Squalo serpente - Ecomuseo Chianti
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Squalo serpente - Ecomuseo Chianti
LO SQUALO SERPENTE NELLA CAMPAGNA TOSCANA Storie di uomini e di ritrovamenti G.A.M.P.S. - Gruppo Avis Mineralogia Paleontologia Scandicci Ideazione: GRUPPO AVIS MINERALOGIA PALEONTOLOGIA SCANDICCI Piazza V. Veneto, 1 - 50018 Badia a Settimo - Scandicci (Firenze) Telefono e fax 055 7224141 E-mail: [email protected] - Sito web: www.gamps.it Canale video: www.youtube.com/user/hunterwhales Copertina: LO SQUALO SERPENTE NELLA CAMPAGNA TOSCANA Testi: S. CASATI, L. ODDONE Fotografie: S. CASATI, G.P. FAIENZA, N. COSANNI Disegni: T. DE FRANCESCO Immagini: Alcune immagini del libro sono state realizzate grazie ad elaborazioni grafiche. Immagini storiche ottenute tramite la Biodiversity Heritage Library (Smithsonian Institution, Washington D.C.) Progetto: G.A.M.P.S. SCANDICCI - LA TIPOLITO/SIGNA Simone Casati ed il GAMPS ringraziano la SBAT (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana) ed il Prof. Franco Cigala Fulgosi per il loro avallo scientifico e tecnico senza il quale nessun risultato avrebbe avuto certezza. Ci sembra altresì doveroso ringraziare: Letizia e Massimo Lawley, Dr. Michelangelo Bisconti, Dott.ssa Chiara Sorbini, Sig.ra Cristina Banchi, Sig. Alex Orlandini, Dr. Davide Persico, Dott.ssa Paola Catani, Dr. Federico Monechi, Dott.ssa Francesca Grimaldi, Dr. Mauro Cartocci, Sig. Marcello Billia, Sig.ra Franca Verni, Dott.ssa Stella Beccaris, Dott.ssa Elisabetta Failla, Sig. Jeremy Wiles, Sig. Paolo Grigò, Biblioteca Comunale di Calcinaia (PI), Sig. Ashish Matthew Varghese, Sig. Ferdi Willemse ed un ricordo speciale va all'amico Dr. Giorgio Batini che tanto avrebbe apprezzato questa storia vissuta in una terra da lui profondamente amata. 2 Le vicende riportate in queste pagine ci condurranno fra il presente e il passato delle verdi campagne e gli oscuri fondali marini di oltre oceano. Il lavoro, frutto di anni trascorsi dedicando passione alle Scienze Naturali, è stato realizzato grazie alla costante ricerca sul territorio: un sentimento che da sempre accomuna coloro che a vario titolo offrono il proprio contributo al fine di svelare i misteri della conoscenza. “Storie di uomini e di ritrovamenti” racconta le gesta di personaggi che, resi immortali dalla vita, hanno saputo tramandare, descrivere e raccontare attimi che fanno ormai parte di un tempo lontano. Questo libro vuole ricordare le loro imprese e ringraziare coloro che hanno reso possibile la pubblicazione di questa affascinante storia che ci racconta di squali catturati negli abissi marini e dei loro antenati scoperti sulle colline di una terra chiamata Toscana. 3 Premessa Dott.ssa Silvia Goggioli Funzionario archeologo territoriale della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana Sono convinta che una dote fondamentale per un archeologo sia l’immaginazione. Non da sola, ovviamente, ma tale da aiutare lo studioso a creare uno sfondo, una scenografia, su cui lavorare. Sono molti anni ormai che frequento, da archeologa, la splendida campagna senese e ho cercato, fin da subito, di crearmi un’idea di come vivessero gli Etruschi tanti secoli fa. Sono stata avvantaggiata dal fatto che questo territorio non ha subito grandi cambiamenti epocali, in tutti questi secoli: terra coltivata, bosco e fattorie sparse, oltre a qualche agglomerato urbano importante, come Siena o Chiusi, sono rimasti sostanzialmente gli stessi. E così, quando mi muovo, in automobile, tra Murlo e Castelnuovo Berardenga mi immagino, in cima alle basse e dolci colline, spuntare gli Etruschi a cavallo sui crinali che mi osservano, proprio come gli Indiani che si affacciavano dai canyon americani e osservavano John Wayne e i coloni che attraversavano le loro terre. È molto più difficile immaginarsi il mare. Eppure prima c’era il mare (ma molto prima: tre milioni di anni fa!) ricco di vita, pieno di forme viventi, di cui molte ormai estinte, e quella che ora è la campagna era sommersa da molti metri di acqua salata, mentre l’uomo non esisteva ancora. Con Simone siamo amici da molto tempo: è un ottimo ricercatore, responsabile, appassionato e preparato e riesce a colmare quel gap cronologico che separa la preistoria dalla storia. Credo che sia importante saper riconoscere le competenze scientifiche, senza prescindere mai dalla tutela del bene: noi archeologi ufficiali abbiamo bisogno di essere coadiuvati da “colleghi” diversi, gruppi paleontologici seri e coscienziosi, che sappiano lavorare collaborando con le leggi che tutelano il reperto, che sia un fossile o un coccio. Per cui: in bocca al lupo e buon lavoro, sempre collaborando, per lo stesso fine, attraverso la legalità. 5 Fra pochi istanti incontrerò Letizia e Massimo. Lasciando il mare percorro il viale dagli alberi in duplice filare. Frammenti di tempo mi separano da Bolgheri. Il mio pensiero è forte, ricorrente. Mille e più mille cipressi da San Guido al nobile signore. In lontananza, la porta del passato. L'incontro tanto atteso. Oggi per ieri, domani per sempre. Breve inquadramento geologico del Bacino di Siena Ivan Martini Dipartimento di Scienze della Terra, Università di Siena Il territorio toscano racchiude nelle sue rocce le testimonianze geologiche di una storia molto complessa, che ha condizionato nel tempo l’evoluzione geografica di questo settore di Appennino. Ciò che possiamo osservare oggi è la diretta conseguenza di una lunga evoluzione geologica, tuttora in atto. In particolare, durante il Pliocene, un periodo geologico che si estende da 5,332 a 2,588 milioni di anni fa, la Toscana appariva come una serie di promontori rocciosi che si affacciavano su stretti bacini marini. Il Bacino di Siena era uno di questi: una fascia di mare delimitata a Ovest dalla Dorsale Medio-Toscana, ad Est dai Monti del Chianti e a Nord e a Sud da due strutture morfo-tettoniche, note in letteratura rispettivamente come Soglia di Monteriggioni e Soglia di Pienza. La presenza di questo antico bacino è testimoniata dai sedimenti marini, spesso ricchi in fossili di conchiglie e di pesci, che comunemente si rinvengono in questo territorio. Le Crete Senesi, la Val d’Arbia e tante altre zone del territorio senese famose in tutto il mondo per la loro bellezza paesaggistica, sono costituite da rocce che testimoniano direttamente questa antica storia geologica. Su questo fondale marino, analogamente a quanto accade sui fondali attuali, i sedimenti si depositavano, più o meno lentamente. Questi talvolta inglobavano i resti degli organismi che vivevano in questo ambiente, le cui testimonianze fossili sono così arrivate fino a noi. Il tipo di sedimentazione in ambiente marino è diretta conseguenza della profondità della colonna d’acqua, degli apporti fluviali, dell’azione delle onde, di correnti sul fondo e di tanti altri fattori. L’analisi delle rocce derivanti da questi sedimenti possono fornire utilissime informazioni al fine di comprendere l’evoluzione di un bacino sedimentario marino. In linea generale si può osservare che nelle zone che nel Pliocene corrispondevano alle aree marginali di questo bacino, oggi affiorano rocce costituite da sabbie e conglomerati, le quali possono essere considerate rispettivamente come la testimonianza di antiche spiagge sommerse e di battigie. Muovendosi verso le aree più centrali del bacino il tipo di sedimenti rinvenibili cambia, lasciando posto ai sedimenti argillosi più fini, indicanti una deposizione in un ambiente più profondo caratterizzato da una scarsa energia idrodinamica. È proprio da questi sedimenti argillosi che nasce la storia narrata in questo libro. 8 La legge, la ricerca e la tutela dei Beni Paleontologici I fossili italiani appartengono allo Stato. Detto così potrebbe sembrare semplicistico ed imperativo, ma bisogna sapere che i resti degli organismi vissuti nel passato geologico sono tutelati dal Ministero dei Beni Culturali e dalle Soprintendenze periferiche con competenza sul territorio. Anche se può sembrare strano, questi antichi resti sono parte integrante della storia e della cultura del nostro territorio. Tutto ciò che si trova nel suolo e nel sottosuolo nazionale descrive il passato geologico ed offre agli studiosi la possibilità di capire la successione degli eventi che si sono verificati nel corso di milioni di anni. I fossili spesso affiorano dai sedimenti in seguito alle arature stagionali, le attività estrattive e le grandi opere dell'uomo. Sovente questi fragili resti si trovano in condizioni precarie legate alle inevitabili attività lavorative e, ove si tratti di cose mobili delle quali non si possa altrimenti assicurare la custodia, lo scopritore ha facoltà di rimuoverle per meglio garantirne la sicurezza e la conservazione sino alla visita dell’autorità competente: queste manovre non hanno ragione di essere svolte se gli scopi sono diversi da quelli legalmente consentiti. Segnalare i reperti è dovere di ogni cittadino. Individuare dei fossili non è un reato, ma si commette una violazione quando questi vengono raccolti o scavati da persone non autorizzate dalla legge n. 42, 2004, o Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. L'opera del singolo o dei gruppi paleontologici è determinante se svolta in sinergia con le Istituzioni e le Università specializzate. Ogni reperto fossile, qualunque esso sia, può rivestire un ruolo importantissimo sul palcoscenico del nostro passato e per questo deve essere messo a disposizione della comunità scientifica competente in materia. Il Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci da anni segue la linea della collaborazione con le Istituzioni ed offre il proprio contributo per far fronte alla salvaguardia del Patrimonio Paleontologico Toscano. Un Patrimonio troppo spesso minacciato dalla vastità dei giacimenti e dal mondo sommerso del collezionismo privato, purtroppo ben radicato anche nel nostro territorio. La ricerca scientifica vive oggi una situazione di preoccupante stallo. Gli Enti preposti allo studio e alla salvaguardia del bene pubblico si dibattono fra mille problemi dovuti alla carenza di fondi e di personale. La prima conseguenza di tale stato di cose è la drastica riduzione, se non addirittura l'ab- 9 bandono, della ricerca sul campo che, come finalità, non ha solo il ritrovamento e lo studio di nuovi reperti, ma con le sue attività garantisce anche il diretto controllo delle località fossilifere. Spesso questo vuoto non può rimanere tale a lungo ed è facile che ben presto venga occupato da chi, approfittandosi della situazione, ha intenzione di sviluppare la ricerca per scopi personali e dunque fuori legge. Tutto ciò porta in breve tempo alla perdita di veri e propri tesori scientifici e all'impossibilità di ricavarne informazioni geologiche, paleoambientali ed evoluzionistiche talvolta di portata mondiale. Troppo spesso ci rendiamo conto che giorno per giorno il patrimonio nazionale, e quindi di tutti, viene depredato e smembrato a causa dell'attività illegale di poche persone indisturbate. In quest'ottica pare necessario creare uno stretto rapporto fra l'Ente pubblico di tutela del patrimonio e la parte sana della ricerca privata in grado, se adeguatamente formata, di affiancare le Istituzioni nell'opera di valorizzazione del territorio. Sarebbe quindi utile iniziare un cammino di reciproco riconoscimento in cui i gruppi paleontologici noti oggi alla Soprintendenza si impegnino a seguire i sistemi ed i protocolli ufficiali di ricerca sotto la supervisione di Enti preposti alla tutela, e che gli organi dello Stato riconoscano ufficialmente questi gruppi, come parte integrante del sistema di ricerca. Questi gruppi paleontologici, infatti, esistono già da lungo tempo e spesso da anni collaborano con le Soprintendenze. Tuttavia questi rapporti, a volte persino stretti e continui, vengono tenuti nell'ombra per la mancanza di quelle leggi e norme che dovrebbero regolare e regolarizzare la situazione. Auspichiamo quindi che tali proficui contatti possano emergere ed uscire alla luce del sole in modo da ottenere, attraverso la presenza di gruppi ufficialmente riconosciuti, un controllo più assiduo del patrimonio culturale della Regione Toscana. 