Forse tu avevi ragione, cugino, ma io mi sbagliavo di grosso. Ho incontrato una donna proprio quell'anno, poco dopo che sei andato ad Auxerre per frequentare la Scuola del Vescovo. Mi sono innamorato di lei a prima vista. Era la figlia di un capo clan del territorio che confina con la zona sudoccidentale del nostro regno, raggiungibile a cavallo in meno di tre giorni. Si chiamava Geneviève ed era più alta di tutti gli uomini che conoscevo. L'ho sposata subito dopo il nostro incontro e lei mi ha dato tre figli, Michel, Aloysius e Clothar." "Clothar?" "Sì, il più giovane. Adesso ha tre anni." "E dove sono? Perché non li ho incontrati?" "Sono al sicuro con la famiglia della madre, nel lontano Ovest. Li incontrerai tra qualche giorno, quando andremo da loro." "E tua moglie, Lady Geneviève?" Nel suo racconto, parlando di lei, aveva sempre usato il passato; temetti di essere invadente. Il suo volto si irrigidì e lui mi rispose in un tono grave, che tradiva un suo conflitto interiore. "Geneviève è morta dando alla luce Clothar. Febbre puerperale, l'hanno chiamata. Non ho mai capito come sia accaduto, perché il parto era andato bene, Geneviève non aveva sofferto molto - era una donna robusta, come puoi immaginare - e il bambino era perfetto sotto ogni punto di vista. Sembrava tutto normale al principio ed entrambi stavano benone, ma a un tratto, tre giorni dopo il parto, le è venuta la febbre. I medici mi dissero che qualcosa dentro di lei era diventato settico o tossico, o qualcosa del genere. So soltanto che ho perso il mio unico amore senza capirne il motivo..." Dovevo sembrare affranto, perché Bracco tese la mano e mi strinse il braccio per consolarmi. "È stato parecchio tempo fa, cugino, ormai mi sono ripreso, ma per un certo periodo sono stato molto amareggiato, imprecavo contro Dio e contro il mondo infame che aveva creato. Ho persino provato a odiare il bambino, ma lui non aveva colpe per la morte della madre, povera piccola peste. Così ben presto ho smesso di avercela con lui. Dopo la morte di mia moglie, la vita per me non aveva più nessuna importanza; la cosa buffa è che sono stati proprio i miei doveri di sovrano a salvarmi. Abbiamo avuto una crisi, all'incirca un anno dopo la morte di Geneviève, una piccola invasione di stranieri, probabilmente Unni, adesso che ci penso. Mi sono impegnato con tutto me stesso per risolverla e da allora non ho più smesso di essere il re che non avevo mai voluto diventare. Ora viaggio di continuo e a volte mi sembra di conoscere per nome tutti gli abitanti di Benwick. Ma stare sempre in sella con indosso l'armatura mi aiuta a mantenermi sano e forte, il lavoro mi dà molto a cui pensare... anche troppo forse, come spesso mi dicono. Per questo i ragazzi vivono con la famiglia di Geneviève adesso. Io non sono quasi mai al castello, e loro hanno bisogno della nonna, di una guida femminile. Michel ha sette anni, quasi otto. Aloysius ne compirà presto sei e Clothar, come ti ho detto, ne ha tre." Fissò il vuoto per qualche istante, per poi inspirare profondamente e girarsi di nuovo dalla mia parte. E di te che mi dici? Non hai mai trovato una donna da amare?" Stavolta toccò a me sorridere e poi diventare serio. "Sì, Bracco, l'ho trovata... Almeno pensavo di averla trovata. Ma il destino non ha voluto." "Perché no, se posso chiedertelo?" "Sì, puoi. Era sposata con un altro." "Era sposata? Vuoi dire che lo era già quando l'hai conosciuta o che si è sposata dopo?" "Dopo. Quando l'ho conosciuta era una giovane vedova, promessa a un uomo più vecchio di me. Si chiamava Elaine e le ho salvato la vita. Lei mi ha ricompensato accogliendomi nel suo letto. Ma poi è andata avanti per la sua strada e ha sposato l'uomo cui era promessa. Pensavo di essere innamorato di lei e che la mia vita fosse finita, ma solo poco tempo fa, prima che tornassi in Gallia questa primavera, ho capito che lei, nonostante mi voglia molto bene, ama un altro uomo e questa scoperta non è stata devastante come pensavo. All'improvviso mi sono reso conto che non l'amavo affatto come lei ama suo marito e che, se anche avesse provato dei sentimenti diversi per me, avrei dovuto comunque lasciarla. Sembra superficiale persino a me, ma è la verità. Per quanto le voglia bene perché gliene voglio ancora, in fondo - e nutra un po'"di gelosia nei confronti del marito, ho capito di non sopportare la stabilità familiare che lei rappresentava. L'idea di stabilirmi in un posto e di rimanerci per vent'anni ad allevare marmocchi mi terrorizza." Ripensai a ciò che avevo appena detto e scrollai le spalle. "Non ne vado fiero, ma devo accettare la realtà. Un amico saggio una volta mi disse che l'amore è inevitabilmente carico di responsabilità, che è del tutto inscindibile da esse. Io ci credo, Bracco, e non ho paura delle responsabilità, ma credo che per me rappresentino qualcosa di diverso da una casa e una famiglia. Fremo al pensiero di realizzare il sogno di Artù Pendragon di creare una Britannia unita e libera dagli invasori, ma in tutta onestà non posso dire di provare lo stesso entusiasmo al pensiero di diventare un uomo sposato e un padre di famiglia. Non fa per me e sono stato uno sciocco a desiderare questa vita. Avrei reso infelici sia me sia Elaine." Mi fermai di nuovo a ricordare e il pensiero mi fece sorridere. "Ha un figlio di nome Galahad e pensa che potrebbe essere mio, ma non ne è sicura. La cosa che mi sorprende di più, comunque, è che non le importa chi dei due sia il padre, se io o il marito. Ci ama entrambi e ama il bambino. Ho fatto fatica a capirlo all'inizio, ma una volta accettata la cosa, mi sono sentito sollevato e non ho più avvertito quel bisogno impellente di rivederla." "Allora, cosa farai adesso? Parlami di questa Camelot. Mi pare di capire che il suo re ti piaccia molto." Per la mezz'ora successiva gli raccontai di Artù, di Camelot e del sogno del suo bisnonno di creare un nuovo impero, costruito sul modello della Repubblica di Roma e avente come base l'isola della Britannia. Bracco mi guardava rapito, senza perdersi una parola. "Quindi... questo Artù e la moglie non vogliono nemmeno provare ad avere figli? Non... copulano?" Capii che quella parola gli era estranea, ma che non voleva offendere me o i miei amici usando il termine che avrebbe usato normalmente. Sorrisi e scrollai le spalle. "No, all'inizio perché temevano di generare un erede a causa di Simmaco di Chester, il padre della regina, il quale avrebbe potuto esercitare il suo controllo sul ragazzo se Artù fosse morto prematuramente. Adesso, però, temo che il problema sia un altro. Artù forse non potrà mai più camminare o cavalcare come prima a causa della ferita riportata. E probabilmente riuscirà prima a montare un cavallo che la moglie. Solo il tempo risolverà ogni cosa... se Dio vorrà." "Che cosa farai dunque se il tuo amico morirà prematuramente? Resterai in Britannia?" Quella domanda inaspettata mi fece riflettere. Fissai per un po'"la mia birra prima di rispondere. "No," dissi alla fine "credo di no. Se Artù dovesse morire prima di riuscire a portare a termine il suo progetto, Camelot andrebbe in pezzi. Nemmeno la paura degli invasori sassoni riuscirebbe a dissipare le ambizioni dei signori più piccoli e dei capi clan e a rimpiazzarle con un sentimento di unità. Artù Pendragon è l'unico uomo con il potere e l'acume necessari per realizzarlo. Senza di lui, la Britannia andrebbe in rovina e sarebbe infestata dagli stranieri." "Ma dove andresti, se dovessi lasciare la Britannia?" Cercai di decifrare il suo sguardo per capire dove volesse andare a parare. "Bè, cugino," gli dissi "neanche adesso trascorro molto tempo lassù e di recente Artù mi ha affidato degli incarichi piuttosto importanti, perciò puoi stare sicuro che non la rivedrò molto presto. I miei uomini torneranno a casa a rotazione, ma io non potrò. Ho il dovere di rappresentare Artù, Camelot e tutta la Britannia, qui in Gallia. Il re vuole che instauri dei rapporti commerciali con i sovrani locali e con i signori delle varie regioni, per sfruttare la flotta di navi mercantili che sta facendo costruire in patria. Vuole anche che stringa alleanze di vario tipo con individui influenti, alcuni sono monarchi, e altri uomini di chiesa. E ovviamente vuole che mantenga rapporti di amicizia con Corbenico e la sua cavalleria. Ma soprattutto, anche se non me lo ha mai detto in modo esplicito, credo che abbia bisogno di vedere rafforzata la sua immagine qui in Gallia; quella che offro è l'immagine di un regno, e quindi di un re, abbastanza potente e ricco da mantenere un reparto di cavalleria, come quello sotto il mio comando, fuori dal suo dominio e senza l'appoggio o la benevolenza dei suoi amici o alleati... E come ho detto questa è solo la mia opinione ma, giusta o sbagliata che sia, tutte queste responsabilità messe insieme dovrebbero trattenermi in Gallia per diversi anni." "Sembra un uomo straordinario, questo re Artù." Scoppiai a ridere. "Oh, lo è, cugino, su questo non