Prototipo ideale del Volpino Italiano
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Prototipo ideale del Volpino Italiano
OBIETTIVO ZOOTECNICO SUL VOLPINO ITALIANO DOCUMENTAZIONE DI RICERCA SULLA TIPOLOGIA AUTOCTONA INDAGINE SULLA TIPICITA' Prototipo ideale del Volpino Italiano La conclusione squisitamente scientifica dello scopo del presente libro verte sulla definizione tecnica del profilo cinognostico caratterizzante le peculiarità autoctone della nostra razza. Occorre pertanto incentrare lo studio del lavoro fin qui affrontato limitatamente ai particolari rivolti a ridefinire l’aspetto generale del volpino italiano, affinché si giunga a concludere il percorso dell’intero libro nel prototipo garante la tipicità pura, tramite la caratteristica connotazione contemporaneamente non più identificata entro la completezza del profilo morfologico. Si evidenziano, dunque, i tratti del percorso necessari a percepire il prototipo ideale. Evidenziazione della tipicità più particolareggiata del Volpino Italiano Lo standard del Volpino Italiano è talmente esaustivo, al punto che lascia poco spazio alla personale interpretazione, perlomeno in chi dispone di cognizioni cinognostiche e competenza specializzata sulla razza. Focalizzato nei punti essenziali, poi, fornisce i tratti fondamentali del tipo ideale con assoluta precisione. Il testo vigente, d’altronde, è reduce della stesura eseguita – su richiesta della Fci – per facilitare la lettura del disegno di descrizione dei caratteri etnici, a suo tempo magistralmente tracciato da Giuseppe Solaro. Si nota che lo standard in vigore nulla ha modificato rispetto al contenuto tecnico del capolavoro solariano (adottato nella sua completezza fino al 1989). Cotanto rigore descrittivo, invece, raramente continua ad essere applicato, tanto in allevamento, quanto in esposizione, come se, al contrario, fossero avvenute delle improprie modifiche. Persiste diffuso il sistema di selezione e di giudizio – mai autorizzato da chi di dovere (commissione tecnica centrale dell’Enci) – decretato sulla figura imperante nella stragrande maggioranza dei soggetti abitualmente esposti da più di quindici anni a questa parte. L’occhio di molti miei colleghi allevatori e giudici, specie tra quelli avviati di recente, infatti, conseguentemente, seppur involontariamente, per forza di situazione, si è adattato a ritenere certuni modelli contemporanei (altresì, al massimo, che potevano rappresentare soltanto dei veicoli genetici di transizione verso discendenti purificati nel prosieguo della selezione) come i campioni da proclamare senza il minimo dubbio interpretativo, talvolta esaltandoli oltre il dovuto persino quali titolari di una ipotetica evoluzione della razza, approdata ad un inesistente nuovo tipo. Il criterio adottato da alcuni giudici, pertanto, si è cristallizzato sulla base della campionatura presentata da quegli allevatori – anche senza saperlo – ricorsi ad una strategia selettiva non del tutto ortodossa. Una serie di campioni recenti, frutto di percorsi allevatoriali deviati dalle linee originali, in quanto estranei alla genetica della nostra razza, quindi, è divenuta l’unico punto di riferimento, sostituendo il prototipo descritto dallo standard. Non si è più pensato all’applicazione del testo ufficiale dei caratteri etnici, bensì a confrontare ogni nuovo soggetto con il campione del momento, specie se imbattuto sul ring e dotato di titoli altisonanti. Chi non segue un sistema del genere si trova emarginato, perché additato di scarsa competenza (come giudice), oltre a non vincere (come allevatore). Adeguarsi a quanto si è creato in proposito, addirittura, è più redditizio, in quanto comporta il dover allevare o giudicare la razza senza perdere tempo in concentrazione sullo standard. Sembra davvero tempo perso, difatti, studiare il volpino italiano più di tanto, visto che il quantitativo presentato in esposizione è sempre