1 14.11.1997 GIANDOMENICO PICCO PER UNA POLITICA

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1 14.11.1997 GIANDOMENICO PICCO PER UNA POLITICA
14.11.1997
GIANDOMENICO PICCO
PER UNA POLITICA ATTIVA DI PACE.
L'ONU E LE ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE1
La ragione per cui ho accettato di parlare è perché il titolo tratta in fondo del ruolo che hanno oggi
gli enti che non sono governativi negli affari internazionali. E’ un argomento che mi sta
particolarmente a cuore perché penso che sia un ruolo che sta crescendo sempre di più e che è
quello che ci porta nel XXI secolo, dove la nazione stato avrà un ruolo sempre minore,
semplicemente perché la possibilità per gli individui di accedere ad informazioni ed alle persone di
comunicare il loro pensiero è ad un livello come mai nella nostra storia dell’uomo. Oggi, in questa
sala, possiamo far conoscere il nostro pensiero a mezzo mondo semplicemente da casa nostra,
sedendoci e scribacchiando un po’ su un computer e mandando via internet il nostro pensiero ad un
numero di persone che non siamo nemmeno capaci di indovinare. Questa una delle mille maniere
per cui oggi le istituzioni, create nel passato, non riescono più a gestire una democrazia sempre
maggiore che si sviluppa mediante la diffusione delle conoscenze.
Partirò allora da un concetto che forse è l’opposto di quello che il titolo suggerisce, dal concetto
della real politik che lo scorso secolo ci ha insegnato e che è stato consacrato dal Congresso di
Vienna nel 1815 e dal Congresso di Berlino, tenutosi una cinquantina di anni dopo. La real politik
era un nuovo modo di dire in fondo che la forza fa il diritto. Lo chiamarono real politik e per un
secolo e anche più le grandi potenze europee hanno continuato ad alimentare questo concetto con
una buona dose di determinismo, in base al quale veniva propagandato come qualcosa talmente
impossibile da sfidare che la cosa più saggia e realistica è di accettarlo.
L’aspetto che più mi ha sorpreso nella mia vita diplomatica in vent’anni all’ONU è di quante
persone accettano il concetto di real politik, quanti paesi accettino questo, pur sapendo - penso
consciamente, altri forse inconsciamente - che ciò vuol dire abdicare al loro ruolo. Un paese piccolo
o medio, un ente privato, un individuo che oggi accetti il concetto di real politik, come un atto di
realismo e quindi come un segno di esperienza, in effetti, non fa altro che abdicare al proprio ruolo,
e mi chiedo perché lo facciano. E’ come dire che non si può fare nulla per cambiare quello che ci
sta attorno, perché la realtà delle forze in campo è tale da rendere impossibile il cambiamento o
alterare questa equazione. Molti sono quasi incantati da questo concetto e ne parlano, specialmente
alle nuove generazioni, cercando di convincerle ad accettarlo, millantando per esperienza quello che
in realtà non è altro che l’accettazione del loro fallimento. E’ un dramma che ho visto nei miei
trent’anni di attività professionale come le giovani generazioni ricevano dalle persone meno giovani
incoraggiamenti ad abdicare in nome di una presunta saggezza che deriva dall’esperienza. Ma non
si tratta di saggezza, quanto piuttosto di avere accettato una dose di fallimento e di pigrizia mentale
che porta a dire che non si possano cambiare le realtà che vengono descritte con aggettivi o globali
o megadimensionali, o comunque al di fuori della portata di un individuo. La realtà che ho visto
nella mia vita in Afghanistan, Pakistan, Iran, Iraq, Israele, Libano e poi anche negli Stati Uniti e
negli altri paesi occidentali è leggermente diversa e di questo vorrei parlarne.
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Testo non rivisto dall’Autore.
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Una situazione molto vicina all’Italia è quella della ex Iugoslavia; è meglio partire da questo
esempio così recente per poi elaborare alcune conseguenze di carattere pratico e anche di carattere
teorico semplici, quella teoria che i manovali come me a volte costruiscono a posteriori. La tragedia
della Iugoslavia da molti fu descritta e devo dire anche dai suoi protagonisti, come un’inevitabile
conseguenza di alcuni fattori. Primo: la storia; secondo: la realtà etnica; terzo: la realtà istituzionale
della ex Iugoslavia.
