- Mondo Senza Guerre e Senza Violenza
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L’OMBRA DELLE BASI L’ OMBRA DELLE BASI Installazioni militari statunitensi in Italia e nel mondo Introduzione Pag. 3 Le basi USA nel Mondo La presenza militare degli Stati Uniti nel mondo - ricerca (2003) Nuove basi militari USA: causa od effetto della guerra? Z. Grossman Le basi militari USA all’estero e il colonialismo militare. Joseph Gerson 737 basi militari Usa = Impero globale. Chalmer Johnson Guardando l’impero statunitense. Tom Engelhardt Più truppe Usa rimarranno in Europa? Gordon Lubold Asia sudoccidentale e nord-orientale, Zdzislaw Lachowski America Latina: trilogia di guerra. Sabatino Annecchiarico Comando Africa, colonialismo in stile Pentagono. Manlio Dinucci Hotel Corno d'Africa, grande base americana. Emilio Manfredi 4 21 25 31 34 38 39 43 46 46 Le basi USA in Italia Le basi militari straniere in italia Le basi della guerra globale permanente. Piero Maestri Gli appalti “rossi” da Vicenza a Sigonella. Angelo Mastrandrea Isole di segretezza. Falco Accame Il costo – economico – delle basi 48 51 53 54 55 Basi viste da vicino introduzione Aviano Ghedi Camp Ederle & Dal Molin Camp Darby Napoli Gaeta Sigonella La Maddalena 56 57 61 62 64 69 70 71 77 Tra USA e NATO Solbiate Olona Poggio Renatico Taranto 79 79 80 Un altro tipo di base: Cameri 81 Per un uso sociale del territorio. Andrea Licata Una rete no-basi. Herbert Docena Contro la militarizzazione (scheda movimenti) 83 86 89 G&P Dossier L’ OMBRA DELLE BASI - Installazioni militari statunitensi in Italia e nel mondo (Settembre 2007) Guerre & Pace, mensile di informazione internazionale alternativa Redazione, amministrazione, abbonamenti: Via pichi1, 20143 Milano, tel 02.89422081 – [email protected] - www.mercatiesplosivi.org/guerrepace 2 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI INTRODUZIONE Il 12 febbraio 2007 a Vicenza decine di migliaia di donne e uomini manifestavano la loro opposizione alla costruzione di una nuova base militare statunitense in quella città. Una data molto importante perché mai negli ultimi decenni il movimento contro la guerra era riuscito a mobilitare così tante persone contro un aspetto fondamentale dell e politiche di guerra del nostro paese, rappresentato dalla presenza di basi militari sul nostro territorio. L "avventure" militari degli Stati uniti in Afghanistan e Iraq avevano infatti prodotto un forte movimento contro la guerra che si è opposto con forza a tali operazioni e alle loro conseguenze dirette - in particolare l'occupazione dell'Iraq – mentre non aveva saputo affrontare una delle ragioni principali di quelle guerre: la costruzione di nuove basi militari statunitensi nella regione che essi stessi chiamano del "grande medioriente". Come titola l'articolo di Zoltan Grossmann (che trovate in questo dossier), le basi sono "causa o effetto secondario della guerra?". Da tempo siamo convinti che l'espansionismo militare, la riqualificazione. della presenza militare come strumento di controllo egemonico sull'intero pianeta siano tra le cause principali delle operazioni militari degli anni '90 e del nuovo secolo. Ma la questione della presenza delle basi militari ci riguarda da vicino – come hanno capito le/i manifestanti di Vicenza, ma anche i comitati che sono sorti in molte parti contro questa militarizzazione del territorio - perché anche in Italia si pone ormai con evidenza il rinnovato ruolo di queste basi, sia quando sono direttamente utilizzate per poter fare la guerra - come è successo nel 1999 quando dalle basi militari in Italia partivano gli aerei che andavano a bombardare la Repubblica di Jugoslavia e il Kosovo - sia per la riqualificazione che molte di esse stanno subendo (e ancora una volta la questione del Dal Molin è esemplare). Siamo sempre stati convinti che il movimento contro la guerra debba mettere in agenda iniziative comuni contro le basi militari - una campagna che sappia tenere assieme gli aspetti politici (il ruolo delle basi nella "guerra globale"), così come l'impatto che queste basi hanno sul territorio e le popolazioni che sono direttamente interessate (pensiamo in particolare a quanto avviene in Sardegna, ma non solo). Quella che avete tra le mani è una “seconda edizione” di un Dossier preparato per la prima volta nel 2004 e aggiornato con nuovi articoli di analisi sul ruolo politico internazionale della presenza militare globale statunitense (e Nato) e sulla situazione attuale delle basi in Italia. Troverete anche i riferimenti di comitati e reti che si battono contro queste basi e che hanno prodotto molte pagine di analisi, informazione, documentazione. Tutto questo speriamopossa rappresentare uno strumento utile di conoscenza per continuare estendere l’iniziativa contro le basi militari. G&P Guerre & Pace 3 L’OMBRA DELLE BASI LA PRESENZA MILITARE DEGLI STATI UNITI NEL MONDO Una ricerca (2003) 1. POSSIBILI RAGIONI DELL’ESPANSIONE MILITARE DEGLI STATI UNITI E DELLA PROLIFERAZIONE DELLE LORO BASI AVANZATE IN TUTTO IL MONDO APPARATO MILITARE AMERICANO: QUADRO GENERALE Molti analisti a Washington comparano gli Stati Uniti di oggi all’Impero Romano. Roma era la superpotenza dei suoi tempi e si vantava di un esercito con il miglior addestramento, disponeva dei più grandi finanziamenti e del miglior equipaggiamento che il mondo avesse mai visto. Nessun altra potenza era paragonabile alla loro. Gli Stati Uniti oggi dominano allo stesso modo: il loro bilancio di difesa supererà presto le spese militari dei 9 paesi seguenti presi complessivamente, consentendo loro di spiegare le loro forze quasi ovunque sul pianeta con velocità considerevole. Aggiungendo a ciò un innegabile vantaggio tecnologico, gli Stati Uniti appaiono come una potenza senza rivali. Gli Stati Uniti, come ha recentemente fatto notare un analista francese, soffrono di “gigantisme militaire”. Oggi, spendono di più in armamento ed altre forme di “Sicurezza Nazionale” di tutto il resto del mondo insieme. Secondo The Observer (Feb. 10, 2002), gli Stati Uniti sono responsabili di circa 40% delle spese militari mondiali1. Il bilancio del Dipartimento della Difesa per l’anno finanziario 2004 (pubblicato nel febbraio 2003) richiede $379,9 miliardi in spese discrezionali -- $15,3 miliardi in più rispetto al bilancio del 20032. Il 17 luglio 2003, il Senato ha approvato uno stanziamento per la difesa [S-1382] di $368,6 miliardi3. Questo non include una legge finanziaria d’emergenza di $62,4 miliardi adottata all’inizio dell’anno per coprire i costi della guerra contro l’Iraq. Il totale adottato è inferiore alla richiesta di bilancio che Bush ha presentato per l’anno finanziario 2004 (che inizia il 1 ottobre), ma ci si aspetta che il Congresso colmi la lacuna con provvedimenti separati. Inoltre la legge finanziaria non comprende i costi delle operazioni militari in Iraq e in Afganistan nel nuovo anno finanziario; l’Amministrazione Bush chiederà i fondi mancanti con una legge separata. Il bilancio del Pentagono per l’anno finanziario 2009 è stabilito a $483,6 miliardi (futuri dollari). Anche gli analisti militari sono sconcertati. La potenza militare è emersa come il credo principale del nuovo potere dell’America, la caratteristica principale dell’amministrazione Bush. Ø Secondo Michael Parenti, nel 1993 l’apparato militare globale degli Stati Uniti comprendeva già quasi 500.000 uomini stanziati in oltre 395 grandi basi e a centinaia di installazioni minori in 40 paesi diversi4. Non c’è quasi nessun luogo al di fuori della portata dell’America: le cifre del Dipartimento della Difesa [Department of Defense – DoD] indicano che c’è una presenza militare, grande o piccola, in 132 dei 190 stati membri delle Nazioni Unite. Questa presenza militare è chiamata ufficialmente “Dispiegamento Avanzato” [Forward Deployment]. Essa prende diverse forme: basi militari (intese come installazioni permanenti “utilizzate regolarmente” dalle forze militari), “Posizioni Operative Avanzate” [Forward Operating Locations – FOLs], diritto di utilizzo di basi militari estere e diritto di accesso a porti e aeroporti (ottenuti tramite diversi forme di accordi bilaterali, Promemoria di Intesa [Memoranda of Understanding – MoUs], etc.) o addestramento militare di forze straniere. Ø La flotta degli Stati Uniti è più grande in tonnellaggio totale e potenza di fuoco di tutte le altre marine del mondo messe insieme. È costituita da incrociatori lanciamissili, sottomarini nucleari, portaerei nucleari, caccia-torpediniere e navi spia che solcano ogni oceano e approdano in ogni continente5. Un solo gruppo aeronavale a propulsione nucleare – che, ad esempio, ruota intorno alla USS Enterprise, con un ponte di volo lungo quasi un miglio ed un altezza di circa 20 piani – concentra più potenza militare di quanto riescano a svilupparne la maggior parte degli altri Stati con tutte le loro forze armate. Gli Stati Uniti hanno 7 di questi gruppi aeronavali a propulsione nucleare (su di un totale di 12 gruppi aeronavali)6. Ma non contano solo la loro grandezza e la loro potenza; anche il raggio d’azione della marina degli Stati Uniti é impressionante: per esempio quando la portaerei USS Kitty Hawk fu mandata con le sue navi di scorta da Yokohama al Golfo Persico per la guerra contro l’Afganistan, percorse 6 000 miglia7 in 4 1 2 Copie dei documenti del Dipartimento della Difesa sono disponibili all’indirizzo internet seguente: http://www.dod.mil/comptroller/defbudget/fy2004/ 3 Il progetto di legge S-1382 è stato adottato con un voto di 95-0. Per il testo consultare: http://thomas.loc.gov/cgi-bin/query/C?c108:./temp/~c108wfMJhe 4 Against Empire, Michael Parenti 5 The Observer, 10 Febbraio 2002 Ad esempio quando gli Stati Uniti attaccarono i Talebani nel 2001, furono in grado di far venire velocemente le navi da guerra dalle basi navali del Regno Unito, Giappone, Germania, Spagna Meridionale e Italia, perché la flotta si trovava già in questi stati. 6 The Observer, 10 Febbraio 2002 7 Conversione: 1foot=0.3048metro Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI soli 12 giorni per diventare una vasta base avanzata di attacco per migliaia di Forze Speciali americane. Ø Gli Stati Uniti hanno anche stormi di bombardieri e missili a lungo raggio che possono raggiungere qualsiasi obbiettivo, con una capacità superiore al necessario [overkill capacity] di più di 8 000 armi nucleari strategiche e 22 000 armi tattiche. I bombardieri possono volare ed essere riforniti in volo ovunque nel mondo e sono armati di missili di crociera che possono essere lanciati a centinaia di miglia di distanza da cieli loro ostili; i missili stessi vengono diretti sui loro bersagli da satelliti in orbita. Non c’è un nemico capace di combattere l’ultimo e modernissimo Jet della Lockheed Martin [Joint Strike Fighter F35]. Infatti la società fu costretta in una memorabile presentazione a mostrare l’Eurofighter come avversario potenziale! Ø Dalla Seconda Guerra Mondiale, il governo degli Stati Uniti ha speso più di $200 miliardi in aiuti militari per addestrare, equipaggiare e finanziare più di 2,3 milioni di soldati e forze di polizia in più di 80 paesi8. Famosi destinatari di questo tipo di aiuti militari sono: Zaire, Ciad, Marocco, Turchia, Pakistan, Indonesia, Honduras, El Salvador, Haiti, Perù, Colombia, Cuba (sotto Batista), Nicaragua (sotto Somoza), Iran (sotto lo Shah), Le Filippine (sotto Marcos) ed il Portogallo (sotto Salazar). Ø Prima degli attacchi dell’11 settembre 2001 più di 60 000 soldati erano schierati in permanenza in più di 100 paesi. Queste cifre escludono le forze permanenti basate in Germania, Italia, BosniaHerzegovina, Kossovo, Corea del Sud, Giappone, Arabia Saudita e molti altri posti. Entro marzo 2002, gli Stati Uniti avevano assegnato ben oltre 60 000 soldati aggiuntivi in nuove basi - dalla Bulgaria al Qatar, dalla Turchia al Tajikistan. Più della metà delle forze dell’esercito americano che possono essere messe in campo sono attualmente impegnate in operazioni di “peacekeeping” e stabilizzazione nel mondo (inclusi Bosnia, Kossovo, Afganistan e Iraq)9. Dichiarazioni ufficiali affermano che ci sono più di 150 000 truppe americane stanziati nelle zone di guerra dell’Afganistan e dell’Iraq. Secondo una notizia di un agenzia stampa del 23 luglio 2003, l’esercito americano vede 368 000 dei suoi soldati impegnati all’estero, in 120 paesi, su di un totale di 485 000 in servizio a cui vanno aggiunti 206 000 riservisti e 353 000 soldati della Guardia Nazionale. Ø Secondo il Dipartimento della Difesa gli Stati Uniti hanno Accordi sullo Status delle Forze Armate [Status of Forces Agreements – SOFAs] che regolamentano la presenza americana all’estero in 93 paesi. 1US Statute Mile = 1.609347 Km 1acre = 0.4047 ettari 8 9 BASI MILITARI AMERICANE E LOGICA DELL’IMPERO Sei mesi dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno iniziato a costruire una rete di basi avanzate [Forward Bases] che si estende dal Medio Oriente lungo tutta l’Asia, dal Mar Rosso al Pacifico. Le forze americane sono ora impegnate in un numero di paesi mai così grande dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Soldati, marinai e aviatori sono ora stabiliti in paesi dove non erano mai stati prima. Lo scopo dichiarato è di fornire piattaforme da cui lanciare attacchi su qualsiasi gruppo percepito come un pericolo per gli Stati Uniti. Funzionari di governo lo definiscono “Guerra al Terrorismo” – che, come fa notare il Professor Paul Rogers dell’Università di Bradford, suona sempre di più come un eufemismo che sta per estensione del controllo americano sul mondo. Quando l’Amministrazione Bush si insediò ci si aspettava una riduzione della presenza americana sul terreno ed un aumento delle capacità a lungo raggio [Long Range Capabilities]. Invece, ha continuamente fatto il contrario – istituendo basi avanzate in varie aree del globo, che possono essere usate per operazioni future. Queste basi sono state costituite all’interno o nelle vicinanze di qualsiasi paese che costituisce un “chiaro e presente pericolo” [“Clear and Present Danger”]. Secondo analisti della difesa, c’è l’intenzione di avere il più grande numero possibile di tali basi avanzate – mantenute tutto l’anno da poche migliaia di soldati e di tecnici – che possono fornire supporto per enormi rinforzi secondo le necessità. Dopo l’11 settembre si è prodotta un'accelerazione delle strategie della politica estera americana, facilitata da questo evento, con radici più profonde di quello che sembra (come vedremo dopo). La stabilizzazione di paesi stranieri é ora vista dagli Stati Uniti sempre più come una questione di sicurezza nazionale. (A) Storia dell’evoluzione della presenza militare degli Stati Uniti oltremare Gli Imperi nel corso della storia umana hanno sempre fatto affidamento su basi militari oltremare per imporre il loro dominio. La caduta dell’Impero Britannico fu accompagnata dall’ascesa di un altro impero, dal momento che gli Stati Uniti presero il posto della Gran Bretagna come potenza egemonica dell’economia capitalista mondiale – appoggiandosi anch’essi su strutture militari fuori dai loro confini. LA SITUAZIONE DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE Gli Stati Uniti sono emersi dalla Seconda Guerra Mondiale con il sistema di basi militari più esteso che il mondo avesse mai visto. Secondo James R. Against Empire, Michael Parenti The Guardian, 18 settembre 2002 Guerre & Pace 5 L’OMBRA DELLE BASI Blaker10, ex alto consigliere al Vice Presidente dei Capi di Stato Maggiore, il sistema di basi al di fuori degli Stati Uniti alla fine della guerra consisteva di 3 000 installazioni situate su 2 000 siti, in circa 100 paesi ed aree che si stendevano dal circolo artico fino all’Antartide.11 La posizione ufficiale degli Stati Uniti riguardo a queste basi militari dopo la Seconda Guerra Mondiale era che esse dovessero essere mantenute finché possibile e che ulteriori basi avrebbero dovuto essere acquisite. Alla conferenza di Potzdam nel 1945, Harry Truman dichiarò: ”Sebbene gli Stati Uniti non vogliano trarre alcun profitto o vantaggio egoista da questa guerra, noi manterremo le basi militari necessarie per la completa protezione dei nostri interessi e della pace mondiale. Ci procureremo le basi che i nostri esperti militari considereranno essenziali per la nostra protezione. Ce le procureremo con accordi consistenti con la Carta delle Nazioni Unite”. Tuttavia la tendenza dominante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino alla Guerra di Corea é stata la riduzione del numero delle basi estere degli Stati Uniti: metà del complesso di basi del tempo di guerra era già stato abbandonato nel 1947, e metà di quello che era rimasto fino al 1947 era già smantellato entro il 1949. Con la Guerra di Corea il numero di basi aumentò di nuovo, seguito da un ulteriore aumento durante la Guerra del Vietnam. Dalla fine della Guerra del Vietnam al 1988, non ci fu una sostanziale diminuzione del numero di basi americane: nel 1988, il loro totale era di poco inferiore a quello della fine della guerra di Corea; rifletteva però uno schema globale molto diverso da quello dell’immediato dopo guerra con una forte diminuzione nell’Asia Meridionale e nel Medio Oriente/Africa [Cf. Appendix I: Table 1] EVOLUZIONE DELLA PRESENZA MILITARE AMERICANA Storicamente le basi sono spesso state acquisite durante le guerre. Per esempio, la base navale americana di Guantanamo a Cuba fu ottenuta dopo la guerra ispano10 James R. Blaker, United States Overseas Basing, New York: Praeger, 1990. La ricerca per lo studio originale di Blaker fu sostenuta dall’ufficio del Segretario della Difesa. 11 È bene notare che non c’è una definizione concordata su che cosa sia una base militare, perciò è difficile calcolare il numero di basi. Blaker definisce una base militare come un’installazione “usata abitualmente” dalle forze militari. Secondo il “Rapporto sulle Strutture delle Basi del Dipartimento della Difesa” (un riassunto annuale del Dipartimento della Difesa sull’inventario dei possedimenti immobiliari prodotto dall’Ufficio del Vice Sotto Segretario della Difesa), tutte le installazioni entro un raggio di 25 miglia vengono classificate come facenti parte dell’ubicazione di una singola base associata alla città più vicina (installazioni che distano più di 25 miglia tra di loro vengono considerate come ubicazioni differenti). Le installazioni e le basi sono classificate principalmente sulla base del loro valore immobiliare delle strutture. 6 americana del 1898. Sebbene questa base risulti giuridicamente “affittata”, di fatto l’affitto é permanente. Un altro esempio sono le basi americane ad Okinawa, formalmente parte del Giappone – un’eredità dell’occupazione americana del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale. Molte basi americane attuali furono acquisite in guerre successive, quali la guerra di Corea, la guerra del Vietnam, la guerra del Golfo, la guerra dei Balcani, la guerra d’Afganistan etc. Come tutti gli imperi, gli Stati Uniti sono stati molto riluttanti a rinunciare a qualsiasi base una volta acquisita. Le basi ottenute in una guerra vengono viste come posizioni per dispiegamenti avanzati in guerre future, spesso contro un nuovo nemico. Un rapporto, pubblicato nel dicembre 1970 dalla Commissione Affari Esteri del Senato Americano, afferma che: “Una volta che una base Americana é stata istituita all’estero, viene ad avere vita propria. Le missioni originarie possono diventare obsolete, ma nuove missioni vengono subito sviluppate, non solo per tenere aperta la base, ma spesso per ingrandirla. Nei dipartimenti governativi più interessati - Affari Esteri e Difesa abbiamo riscontrato scarsa volontà di ridurre od eliminare anche una sola di quelle strutture d’oltremare.”12 Ø Periodo della Guerra Fredda: Durante la Guerra Fredda, negli anni ‘50 e ‘60, gli Stati Uniti enunciarono una specifica dottrina del “diniego strategico” [“Strategic Denial”] che sosteneva che non ci si sarebbe dovuti ritirare da nessuna base che avrebbe potuto in seguito essere potenzialmente acquisita dall’Unione Sovietica. La maggior parte delle basi venivano ad essere giustificate in quanto “accerchiavano” o “contenevano” il comunismo. Tuttavia quando crollò l’Unione Sovietica (ed ad onta dei discorsi sui dividendi della pace da parte di molti politici), gli Stati Uniti cercarono di mantenere il loro intero sistema di basi, sostenendo che ciò era necessario per la proiezione globale della potenza americana e la protezione dei loro interessi all’estero. Nel rapporto annuale del Segretario di Stato alla Difesa del 1989, il DoD insisteva che la “proiezione di potenza” degli Stati Uniti richiedeva tale “schieramento avanzato”.13 Ø Guerra del Golfo: Il 2 agosto 1990, Il Presidente George Bush (Senior) dichiarò che, mentre il sistema di basi estere degli Stati Uniti doveva rimanere intatto, i bisogni americani in termini di sicurezza globale potevano essere assicurati entro il 1995 da attivi inferiori del 25% rispetto al 1990. Tuttavia, quello stesso giorno l’Iraq invase il Kuwait. 12 Rapporto pubblicato il 21 dicembre 1970 dalla Sottocommissione sugli Accordi e gli Impegni all’Estero della Commissione Affari Esteri del Senato degli Stati Uniti [Subcommittee on Security Agreements and Commitments Abroad of the US Senate Committee of Foreign Relations], pag. 19-20 13 Rapporto Annuale del Segretario della Difesa, Pag. 41 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI Contrariamente alle promesse originarie degli Stati Uniti ai suoi alleati arabi, la guerra che ne conseguì portò alla costituzione di grandi basi militari nel Medio Oriente – specialmente in Arabia Saudita e nel Kuwait, dove migliaia di soldati americani sono stanziati da più di dieci anni – e al “diritto di utilizzo di basi” [basing rights] in altri Stati del Golfo (come Bahrain, Qatar, Oman e Emirati Arabi Uniti). Questa guerra ha anche permesso il potenziamento delle basi aeree americane in Turchia. La massiccia introduzione di truppe americane nel Medio Oriente durante la Prima Guerra del Golfo portò alla proclamazione di un nuovo ordine mondiale, basato sull’egemonia americana e la sua potenza militare. Ø Cambiamento nella natura della presenza militare statunitense durante il Periodo di Clinton: Sebbene l’Amministrazione Clinton abbia spesso affermato la necessità di diminuire gli impegni militari statunitensi all’estero, in realtà non fu fatto nessun tentativo per ridurre la “presenza avanzata” USA all’estero. Tuttavia, durante gli anni di Clinton, la natura della presenza statunitense cambiò drasticamente: q Il cambiamento principale é stato la riduzione delle truppe stanziate in permanenza oltremare, mentre sono aumentati gli spiegamenti di truppe più frequenti, ma per periodi più corti. Uno studio del 1999 della Scuola di Guerra dell’Esercito degli Stati Uniti [Army War College] concluse che “mentre la presenza permanente oltremare [era] diminuita drasticamente, i dispiegamenti operativi [erano] aumentati in maniera esponenziale”14. Mentre le enormi installazioni europee venivano ridotte, gli schieramenti di truppe diventavano dunque più frequenti e duravano più a lungo. Secondo fonti del Dipartimento di Stato, in qualsiasi momento già prima degli attacchi dell’11 settembre, più di 60 000 soldati stavano conducendo operazioni temporanee o esercitazioni in circa 100 paesi. q In aggiunta a questi frequenti e periodici dispiegamenti, le basi iniziarono ad essere sempre più spesso utilizzate per pre-posizionare equipaggiamento, con lo scopo di facilitare il dispiegamento rapido. Per esempio, gli Stati Uniti hanno pre-posizionato, sia in Kuwait che in Qatar, il materiale necessario per due brigate meccanizzate; in Qatar è stato materiale per un battaglione carri.15 aggiunto Ø L’Intervento in Somalia: Negli anni ‘70 e ’80, gli Stati Uniti hanno sostenuto il dittatore somalo Siad Barre nella sua guerra contro l’Etiopia appoggiata dall’Unione Sovietica. In cambio Barre aveva garantito alla marina USA il diritto di usare i porti somali (Situati strategicamente all’estremo meridionale del Mar Rosso che collega il canale di Suez con l’Oceano Indiano). Dopo che Barre fu rovesciato, gli Stati Uniti ritornarono nel paese con la scusa del caos e della carestia, ma fecero l’errore di sostenere un gruppo di “signori della guerra” contro il padrone di Mogadiscio Aidid. Quando 18 soldati furono uccisi in battaglia, gli Stati Uniti si ritirarono, ma finirono per ottenere il diritto di usare il porto di Aden nello Yemen, dall’altra parte del Mar Rosso. Ø Fine del secolo: Gli anni ’90 si conclusero con l’intervento militare statunitense nei Balcani (Bosnia e Kossovo)16 ed un sostanziale sostegno alle operazioni anti-insurrezione in Sud America come parte del “Piano Colombia” [Plan Columbia]. q L’intervento militare americano in Bosnia (1995) e nel Kossovo (1999) portò alla creazione di nuove basi in 5 paesi: Ungheria, Albania, Bosnia, Macedonia e Kossovo sud-orientale (dove costruirono il tentacolare complesso “Camp Bondsteel”).17 q Il “Piano Colombia” [Plan Columbia], ufficialmente una guerra per controllare il traffico di droga, è in verità rivolto contro i guerriglieri colombiani, ma anche contro il governo del Venezuela e contro il massiccio movimento popolare che si oppone al neo-liberismo in Ecuador. Tramite questo piano, gli Stati Uniti sono riusciti ad espandere la presenza delle loro basi in America Latina e nei Caraibi. Il Porto Rico ha sostituito Panama come centro delle operazioni nella regione. Inoltre, gli Stati Uniti hanno stabilito 4 nuove basi militari a Manta (Ecuador), Aruba e Curaçao (Antille Olandesi), e Comalapa (El Salvador) – tutte 15 Secondo il Segretario della Difesa, 1996 16 Gli Stati Uniti presentarono i loro interventi in Yugoslavia come risposta alla “pulizia etnica” dei Serbi. Tuttavia essi non intervennero in occasione di precedenti simili “pulizie” in Croazia e Albania (alleati americani). 