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1. Mantovani Francesca 2. Dipartimento di sociologia, Università di Bologna 3. Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di sociologia Strada Maggiore 45, 40125 Bologna, [email protected] 4. Sessione: Ricerca 5. Titolo della relazione: Città, sprawl, riqualificazione urbana Abstract di Francesca Mantovani Il presente contributo intende portare alcune riflessioni sul tema della città partendo dall’analisi del fenomeno dello sprawl (della diffusione urbana), per arrivare a parlare dell’importanza del ricentramento urbano, della densità e compattezza della città, del recupero del già costruito come una possibilità rispetto alla sostenibilità: per molti infatti l’unica architettura sostenibile è quella del non costruito ex novo, di costruire sul costruito. Infine viene ripreso un tema già da molti affrontato che è quello del consumo della città e del pericolo di quello che può essere la museificazione della città, dove la ricetta del famoso J. Le Goff è quella di mischiare il vecchio al nuovo. Il nuovo ruolo sarà culturale: bisogna rifondare le vecchie città proprio partendo dalla loro differenza, dalla loro singolarità in un mondo omogeneo. Città, sprawl, riqualificazione urbana di Francesca Mantovani “La pianificazione sostenibile è quella che sa integrare un utilizzo efficiente di risorse ambientali ed energia, una produzione di materiali ed edifici “sani”, un uso del suolo attento alle sensibilità ecologiche e sociali e un senso estetico in grado di dare ispirazione, forza e competenza a questo sforzo di integrazione.” Declaration of Interdependence for a Sustainable Future, Chicago, 1993. 1 1. Il quadro generale Con il presente contributo vorrei approfondire il tema dello sprawl rispetto alla città tradizionale (compatta) e porre alcune riflessioni legate da un lato al consumo di territorio attraverso un’esperienza già in altra sede citata dell’abitare sostenibile, quella di Casaclima, dall’altro alla possibile riqualificazione urbana, attraverso l’esperienza di Cassinetta di Lugagnano. È necessario però partire da alcune riflessioni più generali. Infatti pochi ancora sostengono che “l’unica edilizia sostenibile è quella non costruita”; perché sono ancora in pochi a sostenere che sia importante cercare una nuova alleanza tra architettura e agricoltura attraverso il recupero della terra. Le case vengono costruite oggi peggio di cinquant’anni fa e la grande rivoluzione della bioedilizia sta arrivando a seguito della crisi energetica e non certo grazie alle spinte della corporazione architettonica. Questo aspetto è da considerare anche per noi sociologi che dobbiamo necessariamente intervenire al di là della catastrofe climatica. Se gli strumenti, la cassetta degli attrezzi di analisi, di ascolto, di lettura della città non si rinnovano, l’urbanistica rischia di apparire una disciplina arida che non racconta nulla della vita di cui vivono le città. Si parla ancora troppo poco tra architetti e progettisti di riqualificazione e conservazione degli edifici esistenti anche se si sta iniziando a ragionare in termini di restauro con interventi di riqualificazione energetica, dove è necessaria molta sensibilità da parte di progettisti architettonici e impiantisti, dove è indispensabile utilizzare un linguaggio comune. Sprawl non può avere nulla a che fare con il fenomeno della sostenibilità, ma ha molto a che fare con il consumo di suolo. La dispersione urbana consuma molta più terra rispetto al normale sviluppo urbano se le nuove aree sono create con una bassa densità abitativa. L’effetto è quello di essere estremamente dipendenti dalle automobili per il trasporto. Molte attività, come 2 shopping, spostamento sul luogo di lavoro, tempo libero, ecc. richiedono l'uso di automobili. Questo implica la costruzione di case più grandi, strade più larghe e negozi più grandi con relativi immensi parcheggi. È necessario che il processo di sensibilizzazione rispetto alla catastrofe verso la quale siamo diretti diventi da individuale collettiva. Come dice l’arch. A. Scarpa1 “conservare, limitare, non disperdere. La decrescita richiede leggerezza, trasparenza, bassa impronta ecologica; invece edificare esige peso, solidità e consumo di materia. Oggi l’edilizia è diventata l’attività umana a più alto impatto ambientale, responsabile del consumo di risorse naturali e della produzione di rifiuti e gas, il principale settore industriale nei paesi ad “economia avanzata”. È necessario smettere di costruire per parlare di architettura sostenibile. 