esiguo. Conviene di più raffigurare il campione di turno, onde stare al passo con la moltitudine di giudici che, in buona fede, perché senz’altro inconsapevolmente (meglio informati, forse, avrebbero agito diversamente), gli hanno assegnato i cartellini attitudinali al campionato, allo scopo di non perdere il filo diretto con la maggioranza, in grado di proteggere qualunque scelta, ma senza assicurarsi se sia giusta, tanto nessuno, eventualmente, ha la possibilità di reagire da solo in difesa della pura tipicità, soprattutto quando non è totalmente recepita. La descrizione ufficiale del volpino italiano, invece, permane intatta all’originale del Solaro, per cui basta rifarsi al disegno etnico ivi contenuto, predisposto a conservare il tipo ideale, che è sempre quello tradizionale. Occorre, con risolutezza, dare lustro intellettuale al testo approvato dall’Enci e dalla Fci, se non si vuole perdere una razza autoctona italiana oramai incondizionatamente avviata alla rarefazione tipologica, favorita dalla facilità con cui l’incontrollato innesto alloctono porta al titolo di campionato, soltanto perché elargisce un’immagine più appariscente (non certo tecnicamente più probante). Bando pertanto alla masochistica modestia, che mi ha fatto tacere fin troppo, causando dei danni alla razza, pur per colpa non del tutto mia. Lo standard, in fondo, è sempre disponibile a darci spiegazioni, anche nei punti rivelatisi controversi negli ultimi anni. Serve prendere in esame ciascun tratto somatico nel contesto della configurazione generale, alcuni dei quali, tutt’oggi, vanno ulteriormente precisati. Vediamo i più significativi. Chiarezza sulle orecchie del Volpino Italiano Prese secondo la loro singolare descrizione, sono interpretate in modo fuorviante dall’effettiva inserzione e dal conseguente portamento. La dizione di orecchie ravvicinate, se presa alla lettera, porta a ricercare degli errati crani stretti, con la testa troppo allungata, anche per via del muso tendente a parificarsi longitudinalmente alla retrostante regione cerebrale. L’avvicinamento delle orecchie, secondo la dicitura letterale a sé stante, altera buona parte della tipica espressione, avvicinandola a quella del kleinspitz, se non a quella del japanese spitz (nei casi delle teste molto lunghe). L’inserzione delle orecchie, invece, va sì vista nella disposizione più vicina possibile, ma nel contesto del cranio largo e di forma ovoidale descritto dallo standard. La larghezza del cranio ben maggiore della sua lunghezza, con la rotondità superiore appena evidente per via della lieve convessità data dalla curvatura quasi appiattita del profilo trasversale allungato dalla forma ovoidale, condiziona la base auricolare ad assumere una posizione più distanziata di quella che, comunemente, si crede debba essere corretta. I padiglioni del volpino italiano, appunto per la lieve forma arrotondata del cranio ovoidale, poi presentano la base inclinata di quel tanto che abbassa il limite esterno rispetto a quello interno. Il portamento in attenzione, dato da codesta corretta inserzione, rispetto all’orizzonte evidenzia il margine esterno del triangolo auricolare in linea verticale e solo il margine interno obliquo. L’asse mediano del padiglione, che collega il punto centrale della base dell’orecchio al suo apice, quindi, si presenta inclinato verso l’esterno, in quanto perpendicolare alla pur lieve curvatura craniale del proprio tratto d’inserzione e non al piano orizzontale astronomico. Tale portamento non fa apparire l’orecchio così letteralmente ravvicinato, specie se confrontato con lo spitz tedesco e giapponese. Si tratta di uno dei punti fondamentali, che contraddistingue la nostra razza italiana da quelle razze affini estere. Le altre summenzionate razze volpinoidi, infatti, presentano i margini del padiglione entrambi obliqui, peraltro equamente inclinati l’uno verso l’altro, per cui l’asse