Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo

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OSSERVATORIO SUL PROCESSO AMMINISTRATIVO
aggiornato al 31 gennaio 2011
a cura di Donatella Torregrossa
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV, 19 gennaio 2010 n. 385
L’intervento ad adiuvandum è ammissibile solo a tutela di posizioni giuridiche
collegate o dipendenti da quella del ricorrente principale, risultando uno strumento
utile alla tutela di situazioni che, in sé, non potrebbero essere garantite tramite
l’impugnazione. Tale situazione consente allora la partecipazione al processo anche di
soggetti aventi un mero interesse di fatto, rispettivamente, all’accoglimento o alla
reiezione dell'impugnativa proposta dal ricorrente, sempre qualora si faccia valere una
posizione diversa da quella del ricorrente e da questa condizionata.
La sentenza in epigrafe merita di essere segnalata in quanto il Supremo Consesso
amministrativo fa discendere dalla declaratoria di tardività del ricorso in appello, altresì, la
declaratoria di inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum, sulla base del principio del tutto
pacifico in giurisprudenza secondo cui “l’intervento ad adiuvandum è ammissibile solo a tutela di
posizioni giuridiche collegate o dipendenti da quella del ricorrente principale, risultando uno strumento utile alla
tutela di situazioni che, in sé, non potrebbero essere garantite tramite l’impugnazione. Tale situazione consente
allora la partecipazione al processo anche di soggetti aventi un mero interesse di fatto, rispettivamente,
all’accoglimento o alla reiezione dell'impugnativa proposta dal ricorrente, sempre qualora si faccia valere una
posizione diversa da quella del ricorrente e da questa condizionata”.
TAR, LAZIO – ROMA, SEZ. IIIbis, 20 gennaio 2011 n. 552
Class action amministrativa ai sensi del D. Lgs. n. 198 del 2009
La sentenza in epigrafe si segnala all’attenzione dell’interprete in quanto una delle primissime
applicazioni del D.Lgs. n. 198 del 20 dicembre 2009, recante la disciplina in materia di ricorso
per l’efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici (cd class action
amministrativa), che ha aperto nuovi scenari sotto il profilo delle situazioni giuridiche del
privato tutelabili nei confronti della P.A., nonché delle azioni esercitabili dinnanzi al giudice
amministrativo.
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L’originalità del decreto in parola va, infatti, individuata nella previsione di un’azione speciale
per la tutela giudiziale avverso le inefficienze delle Pubbliche Amministrazione e dei
concessionari dei pubblici servizi, implicando ciò il riconoscimento di una specifica rilevanza
giuridica ad interessi rimasti fino ad ora privi di adeguata e compiuta tutela processuale.
Si tratta, peraltro, di un’azione, la cui concreta operatività ha posto non pochi problemi
interpretativi, rimettendo ai giudici il difficile compito di scioglierli.
La sentenza in esame costituisce, pertanto, sentenza capofila della azione esegetica rimessa alla
giurisprudenza amministrativa.
Peraltro, prima di procedere ad un’analisi delle coordinate ermeneutiche fornite dalla sentenza
in esame, occorre ricostruire la vicenda contenziosa nella quale la stessa si incardina.
Con propria nota del 16 gennaio 2010, il CODACONS diffidava, ex art. 1 del d.lgs. n. 198 del
2009, il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, il Ministero dell’Economia e delle
Finanze e le altre Amministrazioni resistenti, ciascuna per quanto di propria competenza, ad
adottare, entro il termine dei successivi 90 gg., tutti gli atti amministrativi generali resi
obbligatori dalle leggi nn. 820/71, 23/96, 133/08, dai d.P.R. nn. 81/009 e 89/09 in materia di
formazione delle classi scolastiche e dimensionamento della rete scolastica, nonché a risarcire il
danno derivante all’associazione ed ai singoli utenti dal perdurante comportamento omissivo.
In proposito, nel dare notizia delle numerose segnalazioni ricevute da insegnanti, studenti e
genitori, l’associazione lamentava la diffusa inosservanza degli indici minimi di edilizia scolastica
e dell’indice di massimo affollamento delle aule, descrivendo situazioni di pericolo e disagio
stigmatizzate con l’espressione “classi-pollaio”.
A tale diffida forniva riscontro il Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, che, peraltro,
veniva considerato non satisfattivo dal CODACONS, il quale, per l’effetto, notificava “ricorso
per l’efficienza delle amministrazioni”, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 198/2009,
instando per la condanna delle Amministrazioni all’emanazione degli atti generali, ritenuti
obbligatori.
Ricostruita in siffatti termini la fattispecie de qua, il giudice di primo grado, in via assolutamente
prodromica, ha proceduto ad un inquadramento della fattispecie de qua, al fine di verificare la
sussistenza dei presupposti di ammissibilità della azione fondata da parte ricorrente sulle norme
di cui al D.Lgs. n. 198/2009.
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A tal proposito, precisa il Tribunale amministrativo della Regione Lazio, tale nuova azione
giudiziale costituisce uno strumento di tutela aggiuntivo rispetto a quelli previsti dal codice del
processo, azionabile da singoli “titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità
di utenti e consumatori” od anche da “associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati”
comunque appartenenti alla pluralità citata.
Oggetto della tutela, così innovativamente riconosciuta, sono gli interessi, facenti capo alla
pluralità di individui sopra descritta, che si assumono lesi: a) dalla violazione di termini o dalla
mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto
normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o
da un regolamento, b) dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi, ovvero, c)
dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, c.1.) per i concessionari di servizi
pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, c.2.) per le
pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di
performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente con le
linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle
amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 del medesimo decreto e secondo le scadenze
temporali definite dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150.
Tratteggiato tale affresco normativo, il giudice amministrativo di primo grado provvede ad
esaminare l’art. 7 del D. Lgs. n. 198/2009, al fine di verificare se la fattispecie concreta debba
incardinarsi in quella astratta descritta da tale norma.