1.1. Una definizione di sprawl Per Richard Ingersoll lo “sprawl, parola introdotta negli USA negli anni Sessanta per indicare la crescita urbana senza forma, letteralmente significa “sdraiato”. Periferia, periurbano, conurbazione, città diffusa, sono tutti termini per definire un fatto geografico che si è ripetuto in tanti modi diversi, come lo sprawl americano. È un fenomeno che si registra intorno alle città, tra le città e perfino dentro le città”. 2 E ancora Ingersoll: “Town significa piccola città, ovvero comunità. Nella grande espansione urbana dei nostri tempi, i rapporti di vicinanza e partecipazione stanno sparendo. Lo sprawl è un fatto geografico e morfologico che ha fisicamente cambiato il paesaggio. Ma sprawl ha anche determinato mutamenti antropologici. Il mondo civico della piazza è stato abbandonato perché si lavora e si vive altrove. L’atmosfera comunitaria della strada commerciale del centro ha perso la sua vitalità, combattuta dalla concorrenza dei centri commerciali suburbani”.3 Come ricorda R. Ingersoll è 1 * Aldo Scarpa è architetto libero professionista a Venezia, è delegato dell’ANAB (Associaz. Nazionale Arch. Bioecologica) 2 3 R. Ingersoll, Sprawltown, Meltemi, Roma, 2004, p. 8. R. Ingersoll, Sprawltown, cit, pp.8-9. 3 possibile abbellire, rendere naturale, un luogo freddo e cementifero, un’area dismessa, nudi muri possono divenire esteticamente ed energicamente sostenibile se si lavora appunto sull’esistente. L’apporto del verde nel contesto urbano è spesso sottovalutato; in realtà una corretta gestione del verde migliora il microclima e il comfort degli abitanti. Essere ecologicamente corretti, ci ricorda Ingersoll, quando si costruisce può risolvere soltanto in parte il problema dello squilibrio ambientale. Intervenire sulla città è invece la chiave di un cambiamento più profondo. A che cosa serve il risparmio energetico del proprietario di una casa sostenibile se egli deve comunque usare l’automobile in continuazione? 2. Due casi studio: Casaclima e Cassinetta di Lugagnano 2.1. Casaclima: pattern abitativo o brand? Casaclima è un modello di costruire che si fonda su criteri ecocompatibili; è un metodo di calcolo, valutazione e certificazione del risparmio energetico dei nuovi edifici. È stato ideato da Norbert Lantschner, ex direttore dell'ufficio "Aria e Rumore", del Dipartimento all'Urbanistica, Ambiente ed Energia della Provincia di Bolzano, ora direttore dell’Agenzia Casaclima. Questo metodo è entrato in vigore a partire dal 2005. Casaclima nasce in ottemperanza a quanto già licenziato dalla Unione Europea come Direttiva Cee 2002/91/Ce, che definisce i parametri per il contenimento energetico degli edifici secondo quanto prescritto dal protocollo di Kyoto. La direttiva europea viene recepita in Italia dal D.Lgs. 192/2005 successivamente modificato dal D.Lgs. 311/2006 che stabiliscono una serie di misure direttive a ridurre il consumo di energia degli edifici presenti sul territorio italiano introducendo dopo 14 anni la certificazione energetica degli edifici (nel 1991 venne infatti varata la legge 10 “Norme in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia”). 