c'è dubbio. Non ho mai conosciuto nessuno come lui." Riflettei ancora una volta in silenzio prima di continuare. "Se davvero un giorno fossi costretto a lasciare la Britannia, e questo potrà succedere solo in seguito alla morte di Artù, allora ritornerò in Gallia, a Corbenico, il regno dell'altro mio cugino." Vidi le sopracciglia di Bracco schizzare in alto per lo stupore quando mi sentì nominare un altro cugino re. Sogghignai e con un cenno attirai l'attenzione di un servitore che passava di là per ordinargli altri due boccali di birra fresca, prima di iniziare a raccontare la storia della famiglia di mio padre e dell'unione dei due regni, quello di Ganis e quello di Corbenico. Quando terminai, Bracco stava di nuovo scuotendo il capo. "Perciò questo Pelles, re di Corbenico, è anche un mio parente e governa il tuo regno di Ganis?" "Sì e no. Deve essere anche un tuo parente, ma non in linea diretta. E la sovranità su quel regno si estende soltanto a me, attraverso il ramo paterno della mia famiglia. L'unico legame con te deriva dal matrimonio dei miei genitori. Quanto al fatto che lui governi il mio regno, al momento non esiste un regno di Ganis. Ganis è stata annessa al regno di Corbenico per volere dei suoi stessi abitanti, dopo la morte di Clodas, l'usurpatore che ha assassinato i miei genitori. Pelles è il re di Corbenico e pertanto anche di Ganis. La cosa mi fa molto piacere, perché al momento non ho nessuna voglia di diventare re." "Allora torna qui, semmai un giorno dovessi lasciare la Britannia. Se sarai ancora giovane quando accadrà, potremo trovarti un posto nell'esercito. Se invece non sarai più tanto giovane potremo usarti come consigliere, in entrambi i casi avresti tutto... una famiglia, dei nipoti, una bella casa e abbastanza terra da provvedere al sostentamento tuo e dei tuoi cari." Inarcò un sopracciglio e mi fissò con aria risoluta. "Dico sul serio, Clothar." "Lo so, Bracco, e ti ringrazio per la tua cortesia, ma..." "Niente ma, cugino. Hai sempre fatto del tuo meglio per servire Benwick con altruismo e senza dubbio hai fatto più di quanto dovevi. L'invito sarà sempre valido, perché dirò ai miei funzionari di metterlo per iscritto fra le mie volontà, in modo tale che i miei figli saranno tenuti a rispettarlo. Ogni volta che vorrai venire qui a Benwick, sarai ben accetto." Lo ringraziai ancora una volta e accettai la sua volontà senza protestare, quindi passammo a discutere di altri argomenti. Ma non dimenticai mai quella conversazione e l'affetto provato nei confronti di quel gigantesco re, che era anche mio cugino di primo grado. Restai a Benwick per un mese e prima di partire scrissi un resoconto completo dell'attacco sferrato agli Unni di Attila, narrando come avevamo rotto l'assedio e liberato la guarnigione. Non potevo inviare il rapporto se prima non tornavo nel Nordovest e trovavo una nave che potesse portarlo in Britannia, ma almeno avevo annotato gli eventi con cura e impedito che si allontanassero dalla realtà diventando irriconoscibili a causa di esagerazioni o distorsioni dovute al passare del tempo e agli scherzi della memoria. Dopodiché tornammo a Carcassonne per assicurarci che tutti gli accordi presi con re Torismondo fossero ancora validi e venissero rispettati; ne ricevemmo la conferma, anche se il re non si trovava nella sua residenza. A quel punto ci dirigemmo a nord, seguendo la grande strada maestra che portava a Orléans e al passaggio sulla Loira, da lì proseguimmo per Corbenico attraversando la Senna a Lutetia, dove scoprimmo che il nome ufficiale di quella città era diventato Parigi grazie agli abitanti del posto, che si facevano chiamare Parisi. Qualche giorno più tardi, arrivammo a Corbenico, dove Pelles diede una festa di benvenuto in nostro onore, e sua sorella Serena ne preparò una, più intima, tutta per me. Una settimana dopo, arrivò dalla Britannia una nave scintillante, nuova di zecca e con le coste non ancora scolorite dal vento, dalla pioggia e dalla salsedine. Trasportava un carico di lingotti di stagno e di piombo e diversi rotoli di soffice lana dai colori sgargianti, tessuta in modo magnifico, che, scoprii con grande sorpresa, arrivava dalla terra natia di Connor Mac Athol, nel lontano Nord. Non conoscevo il capitano di quella nave, ma dopo essersi presentato l'uomo mi consegnò un paio di pesanti bisacce di cuoio, piene zeppe di bollettini e resoconti indirizzati a me. Le portai nel mio ufficio e le svuotai su un tavolo, per poi dividere in varie pile i documenti di cui poteva anche occuparsi qualcun altro. Tenni tre lettere, una di Merlino e due di Artù, nessuna delle quali particolarmente pesante o voluminosa. Le notizie da Camelot erano scarse e notai con apprensione che la scrittura di Merlino si era fatta quasi illeggibile: le lettere erano sottili e tremolanti, con la penna che si spostava di frequente dal percorso normalmente dritto del suo energico e incisivo pugno. Secondo Merlino, il re si stava rimettendo in modo considerevole e costante, ma non abbastanza in fretta da farlo stare sereno. Ne aveva parlato con la regina e Ginevra era d'accordo con lui, ma gli aveva fatto notare che non potevano fare nulla, a parte mettersi nelle mani di Dio e aspettare che le cose migliorassero. Artù camminava meglio, sebbene non ancora in modo perfetto, e continuava a esercitarsi regolarmente con le sue armi, per rinforzare i muscoli e aumentare la resistenza. Ma anche in questo caso i suoi progressi erano più lenti e meno sensazionali del previsto e, nonostante riuscisse a cavalcare per brevi periodi di tempo, non era affatto in grado di andare in missione e di guidare un esercito. Nel frattempo, scriveva Merlino, i cavalieri avevano superato le aspettative di tutti, comprese quelle del re. Insieme, Bedwyr, Tristano, Gwin, Pelinore, Gareth e Balan facevano sì che il re continuasse a operare come entità. Mentre leggevo, presi un appunto per ricordarmi di riferirlo a Perceval, a Bors, a Sagramore e agli altri che erano con me. Sarebbero stati fieri dei loro confratelli e del lavoro che stavano svolgendo. La prima delle lettere di Artù era breve e piena di divagazioni. Così nel leggerla ebbi l'impressione che il re non avesse scritto veramente ciò che voleva. La missiva non diceva granché, era solo la prova che il re mi considerava abbastanza importante da trovare il tempo di scrivermi. La seconda, invece, era completamente diversa. Artù mi parlava da amico, mettendo a nudo i suoi sentimenti, per cercare la mia comprensione in merito alle difficoltà che stava incontrando nel rapporto con sua moglie. L'inguine gli provocava un dolore costante e implacabile e da molti mesi lo aveva reso impotente, cosa prevedibile. I medici gli avevano detto che quell'effetto negativo avrebbe potuto protrarsi ancora per molti mesi, ma una volta il suo organismo aveva tentato di funzionare normalmente e l'agonia che Artù aveva sofferto durante l'erezione era stata insopportabile, tanto che da allora il suo corpo si rifiutava di reagire a qualsiasi stimolo sessuale. Ginevra si mostrava molto comprensiva nei suoi confronti, ma lui si sentiva terribilmente in colpa e trovava difficile passare del tempo in compagnia di sua moglie tanto era imbarazzato dalla sua condizione. Conoscendo il mio amico, sapevo che le sue pene ormai si erano estese anche alla mente e capii subito che, per quanto potessero essere croniche e insopportabili le sue sofferenze fisiche, quelle psicologiche le superavano di gran lunga. Perché Artù Pendragon era sempre stato forte come un leone. Il fatto di essere troppo debole per dimostrare anche solo una parvenza di forza doveva essere logorante. Gli riscrissi subito per chiedergli di trasferirmi di nuovo a Camelot, dove perlomeno avrei potuto aiutarlo a svolgere i suoi doveri. La nave successiva, che arrivò tre mesi dopo, portò un'altra lettera, in cui Artù mi rammentava quello che gli avevo promesso di fare per conto suo in Gallia. Lui stava migliorando sempre più in fretta, aveva scritto, e andava a cavallo regolarmente. La ferita all'inguine gli faceva ancora male, ma sembrava che l'intensità del dolore stesse scemando un po'"alla volta e non zoppicava neanche più. Non accennò agli altri problemi e io mi domandai se ci fosse stato qualche miglioramento anche in quel campo, ma non potevo certo scrivergli di nuovo per chiederglielo in maniera esplicita. Tuttavia, notai con piacere che Merlino, nell'unico resoconto che mi aveva inviato quella volta, confermava i rapidi progressi del re, dicendo che cavalcava regolarmente e camminava senza zoppicare. A quel punto iniziai a viaggiare per tutta la Gallia settentrionale, intrecciando rapporti, e in alcuni casi vere e proprie alleanze, tra i signori locali e Corbenico o a volte addirittura la Britannia, mentre continuavo a coordinare le varie attività commerciali che ora si svolgevano fra le navi della flotta di Connor e i porti in cui attraccavano; cominciai persino a diventare un discreto conoscitore