La ragione di tale modus operandi è facilmente intuibile, laddove si prenda in esame il
contenuto della disposizione de qua, a tenore della quale “in ragione della necessità di definire in via
preventiva gli obblighi contenuti nelle carte di servizi e gli standard qualitativi ed economici di cui all’articolo 1,
comma 1, e di valutare l’impatto finanziario e amministrativo degli stessi nei rispettivi settori, la concreta
applicazione del presente decreto alle amministrazioni ed ai concessionari di servizi pubblici è determinata, fatto
salvo quanto stabilito dal comma 2, anche progressivamente, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio
dei Ministri, su proposta del Ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione, di concerto con il
Ministro dell'Economia e delle Finanze e di concerto, per quanto di competenza, con gli altri Ministri
interessati”.
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Sembrerebbe, dunque, che il legislatore, attraverso tale disposizione espressamente qualificata
come “transitoria”, abbia subordinato la concreta applicazione della norma primaria, contenuta
nell’art. 1 comma 1 del decreto in esame, ad un’ulteriore previsione regolamentare che,
seguendo il passo della concreta attività di istruttoria, verifica, valutazione e definizione degli
standard qualitativi, renda concreta ed effettiva l’astratta applicabilità della norma, nell’interesse
– insieme – dell’amministrazione e degli amministrati: “in sostanza, sul piano della tutela, il legislatore,
piuttosto che lasciare al giudice del caso concreto la valutazione circa l’esaustività del quadro organizzativo e
normativo nel relativo divenire, ha preferito, probabilmente anche stretto dall’esigenza di controllare il processo sì
da programmarne i profili di spesa, cautelarsi riservando allo stesso esecutivo il compito di individuare, con
appositi regolamenti, se del caso in via progressiva, finanche l’individuazione del dies a quo della concreta
applicazione”.
Acclarato, dunque, che la norma di cui all’art. 7 del decreto in questione concerne
esclusivamente l’applicazione concreta delle norme, senza porre in alcun dubbio l’immediata
vigenza ed obbligatorietà dell’intera fonte normativa, il Tribunale adito chiarisce che siffatta
previsione normativa non può ritenersi operativa nel caso di specie, essendo quest’ultimo
regolato da norme del D.Lgs. n. 198/2009 che individuano fattispecie completamente definite
nel loro aspetto, ivi compresa l’esatta perimetrazione del comportamento lesivo: “il riferimento è,
in questo caso, all’obbligo di “emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto
normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento”.
Quivi tutto è compiutamente predeterminato: la posizione giuridica tutelata è correlata all’emanazione di un atto
le cui caratteristiche sono declinate direttamente dal legislatore, è regolamentata l’azione in relazione a tutti i
profili rilevanti, è disciplinato il conseguente processo”.
Tra l’altro, precisa lo stesso Tribunale, “la previsione di legge non crea posizioni giuridiche nuove (non era
esclusa dall’ordinamento la possibilità per le associazioni portatrici di interessi diffusi di agire per l’accertamento
dell’obbligo di provvedere in relazione ad atti generali) ma le riconosce ai singoli, così elevando gli interessi diffusi
ad interessi individualmente azionabili, a conclusione di un processo per certi versi opposto a quello, compiuto
dalla giurisprudenza, che al fine di garantirne la tutela aveva perorato un processo di imputazione collettiva.
Dunque, ciò che muta rispetto al passato è la legittimazione (estesa ai singoli), ed il nuovo limite del rebus sic
stantibus (la lesione, o forse meglio, l’esigibilità del comportamento dovuto, deve essere vagliato alla luce delle
risorse strumentali, finanziarie, e umane concretamente a disposizione), che però, in relazione all’ipotesi specifica
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dell’omissione di atti obbligatori per legge, non sembra avere specifico rilievo, trattandosi di questione – quella
dell’esigibilità - che il legislatore deve avere necessariamente vagliato al momento dell’attribuzione della potestà di
emanazione dell’atto generale.
Tale considerazione si basa sull’assunto per cui il limite delle risorse, che potrebbe escludere
l’attuazione delle previsioni in materia di ricorso collettivo per l’efficienza delle
Amministrazioni, stante il disposto dell’art. 8, a tenore del quale “non devono derivare nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, non può offrire alcun argomento per sostenere il
rinvio della concreta applicazione delle norme, anche per l’ipotesi di omissione di atti generali.
Tale disposizioni, infatti, limitandosi a fornire indicazioni all’Esecutivo in ordine all’impatto
finanziario delle previsioni regolamentari allo stesso demandate in materia di standards
qualitativi e non interessando la diversa fattispecie dell’inerzia, non può escludere l’immediata
operatività delle previsioni di legge aventi ad oggetto l’omissione di atti generali, risultando
irragionevole ogni diverso approccio ermeneutico.
Sulla scorta di tali considerazioni, il Tribunale ha, dunque, affermato la sussistenza nel caso di
specie dei presupposti di ammissibilità della class action amministrativa, così come proposta da
parte ricorrente.
Tanto premesso, lo stesso giudice amministrativo, prima di passare all’analisi del merito della
controversia, ha provveduto all’esame di due ulteriori questioni preliminari di stampo
processuale: la legittimazione attiva del CODACONS e la ricevibilità degli atti di intervento
depositati in cancelleria nei giorni precedenti l’udienza di discussione.
Con riferimento al primo profilo, afferma il Tribunale che “non è contestato né contestabile che
CODACONS sia legittimata alla proposizione del ricorso in virtù dell’art. 1 comma 4 del d.lgs 198/09, a
mente del quale, ferma restando la sussistenza dei presupposti dell’azione “il ricorso può essere proposto anche da
associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati, appartenenti alla pluralità di utenti e
consumatori di cui al comma 1”. D’altra parte, non è neppure contestabile che “Codacons abbia fra i
propri associati anche utenti del servizio scolastico che possano dolersi di una lesione diretta, concreta ed attuale
derivante dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori in
materia di dimensionamento, fruibilità e sicurezza delle aule. Risultano altresì osservati gli adempimenti
preliminari necessari ai fini della proponibilità del ricorso: la ricorrente ha in particolare notificato
preventivamente una diffida - a tutte le amministrazioni oggi chiamate in giudizio - ad effettuare, entro il termine
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di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati (art. 3 comma 1); ha indicato, in seno al
ricorso, le ragioni per le quali il riscontro formale fornito dall’amministrazione non possa considerarsi sufficiente
a rimuovere in modo nemmeno parziale la situazione denunciata, deducendo, al contempo, la persistenza, totale o
parziale, di quest’ultima (cfr. art. 3, comma 2, d.lgs. 198/09)”.