Ecco vorrei guardare un momento un po’ da vicino questi tre elementi, cosa essi vogliono dire. Il
presidente Slobodan Milosevic più volte negli ultimi sei anni davanti alla stampa internazionale ha
fatto riferimento all’odio atavico tra serbi e croati fin dai tempi della grande rinascita del popolo
serbo intorno al 1300. Egli stesso poi ha ripetuto al mondo intero come il motivo etnico sia in effetti
la ragione per cui le differenze sono inconciliabili e, per ultimo, ha illustrato come a livello
istituzionale quello che Tito aveva costruito non poteva sopravvivere alla sua persona.
Mi sono preso la briga di rileggere ancora, l’avevo già fatto quando ero molto più giovane, la storia
dei Balcani. Vengo da lì vicino, quindi mi interessa particolarmente. Mi sono pertanto equipaggiato
da una parte con alcuni libri e dall’altra con una matita e un foglio di carta per segnare questo
continuo odio come si dice, queste battaglie continue fra serbi e croati dal 1300 in poi. Ho
analizzato la storia, ho letto vari libri scritti da serbi e da croati e anche da altri studiosi, e con la mia
penna ero pronto a segnare le varie occasioni di guerra. Alla fine di questo studio ho scoperto
quante volte i croati ed i serbi si sono combattuti negli ultimi 700 anni. Zero. Mai. I serbi e i croati
sono combattuti in modo diverso in quanto appartenevano a diversi imperi e il caso molto citato del
1941 degli ustascia, se ben guardiamo, fu uno scontro fra fascisti croati che insieme ai monarchici
serbi, chiamati allora come oggi cetnici, sia pure per altre ragioni, combatterono alleati contro i
comunisti serbi e croati. Basti dire che Tito, il quale era croato, combatté contro di loro. Non fu
dunque una guerra fra serbi e croati, ma fu una guerra dove serbi e croati si combatterono stando da
entrambe le parti. Per 700 anni cose del genere sono successe, ma mai a livello di scontri in quanto
di etnie diverse.
Abbiamo poi il concetto dell’etnia, questo concetto che dal 1991 sembra avere assunto un
significato che non è accettabile, perché chiunque di noi abbia studiato la storia degli ultimi millemillecinquecento anni, certamente sa che in Europa, con alcune esclusioni scandinave, ma
sicuramente nei Balcani e in Europa centrale, parlare di etnie e di purezza del sangue è un po’
azzardato. Le emigrazioni dovute a carestie, a fughe per paura da invasori più o meno orientali, a
ragioni economiche hanno comportato il vantaggio che hanno fatto dei popoli europei un solo
popolo, un popolo di bastardi. Il sangue puro di cui si parla in certe discussioni tra serbi e croati non
è altro che una mistificazione dei fatti.
Nel 1989 vicino a Graz, in Austria, in un giorno di autunno si sono riunite cinque persone: una
persona di nome Slobodan Milosevic, un altro Franjo Tudjman, un generale croato e due generali
serbi. Queste cinque persone avevano un solo problema: che il signore chiamato Franjo Tudjman
voleva essere presidente e il signore chiamato Slobodan Milosevic anche, ma avevano un solo
paese. La soluzione fu semplice: o uno ammazzava l’altro, o di un paese se ne facevano due. Questa
fu la scelta fatta a tavolino e si procedette in quella sede a scegliere tre piccoli villaggi nel nord
ovest della Bosnia, dove si sarebbe di proposito inventato o istillato una scintilla così detta etnica.
La storia non c’entrava per nulla. L’etnia ancora meno. Tito poi era già morto da dieci anni, e non
era il caso di chiamarlo in causa. La guerra nella ex Iugoslavia fu la conseguenza della scelta
individuale di alcune persone che hanno un nome ed un cognome. E poi ci raccontano che la guerra
che ne seguì fu terribile, che la storia e la religione di quei popoli hanno portato a crudeltà che forse
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è meglio non ricordare. E mi sono chiesto molte volte, e ho chiesto a loro, a questi signori, perché in
giro per quei paesi ci sono stato durante la guerra per vederli in faccia, se mi potevano indicare
quando avessero loro visto la storia uccidere persone, la religione violare donne o la etnia creare dei
rifugiati. Ho sempre creduto che queste cose le compissero gli individui.