dei vini delle varie regioni, alcuni ottimi, stando a quel che si diceva, altri un po'"meno, ma per me tutti disgustosi. Divenni anche esperto delle varie merci di scambio disponibili nelle diverse città e regioni, comprese le zone occidentali e quelle costiere dell'Aquitania. Nel frattempo scrivevo meticolosi rapporti sulle mie scoperte e li mandavo a Camelot, dove venivano esaminati dallo stuolo di scrivani e funzionari di Artù. Alla fine Perceval fece ritorno a Camelot, ma dopo un anno tornò in Gallia, ormai la sua vera casa, pieno di informazioni che io gli spillai con avidità. Anche Bors andò a Camelot e poi tornò, Sagramore invece tornò in patria e ci rimase. Al mio scudiero Rufus, dopo il periodo di apprendistato che doveva fare con me diedi con piacere il permesso di ritornare a casa su una nave in tempo per l'annuale cerimonia del cavalierato, perché si era davvero meritato l'onore di entrare nell'ordine. Fu assegnato alla Cambria e, dopo essere stato nominato, trascorse lì l'anno di prova sotto la guida di Gwin. Serena divenne sempre più paffuta e alla fine addirittura grassa; anche se l'attrazione sessuale fra noi scemò, come accade spesso, la cosa fu reciproca e la nostra amicizia si consolidò. Artù continuava a fare progressi e io ricevetti una lettera memorabile da parte della regina Ginevra, in cui mi informava che il re aveva riacquistato le forze e la salute ed era tornato in forma come prima. La gioia che provai nel leggere quella notizia, in una lettera scritta dalla regina di suo pugno per giunta, fu incrinata da un pensiero negativo, cioè che Artù ci aveva impiegato tre anni pieni a rimettersi e che semmai fosse stato ferito di nuovo in modo grave per lui sarebbe stata la fine. Tuttavia restai in Gallia, fedele al mio dovere, e ottenni risultati tangibili, anche se morivo dalla voglia di tornare a Camelot. Catalina, la madre di Pelles, morì nel sonno in una notte d'inverno, durante il mio quarto anno di permanenza. In quello stesso periodo il mio amico Quinto Milo sviluppò una congestione polmonare e morì nel giro di tre giorni. Nella primavera dell'anno seguente mi giunse voce da Merlino che il suo vecchio amico Connor Mac Athol, un tempo ammiraglio dei mari occidentali, era annegato a causa di una violenta tempesta, durante la quale la sua nave si era incagliata su un bassofondo roccioso. Diversi membri dell'equipaggio erano sopravvissuti, ma Connor, impedito dalla gamba di legno, era stato subito travolto dalle onde e scagliato contro le rocce. Quella notizia mi rattristò parecchio perché, malgrado non conoscessi Connor molto bene, avevo sentito narrare le sue prodezze per anni. In un clan di uomini straordinari, lui si era distinto sotto tutti i punti di vista. Ancora oggi non so se i due eventi fossero in qualche modo collegati, ma dopo la morte di Connor non ricevetti più nessuna lettera di Merlino. Senza che me ne fossi accorto, erano passati sette anni e all'improvviso il re mi richiamò urgentemente a Camelot. Erano più di tre anni che non ricevevo notizie da Merlino e, quando vidi la convocazione di Artù, mi resi conto di essere del tutto ignaro di quello che stava accadendo in Britannia. Dissi addio a Pelles e passai il comando a Perceval, lasciando Bors come comandante in seconda, quindi salpai di nuovo per la Britannia. SETTE I "Allora, hai intenzione di rispondere?" Il re, incredibilmente scarno rispetto all'ultima volta che lo avevo visto, sette anni prima, era seduto di fronte a me con la gamba destra comodamente appoggiata su uno sgabello, il busto proteso in avanti e le braccia appoggiate sul ginocchio piegato. Mi guardava da quella breve distanza con gli occhi ridotti a due fessure, e mi accorsi con stupore che, dopo aver sopportato una lunghissima serie di sventure e di tribolazioni, tentava ancora di sorridere. Aspettava una risposta da me e io non sapevo cosa dire, perché non avevo ancora afferrato a pieno il senso delle sue parole. Scrollai il capo adagio, per guadagnare un po'"di tempo. "Oh, risponderò. Lo farò, statene certo... non appena avrò ripreso fiato. Posso pensarci ancora per qualche istante?" "Quanto vuoi." La mia mente era in subbuglio. Non appena ero tornato al forte sulla collina, mi aveva ordinato di raggiungerlo a Villa Britannico; avevo avuto a malapena il tempo di dare istruzioni al mio nuovo scudiero, un ragazzo franco di nome Lanfranc, su dove trovare il mio alloggio e come riporre la mia attrezzatura, che avevo dovuto subito correre a rapporto dal re nella villa situata ai piedi della collina di Camelot. Quando mi trovai faccia a faccia con lui, però, il suo aspetto mi aveva lasciato senza fiato. Era smunto, il suo volto aveva un pallore quasi cadaverico ed era solcato da profonde rughe, ma la sua postura era impeccabile, con la schiena dritta e la testa alta. Mi era venuto incontro e mi aveva stretto in un abbraccio, dimostrandomi ancor più quanto il mio adorato amico e sovrano fosse ora diverso dall'uomo possente che ricordavo. I suoi capelli, tuttavia, erano ancora folti e robusti, i suoi riccioli castani ancora striati di ciocche dorate e i suoi occhi d'ambra, screziati di pagliuzze gialle, vispi come al solito. Solo quando cominciò a muoversi capii qual era la causa del suo malessere. Si muoveva a scatti, stava sempre in posizione eretta ma dava l'impressione che da un momento all'altro potesse crollare e ripiegarsi su se stesso per il dolore. Era un'impressione, come ho detto, ma era molto forte. i Avevo fatto qualche accenno alla sua ferita, indicando con lo sguardo il suo inguine e chiedendogli se gli causava ancora molti fastidi, ma lui non aveva voglia di perdere tempo a parlare di una cosa ormai immutabile. Aveva liquidato la mia domanda con una risposta evidentemente imparata a memoria, per poi congedare tutti quelli che si trovavano nella stanza dicendo che non voleva essere disturbato per nessuna ragione al mondo durante la nostra conversazione. Fatto ciò, mi aveva subito fornito un quadro completo e realistico della situazione, sia politica sia militare, in cui si trovavano Camelot e tutta la Britannia. All'inizio cercai di fargli qualche domanda, ma lui non aveva la pazienza di rispondere a dubbi derivanti dall'ignoranza, così mi aveva detto senza mezzi termini di tacere e di ascoltare con attenzione quello che doveva dirmi. Avrebbe risposto a tutte le domande che volevo solo in un secondo tempo. Così parlò per quasi un'ora e io ascoltai senza interromperlo. Si era preparato bene il discorso, perché aveva avuto parecchi mesi a disposizione e aveva raccolto delle prove per confermare ciò che stava dicendo, soprattutto i punti che avrei potuto contestare più facilmente. Non aveva lasciato adito alle critiche. Le sue argomentazioni erano chiare e concise, le sue conclusioni interamente comprovate da resoconti scritti, ma soprattutto la sua logica era schiacciante. A essere inaccettabile, però, era il contenuto. Il succo di quel discorso mi lasciò esterrefatto, la mia mente stentava a capire e i miei sensi si rifiutavano di recepire la serie di disastri che il re stava pronosticando. Sapevo che Artù mi stava osservando, ma io non avevo fretta di incrociare il suo sguardo. Avevo la mente affollata di pensieri e di interrogativi banali, tutti escogitati per evitare il confronto che, come sapevo, era inevitabile. Dov'era Merlino? Perché non era lì? E la regina? Non ne avevo visto neanche l'ombra da quando ero arrivato. E i miei compagni cavalieri? Alla fine mi appoggiai allo schienale e incrociai le braccia sul petto, conscio del fatto che il re si aspettava una risposta. "Mi avete appena detto che è tutto finito qui in Britannia, che Camelot non può resistere contro le forze che sono insorte contro di lei, che siete circondato su tutti i fronti da traditori e rivali gelosi e che presto morirete. E volete che io aggiunga qualcosa... che faccia qualche commento... a tutto ciò?" Il suo debole sorriso si fece più largo prima di sparire del tutto. "No, Lance, non è proprio così. La situazione in Britannia è mutevole e non sarà mai "tutto finito", come hai detto tu, finché la gente abiterà qui. Ma subirà grandi cambiamenti, perché il mondo intero sta subendo grandi cambiamenti da quando l'Impero di Roma è crollato. E in questo momento, forse per volere del fato, le forze schierate contro di me... intendo contro di me e i miei grandiosi progetti... sono più forti di quelle che potrei radunare io per contrastarle. Ma anche questo può cambiare. Mordred ha le potenzialità per cambiare tutto, se riuscirà a restare in vita. È diventato un vero Pendragon ormai. Tra poco compirà vent'anni e l'anno scorso è entrato a far parte dell'ordine." "Seur Mordred. Ha un suono solenne." "Sì, è vero. Ma mio figlio è una vera testa calda rispetto a me. Meno disciplinato per alcuni versi, più rigoroso per altri. Sarà l'influenza del sangue materno. Mordred non ama essere provocato e nell'ultimo anno è stato coinvolto in parecchie