Il ricorso è infine tempestivo essendo stato proposto entro il termine fissato dall’art. 3 comma 2
(un anno dalla scadenza del termine dei novanta giorni assegnati a mezzo della diffida).
Con riferimento, invece, al secondo profilo, rileva il Tribunale l’irritualità degli atti di intervento,
ravvisandone la ragione nel quadro normativo di riferimento, caratterizzato dalla combinazione
dell’art. 1 comma 3 del d.lgs. 189/09, il quale consente ai “soggetti che si trovano nella
medesima situazione giuridica del ricorrente” di “intervenire nel termine di venti giorni liberi
prima dell'udienza di discussione del ricorso”, con le norme processuali specifiche (eccezion
fatta per il termine) e, specificatamente, con l’art. 50 del vigente codice di rito, che sul piano
delle formalità prescrive che l’atto deve contenere le ragioni su cui si fonda, essere corredato dai
documenti giustificativi, e sottoscritto ai sensi dell’articolo 40, comma 1, lettera d). Lo stesso
deve inoltre essere previamente notificato alle altre parti e depositato nei termini di cui
all’articolo 45 c.p.a.
Di contro, evidenzia il Tribunale, “gli atti di cui si discorre non sono né validamente sottoscritti, né
notificati, costituendo delle semplici manifestazioni di adesione ricevute dalla ricorrente e dalla stessa direttamente
depositate, sulla falsa riga di quanto prescritto per l’azione di classe dall’art. 140 bis del codice del consumo”.
In definiva, le disposizioni del D.Lgs. n. 198/09 non autorizzano una, pur possibile,
deformalizzazione del processo amministrativo, che rimane agganciato agli schemi generali
previsti dal c.p.a anche in relazione all’intervento degli interessati appartenenti alla pluralità dei
soggetti, dall’associazione rappresentati.
Definite le questioni preliminari, il Tribunale amministrativo è, dunque, passato all’esame dei
motivi del ricorso, pervenendo all’esito interpretativo per cui il MIUR e il MEF, di concerto,
avrebbero dovuto redigere il piano di riqualificazione dell’edilizia scolastica di cui all’art. 3 del
dPR 81/2009 il quale avrebbe dovuto costituire un atto di programmazione (non a caso
demandato al concerto tra MIUR e Miniestero dell’Economia e delle Finanze) per
l’individuazione di obiettivi, risorse e tempi, relativi agli interventi edilizi necessari, affinché gli
Istituti - rilevabili dall’anagrafe nazionale - inidonei ad ospitare in condizioni di sicurezza e
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vivibilità il numero degli alunni imposto dalla rivisitazione degli indici di affollamento, fossero
messi in condizione di farlo.
In ultimo, il Tribunale pone sotto la lente dell’analisi giuridica la questione concreta se l’inerzia
delle Amministrazioni citate si sia, o meno, protratta così a lungo da violare il termine di legge.
Difatti, al fine di accedere alla tutela prevista dal D.Lgs n. 198/2009, la lesione di cui si duole la
pluralità degli utenti, e per essa l’associazione, deve derivare dalla “mancata emanazione di atti
amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi
obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento” (art.
1).
Facendo applicazione di tali coordinate interpretative, il giudice amministrativo è pervenuto alla
conclusione per cui “se è pacifico che il piano di riqualificazione sia un atto generale obbligatorio giusto il
disposto dell’art. 3 del dPR 81/09, qualche dubbio potrebbe invece residuare per via della mancata contestuale
fissazione di un termine. Lo stesso, tuttavia, può agevolmente sciogliersi alla luce di una lettura sostanzialistica
ed utile della norma che ne ha imposto l’adozione, giacché essa fa riferimento al “solo” anno scolastico 20092010, così lasciando intendere che per gli anni successivi debba già risultare adottato ed attuato il piano di
riqualificazione. Viepiù, per lo stesso anno scolastico citato, la norma impone che le istituzioni scolastiche alle
quali concedere la deroga, siano già “individuate in un apposito piano generale di riqualificazione dell'edilizia
scolastica”, indi lo stesso, a stretto rigore, fermi restando i tempi per la sua attuazione, avrebbe comunque dovuto
essere adottato prima dell’anno scolastico 2009/2010”.
Essendo - quello descritto - un riferimento temporale che comunque individua il dies ad quem
per l’emanazione dell’atto, per cui è causa, nell’inizio dell’anno scolastico indicato, è evidente –
conclude il giudice amministrativo - che l’inerzia si sia già protratta ampiamente oltre il termine
di legge.
Ad un diverso approdo interpretativo perviene, invece, il Tribunale in relazione alla mancata
emanazione delle “norme tecniche-quadro” contemplate dall’art. 5 della legge 11 gennaio 1996,
n. 23, che invece ne imponeva l’adozione nel termine di 90 gg. dalla propria entrata in vigore:
“non v’è dubbio che, nel caso di specie, trattasi di atto a carattere normativo, come tale escluso dall’ambito di
applicazione del d.lgs. 198/09 il quale, in modo non equivoco, assume la natura “non normativa” dell’atto
generale a presupposto essenziale ed imprescindibile dell’azione. La relativa domanda è pertanto inammissibile”.
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CASS. SEZ. UN. CIVILI, 28 gennaio 2011 n. 2065
L’evoluzione del sistema, il cui ultimo approdo è rappresentato, per l’appunto, dal
Codice del processo amministrativo, il quale porta a configurare la decisione su ricorso
straordinario come provvedimento che, pur non essendo formalmente giurisdizionale, è
tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio d’ottemperanza, deve trovare
applicazione, in guisa di corollario, per la analoga decisione resa dal Presidente della
Regione Siciliana ai sensi della sopra richiamata normativa regionale, modellata sulla
disciplina dettata per il ricorso straordinario al Capo dello Stato (dovendosi dunque
riconoscere carattere vincolante anche al parere espresso dal Consiglio di Giustizia
Amministrativa e dovendosi ammettere il potere di tale organismo di sollevare
questioni di legittimità costituzionale rilevanti ai fini dell’espressione del parere; al
riguardo, la dottrina parla di abrogazione tacita indiretta delle disposizioni del d.lgs. n.