10 Tracce dal passato Il primo, lo vidi ai piedi del futuro Professore ordinario: era lì da milioni di anni. Nonostante sia trascorso oltre un decennio, ancora oggi rivedo l'imbarazzo fissato negli occhi del cattedratico nel preciso istante in cui gli dissi di non muoversi. Mi avvicinai e, con estrema cautela, lo raccolsi e lo portai sul palmo della mano guardando attentamente una cosa che non avevo mai osservato. Anche lui, come me, non seppe dare un nome a quello strano oggetto trovato a pochi centimetri dalle sue scarpe. La base era di color nero e le appendici ricordavano un piccolo forcone a tre punte. Un forcone proprio come quelli usati dai contadini per trafiggere e raccogliere grosse quantità di erba fresca o fieno. La forma era uguale, ma molto più piccola. Il mio unico pensiero, in quel preciso istante, fu di conservare accuratamente il mistero affiorato dal profondo del mare in una zona dove il mare non c'era più da milioni di anni. Già, dove era finito il mare? Fra gusci di conchiglie fossili e frammenti del passato, quel giorno stavamo camminando su ciò che restava di un fondale marino situato nei pressi di Castelnuovo Berardenga, a pochi chilometri da Siena. Il fondale di un mare che risaliva ad oltre 3 milioni di anni fa, quando le attuali campagne toscane si trovavano sommerse da molti metri di acqua salata. La scelta del luogo non era stata casuale perché, poco tempo prima, durante una ricerca resa possibile da un’autorizzazione fornita dalle Autorità competenti per la tutela dei Beni Culturali, avevo riportato alla luce molti resti fossili di pesci e, su richiesta dell'Università di Firenze, avevo organizzato un'uscita con alcuni studenti. Pochi mesi prima, insieme ai soci del Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci, avevo terminato la campagna di scavo della balena rinvenuta sulla collina nei pressi di Castelfiorentino e, dal giorno successivo, mi ero adoperato per recuperare pesci intrappolati dal tempo negli strati argillosi della campagna senese. Non si trattava di pesci comuni, ma di qualcosa di insolito che avrebbe contribuito a cambiare le conoscenze sull'antico mare tirrenico che milioni di anni prima bagnava quel tratto di provincia toscana. La sera arrivai al Museo di Badia a Settimo con quell'insolito oggetto a tre punte, consapevole di non averlo mai visto nei pesci o nei rettili, fossili o viventi. Un vero rompicapo per chi come me si era da poco affacciato ad una finestra la cui vista mostrava un mare nascosto e dimenticato. Un mare lontano nel tempo. Riposi quell'oggetto fra i resti dei pesci fossili raccolti in passato: probabilmente si trattava di un dente, ma non sapevo a che tipo di pesce potesse appartenere. La mia ricerca si era indirizzata sugli squali, ma la particolare forma a tre punte non mi conduceva a nessun dente di pescecane. Se non si trattava di uno squalo, probabilmente doveva trattarsi di un pesce teleosteo (i teleostei sono i pesci provvisti di scheletro osseo, in contrapposizione ai condroitti - razze e squali - che presentano uno scheletro interamente cartilagineo). Nonostante dedicassi molto tempo alla ricerca sui testi scientifici, le domande non trovarono risposte e quello strano oggetto fu ben presto accantonato e lasciato ad accumulare su di sé strati e strati di polvere. Rassegnato lo riposi, ignaro del fatto che quel gesto fosse già stato compiuto in passato, ma non potevo saperlo! Trascorse qualche tempo e la mia passione per gli squali fossili prese sempre più campo: questo mi spinse ad acquistare alcuni libri allo scopo di conoscere le specie viventi, specie che avrei potuto comparare con quelle che abitavano la Toscana milioni di anni fa. Girando per le campagne un tempo sommerse dal mare, mi resi conto che gli agenti atmosferici avevano eroso e modellato i fondali marini del passato e, tornando a quel piccolo mistero affiorato dalle argille senesi, lo vedo oggi come una flebile fiammella che avrebbe fatto piena luce su strani eventi accaduti nel corso degli ultimi 130 anni. Tornai più e più volte a visitare il sito nella speranza di trovare altri indizi riconducibili a quello strano oggetto, ma va considerato che visitai il luogo con l'occhio di chi non aveva ancora compreso la vera natura di ciò che stava cercando. Ma era solo questione di tempo! Il giorno del mio trentanovesimo compleanno rientrai in casa dopo il lavoro, e passando davanti al mobile del soggiorno, notai subito un pacchetto regalo, la cui forma lasciava intuire che al suo interno si trovassero alcuni libri. Preso da inarrestabile curiosità tolsi il nastro e scartai il pacchetto. Strappando un lembo di carta mi fu subito chiaro di cosa si trattasse: la mascella di un grande pescecane faceva da copertina ad un libro sugli squali attuali. Insieme c'era anche un volume sullo squalo bianco: quest'ultimo era meno illustrato, perciò lo tralasciai e iniziai a sfogliare il primo, ampiamente corredato di disegni e foto a colori. 14 Gli squali Le prime pagine parlavano di queste straordinarie creature presenti ormai da oltre 350 milioni di anni. Gli squali più antichi, già molto simili agli attuali, comparvero nei mari della Terra molto prima dei grandi dinosauri. Questo non vuol dire che gli squali di oggi siano primitivi o poco evoluti, al contrario significa che i loro predecessori erano già adattati alle condizioni ambientali in cui vivevano e che la loro morfologia gli ha permesso di sopravvivere ai continui cambiamenti che si sono realizzati nel corso delle ere geologiche. Per questo motivo, la pressione della selezione naturale non ha agito più di tanto sulla loro evoluzione conservando la struttura di base. Insomma, il modello iniziale era già così perfettamente adeguato alla vita acquatica che non ci sono grandi differenze tra gli squali moderni e i loro antenati. Poiché non possiedono una vera e propria struttura ossea, ma uno scheletro composto da cartilagine, degli squali non resta quasi niente dopo la morte. Al mondo se ne conoscono pochissimi reperti, interi o parziali, che fanno parte di una casistica del tutto eccezionale. In genere la parte organica si decompone rapidamente lasciando soltanto i denti, costituiti da smalto e dentina. I denti degli squali sono molto diversificati: si distinguono per forma tra inferiori, superiori, laterali e centrali, inoltre variano leggermente in base al dimorfismo sessuale (la differenza morfologica fra individui appartenenti alla medesima specie, ma di sesso differente). Proprio per questo i denti sono talmente diagnostici da permettere, eccetto in alcuni casi, di individuare la specie di appartenenza e la posizione nella mascella. La mascella, anch'essa composta da cartilagine, ospita molte file di denti che vengono sostituiti continuamente come se si trovassero su un nastro trasportatore sempre in movimento verso l'esterno. I denti, attaccati alla mascella tramite uno strato di tessuto connettivo, vengono sostituiti e rimpiazzati costantemente nell'arco di tutta la vita. Questo meccanismo consente agli squali di avere le file anteriori sempre in perfetta funzionalità offensiva. A molti potrebbe sembrare strano, ma è interessante sapere che alcune specie di squali cambiano la loro dentatura sostituendo fino a 20.000 denti per ciascun esemplare nel corso di tutta la loro esistenza. Proprio questo fattore straordinario permette ai paleontologi di ritrovare questi “oggetti smarriti” sotto forma di fossili. Tuttavia, solo una esigua parte di questa enorme quantità di denti si conserva a causa dei vari fattori distruttivi e va ricordato che, in alcuni casi, questi reperti sono diluiti in una grande quantità di sedimento da renderli veri e propri aghi in pagliai giganteschi. La fossilizzazione è un processo che richiede determinate condizioni ambientali, quali un rapido seppellimento in condizioni anossiche, cioè prive di ossigeno, affinché l’oggetto possa subire una trasformazione del materiale che lo costituisce e possa così conservarsi per milioni di anni. E questo non sempre accade. Sfogliando le pagine del libro mi soffermai su quella dedicata al grande Carcharocles megalodon, un enorme squalo comparso nei mari della Terra intorno a 22 milioni di anni fa: un corpo preceduto da fauci talmente possenti da spezzare la colonna vertebrale delle balene con un solo morso. 16 Giganteschi denti affilati come rasoi ed una stazza tale da far rabbrividire anche il più grande carnivoro che abbia mai calpestato la terra o nuotato nelle primordiali acque del nostro pianeta. Ma uno squalo così grande, scomparso non più di 2 milioni di anni fa, non seppe sopravvivere ai cambiamenti climatici e la scarsità di cibo lo portò alla progressiva estinzione lasciando solo i denti fossili a testimonianza del più grande predatore mai vissuto in passato. Lessi che, seppure il temibile squalo fosse estinto, non si poteva mettere fine alla controversa discussione tra gli studiosi. Il megalodon, secondo alcuni, dovrebbe essere inserito nel genere Carcharodon, ovvero nello stesso genere a cui appartiene anche lo squalo bianco. Tuttavia, altri biologi ritengono che la somiglianza tra i denti del megalodon e quelli dello squalo bianco sia soltanto il frutto di una convergenza evolutiva non dovuta ad un legame genetico diretto. Nonostante l'indiscussa appartenenza di entrambi all'ordine dei Lamniformes, lo squalo bianco sarebbe più strettamente imparentato con il progenitore del mako, l'Isurus hastalis e il megalodon andrebbe assegnato al genere Carcharocles. L’Isurus hastalis, oggi estinto, doveva essere morfologicamente simile al moderno squalo bianco, ma si differenziava per il tipo di dentatura. I denti dell’Isurus hastalis presentavano un filo liscio e tagliente, mentre il moderno squalo bianco, seppur mantenga similitudini nella forma del dente, ancora oggi è caratterizzato da una lama seghettata capace di lacerare le carni delle sue vittime. Probabilmente questo tipo di cambiamento permise di migliorare ulteriormente una macchina già quasi perfetta e offrì nuove possibilità di adattamento che hanno consentito allo squalo bianco di divenire il più grande pesce carnivoro esistente sul nostro pianeta. Affascinato dal libro continuai a scorrere le pagine e mi soffermai su quella che parlava della pelle degli squali. La carta vetrata che conosciamo oggi è soltanto una copia della pelle di squalo. Erano soprattutto i falegnami di un tempo che cercavano di procurarsi questo prezioso materiale, chiamato zigrino, per far fronte alla lavorazione del legno. Se strofinata in un senso, i minutissimi denti lavorano come una grossa raspa, mentre nel senso inverso, sanno levigare con finezza microscopica. Si narra che un pescatore di squali raccontasse che per ripulire l'esterno di un'imbarcazione sarebbe bastato tenerla per qualche ora in una piscina colma di squali catturati: incrostazioni, alghe, vernice e balani sarebbero stati grattati via completamente dallo sfregarsi degli squali contro la chiglia, fino a mettere a nudo il legno originale. 20 Parlando di pesci è abitudine comune affermare che la loro superficie corporea è ricoperta da “squame”. Troppo spesso il linguaggio corrente ci spinge ad utilizzare parole non associate alla vera natura delle cose. Parlando di squame, bisogna sapere che queste sono tipiche dei rettili (serpenti, coccodrilli, ecc.) e che sono di origine epidermica, ovvero dello strato più esterno della cute. In sostanza, la pelle dei pesci non è ricoperta da squame, ma da scaglie ossificate (strutture di origine dermica) riferibili ad uno strato più profondo della cute. La pelle degli squali, come la maggior parte dei pesci, è ricoperta anch’essa da scaglie che vengono chiamate placoidi o denticoli dermici. Sembra che queste strutture si siano evolute negli squali primitivi e siano rimaste pressappoco invariate negli squali moderni. La struttura dei denticoli è costituita da smalto e dentina: di fatto si tratta di veri e propri denti in miniatura. Poiché mantengono le stesse caratteristiche dei denti possono fossilizzarsi e dato che la forma varia da specie a specie, sono sovente usati come chiave per l'identificazione tassonomica (criterio con cui si ordinano gli organismi in un sistema di classificazione). La maggior parte delle scaglie punta verso la parte posteriore dell'animale, cosicché accarezzare uno squalo dalla testa alla coda genera una sensazione analoga a quella prodotta da un corpo liscio e vellutato. Soltanto una carezza nel senso opposto, dalla coda verso la testa, rivela la natura ruvida della pelle, simile alla carta abrasiva. 