Ma qualcuno vuole darmi da bere che le stragi e le violenze le attua un concetto chiamato storia,
una filosofia chiamata religione o l’immaginazione di un sangue puro chiamato etnia. Ho sempre
creduto che chi stupra una donna sia una persona, non la storia. Gli individui che hanno commesso
questi crimini sono individui che hanno un nome e un cognome: non possono, non devono essere
confusi nella collettività o nella fumosità di concetti che servono solo a nascondere la loro
colpevolezza. I tempi moderni hanno anche permesso agli uomini in un altro modo di nascondere il
loro senso di colpevolezza e il nuovo elemento si chiama istituzioni. Quando le cose vanno male è
colpa delle istituzioni che non funzionano, è colpa del sistema.
Rimaniamo ancora nella ex Iugoslavia e guardiamo il 1993, quando la guerra in Bosnia mi pare
fosse all’apice (fra parentesi, la guerra in Bosnia non era prevista, a Graz, nella riunione dei cinque
per la divisione della Iugoslavia: né Franjo Tudjman né Slobodan Milosevic pensavano che sarebbe
poi nato un terzo paese chiamato Bosnia). La Bosnia fu un imprevisto, come quell’imprevisto che
costrinse un signore chiamato Hitler a fare una guerra che durò cinque anni invece di cinque
settimane.
Per tornare a noi, nel ’93 la guerra era particolarmente violenta ed un ente chiamato ONU, in quel
momento era coinvolto in quei paesi per cercare di risolvere quel problema. E l’ ONU in quel
periodo aveva avuto in modo del tutto inusuale per la sua storia il potere di usare una forza militare
notevole, particolare il potere di usare i bombardieri della NATO per colpire sia i serbi che i croati.
Ma in quel momento l’ente chiamato ONU decise di non procedere ai bombardamenti contro
l’aggressore, che in quel caso era chiaramente il popolo serbo o meglio la leadership serba, perché
si temeva che la reazione dei serbi sarebbe stata di prendere come ostaggi i peace skippers
dell’ONU. Ciò avrebbe impedito al l’ONU di essere un negoziatore imparziale e quindi i negoziati
sarebbero falliti.
Ecco, mi fermo un momento qui. Non fu l’ONU a decidere questo, perché l’ONU, signori miei, non
esiste. Chi prese queste decisioni furono persone con un nome ed un cognome. La persona che
decise che nel ’93 non si potevano usare i bombardieri NATO contro i serbi si chiama Boutros
Ghali. E la guerra continuò per altri due anni e nel 1995, quando gli Stati Uniti decisero invece di
usare i bombardamenti contro i serbi, i serbi non presero nessun ostaggio, e i negoziati, invece di
fallire, riuscirono, ed il paese che aveva usato i bombardamenti divenne in effetti il mediatore di
quegli accordi.
Le istituzioni non prendono decisioni, non ci si può nascondere dietro ad un concetto, quando le
colpe sono sempre individuali. Nella misura in cui non porteremo il concetto di responsabilità
personale a livello di affari internazionali, potremo riformare le istituzioni fin tanto che vogliamo,
ma non cambierà nulla. Non occorre riformare una istituzione o cambiare il nome sulla porta di un
ufficio, quello che occorre è capire con chi si ha a che fare. Se una persona si prende le sue
responsabilità, diventa di conseguenza credibile, e una persona credibile è una persona che può
negoziare, e che può portare avanti cambiamenti sia nella sua piccola storia che nella grande storia.