373 del 2003 che contrastino con le previsioni introdotte dell’art. 69 della legge n. 69 del
2009).
La sentenza in epigrafe presenta un indubbio valore pratico, in quanto fornisce un contributo
essenziale nella definizione dei confini dell’alveo delle decisioni a cui è applicabile la disciplina
prevista per il giudizio di ottemperanza, al cui interno adesso il Consiglio di Stato, rivisitando il
precedente orientamento giurisprudenziale alla luce della nuova disciplina del rito ospitata nel
codice del processo amministrativo, vi pone anche le decisioni dei ricorsi al Capo dello Stato.
La pronuncia in esame, sebbene articolata, si presenta dotata di linearità e chiarezza nel
processo argomentativo che conduce al principio di diritto in forza del quale “l’evoluzione del
sistema, il cui ultimo approdo è rappresentato, per l’appunto, dal Codice del processo
amministrativo, che porta dunque a configurare la decisione su ricorso straordinario come provvedimento che,
pur non essendo formalmente giurisdizionale, è tuttavia suscettibile di tutela mediante il giudizio d’ottemperanza,
deve trovare applicazione, in guisa di corollario, per la analoga decisione resa dal Presidente della Regione
Siciliana ai sensi della sopra richiamata normativa regionale, modellata sulla disciplina dettata per il ricorso
straordinario al Capo dello Stato (dovendosi dunque riconoscere carattere vincolante anche al parere espresso dal
Consiglio di Giustizia Amministrativa e dovendosi ammettere il potere di tale organismo di sollevare questioni
di legittimità costituzionale rilevanti ai fini dell'espressione del parere; al riguardo, la dottrina parla di
abrogazione tacita indiretta delle disposizioni del d.lgs. n. 373 del 2003 che contrastino con le previsioni
introdotte dell’art. 69 della legge n. 69 del 2009).
Ripercorriamo adesso il sentiero logico tracciato dalla Suprema Corte al fine di pervenire a tale
conclusione in ordine alla questione evocata.
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In particolare, la sentenza è degna di nota in quanto la Corte fotografa la parabola
dell’evoluzione giurisprudenziale in ordine alla natura della decisione del Capo dello Stato.
A tal fine, la Corte parte da un’esatta ricostruzione della normativa che nel caso di specie
interesse, ossia la legislazione della Regione Sicilia in tema di ricorso straordinario al Presidente
della Regione, in modo tale da individuare i punti di contatto con la normativa nazionale del
ricorso straordinario al Capo dello Stato e, dunque, in modo tale da allargare il raggio visuale ed
effettuare la disamina della questione posta alla sua attenzione da una prospettiva che consente
un’analisi più ampia e completa.
In particolare, evidenzia la Corte che secondo l’art. 23, quarto comma, del R. D. 15 maggio
1946, n. 455, recante l’approvazione dello Statuto della Regione Siciliana, convertito in Legge
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, gli atti amministrativi di tale Regione sono soggetti al
ricorso straordinario al Presidente della Regione.
La norma statutaria, la quale ha trovato attuazione, da ultimo, mediante il D.Lgs. 24 dicembre
2003, n. 373 (art. 9, commi 3, 4, 5 e 6), statuisce che il ricorso è ammesso in relazione ad atti
regionali, che provengano, cioè, da organi dell’amministrazione regionale e siano espressivi della
potestà amministrativa riservata alla Regione.
La disciplina del procedimento decisorio è modellata su quella per il ricorso straordinario al
Capo dello Stato, salvo la diversa posizione del Presidente della Regione che è capo
responsabile del governo regionale.
In particolare, il ricorso va depositato presso l’assessorato regionale competente; il parere,
obbligatorio, è reso dalle sezioni riunite del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
Regione Siciliana; la decisione sul ricorso viene adottata dal Presidente della Regione mediante
decreto.
L’analogia del procedimento – come ha chiarito la Suprema Corte - sottende una identità di
natura e di funzione rispetto al ricorso straordinario al Capo dello Stato, più volte sottolineata
dalle Sezioni unite in relazione alle problematiche connesse alla impugnabilità ex art. 111 Cost.
(cfr. Cass., sez. un., n. 3660 del 2003; id., n. 15652 del 2002). Ciò ha comportato, sul piano
sistematico, ma anche su quello delle concrete ricadute in termini di tutela giurisdizionale, la
rilevanza delle medesime incertezze e dei medesimi dubbi che hanno investito il ricorso
straordinario al Capo dello Stato, disciplinato dal d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (art. 8-15),
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in attuazione della delega di cui all'art. 6 della legge 28 ottobre 1970, n. 775 (modificativa della
precedente legge 18 marzo 1968, n. 249).
Tratteggiato il quadro normativo regionale di riferimento ed individuato il punto di contatto tra
il ricorso straordinario al Presidente della Regione Sicilia e quello al Capo dello Stato, le Sezioni
Unite allargano il compasso della propria indagine, prendendo in esame la questione della
natura giuridica del provvedimento che conclude il relativo procedimento, “a cui è
tradizionalmente attribuito un connotato di antinomia tra forma – di atto amministrativo – e sostanza – di
atto di decisione -, insito nelle stesse definizioni comunemente utilizzate per la sua collocazione sistematica
(provvedimento decisorio; atto dichiarativo di un giudizio)”.
A tal fine, la Corte provvede, in via prodromica, a ricostruire il dibattito dottrinale e
giurisprudenziale venutosi a delineare in materia.