21 Affascinato dalle tante informazioni ricavate dalla lettura, quasi non feci caso che fosse trascorsa oltre un'ora e quindi riposi il libro fra i pochi volumi che facevano parte della mia modesta libreria. Era venerdì sera e vista l'ora tarda dovevo dedicarmi a programmare l'itinerario del giorno successivo, dato che il sabato e la domenica erano da tempo i giorni dedicati alla ricerca degli squali fossili sul territorio toscano. Alla scoperta di nuovi affioramenti La mattina seguente, percorsi molti chilometri da Firenze e mi ritrovai in una zona mai perlustrata in precedenza. L'argilla attaccata agli stivali come colla appiccicosa, rendeva il cammino difficile e i calanchi, erosi dall'acqua piovana, si celavano fra il passato e il presente dell'impenetrabile vegetazione. Le informazioni su dove recarmi le avevo ricavate grazie alla lettura di alcune carte geologiche. Consultandole, mi ero reso conto che in una determinata zona dell'entroterra toscano avrei potuto trovare dei sedimenti marini che risalivano a 5 milioni di anni fa. Quel giorno stavo camminando fra le colline della Val d'Orcia e, prima di raggiungere il punto prefissato, immaginavo le sagome degli squali che nuotavano sopra la mia testa: una visione a monito della loro lontana esistenza. Pensavo alle specie che nei millenni precedenti erano passate da quel punto perché queste mi avrebbero fornito una fotografia del passato. In base a ciò che avrei potuto raccogliere (mi riferisco ai loro denti fossili) sarei stato capace di formulare ipotesi sul tipo di ambiente marino che avrei trovato milioni di anni prima: una scena del crimine dove ogni protagonista avrebbe lasciato un biglietto da visita a testimonianza del proprio passaggio. Il punto da perlustrare lo avevo notato percorrendo la statale con la mia auto. Giunto sul posto iniziai a cercare e ben presto, sulla base di ciò che stavo osservando, mi resi conto di calpestare sedimenti argillosi potenzialmente ricchi di reperti fossili. Le informazioni ricavate erano straordinarie e raccogliendo un oggetto di forma triangolare dissi: “Eccezionale, si tratta di un dente superiore di Carcharhinus obscurus”. 24 Questo tipo di squalo, meglio conosciuto come “scuro” a causa del suo colore, fu descritto in prima analisi dal naturalista francese Charles Alexandre Lesueur nel 1818, in una relazione pubblicata sul “Journal of the Academy of Natural Sciences of Philadelphia”. Dapprima erroneamente inserito nel genere Squalus, fu successivamente stabilita la sua appartenenza al genere Carcharhinus. Giustamente riferito alla famiglia Carcharhinidae, è uno squalo che vive nelle acque tropicali e caldo-temperate di tutto il mondo. Un superpredatore che abita la zona dalla costa sino alla piattaforma continentale esterna e le acque pelagiche circostanti. Probabilmente di dimensioni medie inferiori rispetto al passato a causa della pesca intensiva, ancora oggi misura oltre 4 metri di lunghezza e 350 kg di peso. Una massa dalla potenza idrodinamica capace di catturare pesci ossei, pesci cartilaginei e cefalopodi, ma anche crostacei, stelle marine, tartarughe marine, mammiferi marini, carogne e rifiuti. Anche se avevo letto che non era potenzialmente pericoloso per l'uomo, dato che gli attacchi registrati erano scarsi, nutrii comunque un senso di rispetto verso quella creatura passata di lì milioni di anni prima. La sua presenza in quel luogo mi fece capire quali forze dovevano essere entrate in gioco per sollevare un fondale sommerso, fino a più di 500 metri sul livello del mare. Ciò che vedevo intorno a me era quasi un paesaggio surreale dove la natura mostrava la sua forza e mi faceva capire quanto l'uomo sia inerme di fronte ai continui cambiamenti del nostro pianeta. Camminavo sul fondale di un mare tropicale paradossalmente posizionato nel cuore della Toscana. I pensieri continuavano a frullarmi per la testa, le prime ipotesi si facevano largo e l'immagine sfocata diventava sempre più nitida, lasciando intuire cosa avrei potuto trovare da lì a poco. Al termine di un solco eroso dal passaggio delle acque piovane, delicatamente accantonato ai margini della spianata, fui attratto da una forma insolita. Mi avvicinai e, con grande stupore, notai che stavo raccogliendo il dente fossilizzato di un grande spazzino del mare. Lo squalo tigre. 25 Conosciuto nel mondo scientifico come Galeocerdo cuvier, fu descritto da François Péron e Charles Alexandre Lesueur nel 1822: questo squalo appartiene alla famiglia Carcharhinidae ed è l'unico riferibile al genere Galeocerdo. Principalmente diffuso nelle acque costiere dei mari tropicali, questo squalo può raggiungere grandi dimensioni. Le femmine, in particolare, possono superare i 6 metri di lunghezza e la tonnellata di peso. Il suo corpo, slanciato e affusolato, non esalta soltanto le qualità di ottimo nuotatore, ma anche quelle di grande opportunista. Durante il Pliocene, infatti, l'abbondanza di prede dovuta alla presenza di varie specie di mammiferi marini, soprattutto sirenii (antenati degli attuali dugonghi), lo attirava in aree ristrette dove il cibo non scarseggiava e gli permetteva di nutrirsi con estrema facilità. Frequenti sono i denti rinvenuti sulle carcasse dei cetacei e dei mammiferi marini scoperti in passato nei sedimenti pliocenici toscani. Questa tipologia di squalo, per quanto abbia potuto osservare negli strati fossiliferi, non si trova in zone geologicamente più recenti, ma solo in quelle riferibili al periodo dell'ultima grande espansione del Mar Mediterraneo, avvenuta nel Pliocene inferiore. Tenendo il dente fra le mani mi accorsi che la sua colorazione aveva assunto una tonalità di colore arancio, questo era dovuto al fatto che il terreno in questione era ricco di minerali che non avevano soltanto modificato il colore, originariamente bianco, ma anche cambiato la struttura da parzialmente organica a interamente minerale mantenendo la forma originale. 26 La giornata era iniziata nel migliore dei modi: subito due ritrovamenti importanti, forse dovuti al fatto che quel giorno le nuvole, coprendo i raggi solari, permettevano di notare le forme al suolo evitando fastidiosi riflessi di luce. Le condizioni ideali per cercare i denti fossili degli squali preistorici. Camminavo a fatica fra i continui saliscendi delle colate argillose, rese ancor più viscide dalle piogge degli ultimi giorni. Gli stivali appesantiti dal fango non facilitavano il percorso, ma fortunatamente venivano parzialmente ripuliti sfregando sugli sterpi che si trovavano fra un calanco e l'altro. Giunto alla base di una formazione, fra i gusci di conchiglie, notai una forma talmente inequivocabile che mi ricondusse alla copertina del libro sfogliato il giorno prima: stavo per raccogliere un grande dente fossile di Isurus oxyrinchus. Quando paragoniamo la velocità di un essere umano al mondo animale, possiamo associarlo all'agilità di una gazzella o allo scatto fulmineo di un ghepardo; e spesso, per far riferimento ad abili nuotatori, diciamo: “Quel tizio nuota come un pesce”. Se sulla terraferma il paragone è più che lecito, nell'acqua non esiste animale migliore cui associare un super nuotatore al grande squalo mako. Isurus oxyrinchus, meglio conosciuto come squalo mako, fu descritto da Constantine Samuel Rafinesque - Schmaltz nel 1810: appartiene alla famiglia Lamnidae ed il suo habitat naturale è costituito dalle acque tropicali e subtropicali. È uno squalo piuttosto aggressivo e si tratta dello stesso squalo che ispirò Ernest Hemingway nel romanzo “Il Vecchio e il Mare”. Proprio quello che alla fine del racconto si mangiò il frutto di tre giorni e tre notti di estenuante lotta fra un vecchio pescatore ed un grande Marlin blu. Uno squalo talmente idrodinamico da poter raggiungere i 70 km/h di velocità, riuscendo a percorrere grandi distanze in pochissimo tempo: fonti attendibili riferiscono che un esemplare, provvisto di radiotrasmittente, riuscì a percorrere 2.128 km in soli 37 giorni. Uno squalo del genere non avrebbe avuto problemi a spaziare fra le acque che sommergevano le provincie di Livorno, Pisa, Firenze, Siena, Grosseto e le grandi isole del Mar Mediterraneo preistorico. 28 Una specie che ancora oggi può raggiungere i 4 metri di lunghezza nelle femmine e i 3 metri nei maschi, con un peso massimo che si aggira intorno ai 500 kg. Quel nuovo ritrovamento mi riempì di soddisfazione perché confermò la teoria sulla presenza di squali di acque temperate, concentrati in un habitat marino con vista a 360 gradi sui campi e sui vigneti della Val d'Orcia senese. Squali che, in seguito ai cambiamenti climatici e ai fenomeni intercorsi negli ultimi due milioni di anni, avrebbero progressivamente abbandonato il Mar Mediterraneo o limitato il loro areale a zone situate a latitudini più congeniali al proprio adattamento naturale. Cercare in quel luogo mai visitato in precedenza era così affascinante che quasi non feci caso al calar della sera; infine, molto lentamente, mi diressi verso la macchina con il mio prezioso carico di informazioni. Mentre si allungavano le ombre lasciai l'onirico paesaggio con la convinzione che i denti di quelle antiche creature del passato erano lì, in quel preciso istante, non per finire legati come un ciondolo ad una collanina, ma affinché li studiassi e, nel tempo, raccontassi la storia del loro passaggio. La ricerca del metodo Le giornate trascorrevano normalmente e la mia passione per i fossili mi spingeva ad ampliare gli studi sugli squali che, con tenacia e dedizione, riuscivo a trovare nella campagna un tempo sommersa dal mare. Catalogavo ciò che avevo recuperato in precedenza e basandomi sugli esemplari viventi, riuscivo a capire quante specie di pescecani vivevano in Toscana nel periodo compreso fra 5,332 e 2,588 milioni di anni fa. Il clima in passato era molto diverso da quello attuale e ne avevo le conferme non solo dai denti, ma anche dai molluschi di rara bellezza che attualmente non si trovano più nel bacino del Mediterraneo. La maggior parte dei reperti raccolti, squali o molluschi, erano da riferirsi ad esemplari che vivevano in prossimità della costa, dato che la regione era caratterizzata da un arcipelago di isolotti a carattere tropicale. Ero talmente preso da questa passione che trascorrevo le serate sfogliando i lavori dei naturalisti del passato in cerca di tavole che mi aiutassero ad identificare i reperti. Internet mi dava la possibilità di accedere a molte informazioni ma, qualunque cosa cercassi, non portava i frutti sperati perché mancavo di metodo; per questo mi soffermai a leggere un articolo che mi avrebbe aiutato in futuro. Nel 1735, Carl Nilsson Linnaeus, un medico e naturalista svedese, noto in Italia come Carlo Linneo, ideò un nuovo metodo per classificare gli esseri viventi. Il concetto si basava sul principio di riunire le specie in insiemi e sottoinsiemi (dalla specie fino a genere, famiglia, ordine, classe, phylum, regno) in base alle caratteristiche morfologiche condivise. L'idea della condivisione di caratteristiche comuni, in seguito perfezionata dalle teorie evoluzioniste proposte da Charles Darwin, è oggi attribuita al fatto che queste sono ereditate da un antenato comune. La portata dell’innovazione fu enorme. L’Ottocento fu il secolo che vide crescere in modo esponenziale l’interesse per le Scienze Naturali, con un grande numero di illustri naturalisti. Ci fu un gran fiorire di specie nuove, che vennero costantemente scoperte e descritte. Tra i tanti animali che iniziarono a destare l’interesse degli studiosi ci furono anche gli squali. Sulla base di queste nuove informazioni, capii che era fondamentale distinguere prima il genere per poi spostare l'attenzione sulle specie attualmente viventi e su quelle vissute in passato. Roberto Lawley Il mistero svelato Ripresi in mano il libro ricevuto in regalo e iniziai a cercare quali fossero i primi squali in ordine sistematico. Trovata la pagina, appurai che questa era riferita alla famiglia Chlamydoselachidae: esseri primordiali particolarmente vicini ai più antichi selaci vissuti in passato. Per un attimo non feci caso alle informazioni raccolte perché la mia attenzione venne immediatamente catturata dal disegno posto al margine dello squalo chiamato Chlamydoselachus anguineus. Probabilmente, in netta contrapposizione a ciò che era accaduto in passato, la vista di quel dente cambiò la sorte degli eventi futuri riportandomi nel preciso istante in cui raccolsi l'oggetto misterioso posto ai piedi del Professore ordinario. Quell'insolita forma a tre punte, grossolanamente disegnata, mi permise non solo di capire la sua vera natura, ma anche ciò che era accaduto in passato. Un naturalista conosciuto con il nome di Roberto Lawley, vissuto 130 anni prima, era di colpo entrato nella mia vita raccontandomi una storia affascinante, a molti sconosciuta. Nel 1857, proprio lui, un uomo di nobili natali che fino alla soglia dei 40 anni si era dedicato con ardore agli studi rurali e artistici, decise di estendere il suo campo di interesse anche agli studi scientifici. A quel