dispute." "Dispute? Intendete con la spada?" "No, non è così sconsiderato. Sa bene quale sarebbe la punizione se sfidasse la mia autorità. I suoi combattimenti si sono limitati alle armi legali... spade per le esercitazioni... legali ma non per questo meno letali. Ha percosso in modo violento tre avversari su quattro." Artù alzò le spalle. "Erano tre teste calde, come lui, nessuno di loro si era mai trovato davanti alla realtà della guerra. Niente meglio del terrore, del sangue che sgorga, dei tuoi amici che vengono massacrati sotto i tuoi occhi può farti capire che ci sono modi migliori per occupare il tuo tempo invece di combattere, vero?" "Che mi dite del quarto avversario? Che gli è successo?" "Ha colpito Mordred abbastanza forte da farlo restare qualche giorno in infermeria. Gli ha dato una bella lezione. Mordred fomentava più di una zuffa a settimana, alcune più serie e altre meno, ma da allora ha capito che, pur essendo mio figlio, non è invincibile; ha cambiato atteggiamento, è diventato più cauto nel trattare con gli altri... Era la cosa migliore che potesse capitargli. Ora lui e Lionel, il tizio che lo ha pestato, sono inseparabili e forse rimarranno amici per tutta la vita." "Mi fa piacere" replicai. "Alcune delle mie amicizie più intime e durature sono nate nello stesso modo. Ditemi, allora, di queste forze che si sono schierate contro di voi. Avete detto di essere circondato da traditori e rivali gelosi." Scosse il capo, per contraddirmi di nuovo. "No, quando ho detto di essere circondato su tutti i fronti mi riferivo alla crescente pressione degli stranieri, che stanno sbarcando a frotte dalle terre d'oltremare sulle coste sassoni. Arrivano in continuazione, Lance, e poiché controllano tutta la costa orientale e noi non abbiamo navi, non possiamo raggiungere le spiagge su cui sbarcano e non possiamo fare nulla per impedire loro di approdare. Vengono qui da sempre, lo sai. Per questo le spiagge orientali vengono chiamate coste sassoni. Ma le coste sassoni ormai sono diventate le terre sassoni e oggi come oggi nessuno sa quanto ancora gli stranieri potranno espandersi verso l'interno. Gli stranieri sono dappertutto ormai, Lance, pullulano in tutta la Britannia, a eccezione di questi territori, quelli che noi possediamo e governiamo insieme ai nostri alleati. Mi chiamano riotamo, ma se sono davvero un sommo re, allora sono il sommo re della Britannia sudoccidentale e credere il contrario sarebbe pura follia. Fidati di me, perché ho saputo la verità da un mucchio di preti itineranti. Se oggi tracciassi una linea verticale a sud del Vallo di Adriano per dividere in due questo paese, scopriresti che tutta la zona orientale è occupata da popoli che noi definiamo stranieri, i quali ormai si sono riversati al di là di questo confine immaginario e occupano anche gran parte delle terre situate dall'altro lato, in particolare a nordovest. Credo faremmo meglio ad ammetterlo: ormai la zona a sud del Vallo fino a Chester è interamente occupata da coloro che noi consideriamo nemici." Sgranai gli occhi. "Che significa "consideriamo nemici"? Non siete sicuro che lo siano?" "No, non è così. Ma non credo neanche che siano tutti selvaggi ed empi come Attila e i suoi Unni. Di certo ci saranno dei selvaggi fra loro, uomini che ucciderei a prima vista senza alcun rimpianto, ma ci sono altri, molti altri, che sono solo in cerca di un posto in cui vivere e di un pezzo di terra da coltivare per sfamare le loro famiglie. Gli Angli ne sono l'esempio più lampante. Essi vivono in Britannia da più di un secolo e molti sono cristiani. Merlino è diventato amico di alcuni di loro e così pure il tuo amico e mentore, il vescovo Germano. Io stesso ne ho incontrati alcuni di persona e anche tu. Einar di Colchester è uno di essi. Ricordi? Lo conoscesti quando portò qui sua figlia, diversi anni fa, nel tentativo di stringere alleanza con noi attraverso un matrimonio. Einar è un anglo, perciò, a rigor di termini, è uno straniero, ma è britannico tanto quanto me, poiché è nato e cresciuto qui, come i suoi genitori del resto; ma, anglo oppure no, è un brav'uomo, oltre che un amico fidato e sincero. È anche abbastanza forte da mantenere intatto e difendere il proprio regno, situato in un territorio che nessun britanno della nostra parte del mondo ha mai visitato negli ultimi cinquant'anni. Confido in questo, Lance, nel fatto che io ed Einar ci conosciamo e ci rispettiamo a vicenda come uomini, sovrani e alleati. Egli esercita grande influenza sul suo popolo e gli Angli in Britannia sono più numerosi di tutti gli altri popoli stranieri messi insieme. Credo che se io ed Einar collaborassimo potremmo stipulare un patto che consenta ai Britanni e agli Angli di convivere d'ora in poi fianco a fianco e in amicizia. Ne ho parlato con lui e la pensiamo allo stesso modo, poiché consideriamo questo patto l'unica soluzione pacifica ai problemi che ci assillano." Rimasi a bocca aperta. "Volete dire che stringerete un'alleanza con tutti gli Angli e cederete loro più di metà del paese?" Artù aggrottò le sopracciglia perplesso. "Quale paese starei cedendo, Lance? Siamo noi quelli in pericolo qui. Loro possiedono già più della metà del paese. È loro, per diritto di conquista e di occupazione, e gran parte di esso appartiene a loro già da secoli, da prima che Caio Britannico e Publio Varro fondassero Camelot. Io sto solo cercando di mettere qualcosa in salvo per i miei compatrioti e per i loro figli, cercando di trasformare gli Angli da nemici vittoriosi in vicini disposti a collaborare. In questo momento Einar sta lavorando sodo per convincere gli altri sovrani angli a unirsi a lui e ad accogliere la nostra idea, ma è un concetto difficile da far capire a uomini che ci vedono come nemici implacabili. Tuttavia egli è ottimista e pensa che si possa giungere a un accordo; se riusciremo a ottenere un'alleanza, le nostre forze combinate saranno sufficienti a mettere le altre popolazioni straniere davanti a una scelta: vivere in pace e in amicizia con noi o abbandonare le nostre coste una volta per tutte." Tirò un respiro profondo. "Ma, come ho detto, il processo è lento e io non posso prendervi parte. Gli uomini che Einar sta cercando di convincere mi ritengono da anni l'incarnazione del male. E nel frattempo i Danesi mi stanno con il fiato sul collo e premono da nordest mentre i predatori sassoni e gaelici attaccano le mie coste da ovest. Temo che ben presto dovrò occuparmi anche di loro." Emise una risata a metà fra il divertito e l'amareggiato. "E naturalmente il mio vecchio nemico di Chester, Simmaco, imperversa. Stando alle ultime notizie da me ricevute due mesi fa, è tornato ai suoi vecchi trucchi, ossia stringere alleanze con gli stranieri e promettere loro tutte le ricchezze di Camelot se lo aiuteranno in una campagna volta a distruggerci. Questo è il traditore a cui mi riferivo. La gelosia è niente a confronto, la conosco da anni. Due re, che incontrasti tu stesso, si sono proclamati miei nemici da quando respinsi le loro figlie tanti anni fa. Si tratta di Lachlan della Cambria settentrionale e Annar di Mann. Entrambi sono dei villani incontentabili, degli zotici meschini che non meritano alcuna considerazione, ma che hanno sempre preteso di avere il mondo ai loro piedi." "E questa vostra convinzione di essere sul punto di morire? Che sciocchezza sarebbe mai? Di tutte le persone che conosco, Artù, voi siete l'ultima da cui mi sarei aspettato di sentire simili parole di autocommiserazione, sciocchezze da smidollato. Spero abbiate una teoria convincente in proposito." Invece di rispondere, Artù si alzò e si avvicinò alla magnifica finestra dai vetri colorati che illuminava la stanza. Allungò una mano e la toccò con delicatezza, facendo scorrere la punta delle dita sulla superficie liscia, irregolare e traslucida, mentre i raggi di un sole pomeridiano la investivano ricoprendola di vivaci macchie di colore. "Conosci la storia di questa finestra?" continuò, senza aspettare una risposta. "Ci troviamo in quella che, all'epoca in cui Publio Varro e sua moglie Luceia vivevano qui, era la cosiddetta stanza di famiglia, la più importante di tutta la villa. Fu Luceia a decidere di volere più luce in questa stanza, poiché lei e la sua famiglia vi passavano gran parte del loro tempo. Così fece realizzare questa preziosa finestra, per far entrare la luce e tenere fuori gli agenti atmosferici, e creò un buco nel muro per collocarcela... Suo fratello e suo marito, che morirono entrambi molto prima di lei, erano i sognatori che fondarono Camelot, e suo nipote era Uther Pendragon, mio padre. Luceia Britannico è morta da decenni ormai ed è stata dimenticata da tutti tranne che da Merlino, il quale l'ha conosciuta di persona, e da quei membri della famiglia che hanno sentito parlare della sua straordinaria bellezza e della sua grande forza." Si voltò verso di me adagio, con un'espressione malinconica. "Tutti dobbiamo morire, Lance. È l'ineluttabile condizione della