17 14 In passato, i membri delle forze armate erano abitualmente “stanziati” oltremare, per turni di diversi anni e spesso accompagnati dalle loro famiglie. Ora essi vengono “schierati” per periodi di lunghezza più incerta e le loro famiglie non sono quasi mai autorizzate a seguirli. I documenti del DoD mostrano che questa nuova modalità operativa tiene lontano da casa in media 135 giorni all’anno il personale dell’Esercito, 170 giorni il personale della Marina e 176 giorni il personale dell’Aeronautica. Ogni soldato viene mediamente schierato all’estero ogni 14 settimane. Come nei conflitti del Golfo e dell’Afganistan, gli alleati europei potrebbero aver partecipato alle guerre americane non tanto per solidarietà , ma piuttosto per paura di essere completamente esclusi dalla costruzione dell’ordine della regione nel dopoguerra. In particolare, l’intervento nel Kossovo fu seguito da tentativi accelerati dell’Unione Europea di formare una forza militare al di fuori della NATO (che è diretta dagli Stati Uniti). Gli Stati Uniti hanno posto delle basi ad Est dell’UE – da dove possono proiettare le loro forze verso il Medio Oriente – in parte in anticipazione del fatto che, in futuro, i legami militari con l’Europa Occidentale si sarebbero allentati. Guerre & Pace 7 L’OMBRA DELLE BASI definite come “Posizioni Operative Avanzate” [FOLs]. Ø Guerra al Terrorismo: Dopo gli attacchi dell’11 settembre, gli Stati Uniti hanno iniziato una guerra in Afganistan, posto di grande importanza strategica che confina con l’Iran ed unisce l’Asia Meridionale, l’Asia Centrale ed il Medio Oriente. Oltre ad aumentare la dimensione e l’importanza delle basi in Kuwait, Qatar, Turchia e Bulgaria, hanno anche stabilito basi militari – che ospitano 60 000 soldati – in Afganistan, Pakistan, Kirghisistan , Usbechistan e Tajikistan. La base navale americana di Diego Garcia nell’Oceano Indiano, cruciale in questa “guerra”, ha recuperato la sua importanza. La “Guerra al Terrorismo” ha anche giustificato un intervento indiretto anti-insurrezionale nelle Filippine, dove le Forze Speciali USA sono state mandate ad addestrare truppe filippine a Basilan contro gruppi di guerriglieri (presumibilmente affiliati a Bin Laden), e dove gli Stati Uniti stanno eseguendo dei voli di ricognizione per raccogliere “intelligence”. Per quanto riguarda il Medio Oriente, un nuovo fronte della “Guerra al Terrorismo” è stato aperto nello Yemen ed in Somalia, mentre l’attenzione militare americana si è recentemente concentrata su altri stati africani. In una certa misura, il recente attacco all’Iraq fa anche parte di questa cosiddetta “guerra”: negli Stati Uniti una grande maggioranza della popolazione è stata convinta dalla propaganda che Saddam Hussein era collegato con Al Qaeda. La risposta a quella minaccia fu la creazione di un protettorato americano un Iraq. RIEMPIRE IL VUOTO Sembra che gli Stati Uniti stiano riempiendo il vuoto di potere creatosi nell’era del dopo Guerra Fredda. Stanno stabilendo basi nei Balcani e nelle ex repubbliche Sovietiche dell’Asia Centrale – precedentemente nella sfera d’influenza sovietica o parte integrante dell’Unione Sovietica stessa – e in regioni dove avevano subito drastiche riduzioni del numero di basi.18 L’apparizione di nuove basi dal 1990 (nel Medio Oriente, in Asia Meridionale, in America Latina ed nei Carabi) in seguito alle guerre summenzionate può perciò essere visto come una riaffermazione del potere diretto imperiale e militare americano in aree dove esso si era in qualche misura eroso. Nuove basi nella sfera di influenza dell’ex Unione Sovietica o nelle sue ex repubbliche stanno riempiendo un vuoto lasciato dall’URSS, costituendo inevitabilmente una minaccia alla sicurezza della Russia, ma anche una minaccia alla sicurezza della Cina. La nuova base americana nel Kirghisistan , per esempio, è situata a sole 250 miglia (400 km) dalla frontiera occidentale cinese. Considerando che gli Stati Uniti hanno sostenuto militarmente Taiwan per anni, hanno avuto un coinvolgimento militare in Indonesia, e hanno una presenza militare permanente in Giappone, a Okinawa, nelle Filippine e in Sud Corea, la Cina ha tutto il diritto di sentirsi accerchiata [Cf. Appendix III – Map: “US Military Presence Worldwide”]. NUMERO DELLE BASI Secondo il “Rapporto sulle strutture delle basi del Dipartimento della Difesa dell’anno finanziario 2003” [DoD Base Structure Report – FY 2003], gli Stati Uniti hanno attualmente installazioni militari in 40 stati esteri. Se si aggiungono le basi militari nei territori e possedimenti americani al di fuori dei 50 Stati e del “District of Columbia” il totale si eleva a 47. [Cf. Appendix IV : “DoD Base Structure Report – FY 2003” per una lista completa].19 È importate ricordare che questa valutazione è molto riduttiva, perché non include importanti basi avanzate strategiche, neanche quelle dove gli Stati Uniti mantengono un numero sostanziale di soldati – come in Arabia Saudita, Kossovo o Bosnia. Non include neanche alcune di quelle acquisite più di recente in America Latina, in Asia Centrale, in Iraq, etc. Se si considerano tutte le forme di presenza militare possibili – basi militari permanenti, “Posizioni Operative Avanzate” [FOLs], diritto di utilizzo di basi estere, accesso attraverso i programmi NATO di Partenariato per la Pace [Partnership for Peace], etc. – gli Stati Uniti hanno basi militari (o accesso a basi) al di fuori del loro territorio continentale in circa 60 paesi e territori separati [Cf. Appendix III - Map: “US Military Presence Worldwide”]. Questa stima non può essere paragonata direttamente alle cifre fornite dallo studio di Blaker, perché quest’ultimo comprende solamente le basi riportate nella lista di installazioni fornita dal DoD (basata sul loro valore immobiliare). La nostra stima include anche: 1) Basi non riportate nel “Rapporto sulle strutture delle basi del DoD” dell’anno finanziario 2003, ma che ospitano un numero sostanziale di soldati americani; 2) Basi nei territori e possedimenti al di fuori dei 50 Stati e del “District of Columbia” (considerandoli come essenzialmente al di fuori degli Stati Uniti); 3) “Posizioni Operative Avanzate” [FOLs] acquisite di recente in aree strategiche (principalmente nel Medio Oriente, Asia Centrale e Meridionale, America Latina e Caraibi). Le nostro stime – sebbene non rigorosamente comparabili con quelle di Blaker – sembrano indicare 18 Nel 1990, prima della Guerra del Golfo, gli Stati Uniti non avevano basi nell’Asia Meridionale e solo più il 10% di quelle che avevano nel 1947 nel Medio Oriente e in Africa. Nell’America Latina e nei Caraibi il numero di basi americane era diminuito di circa due terzi tra il 1947 ed il 1990. 8 19 I territori e possedimenti americani al di fuori dei 50 Stati e del “District of Columbia” dove si trovano basi americane sono 7: American Samoa, Guam, Johnston Atoll, Northern Mariana Islands, Puerto Rico, Virgin Islands, Wake Island. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI che la diffusione geografica delle basi americane non si è ristretta dalla fine delle Guerre di Corea e del Vietnam, ed è addirittura in una fase di rinnovata espansione. In un certo senso, questo numero (60) potrebbe essere ingannevolmente basso: tutte le questioni di giurisdizione ed autorità riguardo alle basi nei paesi ospiti sono definite negli “Accordi sullo Status delle Forze” [SOFAs], documenti che erano pubblici durante gli anni della Guerra Fredda. Tuttavia, questi documenti sono ora spesso “riservati” [“classified”], rendendo la ricerca sulle basi americane estremamente difficile se non impossibile.20 Secondo un articolo pubblicato nel Los Angeles Times il 6 Gennaio 2002, gli Stati Uniti avevano allora accordi formali di questo tipo con 93 stati esteri.21 È molto probabile che questa cifra sia ancora aumentata nel corso dell’ultimo anno. Per finanziare questa proiezione di potenza e la “Guerra al Terrorismo”, il progetto di bilancio dell’Amministrazione per l’anno finanziario 2003 prevedeva $19 miliardi. Una proposta di stanziamento supplementare è stata proposta nel marzo 2003. In questa proposta venivano richiesti $3,5 miliardi per “assistenza economica e addestramento ed equipaggiamento militare per gli stati che stanno in prima linea”. $121 milioni venivano ulteriormente stanziati per “assistenza anti-terrorismo ad altri stati”, insieme a $4 milioni per “assistenza tecnica ai ministeri delle finanze di governi stranieri per aiutarli a tagliare i finanziamenti ai terroristi”. Nel bilancio dell’anno finanziario 2004, il DoD continua ad acquisire competenze considerate necessarie alla “Guerra al Terrorismo”.22 (B) Perché gli Stati Uniti soffrono di “gigantisme militaire”? Ci sono molte ipotesi per spiegare l’accresciuta espansione militare degli Stati Uniti negli ultimi anni. Lo scopo di questo rapporto non è di speculare sulle 20 Per esempio, i SOFAs che riguardano basi in Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Oman e Arabia Saudita sono riservati. Inoltre, non ho ottenuto nessuna informazione da EUCOM riguardo i SOFAs delle basi in Europa. Sollecitato dall’ufficio legale di EUCOM il 30 luglio 2003, il Dipartimento di Stato (DoS) ha rifiutato l’autorizzazione a rilasciare informazione (“clearance”) sugli accordi di accesso di varie basi americane in Europa. Il Colonello Miller dell’ufficio legale di Stoccarda sostiene che il DoS ha negato l’autorizzazione perché “non sono autorizzati a divulgare questo tipo di informazione a governi stranieri o a terzi”. 21 Durante un’intervista telefonica nel luglio 2003, il Colonello Miller dell’ufficio legale di EUCOM non ha smentito che gli Stati Uniti hanno attualmente dei SOFAs con 93 paesi, ma non ha fornito ulteriore informazione. 22 Le misure richieste dal bilancio del 2004 per proteggere le forze e combattere il terrorismo comprendono sistemi per scoprire gli intrusi, misure per mitigare le esplosioni, apparati per rivelare elementi chimici e biologici, miglioramento della protezione delle rive, motoscafi per pattugliare i porti, sistemi di comando regionale, sistemi di notificazione di massa ed iniziative per restringere l’accesso alle istallazioni del Dipartimento della Difesa. ragioni dell’audacia militare e del comportamento imperialista degli Stati Uniti. Tuttavia, vale la pena tornare brevemente ad un documento ufficiale scritto nel 1992 da Paul Wolfowitz per George Bush (Senior), la bozza di “Guida alla Pianificazione della Difesa” [“Defense Planning Guidance”] del Dipartimento della Difesa. Questa bozza fu fatta filtrare al New York Times nel 1992 prima che potesse essere “limata” delle sue pagine imbarazzanti e del suo vocabolario franco. Questo documento incitava gli Stati Uniti a continuare a dominare il sistema internazionale “scoraggiando le nazioni industrialmente avanzate dallo sfidare [la] leadership [statunitense]”. Il consiglio contenuto nella bozza era di mantenere un predominio militare capace di “dissuadere competitori potenziali perfino dall’aspirare ad un maggiore ruolo globale o regionale.” Gli analisti del Pentagono sostenevano che, mantenendo questo predominio, gli Stati Uniti avrebbero potuto assicurare “una zona di pace e prosperità ad economia di mercato, che [comprendeva] più di due terzi dell’economia mondiale.” Questi suggerimenti sono stati applicati alla lettera nel Golfo, per esempio: Gli Stati Uniti ricevono la maggior parte del loro petrolio dalle Americhe (Canada, Messico, Venezuela e gli Stati Uniti stessi); soltanto un quarto proviene dal Golfo Persico. Ciò non dimeno, gli Stati Uniti non si ritirarono dal Golfo dopo la guerra del 1991. Il ragionamento dietro a questo comportamento è semplice: se l’America non “stabilizzasse” il Medio Oriente, allora l’Europa, il Giappone e la Cina – che dipendono dal petrolio del Golfo in modo maggiore – dovrebbero farlo da soli per proteggere i loro interessi. Anche se il loro intervento non disturberebbe necessariamente gli Stati Uniti, nel lungo periodo questi paesi si potrebbero trasformare in potenze in grado di sfidare l’autorità degli Stati Uniti. Come sottolinea Walter Russel Mead (analista di politica estera al “Council on Foreign Relations” a New York), “una delle ragioni per cui [gli Stati Uniti si] assumono questo ruolo di poliziotto nel Medio Oriente è piuttosto per dare l’impressione al Giappone e ad altri paesi che il loro flusso di petrolio è assicurato […] affinché essi non sentano il bisogno di sviluppare potenza, forze armate e una dottrina sulla sicurezza”. In altre parole, gli amici degli Stati Uniti sono potenziali nemici. Essi devono essere mantenuti in uno stato di dipendenza e devono cercare la soluzione ai propri problemi a Washington. Sebbene la bozza di “Guida alla Pianificazione della Difesa” sia stata disconosciuta dopo la sua pubblicazione nel New York Times, rimane un documento di base per i pianificatori del Pentagono. Si ritrovano molte tracce di questa bozza nella “Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti” [National Security Strategy of the United States] di Settembre 2002. Nel Atlantic Monthly di Gennaio 2002, due famosi analisti di difesa (Christopher Layne e Benjamin Schwartz) identificavano la bozza – smentita solo a parole – e le sue tesi principali come chiave di lettura per capire perché il Pentagono stia perseguendo Guerre & Pace 9 L’OMBRA DELLE BASI un potere militare maggiore di tutte le forze dei suoi concorrenti messi insieme. Essi aggiungevano che le soluzioni ai conflitti non erano necessariamente nell’interesse dell’America.23 Per esempio, se la Corea del Nord e del Sud fossero riunificate, gli Stati Uniti dovrebbero ritirarsi ed il Giappone potrebbe sentire il bisogno di diventare militarmente auto sufficiente. La situazione migliore, sostenevano, è perciò lo status quo, che permette alle forze degli Stati Uniti di rimanervi indefinitamente. Questo vale anche per molti altri teatri di conflitto, come i Balcani, l’Asia Centrale, l’Iraq, etc. In questo senso, potremmo sostenere che il perdurare dell’esistenza di organizzazioni terroristiche e di instabilità in varie aree del mondo può essere considerato di qualche utilità per gli Stati Uniti. American Century (PNAC)], un gruppo fondato nel 1997 che comprende potenti membri – quali Dick Cheney e Paul Wolfowitz.24 Nel settembre 2000, il PNAC produsse un rapporto intitolato “Ricostruire le Difese dell’America” [Rebuilding America’s Defenses], che incoraggiava un massiccio aumento delle spese militari ed la conduzione di diverse importanti guerre regionali (di teatro) per stabilire il predominio americano nel mondo. Secondo questo rapporto, il fine ultimo è di stabilire la “Pax Americana” in tutto il pianeta (proiettando il potere degli Stati Uniti all’estero, tramite l’istituzione di basi e l’intervento militare quando necessario). La prima tappa di questo schema di politica di difesa fu la rimozione di Saddam Hussein e l’instaurazione di un protettorato americano in Iraq. Uno dei motivi era la creazione di una piattaforma militare nell’area per l’eventuale invasione e deposizione di diversi regimi Mediorientali.25 Seguendo scrupolosamente il piano di Wolfowitz del 1992 – che sosteneva che l’intervento militare USA doveva diventare un “elemento costante” del Nuovo Ordine Mondiale – il Dipartimento della Difesa sta attualmente ridisponendo le proprie forze per acquisire tale “capability” (capacità militare). La dottrina del Pentagono che sta emergendo (codificata nella “Strategia della Sicurezza Nazionale” e fondata principalmente sul lavoro dell’Ammiraglio in pensione Arthur Cebrowski, capo dell’Ufficio per la Trasformazione delle Forze del Dipartimento della Difesa, e Thomas Barnett della Scuola di Guerra Navale) sostiene che i pericoli contro cui le forze degli Stati Uniti devono essere disposte derivano proprio da paesi e regioni che sono “scollegati” dalla tendenza prevalente di globalizzazione economica. Questa formula ricorda il corollario alla Dottrina Monroe enunciato nel 1903 da (Theodore) Roosevelt, che 24 Diego Garcia (Oceano Indiano) Il pensiero che ispirava la bozza del 1992 continua a figurare negli schemi e nelle proposte del “Progetto per un Nuovo Secolo Americano” [Project for a New 23 Le priorità geopolitiche potrebbero spiegare la frequente riluttanza degli Stati Uniti a dichiarare vittoria in molte delle guerre che iniziano: Hussein fu deliberatamente lasciato al potere dal 1991 al 2003, il Mullah Omar e Bin Laden non furono catturati, etc. In generale, sembra che ci sia una tendenza a non risolvere i conflitti interni (o addirittura ad incoraggiare la loro continuazione) nelle zone strategicamente allettanti per gli Stati Uniti: il miglior esempio è il Kossovo, dove i militari americani tollerano che il KLA-NLA continuino indisturbati le loro attività violente intorno a Camp Bondsteel. Esistono numerose prove del coinvolgimento nel 1998 di consiglieri militari Britannici e Americani – distaccati da imprese mercenarie private – in attività di collaborazione con il KLA-NLA (che tra l’altro è stato equipaggiato e armato dagli Stati Uniti). Disordini, instabilità e terrorismo incessanti sono giustificazioni comode per il mantenimento di basi avanzate americane in posti come il Golfo Persico, l’Asia Centrale, i Balcani e l’Asia Meridionale. 10 I membri del PNAC comprendono: IlVice Presidente Dick Cheney (uno dei fondatori del PNAC); I. Lewis Libby (il principale assistente per la sicurezza nazionale di Cheney); Donald Rumsfeld (Segretario alla Difesa , anche lui membro fondatore); Paul Wolfowitz (Vice Segretario alla Difesa, padre ideologico del gruppo); Eliot Abrams (membro del “National Security Council”, graziato da Bush Sr. per lo scandalo Iran/Contra); John Bolton (Sottosegretario per il Controllo dell’Armamento e la Sicurezza Internazionale); Richard Perle (ex Presidente del “Defense Policy Board”); Randy Scheunemann (Presidente del Comitato per la liberazione dell’Iraq, consigliere di Rumsfeld sull’Iraq nel 2001); Bruce Jackson (Presidente del PNAC, già Vice Presidente della Lockheed-Martin , capo del “Republican Party platform subcommittee for National Security and Foreign Policy” durante la campagna elettorale del 2000); William Kristol (giornalista per il Weekly Standard, un settimanale di proprietà del magnate conservatore e Murdoch). 25 L’autore Norman Podhoretz (firmatario del PNAC) scrisse nel numero di settembre 2002 della sua rivista Commentary: “[I regimi] che meritano abbondantemente di essere rovesciati e sostituiti non si limitano ai tre membri identificati dell’ ‘Asse del Male’. L’asse dovrebbe essere esteso almeno alla Siria, al Libano e alla Libia, ma anche ad ‘amici’ dell’America quali la famiglia reale Saudita e l’Egitto di Mubarak, insieme all’Autorità Palestinese sia diretta da Arafat che da uno dei suoi scagnozzi”. Aggiunse che “alla fine, si tratta di attuare la riforma e la modernizzazione dell’Islam già molto in ritardo”. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI rivendicava il “potere di polizia internazionale” di Washington nell’intervenire contro “le malefatte croniche, o un impotenza che risulta nell’allentamento generale dei legami della società civilizzata”. Questa dottrina dell’inizio del XX secolo fu applicata nel bacino dei Caraibi e ebbe come conseguenza l’intervento militare americano da numerosi basi situate tra Porto Rico e Panama – una caratteristica costante della politica degli Stati Uniti in quella regione. Gli spiegamenti attualmente proposti da Wolfowitz, Cebrowski e Barnett sono giustificati con argomentazioni molto simili. I pianificatori militari parlano sempre più spesso di stabilire basi avanzate semi-permanenti o permanenti in una gigante fascia di territorio globale – nominato “Arco di Instabilità” [Arc of Instability] – che si estende dal bacino dei Caraibi, attraverso l’Africa e l’Asia Meridionale e Centrale, fino alla Corea del Nord.26 Lo scopo è semplicemente di pre-posizionare equipaggiamento e un poco di personale militare in quelle posizioni avanzate, in modo da essere in grado di intervenire con forza schiacciante entro poche ore dall’esplosione di una crisi. Il termine che Barnett usa per le aree di maggior minaccia è il “Gap” [the Gap]27, luoghi dove la globalizzazione si assottiglia o è addirittura assente. Barnett scrisse nel 2003 sul periodico Esquire: “Se facciamo una cartina delle risposte militari degli Stati Uniti dalla fine della Guerra Fredda, scopriamo una schiacciante concentrazione di attività in regioni del mondo che sono escluse dal crescente “Core” [Nucleo] della globalizzazione – in particolare i Caraibi, l’Africa, i Balcani, il Caucaso, l’Asia Centrale, il Medio Oriente e l’Asia Sud Occidentale, e anche la maggior parte dell’Asia Sud Orientale”. Egli sosteneva che la sfida nel combattere reti di terroristi consisteva sia nel “prenderli dove vivono, nell’Arco di Instabilità, sia nel prevenire la diffusione della loro influenza in ciò che Barnett chiama gli “Seam States” [Stati Anello di Congiunzione]28, situati tra il “Gap” ed il “Core”. Tali stati includono Messico, Brasile, Sud Africa, Marocco, Algeria, Grecia, Turchia, Pakistan, Tailandia, Malesia, Filippine e Indonesia. Nella logica di Barnett, queste nazioni dovrebbero avere un ruolo critico, compreso quello di provvedere basi avanzate per gli interventi nel “Gap”. Barnett affermò anche: “Se certi stati allentano i loro legami economici con l’economia globale, caos e spargimento di sangue ne seguiranno, e se siamo fortunati, arriveranno anche le truppe 26 Tale espansione dovrebbe essere controbilanciata da consistenti riduzioni delle forze stanziate in Germania, Turchia e Arabia Saudita. 27 Il termine “gap” è difficilmente traducibile in Italiano. Si potrebbe usare la parola “lacuna”oppure “vuoto”. “The Gap” potrebbe dunque essere tradotto “Zona di Vuoto”, inteso come fuori dal sistema giuridico, politico ed economico dominante. 