tempo le ricerche sul territorio erano più semplici dato che paesi e coltivazioni erano meno estesi; perciò la vastità degli affioramenti fossiliferi permetteva di recuperare materiale in gran parte ignorato o sconosciuto. I resti fossili degli antichi abitanti marini non destavano interesse, se non in coloro che avevano intrapreso lo studio delle creature del passato. I naturalisti dell'epoca non erano molti e questi studiosi, in gran parte benestanti, godevano del favore dei contadini che segnalavano o vendevano reperti a questi signori, antesignani della paleontologia moderna. Si racconta che Roberto Lawley avesse una squadra di ragazzini istruiti a perlustrare gli affioramenti delle colline pisane in cerca dei reperti fossili: reperti che venivano regolarmente pagati dal nobile signore con poche monete dell'epoca. In contrapposizione alla più facile ricerca sul campo, per cercare un libro scientifico occorreva invece spostarsi in carrozza o a cavallo per molti chilometri, raggiungere le maggiori biblioteche dell'epoca, percorrere corridoi pieni di scaffali e trovare il prezioso volume grazie al quale comparare il reperto fossile con le specie viventi, ammesso che queste fossero già state descritte in precedenza. Oggi sarebbe un lavoro impensabile: solo un vago ricordo del passato. Nonostante la scomodità dettata dai tempi, ma sostenuto da grandi possibilità economiche, Roberto Lawley creò una propria biblioteca, acquistò libri, pubblicazioni e iniziò a mettere insieme una collezione di gusci di conchiglie viventi. La sua raccolta annoverava un gran numero di gasteropodi terrestri e marini vissuti in epoca a lui contemporanea (gasteropodi: classe di molluschi che comprende numerose specie terrestri, marine e di acqua dolce, tra cui le chiocciole e le lumache). I gasteropodi viventi gli permisero di coltivare l'interesse verso i fossili, aprendogli un mondo sconosciuto, ma facilmente reperibile dato che i suoi possedimenti terrieri si trovavano a Montecchio presso Pontedera, in provincia di Pisa. A quel tempo gran parte della zona meridionale della provincia pisana era caratterizzata da un'incolta vastità di sedimenti marini che risalivano al Pliocene. Legami di amicizia con altri benestanti dell'epoca, soprattutto “nobili”, gli permisero di perlustrare le altrui proprietà alla ricerca dei fossili; terreni che spesso non erano dediti all'agricoltura, ma naturalmente erosi in seguito all’azione degli agenti atmosferici. Con il passare del tempo il suo interesse per la paleontologia lo coinvolse a tal punto che non si limitò a raccogliere solo conchiglie, ma qualsiasi forma di testimonianza di organismi marini vissuti quando le colline toscane erano sommerse dal mare. Pesci, denti di squali e anche resti di vertebrati fossili. 37 Un giorno, mentre Lawley perlustrava gli affioramenti fossiliferi di Orciano Pisano, analogamente a ciò che sarebbe accaduto a me 126 anni dopo, ma nei pressi di Castelnuovo Berardenga, notò per terra uno strano oggetto che lo lasciò perplesso: anche lui lo raccolse consapevole di non aver mai osservato prima quella strana forma a tre punte. In seguito a nuove ricerche sul territorio la sua collezione si arricchì di altri otto esemplari simili, anche se più o meno mutilati, ma tutti ugualmente conformati. Nel 1876 Lawley descrisse le caratteristiche di quei reperti da lui rinvenuti e ne pubblicò i disegni in un lavoro dal titolo: “Nuovi studi sopra ai pesci ed altri vertebrati fossili delle colline toscane”. Lo studioso terminò la sua accurata descrizione con queste testuali parole: “Mi provengono tutti da Orciano, dove sembrano rarissimi. Per quanto io abbia osservato, non mi è stato possibile di vedere un dente simile ne’ viventi, né rappresentato in disegno né di pesci né di rettili”. Roberto Lawley, pur non conoscendone la natura, per primo raffigurò e descrisse lo strano dente tricuspidato ignoto agli scienziati dell'epoca, ma gli eventi futuri che si sarebbero verificati da lì a poco, gli avrebbero riservato un triste destino. Nella mia testa le domande iniziarono a farsi largo, pensavo a che fine avessero fatto i denti da lui recuperati, dato che non li avevo mai visti sui libri a carattere tematico. Ciò che restava di quella fantastica scoperta erano solo disegni. C'era qualcosa che non quadrava e quindi cercai di approfondire le mie conoscenze su questa strana vicenda che, grazie a quel dente ritrovato nella campagna senese, mi legava indissolubilmente al passato. Iniziai a cercare notizie partendo dai libri e, come una spugna, assorbivo ogni tipo di informazione. 39 La funesta verità degli eventi Tra le pagine mediatiche trovai una descrizione di Camillo Gentiluomo, amico e collega di Roberto Lawley, che pubblicando un articolo sul Bullettino della Società Malacologica Italiana raccontava la funesta verità degli eventi. Legato da una forte stima nei confronti di un uomo straordinario, con il linguaggio dell'epoca trascrisse le sensazioni vissute e ci lasciò queste parole in ricordo di un caro amico prematuramente scomparso. “La sera del 9 Luglio 1881 si spengeva in Montecchio presso Pontedera (Toscana), una preziosa esistenza. Roberto Lawley, in quel giorno istesso, nella floridezza della sua salute, nel mentre attendeva al disbrigo delle sue faccende, colto da improvviso malore, ne restava vittima dopo sole tre ore, inani ed inefficaci affatto essendo riusciti tutti i soccorsi della scienza apprestatigli, che pure in larga copia e colla sollecitudine più unica che rara, gli vennero forniti dai medici accorsi. Impossibile narrare lo sgomento oltreché della famiglia, che ben si comprende, di tutti coloro che lo conoscevano. Egli era l'amico di tutti i buoni, il conforto dei poveri, il protettore di quegli che a lui dirigevasi. Nessuno in sul momento volea prestar fede alla funesta verità, che ratta qual folgore si muoveva da bocca a bocca e diffondevasi, lasciando nella costernazione, quanti ne venivano a cognizione” 40 Dopo l'ancor più lunga lettura mi resi conto che i tasselli del puzzle erano disseminati non solo negli angoli della bibliografia, ma anche nei vari musei che conservavano la sua favolosa raccolta. Ma, con grande disappunto, appurai che gran parte dei fossili da lui raccolti erano andati dispersi e che i denti a tre punte non erano più visibili perché, insieme alla passione di una vita, erano svaniti dopo la sua morte. Fra gli angusti cassetti dei musei universitari, era presente solo una minima parte di ciò che aveva recuperato con costanza e dedizione nei sedimenti marini delle colline toscane. Notizie non ufficiali riportano che gran parte del materiale conservato presso Montecchio fu sottratto da un Ufficiale dell'esercito Tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale: accuratamente imballato e spedito in Germania come tanti altri tesori ed opere d'arte della nostra Nazione. 41 Quello che avevo fra le mani era l'unico dente noto di Chlamydoselachus affiorato in Toscana 126 anni dopo la morte di Roberto Lawley. Dovevo saperne di più! Poiché conoscevo il Dr. Menotti Mazzini, Conservatore del Museo di Storia Naturale di Firenze, mi recai da lui chiedendo di esaminare il materiale raccolto da Lawley alla fine del 1800. Menotti, come sempre, si rese disponibile: questa era la formula vincente per un'ottima collaborazione fra amatori e paleontologi. In un cassetto trovai alcuni denti provenienti da Orciano Pisano. Molti erano riferiti a specie comuni che avevano un valore storico, ma non scientifico, dato che per molti di questi non era riportato l'esatto luogo di ritrovamento. Non avendo una collocazione stratigrafica, i reperti, i denti, erano importanti fino ad un certo punto perché permettevano soltanto di effettuare la revisione della nomenclatura. Molti di questi non erano nemmeno determinati. Non esisteva, almeno per la Toscana, un rapporto diretto fra i denti di Chlamydoselachus e il sedimento dove erano stati raccolti. 42 Venni via dal Museo fiorentino demoralizzato, ma felice per aver avuto la possibilità di leggere alcuni testi originali scritti a china del grande naturalista vissuto in Toscana alla fine del XIX secolo. Nonostante avessi osservato frammenti di Storia Naturale, taluni più o meno conservati, non avevo trovato l'insieme dei dati raccolti in una vita e per questo continuai a documentarmi. Un giorno, in seguito a precedenti collaborazioni intercorse con studiosi del settore, venni a conoscenza che presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa lavorava un dottorando che conosceva lo squalo in questione e, per questo motivo, gli portai il dente trovato nei sedimenti di Castelnuovo Berardenga affinchè lo esaminasse. Lui mi confermò che si trattava di quella tipologia di animale, ma non poteva approfondire l'argomento perché era già impegnato con la tesi ed altri lavori scientifici. Mi lasciò andare, inconsapevole di avere avuto fra le mani la chiave di un piccolo tesoro affiorato dal passato. Le notizie mi portarono ad altri Musei universitari, ma nessuno di questi conservava i denti di quello strano squalo simile ad un serpente. Erano andati perduti per sempre! La chiave senza serratura Le acque piovane continuavano a sciogliere i sedimenti marini e durante il fine settimana, mi recavo in visita ai luoghi più adatti alla ricerca dei denti fossili. Marco Zanaga, paleontologo del Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci, da sempre amico e compagno di ricerche sul territorio, condivideva con me la passione per gli squali e questo ci spingeva a perlustrare nuovi e vecchi giacimenti marini. Nel maggio 2003, reduci dall’eccezionale ritrovamento di un delfino fossile nei pressi di Pienza (reperto conservato nelle sale del Museo del Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci) avevamo deciso di visitare nuovamente il sito di Castelnuovo Berardenga: una spianata argillosa situata a Sud-Est di Siena. Si, proprio il medesimo sito dove due anni prima avevo casualmente raccolto il dente dello squalo serpente. Quando arrivammo sul posto, la luce solare si rifletteva sull'argilla schiantata dall'intenso calore e molte di quelle forme, celate dal tempo, avevano da poco abbandonato l'oscurità dopo un sonno lungo milioni di anni. Iniziammo a cercare, ma le condizioni non erano ideali a causa dei fastidiosi riflessi solari. Marco iniziò a perlustrare la zona col suo lento incedere e dopo poco più di mezz'ora, dall'alto della spianata, lo sentii chiamare facendomi cenno di raggiungerlo: conoscendolo, sapevo che aveva attirato la mia attenzione per chiedermi un parere su ciò che aveva trovato. Giunsi da lui e nella sua mano, seppur mutilato, vidi un altro dente di Chlamydoselachus. Era la prova plausibile della presenza dello squalo preistorico nella campagna senese. Come Roberto Lawley, ma oltre un secolo dopo, stavamo riportando alla luce un mistero mai svelato delle Scienze Naturali del nostro territorio. Il dente era sprovvisto di una cuspide, ma facilmente identificabile grazie all'inconfondibile forma a tre punte. Adesso la chiave del mistero aveva una forma ben definita; tuttavia non sapevamo quasi niente su questa tipologia di animale e quindi lasciammo il sito in cerca della “serratura”. L'istinto ci indicava la strada e come in un gioco del destino, niente ci avrebbe allontanato dagli eventi futuri. Continuammo a cercare ogni piccola informazione. Dall'altra parte del mondo Un mattino del 1884, dopo soli 3 anni dalla morte di Lawley, un tranquillo pescatore giapponese, durante una battuta di pesca in mare, vide all’improvviso, come se fosse appena affiorata dagli abissi, una strana creatura nuotare fra le onde increspate dal vento. Dopo un primo ragionevole momento di paura raccolse un po’ di coraggio, arpionò quello strano “mostro” e lo caricò sulla sua barca. In effetti l’aspetto dell’animale era dei più inquietanti: un’anguilla gigantesca con la testa da pescecane, l’occhio agguerrito, l’enorme bocca piena di denti affilati e sfrangiati come coralli molto taglienti. Una volta giunto a riva, la notizia del mostro marino si diffuse rapidamente tra i pescatori. Quella strana creatura venne consegnata agli esperti della Marina giapponese, ma gli stessi studiosi brancolavano nel buio. Sembrava una sorta di fossile vivente uscito dalla preistoria. Quello che gli studiosi dell’epoca non sapevano era che questa rara creatura vivesse ad oltre 600 metri di profondità. Gli studiosi giapponesi dovettero quindi rivolgersi a scienziati stranieri per risolvere l’enigma. Venuto a conoscenza di tale rinvenimento, un famoso ittiologo americano chiamato Samuel Garman (1846-1927) esaminò l'esemplare e dopo averlo osservato e studiato istituì un nuovo genere di squalo fino ad allora sconosciuto. Lo statunitense, che viveva dall'altra parte dell'Oceano Atlantico, non era a conoscenza dei denti fossili scoperti da Lawley alcuni anni prima. Nonostante l'istituzione di questa nuova specie di squalo, i denti trovati in Toscana non avevano ancora un nome. 47 Nel 1887, dopo sei anni dalla morte di Roberto Lawley e solo tre dall'istituzione del Chlamydoselachus anguineus, finalmente, i denti scoperti del naturalista italiano trovarono sul loro cammino un nuovo studioso appassionato di squali. Mentre stava svolgendo ricerche sulla nuova specie da poco descritta da Samuel Garman, al londinese James W. Davis capitò tra le mani, quasi per caso, il lavoro pubblicato una decina di anni prima dal naturalista toscano R. Lawley, “Nuovi studi sopra ai pesci ed altri vertebrati fossili delle colline toscane”. Sfogliando le pagine si accorse che i denti raffigurati non erano stati ancora determinati. Osservando i disegni e leggendo le descrizioni è ragionevole pensare che ebbe un tuffo al cuore. I denti fossili che stava osservando sul lavoro scientifico proveniente dalle colline italiane erano molto simili a quelli della nuova specie di squalo pescato in Giappone. Ben presto, confrontando i disegni dei due studiosi, che prima di lui avevano avuto a che fare con il Chlamydoselachus, si accorse che quella somiglianza non era casuale. Preso dall’emozione per tale scoperta preparò subito una pubblicazione da inviare alla Società Zoologica di Londra. Il 7 maggio 1887 alla redazione della Società giunse il lavoro di Davis che venne pubblicato il 23 maggio 1887. I denti scoperti da Lawley avevano finalmente un nome. Nel lavoro “Note on a fossil species of Chlamydoselachus” James W. Davis affidò le sue osservazioni al mondo scientifico, dedicando allo scopritore Roberto Lawley il nome della nuova specie fossile di squalo: il Chlamydoselachus lawleyi Davis, 1887. Se la scoperta di uno squalo dalle sembianze preistoriche nel Mar del Giappone aveva fatto scalpore, la notizia di una specie fossile appartenente allo stesso genere, trovata tra le colline toscane, quasi dalla parte opposta del globo, si diffuse ancora più rapidamente. Solo un mese più tardi “Nature”, una delle più antiche ed importanti riviste scientifiche esistenti, forse in assoluto quella considerata di maggior prestigio nell'ambito della comunità scientifica internazionale, pubblicò una nota in cui riportava la segnalazione della scoperta del Chlamydoselachus lawleyi. “Tanta roba!!!”, dissi fra me e me! Supportato da una storia così incredibile, avevo intenzione di rendere pubblico il ritrovamento, ma poiché non avevo sostegno scientifico lasciai perdere, dato che poteva essersi trattato di ritrovamenti sporadici. Una cosa la feci: mi ripromisi che sarei tornato a visitare il sito in una giornata piovosa visto che quel giorno il sole impediva di delineare correttamente le forme presenti al suolo. Le cuspidi di quei denti erano molto fini, quasi trasparenti, impercettibili agli occhi distratti di coloro che non sapevano cosa stavano cercando. Nessuno poteva nemmeno immaginare. Una polveriera del sapere era lì in attesa che qualcuno innescasse la scintilla che avrebbe permesso di svelare i misteri su queste antiche creature del passato. 49 La conferma tanto attesa I giorni trascorrevano nella speranza di veder cadere un'abbondante precipitazione e, fortunatamente, a forza di pregare, la pioggia arrivò proprio durante un giorno prefestivo. Il mattino seguente, Marco ed io arrivammo sul posto alle prime luci dell'alba: ricordo che dovemmo aspettare in macchina dato che era ancora troppo presto. Non si vedeva quasi niente. L'impazienza degli attimi precedenti fanno tutt'oggi parte di un ricordo che vorrei rivivere all'infinito. Salimmo la scarpata e giunti sulla sommità, iniziammo a cercare con l'occhio di chi sapeva cosa stava cercando. Non potevamo credere a ciò che vedemmo. I denti di quello squalo abissale erano dappertutto, disseminati in un raggio di oltre 200 metri e su più livelli. Adagiati. Intatti o parziali, fortemente presenti...... come se fossero lì da sempre! Per un attimo, con l'immaginazione, venni catapultato nel Pliocene e vidi gli squali serpente contorcersi nell'oscurità del tempo: spasmi di creature primordiali fluttuanti nell'abisso più profondo che nei millenni sarebbe divenuto terra. Quando tornai in me, capii che soltanto la passione, unita alla costante ricerca dell'impossibile, ci aveva concesso la possibilità di scoprire qualcosa di veramente unico, mai scoperto prima di allora: i denti del Chlamydoselachus e l'esatta collocazione stratigrafica. Una grande responsabilità Nei giorni seguenti capimmo che avevamo una grande responsabilità: eravamo l'ago della bilancia fra la conoscenza ed il possesso indiscriminato dei denti fossili di queste antiche creature. Quel giorno avevamo aperto la porta del tempo ed eravamo divenuti taciti guardiani di un tesoro, un pezzo di Storia Naturale del nostro territorio. Un materiale del genere doveva essere per forza studiato e quindi decidemmo di concentrare le nostre ricerche in quel tratto di mare pliocenico. I giorni successivi trascorsero dedicando molto tempo alla ricerca dei testi scientifici e alle attività sul campo. Non sprecavamo un solo giorno libero senza visitare l'affioramento: feriali o festivi, la nostra attenzione era focalizzata sugli esemplari abissali vissuti in quella zona milioni di anni prima. Ogni volta che visitavamo il sito raccoglievamo sempre più informazioni: resti di pesci, molluschi e otoliti di teleostei (gli otoliti, piccoli sassolini di carbonato di calcio che servono a fornire l'orientamento in base alle cellule sensoriali su cui appoggiano, in paleontologia hanno un ruolo determinante perché grazie alla loro forma solitamente diagnostica si riesce a capire che tipo di pesci si potessero trovare quando l'affioramento era sommerso dal mare). Un giorno, mentre stavo visitando il sito, ormai con l'inseparabile Marco, quasi contemporaneamente fummo attratti da un'insolita forma che non avevamo mai visto prima. Lui mi disse di aver trovato qualcosa di particolare che assomigliava vagamente ad un dente. Io gli feci capire la stessa cosa. Poco più tardi ci trovammo per esaminare ciò che avevamo raccolto. Sul momento non seppi cosa dire, ma quella forma mi ricordava il dente fossile di uno squalo chiamato Centrophorus granulosus. Il centroforo, descritto da Marcus Elieser Bloch e Johann Gottlob Theaenus Schneider nel 1801, è uno squalo appartenente alla famiglia Centrophoridae. Gli esemplari adulti possono raggiunge un metro e mezzo di lunghezza. La scoperta poteva sembrare banale, ma non se associata ai tanti tasselli raccolti nel medesimo sito. Infatti, successivamente, venni ha sapere che il Centrophorus granulosus vive tutt'oggi in acque al di sotto dei 200 metri e fino a profondità maggiori di un chilometro. Questo lasciava intuire la presenza di acque molto profonde nella campagna senese: reminiscenze di un mare dove la luce solare non penetrava lasciando il posto all'oscurità della massa d'acqua. Il fatto era molto strano perché avevo sempre sentito dire che durante il Pliocene le acque toscane fossero poco profonde e che il senese fosse sommerso da 30, forse 50 metri di acqua salata. Le domande iniziarono a susseguirsi ed una di queste era sempre ricorrente: se i pesci fossili che avevo recuperato molti anni prima avessero 53 abitato gli stessi ambienti, sarebbe stato più semplice avere un inquadramento della zona; cercai quindi di identificare alcune delle specie trovate in passato. Molte di queste appartenevano alla famiglia Myctophidae, spesso noti nel linguaggio comune come pesci lanterna, fra cui si annoverano alcuni tra i più comuni e tipici pesci abissali. In effetti, pensandoci adesso, il sovrapporsi di elementi non discordanti faceva pensare a condizioni ideali per ospitare squali e pesci perfettamente adattati alla vita in acque profonde. Ulteriori conferme non tardarono ad arrivare grazie alle specie di squali che vennero raccolti nei giorni successivi. Fra questi spiccavano altri selaci di masse d'acqua tipicamente profonde. Ne ricordo uno molto particolare, non tanto perché viveva fino a 900 metri di profondità, ma per l'aspetto davvero bizzarro. La sua pelle era completamente ricoperta da placche ossee spinose. Uno squalo dal corpo tozzo, cilindrico con il capo depresso e la bocca arcuata tempestata di denti molto particolari. 54 Conosciuto come Echinorhinus richiardii, aveva ceduto il passo a due specie simili chiamate Echinorhinus brucus ed Echinorhinus cookei. Un animale davvero inconsueto, raro e poco conosciuto che fu così descritto da Roberto Lawley nel 1876: “Non ispenderò molte parole nella descrizione di questi denti e di queste placche dermiche perché la sola ispezione dei disegni basta sufficientemente a renderne ragione: perciò prego i miei lettori a volerne fare il confronto con i denti e colle placche della specie vivente. Il non averne mai sentiti citare esempi fossili m'incoraggia a proporre il nome specifico in onore del Celebre Prof. Richiardi, il quale tante volte mi volle aiutare nei confronti dei fossili con gli animali viventi che sono nel Museo di Pisa. Essi provengono da Orciano e da Volterra dalla quale ultima località ebbi tutti i denti che componevano un'intera mascella, ma disgraziatamente per la maggior parte guasti. Esistono pure esemplari al Museo di Firenze ed in quello di Pisa”. 55 Nuova conoscenza ed emozionanti sorprese agevolarono le ricerche dei giorni seguenti offrendo sempre ulteriori incontri con gli squali del passato: i denti a tre punte affioravano naturalmente fra le argille marine come germogli di un lontano passato. Lo specialista Nel novembre 2003, quasi per caso, venni a sapere che si era tenuta una conferenza all'Accademia dei Fiosiocritici di Siena. L'evento era stato organizzato per presentare una mostra temporanea sugli squali del Pliocene senese. Il dispiacere non era determinato dalla mancata partecipazione, ma dal fatto che vi avrei potuto incontrare uno studioso molto speciale. Egli era intervenuto alla manifestazione sulla raccolta di denti fossili di squali presenti nello storico Museo. Per me era un mostro sacro della paleontologia italiana, un vero esperto che avrebbe potuto sposare la nostra causa. Amareggiato per non averlo incontrato personalmente, riuscii comunque ad avere il suo indirizzo di posta elettronica e lo contattai! “Caro Professore, sono venuto a conoscenza che nei giorni scorsi ha partecipato all'evento sugli squali senesi. Da molti anni mi occupo di paleontologia e le vorrei sottoporre del materiale che ritengo interessante. Ho saputo, mi corregga se sbaglio, che lei in passato ha pubblicato dei lavori scientifici sul Chlamydoselachus.” 57 Gentilmente mi rispose di non aver mai effettuato lavori su questo squalo, anche se personalmente, durante le proprie ricerche sul campo, ne aveva trovato traccia nel Pliocene inferiore dell'Emilia-Romagna. Probabilmente non fui capace di documentare esattamente ciò che avevo trovato e quindi ci lasciammo molto cordialmente. Trascorsero alcuni mesi e verso la metà di marzo del 2004, mentre ero in coda alla cassa del supermercato, ricevetti una telefonata dal Prof. Franco Cigala Fulgosi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Parma. Incredulo, passai dal ricordo all'inaspettata sorpresa di risentirlo nuovamente. Alcuni giorni prima, sempre in cerca di risposte, mi ero recato in visita ad una mostra internazionale di fossili frequentata da studiosi del settore. La manifestazione si teneva il sabato e la domenica: io scelsi il primo giorno utile. Avevo portato con me alcuni campioni che avrei mostrato agli esperti per chiedere un parere. Molti di loro, seppur specialisti di squali, non avevano mai visto niente di simile e la notizia fece il giro dei padiglioni tanto da echeggiare anche il giorno successivo; giorno in cui si sarebbe recato in visita il Professore. Una notizia così originale non aveva bisogno di alcun giornale e, per questo motivo, in seguito alle voci circolate, ricevetti la sua telefonata mentre stavo infilando la spesa nelle buste del supermercato. Lui mi disse di aver sentito parlare di questi denti così perfetti e, a tal proposito, confermò che sarebbe venuto a visionare il materiale recuperato nei sedimenti di Castelnuovo Berardenga. Nel frattempo incontrai altri conoscitori di squali, i quali mi avevano parlato del Professore, giudicandolo fra i massimi esperti mondiali del settore. All'inizio, forse presi dall'euforia, decidemmo di effettuare un lavoro con più autori, un progetto ambizioso, ma che sarebbe entrato in conflitto con il pensiero profondo e altamente professionale di Franco Cigala Fulgosi. Una mano ed una mente libera non condizionabili dalle idee e dagli schemi altrui, un personaggio che aveva trascorso parte della vita misurando e catalogando specie di squali catturati dai pescherecci di Mazara del Vallo, un comandante che difficilmente avrebbe deciso di intraprendere un viaggio lontano dal timone della nave. Il primo incontro con il Professore avvenne nelle settimane successive e, da quel preciso istante - ricordo che eravamo a Firenze, alla stazione Santa Maria Novella - si instaurò un rapporto di amicizia che dura ancora oggi. Insieme a Marco, accompagnammo Franco al Museo di Badia dove gli mostrammo i reperti. Affascinato dalla perfezione e dalla quantità del materiale ci disse che era interessato ad effettuare un lavoro scientifico. Da quel giorno iniziarono i sopralluoghi sul posto ed il reciproco scambio di informazioni, gelosamente custodite a protezione di quel sito: noi fornivamo il nostro contributo di notizie e materiale e lui avallava o smontava le teorie formulate. L'insieme dei dati era notevole e tutte le volte saltava fuori qualcosa di nuovo ed interessante. 