mediano, acquisendo la verticalità, è perpendicolare all’orizzonte. Nessun’altra razza affine, d’altronde, ha il cranio conformato come quello del volpino italiano. Il cranio del kleinspitz, oltre che trasversalmente più ridotto, è molto più arrotondato, mentre quello del japanese spitz è ancora molto più stretto. Nella razza nipponica, pertanto, le orecchie sono più ravvicinate dal minore spazio in larghezza, mentre nella razza teutonica la marcata rotondità cranica offre il medesimo raggio di curvatura, perciò, già più ravvicinate dal diametro bizigomatico inferiore, ottengono la migliore condizione di posizionamento più verso il centro, se no avrebbero l’attaccatura troppo prossima alla linea degli occhi. Le orecchie del nostro volpino portate in attenzione, quindi, vanno viste vicine per quanto può ravvicinarle un cranio più largo che lungo, nonché arrotondato secondo l’appena accennata curvatura ovoidale, in modo tale da spostarle molto più lateralmente rispetto alle razze affini. Non poco, certamente, contribuisce a male interpretare la posizione delle orecchie qualche disegno scarsamente ravveduto, ma molto diffuso. Il caso dell’interpretazione grafica da parte di Alberto Marengoni, pubblicato a pagina 46 del libro di Amelia Murante (De Vecchi Editore), difatti, non è del tutto ottimale. Nemmeno il disegno con la didascalia delle orecchie corrette per forma, misura e posizione, indubbiamente, corrisponde allo standard. Eppure bastava che il disegnatore in questione e l’autrice del volume prendessero a riferimento i campioni storici, cui il libro in oggetto, fortunatamente, offre sapiente spazio. Non fosse ancora sufficiente, oppure venissero tirate in ballo le solite scuse sul tipo vecchio e nuovo, ecco che il campione italiano Hax della Pioppa (proprietaria la stessa Amelia Murante), ripropone quanto asserito dal sottoscritto, ovvero dallo standard. Quanto detto in proposito, d’altronde, nei dialoghi avuti in passato, ha visto me e Gioacchino Murante pienamente concordi. Il Comandante stesso ha sempre giudicato come standard recita. Un modello del genere, tra l’altro, appare utopico, poiché si presenta impensabile ottenere tale inserzione delle orecchie sulla testa craniometricamente corretta disegnata dal Marengoni stesso. Orecchie così piccole e ravvicinate sono proprie del kleinspitz. Più grandi (come richiesto dallo standard del volpino italiano) ed altrettanto portate in quel modo, d’altro canto, appartengono allo spitz giapponese, come ben evidenzia il disegno di tale razza nipponica a pagina 38 del libro di Marco Piasentin. La scarsa disponibilità di documentazione tecnica sul volpino italiano, allora, ci porta proprio a studiare con attenzione la letteratura e l’iconografia editata per le razze affini. I disegni riferiti alle orecchie dello spitz giapponese, stavolta quelli delle figure a pagina 54, sempre del libro di Piasentin, sottolineano che il portamento a margine esterno verticale della figura “c” ivi contenuta, ovviamente difettoso nel volpino orientale, in tale particolare lo differenzia non poco dal nostro volpino, date le circostanze generali della testa. La figura “c” (più tipica nel volpino italiano), rispetto ai margini entrambi obliqui della figura “a” (corretta nel volpino nipponico), evidenzia come un siffatto portamento è correlato ad un cranio più largo. Il volpino asiatico, al riguardo, si pone intermedio ai volpini europei, visto che gli è indesiderabile anche l’inserzione effettivamente ravvicinata del piccolo volpino tedesco (simile al portamento della figura “b” del libro di Piasentin in oggetto). L’unico disegno riferito espressamente al volpino italiano che presenta il corretto portamento delle orecchie, su di una testa dalla forma e dalla craniometria ideale, è quello adottato come logo dall’associazione specializzata (attualmente decaduta). Non sono a conoscenza del nominativo dell’autore di quell’unico modello