28 Letteralmente, “seam” significa “cucitura”. Questi stati [“Seam States”] vengono paragonati ad una cucitura tra gli stati del “Core” [Nucleo] e gli stati del “Gap”[Zona di Vuoto]. americane”. Alla vigilia della guerra in Iraq, Barnett predisse che la presa Baghdad non sarebbe stata un regolamento di vecchi conti e non sarebbe neanche servita ad imporre l’eliminazione di armi illegali. Piuttosto, egli scrisse, “segnerà un momento storico di ribaltamento – il momento in cui Washington prende davvero il possesso della sicurezza strategica nell’era della globalizzazione.” Gli osservatori noteranno che l’Arco di Instabilità di Barnett corrisponde grosso modo con regioni di grande ricchezza di petrolio, gas e minerali – un’altra reminiscenza della bozza di “Guida alla Pianificazione della Difesa” del 1992 di Wolfowitz: asseriva che l’obiettivo chiave della strategia degli Stati Uniti doveva tradursi nell’ “impedire ad ogni potere ostile di dominare una regione le cui risorse, sotto un controllo consolidato, potrebbero essere sufficienti a generare potere globale”. Camp Bondsteel (Kossovo) Tra le molteplici teorie che spiegano il comportamento degli Stati Uniti, una merita di essere menzionata: in uno studio pubblicato nel febbraio 2002, Zoltan Grossman – nel tentativo di capire le radici e le motivazioni della politica estera americana attuale – notava che, dalla fine della Guerra Fredda dieci anni fa, gli Stati Uniti avevano condotto varie guerre in Iraq, Somalia, Yugoslavia e Afganistan.29 Egli sosteneva che la ragione principale per tale ansia di combattere30 29 Zoltan Grossman, “New US Military Bases: Side Effect or Cause of War?” (Università di Madison, Wisconsin – Dipartimento di Geografia) 30 Grossman nota che, dalla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno fatto la guerra anche se la diplomazia stava funzionando o avrebbe potuto essere usata per evitare il conflitto. Per esempio: Nel 1991 in Iraq, Hussein si stava disimpegnando dal Kuwait grazie ad un piano sovietico. In Somalia nel 1992, la carestia stava diminuendo, ma l’intervento fu fatto comunque.In Serbia nel 1999 la Yugoslavia aveva già ottemperato ai termini per il ritiro (dal Kossovo) sanciti alla conferenza di Rambouillet. In Afganistan nel 2001 non fu esercitata molta pressione diplomatica sui Talebani per la consegna di Bin Laden o dei suoi generali. Potremmo aggiungere l’esempio dell’Iraq nel 2003: Hussein si stava attenendo ai termini delle Nazioni Unite e stava distruggendo le poche armi che gli erano rimaste, ma gli Stati Uniti hanno sabotato apertamente il processo di ispezione delle Nazioni Unite per poter attaccare. Siamo tentati di concludere che Washington è andato in guerra non come ultima risorsa, ma perché vedeva la guerra come una comoda opportunità per inseguire scopi più ambiziosi. Guerre & Pace 11 L’OMBRA DELLE BASI potrebbe semplicemente essere un certo declino economico degli Stati Uniti rispetto ad altri due blocchi emergenti: l’Europa (il blocco dell’Euro) e l’Asia Orientale (Giappone, China e le “quattro tigri” asiatiche – il blocco dello Yen). Sottoposti a feroce competizione da parte di questi due blocchi emergenti, gli Stati Uniti si trovarono di fronte alla prospettiva di essere messi da parte economicamente nella maggior parte della massa continentale Eurasiatica. In questo senso, i grandi interventi militari degli Stati Uniti dal 1990 potrebbero essere visti come un’offensiva per recuperare influenza sulla massa Eurasiatica, con lo scopo di evitare di essere marginalizzati e di rimanere indietro nel gioco economico globale. Dal punto di vista militare, gli Stati Uniti sono ancora indubbiamente una superpotenza senza rivali. Essi continuano a proiettare quella superiorità militare in nuove regioni strategiche, come futuro contrappeso ai suoi concorrenti economici, a scopo di creare un “blocco del Dollaro” sostenuto militarmente , cuneo situato geograficamente tra i suoi competitori – tra il “blocco dell’Euro” ed il “blocco dello Yen”. In conclusione, tutto – dai documenti ufficiali al loro comportamento effettivo – sembra indicare che gli Stati Uniti si stiano inserendo aggressivamente in nuove regioni del mondo, per impedire ai propri concorrenti di fare la stessa cosa. Zoltan Grossman identifica due fini dietro l’attuale politica estera degli Stati Uniti: Dal 1990, abbiamo visto che ogni intervento in larga scala degli Stati Uniti ha lasciato una moltitudine di nuove basi militari americane31 in regioni dove gli Stati Uniti non avevano mai avuto un punto d’appoggio. In un momento molto critico della storia, l’apparato militare americano si sta quindi inserendo in aree strategiche del mondo, e sta ancorando l’influenza geopolitica degli Stati Uniti nel cuore continentale [“middle ground”] tra l’Europa ad Ovest, la Russia a Nord e la Cina ad Est – trasformando in questo modo la regione in una “sfera d’influenza” americana. È importante notare che, non appena questa sfera d’influenza USA tra Europa e Asia Orientale ha cominciato a consolidarsi, l’attenzione degli americani si è spostata immediatamente verso l’Iraq e l’Iran quali unici poteri regionali rimasti sul loro cammino [Cf. Appendix II & Appendix V]. Simultaneamente, in altre parti del mondo, gli Stati Uniti hanno rafforzato il loro controllo sulle loro sfere d’influenza esistenti, quali l’America Latina e l’Asia Meridionale. Per esempio, con la scusa della “Guerra al Terrorismo”, essi hanno tentato (discretamente) di ristabilire i loro diritti di accesso alle basi delle Filippine. La loro attenzione si è anche rivolta alla Corea del Nord. Questo potrebbe essere parte di uno sforzo per affermare l’influenza degli Stati Uniti in Asia Orientale, mentre la Cina emerge come potenza globale ed altre economie asiatiche si riprendono dalle crisi finanziarie. DAGLI ATTACCHI DELL’11 SETTEMBRE 2001, LE FORZE DEGLI STATI UNITI HANNO: q Lo scopo a breve termine è di accrescere il controllo delle grandi imprese americane sul petrolio necessario all’Europa e all’Asia Orientale; q Lo scopo a lungo termine è di stabilire nuove sfere d’influenza americane e di eliminare ogni ostacolo a questo processo – siano militanti religiosi, nazionalisti laici, governi nemici o anche alleati scomodi 2. QUADRO GENERALE DELLE BASI MILITARI STATUNITENSI PER REGIONE § costruito, potenziato o espanso basi militari su tutto l’ ”Arco di Instabilità”; § autorizzato prolungate missioni di addestramento o dispiegamenti di truppe senza limiti precisi negli “Stati Anello di Congiunzione” [Seam States] quali Gibuti, le Filippine e l’ex-repubblica Sovietica della Georgia; § negoziato accesso ad aeroporti e porti nei Balcani, Asia Centrale e Orientale, Medio Oriente e Africa; § intrapreso grandi esercitazioni militari, che coinvolgono migliaia di soldati americani, in luoghi quali India, Giordania, Kuwait, Georgia, le Filippine, e in vari altri stati dell’Europa Centrale ed Orientale, dell’Africa e dell’America Latina; § potenziato e stabilito basi supplementari per la raccolta di “intelligence” in tutto il mondo (come nello Yemen, in Asia Centrale e in America Latina); § iniziato a pre-posizionare materiale militare nell’Asia Centrale e nei Balcani, ed aggiunto migliaia di tonnellate di equipaggiamento militare a depositi già preposizionati nel Medio Oriente e negli stati del Golfo Persico, tra cui Israele, Giordania, Kuwait e Qatar. DISPOSIZIONI GIURIDICHE TRA GLI STATI UNITI E I PAESI OSPITANTI 31 Ogni volta che un intervento viene pianificato, i pianificatori del Pentagono si concentrano sulla costruzione di nuove installazioni militari USA o sull’ottenimento di diritti di utilizzo di basi estere, in modo da sostenere la guerra in preparazione. Ma una volta il conflitto terminato, le forze USA hanno tendenza a non ritirarsi. Ciò dimostra che le basi militari americane non sono costruite solo in appoggio all’intervento (come affermano esponenti ufficiali), ma l’intervento stesso permette una occasione conveniente per istituire delle basi. Quindi le basi possono essere viste come la causa della guerra e non come un effetto collaterale. 12 La maggior parte delle nuove basi avanzate e delle posizioni operative32 sono state istituite con 32 Esistono diversi tipi di presenza militare USA, secondo il livello di impegno, che il DoD classifica in: (1) “Forward Operating Base” Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI disposizioni segrete ad hoc espresse in vari tipi di accordi bilaterali, trattati, promemoria di intesa [Memoranda of Understanding (MoUs)]. Da queste disposizioni derivano degli “accordi per basi militari” più precisi – che comprendono gli “Accordi sullo Status delle Forze” [SOFAs] e vari tipi di accordi che garantiscono l’accesso. I precedenti SOFAs (e accordi ad essi connessi che stabilivano basi o garantivano l’accesso) firmati durante la Guerra Fredda erano pubblici. Al contrario, le recenti disposizioni americane a questo riguardo sono riservate. Gli “Accordi sullo Status delle Forze” [SOFAs] definiscono lo status legale del personale e dei possedimenti americani sul territorio di un’altra nazione. Lo scopo di tali accordi è di stabilire diritti e responsabilità sia degli Stati Uniti che dello stato ospite in materia di giurisdizione civile e penale, e per questioni riguardanti il porto dell’uniforme, il porto d’arma, l’esenzione fiscale e doganale, l’ingresso e uscita del personale e dei possedimenti, e la risoluzione di domande d’indennizzo per danni. I SOFAs possono avere tre forme: uno status per il personale tecnico e amministrativo previsto dalla Convenzione di Vienna sui Privilegi Diplomatici, comunemente denominati status A e T; un “mini” SOFA spesso usato per brevi permanenze (come le esercitazioni militari); e un SOFA completo e permanente per il personale stanziato. Le varie disposizioni dipendono dalla natura e dalla durata dell’attività militare degli Stati Uniti nel paese ospite, dallo stato delle relazioni con quel paese, e dalla situazione politica prevalente all’interno del paese. Il SOFA è generalmente parte integrante di un accordo generale per le basi militari (comprendente anche un “accordo di accesso” [access agreement]), che autorizza le forze militari degli Stati Uniti ad operare all’interno del paese ospite. Ogni SOFA è unico e viene abitualmente negoziato separatamente (sebbene gli Stati Uniti abbiano un SOFA multilaterale con i membri della NATO). I SOFAs disciplinano la giurisdizione civile e penale. Essi sono strumenti vitali con cui il Dipartimento della Difesa espleta la sua direttiva politica di “proteggere, nella maggior misura possibile, i diritti del personale degli Stati Uniti che può essere soggetto a processi penali da parte di tribunali stranieri e a detenzione in prigioni straniere”. La maggior parte dei SOFAs riconoscono il diritto del governo ospite alla “giurisdizione primaria”, con due eccezioni (che generalmente si applicano solo in processi penali che riguardano personale americano): quando il reato è commesso da americani contro altri americani, e quando il reato è commesso da militari americani in servizio. In ambedue i casi gli Stati Uniti hanno giurisdizione primaria sugli imputati americani. Come lo fa notare il DoD, gli Stati Uniti devono usare diversi tipi di accordi in risposta alla crescente “complessità” della loro presenza oltremare: “Non solo gli Stati Uniti continuano ad avere forze stanziate su basi fisse in Europa e nel Pacifico, ma stanno anche perseguendo iniziative che comprendono vari accordi di accesso necessari al sostegno della proiezione di forza o del programma di Partenariato per la Pace. Altre iniziative già esistenti vengono ora perseguite con maggior vigore – vendite di materiale militare all’estero, esercitazioni, scambi di unità e di soldati individuali, e visite. In aggiunta alle operazioni militari tradizionali, gli Stati Uniti sono ora impegnati in nuovi tipi di iniziative, quali il controllo della droga e le missioni di pace delle Nazioni Unite.” Per ogni tipo di attività oltremare – che si tratti di disposizioni di accesso, di “peacekeeping”, di esercitazione militare, di casi di vendita di materiale militare all’estero, di scambio di unità o di visita di aerei – il DoD valuta con cura quale tipo di accordo [basing agreement], di SOFA e di disposizioni aggiuntive sia necessario. I SOFAs comprendono una serie di provvedimenti standard che potrebbero essere discutibili, dal punto di vista del paese ospite: § Accesso militare generalizzato ai porti e allo spazio aereo del paese ospite; § Immunità diplomatica per il personale militare degli Stati Uniti; § Proibizione di accesso o di ispezioni delle installazioni USA da parte delle autorità locali; § Esenzioni fiscali; § Missione non specificata o ambigua; § Affitto lungo o talvolta illimitato. In genere, i paesi ospitanti si aspettano e/o ricevono una contropartita in cambio della firma di tali disposizioni e dell’autorizzazione della presenza militare americana sul loro territorio. Esempi di alcuni provvedimenti solitamente compresi negli accordi per istituire basi americane sono: § (FOB), (2) “Forward Operating Location” (FOL) and (3) “Forward Support Location” (FSL). Una FOB può ospitare una media di 1 0003 000 soldati per turni brevi, mentre una FOL solo alcune centinaia. Il personale stanziato in questo tipo di basi è normalmente molto limitato. Spesso sono di proprietà dell’esercito del paese ospitante. Una FSL invece serve spesso da deposito per materiale preposizionato, e non ospita necessariamente soldati USA. Inoltre, esistono anche delle basi più permanenti. [Definition of a Forward Operating Base: “A base established within the operational area to support tactical operations. It will be resourced to provide minimum services commensurate with sustaining the required level of air effort”]. § § Concessioni commerciali e accesso a prestiti vantaggiosi; Equipaggiamento militare e addestramento; Tolleranza tacita delle violazioni di diritti umani che il governo ospitante potrebbe commettere contro gruppi di opposizioni interni. Guerre & Pace 13 L’OMBRA DELLE BASI DESCRIZIONE DELLA PRESENZA MILITARE USA PER REGIONE (A) Asia Centrale L’interesse strategico degli Stati Uniti nell’Asia Centrale iniziò prima degli attacchi dell’11 settembre, ma la “Guerra al Terrorismo” ha fornito all’amministrazione una scusa per accelerare il processo. Già nella metà degli anni ‘90 questa regione fu dichiarata ufficialmente sfera di vitale interesse americano. Zbigniew Brzezinski, ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale del Presidente J. Carter [National Security Adviser] e prominente analista politico, mostrò chiaramente nel suo libro The Grand Chessboard (La grande scacchiera) come l’attuale allargamento dell’apparato militare degli Stati Uniti abbia poco a che fare con lo sradicamento del terrorismo, ma come sia piuttosto teso a raggiungere certi obiettivi geopoliticamente strategici in Asia Centrale. Lo scopo è di accerchiare l’area con basi militari americane per stabilire, mantenere ed aumentare l’egemonia degli Stati Uniti nella zona. Ciò facendo, gli Stati Uniti intendono tenere a bada l’ambizione Cinese, Russa e Iraniana, mentre allo stesso tempo incoraggiano lo sfruttamento delle risorse di petrolio e di gas della regione in modo da favorire gli interessi strategici di lungo periodo degli Stati Uniti. Come Thomas Donnelly - vice direttore del PNAC - scrisse in un e-mail fatto circolare tra i principali analisti militari, “ il perimetro imperiale si sta espandendo in Asia Centrale”.33 In sintonia con l’analisi di Brzezinski, il Dipartimento della Difesa stava discretamente lavorando già prima dell’11 settembre con le nazioni dell’Asia Centrale per stabilire legami più stretti, in molti casi attraverso il programma “Partenariato per la Pace” della NATO. Discussioni bilaterali furono anche intraprese con paesi come l’Usbechistan. La “Revisione Quadriennale della Difesa” [Quadriennal Defense Review] del Dipartimento della Difesa (pubblicata poco prima dell’11 settembre) identificava l’Asia del Nord Est ed il litorale dell’Asia Orientale come “aree critiche” per l’interesse degli Stati Uniti, che non possono essere abbandonate ad una “dominazione ostile”. Il rapporto prediceva che l’Asia stava “emergendo come una regione suscettibile di competizione militare su grande scala”, con una “mescolanza volatile di potenze sia crescenti che decadenti”. Affermava che “un competitore con formidabili risorse sarebbe emerso nella regione”, aggiungendo che la “bassa densità di basi americane [in questa] regione critica [...] rende prioritario assicurarsi accordi supplementari di accesso a basi e infrastrutture [straniere]”. In risposta agli attacchi del 11 settembre, le forze degli Stati Uniti aumentarono la loro presenza nell’Asia Centrale per prepararsi al bombardamento 33 Citato dal Washington Post, 9 febbraio 2002 14 dell’Afganistan. Entro dicembre 2001 le truppe americane avevano formalmente ottenuto l’accesso alle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale (eccetto il Turkmenistan) e cominciavano ad usare pienamente le ex basi militari sovietiche della regione. Entro gennaio 2002, (secondo stime di esperti russi e cinesi) da 8 000 a 10 000 soldati americani – con l’esclusione dei consiglieri militari e delle Forze Speciali – vi si erano già stabiliti. Da allora numerosi esponenti del governo americano hanno ripetutamente dichiarato che la "Guerra al Terrorismo" sarebbe stata lunga ed indefinita, insinuando che gli Stati Uniti avrebbero dovuto mantenere truppe nell’Asia Centrale per molto tempo. Secondo The Guardian l’amministrazione ha assicurato in pubblico che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato le basi dell’Asia Centrale una volta finita la "Guerra al Terrorismo", ma in privato i funzionari ammettono che “sono lì per rimanerci”. 34 Ciò è stato confermato da molte dichiarazioni pubbliche da parte di vari esponenti del governo statunitense: q Colin Powell disse alla “Commissione delle Relazioni Internazionali della Camera dei Rappresentanti” [House International Relations Committee] nel Febbraio 2002: “L’America continuerà ad interessarsi all’Asia Centrale e a mantenervi una presenza inimmaginabile finora, neanche nei nostri sogni”. q Elizabeth Jones, assistente al Segretario di Stato, disse al Congresso: “Quando il conflitto afgano sarà finito non lasceremo l’Asia Centrale. Abbiamo piani ed interessi a lungo termine in questa regione e [...] i paesi che vi appartengono riceveranno assistenza, non solo in cambio di concreti passi verso l’accelerazione delle riforme”... “[gli Stati Uniti] vogliono anche accesso a basi [nella regione] per tutto il tempo che ci servirà”. q Donald Rumsfeld, durante un viaggio in Asia Centrale dopo la campagna afgana, ha incontrato i capi del Kirghisistan, Turkmenistan, Kazachistan e Afganistan. Riassumendo le intenzioni degli Stati Uniti nella regione, ha dichiarato: “Il nostro interesse fondamentale è di avere la capacità di entrare in un paese ed avere una relazione ed avere un’intesa sulla possibilità di atterrare o sorvolare o fare cose che siano di mutuo beneficio per ambedue - ma non abbiamo piani particolari per basi permanenti”. Si potrebbe aggiungere che gli Stati Uniti ora preferiscono la formula più flessibile e più a buon mercato della “Posizione Operativa Avanzata” 34 The Guardian, MacAskill, Marzo 2002 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI [FOL] o del semplice diritto di accesso alle strutture dei paesi ospiti. Secondo varie stime ufficiali americane, l’assistenza a quei paesi (progettata per durare almeno 10 anni) supererà $11 miliardi.35 Inoltre, l’Amministrazione Bush sta facendo abrogare una legge dell’era della Guerra Fredda che condizionava le relazioni commerciali con le ex repubbliche sovietiche, tenendo conto del livello di rispetto dei diritti umani. Nel Gennaio 2002 Humans Rights Watch pubblicò un rapporto annuale, rivelando che gli Stati Uniti stavano prendendo accordi con gli stati dell’Asia Centrale per istituire delle basi militari senza alcuna considerazione per i problemi di democrazia o diritti umani.36 Questo può sembrare un’impresa molto costosa, sia in termini economici che politici, ma in realtà, i benefici potenziali per gli Stati Uniti sono enormi: 1) Crescente egemonia militare in una parte del mondo che non era ancora sotto l’egida degli Stati Uniti; 2) Influenza strategica ampliata alle spese di Russia e Cina; 3) Vantaggio politico chiave ed accesso alle sostanziali riserve di petrolio e gas dell’Asia Centrale, che sfuggono al controllo dell’OPEC. Il Dipartimento della Difesa ha recentemente affermato che sta disegnando i piani per un’ “impronta” [footprint] militare di lungo periodo in Asia Centrale. Il Pentagono ha migliaia di soldati nella regione, tra cui fanteria, truppe per operazioni speciali, polizia militare e analisti di “intelligence” – insieme ad aerei da caccia, aerei da trasporto e da rifornimento, e aerei da ricognizione e sorveglianza. Esso ha iniziato una regolare sostituzione e rotazione delle truppe, così istituzionalizzando i dispiegamenti temporanei di emergenza iniziali.37 (B) Europa Orientale e Balcani Secondo un articolo pubblicato da The Guardian il 28 giugno 2003, gli Stati Uniti hanno attualmente oltre 6 000 soldati schierati nei Balcani [Cf. Appendix VII – Military and Dependent Strengths by Country ]. Attraverso l’Europa Orientale ed i Balcani, le nuove democrazie sanno che l’ospitalità alle forze americane porterà loro un’influenza accresciuta e risorse finanziarie. Dal punto di vista americano, il Generale James Jones, comandante di EUCOM, nella sua rivalutazione dell’ “impronta” [“footprint” ] degli Stati Uniti in Europa ed in Africa (che comprende una riconsiderazione delle basi e degli impegni degli Stati Uniti), sembra raccomandare un importante allontanamento dall’Europa Occidentale ed una crescente attenzione verso l’Est - l’Europa Orientale ed oltre. La nuova attenzione sarà rivolta verso le aree intorno alla periferia Europea che hanno particolare importanza economica e geopolitica. Secondo il Generale Charles Ward, il sostituto di Jones, il centro di gravità rimarrà l’Europa Centrale ma il centro di attività si sposterà.38 Jack Spencer e John C. Hulman della Heritage Foundation39 sostengono che, dato il crescente bisogno operativo al di fuori dell’Europa, le basi in Germania hanno perso il loro interesse strategico. La Germania non si trova più sulla linea di frattura di futuri conflitti militari, e la struttura americana delle basi europee dovrebbe riflettere questa realtà. Poiché è probabile che i futuri conflitti ruoteranno intorno al Caucaso, il Medio Oriente e l’Africa del Nord, l’istituzione di posizioni avanzate più vicine geograficamente a quelle regioni permetterà agli Stati Uniti di rispondere più rapidamente a crisi in quella zona. I due analisti aggiungono che attualmente gli Stati Uniti dipendono troppo da un numero ridotto di paesi (come mostrato dal recente rifiuto del parlamento turco di concedere le proprie basi durante il conflitto con l’Iraq, ed il tentativo del parlamento tedesco di rifiutare lo spazio aereo agli aerei americani). Essi sottolineano che l’esistenza di basi importanti in Romania e in Bulgaria, per esempio, allevierebbe parte del fardello che devono sopportare paesi come la Germania e la Turchia. Secondo i due analisti, gli Stati Uniti dovrebbero approfittare delle molteplici basi dell’era sovietica che sono disponibili attraverso tutta l’Europa Orientale, e ristrutturarle con l’aiuto dei paesi ospiti (molti di loro sono o aspirano ad essere membri della NATO e sono desiderosi di piacere agli Stati Uniti). Ciò costerebbe molto meno che costruire basi totalmente nuove; e la mancanza di rigorose norme ambientali o di altro genere in questi paesi permetterebbe una maggiore libertà operativa ai militari USA. Secondo EUCOM le nuove basi in Europa saranno probabilmente più piccole e sosterranno delle truppe che si alterneranno, allontanandosi dal modello dell’Europa Occidentale dei complessi permanenti, con soldati stanziati per anni insieme ai loro numerosi familiari.40 L’idea generale e lo scopo ultimo dietro il 39 35 CDI Russia Weekly #190, 25 gennaio 2002 36 Questo é stato segnalato dal New York Times nel gennaio 2002. I paesi che potrebbero presto uscire dalla lista nera Americana sono: Armenia, Azerbaijan, Kazachistan, Moldavia, Tajikistan, Turkmenistan, Ucraina, Usbechistan. 37 Il New York Times del 10 gennaio 2002 segnalò che i pianificatori militari americani stavano considerando di far ruotare le truppe nella regione ogni sei mesi, eseguendo contemporaneamente esercitazioni militari con i paesi dell’Asia Centrale, ed aumentando anche il supporto tecnico per questi paesi.38 Intervista alla BBC, 14 Maggio 2003 “Restructuring America’s European Base Structure For The New Era”, The Heritage Foundation Backgrounder, April 25, 2003 – N.1648 40 Le forze degli Stati Uniti si alterneranno su basi più piccole e più spartane per periodi da sei mesi a un anno, senza le loro famiglie (invece di essere stanziati per anni con le loro famiglie, su basi attrezzate con costose infrastrutture, scuole, etc.) Le nuove basi dovrebbero anche essere meno care da costruire: per esempio, è previsto che l’Esercito costruisca una base di $ 692 milioni a Grafenwoehr in Germania, per ospitare 3 500 soldati e 5 000 familiari. In paragone il più grande deposito di equipaggiamento preposizionato dell’Esercito recentemente costruito in Qatar costa solo $110 milioni. Guerre & Pace 15 L’OMBRA DELLE BASI nuovo “footprint” del Dipartimento della Difesa conformemente alle proposte di ristrutturazione delle forze armate di Bush (Senior) del 1990 - è di restringere la presenza di militari stanziati in paesi stranieri, ma di mantenere abbastanza potenza e flessibilità per difendere gli interessi americani. Come parte del concetto di “deterrenza avanzata” sviluppato nel 2001 dalla Revisione Quadriennale di Difesa [Quadriennal Defense Review] (che prevedeva la ridistribuzione di basi operative avanzate ed il miglioramento delle capacità di effettuare spedizioni), e conformemente alla nuova “footprint” del Generale Jones, le forze di spedizione saranno posizionate nell’Europa Sud Orientale, in posti come la Romania e la Bulgaria, per permettere un transito più facile verso le aree problematiche. In uno sforzo più ambizioso, potrebbe essere creato in Polonia un centro di addestramento congiunto simile al “Centro di Addestramento Nazionale” [US National Training Center] degli Stati Uniti. [Cf. Appendix VII – Military and Dependent Strengths by Country & Appendix VIII – Major US Installations in Europe: Current and Possibile Future] (C) Medio Oriente Gli Stati Uniti hanno mantenuto una sostanziale presenza militare in questa regione dalla guerra del Golfo del 1991, specialmente in Arabia Saudita e in Kuwait. Dopo gli attacchi dell’11 settembre questa presenza è aumentata considerevolmente - un processo che è culminato con l’istituzione di un protettorato americano in Iraq in seguito all’attacco a questo paese nel marzo 2003. militare in Arabia Saudita e diminuire le loro forze in Turchia, mentre prenderebbero in considerazione una presenza a lungo termine in una o più basi in Iraq. [Cf. Appendix XI – MIDDLE EAST ] (D) Africa I PIANIFICATORI MILITARI USA SCOPRONO L’ AFRICA Nel Luglio 2003 Bush visitò 5 nazioni africane – Senegal, Sud Africa, Botswana, Uganda e Nigeria – con ciò indicando che gli Stati Uniti stanno rivolgendo la loro attenzione verso un continente che è sempre più spesso visto come fonte sia di minacce che di opportunità. Nelle recenti settimane, Bush ha chiaramente invocato la necessità di un cambio governo in Zimbabwe e in Liberia, e gli Stati Uniti sono timidamente arrivati quasi sul punto di mandare truppe americane in Liberia come “peacekeepers”. Ancora una volta l’interesse rinnovato nell’Africa da parte degli Stati Uniti trova le sue radici nella "Guerra al Terrorismo", e nei conseguenti cambiamenti della dottrina militare e della strategia. Secondo le dichiarazioni ufficiali, gli Stati Uniti tengono molto a prevenire che le nazioni povere nell’ “Arco dell’Instabilità” diventino terreno fertile e rifugi per i terroristi. Il prossimo passaggio logico può solo essere un’accresciuta presenza militare in Africa, il diritto di accesso a nuovi porti, ulteriori autorizzazioni di aprire basi e un numero maggiore di soldati impegnati sul territorio africano – siano essi “peacekeeper”, addestratori militari, o soldati dispiegati o stanziati. Ma già nel marzo 2002, durante un viaggio nel Medio Oriente, Dick Cheney - rivolgendosi a soldati americani - dichiarò: “Il nostro paese è impegnato nel Medio Oriente in quanto forza di stabilità e di pace a lungo termine [...] Questa guerra finirà quando noi ed i nostri alleati avranno portato la giustizia - in misura completa - e nessun gruppo terrorista o governo potrà minacciare la pace nel mondo”.41 Facendo eco alle parole di Cheney, il Generale Richard Meyers disse al periodico di difesa degli Emirati Arabi Uniti [UAE Gulf Defense Magazine] che gli Stati Uniti intendevano mantenere la loro presenza militare nella regione per molto tempo. Economicamente, l’Africa è anche vista come il mercato mondiale meno sfruttato. Secondo Richard Stevenson, gli Stati Uniti nutrono la speranza che le sostanziali riserve di petrolio dell’Africa possano avere un ruolo di maggior rilievo per l’economia americana.42 Inoltre il controllo delle compagnie americane sulle riserve di petrolio africane e una “protezione” militare americana di questo nuovo flusso petrolifero impedirebbe ad altre