59 Lo studio procedeva parallelamente alla ricerca sul campo. Franco non perdeva occasione per venire a visitare il sito: non solo libri, ma anche passione per la ricerca proprio come i naturalisti del passato. Nella sua vita aveva disciolto così tanta argilla da “intasare” i tubi di mezza Parma. Non perdeva occasione per portare via dei fusti di sedimento che avrebbe successivamente setacciato alla ricerca di denticoli dermici di squalo. Il materiale ricavato, residuo di centinaia di chili di sedimento, si sarebbe ridotto a pochi grammi pronti per essere osservati al microscopio alla ricerca di impercettibili indizi. I suoi lavori scientifici erano talmente perfetti da essere d'esempio per i futuri ricercatori: un modello da seguire ed imitare. Gli anni a venire furono di grande interesse perché ci permisero non solo di portare avanti il progetto, ma anche di frequentare una persona così speciale. Si era instaurato un rapporto talmente genuino che un giorno Marco ed io fummo invitati a pranzo nella sua casa vicino a Parma. L'affetto che nutriva per gli animali fu da subito chiaro: il giardino era abitato da molte tartarughe sapientemente curate e sul divano del salotto sostava un vecchio gatto che non dimenticherò facilmente. Il suo aspetto lasciava trasparire gli anni vissuti, tanti che non riusciva ad emettere miagolii: la bocca si apriva, ma non si percepiva alcun suono uscire dall'animale ormai profondamente consumato dal tempo. Pochi mesi dopo venni a sapere che il gatto aveva aspettato i suoi padroni di ritorno dalle ferie e il giorno seguente si era adagiato in un angolo della casa in attesa di lasciare coloro che lo avevano accudito per tutta la vita. Franco iniziò a raccontarci molte storie del suo passato: non ci stancavamo mai di ascoltarlo! Storie che potevano sembrare uscite dal capolavoro “Big Fish” di Tim Burton, ma che si rivelarono reali a tal punto che, mentre stavamo discutendo, tirò fuori da un cassetto una cosa molto speciale: la testa mummificata di un Chlamydoselachus anguineus. Non trascorse nemmeno un istante che iniziò a raccontarci come si era impossessato di quell'oggetto tempestato da centinaia di denti acuminati. Mentre si trovava al porto di Lisbona, capitale del Portogallo, girando fra i banchi dei venditori di pesce, notò un bambino giocare con la testa essiccata del preziosissimo squalo. Incredulo, ma consapevole di cosa stava osservando, si avvicinò al piccolo portoghese e, dopo una lunga trattativa, si allontanò da lui con un sorriso stampato in volto, stringendo fra le mani quell'inestimabile testa secca. Affascinato dalla particolare tipologia di squalo, gli chiesi se poteva dirci qualcosa in più su quelle strane creature che un tempo vivevano nelle campagne senesi. 61 Non si lasciò pregare e con chiare parole ci disse quanto segue: il Chlamydoselachus anguineus, Garman 1884, è l'unica specie di squalo appartenente alla famiglia Chlamydoselachidae (oggi sappiamo che nel 2009 Leonard J.V. Compagno descrisse ed istituì una nuova specie chiamata Chlamydoselachus africana). Con una distribuzione molto localizzata, questi squali non comuni, vivono in acque profonde e fresche di tutto il mondo, sulla piattaforma continentale e a ridosso delle scarpate oceaniche, generalmente vicino al fondale, tra le dune sabbiose, sebbene vi sia evidenza di spostamenti verso la superficie, nelle zone di upwelling (L’upwelling favorisce l’attività biologica in quanto provoca la risalita di nutrienti dalle acque profonde). La preferenza per questi ambienti è confermata dalle frequenti catture che avvengono nella Baia di Suruga (Giappone). Soprattutto nei mesi freddi, i Chlamydoselachus si spingono in acque poco profonde (50-500 metri) che, in questa particolare area, si trovano adiacenti ai piani sommersi delle regioni abissali. Nei mesi più caldi, quando la temperatura dell’acqua supera i 15°C a meno 100 metri dalla superficie, si spostano invece verso le acque gelide delle masse d'acqua sottostanti. Anche se la profondità massima di cattura è stata di 1.570 metri, di solito non si trovano oltre i 1.000 metri. Le ascensioni notturne nella colonna d’acqua, sembrano essere legate all’alimentazione. Si nutrono principalmente di cefalopodi, tra cui i calamari rappresentano il 60% della dieta, di altri squali e piccoli teleostei. 62 Nello stomaco di un esemplare di 1,6 metri pescato a Choshi, è stato trovato un pesce di 590 g ancora intero. Tuttavia, la maggior parte degli esemplari catturati sono stati trovati senza o con poco contenuto identificabile nello stomaco, suggerendo un ritmo veloce di digestione e/o lunghi intervalli tra i pasti. Raramente osservato durante una fase di caccia, il C. anguineus cattura le sue prede affondando i denti come un serpente. Le file di denti, piccoli e ricurvi come uncini, funzionano come arpioni, evitando la fuga delle prede. Queste vengono inghiottite intere, grazie anche alle mascelle lunghe ed estremamente dilatabili. Un'articolazione così ampia è indicativa dell'impossibilità di dare forti morsi, al contrario della maggior parte degli squali. Con la sua forma allungata, ed il corpo simile ad un’anguilla, il Chlamydoselachus è stato a lungo fonte d’ispirazione per i racconti sui serpenti di mare. 63 La testa è larga e schiacciata con un breve muso arrotondato. Gli occhi sono grandi e ovali in senso orizzontale e sono sprovvisti di membrana nittitante, una sorta di palpebra di protezione. Le mascelle, posizionate alla fine del muso, sono in contrasto con quelle protrudenti della maggior parte degli squali che, durante il morso, si spostano in avanti rispetto alla bocca, come una tagliola. I denti sono piuttosto distanziati, con 19-28 file nella mascella superiore e 21-29 in quella inferiore, per un totale di circa 300 denti molto sottili: nel dettaglio si possono osservare sia nei denti fossili che in quelli attuali tre cuspidi sinuose e relativamente taglienti, alternate ad altre due piccole cuspidi basali quasi impercettibili, poste ai lati di quella centrale. Accurate analisi morfologiche e morfometriche sui denti attuali di C. anguineus sono state effettuate da Welton nel 1979 e da Pfeil nel 1983. Quando si considerano uno o pochi denti fossili isolati, è impossibile determinare se siano denti dell’arcata superiore o inferiore e definire con certezza la loro posizione lungo la serie dentale. I denticoli dermici sono piccoli e la loro forma a “punta di scalpello” diventa allargata e tagliente sul margine dorsale della pinna caudale. Questa specie è vivipara aplacentata (ovovivipara): gli embrioni fuoriescono dalle loro capsule uovo all'interno dell'utero della madre. L’intero periodo di gestazione può durare anche tre anni e mezzo, più a lungo che in qualsiasi altro vertebrato. Tra 2 e 15 piccoli vengono dati alla luce contemporaneamente e non è nota una stagione preferenziale per gli accoppiamenti. Il dimorfismo sessuale è piuttosto ridotto con femmine relativamente più lunghe rispetto ai maschi (la lunghezza massima conosciuta è di 1,7 metri per i maschi e 2,0 metri per le femmine) e con le pinne pelviche più vicine alla pinna anale. Gli squali dal collare vengono catturati occasionalmente come prede della pesca commerciale, ma hanno scarso valore economico. L'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN) ha valutato il C. anguineus come specie a rischio, considerato il suo basso tasso di riproduzione. Quindi anche le catture accidentali possono portare la sua popolazione all’estinzione. Storicamente il C. anguineus fu riconosciuto scientificamente per la prima volta dall’ittiologo tedesco Ludwig Döderlein che, visitando il Giappone in uno dei suoi viaggi, tra il 1879 e il 1881 ne portò due esemplari a Vienna. Tuttavia, il manoscritto in cui descriveva la specie andò perduto, così la prima descrizione ufficiale dello squalo divenne quella dello zoologo americano Samuel Garman, che studiò e descrisse un esemplare femmina di 1,5 metri catturata nella Sagami Bay in Giappone. Il suo lavoro, intitolato “Uno squalo straordinario”, venne pubblicato nel 1884 in un volume dei “Proceedings of the Essex Institute”. Negli anni immediatamente successivi Garman produsse diverse altre pubblicazioni sul C. anguineus e in ognuna descrisse nuovi particolari anatomici e nuove osservazioni a cui i suoi studi lo avevano portato. Garman collocò la specie in un genere e una famiglia nuovi e le diede il nome Chlamydoselachus anguineus dal greco Chlamydo “fronzoli“ e selachus “squalo“, e dal latino anguineus, “serpentiforme“. Diversi autori del passato credevano che questo squalo fosse l’ultimo rappresentante di gruppi di elasmobranchi altrimenti estinti da lungo tempo per via dei suoi denti tricuspidati, dell'articolazione della mascella superiore direttamente con il cranio e della colonna vertebrale, con vertebre indistinte. Garman propose di inserirlo tra i “cladodonti”, un gruppo tassonomico obsoleto, contenente forme che hanno prosperato durante l'era Paleozoica, come il Cladoselache del Devoniano (416-359 milioni di anni). I suoi contemporanei Theodore Gill e Edward Drinker Cope suggerirono invece, che fosse collegato agli Hybodontiformes, che sono stati gli squali dominanti durante l'era Mesozoica. Indagini più recenti hanno rilevato che le somiglianze tra lo squalo dal collare e i gruppi estinti potrebbero essere state sopravvalutate o mal interpretate e che questo squalo presenta in realtà una serie di tratti scheletrici e muscolari che trovano riscontri anche nei Neoselachii (squali e razze moderne), e più in particolare negli squali dell’ordine Hexanchiformes, anche se il sistematico Shigeru Shirai ha proposto che sia messo in un proprio ordine, Chlamydoselachiformes. Ad ogni modo, questo squalo appartiene ad una delle più antiche specie di squalo ancora esistenti, che risale almeno al tardo Cretaceo (circa 95 milioni di anni) ed eventualmente al tardo Giurassico (circa 150 milioni di anni). Rimasi stupefatto e la sera stessa, tornando verso Firenze, mi resi conto di aver vissuto un' esperienza davvero speciale! Nei giorni seguenti il lavoro alternò momenti di pausa e forti accelerazioni: la spianata fossilifera continuava a partorire denti di rara bellezza. Lo studio di questa fauna ricca di denti di Chlamydoselachus stava per volgere al termine e le informazioni che avevamo raccolto erano ormai un tangibile bagaglio che nessuno avrebbe potuto mettere in discussione. Il lavoro era già stato presentato ad una rivista scientifica che lo aveva definito un piccolo gioiello. Se da una parte eravamo soddisfatti perché lo studio era stato finalmente accettato, la ricerca sul campo non avrebbe potuto avere peggior sorte di quanto segue. Il colosso d’argilla Un sabato mattina del mese di agosto del 2006 arrivai sul posto e rimasi senza fiato! Non volevo credere a quello che stavo osservando: scattai una foto e la inviai a Marco. Il sito, in origine una spianata argillosa, era stato ricoperto da tonnellate e tonnellate di materiale scavato su un nuovo fronte collinare. Mi sentivo impotente davanti ad uno scenario irreale dove una piramide inerte, inconsciamente eretta dall'uomo, si ergeva maestosa al passaggio di nuvole portate dal vento in una calda giornata estiva. Marco mi chiamò chiedendomi