nostra vita. Tutti moriamo. Ma è per questo che ti ho fatto tornare a casa. Ho ancora un compito da assegnarti, amico mio, un ultimo incarico." Sentii un gelo improvviso alla bocca dello stomaco e deglutii a fatica per soffocare un attacco di nausea. A un tratto capii che il re pensava davvero di essere sul punto di morire. Di conseguenza, parlai in tono più irriverente di quanto avrei voluto. "C'era troppa arrendevolezza nella vostra ultima affermazione. Troppa per i miei gusti." Artù tornò verso la sedia e si mise comodo, prima di ribattere. "È troppa anche per me, Seur Clothar. Su questo siamo d'accordo. Ma ci sono momenti nella vita, e questo è uno di quelli, in cui dobbiamo solo riconoscere che certe cose esistono e accettarle anche se non ci piacciono." Aspettai e, dopo aver capito che non avrebbe aggiunto altro, annuii. "Cosa volete da me, mio signore?" Artù mi rivolse di nuovo un sorriso, un sorriso triste e misterioso che gli avevo già visto altre volte durante quella conversazione. "Una cosa che mi dai da sempre, insieme alla lealtà, all'onore e all'integrità. Ma stavolta, temo sarà difficile per te accontentarmi." "Mettetemi alla prova, mio signore. Di che si tratta?" "Dell'obbedienza assoluta." Ancora una volta nel tono della sua voce, nel tono piatto e uniforme con cui pronunciò quelle parole, avvertii un presagio di morte e sentii la pelle d'oca spuntarmi sulle braccia e sulla nuca, tanto che dovetti reprimere un brivido. "E quando ve l'avrei negata, mio signore?" "Mai. Ho solo detto che forse stavolta lo farai." "Allora vi sbagliate." Le sue labbra si incresparono di nuovo in una parvenza di sorriso. "Adesso mi ricordo. Non hai mai imparato a parlare con un re in modo civile senza contraddirlo. Non ti ho mai fatto fustigare per la tua insolenza, vero? Saresti stato un brav'uomo e un nobile cavaliere se solo avessi imparato a trattare il tuo signore con il dovuto rispetto e la giusta umiltà. Un pizzico di umiltà una volta ogni tanto, un briciolo di sottomissione e forse anche un accenno di adulazione ti avrebbero fatto comodo in questi anni... Ma spesso dimentico che sei uno straniero dai modi barbari e dalla lingua incomprensibile e ogni volta che me lo ricordo, decido di essere clemente." Mi alzai mentre lui parlava e mi avvicinai a Excalibur, appoggiata in un angolo della stanza. La presi, la soppesai con gusto e la estrassi dal magnifico fodero, ammirando i raggi di luce che si riflettevano e danzavano scintillanti sulla lama; poi mi girai verso il re e gliela puntai contro, sapendo che nessun uomo in tutta Camelot avrebbe mai osato sguainare una spada in presenza del re, tanto meno di puntargliela contro. "Sì, è vero" ribattei, non appena Artù tacque. "Avrei dovuto passare più tempo a baciare il vostro regale fondoschiena. Abbiamo già avuto questa conversazione in passato, mio signore, ma voi dovete accettare una volta per tutte che non mi piacete e che vi sopporto soltanto perché mi è stato ordinato, non appena ho messo piede nel vostro regno freddo e piovoso." Distolsi lo sguardo dal suo sogghigno e rinfoderai la spada, quindi la rimisi a posto nell'angolo. "Ora ditemi, di grazia, perché mai dovrei disubbidirvi per la prima volta in vita mia?" La sua fu una risata fragorosa, un suono secco, che mi ricordò l'Artù che conoscevo un tempo. "Dio, Lance! Vorrei averne altri cinquecento come te. Salveremmo questo paese da tutti i mali che lo affliggono. Voglio che porti la regina in Gallia con te, alla corte di tuo cugino Pelles a Corbenico, e che la tenga al sicuro finché non potrà tornare a casa senza correre rischi, anche se dubito che ciò potrà mai accadere." Di tutte le cose che poteva chiedermi, quella era l'ultima che mi aspettavo di sentire. Non la richiesta di portare via la regina, quella in un certo senso potevo capirla e condividerla, ma il fatto che dubitasse che un giorno Ginevra sarebbe potuta tornare in Britannia senza correre rischi. Mi lasciò senza fiato, incapace di parlare. Girai di colpo su me stesso e mi allontanai da lui a grandi passi, sentendo il rumore dei miei pesanti stivali che calpestavano il pavimento di legno. "Non posso farlo, Artù!" "Ecco, lo vedi? Avevo ragione." "No, maledizione, non avete ragione, ma questo è davvero troppo." "In che senso? Credi che non sarà al sicuro in Gallia?" "Certo che lo sarà, se voi entrerete in guerra come avete intenzione di fare. Ma quello che non riesco ad accettare è la vostra convinzione che lei non potrà mai più tornare in Britannia e quindi neanche io. Ginevra è al corrente di quello che avete in mente per lei?" "Ovvio. Ne abbiamo parlato più di una volta. All'inizio era inflessibile, si rifiutava in modo categorico di considerare questa ipotesi, ma poi ha cominciato a capire che il mio ragionamento era sensato e da inflessibile è diventata semplicemente riluttante." "Come avete fatto allora a farle cambiare idea?" Artù increspò le labbra e inclinò la testa da un lato con aria beffarda. "Le ho ricordato quanto vuole bene a suo padre e quanto sarebbe contenta di ricongiungersi a lui, soprattutto se Simmaco e i suoi compari riuscissero a uccidermi o a farmi prigioniero. Inoltre, le ho confessato a malincuore che sarei più tranquillo e più operativo in battaglia se sapessi che lei non corre alcun pericolo. Così, alla fine, l'ho convinta ad accettare la mia proposta. Ma devi giurare sul tuo onore di non dirle nulla riguardo all'impossibilità di tornare in Britannia. Altrimenti rovineresti tutto." Avrei voluto urlargli contro, per liberarmi dall'enorme senso di frustrazione che provavo nel vedere che proprio lui, sovrano esemplare e paladino della Britannia, accettava con rassegnazione l'eventualità di essere sconfitto e ucciso dal nemico per cui aveva sempre nutrito un disprezzo smisurato. Non avrei mai pensato che potesse essere così remissivo, ma al tempo stesso sapevo che si stava comportando in modo pragmatico e realistico nel tentativo di fare quello che era meglio per Ginevra. "Artù," dissi, avvertendo la disperazione nella mia stessa voce "rispondete a questa domanda: qual è il vero motivo del vostro pessimismo? In tutti questi anni, non ho mai visto in voi un atteggiamento tanto negativo. Perché ora vi comportate così?" "Perché so che presto morirò, amico mio. Non lo penso, Lance, lo so. Una volta accettata questa realtà, un uomo tende a cambiare il proprio punto di vista." Sorrise quando vide la mia espressione affranta e scosse il capo con dolcezza. "Te l'ho già detto, tutti moriamo." Tentai di replicare, ma l'angoscia che mi serrava la gola mi impedì di dire qualsiasi cosa. Tossii con forza per schiarirmi la voce e poi ribattei. "È vero, tutti moriamo, Artù, ma a tempo debito e i vescovi ci dicono che non possiamo sapere quando arriverà la nostra ora. Voi sostenete di saperlo. Com'è possibile?" "Ah, Lance. Perché lo so. Ho abitato in questo corpo abbastanza a lungo da sapere che sta per abbandonarmi. Ormai cammino senza zoppicare e, chissà perché, cavalcare mi riesce anche più facile che camminare, ma passo la maggior parte della mia vita a sforzarmi di apparire forte e sano, mentre sono costantemente tormentato dal dolore. Se mostrassi come mi sento in realtà, l'effetto su tutti gli altri, dai soldati della guarnigione ai cavalieri della Tavola Rotonda, sarebbe disastroso. Le antiche leggi del nostro popolo dicono che un re deve essere perfettamente in salute per restare al potere. Oggi la mia salute è tutt'altro che perfetta, anche se faccio di tutto per non darlo a vedere, Lance. Ma, detto fra noi, la verità è che soffro costantemente a causa della mia ferita. Il dolore non mi abbandona mai, nemmeno la notte, quando dovrei essere protetto dal sonno. In pubblico cammino senza zoppicare e tengo la testa alta, ma in realtà dopo qualche passo vorrei mettermi a gridare e accasciarmi a terra. Non ho il coraggio di mostrare la mia debolezza e diventa ogni giorno più difficile continuare a fingere. Sono passati quasi otto anni ormai da quando quella lancia mi ha trafitto. La pelle è integra e la cicatrice è quasi scomparsa, ma la lesione interna non guarirà mai... E Ginevra ha sofferto anche più di me, in un certo senso. È una ragazza passionale, con delle pulsioni forti e naturali che io adesso non sono in grado di soddisfare. Da quasi otto anni ormai non sono più un vero marito per lei e neanche prima le ho regalato molto piacere a causa della nostra decisione di non avere un figlio per paura che Simmaco potesse corromperlo e influenzarlo. Comunque, a parte questo, mi accorgo di diventare più debole ogni mese che passa. Il processo è cominciato un anno fa. Fino ad allora avevo... tenuto duro, abbastanza da sembrare il re che avrei dovuto essere. Ma l'inverno scorso ho avuto una congestione e non sono più riuscito a guarire del tutto." Si alzò di nuovo e tornò vicino alla finestra, dove riprese a studiare il vetro, quindi mi parlò voltandosi solo per metà. "Negli ultimi tempi, come ti raccontavo, ho ricevuto