4 L’Agenzia Casaclima si è posta l’obiettivo di coniugare comportamento ecologico e calcolo economico: una casa ad alta qualità abitativa non deve infatti essere “cara”; al contrario, esistono molte possibilità di risparmio che consentono nello stesso tempo di tutelare l’ambiente. Casaclima centra il punto: comfort abitativo a basso costo energetico e nel rispetto dell’ambiente. Abitazioni compatibili con la natura, dal design architettonico accattivante ed estremamente confortevoli. Un’abitazione sostenibile deve tener conto oltre ai criteri di accessibilità all’acquisto della casa stessa, anche della gestione delle risorse naturali, del risparmio energetico e del livello di efficienza energetica di un edificio. Tre sono convenzionalmente ritenute le condizioni che ci permettono di definire un’abitazione sostenibile: l’efficienza energetica, una progettazione sostenibile, il risparmio energetico. È necessario inoltre sottolineare che tendenzialmente queste tipologie abitative le ritroviamo inserite nel periurbano. Come ci ricorda sempre Ingersoll: “oggi il contesto della periferia è composto da strade di scorrimento, svicoli elevati, cartelloni pubblicitari e grandi edifici banali circondati da parcheggi; la stessa cosa si ripete tante volte ma senza che vi sia una sintassi”4. Le grandi distese dello sprawl richiedono l’utilizzo di massa dell’automobile e determinano uno spreco di risorse e di energia maggiore della città compatta. Se si vogliono i pannelli solari e il sistema fotovoltaico ci si deve ricordare bene che tali dispositivi vengono dalla Germania, dal Giappone, e che in questa mobilità di sostenibile vi è davvero poco. 2.2. Cassinetta di Lugagnano: un esempio di politica virtuosa Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano. un piccolo comune vicino a Milano, sottolinea che tutte le città che hanno fatto progressi significativi nel campo della politica energetica hanno avuto un referente capace di prendere posizione e lottare per il cambiamento. In Italia, il consumo annuo di cemento è passato dai 50 kg pro-capite del 1950 ai 400 4 R. Ingersoll, Sprawltown, cit. p. 11. 5 kg procapite del 2007. La cazzuola e la betoniera sono diventati il simbolo dello sviluppo, del progresso e della riscossa tutta italiana e il consumo di territorio ha assunto dimensioni davvero molto inquietanti. E da qui un’edilizia residenziale, artigianale e industriale, megacentri commerciali, outlets, città satellite. Conditi dei relativi svincoli, raccordi autostradali e rotonde. Cantieri che spuntano anche in posti impensabili, senza risparmiare parchi, zone protette e sottoposte a vincoli, di natura ambientale, paesaggistica o architettonica. La spinta al consumo di territorio è venduta all'opinione pubblica come una necessità dell’economia, che avrà certamente ricadute positive sul benessere dei cittadini. Quindi, visto il tasso di cementificazione che abbiamo vissuto in Italia, dovremmo essere una delle locomotive economiche d’Europa e uno dei paesi dove il livello di qualità della vita è più alto. E invece non è così. Perché? Perché la pianificazione urbanistica, in Italia, è pressoché assente, e dove non vi sono regole a garanzia dell’interesse collettivo, prevalgono gli interessi di pochi, di chi domina il mercato. Ovviamente, le dichiarazioni e le motivazioni elencate a sostegno delle scelte urbanistiche indicano sempre grandi e durature utilità per le comunità. Ma la destinazione d’uso dei terreni, in realtà, non è stabilita a partire dalle necessità della comunità che vive su quella stessa terra, bensì da un processo decisionale orientato dalla forza contrattuale di chi detiene la proprietà dei terreni. Un processo decisionale sovente infarcito dai proclami prodotti dalla convinzione che ha ormai intossicato la quasi totalità della classe politica: non si può stare fermi, bisogna crescere ed essere competitivi, l’economia non si può rallentare, bisogna ammodernare il paese, occorre dare una risposta alle esigenze del mercato. Non è raro, poi, che il consumo di suolo diventi addirittura spreco: sono migliaia i capannoni vuoti, milioni le case sfitte. Sprechi che non hanno nessun beneficio, né sull’occupazione né sulla qualità della vita dei cittadini. L'agricoltura scivola costantemente verso l'impoverimento, sia economico che 6 culturale, con grandi e fertili territori che sono passati (consapevolmente o meno) da una sana vocazione agricola, che però comporta pazienza e fatica, ad una ammaliante vocazione edilizia, che rende ricchi subito e senza sudore. I contadini, potenziali protagonisti di una rinascita produttiva per il