L’ONU è un’istituzione che nella sua accezione più limitata è composta di 10.000 persone. Nel
periodo d’oro delle Nazioni Unite, il periodo dall’86 al ’91, l’amministrazione Perez de Quellar
portò a casa i seguenti successi: l’accordo sul ritiro dei sovietici dall’ Afghanistan dopo la loro
invasione nel 1980, la fine della guerra Iran – Iraq, la fine della guerra civile nel Salvador,
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l’indipendenza della Namimbia, gli accordi sulla Cambogia, e - se si vuole parlare di ONU in
generale - anche la guerra contro Saddam Hussein in seguito all’invasione del Kuwait. Le persone
che realizzarono questo all’interno di quella struttura furono ventidue. E questo non vuol dire che
gli altri non fecero nulla, la burocrazia non è la conseguenza di una natura pubblica o privata, è la
conseguenza della magnitudine. Tuttavia quella burocrazia serve a qualche cosa, per esempio, a
creare quel substrato logistico di comunicazioni, di punti di appoggio che quelle ventidue persone
hanno usato e sfruttato al meglio per portare a casa dei risultati.
Non ho mai creduto che nessuno delle persone che oggi vivono su questa terra non avesse la
possibilità e un ruolo da giocare su questo pianeta. Se siamo in cinque miliardi, avrò
presumibilmente almeno la possibilità di avere un cinque miliardesimo di ruolo da giocare. Ma se
penso veramente che le istituzioni, la storia, le religioni, le etnie o la macro economia siano concetti
che non possono essere cambiati da nessuno, allora è meglio che me ne stia a casa la mattina, che
non mi alzi neppure, perché nulla cambierà.
Vorrei portare altri esempi che conducono a questo concetto che anche gli enti più imponenti non
sono altro che il risultato della somma di molte individualità. Forse ricorderete che nel 1988 il
presidente Saddam Hussein stava ancora combattendo con gli iraniani una guerra sanguinosa.
Rivelerò stasera per la prima volta che, in quella estate, alcune grandi potenze comunicarono a chi
stava negoziando la pace tra quei due paesi di non continuare i negoziati perché la guerra avrebbe
dovuto proseguire. La ragione era semplice, l’Iraq stava vincendo e alcune potenze desideravano
che l’Iraq avanzasse in modo molto più violento contro l’Iran per assicurarsi il controllo delle zone
petrolifere iraniane. La guerra, secondo queste potenze e lo dico per esperienza personale, avrebbe
dovuto continuare per altri tre o quattro mesi. La real politik avrebbe dovuto indicare che quando
una grande potenza dà queste indicazioni, è bene andare a casa e dormire. Eppure dopo pochi giorni
la guerra si concluse.
Nel raccontarvi queste cose devo anche ricordarmi che ho un tema da seguire e che quindi devo in
qualche modo girare questo discorso e portarlo in qualche modo verso il titolo. In effetti il giro non
è molto lungo, il ragionamento che volevo fare era sottolineare che, anche in casi che sembrano
macroscopici, le decisioni individuali sono sempre e comunque quelle che muovono le scelte.
Nascondersi dietro istituzioni o sistemi o culture o religioni è semplicemente un modo per
nascondere le proprie responsabilità. Ecco, il mondo moderno ha scoperto che si possono fare molte
cose anche senza avere il cappello delle istituzioni.
In questo paese abbiamo una comunità molto piccola, chiamata di S. Egidio, dove tre persone con
nome e cognome, hanno offerto al mondo la possibilità della pace in Monzambico. Poi hanno avuto
la generosità di regalare questo accordo all’ONU per metterlo in atto. Ma chi lo fece non fu né un
governo né un’istituzione internazionale, ma tre persone della comunità di S. Egidio. Questo si
ripete oggi in giro per il mondo, ogni giorno. Il nostro piccolo istituto ha un solo scopo: trovare
nuovi strumenti per permettere al settore privato di contribuire alla pace; per questo abbiamo abolito
la ricerca, non voglio leggere lunghe pagine di relazioni. Abbiamo cercato prima di dare un esempio
concreto e poi di mettere in piedi questo istituto: mi piace, prima cominciare, essere manovale con i
fatti e poi metterci sopra il cappello.