potenze (come l’Europa) di tentare di spostarsi in Africa e fare la stessa cosa da sole (conseguentemente aumentando il loro potere sulla scena mondiale). Il Pentagono sta ora conducendo un vasto riesame della presenza militare americana a lungo termine nel Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno attualmente accesso a basi essenziali per le forze aeree, navali e terrestri in Bahrein, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Emirati Arabi Uniti. Secondo diverse fonti ci sono circa 15 000 soldati americani stanziati su delle basi del Medio Oriente - con l’esclusione di quelli attualmente impegnati in combattimento/peacekeeping in Iraq. Gli analisti sostengono che gli Stati Uniti potrebbero presto ridurre o eliminare la loro presenza Alcuni anni fa gli Stati Uniti iniziarono a negoziare accordi con Gana, Senegal, Gabon, Namibia, Uganda e Zambia per autorizzare aerei americani a volare attraverso la regione e a rifornirsi sulle basi locali. Ma ora il DoD desidera anche aumentare la cooperazione militare con i paesi africani. Gli ultimi dettagli del “piano per l’Africa” degli Stati Uniti sono stati rivelati dal Wall Street Journal il 10 giugno 2003. Il Pentagono pianifica di aumentare le forze americane a Gibuti nel Corno d’Africa, dall’altra parte del Mar Rosso rispetto allo Yemen. Intende anche istituire Posizioni Operative 41 Comunicato stampa dell’AP, March 13, 2002 16 42 The New York Times, July 6, 2003 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI Avanzate [FOLs] semi-permanenti in Algeria, Marocco e forse in Tunisia, e stabilire basi minori in Senegal, Gana e Mali. Secondo il Wall Street Journal quelle basi avanzate potrebbero essere usate come piattaforma per intervenire in paesi ricchi di petrolio, particolarmente la Nigeria. Questo piano concorda molto bene con la teoria di Barnett. Gli Stati Uniti devono stabilire una presenza militare negli “Stati Anello di Congiunzione” [Seam States] (quali Algeria e Marocco) per poter intervenire nel “Gap” (quegli stati caotici che resistono l’integrazione nel sistema economico globale) se fosse necessario. Ciò è confermato da Eric Schmitt nel New York Times del 5 Luglio 2003: gli Stati Uniti stanno attivamente cercando di espandere la loro presenza anche nei paesi arabi del Nord Africa, oltre che nell’Africa SubSahariana, attraverso nuovi accordi per basi ed esercitazioni di addestramento rivolte a combattere una crescente minaccia terroristica nella regione. Questo è un nuovo esempio di espansione militare statunitense giustificata dalla "Guerra al Terrorismo". Più precisamente, gli Stati Uniti vogliono migliorare i loro legami militari con alleati come il Marocco e la Tunisia, e stanno anche cercando di ottenere un accesso di lunga durata in paesi come Mali e Algeria. Le fonti ufficiali affermano che i militari americani potrebbero usare queste basi per addestramenti periodici o per colpire i terroristi. Gli Stati Uniti stanno anche cercando di migliorare ed allargare accordi esistenti per il rifornimento di velivoli in posti come Senegal e Uganda. Infine, secondo una fonte non confermata, il DoD sta attualmente negoziando con lo stato della ex- Somalia britannica [Somaliland] – che ha recentemente dichiarato la sua indipendenza – per il diritto di usare il suo porto. Esponenti del DoD affermano che gli Stati Uniti non hanno l’intenzione di stabilire basi permanenti in Africa. Invece, la proposta del Comando Europeo degli Stati Uniti (EUCOM) – che sovrintende anche alle operazioni militari nella maggior parte dell’Africa – è la seguente: le truppe americane di stanza in Europa si avvicenderanno più spesso in campi o aeroporti rudimentali in Africa. I Marines passeranno anche più tempo al largo delle coste dell’Africa Occidentale. Nell’autunno del 2003, EUCOM manderà degli addestratori a lavorare con soldati di 4 stati nord africani in missioni di pattugliamento e di raccolta di intelligence. I Dipartimenti della Difesa e di Stato inizieranno un programma di $6,25 milioni per fornire addestramento, ma anche radio e camioncini Toyota, a piccole unità degli Eserciti della Mauritania, del Mali, del Niger e del Ciad. Fonti ufficiali notano che alcuni di quei programmi sarebbero ancora nella fase progettuale e dovrebbero ancora essere approvati da Donald Rumsfeld. Ma altre iniziative militari in Africa sono già avviate o inizieranno presto. L’impegno ed i costi per il DoD in Africa saranno bassi in paragone a missioni nel Golfo Persico o la penisola di Corea, ma i comandanti dicono che le minacce emergenti richiedono un’accresciuta attenzione verso questo continente da parte del Pentagono. Per esempio, il fatto che il Generale Ward (che comandò le forze americane nella guerra di Afganistan) ora passi metà del suo tempo ad occuparsi di argomenti relativi all’Africa è decisamente un segno della crescente preminenza dell’Africa nella scala delle priorità americane. Confermando questa nuova tendenza, il Generale James Jones del Corpo dei Marines – capo di EUCOM e architetto del nuovo “footprint” della presenza militare americana all’estero – affermò in un intervista nel luglio 2003: “L’Africa, come può essere visto dai recenti avvenimenti, costituisce certamente un problema crescente. Proseguendo la guerra globale al terrorismo, saremo costretti ad andare dove i terroristi si trovano. E abbiamo prove, almeno in via preliminare, che un numero crescente di questi grandi aree senza governo e senza controllo diventeranno potenziali rifugi per quel tipo di attività”. L’intelligence militare degli Stati Uniti sostiene che grandi fasce del Sahara, dalla Mauritania nell’Ovest al Sudan nell’Est, stanno diventando aree predilette dai gruppi terroristi, compreso Al Qaeda. Come in America Latina, il traffico di droga viene anche invocato come scusa per l’intervento. Il Generale dell’Aeronautica Jeffrey Kohler, Direttore della Politica e dei Piani [Director of Plans and Policy] di EUCOM, ha dichiarato durante una recente visita in Marocco, Tunisia e Algeria: “Quello che non vogliamo vedere in Africa è un altro Afganistan, un cancro che cresce nel nulla”. Disse che la sua visita era parte di una azione preventiva a più ampio respiro. Fonti del Pentagono hanno svelato che, dalla fine dei grandi scontri in Iraq, gli Stati Uniti hanno deviato aerei da ricognizione e satelliti dall’area medioorientale per osservare l’Africa con più attenzione, e per condividere le informazioni con governi africani amici. I solleciti del DoD per espandere ed approfondire i legami con l’Africa stanno ricevendo risposte ampiamente positive da parte di molti dei paesi sollecitati. Idriss Jazairy, l’ambasciatore algerino presso gli Stati Uniti ha dichiarato: “Siamo estremamente interessati nell’espansione della nostra cooperazione con gli Stati Uniti nei campi civile e militare. Saremmo pronti a cooperare [con gli Stati Uniti] nell’addestramento di squadre anti-terrorismo africane per affrontare questa sfida comune”.43 È importante ricordare che l’Algeria (come molti altri governi in Africa) è pesantemente militarizzata, e che non è un campione della democrazia e dei diritti umani. La rinnovata attenzione del DoD verso l’Africa fa parte di un tentativo generale da parte di EUCOM di rivedere l’ubicazione e riconsiderare la quantità delle truppe impegnate nella zona di responsabilità americana, composta da 93 paesi che vanno dalla Russia al Sud Africa. Questa revisione fa dunque parte dello sforzo globale del DoD di determinare dove 43 New York Times, July 5, 2003. Guerre & Pace 17 L’OMBRA DELLE BASI posizionare le forze americane sullo scacchiere internazionale. Il Generale Jones ha recentemente dichiarato che prefigurava un sistema che ha denominato “famiglia di basi”, che in Africa comprenderebbe: 1) Basi avanzate, forse con un aeroporto vicino, che potrebbero ospitare fino ad una brigata, cioè da 3 000 a 5 000 soldati; 2) Posizioni Operative Avanzate (FOLs), che sarebbero basi con scarso equipaggiamento dove Forze Speciali, Marines, o possibilmente un plotone o una compagnia di fanteria potrebbero sbarcare in numero crescente secondo le necessità della missione. Il Generale Jones concluse che i militari statunitensi stavano: “cercando di inventare un’opzione più flessibile” che permetterebbe un maggiore impegno attraverso l’area di responsabilità degli Stati Uniti. (E) India Durante la Guerra Fredda, Indira Gandhi rifiutò di dare delle basi ai sovietici, ma protestò anche quando gli Stati Uniti si stabilirono a Diego Garcia (quando i Britannici offrirono loro le strutture portuali). I successivi governi indiani del Partito del Congresso furono ugualmente riluttanti a stringere un’alleanza con gli Stati Uniti, per fedeltà alla politica di “Non Allineamento” di Nehru condotta dai tempi dell’ottenimento dell’indipendenza da parte dell’India. Alcuni esponenti indiani ora sembrano voler riconsiderare la politica estera del loro paese e spingere la nuova alleanza con gli Stati Uniti alla sua logica conseguenza – la coordinazione logistica militare. Durante una vista ufficiale in Australia, il Ministro della Difesa Indiano Jaswant Singh disse che l’India era aperta all’idea di offrire l’uso di basi militari indiane alle forze armate americane. Egli aggiunse che “la cooperazione militare [era] possibile” tra l’India e gli Stati Uniti. Il prossimo passo logico sarà probabilmente l’autorizzazione di basi militari americane in India, o almeno l’accesso per gli Stati Uniti a basi indiane. Egli affermò recentemente: “La cooperazione tra le [nostre] forze armate è anche uno degli elementi della cooperazioni tra India e Stati Uniti. Ma è forse un po’ troppo presto per parlare già di accesso alle basi. Lasciamo queste cose evolvere con il tempo”. Secondo una dispensa del “Press Information Bureau of India” (5 dicembre 2001), il terzo incontro del Gruppo di Politica della Difesa Indo-Statunitense si tenne a Nuova Delhi i 3 e 4 dicembre 2001. Il Sottosegretario per la Politica del DoD Douglas Feith ed il Segretario della Difesa Indiano Yogendra Narain parteciparono a quell’incontro. Le due parti si trovarono d’accordo per mettere nuova enfasi sulla loro cooperazione in materia di difesa e per iniziative antiterrorismo. Una futura cooperazione tra i due paesi significherebbe accresciuti scambi tra le forze armate dei due paesi ed altre attività congiunte. Nel febbraio 2002 le tre forze armate dei due paesi si incontrarono per fare il punto sullo stato della cooperazione tra i due eserciti, per pianificare cooperazione futura, e per assicurare lo svolgimento delle visite, esercitazioni e programmi di addestramento previsti – quali, per esempio, esercitazioni congiunte di addestramento tra i Marines degli Stati Uniti e le corrispondenti forze indiane. Nel giugno 2003 il DoD raccomandò di considerare l’India come un partner strategico degli Stati Uniti e di vendere tecnologia ed equipaggiamento americani modernissimi a questo paese, allo scopo di assicurare l’inter-operabilità tra le due forze armate per potere essere affrontare al meglio qualsiasi crisi o minaccia regionale.44 Il “Chairman” dei Capi di Stato Maggiore degli Stati Uniti, Generale Richard Myers, visitò l’India il 29 luglio 2003 e dichiarò che il suo incontro con la sua controparte indiana Ammiraglio Madhvendera Singh “[era] rivolto a promuovere grandi esercitazioni militari congiunte tra India e Stati Uniti”.45 Inoltre, un incontro del Gruppo di Politica di Difesa IndoStatunitense e due altre conferenze militari ebbero luogo ad agosto 2003. Un rapporto intitolato “La Relazione Militare IndoStatuntitense, Aspettative e Percezioni” affermava che le aree di cooperazione più promettenti erano il settore navale e le esercitazioni congiunte nella giungla fitta. Il rapporto sottolineava che le esercitazioni dovevano tenersi sul territorio indiano, perché “per la Marina americana l’addestramento con la Marina indiana [era] il modo migliore per acquisire expertise sulla regione dell’Oceano Indiano”. Aggiungeva anche che i SEALS (incursori) della Marina americana ed i Commando della Marina indiana stavano pianificando esercitazioni congiunte. Inoltre, le prime esercitazioni di combattimento aereo mai tenute tra squadroni di caccia americani e indiani sono pianificati per l’inizio del 2004. (F) Asia Orientale Alcuni analisti militari hanno sottolineato che, prima degli attacchi dell’11 settembre, l’Amministrazione Bush aveva già deciso di fare dell’Asia Orientale una delle priorità militari americane, perché gli Stati Uniti erano preoccupati dalla crescita della Cina ed altre potenziali potenze nella regione (India e Giappone). Esponenti ufficiali espressero timori non solo di un possibile attacco della Cina a Taiwan, ma anche riguardo la crescente instabilità nell’Asia Sud Orientale. Questa percezione di minaccia potrebbe spiegare il desiderio di proteggere (anche militarmente) i vasti interessi commerciali che gli Stati Uniti hanno nella regione. 44 45 18 Press Trust of India, June 3, 2003. AFP – “US general says ties with India robust”, July 29, 2003. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI In maniera più generale molti analisti teorizzano che il 21° secolo potrebbe essere il “Secolo Asiatico”, ciò che rappresenterebbe per gli Stati Uniti un enorme sfida. Attori determinanti quali Cina, India, Giappone (ed in misura minore Russia) potrebbero svilupparsi rapidamente e diventare molto potenti. Il loro bisogno di petrolio seguirà proporzionalmente il loro sviluppo economico: la CIA ha stimato che entro il 2015, tre quarti di tutto il petrolio Mediorientale sarà utilizzato dall’Asia, facendo diventare quella regione strategicamente critica per Cina, Giappone e India. La Cina – grazie alla crescita dei suoi settori manifatturieri ad alta e bassa tecnologia e alla sua impressionante crescita economica – sarà inevitabilmente il pilastro centrale dell’Asia di domani. L’India, una potenza economica che sta germogliando, con crescenti conoscenze di alta tecnologia, potrebbe diventare il più importante rivale asiatico della Cina.46 Per quanto riguarda il Giappone, il paese asiatico più avanzato tecnologicamente, esso potrebbe conseguentemente sentirsi alle strette tra i due giganti. La sua vicinanza con la Cina sempre più potente e la sua dipendenza dalle importazioni di petrolio potrebbero costringere il Giappone ad allontanarsi dagli Stati Uniti ed a consolidare le sue relazioni con le potenze regionali crescenti – dovendo dipendere sempre di più dalla Cina e dall’India per la protezione del suo flusso di petrolio. Di fatti India e Cina stanno già espandendo le loro forze navali e cercando di dominare l’Oceano Indiano, sempre meno inclini a lasciare il compito agli Stati Uniti. La Cina potrebbe anche finire con il dominare nazioni più piccole come le Filippine, la Corea del Sud e il Vietnam, togliendole alla sfera d’influenza degli Stati Uniti. Perciò non è una coincidenza che gli Stati Uniti si stiano muovendo per accerchiare la Cina (e in un certo modo per “contenerla” prima che acquisti troppo potere), ma anche per stabilire forti legami militari con l’India ed assicurare l’inter-operabilità tra le forze armate indiane e americane. Gli Stati Uniti stanno anche mantenendo una solida presa (militare) sul Giappone, mentre proteggono il suo flusso di petrolio dal Medio Oriente e cercano attualmente di coinvolgerlo pesantemente nella stabilizzazione dell’Iraq (militarmente e economicamente). Le basi militari americane in Giappone e in Corea rimangono una componente critica del deterrente e della “strategia di risposta rapida” americani in Asia. Perciò lo schema di base della presenza militare degli Stati Uniti in Giappone e in Corea è probabilmente destinata a rimanere costante nel futuro. Gli Stati Uniti dovranno anche elaborare una nuova strategia marittima in Asia per controbilanciare la crescente presenza navale di India e Cina. Recentemente il Pentagono ha cercato di aumentare la cooperazione tra le forze navali di India e Stati Uniti, ed ha accettato di 46 trasferire equipaggiamento navale ad alta tecnologia alla Marina indiana. Alcune fonti hanno stimato il numero di truppe americane in Asia Orientale a 100 000. Gli analisti del DoD sostengono che gli Stati Uniti potrebbero non solo spostare alcune delle proprie forze dalla Germania verso l’Europa Orientale, ma anche diminuire la loro presenza in Corea del Sud e in Giappone – come parte di un maggior riallineamento delle forze statunitensi oltremare. Verso la metà del 2003, il DoD stava di fatto pianificando un ampio riallineamento delle sue truppe in Asia, compreso l’uscita dei Marines dal Giappone e l’istituzione di una rete di piccole basi in paesi come Singapore, la Malesia (dove gli Stati Uniti non hanno ancora una presenza sostanziale) e l’Australia. Ci sarà anche un aumento degli stock di materiale di guerra [War Reserve Material (WRM)] pre-posizionato in Asia, materiale che sarebbe depositato in vari porti in Giappone ed altrove – pronto ad essere dispiegato rapidamente in caso di conflitto nell’area. Questo riallineamento permetterebbe una riduzione del numero di truppe stanziate nella regione ed aumenterebbe l’efficienza della presenza militare statunitense. (G) America Latina e Caraibi Ovunque in America Latina gli Stati Uniti stanno usando pubblicamente la scusa della “Guerra alla Droga” per ricostruire ed approfondire i loro legami con le forze armate della regione e per istituire nuove basi avanzate, allo scopo di incrementare la loro capacità di controllo degli eventi e di scoprire velocemente qualsiasi evento o cambiamento che possa minacciare gli “interessi nazionali” degli Stati Uniti. I soldati ed il personale a contratto che gli Stati Uniti dispiegano nelle basi dell’America Latina e dei Caraibi supera di gran lunga il personale delle agenzie civili nella regione. L’installazione di quelle basi militari ha avuto luogo senza la conoscenza, la partecipazione o l’approvazione da parte dei cittadini di quei paesi. Un esplosione di interesse militare americano e di finanziamenti per il “Piano Colombia” ha avuto luogo alla vigilia del ritiro americano dalle basi militari di Panama nel dicembre 1999. Ci fu improvvisamente una proliferazione di nuove basi americane e di accordi di accesso militare nella regione. Secondo questi accordi – che portarono all’istituzione di diverse Posizioni Operative Avanzate (FOLs) – gli aerei USA in missioni di “detection” e di sorveglianza ottennero l’accesso a molti aeroporti o basi aeree nella regione. Un piccolo numero di militari americani, di Doganieri e di personale della DEA [Drug Enforcement Agency] e della Guardia Costiera sono stanziati su queste FOLs per dare assistenza agli aerei USA e coordinare le comunicazioni e l’intelligence. Tuttavia le strutture straniere sono gestite dai paesi ospiti e rimangono di loro proprietà. Tutte queste strutture hanno richiesto investimenti significativi da parte degli Stati Uniti per riparazioni e migliorie. Nel 1999 l’Aeronautica stimava il costo del rinnovamento di tre FOLs a Manta, Ci si attende che per il 2050 l’India sia il paese più popolato del mondo Guerre & Pace 19 L’OMBRA DELLE BASI Curaçao e Aruba a $122,5 milioni (che furono per lo più forniti dal pacchetto di aiuti alla Colombia). L’aumento del numero di questo nuovo tipo di basi (più piccole, più flessibili e meno impegnative) costituisce una decentralizzazione della presenza militare americana nell’area, ed è stata la risposta di 20 Washington alla riluttanza dei leader regionali ad ospitare grandi basi o complessi militari statunitensi. L’ “architettura di teatro” [theater architecture] della regione dell’America Latina e dei Caraibi – come SOUTHCOM chiama questa complessa ragnatela di strutture e funzioni – è attualmente in transizione. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI NUOVE BASI MILITARI AMERICANE: CAUSA OD EFFETTO SECONDARIO DELLA GUERRA? Zoltan Grossman - 5 Febbraio 2002 Dalla fine della guerra fredda una decina di anni fa, gli Stati Uniti sono entrati in guerra contro l'Iraq, la Somalia, la Yugoslavia e l'Afghanistan. Questi interventi sono stati reclamizzati come spedizioni "umanitarie" per mettere termine ad aggressioni, rovesciare dittature, od arrestare il terrorismo. Dopo ogni intervento, entrambi sostenitori e critici hanno speculato a che paese toccherebbe la prossima volta. Ma quello che questi interventi anno lasciato dietro di sé è stato in gran parte ignorato. Conclusa la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno dovuto confrontare la concorrenza dei due blocchi emergenti dell'Europa e dell'Asia orientale. Benchè fossero considerati l'ultima superpotenza militare, gli Stati Uniti stavano affrontando un declino del potenziale economico relativo all'Unione Europea ed il blocco economico asiatico orientale del Giappone, Cina ed le "quattro tigri asiatiche." Gli Stati Uniti affrontavano la prospettiva di essere economicamente esclusi dalla maggioranza del continente euro-asiatico. I principali interventi degli Stati Uniti a partire dal 1990 devono essere interpretati non soltanto come reazioni alla "pulizia etnica" o alla militanza islamica, ma a questa nuova realtà geopolitica. A partire dal 1990, sulla scia di ogni intervento su grande scala, è rimasta una sfilata di base militari in una regione nella quale gli USA non avevano mai avuto un'appiglio. I militari USA si stano inserendo in zone strategiche mondiali, ed solidificano l'influenza geopolitica in queste zone in un periodo critico della storia. Con il sorgere del "blocco dell'euro" e del "blocco dello yen", il potere economico delgi USA è forse in declino. Ma su questioni militari, gli USA sono ancora superpotenza incontestata. Gli USA stanno proiettando la dominanza militare in regioni stategiche come futuro contropeso a futuri concorrenti economici, creando un "blocco del dollaro" sostenuto militarmente e geograficamente situato a cuneo tra i suoi maggiori concorrenti. GUERRE PER BASI Mentre ogni intervento era in via di progetto, i pianificatori si concentravano sulla costruzione di nuove istallazioni militari americane, od assicurare diritti a basi presso istallazioni straniere, per sostenere l'imminente guerra. Ma a conclusione della guerra, le truppe degli Stati Uniti non si sono ritirate, ma sono rimasto indietro, spesso dando nascita a sospetti e rancore presso le popolazioni locali, proprio come le truppe sovietiche hanno affrontato nell'Europa orientale nella 2a guerra mondiale dopo la liberazione. Le nuove basi militari degli Stati Uniti non sono soltanto state costruite per appoggiare gli interventi, ma gli interventi hanno egualmente e convenientemente offerto l'occasione di disporre tali basi. Effettivamente, l'istituzione di nuove basi può a lungo termine essere più critica ai pianificatori di guerra americani che le guerre stesse, così come ai nemici degli Stati Uniti. I massacri dell' 11 settembre non erano direttamente legati alla guerra del Golfo, Osama bin Laden avendo sostenuto la dittatura fondamentalista saudita contro la dittatura secolare irachena in quella guerra. Gli attacchi avevano principalmente radici nella decisione degli Stati Uniti di mantenere basi in Arabia Saudita ed altri stati del Golfo. La disposizione permanente di nuove truppe armate americane in ed intorno ai Balcani e l'Afghanistan potrebbe facilmente generare un simile "blowback" terroristico in futuro. Ciò non vuol dire che tutte le guerre degli Stati Uniti degli ultimi dieci anni sono state il risultato di una congiura coordinata per rendere gli Americani capi supremi della fascia fra la Bosnia e il Pakistan. Ma proietta gli interventi in una luce di risposte opportunistiche ad eventi che hanno permesso a Washington di guadagnare un appiglio "nella terra centrale" fra Europa all'ovest, la Russia al nord e la Cina all'est, ed a trasformare questa regione sempre più in una "sfera d'influenza" americana. La serie d'interventi ha di fatto assicurato il controllo, da parte di società americane, delle forniture di petrolio sia per l'Europa sia per l'Asia orientale. Non è una congiura; è solo "commercio come di consueto". LA GUERRA DEL GOLFO Al contrario di quello che gli USA originalmente promessero ai loro alleati arabi, la guerra del Golfo del 1991 ha lasciato indietro grandi basi militari in Arabia Saudita e nel Kuwait ed il diritto a mantenere basi negli altri stati del Golfo: Bahrain, Qatar, Oman e gli Emirati Arabi Uniti. La guerra ha portato egualmente in risalto le pre-esistenti basi aeree americane in Turchia. La guerra ha completato l'eredità americana della regione petrolifica da cui i Britannici si erano ritirati agli inizi degli anni '70. Tuttavia gli Stati Uniti importano solamente circa il 5 per cento del loro petrolio dal Golfo; il resto è esportato principalmente all'Europa ed al Giappone. Il presidente francese Jacques Chirac ha osservato correttamente il ruolo degli Stati Uniti nel Golfo Persico come un modo di assicurare il controllo delle sorgenti di petrolio delle potenze economiche europee e dell'est asiatico. Gli Stati Uniti hanno deciso di disporre basi permanenti nella regione del Golfo dopo il 1991 non soltanto contro Saddam Hussein e per sostenere il bombardamento continuo dell'Iraq, ma per reprimere potenziale dissenso all'interno delle monarchie petrolifere. Guerre & Pace 21 L’OMBRA DELLE BASI LA GUERRA IN SOMALIA L'intervento in Somalia nel 1992-93 si è concluso con la sconfitta degli Stati Uniti, ma è importante capire perchè il cosiddetto intervento "umanitario" è avvenuto. Nei '70 e '80, gli Stati Uniti avevano sostenuto il dittatore somalo Siad Barre nelle sue guerre contro l'Etiopia, a sua volta sostenuta dai Sovietici. In cambio, Barre aveva assegnato alla U.S. Navy i diritti a usare i porti navali somali, che sono situati strategicamente all'estremità meridionale del Mare Rosso, collegante il Canale di Suez all'Oceano Indiano. Il caos e la carestia che hanno seguito il rovesciamento di Barre sono stati usati dalli USA come giustificazione per ritornarci, ma hanno fatto l'errore di allearsi con un gruppo di warlords contro il warlord Mohamed Aidid di Mogadiscio. Nella battaglia di Mogadiscio, romanticizzata nel film "Black Hawk Down," 18 soldati americani e molte centinaia di somali sono rimasti uccisi. Gli Stati Uniti si sono ritirati e finalmente hanno guadagnato il diritto ad una base navale nel porto di Aden, dall'altra parte del Mar Rosso nello Yemen, dove Osama bin Laden carico ha lanciato il suo attacco sulla nave da guerra USS Cole nel 2000. LA GUERRA NEI BALCANI Gli interventi degli Stati Uniti nella Bosnia nel 1995 e nel Kosovo nel 1999, erano apparentemente reazioni alla "pulizia etnica" serba, tuttavia gli Stati Uniti non aveva intervenuto per impedire simile "pulizie etniche" da parte dei loro alleati croati od albanesi nei Balcani. Gli interventi militari degli Stati Uniti in quella che era la Yugoslavia hanno risultato in nuove basi militari americane in cinque paesi: Ungheria, Albania, Bosnia, Macedonia e l'enorme complesso di Camp Bondsteel nel sud-est del Kosovo. Gli alleati della NATO hanno egualmente partecipato agli interventi, comunque non 22 sempre con le stesse priorità politiche. Come nel Golfo e nei conflitti afgani, gli alleati europei potrebbero unirsi alle guerre degli Stati Uniti non solo per solidarietà, ma per timore di essere completamente esclusi dall'apporzionamento della regione nel dopoguerra. L'intervento nel Kosovo, in particolare, è stato seguito da rinnovati sforzi europei nel formare una forza militare indipendente dalla NATO commandata dagli USA. La disposizione di basi enormi lungo il bordo orientale dell' E.U., che possono essere usate per proiettare forza nel Medio Oriente, è stata effettuata parzialmente in previsione che i militari europei un giorno se ne sarebbero andati per conto loro. LA GUERRA IN AFGHANISTAN L'intervento degli USA nell'Afghanistan era apparentemente una reazione agli attacchi dell'11 settembre, ed in parte era puntato al rovesciamento dei Taliban. Ma l'Afghanistan è storicamente stato in una posizione estremamente strategica che cavalca l'Asia meridionale, l'Asia centrale, ed il Medio Oriente. Il paese si trova egualmente convenientemente lungo il proposto percorso dell'oleaodotto della Unocal tra i campi petroliferi caspici e l'Oceano Indiano. Gli Stati Uniti stavano già situando truppe nella repubblica limitrofa ex-sovietica di Uzbekistan prima dell'11 settembre. Durante la guerra, ha usato le sue nuove basi e i diritti a basi nell'Afghanistan, Uzbekistan, Pakistan, Kyrgyzstan ed in misura inferiore Tajikistan. Sta usando la continua instabilità dell'Afghanistan (come della Somalia, in gran parte causata dall'impuntare warlords contro warlords) come giustificazione per disporre una presenza militare permanente nella regione ed persino il progetto d'istituire il dollaro come nuova valuta afgana. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI PERCHÈ GUERRA? Le priorità geopolitiche possono contribuire a spiegare perchè Washington è andato a guereggiare in tutti questi paesi, proprio mentre i percorsi della pace rimanevano aperti. Il presidente George Bush ha lanciato la guerra del febbraio 1991 contro l'Iraq, anche se Saddam già stava ritirandosi dal Kuwait nell'ambito del programma sovietico di disimpegno. Ha egualmente mandato truppe in Somalia nel 1992, anche se la carestia che ha usato come giustificazione era già diminuita. Il presidente Clinton ha lanciato una guerra contro la Serbia nel 1999 per forzare un ritiro da Kosovo, anche se la Yugoslavia aveva già realizzato molti dei termini di ritiro del Congresso di Rambouillet. Il presidente George W. Bush ha attacato l'Afghanistan nel 2001 senza mettere molta pressione diplomatica sul Taliban a cedere Osama bin Laden, o lasciare che le truppe anti-Taliban (come quelle del comandante Abdul Haq di Pashtun) vincano da sole contro le truppe dei Taliban. Washington è andata a fare la guerra non come ultimo ricorso, ma perchè ha visto la guerra come una conveniente occasione per raggiungere ulteriori scopi. Le priorità geopolitiche possono anche contribuire a spiegare la riluttanza degli Stati Uniti nel dichiarare vittoria in queste guerre. Se gli USA fossero riusciti a spodestare Saddam nel 1991, i suoi alleati nel Golfo avrebbero richiesto il ritiro delle basi americane, ma rimanendo in potere provvede agli USA una giustifica per gli intensi bombardamenti dell'Iraq e una continua presa sulla regione petroliera del Golfo. Il fatto che Osama bin Laden e Mullah Omar non sono stati ancora catturati dopo quattro mesi di guerra fornisce egualmente una conveniente giustificazione per disporre basi americane permanenti nell'Asia in centrale e meridionale. Tutti e tre questi uomini sono più utili ai progetti degli USA vivi e liberi, almeno per il momento. PREPARATIVI DI GUERRA L'Iraq è certamente l'obiettivo primario per una nuova guerra degli Stati Uniti. guerra, permettendo al presidente Bush di "finire il lavoro" che il suo paparino non ha terminato. Ora che la sfera d'influenza americana sta solidificandosi nella "terra centrale" fra Europa e l'Asia orientale, l'attenzione può essere girata su entrambi l'Iraq ed il suo nemico di una volta l'Iran essendo le uniche potenzi regionali restanti ancora di mezzo. Bush può essere sotto l'illusione che le forze irachene di opposizione possano essere riconstituite in una la forza filoamericana come l'Alleanza del Nord in Afghanistan o l'Esercito di Liberazione di Kosovo. Può anche essere sotto l'illusione che le sue minacce contro l'Iran aiuteranno i riformatori "moderati" iraniani, anche se già stia rinforzando pericolosamente la mano degli islamisti intransigenti. Una guerra degli Stati Uniti contro l'Iraq o l'Iran distruggerà tutti i ponti recentemente costruiti a nazioni islamiche, particolarmente se Bush egualmente abbandona pure la pretesa di parzialità fra Israeliani e Palestinesi. I pianificatori di guerra americani stanno pure facendo apertamente mira sulla Somalia e lo Yemen, e stanno pattrugliando le loro coste con navi da guerra, anche se potrebbero decidere di intervenire indirettamente per evitare i disastri di Mogadiscio nel 1993 e Aden nel 2000. Bin Laden aveva appoggiato Aidid per prevenire nuove basi in Somalia, e suo padre è originario di Hadhramaut, una regione storicamente ribelle del sudest dello Yemen. Eppure Washington non darebbe precedenza ad eliminare l'influenza di Bin Laden, lasciando tale compito principalmente a truppe locali. Piuttosto, la precedenza sarebbe data a riconquistare accesso navale ai porti strategici somali e yemeni. L'intervento più recente dopo l'invasione dell'Afghanistan è stato nelle Filippine meridionali, contro la milizia guerillera dei Moro (mussulmani) di Abu Suyyaf. Gli USA considerano il piccolo gruppo di Abu Sayyaf ispirato da Bin Laden, anzi che uno sviluppo teppista di decine d'anni d'insurgenza dei Moro in Mindanao nell'archipelado del Sulu. Forze speciali di "addestratori" americani stanno effettuando "esercitazioni" unite con le truppe filippine nella zona attiva di combattimento. Il loro obiettivo potrebbe essere quello di realizzare una vittoria facile stile Granada contro i 200 ribelli, per un effetto globale di propaganda contro Bin Laden. Ma una volta sul posto, la campagna controrivoluzionaria potrebbe essere riorientata facilmente contro altri gruppi di ribelli Moro o persino comunisti di Mindanao. Potrebbe anche contribuire a realizzare l'altro obiettivo principale degli USA nelle Filippine: di ristabilire completamente diritti a basi, che finirono quando, alla fine della guerra fredda, il senato filippino terminò il controllo americano della base aerea Clark e della base navale di Subic, e dopo che un'eruzione vulcanica danneggiò entrambe le basi. Un tal movimento a ristabilirsi nel paese sarebbe tuttavia resistito fortemente sia dai nazionalisti filippini di destra, sia da quelli di sinistra. Il ritorno degli USA nelle Filippine, come le ultime minacce di Bush contro la Corea del Nord, possono egualmente esere uno sforzo per asserire l'influenza degli USA in Asia orientale, dove la Cina cresce come potenza mondiale ed altre economie asiatiche si recuperano dalle crisi finanziarie. Un crescente ruolo militare degli USA in Asia potrebbe neutralizzare critiche sempre più aspre delle basi USA nel Giappone. Queste mosse potrebbero anche sollevare timori in Cina di una sfera d'influenza americana alle sue porte. La nuova base aerea degli USA nella repubblica exsovietica di Kyrgyzstan è già considerata troppo vicina dalla Cina. (Timori russi di essere circondati potrebbero anche essere riaccesi, benchè la Russia possa invece unirsi agli USA ad usare il loro petrolio per diminuire la potenza dell'OPEC). Nel frattempo, altre regioni del mondo sono state prese sotto mira dalla "guerra contro il terrore" degli Stati Uniti, notevolmente l'America del sud. Come successe durante la guerra fredda quando la propaganda rimaneggiò i ribelli di sinistra del Vietnam del Sud ed Guerre & Pace 23 L’OMBRA DELLE BASI El Salvador come burattini del Vietnam del Nord o di Cuba, la propaganda della "guerra contro il terrore" americana sta rimaneggiando i ribelli colombiani come alleati del Venezuela, ricco in petrolio. Il presidente venezuelano, Hugo Chavez, con il distintivo berretto, è vagamente descritto come simpatizzante di Bin Laden e Fidel Castro, e con il potere di mettere l'OPEC contro gli USA. Chavez sarebbe il nemico ideale se Bin Laden è eliminato. La crisi nel sud d'America, benchè non possa essere legata ad una militanza islamica, potrebbe essere la guerra più pericolosa in preparazione. TEMI COMUNI Se consideriamo le guerre degli USA negli ultimi dieci anni nel Golfo Persico, Somalia, Balcani, o Afghanistan, o nuove guerre possibili nello Yemen, Filippine, o Colombia/Venezuela, o persino la nuova "asse del male" dell'Iraq, Iran e Corea del Nord di Bush, gli stessi temi comuni si presentano. Gli interventi militari degli USA non possono tutti essere legati alla sete insaziabile degli USA per il petrolio (o piuttosto per i profitti del petrolio), anche se parecchie guerre recenti abbiano le loro radici nelle politiche del petrolio. Possono quasi tutti essere legate al desiderio degli USA di costruire o ricostruire basi militari. Le nuove basi militari USA, ed l'aumentare il controllo dei rifornimenti di petrolio, possono a loro volta essere legati allo spostamento storico che sta avvennendo dagli anni '80: l'ascendenza di blocchi europei ed asiatici orientali che hanno il potenziale di sostituire gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica come superpotenze economiche mondiali. Come l'impero romano ha provato ad usare la sua potenza militare per sostenere una presa economica e politica in via d'indebolimento sulle sue colonie, così gli Stati Uniti stano inserendosi aggressivamente in nuove regioni mondiali per impedire ai loro competitori di fare lo stesso. Lo scopo non è di por fine a "terrore" od incoraggiare "democrazia," e Bush non raggiungerà nessuno di questi pretesi scopi. L'obiettivo a breve termine è di disporre forze militari USA in regioni da dove nazionalisti locali le avevano sloggiate. L'obiettivo a lungo termine è di aumentare il controllo corporativo degli Stati Uniti sul petrolio di cui l'Europa e l'Asia orientale hanno bisogno, non importa che il petrolio sia nel Mar Caspio o Caraibo. L'obiettivo finale è di stabilire nuove sfere d'influenza americane ed eliminare qualsiasi ostacolo -- militanti religiosi, nazionalisti laici, governi nemici, o persino alleati -che ci si trovi di mezzo. I cittadini americani potrebbero accogliere favorevolmente interventi per difendere la "patria" dall'attacco, o persino per costruire nuovi basi o oleodotti per mantenere la potenza economica degli USA. Ma quando i pericoli di questa strategia diventano più apparenti, gli americani potrebbero cominciare a realizzare che stanno per essere condotti per un percorso pericoloso che metterà una più grade parte del mondo contro di loro, e causerà inevitabilmente futuri 11 Settembre. Documento originale New US Military Bases: Side Effects Or Causes Of War? - Traduzione di G. Turek - da Znet Zoltan Grossman è un candidato al dottorato in geografia all'Università di Wisconsin-Madison ed un membro del Gruppo d'Informazione dell'Asia del Sud-Ovest. [email protected]. 24 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI LE BASI MILITARI USA ALL’ESTERO E IL COLONIALISMO MILITARE PROSPETTIVE PERSONALI E PROSPETTIVE ANALITICHE Joseph Gerson Parecchi di noi passano un sacco di tempo a fare analisi politiche e geostrategiche, quello che la gente chiama talvolta analisi “d’insieme”. Non lo facciamo, perché ci piace in maniera particolare pensare in astratto o in termini strategici, o fuori di ogni interesse per l’hardware e la tecnologia militare. La maggior parte di noi fa quello che fa perché il militarismo influenza le persone: la distruzione di vite umane, la repressione e il terrorismo, e i modi in cui spezza – taglia e limita seriamente- la nostra vita e le nostre aspirazioni. La coercizione fisica sistematica e una dominazione violenta sviliscono, umiliano e, troppo spesso, distruggono persone come noi. Prima di parlare dei primi passi e degli imponenti piani dell’amministrazione Bush per la riconfigurazione dell’infrastruttura globale delle basi e delle installazioni militari Usa, voglio cominciare con alcune considerazioni di tipo personale. Io mi ricordo in maniera chiara pochi momenti di una lezione di un mio professore all’inizio della primavera del 1968. Si trattava di un corso di storia politica e diplomatica degli USA, tenuto dal professor Jules Davids, un eccellente storico e un meraviglio insegnate, che all’epoca non sapevamo fosse stato il principale scrittore fantasma del libro del presidente John Kennedy “Profiles on Courage”. Bill Clinton forse ha partecipato a quel corso. Gloria Magapal, il cui padre era il presidente protetto delle Filippine e che adesso è essa stessa presidente, era quasi certamente lì(1) e, negli anni recenti, mi sono trovato a stupirmi di come abbia sperimentato direttamente quanto il professor Davids ci ha illustrato. Introducendo la lezione sulla Guerra ispano-americana del 1898 e sulla conquista USA delle Filippine, di Guam Cuba e Porto Rico, il professor Davids è stato attento a sottolineare che il Mercato cinese era allora visto come il santo Graal del capitalismo, il mercato quasi infinito, che avrebbe potuto assorbire la sovrapproduzione delle fabbriche e delle fattorie USA. Dalla conquista letterale dei mercati cinesi, non solo le industrie USA avrebbero raccolto enormi profitti, ma avrebbe posto fine a una grande depressione economica, che aveva lasciato disoccupati milioni di lavoratori americani e che era la causa di un’agitazione politicamente destabilizzante. Il professor Davids ha fatto attenzione a spiegarci che negli anni 1890 le navi da guerra, necessarie per conquistare i mercati, e le navi mercantili, che ne avrebbero seguito la scia, erano navi a vapore, alimentate a carbone. Non avrebbero potuto attraversare l’Oceano Pacifico senza fermarsi di tanto in tanto a quelle, che erano chiamate “stazioni del carbone”, per caricare combustibile. Alle potenze coloniali piaceva avere il controllo esclusivo sulle proprie stazioni di carbone. Gli USA, in quanto potenza ancora in ascesa, non avevano basi proprie. Allora il professor Davids descriveva Subic Bay, nelle Filippine, come uno dei porti più perfetti del mondo. Era collocato strategicamente proprio ad est della costa cinese, un eccellente trampolino di lancio per le navi da guerra USA. Il suo porto era (ed è) profondo, di forma arrotondata e meravigliosamente blu. Quando, anni più tardi, l’ho visto, rimasi colpito per quanto perfetta fosse stata la descrizione del professor Davids. Ed è stato proprio per conquistare questo porto, importante dal punto di vista geostrategico, che gli USA hanno cacciato la Spagna dalle Filippine e poi hanno continuato a uccidere centinaia di migliaia di Filippini al fine di avere il controllo esclusivo su Subic Bay, le Filippine, nel loro insieme, e la possibilità di commerciare con la Cina sulla basi di scambio ineguali e umilianti. Naturalmente, da quando cacciarono via la Spagna dal governo coloniale di Cuba (dove gli USA mantengono la ben nota nase di Guantanamo), Puerto Rico e Guam, gli USA hanno conquistato altre basi militari, importanti dal punto di vista geostrategico. Passarono gli anni e mi ritrovai a domandarmi a cosa deve aver pensato Gloria Macapagal, quando le è stata esposta per la prima volta la precisa descrizione del professor Davids, a proposito del motivo per cui il suo paese era stato colonizzato e del perché gli USA appoggiavano suo padre. L’abbraccio di Gloria a George Bush ha una lunga storia. Più tardi, come giovane attivista pacifista, non potevo non provare che orrore e vergogna per il fatto che gli USA sostenevano la dittatura di Marcos, usando il suo regno di terrore e tortura per rinforzare il possesso della base navale di Subic, della base aerea Clark e dell’intera regione. Venni a conoscere dei filippini che erano stati costretti all’esilio da Marcos. Sono andato a Manila poco dopo la rivoluzione popolare nonviolenta parte dell’EDSA ed ebbi il privilegio di essere presente a crude conferenze stampa, in cui le vittime della tortura di Marcos raccontavano le loro storie strazianti, in quell’atmosfera inebriante di quel “momento di democrazia” che forse non sarebbe durato. A Olongopo, la città vicina a Subic, rimasi disgustato per il marciume che faceva da corona alle basi militari straniere: prostituzione, violenza sessuale, spacci di droga. Erano dovunque. La mia consapevolezza a proposito del significato e dell’impatto delle basi, della loro missione e della loro funzione per il mantenimento del predominio globale, come previsto dalla dottrina Full Spectrum Dominance,ora Predomini a Pieno Spettro, era troppo recente, quando andai per la prima volta in Giappone per una conferenza antinucleare. Sebbene ne sapessi di gran lunga molto di più della maggioranza degli statunitensi e dei pacifisti USA, ciò nondimeno rimasi stupito nell’apprendere che gli USA avevano (hanno) ancora più di 100 basi e installazioni militari in Guerre & Pace 25 L’OMBRA DELLE BASI Giappone, ma concentrate a Okinawa. Rimasi scioccato, quando sentii gente di Okinawa e Giapponesi descrivere cosa significasse vivere in comunità ripetutamente terrorizzate dai rumori spaccatimpani delle esercitazioni a bassa quota e degli atterraggi notturni, dai crimini commessi dai soldati, che rimanevano regolarmente impuniti, proprio come è accaduto qui con gli omicidi di Shin Hyo-soon e di Shim Misun e in molti altri casi precedenti. Venni a conoscenza su come la terra era stata confiscata alle persone per fare spazio alle basi e come queste basi abbiano bloccato lo sviluppo economico e sociale. Rimasi sconvolto dalla diffusione della prostituzione presso le basi Usa e dalla molestia e violenza sessuale apparentemente senza fine. Le persone raccontavano i loro penosi ricordi di incidenti militari mortali: aerei ed elicotteri che cadono dentro le case della gente e nelle scuole, autisti militari ubriachi che hanno provocato incidenti talvolta mortali, e la distruzione di case e di proprietà nel corso di esercitazioni militari. La gente parlava della propria vergogna per essere complice in guerre ed aggressioni, come quella selvaggia al Vietnam, perché le loro comunità ospitavano basi largamente coinvolte nell’uccisione di persone e nella distruzione di comunità e di nazioni. Ci informarono sul contesto politico: l’alleanza ineguale fra USA e Giappone, che era stata imposta al popolo giapponese come prezzo dell’occupazione militare nel 1952 e la conseguente perdita della sovranità nazionale. Le loro parole e la loro sofferenza mi richiamarono i ricordi della scuola elementare: il mio maestro di quarta che ci insegnava che la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti aveva una sezione che informava il mondo che era necessario combattere una guerra d’indipendenza contro la Gran Bretagna, perché il re Giorgio III aveva “tenuto tra noi in tempo di pace eserciti permanenti”, che avevano commesso intollerabili “abusi e usurpazioni”. Mi richiamarono alla mente le immagini televisive del 1960, quando i militanti giapponesi - fra i quali c’era Muto Ichiyo manifestavano per Tokyo per esprimere la loro rabbia contro gli Stati Uniti e il trattato ineguale, che aveva costretto le loro comunità ad ospitare la basi militari USA. A quell’incontro a Tokyo ed Hiroshima, c’erano anche i rappresentanti dell’associazione dei proprietari terrieri di Guam. Avevano con sé due cartine geografiche. Una mostrava la posizione dei migliori campi di pesca dell’isola, del suo migliore terreno agricolo e delle sue migliori acque potabili. L’altra cartina mostrava l’ubicazione delle basi militari, delle installazioni e delle zone di esercitazione dell’esercito USA. Le due cartine erano identiche. C’erano dei filippini che ci facevano pressione perché facessimo tutto quello che potevamo fare per aiutarli a liberarsi dal colonialismo militare USA e dalla dittatura mortale di Marcos. Negli anni seguenti, è stato per me un penoso, umiliante e, talvolta, stimolante, privilegio incontrare e imparare da persone, che erano state vittime di basi 26 militari USA in Korea, a Okinawa, in Germania, in Belgio, in Italia, in Islanda, in Spagna, in Turchia, a Puerto Rico, in Honduras e in altri paesi. Ogni caso é differente e, in molte differenti maniere, ogni base procura disastrosi “abusi e usurpazioni”. Non dimenticherò mai il volto di una donna di Okinawa che ha condiviso il ricordo di come quando era una ragazza, la sua intera generazione di ragazze ora donne di mezza età - fosse terrorizzata dal brutale stupro e assassinio di una giovane ragazza da parte di un soldato USA. O lo sguardo dei contadini di Okinawa –ognuno dei quali indossava una fascia per capelli con scritto “La vita è sacra”- che facevano un sit-in al di fuori del tribunale di Naha, chiedendo la restituzione della loro terra. O la sofferta testimonianza di un giovane coreano sul poligono di Maehangri e di come la gente che viveva là avesse sofferto negli ultimi cinquant’anni a causa dei bombardamenti USA. È grazie alla passione con cui ha insistito un giovane attivista coreano contro le basi, che io ho visto un CD, che la sua organizzazione aveva fatto sull’uccisione di due ragazze -Shin Hyo-soon e Shim Mi-sun- da parte di un carro armato poche settimane dopo quell’atrocità e per la sua insistenza che io ho fatto qualcosa su questo. E un buon amico islandese mi ha raccontato come i dimostranti una volta piazzarono la testa di un cavallo su una pertica per invocare le antiche divinità vikinghe affinché liberassero l’isola dall’abominevole presenza della base aerea di Kefkavik. Lo facevano a mo di burla, ma erano quanto mai seriamente impegnati. Le basi portano insicurezza, l’assenza di autodeterminazione, di diritti umani e di sovranità. Degradano la cultura, i valori, la salute e l’ambiente delle nazioni ospiti e degli Stati Uniti. Se permetti di essere colpito dalla sofferenza d’un altro, questa diventa tua. L’imperativo diventa por fine alla sofferenza altrui. È questo il motivo per cui siamo qui. Lasciatemi aggiungere un’ultima considerazione a questi lunghissimi commenti introduttivi. Con l’eccezione di quelli che hanno servito nell’esercito USA, gli statunitensi ignorano quasi completamente l’esistenza di questa infrastruttura di coercizione e di morte. Se hanno una vaga conoscenza che gli USA hanno delle basi militari all’estero, hanno una piccola idea che ci sono per propositi diversi dalla difesa della popolazione delle nazioni “ospiti”. Con la rara eccezione della temporanea illuminazione e dell’orrore provocati dal rapimento e dello stupro della studentessa di Okinawa del 1995, non c’è nessun cenno ufficiale della sofferenza, degli “abusi ed usurpazioni” che si accompagnano alle basi Usa e alle truppe “dislocate all’estero”. E in pochi hanno fatto attenzione quando, al ritorno del presidente Bush dall’Asia lo scorso mese, Condoleeza Rice ha detto: “La chiave di volta della strategia del presidente è la nostra forte presenza all’estero”. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI LE MISSIONI DELLE BASI. Per quelli di voi che sono nuovi dell’argomento delle basi militari, voglio illustrare brevemente alcune delle ragioni e delle missioni strategiche, delle 702 basi e installazioni militari USA calcolate all’estero, che attualmente sono collocate in almeno 40 nazioni.