grafico in grado di trasferire lo standard entro una consona immagine interpretativa, ma so per certo che un disegno così perfetto in merito ricalca taluni prototipi alla base del volpino italiano contemporaneo (Balì della Genzianella, Giglio della Genzianella, Nico della Genzianella, Pallino della Genzianella, Lara della Genzianella, Nano della Volpe Candida). Le orecchie degli anzidetti maggiori prototipi della ricostruzione, confrontate con i campioni storici (in modo particolare degli allevamenti del Garda e Douglas), rivelano le medesime caratteristiche di portamento, dovute alle stesse dimensioni craniometriche. Dimensione della testa del Volpino Italiano Constatato che il portamento delle orecchie dipende dalle condizioni craniometriche, occorre pure ribadire quale conformazione assume la testa del volpino italiano pienamente in tipo. La larghezza bizigomatica assodata è quella che rapporta la lunghezza del cranio ad esserle inferiore di circa un centimetro. Il muso più corto del cranio, inoltre, conferma ed accentua la brachicefalia. La testa della nostra razza, perciò, non può essere allungata nella misura avvicinata all’aspetto cefalico dello spitz giapponese. La testa corta del nostro volpino, però, non deve ingannare fino a farla confondere con la testa altrettanto corta del kleinspitz. Ciò che differenzia entrambe le teste corte di tali due volpini europei soprattutto è la dimensione generale. Appare chiaro quanto la testa del volpino italiano si presenta più massiccia, per via di annoverare un substrato scheletrico craniale e facciale corrispondente alle dimensioni strutturali più consistenti nella nostra razza, che nel kleinspitz. La testa del nostro volpino, conseguentemente, non assume certe accentuazioni commisurate alle minutezze somatiche della razza teutonica. La testa del kleinspitz, infatti, è confezionata in un disegno craniometrico più miniaturizzato e più cesellato. Non come l’esteriorità della testa marcatamente piena della nostra razza autoctona. La testa del volpino italiano, quindi, offre un aspetto ben più massiccio, pur senza ritenersi pesante. Il consistente substrato scheletrico, come detto, anche della regione facciale, inoltre, determina la forma del muso non così appuntita, come si vede spesso. Il muso correttamente rapportato al cranio condiziona le proprie facce laterali a non convergere molto, onde evitare di ridurre troppo la parte anteriore, fino ad essere eccessivamente appuntita. La larghezza del muso, altresì, deve mantenersi tale da predisporre un impianto degli incisivi abbastanza largo, in modo da conformare una sufficiente piattaforma facciale anteriore. Non solo il tartufo, pertanto, deve occupare l’estremità del muso. L’aspetto cefalico del volpino italiano, in definitiva, ci presenta una testa più massiccia rispetto al kleinspitz, nonché più corta rispetto al japanese spitz. Le considerazioni, possibili da trarre al riguardo, portano a definire che il volpino italiano, piuttosto, arriva ad avere le dimensioni strutturali della testa riscontrabili nel mittelspitz. Ciò fa rilevare che, in una mole inferiore, il nostro volpino presenta una strutturazione cefalica similare allo spitz teutonico di taglia superiore. Questo è confermato dal fatto che pure il mittelspitz porta le orecchie come la nostra razza e non come le sue ridotte varianti, nonostante abbiano uno standard unico. Questione di anatomia dovuta ad un dato cinognostico che non ammette alternativa. Significa che le orecchie del volpino italiano hanno bisogno di una struttura craniometrica degna di una tipologia volpina decisamente sviluppata. Il nostro volpino, pertanto, sostanzialmente con un’altezza minore annovera la conformazione del volpino tedesco alto ben oltre trenta centimetri. La nostra razza, quindi, manca della miniaturizzazione anatomica dello spitz medio ravvisabile nello spitz piccolo. Effetto del mantello nel Volpino Italiano