paese, sempre più difficilmente riescono a resistere di fronte alle offerte di speculatori senza scrupoli, per i quali la terra è solo una preda da addentare e divorare, senza alcun riguardo nei confronti della sua rigenerazione ecologica. La monetizzazione del territorio come strumento per pareggiare i bilanci e consolidare popolarità tra gli elettori, ha provocato la conurbazione tra comuni un tempo separati e la formazione di città continue. Non solo a Milano ma attorno a tutte le aree metropolitane d’Italia si sono formate immense periferie urbane, quartieri dormitorio, luoghi senza storia né anima. Scenari ben diversi dai sogni venduti con l'adozione delle varianti urbanistiche. Risultato del cosiddetto sprawl, un modello di urbanizzazione disperso e a bassa densità che aggredisce la bellezza dei paesaggi sfigurandoli e annullandone le caratteristiche identitarie sotto una massa indifferenziata di elementi artificiali anonimi e spesso volgari. “Stop al Consumo di Territorio”. Un obiettivo da perseguire. L’unica azione concreta possibile per un comune: l’adozione di un Piano Regolatore Generale che punti all'azzeramento del consumo di suolo, che non preveda nuove aree di espansione urbanistica e che investa tutto sul recupero del patrimonio esistente, sulla promozione dell'agricoltura e sulla valorizzazione del paesaggio ambientale e architettonico. Nel febbraio 2007, dopo un lungo procedimento che ha visto la partecipazione della cittadinanza, il consiglio comunale di Cassinetta di Lugagnano ha approvato definitivamente il suo nuovo piano regolatore (PGT, Piano di Governo del Territorio), poi battezzato a “Crescita Zero”. Un piano regolatore che salvaguarda, come previsto dal programma, uno dei beni comuni che possono essere sottoposti alla tutela delle amministrazioni comunali: la terra. 7 3. Il ricentramento urbano In attesa che il 7 dicembre 2009 si aprisse a Copenhagen il Forum sui cambiamenti climatici Richard Plunz (che dirige un Istituto di Design urbano alla Columbia University di New York) ci ricorda perché oggi più che mai il clima deve tornare a essere al centro di ogni ragionamento sulla città contemporanea. Dato che il Pianeta sta affrontando un processo di recetering (ricentramento urbano), le città più vecchie devono essere poste di nuovo al centro della discussione come esempi positivi per il futuro. Inoltre cambiamenti climatici e PIL sono in un rapporto diretto, perciò il cosiddetto mondo sviluppato non ne sarà esente: negli Stati Uniti per esempio alla luce dell’erosione dei vantaggi economici e psicologici della vita suburbana, sta già sorgendo una nuova ondata di urbanizzazione. Aggiungiamoci l’equazione climatica, già dimostrata dal reinsediamento dei profughi di New Orleans in altre città, e cominceremo a percepire la complessità del nostro futuro urbano. E se, nell’ambito delle società “avanzate”, un ritorno della gente verso la città potrebbe anche essere un buon motivo per festeggiare, rimane aperta una questione cruciale, una componente importante del re-centering, sapere a che tipo di città si sta facendo ritorno. Le infrastrutture dei centri più vecchi sono infatti sotto standard e impossibili da migliorare se si segue un pensiero normativo. È necessario pertanto ripensare i concetti di scala, efficienza e sostenibilità. L’approccio infrastrutturale su grandissima scala, tipico dell’era industriale, non è più funzionale ed è necessario che l’innovazione di impianti e servizi comprenda anche la micro scala. Le “vecchie città” devono reinventare le loro economie: un processo direttamente legato alla riprogettazione delle loro infrastrutture sulla base di nuovi criteri di sostenibilità. Le città sono mostri che consumano il 67% dell’energia mondiale. Stephen Hammer che dirige l’Urban Energy Center alla Columbia University di New York, spiega 8 come politiche energetiche lungimiranti possono salvaguardare il bene delle generazioni future. Una cosa infatti è creare il perfetto sistema energetico urbano, costruendo una città da zero; tutt’altra cosa, invece, è modificare e rendere più sostenibile l’attuale apparato energetico della maggior parte delle città esistenti. Inoltre tutto quello che costituisce un piano energetico “sostenibile” varia sensibilmente da una città all’altra. Naturalmente, gli obiettivi e gli strumenti politici enfatizzati in ciascun piano urbano varieranno in relazione alle condizioni climatiche ed economiche locali, e all’ “appetito” degli abitanti per un cambiamento tecnologico (e potremmo dire in relazione al sé bios di ogni territorio). 