se fosse vero. Io purtroppo risposi di si. Pensai che quel gesto inconsapevole, prodotto senza pensare a ciò che sarebbe andato perduto, avrebbe compromesso la ricerca futura. Un enorme patrimonio culturale era andato distrutto per sempre. Se potessimo paragonare le Scienze Naturali alla Storia, è come se in quel preciso istante avessero sganciato una bomba al centro del Colosseo. Rimasi atterrito e incapace di reagire di fronte alla caotica devastazione dei blocchi di argilla casualmente accatastati l'uno sull'altro. Ma la paleontologia è fatta di grandi sfide e questo ci stimolò a cercare nuovi siti e più importanti scoperte. Infatti, nel 2007 trovammo la balena di Montalcino vicino Siena, la balena di Allerona nei pressi di Terni e tre scheletri di dugonghi a Campagnatico in provincia di Grosseto. Questo non voleva dire che avessimo abbandonato la ricerca di queste fantastiche creature e, per questo motivo, fra un mammifero marino e l'altro, setacciavamo le zone limitrofe in cerca delle stesse condizioni paleoambientali. Non trascorse molto tempo che iniziammo a trovare nuovi siti che restituivano la stessa fauna di acque profonde. La pubblicazione scientifica Verso i primi mesi del 2009, dopo anni di ricerche sul campo, sia positive che infruttuose e chilometri percorsi su e giù per la Toscana, finalmente ricevetti la telefonata di Franco che mi annunciava l'uscita del lavoro sulla prestigiosa rivista internazionale “Cainozoic Research”. Una rivista specialistica del settore poneva fine alla nostra trepidante attesa. Per quasi otto anni avevamo mantenuto il totale riserbo e giunti alla conclusione, eravamo pronti a rendere pubblica la notizia, certi che la cosa avrebbe avuto una risonanza mondiale, dato che nel 2007 i telegiornali internazionali avevano mostrato l'eccezionale cattura di questo squalo nei mari del Giappone. Un pescecane primitivo dalla forma sinuosa che rimbalzò immediatamente dalla TV alla rete facendo girare i contatori dei vari canali di You Tube. 69 Dovevamo quindi organizzare l'evento mediatico e, per essere sicuri di ottenere una buona riuscita, riservai l'esclusiva alla maggiore fonte di informazione nazionale: l'Agenzia ANSA. Avevo pensato di ufficializzare la scoperta con un comunicato stampa e il venerdì seguente alla telefonata di Franco chiamai l'ANSA, dicendo che avrei passato loro alcune notizie su una scoperta eccezionale effettuata nella campagna senese. Avevo scelto un giorno lavorativo perché non avrei voluto bruciare anni di attesa nei giorni in cui la gente è distratta dal proprio tempo libero. Il Sabato mattina, provvisto di videocamera, macchina fotografica, cavalletto e due cari amici, mi diressi su ciò che restava del sito per realizzare il servizio da inviare ai telegiornali. Quel giorno girammo molte scene e ricordo con piacere le espressioni di Luca Berti che reggeva il rudimentale telepromoter su cui c'era scritto il discorso e Gian Paolo Faienza che scattava una foto dietro l'altra. Non appena tornai a Firenze montai il servizio e scrissi il pezzo destinato alla stampa. Il giorno successivo mi chiamò una giornalista dell'ANSA perché voleva assicurarsi che le avrei passato le informazioni promesse. E così fu! Dalla carta stampata ai network di oltre Oceano Il lunedì mattina non persi tempo ed inviai il comunicato a nome del Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci. Nel pomeriggio dello stesso giorno ricevetti una chiamata che annunciava l'uscita della notizia. (ANSA) - Firenze, 18 Maggio. Centinaia di denti fossili di Chlamydoselachus anguineus, una specie di squalo dalla forma sinuosa più simile ad un anguilla che ad un pesce che oggi vive nelle profondità oceaniche, sono stati rinvenuti nella zona di Castelnuovo Berardenga (SI), nelle celebri “crete senesi”. La scoperta è stata fatta da Simone Casati e Marco Zanaga del Gruppo di Mineralogia e Paleontologia (GAMPS) di Scandicci (Firenze), che la definiscono eccezionale perché prova che milioni di anni fa al posto delle zone tipiche di produzione del Chianti e del Brunello ci fossero fondali marini profondi fin quasi due chilometri. I reperti, ritenuti rilevanti anche per numero e perché nessun museo al mondo ne possiede interi, sono stati raccolti in anni di ricerche e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista internazionale “Cainozoic Research” a cura del professor Franco Cigala Fulgosi, docente al dipartimento di Scienze della Terra di Parma, considerato fra i massimi esperti al mondo di squali fossili, e da Casati, Alex Orlandini e Davide Persico del gruppo fiorentino. Lo squalo Chlamydoselachus, spiegano gli esperti del GAMPS, è un vero e proprio fossile vivente che vive a centinaia di metri al di sotto della superficie marina. Se finora si pensava che nel Pliocene medio, circa tre milioni di anni fa, il bacino marino senese non fosse particolarmente profondo, la scoperta dei denti, di forma tricuspidale, prova che in realtà l'area alternava zone costiere o di mare basso con abissi e scarpate continentali. Il ritrovamento quindi, assicurano gli studiosi, modifica le ricostruzioni paleoambientali delle campagne senesi e consente una “fotografia” di un momento di transizione tra la grande apertura post-messiniana avvenuta nel Pliocene inferiore e la nascita del fondale mediterraneo attuale. Trascorsero soltanto pochi istanti ed il cellulare iniziò a squillare. Erano i giornalisti dei quotidiani che volevano ricevere foto e maggiori informazioni su questa insolita scoperta. La mattina del giorno seguente fui contattato dai TG regionali e dal quotidiano “La Repubblica”. La giornalista Laura Montanari mi chiese un'intervista dedicando un'intera pagina alla scoperta di questi denti tornati dal passato: un'intera pagina pubblicata su una delle maggiori testate nazionali. Nei giorni seguenti, insieme al fotografo e all'inviata, ci recammo sul posto che avrebbe dato maggiore ispirazione all'articolo. Scattammo alcune foto insieme ai responsabili del terreno e con Ivan Martini, geologo presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Siena, da tempo impegnato nello studio del territorio in questione. Il sabato successivo, preso da una forte emozione, mi recai in edicola e sfogliando le pagine de “La Repubblica” mi soffermai a leggere quanto segue. Ecco lo squalo di milioni di anni fa A Castelnuovo Berardenga sono state rinvenute centinaia di piccole zanne di un pesce estinto. "Somigliano alle anguille e potevano raggiungere i due metri di lunghezza" spiega Simone Casati che non è uno studioso, ma un volontario della Scienza della Terra. Di mestiere fa l'operaio alla Menarini Farmaceutica ma ha la passione per la paleontologia. E nel tempo libero cerca il mare nel Chianti. di Laura Montanari «Lì sotto i tuoi piedi ho trovato i denti dello squalo Chlamydoselachus anguineus: a centinaia, piccoli come spilli. Sono pesci di profondità, somigliano alle anguille e potevano raggiungere i due metri di lunghezza». Sotto le suole guardando meglio in basso, affiorano piccolissime conchiglie, scaglie bianche: «Sono le tracce del passaggio del mare» dice Simone Casati che non è uno studioso, ma un volontario della Scienza della Terra. Non un professore universitario, ma uno che di mestiere fa l'operaio alla Menarini Farmaceutica, ha 45 anni e la passione per la paleontologia. Nel tempo libero c'è chi va a pesca, chi a caccia, chi si legge un libro, chi si anestetizza alla televisione: lui cerca il mare nel Chianti. Sembra fatto apposta per finire dentro un romanzo uno così ispido e solitario, esploratore di mondi finiti, cacciatore di dettagli e indizi sommersi dal mondo di tutti i giorni: un fossile che riemerge dalla curva di una strada, su un terreno in discesa, dentro un fosso seccato. Ossi di foca, denti di squalo, conchiglie, scheletri di balena. Il «capitano Achab» non ha mai letto Moby Dick, ma dice: «Io le balene le tiro fuori dalla terra, non le vado a cacciare in mare». Fruga nei passati remoti degli strati geologici, setaccia cave e campi, consulta carte e poi con i suoi GAMPS del Gruppo Avis Mineralogia e Paleontologia di Badia a Settimo, Scandicci (non un esercito, sono in quattro), parte «con uno speciale permesso della Soprintendenza Archeologica», perché «non è che tutti possono mettersi in cerca di pesci preistorici». Servono istruzioni. Non sempre poi si pesca qualcosa, anzi in genere gli insuccessi superano di gran lunga i ritorni coi “retini“ pieni di fossili. «Partiamo la mattina presto - racconta Luca Berti, 25 anni, amministratore in una ditta di trasporti, compagno di spedizioni nel GAMPS - con la luce dell'alba e soprattutto dopo che è piovuto i reperti si vedono meglio. A volte stiamo ore a guardare la terra, a volte torniamo dopo mesi nello stesso posto per vedere se le nuove piogge e l'erosione hanno fatto emergere qualcosa». Perché loro non sono come gli archeologi che si mettono a scavare, al massimo con una paletta scansano il terriccio, lo spolverano, aspettano che i pesci tornino a galla da soli. O quasi. I dentini dello squalo anguineus non sono che l'ultimo dei reperti recuperati assieme a due altri cercatori dello stesso gruppo, Marco Zanaga e Franco Gasparri. «In passato abbiamo rintracciato i resti di una balena a Montalcino a Villa Banfi dove si produce il Brunello, nel 2008 un delfino fossile ad Asciano e prima ancora a Pienza». Una collezione di scheletri che, in parte è nelle stanze del museo che il GAMPS ha nella sede di Scandicci, in parte sparsa in altri musei. I denti di squalo di Castelnuovo Berardenga vengono studiati dal professor Cigala Fulgosi dell'Università di Parma, mentre Ivan Martini dottorando all'ateneo di Siena sta lavorando al profilo geologico dell'area. «Siamo volontari: mai preso un finanziamento dal ministero, lavoriamo a costo zero» spiega Simone Casati. Le medaglie sono quando trovi qualcosa di rilevante da un punto di vista scientifico, uno scheletro di balena per esempio, è capire un pezzettino in più di quel che è successo prima di noi in questi stessi posti dove viviamo. Il resto è fiuto e passione, entusiasmo, fortuna anche, ore perse, cose senza regole e tariffe orarie. Come ha scritto qualcuno, «il tempo visibile è soltanto un orologio», gli altri (orologi) vanno cercati, a questo servono gli esploratori e i cercatori di pesci preistorici nelle terre della Toscana. Immaginate la mia soddisfazione che sarebbe stata amplificata dagli amici che avrebbero letto l'articolo da lì a poco: ignaro del fatto che anche Fabrizio Morviducci, giornalista del quotidiano “La Nazione”, aveva dato grande risalto a questa affascinante scoperta. Gli articoli si susseguirono. Nel giro di pochi giorni la notizia prese così campo che balzò dall'altra parte dell'Oceano e fu pubblicata non solo da “Science on mnsbc.com”, ma anche da “Discovery News” grazie alla prestigiosa firma della giornalista Rossella Lorenzi. Con il trascorrere dei giorni altre riviste scientifico-divulgative pubblicarono articoli sui denti dello squalo serpente e mentre questi si trovavano esposti presso il Museo di Badia a Settimo, produttori televisivi vennero a filmare i rinomati oggetti a tre punte. Scelta obbligata dato che non avrebbero potuto osservare questi reperti in nessun altro Museo conosciuto. Eravamo fieri del nostro cammino perché i denti, scoperti da due semplici appassionati, ci permettevano di raccontare una storia affascinante, destinata non solo al mondo scientifico, ma anche a coloro che avrebbero deciso di affrontare un tuffo nei mari del passato. Concludendo, avevamo raccolto un insieme di pesci fossili che indicava l'esatta posizione di un ecosistema epibatiale, un luogo che comprende i fondali da 200 metri fino a circa 1.200 metri di profondità, un punto intermedio fra le acque costiere e i piani sommersi delle zone abissali. 