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Ong Thong Hœung racconta la Cambogia dei khmer rossi, “una
PERSONAGGI 11 27 agosto Ong Thong Hœung racconta la Cambogia dei khmer rossi, “una dittatura che vietava di fare domande” “I comunisti peggio dei nazisti” “L’Occidente crede che il marxismo volesse realizzare il bene: è imperdonabile. Studiavo a Parigi, tornai: all’aeroporto fui preso e chiuso in un campo di rieducazione. Gli intellettuali rientrati dall’estero dovevano dimenticare il passato” I tratti sono quelli tipici dell’estremo oriente, i capelli bianchi, il viso solcato da un tempo che non cancella il velo di dolore in fondo agli occhi. “Sono qui al Meeting per dire a voi occidentali che il totalitarismo comunista è peggio di quello dei nazisti. Voi siete convinti che i comunisti volessero realizzare il bene, che desiderassero la felicità e non volessero i morti che han fatto. Questo è imperdonabile”. Ong Thong Hœung, cambogiano, classe 1945, autore del libro “Ho creduto nei khmer rossi” (cioè i guerriglieri comunisti cambogiani guidati da Pol Pot), protagonista dell’incontro su “Presenza e utopia dalle Alpi al Mekong”, si racconta al Quotidiano Meeting. Nel suo libro lei racconta di aver studiato in Francia ed essere tornato in Cambogia con i khmer rossi al potere, nonostante alcuni suoi amici la sconsigliassero. Perché prese questa decisione? “La Cambogia era allora un regime semi-feudale, l’80% dei figli di contadini non potevano andare a scuola: c’era disuguaglianza, e io che avevo letto il ‘Contratto sociale’ di Rousseau volevo l’uguaglianza. Quando arrivai a Parigi, mi resi con- Ong Thong Hœung e la copertina del suo libro to di botto che il mio Paese era povero, fuori della storia, e questo mi fece riflettere su cosa potevo fare. Nel maggio del ’68 a Parigi si parlava di rivoluzione, si leggevano Marx e Lenin, i miei amici erano rivoluzionari di sinistra. Io non ero comunista, ma credevo che il mio paese fosse povero per colpa del colonialismo di Francia e Usa, e che sarebbe potuto uscire dalla povertà con la rivoluzione. Perciò non volevo credere a quel che mi dicevano sui crimini del regime: ero convinto che i dirigenti comunisti fossero intellettuali che lot- “Ogni giorno si faceva una riunione di ‘critica’, alla fine impazzivi. Ti insegnavano a non aver fiducia di nessuno, io invece sono sopravvissuto grazie a mia moglie” tavano per la libertà”. Che cosa trovò invece al suo arrivo in Cambogia? “Vede, l’utopia è questo: dal momento stesso in cui scesi dall’aereo, capii che era in atto una dittatura. All’aeroporto la gente era vestita di nero, non c’era nessuno ad aspettarmi: nemmeno mia moglie. Sarei voluto tornare indietro, ma era troppo tardi. Venni rinchiuso in un ‘campo di rieducazione’, come previsto per tutti gli intellettuali rientrati dall’estero. Avrei voluto stare con mia moglie, ma a decidere tutto (quando stare insieme, quando no) era il partito: noi non potevamo nemmeno fare domande”. In che cosa consisteva la “rieducazione”? “È l’annullamento, la distruzione della personalità: dovevi dimenticare il passato, la famiglia, qualunque cosa ti legasse alla tua vita precedente. Ogni giorno si faceva una riunione di ‘critica’: ti chiedevano cosa pensavi della società precedente, se ricordavi il cibo che si mangiava prima. Sembra una domanda stupida, ma se rispondevi ‘no’, ti accusavano di mentire; se dicevi ‘sì’, ti bollavano come un oppositore del partito. Questo accadeva tutti i giorni. Alla fine, impazzivi. Tra i prigionieri, c’erano arrivisti che si schieravano per la rivoluzione, altri che osavano andare contro la dittatura. Alcuni si suicidarono, qualcuno evase. La maggioranza si batteva giorno per giorno per la sopravvivenza: io ero tra questi. Avevo momenti di lucidità, altri in cui disperavo. Sa, l’individuo è molto fragile. Anch’io avrei potuto essere un criminale”. Che cosa la sostenne durante la prigionia? “Sono vivo per caso. Alcuni compagni vennero fatti uscire dal campo, io rimasi perché in quel momento stavo pulendo il porcile. Sono morti tutti. I khmer ti insegnavano a non aver fiducia di nessuno, nemmeno di tua moglie. Io invece sono sopravvissuto grazie a lei. Continuava a dirmi che tutto ha una fine, che anche quel regime sarebbe finito: così, mi ha impedito di suicidarmi”. Uno sguardo affettuoso a sua moglie, una stretta di mano all’intervistatore, e via. A ricevere l’abbraccio del Meeting. A raccontare di nuovo una storia che non deve essere dimenticata. Francesco Tanzilli
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