Tre anni fa fui avvicinato da una piccola banca araba, che operava in due paesi arabi: mi chiesero
cosa si poteva fare per aumentare il loro profilo come banca che operava in questi due paesi. Una
banca molto piccola non poteva ovviamente avere né i mezzi né la forza di una grande banca
internazionale. Ora, si dava il caso che i due paesi nei quali la banca voleva operare erano e sono
paesi limitrofi e, guarda caso, avevano una questione di frontiera pendente dal 1935. Il nostro
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suggerimento fu di offrire ai governanti una soluzione di buon senso comune al loro problema di
frontiera. In tre mesi misi insieme un piccolo libro che spiegava come si poteva risolvere questo
conflitto di frontiera sulla base semplicemente del buon senso comune. La piccola banca lo
comperò, lo donò a questi due paesi e sei mesi dopo i governi firmarono un accordo di pace su
questa base. I governi interessati ricevettero questo suggerimento senza alcun negoziato anticipato.
La cosa più interessante di questi ultimi anni è che anche nel settore della diplomazia i governi
hanno perso il monopolio. Ed è un cambiamento importante perché forse è l’unico settore nel quale
i governi hanno ancora il monopolio, oltre naturalmente a quello di batter moneta.
Siamo ormai entrati alla grande in un’epoca dove gli enti non governativi possono fare di tutto, ma
a quali condizioni? A due condizioni. Quando si opera nel campo internazionale, almeno nella mia
esperienza personale non ha nessunissima importanza essere imparziali. L’imparzialità è un
concetto che la cultura europea ha costruito per nascondere l’incapacità di agire. L’imparzialità non
serve perché, se fra il signore in prima fila e me io metto a distanza esattamente uguale una
bottiglia, il signore in prima fila vedrà sempre quella bottiglia più vicina a me come io la vedrò
sempre più vicina a lui, anche se la mettiamo nel mezzo aritmetico fra noi. La imparzialità non è un
concetto operativo, anche per chi svolge il ruolo di mediatore. Se questo fosse vero, gli americani
avrebbero dovuto fallire in Bosnia. Invece hanno avuto successo, pur essendo completamente antiserbi in quel momento. Quello che serve è la credibilità. Il dramma dei governi europei è questo:
pensano ancora che essere imparziali serva. Nel novembre 1990, tre mesi dopo l’invasione del
Kuwait, il presidente iracheno Saddam diceva e quasi cito quasi letteralmente: ‘Perché mi mandate
questi mezzi amici? Giordani oggi, francesi domani, americani di buona volontà dall’altra parte.
Non mi interessa parlare coi mezzi amici, o siete miei alleati o voglio parlare col mio nemico vero’.
Il secondo elemento per essere efficaci nel mondo internazionale di oggi, oltre alla credibilità, è
quello da cui nasce la credibilità. E cioè l’idea. Bisogna essere propositivi, cioè proporre un
prodotto, avere in mano un prodotto e portarlo avanti. Senza idee non si può fare niente. Ci sono
molti governi che sono convinti che senza denaro e senza armi non si possa avere una politica
estera. Se così fosse, il presidente iracheno di oggi non potrebbe fare politica estera. Gli
avvenimenti di questi giorni dimostrano il contrario. Saddam oggi non ha danaro e non ha armi,
però ha un mucchio di idee e ne tira fuori una ogni pochi mesi. Perché l’idea è quella che muove il
mondo.
Quando sento dire che alcune istituzioni non funzionano, che si deve riformarle, mi viene sempre in
mente una discussione che ebbe luogo alla Columbian University alcuni anni fa. Era una
discussione fra esperti di medio oriente, dove c’era un solo non esperto, che ero io, mentre gli altri
erano molto preparati. C’era uno speaker d’onore che presentava, un oratore che parlava e poi
seguiva la discussione. Nella platea c’erano anche varie persone, fra le quali anche un ambasciatore
iraniano che in quel momento, mi pare fosse l’anno 1993, si alzò e chiese a questo signore che per
caso si chiamava Boutros Ghali cosa stesse pensando di fare per evitare che ci fossero ulteriori crisi
nel Golfo Persico. E Boutros Ghali, che era sul podio rispose: “Ho fatto sapere al suo presidente e a
quelli che gli sono vicini che sono disponibile a mediare”. Con molta eleganza l’ambasciatore
iraniano rispose: “Io penso che siamo tutti disponibili, ma è un po’ poco; se nel 1988 il suo
predecessore avesse detto così al mio presidente, saremmo ancora in guerra con l’Iraq”.