L’aspetto generale del Volpino Italiano è notevolmente influenzato dal mantello, seppur in modo differente dalle razze affini. Un’affermazione del genere può sembrare eretica, dato che l’affinità appare facilmente a portata d’occhio, ma l’aspetto esteriore, sulla base del mantello, veramente assume una netta singolarità rispetto allo spitz giapponese e al kleinspitz o al mittelspitz. Il mantello del volpino italiano, difatti, per essere ritenuto tipico, deve avere una tessitura e una disposizione del tutto proprie. Non si avvicina al mantello delle razze similari, appunto tranne per una superficiale occhiata rivolta con faciloneria. La tessitura vitrea, infatti, è talmente spiccata che il pelo acquista una notevolissima consistenza. Ne deriva un grosso spessore pilifero, al punto di formare ogni singolo pelo di copertura alquanto pesante. La pesantezza del pelo esterno, se non adeguatamente sostenuta da un folto sottopelo, fatica a presentarlo sollevato in modo ottimale, secondo la descrizione dello standard. Le modificate condizioni di vita cui sono sottoposti i soggetti contemporanei, specie quelli tenuti negli agiati ambienti casalinghi, come pure una situazione climatica non più scandita da regolari stagioni (estati soffocantemente umide e durature, tali da non consentire il recupero di uno strato lanoso maturo neppure d’inverno, talvolta così mite, con freddo insufficiente), purtroppo non garantiscono la possibilità di avere sempre il sottopelo nella quantità richiesta dallo standard, la cui stesura originaria, appunto, è avvenuta in tempi esenti dalle attuali problematiche, perciò impossibilitato a prenderne atto e a descriverlo in proposito. Questo, però, non significa che il mantello un poco carente di sottopelo sia meno tipico, ma soltanto che, per cause momentanee, non può dimostrare in ogni occasione quanto il pelo di copertura, ugualmente, sia come standard comanda. Mancando i presupposti del sottopelo perfettamente adeguato è logico che il pelo di copertura, per quanto tipico, tende a non disporsi sollevato e totalmente raddrizzato. Si tratta del “coefficiente di modernità”, che una razza come questa deve pagare in più o meno alta percentuale, soprattutto a carico del mantello. La soluzione, in sede di giudizio, quindi, prevede la valutazione al tatto, magari da parte di chi non ha sufficiente dimestichezza per rilevarlo ad occhio, senza abbandonarsi ad affrettate ed errate conclusioni, dovute ad inesperienza del caso. Il pelo di copertura tipico, preso e strizzato tra le dita, si sente di spessore e non scorre facilmente fra i polpastrelli. Un pelo esterno non del tutto tipico, viceversa, si sente assai leggero e scivola tra le dita, nonostante la pressione esercitata da un polpastrello contro l’altro. Il confronto tra tali due strutture pilifere induce chiaramente a pensare e rilevare quanto sia più portato a sollevarsi un manto leggero, anche se carente di sottopelo. Si finirebbe così a sbagliare premiando un mantello difettoso – dal punto di vista cinognostico – nel pelo di copertura (con il danno zootecnico che ne scaturirebbe) ed a penalizzare un mantello tipico (con altrettanto danno zootecnico), solo a causa di un problema di natura estemporanea (non certo genetica, come nell’altro caso). Il pelo leggero, oltretutto, a differenza del pelo dallo spessore tipico, comporta l’ottenere il sollevamento totalmente raddrizzato perdurante molto più a lungo. Nemmeno l’aiuto cosmetico dei prodotti chimici, infatti, farebbe stare il più pesante pelo di copertura corretto dritto per tanto tempo, se non sostenuto dal sottopelo completamente presente. Il pelo non rispondente allo spessore tipico, invece, aiutato dagli artifizi (trascurati da molti giudici), addirittura non si ammoscia mai, neppure passando la mano per coricarlo; anzi ritorna immediatamente eretto. Ciò è esternato da quei soggetti che mantengono l’erettilità pilifera