Come la dottrina non ha mancato di rilevare, la “ambivalenza” del ricorso straordinario deriva,
storicamente, dalla diversa funzione che esso ha via via svolto, quella originaria di strumento di
“tutela ritenuta”, e comunque di tutela amministrativa, e quella di rimedio giustiziale tendente
alla giurisdizionalità, anticipatorio della giurisdizione amministrativa e quindi concorrente con
essa, in termini di alternatività (art. 8 del d.P.R. 1199/1971; art. 20, comma 3, della legge 6
dicembre 1971, n. 1034), a seguito della creazione e del consolidamento della funzione
giurisdizionale del giudice amministrativo.
Peraltro, la questione non è rimasta arenata all’interno del formante dottrinale, essendosi
spostata su quello giurisprudenziale, a causa degli effetti che la medesima ha posto sotto il
profilo della tutela processuale.
La questione si è posta in maniera prepotente sul formante giurisprudenziale, stante
l’eventualità, non rara, dell’inadempimento della P.A. alle decisioni emesse dal Capo dello Stato.
Da qui, è sorta la questio iuris sulla funzione del provvedimento emesso sul ricorso
straordinario, essendo propedeutica alla soluzione del nodo gordiano circa l’operatività anche
nei confronti di tali decisioni del giudizio di ottemperanza, di cui all’art. 27, n. 4, del r.d. n. 1054
del 1924, il quale integrava lo strumento esecutivo per assicurare l’effettività e la satisfattività
della giurisdizione amministrativa, connotato intrinseco ed essenziale della stessa funzione
giurisdizionale, come tale costituzionalmente necessario alla completa attuazione del diritto di
difesa (cfr. Corte cost. n. 419 e 435 del 1995).
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Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha preso una posizione negativa, escludendo
l’esperibilità del giudizio di ottemperanza, del quale si sottolineava la natura di atto
amministrativo, con la conseguenza che l’eventuale comportamento inerte della pubblica
amministrazione rendeva ammissibile solo il giudizio nei riguardi del silenzio-inadempimento,
suscettibile, secondo la giurisprudenza amministrativa, di concludersi con l’ordine alla P.A. di
dare esecuzione al decreto presidenziale.
La relativa decisione ordinatoria di adempimento sarebbe stata, a sua volta, suscettibile di
esecuzione coattiva mediante giudizio di ottemperanza, salva in ogni caso la esperibilità
dell’azione risarcitoria autonoma per i danni causati dal comportamento omissivo della P.A.
Tale insegnamento tradizionale, veicolato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 3141 del 1953,
ha comportato l’affermazione del principio per cui l’obbligo della P.A. di uniformarsi alla
decisione del Capo dello Stato non ha il carattere assoluto e vincolante proprio del giudicato,
connaturato con le caratteristiche proprie dell’attività giurisdizionale, discendendo invece dalla
posizione di preminenza e di supremazia che spetta al Capo dello Stato, , sì che la sua efficacia è
circoscritta nell’ambito della stessa sfera dell’amministrazione, senza avere rilevanza esterna e
senza dare luogo a quella forma tipica di coercizione in via eteronoma che è costituita
dall’esecuzione in via giurisdizionale.
La sentenza delle Sezioni Unite, peraltro, determinava una frattura con il Consiglio di Stato, in
quanto interveniva a cassare la decisione del medesimo, che aveva affermato l’ammissibilità del
giudizio di ottemperanza in relazione ai decreti di accoglimento dei ricorsi straordinari.
La frattura divenne sempre più profonda a seguito della sentenza della Corte di Giustizia 16
ottobre 1997, in cause riunite C-69/96 e 79/96, che, pronuncia dosi sulle questioni di
interpretazione di norme comunitarie sollevate dal Consiglio di Stato in sede di parere su
ricorso straordinario al Capo dello Stato, riconobbe natura di giudice nazionale a detto organo
anche in tale sede.
Peraltro, nonostante tale monito comunitario, le Sezioni Unite rimasero ancorate al proprio
indirizzo interpretativo, ribadendolo con sentenza n. 15978 del 2001, con cui escludevano che i
decreti con i quali sono decisi i ricorsi straordinari avessero natura giurisdizionale e potessero
essere assimilati alle sentenze passate in giudicato, le uniche passibili di esecuzione mediante il
giudizio di ottemperanza.
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Tale conclusione, precisa la Corte nella sentenza in esame, era “motivata con le seguenti
considerazioni: a) il procedimento promosso con il ricorso straordinario ha per protagonista un’autorità
amministrativa, che non è neppure vincolata in modo assoluto dal parere espresso dal Consiglio di Stato, potendo
anche risolvere la controversia secondo criteri diversi da quelli risultanti dalla pura e semplice applicazione delle
norme di diritto, così venendo a mancare i requisiti indefettibili dei procedimenti giurisdizionali, cioè il loro
celebrarsi dinanzi ad un giudice terzo e imparziale, oltre che soggetto esclusivamente al diritto vigente (art. 111,
comma 2, e 101, comma 2, Cost.); b) il meccanismo dell’alternatività, che regola il rapporto fra ricorso
straordinario e ricorso giurisdizionale, non comporta la natura giurisdizionale del primo rimedio, poiché la
portata del principio di alternatività è notevolmente attenuata dalla preferenza espressa dal Legislatore per il
rimedio giurisdizionale, con la previsione che i controinteressati possano far venire meno la procedibilità del
ricorso straordinario notificando al ricorrente e all’autorità che ha emanato l'atto impugnato la richiesta di
trasporlo in sede giurisdizionale (art. 10, comma 1, del d.P.R. 1199/1971); c) non significativa è la previsione
della revocabilità del decreto (art. 15 del medesimo d.P.R.), poiché la revocazione è comunemente ammessa anche
per i ricorsi amministrativi ordinari, mentre, in particolare, la revocazione per l'ipotesi prevista dall'art. 395, n.