dei resoconti in cui si dice che Simmaco sta tramando contro di noi. Corre voce che sia venuto a sapere cosa ho in mente di fare con Einar e i suoi Angli e che voglia fermarci." Si girò del tutto, a quel punto, appoggiò la schiena contro il muro, accanto alla finestra, e incrociò le braccia sul petto. "Ha ancora i suoi diecimila uomini, a quanto pare, e si è alleato con il re della costa orientale dell'Eire, Cyngal, il quale possiede una numerosa flotta di galee e tutti i guerrieri necessari per equipaggiarle. Ha anche convinto - senza incontrare molta resistenza - Annar dell'Isola di Mann e Lachlan di Snowdonia a unirsi a lui, insieme a qualche altro piccolo furfante che aspira a impossessarsi delle ricchezze di Camelot. Sta infiammando gli animi di tutti, raccontando che voglio consegnare la Britannia agli Angli. Loro gli credono, ovviamente, perché sono troppo stupidi per dubitare della sua parola. Perciò prima o poi verranno da noi e metteranno alla prova la nostra tempra. Quando succederà io sarò costretto a combattere - di persona, intendo - e a quel punto tutti vedranno la mia debolezza." Si girò di nuovo e fissò il vetro traslucido, come se potesse notare qualcosa al di là. "Mi restano solo due speranze: la prima è che Mordred si riveli una guida abbastanza forte da poter prendere il mio posto, e la seconda che Einar riesca a convincere gli Angli a scendere a patti con noi prima che venga sferrato l'attacco. Nel frattempo, però, ho bisogno che tu ti occupi della regina." "In nome di Dio, Artù, pensate a quello che state per fare... e a quello che dirà la gente." Si voltò di scatto verso di me, il volto teso per la rabbia. "Perché dovrei preoccuparmi di quello che dirà la gente? Pensi forse che non sia doloroso per me allontanare mia moglie mentre sono ancora vivo e pieno d'amore nei suoi confronti? La gente potrà dire qualunque cosa, Clothar. Potrà benissimo dire che Ginevra è fuggita con te o che tu l'hai rapita. A chi importerà quando saremo tutti morti? Lascia che la gente pensi e dica quello che vuole. Io voglio essere certo che la mia amata sposa sia lontana da tutti i pericoli... pericoli che correrebbe di sicuro se restasse a Camelot nei prossimi mesi, perché quando io morirò, lei non avrà molta scelta, potrà solo diventare una pedina nelle mani di suo padre o la concubina di qualche puzzolente ubriacone come Lachlan di Snowdonia. Con te in Gallia, invece, vivrà felice e serena... È ancora giovane, nel fiore degli anni. Ha solo ventisei anni, secondo i suoi calcoli. Avrà ancora un mucchio di tempo per avere dei figli e mettere su famiglia, dopo che io me ne sarò andato, Lance. Ti confesso che non potrei desiderare niente di meglio che affidarla alle tue cure, perché voi due siete le persone che amo di più al mondo." Alzò la mano verso di me perché non lo interrompessi. "Lo so! Non vuoi sentir parlare di queste cose. Mettiamola così, allora. Se tutto va come spero, farò in modo che torniate entrambi a casa entro un anno. Ti fidi della mia parola?" "Naturalmente. Ma è questo, secondo voi, il modo migliore in cui posso servirvi?" Artù esitò per una frazione di secondo e poi annuì. "Sì." In quel momento, davanti a quella leggera esitazione e a quell'enfatico cenno del capo, capii che avrei fatto qualunque cosa per quell'uomo e per sua moglie, e che lo avrei fatto per puro amore, assumendomi tutte le responsabilità che quel sentimento comportava. Quando mi vide acconsentire, Artù batté le mani. "Ottimo" commentò, raggiante di gioia. "E sia." "E i miei uomini, Artù? Quelli che ora si trovano in Gallia? Quando li farete tornare a casa?" "Appena sarà possibile, Lance. Ma Connor è morto e non so chi è diventato ammiraglio al posto suo. Se abbiamo ancora degli amici su al Nord, gli scambi commerciali proseguiranno e noi potremo cominciare l'evacuazione con la prossima flotta..." "Ma?" "Ma ho sentito dire che gli Scoti hanno iniziato a spostarsi dalle loro isole verso la terraferma e che devono combattere in continuazione per farsi strada. Adesso però hanno tutte le armature e le armi di cui avevano bisogno, perciò hanno meno incentivi per portare avanti gli scambi commerciali con la Gallia." "E voi ci credete?" "Non del tutto, no. Forse in parte è vero, ma continueranno a importare." "Bene, e finché lo faranno, noi rimanderemo in patria uomini e cavalli, anche uno squadrone per volta, se necessario. Alcuni dei nostri soldati, quelli sposati, preferiranno restare in Gallia, ma non sarebbe giusto abbandonare gli altri lì." "Sono d'accordo, a patto che abbiano ancora una casa in cui tornare." Mi lanciò uno sguardo, perspicace come sempre. "C'è qualcosa che ti irrita. Coraggio, sputa il rospo e vediamo cosa possiamo fare." Chinai il capo. "Dov'è Merlino, Artù? Non lo vedo e non lo sento da anni. È vivo?" "Sì, è vivo, ma non posso dirti dove si trova, perché non lo so. Si fa vedere poco, è molto vecchio ormai e rifugge la compagnia della gente. Ma ha molte cose che lo tengono occupato... almeno così dice. Sta trascrivendo o riordinando alcuni scritti dei miei antenati, antichi diari compilati da Publio Varro e Caio Britannico. Perlomeno questo è quanto stava facendo l'ultima volta che l'ho visto, ossia all'incirca quattro mesi fa. Comunque è vivo e vegeto... e imprevedibile come al solito. Potrebbe comparire qui da un momento all'altro, perciò non ti meravigliare se un giorno dovesse materializzarsi davanti ai tuoi occhi per dirti che ti deve parlare. Adesso andiamo a trovare la regina. Non voleva essere presente mentre ti affidavo l'incarico di badare a lei, ma sarà lieta di sapere che lo hai accettato." "Ho ancora una domanda prima di andare." "Chiedi pure." "Quando partiremo?" "Quando volete." "Io non voglio, Artù, non desidero affatto partire, ma devo sapere quello che desiderate voi. Se non aveste in mente un periodo preciso, lo preferirei. Credete che potremmo restare qui finché non scoppierà davvero la guerra?" "Certo che potete, ma dovrete essere pronti a partire in qualsiasi momento e questo potrebbe mettere a repentaglio voi e la vostra missione." "È vero, ma potrebbe anche non scoppiare mai... la guerra, intendo." "So cosa intendi. Ma credo che sarebbe stupido vivere con questa speranza. Simmaco è impaziente di scontrarsi faccia a faccia con me. La guerra è imminente, Lance, voglio che siate lontani da qui prima che cominci. Ora andiamo a parlare con Ginevra." II Nei due mesi successivi, Camelot sembrò come avvolta in un incantesimo, anche se era chiaro che tutti si stavano preparando alla guerra. Il tempo fu insolitamente sereno e non ci furono disordini o razzie a turbare la quiete nei nostri territori. Per commemorare il grande successo che anni prima Pelles aveva ottenuto con i suoi giochi a Corbenico, Artù organizzò un evento simile a Camelot, una competizione fra concorrenti seri ed esperti: cavalieri, soldati dei diversi corpi d'armata e membri di guarnigioni esterne. Ginevra fu la regina della festa, lei e le sue dame dispensarono a turno premi, doni e onorificenze ai concorrenti vittoriosi. Chiunque fosse stato in grado di partecipare era presente ai giochi e molti dei cavalieri della Tavola Rotonda, grazie alle loro magnifiche armature, spade e insegne, nonché all'abilità che dimostrarono, si distinsero agli occhi degli spettatori tanto che i loro nomi diventarono noti persino alla gente comune. Sagramore, Bedwyr, Tristano, Lionel (il ragazzo che aveva pestato il figlio di Artù ed era diventato il suo inseparabile amico), insieme a Gareth, Mordred e Gwin divennero tutti nomi conosciuti alla popolazione, al pari di Artù e Merlino. Poi, dieci giorni dopo la fine dei giochi, arrivò la notizia che uno dei nostri avamposti situati più a nord, difeso dal fidato Seur Pelinore, vecchio amico di Artù e signore della Cambria, era stato preso d'assalto e raso al suolo, durante un attacco a sorpresa, da un'orda di invasori arrivati da nord e da ovest. Pelinore era stato ucciso nel corso della battaglia e i superstiti si erano arresi, per poi essere massacrati all'istante. Quattro uomini, tutti con gravi ferite, erano sfuggiti al massacro e avevano cercato di tornare a Camelot. Due di loro erano morti lungo la strada, ma gli altri due erano arrivati a destinazione e uno, veterano della campagna di Ghilleadh, era sicuro che il capo degli invasori portasse l'armatura e le insegne di Simmaco di Chester, una leggera corazza romana, ornata dalla doppia X che indicava la ventesima legione, ossia quella che aveva costruito la fortezza di Chester e l'aveva difesa per tre secoli. Due giorni dopo, in mezzo al caos e alla confusione generale, mentre Camelot si preparava a entrare in guerra, io e la regina salutammo in privato Artù e tutti i nostri amici, dopodiché lasciammo il posto che amavamo di più al mondo. Ginevra non portò nessuna delle sue dame con sé. Partimmo da soli per Glevum, dove ci attendeva la nave che ci avrebbe portati in Gallia. Io indossavo solo una tunica di lana e un mantello