3.1. Costruire sul costruito Stop all’abusivismo, ai dormitori, ai ghetti. Servono città più piccole e dai confini definiti. La ricetta di Oriol Bohigas5, uno degli urbanisti più noti al mondo, è semplice: costruire sul costruito. “L’espansione o forse sarebbe meglio parlare di esplosione, delle città non può avvenire senza regole. Anzi, ci sono tre condizioni fondamentali perché questo possa accadere: plurifunzionalità, ovvero spazi, quartieri, piazze, strade o altro non possono essere classificati solo in base alle loro presunte destinazioni; compattezza ovvero nessuna divisione fisica o pratica, è ammessa; leggibilità, ovvero ogni luogo deve essere immediatamente comprensibile per chi ci vive”. La città del futuro non è sicuramente quella delle periferie utilizzate soltanto come dormitori, non è la ghettizzazione, non è essere costretti a vivere isolati, senza contatti. L’urbanista parla di “una forma della città che oggi non serve alla gente, di una situazione artificiale che crea inconvenienti, problemi di integrazione da risolvere. E provoca: “è molto più disastroso non avere una reale organizzazione urbana che produrre affollamento”. 5 O. Bohigas intervistato da S. Bucci “Ricostruiamo le mura”, in Rottamare la città. Per un futuro più vivibile, l’Europeo, dicembre 2009. 9 In Italia come in Spagna si è costruito troppo, al di là del bisogno della gente. Serve ai politici, per creare consenso. Con tutti questi mega progetti si finisce per creare realtà artificiali senza futuro come Scampia o come lo Zen. Bohigas lo ripete, “la parola giusta è semplificare. È davvero finito il momento della riedificazione selvaggia, quella che ha prodotto mostri urbani come Il Cairo, Shanghai o Città del Messico. L’edilizia non può più essere selvaggia”. E c’è di più: “addio anche ai maxi-progetti”, per la nascita di nuove città, bisogna invece sapere ricominciare da un buon disegno degli spazi pubblici. Il rapporto spesso pessimo tra politica e architettura trova conferma, secondo Bohigas nel caso dei campus universitari: “L’idea di costruirli fuori città, nelle periferie, come è accaduto per esempio a Firenze, nella vecchia area di Novoli, nasconde un disegno politico. Quale? Tenere gli studenti il più possibile fuori dalla vita pubblica e politica, isolarli. Bisognerebbe invece costruirli nei centri storici, negli edifici destinati all’abbandono”. “La città deve ritrovare i propri confini, deve comunicare a chi ci vive dove comincia e dove finisce”. Altrimenti torna l’incubo che tanto angoscia Bohigas: quello delle città illimitate e illeggibili, senza nessun’altra funzione (soprattutto per quello che riguarda le periferie) che quella di “dormitorio”. Sempre Bohigas,6 “sono molto confuso a parlare di un modello di città e ancora di più del modello della città del futuro. Potranno nascere altri tipi di insediamenti in qualsiasi posto del pianeta, però la città propriamente detta seguirà lo stesso modello attuale e, se non lo farà, smetterà di essere città. Essa è il risultato di una sedimentazione storica nella quale si stratificano e perdurano alcuni elementi importanti. La città non è né la gente né il paesaggio. La città è al servizio della gente. La città è, e sempre sarà, un artificio disegnato dalla combinazione di civilizzazione, cultura, sviluppo economico oltre le barbarie naturali, imponendo valori permanenti, 6 O. Bohigas, intervistato da E. Montalti, “Al servizio della gente”, in Densità e compattezza, Ottagono, novembre 2009. 10 categorie che superano gli aneddoti temporali. L’Italia è un paese in cui i centri storici sono difesi e protetti in termini di museificazione e nel quale le periferie e i sobborghi sono abbandonati all’orgia della speculazione o, per lo meno, al disordine funzionale ed estetico”. 