(2) Alla radice, l’intero sistema serve come un’infrastruttura integrata globale per la dominazione imperiale. Neanche Gengis Khan, Alessandro il Grande, Giulio Cesare o Benjamin Disraeli hanno avuto a disposizione una così grande quantità di potenti piazzeforti. Queste basi esistono per: • • • • • • • Rafforzare lo status quo. Ne sono un esempio il ruolo di deterrenza delle basi USA in Sud Corea e il ruolo intimidatorio di molti basi USA in Medio Oriente, che sono destinate ad assicurare un continuo accesso privilegiato e il controllo degli USA sul petrolio della regione. Circondare i nemici. Come era il caso dell’Unione Sovietica e della Cina durante la Guerra Fredda e della Cina tutt’oggi. Questo è il ruolo giocato dalle basi USA in Corea, Giappone, Filippine, Australia, Pakistan Diego Garcia e in molte ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. Servire e rinforzare le portaerei, le cacciatorpediniere, i sommergibili con armamenti nucleari e altre navi da guerra della Marina degli USA. Questo comprende le basi di Okinawa e Yokuska, vicino a Tokyo, e gli accordi per “forze temporanee” o “accesso” militare nelle Filippine, a Singapore, in Thailandia e in molti altri paesi. Addestrare le forze USA, com’è stato a lungo il caso per i bombardieri a Vieques e per la guerra nella jungla e altri tipi di addestramento ad Okinawa. Funzionare come trampolini di lancio per interventi militari USA all’estero: come sono i casi di Okinawa e della Filippine, ora anche della Corea con il cambiamento del tipo di missione assegnato qui alle forze USA; come sono i casi della Spagna, dell’Italia, dell’Honduras, della Germania e delle nuove bai in Europa Orientale, in Kwait e, presumibilmente in Iraq. Facilitare il C3I: comando, controllo, comunicazioni ed intelligence, ivi compresi ruoli decisivi nel combattimento nucleare e nell’uso dello spazio per l’intelligence e le operazioni militari, come abbiamo visto in Afghanistan e in Iraq. Le basi USA a Okinawa, in Qatar, in Australia e persino in Cina hanno queste funzioni. Controllare i governi delle nazioni ospiti. Giappone, Corea (dove l’esercito Usa è stato direttamente coinvolto in colpi di stato militari), in Germania, in Arabia saudita, con l’Iraq di oggi a occupare il primo posto della lista. L’ATTUALE CONTESTO. La campagna senza precedenti di Donald Rumsfeld per ristrutturare e rivitalizzare i dispiegamenti militari all’estero e la sua infrastruttura militare globale è compresa meglio nel contesto delle ambizioni megalomaniacali e semitotalitarie dell’amministrazione. La campagna è uno dei più ambiziosi sforzi tattici degli Usa per espandere e consolidare il loro impero globale nel e attraverso i vuoti di potere lasciati come conseguenza dal crollo dell’Unione Sovietica e del suo impero. Alcuni di voi ricorderanno gli slogans che il vecchio presidente Bush utilizzava per inquadrare la “Tempesta nel Deserto” della Guerra del Golfo del 1991, Si sarebbe combattuto per creare un “Nuovo ordine mondiale”, in cui “Avviene quel che diciamo”. Sì, era una riconferma di quello che Noam Chomsky ha chiamato l’”Assioma Politico 1”: gli USA non permetteranno mai né ai loro nemici né ai loro alleati, di avere un accesso indipendente al petrolio mediorientale, la “vena giugulare” del capitalismo planetario dai tempi della Prima Guerra Mondiale, quando Winston Churchill lo chiamò “Il Premio”. La “Tempesta nel Deserto” è stata combattuta anche per disciplinare e ristrutturare il disordine mondiale in quei primi anni di vertigine successivi all’era della guerra Fredda. Nei mesi che seguirono il crollo del muro di Berlino, la maggior parte dei bilanci delle alleanze militari, delle basi militari e delle industrie militari erano senza un fondamento logico e il loro futuro era incerto. Con “Desert Storm” (Tempesta nel Deserto), la NATO fu riconvertita per operazioni “fuori dell’area”, con le basi in Gran Bretagna e in Germania utilizzate come aree di addestramento e punti di partenza. Perfino il tranquillo aeroporto Shannon di Dublino venne –senza alcuna necessità costretto a ospitare aerei da combattimento USA per ricordare agli Irlandesi che vivevano in quello, che Zbigniew Brzezinski chiama uno “stato vassallo”. Gli Usa fecero il loro meglio per traumatizzare la cultura politica giapponese, sostenendo con fermezza che 13 miliardi di dollari e l’uso delle basi USA da Okinawa a Hokkaido non erano sicuramente sufficienti. Bush I ha preparato la strada a Bush II, per far sapere al governo Koizumi che ci si aspettava che “spiegasse la bandiera” per unirsi agli USA nella guerra contro i talebani, mandano navi da guerra nell’Oceano Indiano. Queste richieste del 1991 erano parte della campagna a lungo termine USA per rimilitarizzare il Giappone e la sua cultura politica. Lo vediamo tuttora nelle richieste USA al Giappone e alla Corea di contribuire, inviando loro truppe, alla finzione di legittimità dell’occupazione neocoloniale USA dell’Iraq. Le vostre società devono pagare, se necessario col sangue, il prezzo della “condivisione degli oneri”. Nel 1991, gli abitanti di Vieques hanno subito una nuove serie di bombardamenti di addestramento nel poligono locale; la base navale ed aerea di Diego Garcia si è rivelate di fondamentale importanza per l’egemonia degli USA in Medio Oriente, così come delle ambizioni USA nell’Asia centrale e meridionale. Nell’Africa settentrionale e in Medio Oriente, la guerra è stata usata per esercitare alleanze formali ed Guerre & Pace 27 L’OMBRA DELLE BASI informali, per rilegittimare la presenza e l’uso delle basi militari USA in Egitto e nel Golfo Persico e per costruire nuove basi militari in posti strategicamente importanti come l’Arabia Saudita, Gibuti, Qatar e Kwait. Con le minacce nucleari, fatte dal presidente Bush, il vicepresidente Quayle, il segretario alla guerra Cheney e il premier britannico Major nel corso della fase “scudo del deserto” della guerra, e con l’accerchiamento dell’Iraq con qualcosa come 700 bombe nucleari, per sostenere quelle minacce, l’amministrazione di Bush I° tentò di rilegittimare l’esistenza del suo arsenale nucleare e la pratica del ricatto nucleare - quanto meno nei circoli dirigenti degli USA- per il periodo successivo alla Guerra Fredda. Potete essere certi che un fondamentale pilastro di queste minacce erano le basi militari dove erano immagazzinati gli armamenti nucleari USA, dove avevano le loro basi o scali le navi da guerra USA con armamento nucleare e dove c’erano incombenze del tipo C3I. Negli ultimi giorni dell’amministrazione Clinton, quando partecipai a manifestazioni in Giappone e nelle Filippine, rimasi colpito dalla rabbia espressa dalle persone, mentre protestavano contro Clinton. Sapevo, in fondo, che era veramente un piccolo uomo, preso in quella che Hannah Arendt chiamò una volta “la banalità del male”. Per godere dei privilegi e del potere di essere il presidente degli Stati Uniti, doveva pagarne il prezzo in termini di tolleranza e di affermazione di politiche, istituzioni e azioni letali. Se si fa eccezione per il suo incauto comportamento sessuale, la carriera politica di Clinton è stata segnata dalla cautela e dal conservatorismo. Non è quello che la maggior parte di noi pensa sia un uomo coraggioso. Fin da quando era studente, non è stato il tipo da sfidare il potere e l’autorità illegittima. Al contrario, si è sottomesso alle sue domande, integrando il suo potere col potere di questa e crescendo con essa. Fra i suoi primi impegni dopo l’assunzione della presidenza c’è stato quello di promettere di non tagliare il gigantesco bilancio militare, interrompendo i sogni di un dividendo di pace dopo la Guerra Fredda. Ho dei dubbi che si sia personalmente compromesso per le sanzioni economiche che hanno tolto la vita durante la sua presidenza - si ritiene- a un milione di Irakeni, molti dei quali bambini ed anziani. Penso semplicemente che abbia avuto paura di pagare il prezzo politico richiesto, per porre termine a uno dei peggiori massacri dell’ultimo secolo. Come dimostra la sua storia con l’Iraq di Saddam Hussein, Clinton non è stato tanto un guerriero, quanto un classico politico, che sapeva che la sua carriera dipendeva dal mantenere vitale l’economia, occupate le persone e flussi di entrata aperti per i profitti dei suoi padroni. Qui in Asia, dopo aver quasi inciampato nel 1994 in quella, che sarebbe potuta essere la seconda guerra di Corea, Clinton ha essenzialmente dato la riformulazione della politica USA in Asia a Joe Nye al Pentagono. Così abbiamo il rinnovo de ll’impegno per mantenere schierati all’estero 100.000 soldati nelle basi dell’Asia 28 orientale, il rafforzamento e l’allargamento dell’alleanza USA-Giappone con l’accordo ClintonHashimoto, la campagna tutto fumo e niente arrosto dello Special Action Committee on Okinawa (SACO) [Comitato speciale d’azione per Okinawa], per pacificare la popolazione di Okinawa col fine apparente “di ridurre la dimensione dell’impronta USA” su quella terra martoriata, senza fare nessun cambiamento sostanziale. E Nye ha portato Clinton ad impegnarsi con la Cina. In Europa, il vice segretario di stato, Strobe Talbot e l’esercito USA sono stati impegnati a ridividere e a contenere il continente. Hanno spinto per l’inclusione nella NATO di quasi tutti i paesi dell’Europa orientale, al fine di contenere le ambizioni di Francia e Germania. Hanno rinnovato il gioco di mettere la Russia contro l’Europa Occidentale. Dalla guerra illegale del Kosovo gli USA ne sono usciti con una nuova enorme base militare, Camp Bondsteel. Bondsteel è stata la prima di quelle che Washington spera diventeranno un nuovo sistema di basi militari che serviranno a circondare l’Europa Occidentale e la Russia e come abbiamo visto quest’anno, come trampolino di lancio per le guerre USA in Medio Oriente. Così arri viamo alla seconda catastrofica presidenza Bush. Come ho spiegato diversi giorni fa al seminario di ARENA, l’amministrazione Bush è giunta al potere con il mandato di imporre quello, che il vicepresidente Cheney ha chiamato “l’ordinamento” per assicurare “che, nel XXI secolo, gli Stati Uniti continuino a essere la potenza politica, economica e militare dominante nel mondo”. Una volta che sono giunti al potere, Cheney, Rumsfeld e i loro alleati neoconservatori hanno fatto sapere che avrebbero modellato gli USA sulle orme di uomini come Teddy Roosevelt, Henry Cabot Lodge e l’ammiraglio Mahan, gli uomini che negli anni 80 e 90 del XIX secolo previdero la possibilità per gli USA di rimpiazzare la Gran Bretagna come potenza mondiale dominante, e che, quindi, costruirono l’esercito necessario per farlo. Ben prima dell’11 settembre era chiaro che Bush, Cheney e Rumsfeld erano impegnati nella cosiddetta “rivoluzione degli affari militari”(la quasi completa integrazione delle tecnologie dell’informazione nella dottrine di guerra USA), dei sistemi d’armi aeree, terrestri, navali e spaziali e dell’infrastruttura militare (ivi compresa la rete delle basi militari straniere. Come hanno suggerito i rapporti preinaugurali preparati sotto la direzione dell’(attuale) vice segretario di stato Armitage e dell’(attuale) ambasciatore Khalilzad, nell’Asia Orientale questo vuol dire riaffermare l’impegno per le basi militari USA e per lo spiegamento di truppe avanzate nella regione. Certo, secondo la riconfigurazione di Rumsfeld alcune basi saranno chiuse e alcune saranno accorpate, ma questo sarà fatto nel contesto di un incremento della forza militare USA attraverso la “diversificazione”: spostando il centro di gravità delle truppe e delle basi Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI USA dislocate all’estero dall’Asia Nord Orientale un po’ più a Sud. L’obiettivo è circondare meglio la Cina, combattere la cosiddetta “guerra al terrorismo” nel sud Est Asiatico e controllare in maniera più completa le rotte navali, lungo le quali deve viaggiare il petrolio del Golfo Persico, la vita delle economie dell’Asia Orientale. Guam diventerà nuovamente il baricentro per le forze USA nell’Asia Orientale. Altrettanto sarà per i suoi abitanti e per le sue risorse naturali! Le basi USA in Australia aumenteranno. L’agenda di Bush prevede di costruire accordi per la presenza di forze temporanee e per l’accesso con le Filippine e Singapore ed aprire la strada per le truppe USA in Thailandia. Di fatto, come riferisce la stampa filippina, ufficiali dell’esercito USA stanno esplorando in via riservata la possibilità di ristabilire basi nell’ex colonia. Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq sono servite a dare inizio alla campagna, da tempo pianificata, di “riconfigurazione” e di “diversificazione”. La strada è stata aperta con la minaccia della nuova dottrina intimidatoria di Washington “o con noi o contro di noi”. Le dittature del Pakistan, dell’Uzbekistan, del Kirgisistan e del Tajikistan sono state costrette a rinunciare alla sovranità e a invitare il Pentagono a stabilire nei loro territori basi militari USA, che sembra diventeranno permanenti. Un anno dopo, con la Germania che ha evitato di associarsi all’invasione dell’Iraq e che ha limitato le funzioni che le basi USA potevano giocare, Washington ha cominciato a “diversificare” la sua infrastruttura militare europea. Sono state fatte minacce di punire la Germania col ritiro dalla Germania di tutte le basi USA. Molti, sono sicuro, hanno gioito di fronte a questa prospettiva. Sono state stabilite nuovi basi in quei bastioni della democrazia e dei diritti umani che sono la Romania e la Bulgaria. A Sud, sotto la copertura delle preparazioni della guerra, Bush e compagnia hanno rimosso una delle principali cause degli attacchi dell’11 settembre: la maggior parte delle basi e delle truppe USA in Arabia Saudita. Molti mussulmani ritengono che queste basi siano una macchia per la terra santa. Queste truppe, con le loro basi e le loro funzioni, sono state trasferite in Qatar e Kuwait, Sono state ampliate le basi di Gibuti e di Baharain. Ora, oltre ai piani perché l’Iraq serva agli USA come una fonte di approvvigionamento di petrolio, che possa essere usato per influenzare l’Arabia Saudita e l’OPEC, gli strateghi militari USA mirano a servirsi, per i decenni a venire, dell’Iraq come di un bastione della potenza militare USA in Medio Oriente. Anche l’Africa è destinata ad avere un ruolo crescente nella rete militare globale USA. All’epoca del viaggio del presidente Bush nel continente la scorsa primavera, gli USA stavano negoziando la creazione di una rete di basi militari lungo il continente. Come ha spiegato il gen. Jones, del comando europeo, la rete è destinata a comprendere grosse installazioni per più brigate da combattimento, “che potrebbero essere usate in maniera massiccia”. Ci saranno pure, “per le forze speciali e per i marines, basi con armamento leggero nei punti di crisi”. Gli “ospiti” di questa nuova rete di basi comprendono l’Algeria, il Mali e la Guinea (che è stata anche presa di mira come fornitrice di petrolio), col Senegal e l’Uganda che provvederebbero a rifornire di carburante le installazioni per le forze aeree. Inoltre Washington non ha dimenticato il suo “giardino di casa”, l’America Latina. Nonostante la lotta cinquantennale del popolo di Puerto Rico per chiudere la base di Vieques abbia vinto, nuove basi militari stanno ora germogliando nelle nazioni andine e gli USA stanno militarizzando in maniera crescente i Caraibi. Questa infrastruttura, “diversificata” e senza precedenti, della potenza militare globale si basa su diversi pilastri concettuali. Il primo è la flessibilità. Cheney, Rumsfeld e i loro compari vogliono totale libertà d’azione. Da un lato, se la Germania o un altro stato vassallo sono riluttanti a permettere che installazioni e basi militari USA siano usate per un particolare scopo, ivi compresa la guerra, il Pentagono di Rumsfeld vuole essere sicuro di poter disporre, al più presto, di altre basi in altri paesi. Allo stesso modo vogliono che la loro infrastruttura militare sia flessibile, capace di servire a molteplici funzioni belliche; ad esempi nel caso della Corea i compiti delle strutture militari vanno dallo svolgere un ruolo di deterrenza nei confronti di Pyongyang allo sostenere una guerra per “cambiamento di regime” in Corea del Nord; influenzare la politica estera ed interna coreana e sostenere gli interventi militari USA dall’Asia Orientale - stessa funzione questa delle basi Usa in Giappone - fino al Golfo Persico. Il secondo è la velocità. Con truppe e armamenti dislocati all’estero e con le nuove basi “a fior di loto” che possono essere usate come trampolini di lancio per gli interventi e l’aggressione militare, il fine è poter colpire prima che l’obiettivo dell’attacco possa preparare le sue difese o, come nel caso dell’Iraq, anche una strategia di resistenza a lungo termine. Contando sulle attuali e sulle nuove basi e installazioni militari, le forze USA dislocate all’estero sono destinate ad essere organizzate secondo una struttura integrata su tre livelli: 1) basi centrali maggiori, come quelle in Giappone, Okinawa, Guam, Gran Bretagna, Qatar e Honduras; 2) centri minori o “Basi operative all’Estero”, come quelle in Sud Corea, Diego Garcia, Kuwait, Bulgaria, Uzbekistan e Australia; e 3) i “fiori di loto” che serviranno come trampolini di lancio in paesi allineati dalla Lituania al Tajikistan, da Gibuti alle nazioni andine in Sud America. Lo scopo di questa “riconfigurazione” della potenza militare USA non è, naturalmente, lasciare il Pentagono e la “sicurezza nazionale” occupati o preoccupati in esercizi concettuali. Come le basi, le armi e le truppe stesse, la riorganizzazione vien fatta per terrorizzare, reprimere e, se necessario, uccidere meglio altri esseri umani. E, come la popolazione della Guerre & Pace 29 L’OMBRA DELLE BASI Corea del Sud, del Giappone, di Okinawa e di altre nazioni, che già “ospitano” basi USA, sanno, queste basi porteranno con sé intollerabili e terribili “abusi ed usurpazioni”, che devono trovare opposizione ed essere vinti. LA SOLIDARIETÀ. Non pretendo che ci siano soluzioni semplici per liberarci dagli abusi, dalle usurpazioni e dai pericoli di guerra, che sono conseguenti alla presenza delle basi militari. Le lotte esemplari delle popolazioni filippine e di Okinawa e le campagne di solidarietà internazionale, che le hanno sostenute, forniscono modelli, dai quali possiamo trarre speranza e importanti lezioni. Ci sono diverse altre nuove dinamiche e iniziative, che dovremmo tenere a mente. La prima è che negli ultimi sei mesi c’è stata a livello mondiale un’esplosione di informazione e di iniziative contro le basi. In Europa lo scorso giugno si è incontrata a Bruxelles alla Conferenza della Rete Europea per la Pace e i diritti Umani una nuova rete di attivisti contro le basi. Si è già abbastanza avanti nella preparazione di un libro, scritto da persone di nazioni “ospiti” di tutto il mondo, che sarebbe un importante strumento per il lavoro contro le basi. In maniera più drammatica, gli Europei protestano di nuovo contro le basi USA, compresa la base nucleare in Belgio. Qui in Asia, come molti di voi sanno, il “Focus on the Global South” ha dato il via a una nuova rete contro le basi. La sua rete anti basi sta preparando un importante forum di persone di tutto il mondo per scambiare informazioni, condividere storie e esaminare la possibilità di azioni comuni. Il focus ha promosso, inoltre, una conferenza contro le basi all’interno del Forum Sociale Mondiale, cui si spera che molti di voi parteciperanno o troveranno maniera di sostenere. Ora è un mio privilegio ascoltarvi e imparare da voi. Magari fossi nella condizione di dire che penso che sia possibile che una campagna per rimpatriare le truppe e le basi USA dall’Asia e da tutto il mondo diventi presto il principale obiettivo del movimento pacifista USA. Purtroppo, nel bel mezzo delle guerre di Bush, che sono diventate pessimi pantani, la crescente attenzione per il cambiamento di regime alle elezioni presidenziali del prossimo anno e la crescente preoccupazione per i tentativi di Bush-CheneyRumsfeld per fabbricare nuove armi nucleari e riprendere i test nucleari, i nostri contributi per la liberazione della Corea, di Okinawa, del Giappone, delle Filippine e di altre nazioni saranno più limitati, di quanto tutti noi vorremmo. Nel passato ci sono state significative aperture: incontri e pubblicazioni congiunte per aiutare ad educare le persone e per far crescere il movimento negli USA, dichiarazioni di pentimento e di solidarietà, firmate da centinaia di statunitensi dopo il rapimento e lo stupro da parte dei tre soldati americani nel 1995 ad Okinawa, e la pubblicità per la raccolta di firme, che mettemmo sull’Okinawa Times, il giorno dell’apertura del summit dei G-8, tenuto nella colonia militare ancora occupata. Per concludere, voglio ringraziarvi nuovamente per l’opportunità di essere qui con voi e non vedo l’ora di esplorare con voi i modi con cui il movimento pacifista USA può dare almeno qualche contributo alle vostre lotte per la libertà, per la pace e per la sicurezza. (1) Come studente universitario, ho frequentato presso la Scuola per i servizi Esteri dell’Università di Georgetown. Bill Clinton e Gloria Macapagal Arroyo, fra il 1964 e il 1968, sono stati due miei compagni di corso. Cosa significasse per un ebreo della middle class frequentare questa istituzione cattolica internazionale per elite è tutta un’altra storia. (torna al testo) (2) Calcolare il numero delle basi, delle installazioni e delle nazioni, dove si trovano non è una scienza esatta. Le cifre citate qui sono prudenti e non tengono conto dei magazzini militari, che talvolta sono calcolati come installazioni. Allo stesso modo, qualcuno calcola 100 nazioni. Ciò comprende il personale militare assegnato alle ambasciate USA. E, dopo che il presidente Bush ha promesso che gli USA combatteranno una guerra aperta e segreta contro 40-80 paesi, di questi tempi solo gli alti gradi del Pentagono, della CIA e della Casa Bianca hanno l’accesso alla lista completa. (torna al testo) Documento originale_ U.S.Foreign Military Bases & Military Colonialism, 05.12.03 Trad. di Giancarlo Giovine - da Znet Il dott. Joseph Gerson è il Direttore dei programmi dell’”American Friends Service Committee”(Comitato di servizio degli amici americani) del New England. È attivamente impegnato nel movimento pacifista USA contro la guerra e ha partecipato alle conferenze di fondazione di “United for Peace and Justice” (Uniti per la pace e la giustizia), l’”Asia Peace Assembly” (Assemblea asiatica per la pace) e la “European Network for Peace and Human Rights” (Rete europea per la pace e i diritti umani). Fra i suoi libri “Il sole non tramonta mai: la rete delle basi militari USA all’estero”, “Con gli occhi di Hiroshima: la guerra atomica, l’estorsione nucleare e l’immaginazione morale” e “La connessione letale: la guerra nucleare e l’intervento USA”. Per informazioni contattare: American Friends Service Committee 2161 Massachusetts Ave., Cambridge, Massachusetts, 02140 USA. 30 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI 737 BASI MILITARI USA = IMPERO GLOBALE di Chalmer Johnson, 2007 Una volta si poteva seguire l’espansione dell’imperialismo contando le colonie. La versione statunitense delle vecchie colonie sono le basi militari. Seguendo su scala globale i cambiamenti che riguardano le basi possiamo conoscere molto dell’”impronta” imperiale americana e del militarismo che l’accompagna. Non è facile tuttavia valutare le dimensioni o il valore esatto dell’impero di basi militari degli Stati uniti. I dati ufficiali disponibili sull’argomento sono fuorvianti, anche se istruttivi. Secondo il Base structure report - gli inventari (dal 2002 al 2005) delle proprietà immobiliari possedute nel mondo dal dipartimento della difesa - ci sono stati molti cambiamenti nel numero delle installazioni. Nel 2005 le basi militari americane all’estero erano 737. E a causa della presenza militare in Iraq e della strategia della guerra preventiva del presidente George W. Bush, il numero continua ad aumentare. Un particolare interessante: nel 2005 i 38 impianti americani all’estero di grandi e medie dimensioni, soprattutto basi navali e aeree, corrispondevano con una differenza minima alle 36 basi navali e guarnigioni militari degli inglesi all’apice della loro potenza coloniale nel 1898. All’epoca del suo massimo splendore, nel 117 dC, l’impero romano aveva predisposto 37 grandi basi per pattugliare il suo immenso territorio, dalla Britannia all’Egitto, dall’Hispania all’Armenia. Forse il numero ideale di roccaforti e capisaldi per il paese imperialista deciso a dominare il mondo si aggira tra 34 e 40. Partendo dai dati dell’anno fiscale 2005, i burocrati del Pentagono hanno calcolato che le basi militari all’estero valgono come minimo 127 miliardi di dollari (una cifra sicuramente troppo bassa, ma pur sempre superiore al pil di molti paesi). Prendendo in considerazione le basi sul territorio nazionale il valore sale a 658,1 miliardi di dollari. Il dipartimento della difesa giudica il “valore” di una base calcolando quanto costerebbe sostituirla. Nel 2005 gli alti comandi militari hanno destinato alle basi all’estero 196.975 uomini in uniforme, accompagnati da altrettanti familiari e funzionari civili del dipartimento della difesa. Inoltre hanno assunto sul posto 81.425 persone. Nel 2005 il personale militare americano dislocato in tutto il mondo, compreso quello in patria, era di 1.840.062 unità, oltre a 473.306 funzionari del dipartimento della difesa e 203.328 dipendenti stranieri. Nelle basi oltreoceano, secondo il Pentagono, c’erano 32.327 baracche, hangar, ospedali e altri edifici di proprietà, mentre quelli in affitto erano più di 16.527. Le dimensioni di questi impianti sono state registrate nell’inventario: 2.781 chilometri quadrati all’estero e 120.675 chilometri quadrati in tutto. È evidente che il Pentagono può considerarsi uno dei più grandi proprietari terrieri del mondo. Questi numeri, benché impressionanti, non tengono conto di tutte le basi effettivamente occupate dagli Stati uniti. Il Base structure report del 2005, per esempio, non fa parola delle guarnigioni nella provincia autonoma del Kosovo, anche se qui si trova l’immenso Camp Bondsteel, costruito nel 1999 e gestito dalla Kbr corporation (già conosciuta come Kellogg Brown & Root), una filiale della Halliburton corporation di Houston. Il rapporto omette anche le basi in Afghanistan, in Iraq (106 guarnigioni nel maggio del 2005), in Israele, in Kirghizistan, in Qatar e in Uzbekistan, anche se dopo l’11 settembre gli Stati uniti hanno impiantato basi colossali nel golfo Persico e nell’Asia centrale. Come scusa, una nota nella prefazione specifica che dal rapporto sono stati esclusi “gli impianti forniti da altre nazioni all’estero”, anche se non è esattamente così. Il rapporto non