78 Un habitat marino pliocenico probabilmente situato a breve distanza dalla costa. L'insolita concentrazione di denti di Chlamydoselachus evocava, in via speculativa, qualche meccanismo particolare quale risalita di acque profonde, scarsità di ossigeno ed elevato contenuto in nutrienti o la presenza di qualche tipo di trappola (depressioni del fondale con scarsa circolazione) o un arricchimento selettivo ad opera delle correnti. I suoi denti, generalmente più grandi che nelle specie viventi, suggerivano che doveva trattarsi di animali che potevano raggiungere i 2,5 metri di lunghezza. Sulla base di queste informazioni, potevamo confermare la persistenza di questo squalo, noto sin dai tempi dello Zancleano, ovvero la parte più antica del Pliocene. La forte concentrazione di squali di acque profonde lasciava intuire un cambiamento climatico nel Mar Mediterraneo. La presenza di Chlamydoselachus dimostrava condizioni di acque gelide ed un collegamento sufficientemente profondo con l'Oceano Atlantico: una via preferenziale che dallo Stretto di Gibilterra arrivava sino al cuore delle attuali campagne senesi. Tutto questo corredato da una storia fantastica che avremmo potuto raccontare con passione e dedizione a tutti coloro che avrebbero visitato il Museo di Badia. Giunto alla fine del racconto, mi trovo a percorrere il Viale che mi divide dal passato. Fra pochi istanti incontrerò Letizia e Massimo Lawley, discendenti diretti dell'illustre casato. Tra le mura di casa, oltre l'ultimo cipresso, il ritratto del nobile signore. Lo sguardo è fiero, immortale. Quando la penna si ferma, i pensieri accompagnano gli anni vissuti e come gocce di memoria, il ricordo scivola sulla carta fissando sul foglio i ricordi più cari. Storie di uomini e di ritrovamenti, uomini straordinari, diversi fra loro, ma coesi viaggiatori nel tempo. Consapevoli scopritori di tesori affiorati fra il presente e il passato. Misteri emersi dagli abissi marini e dalla campagna oggi disseminata da fragili forme consumate dal tempo. Il sogno di una vita era diventato realtà e quei piccoli denti a tre punte, tornati da un passato lontano, da quel giorno raccontavano la storia di un uomo che oltre un secolo fa li raccolse per la prima volta e di altri che lo seguirono negli anni a venire. Grazie a quel dente scoperto casualmente, la vita mi aveva riservato affascinanti sorprese intrecciando legami con strane creature marine ed uomini eccezionali. Al termine di questa storia mi restano i ricordi e gli sguardi degli amici incorniciati fra i paesaggi della mia terra. Giorni trascorsi alla ricerca del mare, un mare nascosto e dimenticato, dove ancora oggi, fra spighe di grano e i filari soleggiati colmi di uva, si sentono cantare le balene e si vedono le ancestrali sagome degli squali del passato........ ........ tutto questo negli oceani e nelle campagne di una terra chiamata Toscana. Gli squali fossili di Castelnuovo Berardenga Prionace glauca (Linnaeus, 1758) Nome comune: Verdesca Si tratta di uno squalo oceanico ed epipelagico, che vive in acque temperate e tropicali, dalla superficie a circa 350 metri di profondità. È considerato lo squalo con la più ampia distribuzione al mondo. Chiamato in inglese “squalo blu” per la caratteristica colorazione, può compiere lunghe migrazioni dal Nord degli Stati Uniti fino al Sud America. È viviparo e può dare alla luce da 25 a oltre 100 piccoli per volta. Si nutre principalmente di piccoli pesci e calamari, ma può catturare anche grosse prede. La dentatura è formata da forti denti triangolari finemente seghettati. I denti di questa specie sono abbastanza comuni nell’affioramento fossilifero di Castelnuovo Berardenga. Dalatias licha (Bonnaterre, 1788) Nome comune: Scimnorino Lawley scrisse di aver raccolto “certamente un migliaio” di denti di questa specie, tra Orciano, Volterra e Siena. Seppur raro a Castelnuovo Berardenga, doveva essere abbastanza comune nel Pliocene toscano, anche se attualmente raro nel Mediterraneo. Lo scimnorino o squalo zigrino è uno squalo che vive in mare aperto, in acque calde e tropicali, a profondità maggiori di 200 metri. Un esemplare venne catturato a 1.800 metri. Ampiamente distribuito, ma localmente raro, raggiunge una lunghezza di 1-1,4 metri. Armato di denti inferiori relativamente grandi, è un predatore solitario che cattura molti tipi diversi di prede: pesci ossei, piccoli squali e razze, cefalopodi, crostacei, vermi policheti, ed eventualmente carogne. I suoi denti sono fortemente differenziati tra la mascella superiore e inferiore, con i denti superiori piccoli, stretti e appuntiti e i denti inferiori grandi, triangolari e seghettati. 85 Squatina sp. (Duméril, 1806) Nome comune: Squalo angelo Questi squali sono caratterizzati dalla parte anteriore del corpo appiattita. Le pinne pettorali ampie li fanno assomigliare più a delle razze che a degli squali. È difficile identificare le varie specie di Squatina solo dai denti, e anche se fosse possibile servirebbe un gran numero di denti di confronto. Oggi nel Mar Mediterraneo sono segnalate tre specie: S. squatina (Linnaeus, 1758), S. aculeata Duméril, 1829, e S. oculata Bonaparte, 1840. Anche la batimetria varia da specie a specie: S. squatina è una specie che vive vicino alla costa, mentre le altre vivono in mare profondo approssimativamente intorno ai 500 metri. La dentatura è formata da tanti piccoli denti, con una base larga e una sola cuspide centrale. Alopias superciliosus (Lowe, 1840) Nome comune: Squalo volpe dall’occhio grosso Lo squalo volpe è una specie epipelagica, che può essere trovato in acque costiere, come sulle piattaforme continentali e nei mari profondi lontani dalla terra. La specie è ovovivipara e considerando che questi squali vivono in media fino a vent’anni e che generalmente mettono al mondo solo due cuccioli per volta è evidente la loro vulnerabilità. Questo squalo è caratterizzato da due grossi occhi e una lunga coda che talvolta può usare per stordire le prede. I denti hanno una sola cuspide appuntita e leggermente arcuata e sono sessualmente dimorfici. È presente nel Mediterraneo anche se più raro di A. vulpinus (squalo volpe dall'occhio piccolo). 86 Odontaspis ferox (Risso, 1810) Nome comune: Cagnaccio Il Cagnaccio è uno squalo che vive nelle acque profonde di tutti gli oceani, a volte è stato osservato in acque costiere. La sua lunghezza raggiunge i 3,6 metri. La riproduzione è ovovivipara e gli embrioni possono nutrirsi del sacco vitellino e delle altre uova prodotte dalla madre, così che ad ogni parto nascono solitamente due cuccioli. In contrasto con le sue dimensioni e l'aspetto formidabile, questo squalo è innocuo, non essendo noti comportamenti aggressivi verso gli esseri umani. I denti fossili sostanzialmente uguali a quelli della specie vivente sono aguzzi e appuntiti, formati da una cuspide principale contornata da altre due o tre cuspidi minori per lato, caratteristica che li distingue da quelli di Carcharias taurus, rispetto ai quali sono anche meno robusti, a causa di un adattamento a nutrirsi di prede più minute: piccoli pesci e squali, calamari e gamberetti. Generalmente raro, ma localmente abbondante, è catturato sporadicamente nel Mediterraneo. Pristiophorus sp. (Müller & Henle, 1837) Nome comune: Squalo sega Questo genere noto dal tardo Cretaceo è solitamente rappresentato allo stato fossile da isolate spine del rostro. Lawley descrisse e raffigurò due spine rostrali di Pristiophorus dal Pliocene di Orciano, senza riconoscerne la natura. La base di queste spine rostrali presenta delle pliche, che possono essere diagnostiche nella classificazione. Attualmente, ad eccezione del P. schroederi (Springer and Bullis, 1960) che vive in acque profonde le altre specie sono costiere e/o vivono sulle piattaforme continentali. Gli squali sega si differenziano dai pesci sega (Pristidae) per la diversa posizione delle branchie: nei primi sono situate lateralmente davanti alle pinne pettorali mentre nei secondi sono ventrali. 87 Carcharias taurus (Rafinesque, 1810) Nome comune: Squalo toro Si tratta di un grande squalo che vive nelle calde acque costiere, nelle acque tropicali e sulle scarpate continentali di tutto il mondo. Nel Mediterraneo è estremamente raro ed è dubbia la sua attuale presenza. Nonostante abbia un aspetto temibile e aggressivo, dovuto ai denti acuminati, e alle forti capacità natatorie, è un animale relativamente placido e lento di giorno, più attivo la notte. Non è considerato aggressivo a meno che non sia provocato. Le femmine sono dotate di due uteri e in ciascuno gli embrioni praticano quello che viene definito “cannibalismo intrauterino”, finché restano solo due cuccioli, uno per utero. Dopo due anni i due cuccioli raggiungono la lunghezza di un metro, sono autosufficienti e pronti per venire al mondo. Si ha notizia di biologi che sondando il ventre delle femmine hanno perso le dita, mozzate dal morso dei giovani cuccioli completamente sviluppati. Hexanchus griseus (Bonnaterre, 1788) Nome comune: Squalo vacca Lo squalo capopiatto o squalo vacca è una specie di grandi dimensioni che vive vicino al fondale, in genere in acque profonde con un ritrovamento record a 1.875 metri. È tuttavia possibile trovare esemplari giovani vicino alla riva, in acque poco profonde. Come molte creature che vivono nelle profondità oceaniche è solito compiere degli spostamenti verticali nella colonna d’acqua durante la notte, portandosi in superficie. In inglese viene chiamato “squalo con sei branchie” per le tipiche aperture branchiali. I denti dalla caratteristica forma a pettine presentano un certo grado di variabilità individuale e di dimorfismo sessuale. 88 Carcharhinus cf. plumbeus (Nardo, 1827) Nome comune: Squalo grigio Nonostante sia difficile classificare i denti del genere Carcharhinus a livello specifico, alcuni dei denti trovati a Castelnuovo Berardenga sono attribuibili a questa specie. Nel Pliocene toscano sono inoltre segnalati: C. brachyurus, C. brevipinna, C. plumbeus, C. perezi, C. falciformis e C. obscurus. Quest’ultimo, presente anche nella “Collezione Lawley”, è stato per lungo tempo classificato come C. egertoni (Agassiz, 1843). Lo squalo grigio, oggi frequentemente catturato nel Mediterraneo, occupa una grande varietà di habitat. Infatti, lo si può trovare in acque costiere poco profonde, ma anche in acque profonde al largo o vicino alle barriere coralline oceaniche. Si nutre in genere di pesci ossei, razze e granchi. Gli squali grigi sono vivipari. Gli embrioni crescono per un anno nel sacco vitellino placentare all'interno della madre. La femmina si riproduce ogni due anni e può mettere al mondo da 8 a 10 cuccioli per volta. Carcharhinus cf. perezi (Poey, 1876) Nome comune: Squalo di barriera dei Caraibi Grazie al confronto con denti attuali del Brasile e con altri denti fossili del Pliocene toscano è stato possibile determinare alcuni denti di Castelnuovo Berardenga come appartenenti con buona probabilità a questa specie. Questo squalo preferisce acque poco profonde intorno alle barriere coralline. È più comune in acque costiere (meno di 30 metri di profondità) ma può raggiungere occasionalmente anche i 400 metri. Misura di solito tra 2 e 2,5 metri, con una lunghezza massima registrata di 3 metri. I denti sono disposti su 11-13 file nelle due metà di entrambe le mascelle. I denti hanno una ampia base, i bordi seghettati e una stretta cuspide. I denticoli dermici sono ravvicinati e sovrapposti, ciascuno con cinque basse creste orizzontali (a volte fino a sette in individui di grandi dimensioni) che continuano sui denticoli successivi. 89 Isurus oxyrinchus (Rafinesque, 1810) Nome comune: Squalo mako La morfologia dei denti fossili combacia perfettamente con quella dei denti della specie attuale di diverse regioni geografiche. La sua dentatura è formata da denti aguzzi e taglienti. Il Mako è uno squalo potenzialmente pericoloso e piuttosto aggressivo nei confronti dell'uomo. Il suo habitat naturale è costituito da acque tropicali e subtropicali. Specie epipelagica e grande migratore, è presente soprattutto in acque calde tropicali fino a 500 metri di profondità. Nel Mar Mediterraneo è presente, anche se piuttosto raro, lontano dalla riva. È tra le poche specie che sono in grado di effettuare il “breaching”, ovvero di saltare fuori dall'acqua, anche ben oltre la lunghezza del proprio corpo. Nel caso specifico con un balzo può elevarsi fino a sei metri d'altezza dalla superficie. I giovani si nutrono in genere di piccoli pesci e cefalopodi, mentre gli adulti possono attaccare altri vertebrati come tartarughe, altri squali e mammiferi marini come i delfini. Cetorhinus maximus (Gunnerus, 1765) Nome comune: Squalo elefante Nei sedimenti di Castelnuovo Berardenga questo squalo è rappresentato da un solo frammento di fanone branchiale. Dato l’enorme numero di fanoni branchiali che questo squalo possiede è più probabile rinvenire allo stato fossile questi elementi che non i denti, piccoli e meno numerosi. Questo enorme squalo, del tutto pacifico e innocuo, è fortemente migratorio e spesso viene avvistato alla superficie della zona epipelagica, in corrispondenza di acque profonde e di scarpate continentali. Talvolta, specialmente in primavera, quando lo zooplancton si riproduce, si sposta in acque costiere superficiali. 90 92 BIBLIOGRAFIA Agassiz L., 1833-1843. 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