5, c.p.c. (richiamato dal predetto art. 15) deve intendersi come riferita al contrasto con una precedente decisione di
ricorso straordinario, dal momento che, invece, la sentenza passata in giudicato prevale comunque sulla difforme
decisione del ricorso straordinario. Per quanto riguarda la citata sentenza della Corte di Giustizia, le Sezioni
unite hanno osservato che la nozione di giurisdizione nazionale, in quanto prevista dall’art. 234 del Trattato
CE e modellata in via interpretativa ai soli fini della ricevibilità dei rinvii pregiudiziali, interpretativi e di
validità, non rileva quando si tratta di interpretare disposizioni di diritto processuale nazionale al differente fine
di ammettere, o meno, il giudizio di ottemperanza nei confronti di decisioni su ricorsi straordinari rimaste
ineseguite dalla p.a.; questa non necessaria coincidenza fra le due nozioni di giurisdizione è un aspetto
erroneamente non considerato nelle ordinanze di sezioni consultive del Consiglio di Stato che hanno ritenuto di
poter fondare sulla richiamata sentenza della Corte di Giustizia la legittimazione del Consiglio di Stato, in sede
di parere sul ricorso straordinario al Capo dello Stato, a sollevare questioni di legittimità costituzionale”.
Tale tesi interpretativa è stata, di recente, confermata dalla Corte costituzionale con la sentenza
n. 254 del 2004, in occasione del quale - nel dichiarare l’inammissibilità della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 87 del 1994 (nella parte in cui non prevede che
il termine per la domanda di riliquidazione dell'indennità di fine rapporto dei dipendenti
pubblici decorre dalla comunicazione dell'onere di presentare domanda) sollevata dal Consiglio
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di Stato in sede di parere su ricorso straordinario al Capo dello Stato – ha chiarito che la
questione era stata sollevata da un organo non giurisdizionale, la cui natura amministrativa era
evidenziata dal fatto che l’art. 14, primo comma, del d.P.R. n. 1199/1971 prevede che, ove il
ministro competente intenda proporre una decisione difforme dal parere del Consiglio di Stato,
deve sottoporre la questione alla deliberazione del Consiglio dei Ministri (provvedimento,
quest’ultimo, evidentemente non giurisdizionale, per la natura dell’organo da cui promana),
mentre non rileva il riconoscimento di tale natura (giurisdizionale) da parte della Corte di
Giustizia, perché operato ad altri fini e sulla base di norme diverse da quelle che vengono in
rilievo nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
In tale panorama giurisprudenziale si innestano le importanti riforme processuali, avvenute
nell’ultimo biennio, della Legge n. 69 del 2009 e, di recente, del D. Lgs. n. 104 del 2010, che ha
ridisegnato l’edificio del processo amministrativo, che hanno portato con sé il vento delle
novità, inducendo la giurisprudenza ad un cambiamento di rotta.
Più nello specifico, il primo effetto deflagrante si è determinato con l’entrata in vigore della
Legge 18 giugno 2009 n. 69, al cui art. 69 comma I, ha introdotto, sotto forma di periodo
aggiunto al testo dell’art. 13, primo comma, alinea, del d.P.R. 1199/1971, una norma che
espressamente prevede che la sezione del Consiglio di Stato, chiamata ad esprimere il parere sul
ricorso straordinario, ne sospende l’espressione ed attiva l’incidente di costituzionalità “ai sensi
e per gli effetti di cui agli art. 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87” se ritiene che il
ricorso non possa essere deciso indipendentemente dalla risoluzione di una questione di
legittimità costituzionale che non risulti manifestamente infondata; il secondo comma dispone
l’aggiunta al primo periodo del primo comma dell’art. 14 del medesimo d.P.R. delle parole
“conforme al parere del Consiglio di Stato” e la soppressione del secondo periodo del primo
comma, secondo periodo, dello stesso articolo, nonché l’abrogazione del secondo comma, così
eliminando la possibilità - originariamente prevista - che il Ministero, nel formulare la proposta
di decreto presidenziale, si discosti dal parere espresso dal Consiglio di Stato, previa
sottoposizione della sua proposta al Consiglio dei Ministri.
Nell’esaminare tali sopravvenute disposizioni con riguardo agli effetti che possono conseguirne
nella questione de qua, le Sezioni Unite hanno osservato nella sentenza in esame che “le modifiche
apportate dall’art. 69 della legge n. 69 del 2009 sono tali da eliminare alcune determinanti differenze del
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procedimento per il ricorso straordinario rispetto a quello giurisdizionale, quali erano state rimarcate nella
richiamata sentenza n. 15978 del 2001, particolarmente in ordine alla qualificazione e ai poteri dell'organo
decidente. Mette conto osservare, infatti, che l'art. 23 della legge 87/1953 di disciplina del giudizio incidentale
di legittimità costituzionale richiede che la questione di legittimità sia sollevata, a pena di inammissibilità, da
un'autorità giurisdizionale nell'ambito di un giudizio, sì che la nuova norma pare implicitamente presupporre il
riconoscimento di una condizione, comunque, sostanzialmente equivalente alla “giurisdizionalità” (secondo
l’accezione propria anche dell'ordinamento interno, e non solo ai fini della richiesta di interpretazione preventiva
della Corte di Giustizia); peraltro, la eliminazione del potere della p.a. di discostarsi dal parere del Consiglio di
Stato conferma che il provvedimento finale, che conclude il procedimento, è meramente dichiarativo di un giudizio:
che questo sia vincolante, se non trasforma il decreto presidenziale in un atto giurisdizionale (in ragione,
essenzialmente, della natura dell'organo emittente e della forma dell'atto), lo assimila a questo nei contenuti, e
tale assimilazione si riflette sull'individuazione degli strumenti di tutela, sotto il profilo della effettività, che una
tutela esecutiva, piena e diretta, non è assicurata dal meccanismo, altrimenti utilizzabile, del ricorso
giurisdizionale avverso il silenzio-inadempimento della p.a., ovvero avverso il comportamento violativo, o elusivo,
del dictum del decreto presidenziale, sì che l'obbligatorio ricorso a tale complesso meccanismo si risolve in una
disciplina che rende eccessivamente difficile l'esercizio della tutela e finisce per non garantire un rimedio adeguato
contro l’inadempimento della p.a.”.