da viaggio e ci spostammo su un carro a due ruote guidato dal nostro unico compagno, il mio scudiero Lanfranc. Nel carro, nascosti sotto di noi, c'erano tutti i beni di Ginevra e miei, comprese la mia armatura, le mie armi e la magnifica sella completa di briglie che Artù mi aveva dato come regalo d'addio. Nessuno sembrò accorgersi della nostra partenza ed era proprio così che doveva essere, dato che l'intera operazione era stata progettata diversi mesi prima e la nave era ormeggiata a Glevum già da un pezzo. Ovviamente io avevo salutato Artù la sera prima, cenando con lui e con i miei vecchi compagni, e Ginevra aveva trascorso insieme a lui il resto della serata; ma quando sgattaiolammo via nella foschia del mattino, nessuno dei due riusciva davvero a credere che non lo avremmo mai più rivisto. Non era stato un addio definitivo ed entrambi eravamo partiti credendo che quella sarebbe stata una separazione temporanea, che saremmo tornati entro l'anno, quando le acque si fossero calmate. Quando arrivammo a Glevum, fui sorpreso ma anche molto felice di trovare Merlino ad aspettarci, la sua tetra figura vestita di nero si riconosceva da un miglio di distanza. Non aveva molto da dire e quando parlò lo fece con voce roca e indistinta, come se avesse la lingua gonfia. Si espresse lentamente e con un po'"di concentrazione riuscii a capire quello che voleva dirci. Ci augurava buona fortuna e pregava gli dèi affinché vegliassero su di noi e ci proteggessero. Sarebbe rimasto nei pressi di Camelot, ci disse, per lavorare al manoscritto che raccontava la storia della colonia di Artù fin dai tempi della sua fondazione. Quando gli chiesi dove si sarebbe rifugiato, Merlino rispose: "Dove sono stato sempre, ad Avalon". A quel punto gli sorrisi, al ricordo di quella minuscola valle nascosta fra le colline che da lungo tempo era il suo santuario. Ci ero capitato diverse volte, ma fino a quel momento mi ero dimenticato del suo nome e persino della sua esistenza. E poi, poco prima che ci imbarcassimo, Merlino mi consegnò un voluminoso pacchetto che fino ad allora aveva tenuto nascosto sotto la tunica. Era la mia eredità, disse. Si trattava dei documenti relativi alla mia famiglia e al mio passato, inviatigli da Germano. Li aveva custoditi per tutti quegli anni: adesso pensava che sarebbero stati più al sicuro con me. Lo ringraziai incuriosito e quando salii a bordo mi infilai il pacchetto sotto il braccio, con l'intenzione di leggere quei documenti in un secondo tempo. Invece non li lessi mai. Non ho mai neanche aperto quel pacchetto e lo custodisco ancora intatto, perché ogni volta che provavo ad aprirlo, una voce nella testa mi consigliava di non farlo. Non so come spiegare la cosa, nemmeno a me stesso, ma non riuscivo a ignorare quella voce. L'ultimo ricordo che ho di Merlino vivo è di lui che si china su di me per dirmi con quella voce stranamente profonda: "Torna, hastatus. Torna un giorno, quando tutto questo trambusto sarà finito. Ti aspetterò ad Avalon". Trascorsero più di vent'anni prima che potessi tornare, ma quando lo feci, lo trovai ad aspettarmi come aveva promesso, anche se ormai di lui non restava altro che un mucchietto di ossa rinsecchite e qualche ciuffo di capelli bianchi come la neve. Mi aveva lasciato una grande quantità di tesori, per la mia vecchiaia. Il suo manoscritto era finito e quando lo lessi, ritrovai la forza di continuare a scrivere le mie memorie.. Mi lasciò anche un altro meraviglioso regalo. Lo conservo ancora oggi nella mia casa e tutti quelli che lo vedono rimangono folgorati dalla sua bellezza. Ovviamente, dico a tutti che in gioventù apparteneva a me, perché se dicessi che era di Artù capirebbero subito qual è il suo nome e questo causerebbe solo altra sofferenza. Così quella che ora ho con me non è più Excalibur, la magica spada nata da una stella caduta dal cielo e forgiata per un grande re, ma soltanto una magnifica arma, degna di un campione. Quando morirò, andrà a mio figlio Clovis. Di tanto in tanto ci giungevano notizie dalla Britannia, per lo più tramite i preti. Venimmo a sapere di un'importante battaglia, tenutasi in un luogo chiamato Graupius, o Grampia, o forse Gropus, in cui si diceva che Artù fosse morto, anche se il suo corpo e la sua leggendaria spada non erano mai stati ritrovati. Ci riferirono anche che tutti i suoi cavalieri erano morti insieme a lui. Poi ci giunse voce che alcuni di questi cavalieri erano sopravvissuti e che uno di essi aveva rubato Excalibur, la spada del re. In seguito sentimmo dire persino che la regina Ginevra si era rivelata una moglie infedele ed era fuggita con uno dei cavalieri del re. Per quanto riguarda Mordred, il figlio del re, invece ci dissero prima che anche lui era stato ucciso in battaglia, poi che aveva tradito il padre ed era sopravvissuto alla battaglia e infine che aveva addirittura sedotto la matrigna ed era stato pertanto assassinato dal vendicativo cavaliere franco di Artù. Ma ci capitò di sentire anche una versione del tutto diversa della storia, ossia che il cavaliere franco aveva sedotto Ginevra e che pertanto era stato massacrato dal vendicativo figliastro della regina, di nome Mordred. Il racconto più diffuso era quello relativo alla morte di Artù e alla misteriosa scomparsa del suo corpo e della sua spada; secondo quel racconto Artù era stato stregato e portato via dagli dèi protettori, affinché risanasse le sue ferite e riacquistasse le forze per i tempi a venire. C'erano molte varianti della storia, ogni prete che arrivava ne portava una nuova con sé. Ma l'unica cosa che le accomunava tutte era la notizia che Artù era morto. Una volta, dopo aver sentito uno di quei racconti, mi ricordai di quando Artù mi aveva detto che la gente poteva pensare e dire ciò che voleva, a prescindere da quale fosse la verità. Quella sera, ripensando al mio amico, piansi per lui e per quello che sarebbe potuto e dovuto diventare. Alla fine, tre anni dopo, quando i resoconti dalla Britannia si esaurirono del tutto, io e Ginevra ci sposammo, poiché nel frattempo ci eravamo conosciuti meglio e ci eravamo innamorati. Lasciai Corbenico con la benedizione di mio cugino Pelles e la portai con me a Benwick, dove nessuno poteva sapere che un tempo era stata una regina. Perceval e Bors, gli ultimi due membri ancora in vita dei cavalieri della Tavola Rotonda, vennero con noi, e con noi rimasero fino alla morte. E ora che tutti se ne sono andati, sento molto la loro mancanza. Nota dell'autore Benché si tratti di un romanzo a sé stante, la cui lettura è possibile senza necessariamente conoscere o fare riferimento a eventi precedenti, quest'opera rimane pur sempre il seguito di Io Lancillotto. Il cavaliere di Artù e Il marchio di Merlino. Si presenta, infatti, come una cronaca della vita di Lancillotto, giovane Clothar, all'indomani del suo incontro con Artù Pendragon, sommo re della Britannia Unita. Molti dei personaggi e dei luoghi di questa storia erano già presenti nelle due opere precedenti, ragion per cui gran parte di quanto scritto in quelle prefazioni è da ritenersi pertinente e appropriato anche a questo volume. I lettori affezionati a Clothar e alle sue passate imprese tengano presente che si è scelto di riproporre molti aspetti a loro ben noti a beneficio di nuovi lettori non avvezzi al mondo del quinto secolo. Ho già spiegato in precedenza come, nell'accostarmi a questa vicenda, sia stato costretto a misurarmi con alcune realtà storiche strettamente collegate a quella che ritengo sia stata l'origine della leggenda di re Artù. A mio parere, l'intera storia ruota intorno al triangolo Artù/Ginevra/Lancillotto, e tutto ciò che avviene in questo mito è da attribuirsi all'umanità - e all'umana debolezza - del re, alla natura imperfetta del suo matrimonio con Ginevra e all'attrazione esercitata su entrambi dal valoroso guerriero straniero noto come Lancillotto. Il nome per esteso di Lancillotto è Lancelot du Lac, Lancillotto del Lago, un nome di origine francese, e Lancillotto stesso, ci dice la leggenda, era un soldato francese che attraversò il mare e venne in Inghilterra proprio per servire alla corte di re Artù come cavaliere della Tavola Rotonda. Ma, anche tenendo conto delle esagerazioni presenti in ogni leggenda, è semplicemente impossibile che ciò sia accaduto a metà del quinto secolo, perché a quei tempi l'Inghilterra era ancora chiamata Britannia, e quella che oggi chiamiamo Francia era ancora Gallia romana. Ci sarebbe voluto più di un secolo, con la fine delle invasioni anglosassoni in Britannia e l'emergere delle tribù degli Angli come forza dominante, perché si cominciasse a conoscere quel paese come terra degli Angli: Angle land, e infine England, Inghilterra. Analogamente, la Gallia romana sarebbe diventata nota come Francia solo molto più tardi, dopo la vittoria dei Franchi invasori sui loro nemici giurati, i Burgundi. Con il tempo i territori franchi sarebbero diventati la terra dei Franchi - Francia - mentre i