ininterrottamente prima, durante e dopo la presentazione in ring, quasi in preda ad una incoerente viagra dimostrazione di un qualcosa di troppo perfetto per essere vero in ogni esposizione e nel corso dei mesi. L’ulteriore pretesa di ottenere un colore più bianco possibile, con frequenti lavaggi ed appositi prodotti sbiancanti, rende ancora più scenografici dei mantelli di siffatta leggerezza. Arrivano a presentarsi – agli occhi poco pratici sulla razza – con un aspetto esteriore ritenuto perfetto per via di unire pelo eretto e bianchissimo. Manti tanto leggeri, per di più, se spesso sottoposti a cure cosmetiche del genere, pur favoriti ad ergersi ed a sbiancarsi, però sono facilmente vittima di caduta precoce. Basta poco tempo per veder svanire artificialmente il pelo di copertura prima del sottopelo. Il pelo esterno, così, cade copiosamente, specie sotto continui colpi di spazzola (faticando, poi, a ricrescere), disgiunto dal sottopelo, altresì cadente per le motivazioni naturali ricordate in precedenza. Casi come questi evidenziano un sottopelo in quantità superiore al carente manto esterno, anche quando non è completamente presente. La situazione, tuttavia, non nuoce all’aspetto scenografico, poiché arriva a favorire ulteriormente la livrea bianchissima. I prodotti sbiancanti, infatti, attecchiscono meglio, per cui danno un risultato ancora più smagliante. L’effetto cotonato del mantello esternamente provvisto in prevalenza di sottopelo, inoltre, agevola la conformazione a presentarsi più uniforme nelle varie parti anatomiche. Il tronco coperto da un manto così disposto facilita l’inganno visivo per via di una sorta di armonia estetica, dovuta all’averlo dappertutto della stessa lunghezza (è più giusto dire cortezza). Gli scarsi peli di copertura, infine, essendo radi, si raddrizzano meglio, tanto è sproporzionata la presenza del sottopelo, che li tiene sollevati senza la difficoltà causata dalla pesantezza. Il problema, però, sorge se si prende tale disposizione del mantello dal verso della tipicità e della funzionalità. La carenza del pelo di copertura riduce le caratteristiche di protezione che la tessitura vitrea svolge contro le avversità atmosferiche. Non respinge la pioggia, favorendo la penetrazione degli agenti ambientali nel sottopelo, per cui non offre più la funzione di involucro, tanto si bagna rapidamente ed asciuga lentamente, trattenendo pure quant’altro a contatto con la pelle. Perdendo tale funzionalità, non si può più ritenerlo tipico, nemmeno sotto questo punto di vista. La tipicità, in aggiunta, viene meno anche dal colore. Il pelo di copertura dalla tipica tessitura vitrea e dallo spessore consistente, difatti, non elargisce l’aspetto bianchissimo ottenuto nei suddetti casi amplificati dall’uso cosmetico. Il colore bianco del volpino italiano, dato dal mantello tipico, assume una tonalità non certo smagliante, bensì risulta densa come quella del latte. Non è pertanto talmente bianco da essere di un candido superlativo, ma si presenta abbastanza condensato, tanto il singolo pelo è grosso da evidenziare una colorazione impregnante e non splendente. Il “coefficiente di modernità”, pure nel caso del colore, poi, influisce abbastanza, dato che, purtroppo, l’inquinamento atmosferico attecchisce peggio sul pelo vitreo e consistente, sottoponendo il bianco a sporcarsi maggiormente nel mantello tipico, poiché predisposto ad impregnarsi con più facilità. L’influenza del mantello sull’aspetto generale, pertanto, sotto l’usuale senso odierno, fornisce un apporto estetico minore, nel caso della corretta tipicità, ove il pelo di copertura copre abbondantemente il sottopelo. L’effetto tanto desiderato da palla di neve, tuttavia, non può essere soddisfatto da un manto esterno composto prevalentemente dal sottopelo, con un rado pelo di copertura privo della tessitura vitrea, seppur raddrizzato con dedizione quasi maniacale ed accorgimenti di