Sull’onda delle novità legislative si pone anche la nuova disciplina del giudizio di ottemperanza
prevista dal nuovo Codice del processo amministrativo, il cui art. 112, nel dettare le disposizioni
generali da applicare al giudizio in esame, statuisce che l’azione di ottemperanza può essere
proposta per conseguire l’attuazione delle sentenze del giudice amministrativo passate in
giudicato (lett. a) e, altresì, delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del
giudice amministrativo (lett. b), oltre che delle sentenze passate in giudicato e degli altri
provvedimenti ad esse equiparati del giudice ordinario (lett. c), nonché delle sentenze passate in
giudicato e degli altri provvedimenti ad esse equiparati per i quali non sia previsto il rimedio
dell'ottemperanza (lett. d) e dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili (lett. e). In maniera
corrispondente, il successivo art. 113, nell’individuare il giudice dell’ottemperanza, dispone che
il ricorso si propone, nel caso di cui all’art. 112, comma 2, lettere a) e b), al giudice che ha
emesso il “provvedimento” della cui ottemperanza si tratta (essendo competente il tribunale
amministrativo regionale anche per i suoi provvedimenti confermati in appello con motivazione
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del tutto conforme) (comma 1), mentre nei casi di cui all'art. 112, comma 2, lettere c), d) ed e), il
ricorso si propone al tribunale amministrativo regionale nella cui circoscrizione ha sede il
giudice che ha emesso la sentenza di cui è chiesta l'ottemperanza (comma 2), secondo un
sistema fondato sulla netta distinzione fra l'ottemperanza di sentenze e altri provvedimenti del
giudice amministrativo (art. 112, comma 2, lett. a) e 6)), per i quali è prevista la competenza del
giudice amministrativo che ha emesso la sentenza o il provvedimento, e quella di sentenze
passate in giudicato, o altri provvedimenti ad esse equiparati, del giudice ordinario o di altri
giudici, nonché di lodi arbitrali divenuti inoppugnabili (art. 112, comma 2, lett. c), d) ed e)), per i
quali è competente il tribunale amministrativo regionale secondo il criterio di collegamento
previsto dall'art. 113, comma 2.
Alla luce di tale nuovo panorama normativo, conclude la Corte, deve affermarsi che anche “la
decisione su ricorso straordinario al Capo dello Stato, resa in base al parere obbligatorio e vincolante del
Consiglio di Stato, si colloca nella ipotesi prevista alla lettera b) dell’art. 112, comma 2, e il ricorso per
l’ottemperanza si propone, ai sensi dell'art. 113, comma 1, dinanzi allo stesso Consiglio di Stato, nel quale si
identifica "il giudice che ha emesso il provvedimento della cui ottemperanza si tratta".
Nella sentenza in esame, peraltro, la Suprema Corte non si è limitata ad un’interpretazione
limitata al formante normativo, in quanto ha proceduto, altresì, a verificarne la bontà alla luce
dei lavori preparatori, indicativi della voluntas legis, e del quadro costituzionale e comunitario
attuale.
E così, sotto il primo profilo, la Corte ha evidenziato come la lettura interpretativa data dalla
medesima trova conferma dall’esame dei lavori preparatori che hanno condotto al definitivo
testo della norma, da cui si evince chiaramente l’intentio legis di assicurare la effettività di tutela
annoverando fra i “provvedimenti” del giudice amministrativo, passibili di ottemperanza, la
decisione sul ricorso straordinario al fine di dare attuazione ai principi enunciati dalla CEDU,
nonché alle raccomandazioni comunitarie - intese a sollecitare gli Stati membri a prevedere
senza eccezioni l'azione esecutiva per l’effettività delle tutele.
Inoltre, precisa ulteriormente la Corte, come la dottrina ha puntualmente osservato, alla
estensione del giudizio di ottemperanza a provvedimenti che non siano sentenze, o comunque
provvedimenti non formalmente giurisdizionali, non si frappongono ostacoli di ordine
costituzionale, sicché è ben configurabile la previsione normativa di un tale giudizio per le
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decisioni, rimaste ineseguite, del Capo dello Stato, trattandosi di una scelta del Legislatore che nel rispetto dei principi costituzionali - tende a rendere effettiva la tutela dei diritti mediante il
giudizio di ottemperanza (che, appunto, svolge nell'ordinamento una funzione di "tutela": cfr.
Cass., sez. un., n. 30254 del 2008).
Tra l’altro, ricorda la Suprema Corte, “il ricorso straordinario non è espressamente previsto dalla
Costituzione (né può ritenersene la costituzionalizzazione implicita: cfr. Corte cost. n. 298 del 1986), ma, non
di meno, il Giudice delle leggi con diversi interventi, intesi anche a conformarne la disciplina, ne ha confermato la
compatibilità con il dettato costituzionale, in relazione all'art. 113 Cost. (cfr. Corte cost. n. 1 del 1964; n. 78
del 1966; n. 31 del 1975; n. 298 del 1986; n. 56 del 2001; n. 301 del 2001), sottolineando anche come la
disciplina posta dal d.P.R. 1199/1971 non solo aveva ribadito la natura del tutto atipica che il ricorso
straordinario aveva assunto sin dall'epoca della monarchia costituzionale, adeguando la disciplina della
alternatività al ricorso giurisdizionale al principio della "trasferibilità" in sede giurisdizionale, ma, in attuazione
del criterio della economicità posto dalla legge di delegazione, ne aveva confermato il carattere di rimedio
straordinario contro eventuali illegittimità di atti amministrativi definitivi, che i singoli interessati possono
utilizzare con modica spesa, senza il bisogno di assistenza tecnico-legale e con il beneficio di termini di
presentazione del ricorso particolarmente ampi (cfr. Corte cost. nn. 56 e 301/2001, cit.); infine, riconoscendo
che le concrete modalità di coordinamento con il rimedio giurisdizionale potrebbero essere plurime e rispondere a
finalità divergenti, lo stesso Giudice delle leggi ha rilevato come il Legislatore, nell'esercizio della sua
discrezionalità, può dettare una disciplina che può spingersi sino ad una completa rivisitazione del ricorso
straordinario e dei suoi rapporti con il rimedio giurisdizionale (cfr. Corte cost. n. 432 del 2006). Con questi
presupposti, la nuova regolamentazione normativa intesa alla "assimilazione" del rimedio straordinario a quello
giurisdizionale, pur nella diversità formale del procedimento e dell'atto conclusivo, non può non assicurare una
tutela effettiva del tutto simile, poiché, come queste Sezioni unite hanno precisato in materia di "autodichia", una
volta che si riconoscano poteri decisori, su determinate controversie, formalmente diversi, ma analoghi, rispetto a
quelli della giurisdizione, infrangerebbe la coerenza del sistema una regolamentazione affatto inidonea alla tutela
effettiva dei diritti e tale da condurre, in spregio al dettato dell'art. 2 Cost., comma 1, e art. 3 Cost., a creare
una tutela debole (cfr. Cass., sez. un., n. 6529 del 2010).