comprende le venti installazioni in Turchia, tutte di proprietà del governo turco e usate congiuntamente con gli americani. Il Pentagono omette inoltre dal suo resoconto gran parte delle strutture militari e di spionaggio situate in Gran Bretagna, del valore di 5 miliardi di dollari, che sono state camuffate da basi dell’aeronautica militare del Regno Unito. Se ci fosse una stima veritiera, l’impero militare statunitense supererebbe le mille basi all’estero. Ma nessuno, e forse nemmeno il Pentagono, ne conosce il numero esatto. In alcuni casi sono stati i paesi stranieri a tenere segrete le loro basi Usa, temendo ripercussioni imbarazzanti se fosse venuta a galla la loro complicità con l’imperialismo americano. In altri casi il Pentagono ha sminuito l’importanza della costruzione di impianti destinati a gestire le fonti energetiche oppure, come in Iraq, ha conservato una rete di basi per mantenere l’egemonia sul paese, qualunque sia il futuro governo iracheno. Washington cerca di non divulgare nessuna informazione sulle basi che usa per intercettare le comunicazioni globali né sugli arsenali e sui depositi di armamenti nucleari. Come sostiene William Arkin, esperto di questioni militari, “gli Stati uniti hanno mentito a molti dei loro più stretti alleati, perfino all’interno della Nato, sui loro progetti nucleari. Decine di migliaia di testate nucleari, centinaia di basi, decine di navi e sottomarini vivono in un mondo segreto, senza nessun ragionevole motivo tattico”. In Giordania, per limitarci a un solo esempio, Washington ha dislocato cinquemila soldati in varie basi lungo il confine con l’Iraq e la Siria. La Giordania ha anche collaborato agli “interrogatori” dei prigionieri catturati dalla Cia. E malgrado tutto continua a sostenere di non avere nessun accordo particolare con gli Stati uniti, e che sul suo territorio non c’è nessuna base e nessun tipo di presenza militare americana. Il paese è formalmente sovrano ma in realtà è un satellite degli Stati uniti, e lo è da almeno dieci anni. Allo stesso modo, prima di ritirarsi dall’Arabia Saudita nel 2003, Washington ha sempre negato che a Jeddah ci fossero i suoi enormi bombardieri B-52, perché così voleva il governo di Riyadh. Guerre & Pace 31 L’OMBRA DELLE BASI Fino a quando i burocrati militari continueranno a imporre la cultura del segreto per proteggersi, nessuno conoscerà le vere dimensioni delle basi militari statunitensi, e meno di tutti i politici democraticamente eletti. Nel 2005 ci sono state molte variazioni nello spiegamento militare in patria e all’estero. La causa è stata una serie di cambiamenti strategici necessari per conservare il dominio globale e chiudere le basi in esubero in patria. In realtà molti di questi cambiamenti dipendono dall’intenzione dell’amministrazione Bush di punire i paesi - e gli stati all’interno della federazione americana - che non hanno appoggiato l’intervento in Iraq, e di premiare chi lo ha sostenuto. Così le basi negli Stati uniti sono state spostate nel sud. Negli stati meridionali, sostiene il quotidiano “The Christian Science Monitor”, “c’è più sintonia con le tradizioni marziali” rispetto al nordest, al midwest o alla costa del Pacifico. Secondo un imprenditore del North Carolina, soddisfatto dei suoi nuovi clienti, “i militari vanno dove hanno più sostegno”. In parte il trasferimento dipende dalla decisione del Pentagono di far rientrare entro il 2007 o il 2008 due divisioni - la prima corazzata e la prima di fanteria dalla Germania e una brigata di 3.500 uomini della seconda divisione di fanteria dalla Corea del Sud. Oggi per via della guerra in Iraq, gran parte delle forze militari è stanziata all’estero, gli impianti in patria non sono pronti per accoglierle e non sono stati destinati fondi sufficienti a questo scopo. Prima o poi, però, più di 70mila soldati e centomila loro familiari dovranno trovare alloggio negli Stati uniti. Il programma di chiusura delle basi avviato nel 2005 era in realtà un programma di consolidamento e di allargamento, con un enorme afflusso di finanziamenti e di fornitori dirottati verso poche zone chiave. Al tempo stesso l’apparente riduzione della presenza dell’impero all’estero è in realtà una crescita esponenziale di un nuovo tipo di basi - senza familiari e senza le strutture a loro destinate - situate nelle aree più remote, dove finora non c’è mai stata una presenza militare statunitense. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, era chiaro che l’alta concentrazione di forze militari americane in Germania, Italia, Giappone e Corea del Sud non era più essenziale per far fronte a eventuali minacce: non ci sarebbero più state guerre con l’Urss né con altri paesi di quell’area. L’amministrazione di George Bush senior avrebbe dovuto cominciare a disarmare o a trasferire le forze militari in esubero. Più tardi Bill Clinton chiuse varie basi in Germania, nella zona di Fulda, che un tempo si pensava fosse la via più probabile per un’invasione sovietica dell’Europa. In quegli anni, però, il governo non ha fatto niente di concreto per pianificare il riposizionamento strategico dei militari statunitensi all’estero. Alla fine degli anni novanta i neocon misero a punto teorie grandiose per promuovere apertamente l’imperialismo della “superpotenza unica”: azioni militari preventive unilaterali, la diffusione della democrazia all’estero con le armi, l’eventualità di 32 ostacolare l’emergere di qualsiasi paese o blocco di paesi “quasi alla pari” in grado di sfidare la supremazia militare americana e un Medio Oriente “democratico” che avrebbe rifornito gli Usa di tutto il petrolio di cui avevano bisogno. Un elemento di questo immenso progetto era il riposizionamento e l’ottimizzazione delle forze armate. Era inoltre previsto un programma per trasformare l’esercito in una forza militare più leggera, agile e ad alta tecnologia: grazie a questa mossa, secondo le previsioni, si sarebbero liberati dei fondi consistenti da investire in operazioni di polizia globale. Della cosiddetta “trasformazione della difesa” si era parlato all’inizio durante la campagna elettorale del 2000. Poi ci sono stati gli attentati dell’11 settembre e le guerre in Iraq e in Afghanistan. Nell’agosto del 2002, quando i disegni neocon sono stati messi in atto, si puntava a una guerra lampo per incorporare l’Iraq nell’impero. In questo periodo i funzionari civili del Pentagono si mostravano pericolosamente sicuri di sé per gli eccellenti risultati dell’esercito americano nella campagna del 2001 contro i taliban e Al Qaeda: era una strategia finalizzata a riaccendere la guerra civile afgana finanziando i signori della guerra dell’Alleanza del nord e usando l’aviazione per appoggiare l’avanzata verso Kabul. Nell’agosto del 2002 l’allora ministro della difesa Donald Rumsfeld svelò la “strategia difensiva 1-4-2-1? che gli avrebbe consentito di combattere due guerre nello stesso tempo, in Medio Oriente e nel nordest asiatico. Gli strateghi si preparavano a difendere gli Stati uniti schierando forze in grado di scoraggiare le aggressioni e gli attacchi in quattro regioni critiche: l’Europa, il nordest asiatico (Corea del Sud e Giappone), l’Asia orientale (lo stretto di Taiwan) e il Medio Oriente. Queste forze dovevano essere in grado di resistere in due di queste regioni contemporaneamente e di riportare “una vittoria decisiva” (cioè un cambiamento di regime e l’occupazione) in uno dei conflitti. Come ha affermato William Arkin, “con le forze militari statunitensi già mobilitate al limite delle possibilità, la nuova strategia va al di là della semplice preparazione per reagire alle aggressioni. Sembra piuttosto un piano per andare a fare la guerra in altri paesi”. Nella primavera del 2003 la campagna militare, a prima vista facile e vittoriosa, contro le forze di Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI Saddam Hussein ha confermato questi timori. L’esercito sembrava in grado di portare a termine qualunque compito gli fosse stato affidato. Inoltre il crollo del regime baathista a Baghdad ha incoraggiato il ministro della difesa Rumsfeld a penalizzare i paesi che si erano mostrati poco entusiasti dell’unilateralismo di Washington (Germania, Arabia Saudita, Corea del Sud e Turchia) e a premiare quelli che avevano sostenuto l’intervento in Iraq, tra cui alleati storici come il Giappone e l’Italia, ma anche paesi ex comunisti come la Polonia, la Romania e la Bulgaria. È nato così il programma del ministero della d ifesa per la presenza globale integrata e la strategia delle basi, conosciuto ufficiosamente come “Global posture review”, revisione della posizione globale. Bush ha accennato al programma per la prima volta il 21 novembre 2003, affermando che si impegnava a “riallineare la posizione globale” degli Stati uniti. Ha ripetuto la frase, arricchendola di particolari, al convegno annuale dei veterani di guerra a Cincinnati il 16 agosto 2004. Poiché il discorso rientrava nell’ambito della campagna presidenziale del 2004, i suoi commenti non sono stati presi sul serio. Mentre affermava di voler ridurre la presenza militare statunitense in Europa e in Asia di circa 70mila effettivi, il presidente sosteneva che per farlo ci sarebbero voluti dieci anni. Poi passava a una serie di promesse che suonavano più come un reclutamento che come una dichiarazione strategica: “Nel corso dei prossimi dieci anni metteremo in campo un esercito più agile e flessibile, in modo che una percentuale maggiore dei nostri soldati avrà la sua base in patria. Sposteremo parte delle truppe e degli impianti in nuove aree, in modo da poter reagire rapidamente per affrontare qualunque pericolo. Questo contribuirà a ridurre lo stress dei nostri soldati e delle loro famiglie. Gli effettivi trascorreranno più tempo in patria e dovranno affrontare meno imprevisti e meno spostamenti nell’arco della loro carriera. Mogli e mariti dei nostri soldati non dovranno cambiare lavoro di continuo, avranno più stabilità e più tempo da dedicare ai figli e da passare a casa con la famiglia”. Il 23 settembre 2004 il ministro Rumsfeld rivelava i primi dettagli del progetto della commissione del senato per le forze armate. Con la sua solita enfasi esagerata, descriveva il piano come “la più grande ristrutturazione globale delle forze armate americane dal 1945?. E citando l’allora sottosegretario Douglas Feith, aggiungeva: “Durante la guerra fredda sapevamo in partenza dove si annidavano i rischi e dove si sarebbero combattute le battaglie cruciali, e potevamo posizionare i nostri uomini in quelle aree. Oggi operiamo in modo completamente diverso. Dobbiamo essere in grado di svolgere qualunque tipo di operazione militare, dagli interventi armati a quelli per il mantenimento della pace, in ogni angolo del mondo e con estrema rapidità”. Sembra un ragionamento plausibile, ma si spalanca la porta a un immenso groviglio diplomatico e burocratico che gli strateghi di Rumsfeld avevano certamente sottovalutato. Per potersi espandere in nuove zone, i ministeri degli esteri e della difesa devono negoziare con i paesi stranieri un accordo specifico, il cosiddetto “Status of forces agreement” (Sofa). Devono inoltre siglare molti protocolli d’intesa, come il diritto di accesso per i velivoli e le navi nelle acque territoriali e nei cieli stranieri. Inoltre devono ottenere la firma del cosiddetto Artide 98 agreement, basato sull’articolo 98 dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale. L’accordo consente di sottrarre i cittadini americani in territorio straniero dalla giurisdizione della Corte. Questi trattati di immunità sono stati creati con una legge statunitense del 2002 (l’”American service members’ protection act”) per proteggere il personale militare all’estero. L’Unione europea, però, li considera illegali. Gli altri accordi internazionali bilaterali indispensabili sono quelli di cooperazione nel settore militare tra Stati uniti e forze della Nato, che riguardano il rifornimento e lo stoccaggio di carburante per gli aerei e le munizioni, i contratti di affitto per le proprietà immobiliari, gli accordi bilaterali di sostegno politico ed economico agli Stati uniti (il cosiddetto sostegno della nazione-ospite), le disposizioni per le esercitazioni e l’addestramento (sono consentiti gli atterraggi notturni? E le esercitazioni di tiro con armi cariche?) e le responsabilità ambientali per l’inquinamento. Quando gli Stati uniti non sono presenti nei paesi stranieri come conquistatori o salvatori - come è accaduto in Germania, Giappone e Italia dopo la seconda guerra mondiale e in Corea del Sud dopo l’armistizio della guerra di Corea nel 1953 - è molto più difficile che riescano a ottenere quegli accordi che consentono al Pentagono di fare ciò che vuole, lasciando al paese ospite l’onere di pagare il conto. Quando non è basata sulla conquista, la struttura delle basi dell’impero americano finisce per apparire estremamente fragile. *da “Internazionale” - Chalmers Johnson è uno storico statunitense. È il presidente del “Japan policy research institute”. Questo articolo è un estratto del suo ultimo libro “Nemesis: the last days of the american republic” ( Metropolitan Books) L’articolo originale in inglese si può trovare su www.alternet.org/story/47998/ Guerre & Pace 33 L’OMBRA DELLE BASI GUARDANDO L’IMPERO STATUNITENSE di Tom Engelhardt In Iraq e non solo, l’impero statunitense di basi permanenti cresce a un ritmo allarmante Solamente quattro anni dopo l’invasione dell’Iraq la questione fondamentale sul terreno in quel paese potrebbe infine essere rintracciata: non il massacro o il caos; non le auto bombe suicide o i camion bomba al cloro; non la fuga di massa dei professionisti middleclass, la campagna di omicidi di docenti universitari o il collasso del miglior servizio sanitario della regione; non i morti iracheni o statunitensi, la mancanza di elettricità, la crescita delle milizie sciite, il crollo della “coalizione dei volenterosi” o lo sradicamento di oltre il 15% della popolazione irachena; nemmeno l’improvvisa crescita di fondamentalismo ed estremismo, la crescita di “Al Qaeda in Mesopotamia”, l’aumento delle uccisioni settarie o l’incapacità del governo iracheno di pompare petrolio o una legge sul petrolio stesso scritta a Washington e diretta a riportare indietro di decenni l’orologio del Medio Oriente - no, nulla di tutto questo. Finalmente si riesce a vedere proprio quanto George W.Bush, Dick Cheney, gli altri funzionari della loro amministrazione, la direzione politica del Pentagono e i loro seguaci neocon avevano in mente quando hanno invaso l’Iraq nel 2003. IL MODELLO COREA Permettetemi di prendere la questione da un altro punto di vista. Nell’ultima settimana si è molto discusso di “modello Corea” che, secondo il “New York Times” e altri giornali, il Presidente improvvisamente considera come modello per l’Iraq (“Mr. Bush di recente ha informato dei visitatori della Casa bianca che sta cercando un modello simile alla presenza americana nella Corea del Sud”). Che significa: un numero limitato di basi Usa principali spostato fuori dalle aree urbane; un numero limitato di soldati (circa 30/40.000) confinati in tali basi, pronti a intervenire in qualsiasi momento; un governo amico a Baghdad; e (come nella Corea del Sud dove le nostre truppe si sono stabilite da oltre sessant’anni) forse un altro mezzo secolo di tranquillo presidio del territorio. In altre parole, questo è l’attuale equivalente di un “ridispiegamento oltre l’orizzonte” di truppe americane. In questo caso “oltre l’orizzonte” potrebbe significare verso il 2057 e oltre. Questo, ci viene detto, è un nuovo stadio nel pensiero dell’amministrazione. Il portavoce della casa Bianca Tony Snow appoggia il “modello Corea” (“Gli Stati uniti si trovano in una situazione descritta come funzione di supporto ‘oltre l’orizzonte’ - come quello che svolgiamo in Corea del Sud, dove per molti anni ci sono state forze americane lì assegnate come strumento per mantenere la stabilità e la sicurezza del popolo sudcoreano contro il vicino nord-coreano che rappresenta una minaccia…”). Il segretario alla Difesa Robert Gates ha messo tutto il suo peso a favore di questa idea in modo da rassicurare gli iracheni che gli Usa “non si ritireranno dall’Iraq come hanno fatto dal Vietnam ‘con armi e bagagli’” e lo stesso ha fatto il generale 34 secondo in comando in Iraq, Ray Odierno (“Domanda: siete d’accordo che probabilmente avremo qui una forza stile Sud Corea per molti anni a venire? Generale Oderno: penso sia una decisione strategica e penso debba essere presa tra noi e il governo iracheno. Penso sia una grande idea”). David Sanger sul “New York Times” recentemente ha riassunto questo “nuovo” pensiero in questo modo: “I funzionari dell’amministrazione e gli alti ufficiali militari rifiutano di parlare dei loro piani a lungo termine per l’Iraq, ma quando si parla in via non ufficiale descrivono un concetto abbastanza preciso. Chiedono di mantenere tre o quattro basi principali nel paese, tutte naturalmente fuori dalle popolate aree urbane, dove le vittime sono cresciute. Sarebbero incluse la base di al Asad nella provincia di Anbar, la base aerea di Balad, 50 miglia a nord di Baghdad, e la base aerea di Tallil nel sud”. UN PENSIERO DI BUSH AFFATTO NUOVO I critici - di destra, sinistra o centro - hanno prontamente attaccato la pertinenza dell’analogia con il Sud Corea per tutte le ovvie ragioni storiche. Il “Time” ha intitolato un suo pezzo: Perché l’Iraq non è la Corea; Fred Kaplan di “Slade” ha sostenuto con veemenza: “In altre parole, in nessun senso queste due guerre, questi due paesi, sono vagamente simili; in nessun modo un’esperienza può gettare luce sull’altra. In Iraq nessuna frontiera divide gli amici dai nemici, nessun concetto chiaro definisce chi siano gli amici e chi i nemici. Sostenere che l’Iraq potrebbe seguire il ‘modello coreano’ - ammesso che il termine modello abbia un significato - è un’assurdità”. Sul suo sito internet “Informed Comment”, Juan Cole ha scritto: “Quello che mi confonde sono i termini della comparazione. Chi sta svolgendo il ruolo dei comunisti e della Corea del Nord?”. Jim Lobe di “Inter Press” cita il generale in pensione Donald Kerrick, già consigliere per la sicurezza nazionale che ha prestato servizio due volte in Corea del Sud: “O l’analogia è una grande semplificazione che serve a rassicurare l’opinione pubblica sul fatto che l’amministrazione Bush abbia un piano a lungo termine, oppure è solamente una sciocchezza”. Tutti questi critici hanno colto il problema. Nondimeno la sua grave imprecisione storica non sarà sufficiente a far abbandonare il “modello Corea”, essendoci una ragione molto più importante per seguirlo, confermata da quattro anni di “fatti compiuti” in Iraq - e da una piccola storia che nessuno sembra ricordare, nemmeno il “New York Times” che pure aveva segnalato tale notizia. In questo momento il “modello Corea” è presentato come una novità, come il prossimo passo di un’amministrazione Bush che disperatamente cambia il suo pensiero dopo che il suo piano di ritiro si è rivelato un disastro. In ogni caso la questione fondamentale Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI dell’attuale momento “coreano” è che si tratta della più vecchia delle notizie. Fin da quando ha lanciato la sua invasione dell’Iraq nel marzo 2003 l’amministrazione Bush ha pensato di entrare in un Iraq “sudcoreano” (anche se tale analogia non è mai stata utilizzata). Mentre gli americani, inclusi funzionari dell’amministrazione, ne parlavano come ci si trovasse a Tokyo o Berlino nel 1945, in Algeria negli anni Cinquanta, nel Vietnam degli anni Sessanta e Settanta, nella guerra civile di Beirut degli anni Ottanta, o molti altri diversi luoghi storici lontani, la pianificazione dell’amministrazione rimaneva ostinatamente legata al “Sud Corea”, quando valutava i fatti sul terreno. Il problema era che, soprattutto a causa della pessima copertura mediatica, il popolo statunitense non sapeva nulla o quasi riguardo a questi “fatti compiuti” e questa separazione ha fatto la differenza per anni. UNA PICCOLA DIMENTICATA FONDAMENTALE STORIA Ricordiamo allora una piccola storia fondamentale. Certamente ricordate l’agitazione all’audizione davanti a una commissione del Congresso nel febbraio del 2003 del capo dello staff dell’esercito Eric Shinseki, il quale sosteneva fossero necessari “700.000 soldati” per occupare efficacemente un Iraq “liberato”. Per quella frase i dirigenti civili del Pentagono e i loro alleati neocon lo hanno deriso. Puntualizzando saggiamente che non esistevano precedenti di “scontri etnici” in Iraq, il vice segretario alla difesa Paul Wolfowitz progettava di andare e occupare l’Iraq in uno stile che si potrebbe definire “high tech” riducendo i diversi costi. Dato che il pensiero diffuso nell’amministrazione era che gli iracheni avrebbero salutato i soldati americani come liberatori o almeno come fossero a casa loro, si aspettavano che l’occupazione sarebbe proceduta in maniera soffice sulla base di un “modello Corea”, di fatto. Riguardo alle aspettative dell’amministrazione in quel febbraio, il reporter del “Washington Post” Tom Ricks nel suo best-seller sull’occupazione, intitolato Fiasco, scrive: “Wolfowitz disse agli alti ufficiali dell’esercito… che a pochi mesi dall’invasione il livello di truppe statunitensi in Iraq sarebbe stato di 34.000, ricorda il generale dell’esercito Riggs. Allo stesso modo un altro generale, ancora in servizio, ricorda che gli era stato chiesto di pianificare una riduzione di forze fino a 30.000 soldati per agosto 2003. Un altro incontro dell’esercito un anno più tardi faceva notare che quel numero rappresentava l’obiettivo ‘per la fine dell’estate 2003’”. In questo momento nella Corea del Sud sono dispiegati circa 37.000 soldati statunitensi. In altre parole, il piano originale era quello di un’occupazione dell’Iraq “Corea-style”. Ma dove dovevano stare queste truppe? Il Pentagono aveva pensato anche a quello - e qui il “New York Times” ha scordato la sua stessa storia. Il 19 aprile 2003, poco dopo l’ingresso delle truppe statunitensi a Baghdad, i reporter del “Nyt” Thom Shaker e Eric Schmitt pubblicavano in prima pagina un pezzo intitolato Il Pentagono si aspetta un accesso di lungo periodo a quattro basi chiave in Iraq. Iniziava così: “Gli Stati uniti stanno prog ettando una relazione militare di lungo termine con l’emergente governo dell’Iraq tale da garantire al Pentagono l’accesso alle basi militari e proiettare l’influenza americana nel cuore di quella instabile regione - così hanno riferito alti funzionari dell’amministrazione Bush. Ufficiali americani, in interviste rilasciate questa settimana, hanno parlato del probabile mantenimento in Iraq di quattro basi che potrebbero essere utilizzate nel futuro: una nell’aeroporto internazionale proprio fuori Baghdad; un’altra a Tallil, vicino Nassirya, nel Sud; una terza in un’isolata pista aerea chiamata H-1 nel deserto occidentale, lungo il vecchio oleodotto che corre verso la Giordania; l’ultima nel campo aereo di Bashur nel nord kurdo”. Quindi il Pentagono è arrivato a Baghdad con già scritta sulla lavagna una strategia di occupazione a lungo termine attraverso almeno quattro basi militari. Queste sarebbero state mega-basi, essenzialmente cittadelle americane fortificate, nelle quali 30-40.000 soldati avrebbero potuto rimanere per un’eternità secondo lo stile-Sud Corea. Ufficialmente il Pentagono, come veniva astutamente affermato, non cercava “basi permanenti” ma “accessi permanenti”. (E sulla base di questo stratagemma verbale un’amministrazione che ha costantemente ridefinito la realtà per aggiustarla alle sue necessità ha piegato i suoi evidenti desideri, e i suoi progetti, per una “permanenza” in Iraq. Come ha segnalato pochi giorni fa Tony Scott “le basi militari statunitensi in Iraq non sarebbero necessariamente permanenti perché sarebbero là su invito del governo ospitante e ‘la persona che fa l’invito ha il diritto di ritirare l’invito stesso’”). QUANTO DURANO GLI “ENDURING CAMPS”? Quando il report di Schmitt e Shaker è piombato in una conferenza stampa di Rumsfeld, la storia è stata sostanzialmente negata (“non ho mai, per quanto ricordi, sentito parlare della questione delle basi permanenti in Iraq durante alcuna riunione”) e quindi è scomparsa dal “New York Times” per quattro anni (e dalla maggior parte degli altri media per la maggior parte del periodo). Non è però scomparsa dalla programmazione del Pentagono, che, al contrario, ha cominciato a distribuire contratti a diverse imprese private per avviare il lavoro. Alla fine del 2003 una prestigiosa riviste di ingegneria citava il tenente colonnello David Holt, ingegnere dell’esercito impegnato nello “sviluppo di infrastrutture in Iraq”, che riferiva orgogliosamente di diversi milioni di dollari già spesi nella costruzione di basi militari (“il numero è oscillante”). Sono state costruite basi a profusione - secondo il “Washington Post”, 106 fino al 2005, inclusi ovviamente piccoli avamposti. Al momento, per evitare tracce della parola “permanenti”, le principali basi militari Usa in Iraq sono state chiamate dal Pentagono “enduring camps” (campi stabili). Cinque o sei di questi sono Guerre & Pace 35 L’OMBRA DELLE BASI decisamente imponenti, inclusi Camp Victory (il nostro quartier generale militare vicino all’aeroporto di Baghdad, alla periferia della capitale), la base aerea di Balad, a nord di Baghdad (che sopporta un traffico aereo da concorrere con l’aeroporto O’Hare di Chicago) e la base aerea al-Asad nel deserto occidentale vicino alla frontiera con la Siria. Queste basi sono abbastanza grandi da contenere strade per autobus multipli, cine-teatri, famosi ristoranti fast-food e, in un caso, anche un campo da golf in miniatura. Nella base di Tallil, nel Sud, è stata costruita una sala per le messe