3.2. La città “densa” Stefano Boeri7 crede nella città “densa”. Sostiene che non si può continuare a consumare terreno agricolo, ma bisogna recuperare le zone abbandonate della città. E magari abbattere e costruire in altezza. Ha tre certezze: l’urbanistica deve essere ecologica, o è destinata al fallimento. Questo, per paradossale che possa sembrare, vuol dire rendere più dense le città, con edifici più alti e più fitti; e questo “addensamento” non ha nulla a che vedere con il Piano casa. In Europa negli ultimi trent’anni, ai grandi operatori pubblici e privati si è sostituita una moltitudine di piccoli imprenditori. E con la crisi la tendenza si è acutizzata. Questo ha cambiato del tutto il modo di costruire. “Questa dispersione ha contribuito alla distruzione del paesaggio e al consumo del suolo, che non sono, per quanto riguarda l’Italia, soltanto il frutto dell’abusivismo, ma il risultato di cambiamenti economici e sociali. Una moltitudine di imprese e persone, ognuno a occupare il suo pezzettino di spazio. Uno sviluppo molecolare. Così è stato mangiato tantissimo terreno agricolo. Complice la miriade di piani regolatori locali, tutti diversi”. Il mito della villetta è al tramonto, secondo Boeri si è rivelato un sogno boomerang: per costi, distanze dal lavoro o dai luoghi di divertimento, per la sicurezza. Iniziano a chiudere anche i centri commerciali. La gente vuole stare dove arrivano i mezzi pubblici, soprattutto la metropolitana. In ogni caso le villette non hanno risposto al problema di offrire più natura. 7 S. Boeri intervistato da V. Palumbo, “La villetta è un boomerang” in Rottamare la città. Per un futuro più vivibile, l’Europeo, dicembre 2009. 11 Si potrebbe aumentare la quantità di natura in città migliorando la qualità dell’agricoltura periurbana, rendendola intensiva, coltivando prodotti che servono alla città. “Credo molto al mio progetto di bosco verticale, ai due grattacieli verdi previsti alla Stazione Garibaldi di Milano. Abbiamo portato gli alberi fino a 110 metri di altezza. Ma crescere in altezza è solo una delle soluzioni: è ovvio che nei centri storici non si possono fare”. In ogni caso l’agricoltura va ripensata e rivalorizzare i terreni significherebbe rallentare un consumo troppo rapido dei suoli. 3.3. Discontinuo è sostenibile Secondo Richard Burdett8 bisogna ricominciare a parlare di città. E non solo di riduzione di CO2. La ricetta? Nuove forme urbane, sistemi di trasporto integrati e meno auto. Quando si parla di sostenibilità delle città, si tende a discutere dell’aspetto energetico ed ambientale. Io credo che non si possa oggi parlare di sostenibilità prescindendo da quella sociale. Le città sono dei meccanismi importanti e fragili per l’equilibrio planetario, dal punto di vista ecologico, ma forse in modo più rilevante da quello dell’equilibrio sociale, visto che quasi il 50% della popolazione mondiale vive già in agglomerati urbani. Per cui anche in funzione di un ripensamento degli accordi di Kyoto, ritengo sia fondamentale ricominciare a parlare della città tout court. La compattezza urbana come elemento strategico per il risparmio energetico è un discorso che intende riportare la città al centro del dibattito sulla riduzione dei consumi. Discontinuo è sostenibile: secondo Richard Burdett policentrismo ed elevata densità insediativa massimizzano il rendimento dei sistemi urbani di trasporto meccanizzato. 8 R. Burdett, “Appiediamo la metropoli”, in Rottamare la città. Per un futuro più vivibile, l’Europeo, dicembre 2009. 12 La densità della città è un elemento chiave dal punto di vista del risparmio energetico. Erroneamente si crede che la riduzione dei consumi energetici di un edificio risolva il problema urbano. È vero che il 50% del consumo di energia viene dagli edifici, tuttavia le città sono responsabili dell’incremento dei consumi energetici a un livello ben più strategico. 