La coerenza di tale impostazione esegetica è, da ultimo, confermata scrutinando le norme della
Convenzione Europea per i diritti dell'uomo (art. 6 e 13), come interpretate dalla Corte di
Strasburgo, secondo il procedimento di ingresso nell'ordinamento nazionale precisato dalla
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Corte Costituzionale nella sentenza n. 348 del 2007: “ebbene, secondo la giurisprudenza della CEDU,
da un lato sono intangibili le decisioni finali di giustizia rese da un'autorità che non fa parte dell'ordine
giudiziario, ma che siano equiparate a una decisione del giudice, e dall'altro in ogni ordinamento nazionale si
deve ammettere l'azione di esecuzione in relazione a una decisione di giustizia, quale indefettibile seconda fase
della lite definita (cfr. CEDU, 16 dicembre 2006, Murevic c. Croazia; 15 febbraio 2004, Romoslrov c.
Ucraina)”.
Sulla scorta di tali e tante considerazioni le Sezioni Unite hanno formulato la regula iurs
secondo cui la decisione su ricorso straordinario, pur non essendo formalmente giurisdizionale,
è suscettibile di tutela mediante il giudizio d'ottemperanza.
L’operatività di tale regola deve affermarsi, in guisa di corollario, per la analoga decisione resa
dal Presidente della Regione Siciliana ai sensi della sopra richiamata normativa regionale,
modellata - come s'è visto - sulla disciplina dettata per il ricorso straordinario al Capo dello
Stato.
Ne consegue l’applicazione nella controversia in esame della regola de qua, in quanto, partendo
dal presupposto che nel caso di specie viene in rilievo una questione di giurisdizione, la quale –
come le Sezioni unite hanno precisato con la sentenza n. 30254 del 2008 - si presenta anche
quando non è in discussione che la giurisdizione spetti al giudice cui ci si è rivolti, perché è solo
quel giudice che secondo l'ordinamento la può esercitare, ma si deve invece stabilire se
ricorrono - in base alla norma che attribuisce giurisdizione -le condizioni perché il giudice abbia
il dovere di esercitarla, dovrà farsi applicazione dell’art. 5 c.p.c..
Tale disposizione, infatti, nella parte in cui dispone che la giurisdizione si determina in base alla
legge del tempo della proposizione della domanda e resta insensibile a successivi mutamenti del
quadro normativo, persegue l’obiettivo di conservare la giurisdizione del giudice correttamente
adito in base a detta legge del tempo, sottraendola a successive diverse scelte legislative, senza
peraltro incidere sul più generale principio dell’immediata operatività, in materia processuale,
della legge sopravvenuta (pure con riguardo alla giurisdizione), quando valga invece a radicare la
giurisdizione presso il giudice dinanzi al quale sia stato comunque già promosso il giudizio" (cfr.
Cass., sez. un., n. 3877 del 2004; id., n. 20322 del 2006).
CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI, 24 gennaio 2010 n. 457
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Anche nel processo amministrativo vige il principio, di cui all’art. 2697 cod. civ., in base
al quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti, anche se – per la
disuguaglianza di posizioni fra Amministrazione e privati cittadini – si applica a detto
processo il cosiddetto metodo acquisitivo, che consente al Giudice di integrare
allegazioni probatorie anche parziali, senza mai però sostituirsi al diretto interessato,
che deve comunque fornire qualche elemento di riscontro su vizi appresi anche in
modo indiretto, o desunti dalla documentazione interna acquisita a seguito di accesso
agli atti, in nessun caso tuttavia risultando ammissibili censure del tutto generiche, o
basate su semplici supposizioni.
La sentenza in epigrafe merita di essere segnalata, in quanto con essa il Supremo Consesso
amministrativo, nel procedere alla disamina delle censure poste a fondamento del ricorso
proposto, ricorda come costituisce principio granitico nella giurisprudenza quello per cui
costituisce onere di parte ricorrente fornire almeno un principio di prova, mancante nel caso
sottoposto al suo esame: “non può dunque che sottolinearsi, a tale riguardo, la vigenza anche nel processo
amministrativo del principio, di cui all’art. 2697 cod. civ., in base al quale spetta a chi agisce in giudizio
indicare e provare i fatti, anche se – per la disuguaglianza di posizioni fra Amministrazione e privati cittadini –
si applica a detto processo il cosiddetto metodo acquisitivo, che consente al Giudice di integrare allegazioni
probatorie anche parziali, senza mai però sostituirsi al diretto interessato, che deve comunque fornire qualche
elemento di riscontro su vizi appresi anche in modo indiretto, o desunti dalla documentazione interna acquisita a
seguito di accesso agli atti, in nessun caso tuttavia risultando ammissibili censure del tutto generiche, o basate su
semplici supposizioni, come quelle espresse nel caso di specie (sull’esigenza di un principio di prova – da porre a
base del processo amministrativo in base agli articoli 112 e 115 del codice di procedura civile, applicabile in via
integrativa a tale processo, in combinato disposto con gli articoli 21 L. n. 1034/71 e 44 T.U. 26.6.1924, n.
1054 – cfr. anche Cons. St., sez. IV, 27.7.2010, n. 4915 e 14.11.97, n.1279; Cons. St., sez. V,
10.11.2010, n. 8006 e 22.11.91, n. 1323; Cons. St., sez. VI, 10.5.90, n. 515 e 3.2.92, n. 61; TAR
Lazio, Roma, sez. I, 8.1.90, n. 7 e 6.4.93, n. 575; TAR Toscana, sez. I, 14.12.90, n. 1006)”.
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