Il fatto di avere armi e di avere soldi può essere anche importante, ma si possono raggiungere molti
obiettivi con le idee, e siccome le idee appartengono agli individui, il futuro dei governi e degli enti
istituzionali sarà esclusivamente riservato a quelli che avranno idee, anche se queste verranno
avanzate dagli enti non governativi o da singoli individui.
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Negli ultimi dieci anni penso che gli individui abbiano molte più possibilità di essere propositivi a
livello di avvenimenti macroscopici di quanto non lo siano stati 200 anni fa. Le possibilità per gli
individui di poter contribuire a cambiare gli avvenimenti ed a essere efficaci è molto maggiore nel
mondo d’oggi. Forse Churchill aveva veramente ragione: la storia non esiste, quello che esiste sono
soltanto le biografie.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------Domanda: Alla luce di quello che lei ha detto, mi chiedo se non vi è stato uno sbaglio nella
conduzione sul piano diplomatico della crisi iugoslava, dal momento che vi è stata un’assunzione
da parte del Segretario Generale dell’ONU di un ruolo che istituzionalmente non gli competeva, la
qual cosa ha contribuito ad arrivare a quella che è una delle più grosse vergogne degli ultimi
decenni nel mondo occidentale, che è stato il massacro di Sebreniza.
Risposta: Perché gli americano hanno chiesto la testa di Boutros Ghali? Dunque Boutros Ghali fu
eletto nel ‘92 per un solo mandato, cioè per cinque anni. Per quattro anni ricevette l’appoggio totale
americano. All’inizio del ‘96 fece sapere che forse avrebbe voluto continuare per un altro mandato e
lo bloccarono per questo, usando metodi e formule del tutto da far west Ritornando alla domanda
che lei mi ha fatto, ho scritto di queste cose per parecchio tempo: l’uso della forza è legittimo da
parte dell’ ONU, e io sono a favore di usare la forza, ma la forza va autorizzata dal Consiglio di
Sicurezza, non dal segretario generale. Il caso di Sebreniza è un caso tipico di quello che è successo
in Bosnia, dove vi è stata una confusione tra un mandato sulla base del capitolo 6 (che impedisce
l’uso della forza) e quello del capitolo 7 (che autorizza l’ uso della forza). Se si mandano ad una
catena di montaggio delle istruzioni contraddittorie, la catena di montaggio si blocca. Nel caso
specifico a Sebreniza è successa una confusione che ha umiliato un po’ tutti. Quello che successe in
effetti in Bosnia furono questi diversi mandati che venivano dal consiglio di sicurezza e che hanno
confuso gli operatori sul terreno. Ne è venuta una grossa tragedia.
Domanda: Mi è piaciuta molto la relazione, che mi richiama l’approccio realistico del mondo
anglosassone ai problemi della politica e delle relazioni internazionali. Vorrei chiederle un
giudizio sul tentativo di riforma dell’ONU. Sul ruolo dell’evidente maggiore finanziatore e sulla
controproposta italiana.
Risposta: Istituzioni come l’ONU devono sottoporsi a processi di riforma continuamente perché
operano in un mondo che comunque si evolve. Ma è bene dire subito che le riforme per l’ONU sono
come le confessioni per i cattolici. Fanno molto bene all’animo ma non cambia niente, anche se
l’arcivescovo mi ha fatto sapere che poi non è così vero. Nel senso che è importante farle le riforme,
servono a focalizzare la mente di chi lavora in quegli enti al fatto che le cose stanno cambiando. Ma
le riforme non cambiano le cose, sono gli individui che le cambiano. Quindi cambiare degli uffici,
chiamarli in modo diverso, sì, fa piacere, è una cosa che non fa male a nessuno, ma se le persone
che sono coinvolte non cambiano loro stessi, non si cambierà molto. Cambiare il modo di operare
nell’ONU vuol dire assumersi le responsabilità in prima persona. Le future istituzioni mondiali
funzioneranno soltanto nella in cui ci saranno individui che si assumeranno responsabilità a livello
individuale. Altrimenti non cambia niente.