3.4. Il rischio della museificazione delle città Venezia, Firenze, Siena musei open air per il turismo di massa. Il grande storico J. Le Goff9 vent’anni fa rifletteva sul concetto di città antica. E dava la sua ricetta: il domani dei centri storici è nel mischiare vecchio e nuovo. In una sua intervista sostiene che: “I musei sono la morte e la città non può essere un museo. La città antica può avere una funzione straordinaria per la costruzione della città del futuro perché il nuovo si costruisce sulla memoria collettiva”. “La città ha perso il ruolo di un tempo, deve trovarne uno nuovo. Deve definirsi in opposizione a qualcos’altro in un mondo che si avvia a diventare tutto uguale. Il nuovo ruolo sarà culturale: bisogna rifondare le vecchie città proprio partendo dalla loro differenza, dalla loro singolarità in un mondo omogeneo”. “Le città museo non hanno avvenire, non contano e non conteranno niente. Il futuro è introdurre il vecchio nel nuovo. Conservare piazze, i musei, le statue e le vie e insieme cercare lo spazio per i contemporanei e per la loro vita. Nel deserto si contempla il deserto, in una città antica si può pensare e produrre dentro il fascino di una memoria collettiva che si esprime nelle mura e nelle opere”. Le Goff ha anche qualche esempio, Avignone e Venezia sono due modelli da seguire. Una possibilità. Ma poi ad intervista finita, capita di imbattersi per le strade di Firenze in una comitiva di turisti allo sbando in cerca del Palazzo Ducale, monumento altamente improbabile qui sulle rive dell’Arno. “La differenza c’è, ed è fondamentale, vitale. Il mondo non è tutto uguale”. 9 Intervista a J. Le Goff, “Vintage town”, in Rottamare la città. Per un futuro più vivibile, l’Europeo, dicembre 2009. 13 Il consumo di un luogo, come per esempio può essere quello di una città storica, produce spesso una copia di se stessa, una città cartolina, non più pensata per chi ci vive ma esclusivamente per chi la fruisce. Concluderei riprendendo un’espressione di Marc Breviglieri, La ville useé n’est pas jetable10 (La città consumata non si può gettar via), che si inserisce in un filone già noto e utilizzato dal grande L. Wirth. Per Wirth infatti la città si caratterizza in base a tre caratteristiche: densità, ampiezza ed eterogeneità. Elementi che non ritroviamo nella città diffusa o nello sprawl (che rifiutano la complessità e ambiscono alla totale omogeneità). Per questo è necessario recuperare la città. E ancora, per l’antropologo U. Hannerz lo spazio urbano si distingue dagli altri per essere un catalizzatore di eterogeneità. La città non solo attira la diversità ma genera nuove differenze proprio per la sua accessibilità. Il significato della parola “consumo”, come sottolinea anche Aldo Colonetti11, può assumere una particolare connotazione: da un lato una sedimentazione storica, culturale e artistica che trova in ogni metro quadro della città testimonianze dirette, senza falsità né errori; dall’altro lato, abitanti che vanno e vengono, secondo modelli di consumo organizzati da altri abitanti temporanei che sperimentano, con i propri linguaggi e specifiche antropologie, realtà e sistemi di rappresentazioni codificate e “museificate”. È da questa relazione straordinaria e comune a tutte le città d’arte italiane ed europee, che si sviluppa lo scarto tra vecchio e nuovo, tra conoscenza ed interpretazione, tra consumo banale e consumo eccezionale. La città può rappresentare ancora “l’elogio dell’incontro inconsueto” o come ci ricorda sempre Hannerz, la città è lo scenario privilegiato della serendipity, ossia di trovare per caso una cosa mentre se ne cerca un’altra. 10 Tratto dal paper, Le regne du projet et le refroidissement du monde. A propos du gouvernement des architectures”, presentato a Bologna al Seminario Internazionale “Quale modernizzazione riflessiva?”, Sala dei Poeti, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Bologna, 3-4 dicembre 2009. 11 A. Colonetti, “Elogio dell’incontro inconsueto”, in Rottamare la città. Per un futuro più vivibile, l’Europeo, dicembre 2009. 14 BIBLIOGRAFIA AA.VV., Metodologie di risparmio energetico, Hoepli, Milano, 1984. Bauman Z. 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