toelettatura finanche poco naturali. L’aspetto da palla di neve, altresì, deve essere fornito dal pelo di copertura lungo ed abbondante, capace di nascondere totalmente il sottopelo. Soltanto una disposizione del genere dona l’impressione del caratteristico manicotto di peli avvolgente il tronco. Conclusione della figura del Volpino Italiano Il mantello a collare, “culottes” e pennacchio caratterizza ulteriormente la brachicefala testa e il mesomorfo tronco, secondo un prototipo nettamente distinguibile dalle razze affini, qualora sia rispettato nella particolareggiata tipicità. L’espressione conferita dal connubio tra occhi, tartufo e stop, avvantaggiata dal portamento delle orecchie (determinato dal cranio largo ed ovoidale), trae giovamento supplementare dalla cornice del pelo contornante il collo, se disposto a collare. La testa così fuoriesce dal collare di pelo presentando – nella parte inferiore – un mantello profuso abbondante dalla gola, che si unisce al mantello altrettanto abbondantemente profuso dal petto. Il davanzale di pelo sotto la testa accentua la dimensione compatta e i dettagli marcati della stessa. L’intera regione cefalo-cervicale, difatti, si esterna alquanto voluminosa. La profusione del mantello della gola e del petto, tuttavia, è molto più abbondante del pelo contornante le altre parti della testa. Il pelo del collo, difatti, diminuisce gradatamente di lunghezza, salendo dalla gola nelle facce laterali, fino al margine superiore. Questo comporta che il mantello presente superiormente sul collo, per via della lunghezza inferiore rispetto al sottostante davanzale, non forma la criniera, come avviene nello spitz tedesco. La presenza della criniera nel volpino italiano, automaticamente, rivela i dovuti sospetti di provenienza genetica estranea. L’elemento delle “culottes”, in aggiunta al mantello della parte anteriore del tronco, comporta una configurazione geometrica esternamente distante dal tipico quadrato dell’impalcatura scheletrica. Le frange del posteriore altrettanto abbondanti, infatti, accentuano l’effetto della lunghezza del tronco, già abbastanza aumentato dal pelo del petto. Risulta pertanto meno evidente la quadratura della costruzione. Si presta logico che le frange posteriori vanno lasciate nel loro verso naturale, cioè rivolte all’indietro e scendenti in basso. Tentare di accorciare l’aspetto del tronco con la pettinatura laterale serve a poco, se la tessitura è quella tipica. Ritornano, in tal caso, al loro posto. Mantenute allargate a “pavone” rivelano l’uso indiscriminato di cosmetici, oltre all’eventuale tessitura non corretta. Ripudiante, invece, la tosatura praticata alla natica. Il tronco quadrato, d’altronde, in termini geometrici, è meglio rappresentato dalla coda, piuttosto che dal mantello. Lunga ed inserita correttamente, nonché coperta di pelo abbondante, si avvicina al collo, conferendo nell’aspetto l’effettiva compattezza della struttura scheletrica. Il pennacchio della coda, quindi, è l’elemento bilanciante la costruzione quadrata vista esternamente al mantello (dotato della giusta abbondanza di pelo al collare, petto e frange posteriori). La coda troppo corta altera l’immagine compatta, per cui ricorrere alla toelettatura del posteriore è l’alibi usato ad evidenziare la quadratura del tronco e distogliere l’attenzione sul difetto longitudinale delle vertebre coccigee. La figura del volpino italiano, in conclusione, deve distinguersi da quella delle razze affini, se non altro agli occhi dell’esperto (allevatore e giudice), perlomeno sugli elementi fin qui trattati. Le regioni anteriori e posteriori devono presentarsi ben evidenti nell’aspetto generale, a differenza dell’uniformità estetica elargita dagli altri volpini. Gli spitz tedeschi (considerando, in merito, il medio, il piccolo e il nano) si presentano molto compatti, nonostante, anzi compreso il mantello abbondante. La differenza nel pelo è