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Per quanto la proposta di riforma del consiglio di sicurezza, avanzo due osservazioni. Il consiglio di
sicurezza è il risultato nel 1945 di un contratto sociale internazionale che era diverso da quello che
avevamo conosciuto più di cento anni prima al congresso di Vienna. Al congresso di Vienna le
grandi potenze che si sono riunite e hanno deciso di approvare le regole di questo mondo senza aver
bisogno, anzi escludendo tutti gli altri. Nel 45 l’accordo delle grandi potenze fu diverso, ci fu un
contratto sociale diverso, sia fra i piccoli che con i grandi. I due lati della tavola avevano da offrire
legittimità ai grandi e legittimazione ai piccoli. Il contratto sociale del consiglio di sicurezza è
basato su legittimità e partecipazione. Quando questo contratto si rompe si deve riaggiustare. Molti
dicono che si è rotto e quindi bisogna rifarlo. A molto poco a che fare con i numeri il contratto
sociale, ha molto a che fare con che cosa vuol dire partecipazione. La proposta italiana io l’ho
sempre appoggiata e, secondo me, ha fatto molto onore al nostro paese per i seguenti motivi: è la
prima volta che ho visto il nostro paese all’ONU prendere una posizione; in secondo luogo, è una
posizione che si è mantenuta per più di cinque minuti, cosa molto importante perché serve a
mantenere una certa credibilità; punto terzo, è una proposta intelligente. Quindi andrebbe
mantenuta, per lo meno a livello tattico, senza un minimo di spaccatura. Che poi venga usata per
ottenere il risultato, come merce di scambio con altre cose, questo dipenderà dal nostro governo. Ma
faccio notare loro, che una carta che noi oggi possiamo giocare e che qualcuno sia esso
l’ambasciatore Fulci o chi per lui, hanno inventato dal nulla. E la grande abilità dei governi che non
hanno forza militare o economica è proprio questa, riuscire ad inventare dal nulla delle carte che gli
altri ci vogliono portare via. L’esempio della nostra proposta al consiglio di sicurezza è un esempio
di grande diplomazia dell’ambasciatore Fulci perché oggi, quella carta che lui ha costruito, che il
nostro governo ha costruito, ha un valore e prima non c’era niente. L’importante è che non venga
adesso sprecata.
Domanda: Lei ha detto prima che lo scopo dell’ONU è quello di istillare nei giovani che la
diversità è una ricchezza. E’ la vita. Io, come giovane, però mi chiedo: quando l’ONU ha fatto
verso di me questo passo? Lo hanno fatto invece altri enti: la chiesa piuttosto che altre associazioni
più o meno politiche.
Risposta. Devo dire che la sua è una critica giusta e penso che lei ha proprio ragione. Ho sempre
sperato che ci sia un segretario generale che riesca ad assumersi questo ruolo morale ed a parlare in
questo modo a chi in effetti conta, cioè alle generazioni nuove. In mancanza di questo, il messaggio
viene trasmesso in modo molto forse più limitato, dalle migliaia di persone che invece di raccontare
questo come l’ho fatto io, la fanno vedere personalmente nei vari paesi del mondo in cui operano.
E’ un modo molto più limitato di passare questo messaggio, ma le assicuro che ci sono migliaia di
persone che lavorano per l’ONU tutti i giorni che fanno di questo il loro motivo di vita giornaliero,
e lo si vede. In effetti se lei però risiede, come gli americani, in un paese dove l’ONU ha solamente
degli uffici, questo è più difficile da vedere, mancando, come dicevo, una personalità carismatica a
livello morale che possa guidare l’ONU come tale. Lei ha perfettamente ragione.
Domanda: cosa ne pensa della proposta che è stata avanzata in alcuni ambienti accademici
americani di convogliare donazioni in vista della costituzione di una sorta di assemblea mondiale
in cui i popoli e non gli stati possono avere una rappresentanza, in modo da far sapere quali sono
le necessità di intere popolazioni?
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Risposta: Io penso che si arriverà a cambiare l’ONU o comunque ad aggiungere a questo una figura
istituzionale che risponda a quelle esigenze che lei ha espresso. In un certo senso già oggi esiste un
minimo di rappresentanza delle ONG all’ONU, che potrebbe convogliarsi in una specie di
assemblea. E questo secondo me è un passo inevitabile a cui si arriverà, e sarebbe una riforma
molto più sostanziale di quelle di cui si parla fino ad oggi.
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