Burgundi sarebbero rimasti nei loro possedimenti in Borgogna. I Franchi, conosciuti come ottimi cavallerizzi, sono generalmente considerati coloro che per primi introdussero la sella con le staffe in Europa occidentale, e fin dalla loro prima apparizione nell'Impero Romano, lungo il corso del Reno nel terzo secolo, ebbero fama di popolo schietto nel parlare e completamente privo di tatto, forse perché la loro lingua originale non possedeva tutte le sottigliezze del latino o del greco. Sia come sia, ancora oggi usiamo l'espressione "parlare francamente" per indicare un modo di esprimersi diretto e senza peli sulla lingua. Clothar è la mia interpretazione di Lancillotto. Gli studiosi ritengono che il nome Lancillotto derivi probabilmente dal termine latino lancearius, una qualifica militare romana che dovrebbe corrispondere a quella dei reggimenti di lancieri europei del diciannovesimo secolo. Ho immaginato Clothar come un guerriero franco a cavallo che, compagno e amico fidato del sommo re Artù, si conquista una fama imperitura come eroe archetipo, un personaggio chiamato secoli dopo Lancillotto dai cantastorie francesi che, pur avendone udito la fama e le gesta, non ne conoscevano il vero nome. Lingua La difficoltà principale per chi scrive un romanzo storico è quella della lingua, perché è un elemento che si evolve costantemente e non si può sapere con precisione come parlasse o si esprimesse la gente centinaia di anni fa. Per noi è complicato persino concepire che fino a centocinquant'anni orsono, in un piccolo paese come la Britannia, individui di regioni diverse non fossero in grado di intendersi, o di comunicare fra loro facilmente; la verità è che le genti dello Yorkshire, di Londra o di altre zone del paese parlavano dialetti talmente diversi da risultare, in effetti, vere e proprie lingue differenti. Ho scelto di scrivere in una lingua standard, ma anche questa è una creazione abbastanza recente, poiché è stata "standardizzata" solo nel diciannovesimo secolo. Prima di allora non esisteva un'ortografia corretta per le parole. Molti personaggi delle mie storie avrebbero parlato le antiche lingue dei Celti, dei Germani e dei Galli - oggi completamente perdute - mentre re e condottieri avrebbero più probabilmente conversato in latino. Quando persone di lingue diverse si incontravano e si mescolavano, per comunicare adottavano la lingua franca del loro tempo, sebbene la vera lingua franca, intesa come lingua dei Franchi, non fosse ancora entrata nell'uso comune. Ma nel corso della storia, ogni volta che il commercio ha messo in contatto genti di razza e lingua diverse, l'ingegno umano ha rapidamente sviluppato delle lingue base, essenziali, per soddisfare i loro bisogni. In Africa, nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, questa lingua era lo swahili. Nell'Asia orientale, il pidgin. Siccome non conosciamo quale lingua avesse questo ruolo nell'Europa del quinto secolo, ho scelto di chiamarla "lingua costiera": la costa, infatti, era l'area in cui si incrociava la maggior parte dei mercanti. In questo libro ho utilizzato ampiamente la parola magister, termine in uso presso l'esercito romano nel quinto secolo, da cui i nostri "magistrato" e "magistrale". Pare che avesse due tipi di significato: ho voluto impiegarli entrambi. Il primo era quello letterale, quando uno studente o discepolo si riferiva al suo insegnante o mentore chiamandolo magister (maestro), con la dovuta deferenza. Il secondo, invece, ricorda il modo in cui noi usiamo oggi il termine "capo" per indicare un superiore - un ufficiale o equivalente - il cui titolo merita un certo rispetto, sia pure di gran lunga inferiore a quello implicito nel primo uso del termine. Ringraziamenti Già molto tempo prima di cominciare a scrivere quest'ultimo capitolo della mia saga, ero convinto, grazie alle ricerche e agli studi da me svolti sulla leggenda, che Artù Pendragon avesse subito una sorta di menomazione fisica e che avesse sofferto di una malattia cronica e debilitante. Così ho intrapreso altre ricerche per scoprire quale tipo di malattia poteva aver prodotto i sintomi che mi sembrava di aver individuato e sono stato tanto fortunato da ottenere l'aiuto volontario del dottor David Kates di Kelowna, British Columbia, un nefrologo con la passione per la medicina antica, per le tecniche mediche e per i mali misteriosi. David ha passato un mucchio di tempo a studiare tutti i documenti che è riuscito a procurarsi su antichi casi di diabete e sui sintomi di molte altre malattie, nel vano tentativo di trovare qualcosa che avesse potuto debilitare il mio re in modo plausibile, rendendolo impotente senza ucciderlo. Niente sembrava fare al caso nostro. A quei tempi, se si contraeva una malattia grave, si moriva rapidamente. Ma poi un giorno, in un momento di ispirazione, David mi fece notare che poche cose potevano debilitare l'organismo umano più di una profonda ferita da arma da taglio, infetta con una lama vecchia, sporca e arrugginita, fosse essa di spada o di lancia. Da allora ha tutta la mia gratitudine, perché quell'intuizione era proprio ciò che mi serviva per rendere credibile il mio personaggio. Per quanto in ritardo, vorrei ringraziare molte persone che a partire dal 1990 mi hanno assistito nella stesura di questa saga arturiana: Brad Martin, all'epoca vice direttore della Penguin Books, che lesse il manoscritto originale e decise che la Penguin doveva pubblicarlo; Cynthia Good, storica direttrice editoriale della Penguin Canada, e Kirsten Hansen, la mia primissima editor, che ormai si occupano entrambe di altro. Catherine Marjoribanks, la mia editor dal 1993, che è arrivata a conoscere questa storia meglio di me, contribuendo in modo significativo al suo successo. Debby DeGroot, responsabile della pubblicità per il gruppo Penguin (Canada), e a tutti gli altri collaboratori canadesi della Penguin con cui ho il piacere di lavorare da quasi quindici anni. Mark Burgess, che ha realizzato il mio sito web "ufficiale" www.camulod.com e lo cura da innumerevoli anni... Mark si mise in contatto con me quando il mio primo libro era stato appena pubblicato e si offrì di gestire un sito web per me. All'epoca non sapevo nemmeno cosa fosse un sito web e quel poco che so oggi lo devo a lui. Bay Addington di Abbotsford, British Columbia, che lesse il mio primo manoscritto, a metà degli anni Ottanta, e mi portò cinque monete di rame da Bath (Aquae Sulis) risalenti all'epoca di Publio Varro e Caio Britannico, che ancora oggi occupano un posto d'onore sulla mia scrivania. Bob Sharp, di Calgary, mio vecchio amico con cui stavo parlando quando mi è venuta l'idea di dare una nuova spiegazione al mito della "Spada nella roccia". Se non fosse stato per lui, e per il nostro interesse comune verso la materia arturiana, non avrei mai avuto quell'illuminazione. Alma Lee, direttore esecutivo e fondatrice del Vancouver International Writers" Festival, che oltre ad avermi coinvolto nel progetto è diventata una mia grande amica. Marion Dingman Hebb, agente letterario e colonna portante del sindacato degli scrittori canadesi, il Canada Writers Union, che mi ha aiutato a trovare un editore e alla fine ha gentilmente evitato di farmi pressioni per avere il compenso che le spettava. Bill McKay, mio amico di sempre, il quale stentava a crederci quando gli ho detto che avevo appena firmato un contratto con un editore e ha esclamato "Porca...!" per ben cinque volte. Mark Askwith di Space Channel, che ha filmato una mia lunghissima intervista, in cui parlavo di Excalibur, presso il campus dell'Università di Toronto e poi l'ha mandata in onda come riempitivo tra un programma e l'altro per anni, finché tutti in Canada non sono riusciti a vederla, tranne il sottoscritto, a quanto pare. Mike McCrodan, mio amico avvocato e bon vivant, che mi ha aiutato in molti modi, troppi per enumerarli tutti. Diana Gabaldon, che quando nel 1992 le confessai di non avere un agente letterario, rispose: "Bene, adesso ce l'hai!" e andò subito a mettersi al lavoro. Perry Knowlton, ex presidente della Curtis Brown Ltd. di New York, ormai in pensione, che per decenni è stato il decano degli agenti letterari d'America e che su ordine di Diana mi ha inviato per posta un contratto firmato; e ringrazio anche Janet Turnbull Irving e Dean Cook, soci canadesi di Perry. Martin Gould, che fino a poco tempo fa è stato direttore artistico della Penguin Canada e ha lavorato con me fin dall'inizio con entusiasmo, disegnando le copertine originali delle edizioni canadesi di tutti i miei libri. Aaron Heck, impareggiabile esperto di computer, che pur conoscendo il mio atteggiamento luddista, continua a venire in mio soccorso, senza mai perdere la pazienza o farmi sentire troppo stupido, ogni volta che ho a che fare con il mondo dell'informatica. E naturalmente tutti i lettori affezionati che hanno comprato e apprezzato i miei libri. Grazie a tutti voi.
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