determinante, in quanto non nasconde la quadratura, bensì la dispone ancora meglio visibile. Lo spitz giapponese, pur dall’aspetto longitudinale maggiore (ricordando che la testa è più lunga e il tronco è rettangolare), si presenta esteriormente uniforme, per via del mantello distribuito con equità. L’american eskimo (considerando quello miniatura, ma ancora di più nella taglia standard) è l’unica delle razze affini a non essere di aspetto uniforme, perché appare differente nella verticalità. Si avvicina alla fisionomia del volpino nipponico, però, appunto differenziandosi nel maggior aspetto verticale, rispetto a quello longitudinale della razza asiatica. Nel caso dello spitz americano, infatti, il mantello non offre compattezza, anzi esalta la verticalità strutturale sulle altre componenti diametriche. Il volpino statunitense, comunque, è quello che può essere più confuso con lo spitz orientale. Tra tutti gli altri volpini, invece, non deve esserci alcun motivo di confusione. Al momento che un soggetto di una razza assomiglia ad un altro soggetto di razza affine entrambi non appartengono alle rispettive razze, venendo meno la tipicità. All’interno di una stessa razza possono coesistere diversi modelli (come riporta il libro di Marco Piasentin per lo spitz giapponese), derivati dalla presenza di linee genetiche fissate su taluni particolari piuttosto di altri, ma ciò non deve evadere dall’unico prototipo disegnato dallo standard. La tipicità non può lasciar adito a dubbi sulla razza d’appartenenza. L’improprio riferimento ad un “nuovo tipo” del volpino italiano, incautamente coniato per cercare di giustificare il meticciamento con il kleinspitz, non trova alcun documento ufficiale pronto a decretarlo. Niente di ufficiale, ugualmente, è stato decretato per ritenere superato il prototipo dello standard, troppo presto bollato con l’ingiusta definizione di “vecchio tipo” soltanto da chi ha voluto promuovere l’introduzione di genetica estranea. Neppure va presa in considerazione la diceria che, a periodi alterni, è preferito il volpino italiano di taglia piccola o grande. L’altezza è unica, oscillante in tre centimetri per ciascun sesso, con tolleranza fino ad altri tre centimetri, se il soggetto è meritevole per tipicità. Lo standard non ha mai cambiato la descrizione delle caratteristiche etniche conosciute da sempre e nemmeno la commissione tecnica centrale dell’Enci (unico organismo autorizzato) ha emesso definizioni del genere. Il volpino italiano, ovviamente, deve essere lo stesso che Solaro ha descritto nel periodo d’oro della razza, al quale l’opera di recupero ha fatto fedele ricostruzione. Nel volpino italiano, come in ogni razza naturale, non c’è ulteriore evoluzione tipologica, se non quella forgiata dalla tradizione del popolo che, in passato, lo ha tenuto perfettamente puro nella provenienza indigena. Solo la purezza di razza, infatti, è garante della tipicità autentica. Si è in presenza di una razza, senza paura di smentita, in cui un meticciamento non autorizzato ha causato l’involuzione delle caratteristiche aborigene. Codesta situazione genetica va condannata come omissione di soccorso verso il volpino italiano, che chiede aiuto per risolvere problemi ormai perduranti da troppo tempo. Occorre, conseguentemente, una selezione competente per purificare l’inquinamento tuttora perpetuato. Non dico di escludere in toto i soggetti dimostranti tratti somatici di razza altrui, ma di ricavare da essi quella percentuale di elementi tipici del nostro volpino che, certamente, più o meno, possiedono anche bene. Bisogna costruire e non demolire. Questo per il colore bianco, mentre il colore rosso, per essere attualmente ricostruito, deve passare nell’obbligata via di un altro percorso selettivo. Ad entrambe le varietà, l’augurio di buon proseguimento, con il nostro indispensabile e doveroso aiuto.
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