con 6.000 posti a sedere e che sfiora la superficie delle strutture dell’amministrazione Bush. Inoltre, con la crescita dei gruppi insorgenti e la caduta di Baghdad nel disordine e nella guerra settaria, i pianificatori statunitensi hanno cominciato a costruire un’area recintata pesantemente fortificata (con un costo di 600 milioni di dollari) composta da 20 strani edifici nel cuore della Green Zone di Baghdad, la più grande “ambasciata” sul pianeta, così autonoma da non aver bisogno dell’Iraq per elettricità, acqua e quasi tutto il resto; con “apertura” programmata per settembre, sarà sia una cittadella che una casa per migliaia di diplomatici, spie, guardie, contrattisti privati e lavoratori stranieri necessari per rispondere ai bisogni della “comunità”. I MEDIA CIECHI VERSO LE BASI Dal 2003 ad oggi i lavori di costruzione, mantenimento e continuo ampliamento di queste basi (e del loro equivalente in Afghanistan) non sono mai finiti. Malgrado i contratti per la costruzione delle grandi basi siano stati affidati molto tempo fa, proviamo a guardare a un paio di piccoli contratti più recenti. Nel marzo 2006 “Dataline Inc.” di Norfolk, Virginia, ha vinto un appalto di 5 milioni di dollari per il “controllo tecnico delle innovazioni di infrastrutture e istallazione di cavi” principalmente per “Camp Fallujah (25%), Camp al-Asad (25%) e Camp Taddoum (25%)”. Nel dicembre 2006 la “Watkinson L.L.C.” di Houston ha vinto un appalto di 13 milioni di dollari per un contratto di “design e costruzione di un parcheggio per aerei pesanti e un’area di immagazzinamento aperta” per la base aerea di al-Asad “ da completare entro il 17 settembre 2007”. In marzo 2007 la “Lockheed Martin Integrated Systems” ha ottenuto un contratto da 73 milioni di dollari per “le necessità periodiche, quali operazioni di mantenimento e supporto per la rete di basi locali, comunicazioni satellitari, controlli tecnici, telefoni, radio mobili, istallazioni via cavo interne ed esterne… per 13 basi in Iraq, Afghanistan e altre sei nazioni che rientrano nell’area di responsabilità del Central Command degli Stati uniti”. E la costruzione di basi principali può non essere al termine. Guardiamo al Kurdistan iracheno. Secondo Julian Cole la stampa irachena continua a riportare voci secondo le quali le attività di costruzione delle basi sono passate in quella regione. Non si sa molto, tranne che a Washington alcuni considerano il Kurdistan iracheno un posto naturale dove 36 “ricollocare” i soldati statunitensi in caso di futuro parziale ritiro o riduzione. Questi, quindi, sono i “fatti sul terreno” iracheno dell’amministrazione Bush. Qualsiasi cosa chiunque e in qualsiasi momento possa dire riguardo la fine della presenza americana in Iraq o la restituzione della “sovranità” agli iracheni, per i reporter americani a Baghdad, così come per i media a casa, la natura “stabile” (“enduring”) di quanto è stato costruito dovrebbe essere indubbia - e dovrebbe significare qualcosa. Dopo tutto queste basi americane, come l’enorme ambasciata nella Green Zone (ironicamente chiamata dagli abitanti di Baghdad “Palazzo di George W.”), sono mostruose nelle dimensioni, all’avanguardia per comunicazioni e strutture e devono supportare enormi comunità americane, siano essi soldati, spie, appaltatori o mercenari, per lungo tempo. BASI: VIA AMERICANA ALL’IMPERO Sono imperiali per natura, l’equivalente diplomatico e militare statunitense delle piramidi. E nessuno, vedendole, può pensare ad altro che a “permanenti”. Non significa nulla che ufficialmente queste basi non siano definite “permanenti”; dopo tutto, come indica il modello coreano (vecchio almeno di sessant’anni), tali basi, più che le colonie, sono state da sempre la via americana all’impero, e, con rare eccezioni, dove sono arrivate non sono mai andate via. Esse rimangono, cannoniere immobili puntate per una sorta di eterna “diplomazia” armata. Raggruppandosi efficacemente in certe regioni del pianeta, esse rappresentano quello che il Pentagono chiama la nostra “impronta”. Come ha segnalato Chalmer Johnson nel suo libro The sorrows of Empire, gli Usa hanno, soprattutto dalla seconda guerra mondiale, messo in piedi almeno 737 basi (piccole e grandi) in tutto il mondo probabilmente il numero è più vicino alle 1000. Come sostiene Tony, dappertutto gli americani sarebbero stati ufficialmente “invitati” dai governi locali e hanno negoziato “Status of Force Agreement” [Sofa, accordo sullo status delle forze], l’equivalente moderno della garanzia di extraterritorialità di epoca coloniale, in modo che le truppe statunitensi siano soggette in misura minima a controlli e tribunali locali. Ci sono ancora almeno 12 basi in Corea, 37 solamente sull’isola giapponese di Okinawa e così via intorno a tutto il globo. Dalla Guerra del Golfo nel 1990 la costruzione di basi è stata incessante. Le amministrazioni Bush sr., Clinton e Bush figlio hanno messo in piedi una catena di basi che va dai vecchi paesi satelliti dell’Urss dell’Europa orientale (Romania, Bulgaria) ed ex Jugoslavia, attraverso il “Grande Medio Oriente” (Kuwait, Qatar, Oman, Bahrein e Emitati arabi uniti), verso il Corno d’Africa (Gibuti), nell’Oceano indiano (l’isola “britannica” di Diego Garcia) e giusto attraverso l’Asia centrale (Afghanistan, Kyrgyzistan e Pakistan, dove “condividiamo” basi pakistane). Le basi hanno seguito le nostre piccole guerre dei recenti decenni. Sono entrate in Arabia saudita e nei piccoli Emirati del Golfo (attorno) ai tempi della nostra Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI prima Guerra del Golfo nel 1991, nell’ ex Jugoslavia dopo la guerra aerea del Kosovo nel 1999, in Pakistan, Afghanistan e nelle ex repubbliche socialiste sovietiche dell’Asia centrale dopo la guerra afghana nel 2001 e in Iraq, naturalmente, dopo l’invasione del 2003, dove dovevano sostituire le basi dell’Arabia saudita messe in naftalina come risposta alla denuncia di Osama binLaden secondo il quale gli americani stavano contaminando i luoghi più sacri dell’Islam. Di fatto, se ci si ferma alle basi istallate dopo l’11 settembre 2001, l’enfasi era posta da una parte sull’accerchiamento della Russia attraverso i suoi passati satelliti est-europei e le vecchie repubbliche socialiste dell’Asia centrale e, dall’altra, sull’assicurarsi una serie di basi lungo il cuore petrolifero del pianeta, una striscia di territorio definita nel 2002/2003 dall’amministrazione come “arco d’instabilità”. L’Iraq era, ovviamente, solamente una parte, per quanto fondamentale, di tale sogno imperiale su come dominare il pianeta. E così le “ziggurat” militari che hanno reso manifesto quel sogno, tutti i miliardi di dollari dei contribuenti e l’ovvio bisogno di permanenza che si portava dietro sono stati in gran parte lasciati fuori da resoconti, discussioni e dibattiti riguardanti l’occupazione dell’Iraq. L’IRAQ COME LA COREA… L’amministrazione è rimasta sorprendentemente silenziosa riguardo a tutta questa attività di costruzione e sul suo significato - dietro periodiche negazioni che questo impegno fosse “permanente” - e con rare eccezioni anche i giornalisti che trasmettevano da Camp Victory o dalle altre basi evitavano di inserirle nel paesaggio dei loro servizi. Queste basi, e il colosso di “ambasciata” che le accompagna, non sono state considerate così importanti. Forse per giornalisti e direttori, abituati a vivere in un universo nel quale gli Usa semplicemente non possono comportarsi in modo imperiale, le basi sono un dato imprescindibile - come lo stile di vita statunitense (“American way of life”). Evidentemente per la maggior parte dei reporter non c’è, per certi versi, alcuna notizia. Di conseguenza, ci sono state infinite discussioni sull’”incompetenza” dell’amministrazione Bush (delle quali non se ne può più), ma nulla sulla programmazione piuttosto competente che lascia pesantemente queste strutture nel paesaggio iracheno. Se la questione non è stata totalmente oscurata (blacked-out) negli Stati uniti, si può dire che abbia subito una specie di rimozione (whiteout). Mentre molte cose sull’Iraq sono state discusse, la questione principale, per quanto assolutamente concreta, non ha avuto peso, non è stata sottolineata per nulla. Per i reporter americani, come per il Segretario di stato statunitense, il presidio su larga scala del Pianeta Terra semplicemente non è una storia che faccia notizia. Il risultato è che la maggior parte degli americani non si è reso conto che stavamo creando edifici multimiliardari sul territorio iracheno per durare qualcosa di simile a un’eternità. E sorprendentemente, quando è stato chiesto alla fine dello scorso anno dai ricercatori del “Program on International Policy Attitude” se avremmo dovuto avere basi “permanenti” in Iraq, un enorme 68% di americani ha risposto di no! Ma quando la questione delle basi e della permanenza arriva sulla stampa, generalmente arriva nel contesto dei “sospetti” iracheni sulla questione (ah, questi stranieri paranoici!). Per esempio il “Los Angeles Times” riporta le parole di Michael O’Hanlon - analista della Brooking University spesso citato - che parla così dell’appoggio del presidente al “modello Corea”: “Cercando di mostrare risolutezza, Bush introduce la congettura che noi rimarremmo lì per lungo tempo… è inutile per affrontare la politica della nostra presenza in Iraq”. No, Michael, le basi sono la nostra politica in Iraq. …UNA FANTASIA IMPERIALE In genere i democratici e i loro principali candidati alla presidenza si schierano con O’Hanlon, e nessuna significativa proposta di “ritiro” dall’Iraq dei democratici è davvero una proposta di ritiro completo. Propongono solamente di ritirare le brigate di combattimento americane (forse 50-60.000 soldati) dal paese, mentre la maggior parte di quelli che rimangono sarebbero ricollocati in quelle grandi basi che è troppo scomodo nominare. Improvvisamente, comunque, la discussione del “modello Corea” è entrata nelle notizie, così come le basi - e l’idea di una presenza militare permanente in Iraq - sono entrate nel mirino statunitense probabilmente per la prima volta. Bisogna solamente guardare all’Iraq di oggi per capire quanto (come molto altro immaginato dai nostri sognatori imperiali) questa fantasia di uno sviluppo tranquillo dell’Iraq verso una democrazia amica ci ha condannato a continui fallimenti, mentre la terra del petrolio del pianeta rischia di implodere. Il “modello Corea” è solamente una delle più grottesche e interessate erronee interpretazioni della storia, ma non è nulla di nuovo. Non è una fantasia nella quale sono inciampati il presidente e i suoi più alti funzionari nella disperazione dell’epoca del ritiro: è la fantasia che hanno borbottato a Baghdad già dal 2003; è la fantasia imperiale che non ha mai abbandonato i loro pensieri da quel primo “shock and awe” (“colpisci e terrorizza”) ad ora. Bisogna dar loro atto di coerenza. Su questo “modello” - in qualsiasi modo lo si voglia chiamare l’amministrazione Bush ha puntato tutto e su quello non hanno mai esitato. La maggior parte degli americani ha vissuto in questi anni in una sorprendente ignoranza su quanto stavano realmente costruendo in Iraq a causa di una tra le peggiori coperture di una questione importante del recente passato. Ora, forse, questa grande separatezza americana sta cominciando a finire, il che potrebbe rappresentare una cattiva notizia per l’amministrazione Bush. Da: TomDispatch, www.tomdispatch.com, 14 giugno 2007 . Trad. di Piero Maestri, adatt. red. Guerre & Pace 37 L’OMBRA DELLE BASI PIÙ TRUPPE USA RIMARRANNO IN EUROPA? Gordon Lubold – “The Christian Science Monitor”, 24 aprile 2007 Funzionari della Difesa statunitense in Europa stanno ripensando al piano che prevede un forte taglio nel numero di forze statunitensi nel continente – una modifica potenziale che mostra quanto la Guerra in Iraq e altre minacce stiano costringendo i militari a rivedere l’ampia trasformazione che doveva ridefinire la loro strategia oltremare. Molti funzionari di alto livello sono preoccupati che il progetto di ridurre a quasi la metà il numero di forze in Europa potrebbe rendere difficile sostenere gli interessi americani in Europa. La riduzione di truppe, sostengono, va troppo lontano: “Sono molto preoccupato di quanto stiamo tenendo basse le capacità dell’esercito statunitense in Europa”, ha detto uno di questi funzionari, che ha chiesto l’anonimato per la delicatezza della questione. Per anni la presenza di più di 110 mila soldati in grandi basi in paesi come Italia e Germania è stata considerata un residuo della guerra fredda. Nel 2002 l’allora Segretario di Stato Donald Rumsfeld coordinò un’iniziativa per ridurre il peso militare americano nell’Europa occidentale a favore di più piccole e agili forze collocate in basi temporanee in posti quali la Romania e la Bulgaria. In questo modo si sarebbero collocate le forze Usa in aree molto meno stabili e le si sarebbero rese più efficaci. Sulla base di questo piano del 2005, molte delle forze rimanenti sarebbero rientrate negli Stati uniti; per il 2012 solamente 60.000 soldati sarebbero rimasti in Europa. Ma questo succedeva 2 anni fa. Oggi queste ipotesi non possono valere. Le riforme democratiche in Russia sono tornate indietro, e in Iran è emersa una minaccia potenzialmente molto seria. Inoltre le guerre in Iraq e Afghanistan sono durate più a lungo di quanto ci si aspettava e hanno attinto dalle forze americane basate in Europa, che altrimenti avrebbero potuto essere utilizzate in missioni del “European Command” (degli Usa, ndr), per esempio per costruire le capacità delle “nazioni partner”. E’ stato invece difficile per l’”European Command” cercare una nuova e più attiva strategia verso queste nazioni, v cercando di prevenire i problemi prima che insorgessero. Inoltre è stato necessario cancellare esercitazioni e altri impegni militari in Europa e Africa perché il comando aveva o avrebbe avuto forze scarse. La nuova strategia richiede “un intera nuova previsione di mezzi ed equipaggiamenti della quale ci sarà bisogno in questo teatro” dice il colonnello della Us Air Force West Anderson, che guida la “Tranformation Concepts Division” dell’European Command. “Se questo significherà maggiori forze in questo teatro, è ancora da decidere”: 38 Il generale dell’esercito Bantz Craddock, da poco capo dell’European Command e alto ufficiale della Nato, ha guidato il suo staff a studiare quanto il piano di ristrutturazione delle basi militari influirebbe sulla strategia statunitense in Europa, così come quanto il dimezzamento delle forze possa impedire le missioni. Un rapporto preliminare per il generale sarà pronto il mese prossimo, e un report completo per metà dell’estate. Il mese scorso, durante un’audizione al Congresso, Craddock ha ambiguamente segnalato di esprime riserve verso il piano, senza dire esplicitamente di essere contrario. Sapendo che le forze statunitensi del Dipartimento della difesa sono bloccate, Craddock ha segnalato che la guerra sta rendendo difficile condurre le altre operazioni. “Abbiamo scarse capacità residue dopo aver contribuito alla forza globale, se fosse necessaria per le prossime operazioni”, ha aggiunto Craddock. Approssimativamente il 75% delle forze statunitensi in Europa sono impegnate in Iraq o in Afghanistan, stanno per partire oppure sono appena rientrate, secondo i funzionari della difesa. “La nostra capacità di far fronte a tali necessità è oggi limitata perché non abbiamo forze disponibili in quanto sono impegnate nella rotazione per l’Iraq o l’Afghanistan”. C’è un altro problema di natura più pratica: le forze che l’esercito sta facendo rientrare negli Stati Uniti non hanno un posto dove andare. Il Congresso ha finanziato solo parzialmente il “Base Realignment and Closure Act”, che governa una serie di chiusure e consolidamenti di basi. Mentre sono inziate le spese per sistemare le forze di ritorno dalla Germania, secondo funzionari della difesa ormai restano pochi soldi, così che son o stati rinviati i lavori a Fort Bliss, Texas e Fort Riley, Kansas. “In questa situazione non siamo in grado di assorbire più nessuno” dice David Reed, assistente per le costruzioni per l’ufficio apposito dell’esercito al Pentagono. Qualsiasi raccomandazione faccia Craddock ultimamente risulta indirizzata a mantenere abbastanza forze americane per mandare un messaggio di forza agli alleati e ai potenziali nemici, dice Mackubin Thomas Owens, professore al Collegio navale di guerra di Newport. “La principale ragione per mantenere truppe in Europa è quella di rendere possibile che continuiamo a sederci a capotavola”, dice. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI ASIA SUDOCCIDENTALE E NORD-ORIENTALE Tratto da “Foreign Military Bases in Eurasia”, Zdzislaw Lachowski – SIPRI Policy Paper n.18 Stockholm International Peace Research Institute, Giugno 2007 Dal 2001 l’attenzione internazionale si è spostata dall’Europa verso aree di conflitto e instabilità in Asia sud-occidentale e nord-orientale. Le basi militari rispondono a differenti obiettivi, a seconda di dove sono posizionate. In questo momento, in Afghanistan e in Iraq, svolgono principalmente il ruolo di supporto delle truppe in azione contro gli insorgenti e i terroristi, fornendo le adeguate infrastrutture – campi di aviazione, magazzini, servizi e strutture logistiche e così via. Le basi in Medioriente mirano ad assicurare stabilità politica, proteggere gli interessi occidentali e salvaguardare il flusso di petrolio. Recentemente l’amministrazione Bush ha aggiunto a questa lista la sua “freedom agenda” (1). Gli Usa sono l’attore principale – sostenuti ora dalla “coalizione dei volenterosi” ora dalla Nato. Almeno dal 2002 la Nato ha rinforzato la sua raison d’être verso missioni interventiste (expeditionary) e acquisendo accesso a strutture attraverso accordi con i paesi ospitanti. In Asia nord-orientale sono stati mantenuti i modelli della guerra fredda: quelle basi verrebbero utilizzate per la difesa mutua dai partner strategici locali degli Usa in caso di conflitto o confronto e per una deterrenza estesa verso gli avversari degli Usa nella regione. Asia sud-occidentale Le guerre prolungate in Afghanistan e Iraq e i crescenti investimenti sia di risorse finanziarie che di truppe rendono verosimile l’eventualità che gli Usa e le forze della coalizione rimangano in entrambi i paesi per lungo tempo. La posizione ufficiale statunitense è che “la presenza Usa per lungo tempo in questi paesi è una scelta sovrana dei loro popoli e governi” (2). Malgrado le ripetute assicurazioni del Presidente Bush secondo il quale gli Usa non stanno cercando basi permanenti in Iraq e Afghanistan, queste dichiarazioni sono contestate dai sondaggi di opinione e dagli esperti (3): “Con le istallazioni in Iraq e Afghanistan, le truppe statunitensi circonderebbero il principale rivale dell’America per l’influenza nella regione: l’Iran. Le basi irachene accrescerebbero anche la capacità statunitense di controllo della Siria e manterrebbero lo sguardo sui vitali stati petroliferi del Golfo Arabico – capacità danneggiata dalla necessità di uscire dall’Arabia Saudita subito dopo l’invasione dell’Iraq” (4). Un memorandum del 2005 del “Congressional Research Service” (Crs)ha segnalato che, oltre al quasi miliardo di dollari spesi tra il 2001 e il 2004 dall’amministrazione Bush per progetti di edilizia militare in Afghanistan e nei paesi vicini, il Dipartimento della Difesa ha chiesto un’ulteriore miliardo per il 2005. Alla luce di ciò il memorandum del Crs chiedeva se queste spese fossero l’annuncio di una presenza statunitense di lungo periodo nella regione o mirassero a fornire aiuti di breve periodo alle strutture di servizio per le truppe Usa (5). La politica di fondo degli Usa nell’area rimane ambigua, dipendendo da fattori politici sia interni che esterni alla regione stessa. Con l’escalation delle ostilità in Afghanistan e Iraq, la strategia Usa si è diretta verso il consolidamento delle forze statunitensi in grandi strutture militari (hubs) come mezzo per ridurre il fabbisogno di truppe nella regione. Apparentemente questo è stato fatto a spese degli alleati della Nato e delle tattiche contro-insurrezionali (per esempio piccoli gruppi di consiglieri sul terreno), uno sviluppo criticato come controproducente sia negli Usa che tra i partner della coalizione (6). Afghanistan Subito dopo gli attacchi del 11 settembre 2001, la Nato sostenne l’Operazione “Enduring freedom” in Afghanistan – guidata dagli Usa – in diversi modi, inclusa la garanzia di accesso a porti e basi, il diritto di sorvolo, e simili. Verso la fine del 2001, durante il primo mese della guerra, 14 stati membri della Nato schierarono le loro forze nella regione e 9 di essi presero parte alle operazioni di combattimento. I paesi della Nato e altri partner hanno fornito il 95% delle forze dell’Isaf – guidata dalla Nato – che opera in Afghanistan parallelamente all’Operazione “Enduring freedom”. Dopo aver fornito con successo assistenza, peacekeeping e aiuto alla ricostruzione nelle parti settentrionale e occidentale dell’Afghanistan, dalla metà del 2006 l’Isaf ha intrapreso una più rischiosa e pesante missione di sicurezza e contro-insorgenza nelle province meridionali e, dall’ottobre 2006, orientali del paese. La missione di sicurezza dell’Isaf si è quindi estesa fino a includere l’intero paese e nel marzo del 2007 aveva circa 37.000 soldati a sua disposizione (7). La possibilità di stabilire basi militari permanenti statunitensi in Afghanistan era stata discussa al principio del 2005 quando, durante una visita nel paese, il Sen. John McCain sostenne che le basi Usa in quel paese sarebbero state nell’interesse della sicurezza statunitensi e regionali (8). Due mesi più tardi il presidente afghano Hamid Kharzai si rifiutava di confermare se un accordo di sicurezza di lungo periodo con gli Usa avrebbe incluso la costruzione di basi Usa permanenti in Afghanistan, e il Segretario di Stato Rumsfeld sottolineava che “noi pensiamo più a quanto stiamo facendo che non alla questione delle basi militari o a cose simili” (9). In un incontro il 23 maggio 2005, Bush e Karzai hanno poi firmato la “Dichiarazione congiunta di partnership strategica Stati Uniti-Afghanistan”, nella quale si legge che “Le forze militari statunitensi operanti in Afghanistan continueranno ad avere accesso alla base aerea di Bagram e ai suoi servizi, e strutture nelle altre località sulla base di possibili decisioni congiunte e che le forze degli Usa e della Coalizione devono continuare ad avere la necessaria libertà di azione per condurre le operazioni militari appropriate sulla base di Guerre & Pace 39 L’OMBRA DELLE BASI consultazioni e procedure precedentemente concordate” (10). Benché la “Dichiarazione congiunta” non garantisse il diritto degli Stati uniti a basi permanenti, che sarebbe stato troppo controverso per l’opinione pubblica afgana, permetteva una presenza militare Usa stabile nel paese. All’inizio del 2007 circa 3500 militari statunitensi (e diverse migliaia di truppe Isaf) stazionavano nella base aerea di Bagram, nell’est dell’Afghanistan a nord di Kabul, così come centinaia di aerei si trovavano in quella base e in altri 13 campi di aviazione in Afghanistan. Con la crescita delle responsabilità della Nato sulla sicurezza in Afghanistan, furono predisposti piani affinché la Nato stesso condividesse i costi operativi e il controllo degli campi di aviazione, che avrebbero dovuto diventare i suoi hub logistici. La Nato ha acquisito la responsabilità delle operazioni militari nell’est dell’Afghanistan dalle forze Usa nell’ottobre 2006, ma la base aerea di Bagram rimane sotto il controllo statunitense. Bagram e altri basi sono inoltre utilizzate dagli Usa come prigioni per presunti terroristi e ribelli. Altri centri logistici controllati dagli Usa in Afghanistan comprendono il campo di aviazione di Kandahar nel sud del paese, dove sono assegnati circa 500 uomini; l’aeroporto di Kabul; la base aerea di Shindand nella provincia occidentale di Herat. Shindan si trova a circa 35 chilometri dalla frontiera con l’Iran e preoccupa in maniera particolare le autorità iraniane che temono che le sue capacità militari e altre basi operative avanzate (Forward Operative Base) possano essere utilizzate per un accerchiamento aggressivo o operazioni militari contro l’Iran. Basi fuori dal paese che supportano le operazioni Nato e statunitensi comprendono la base aerea Ganci a Bishkek, Kyrgyzistan; diverse basi nel Golfo, tra le quali la base aerea Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti; la base aerea Al Udeid in Qatar; e la base aerea di Incirlik in Turchia (11). La base in Afghanistan che riceve la maggior parte dei fondi dal budget del Dipartimento della Difesa statunitense è quella di Bagram. (Fino al 2005 la base aerea di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, che supportava le operazioni in Afghanistan, era anch’essa una delle principali destinazioni dei fondi del Dipartimento della Difesa). All’inizio del 2005 erano stati spesi 38 milioni di dollari per la costruzione e i miglioramenti degli edifici militari della base di Bagram e del campo aereo di Kandahar. Altre stime parlano di 120 milioni di dollari spesi dagli Usa a Bagram e Kandahar per riparare, allargare ed estendere le vie d’accesso, le piste aeree, i sistemi di controllo e altre strutture (12). Il Crs ha stimato che nel periodo 2001-2004 sono stati spesi 120 milioni di dollari per sostenere la costruzione di edifici militari in Afghanistan, e altri 230 milioni erano richiesti per il 2005. Le “Basi avanzate di supporto” a Kabul e Mazari-Sharif al nord, a Herat a est e Kandahar nel sud forniscono assistenza di sicurezza e evacuazione 40 sanitaria all’Isaf e ai “Provincial reconstruction team”, strutture civili-militari della nato. Iraq La situazione in Iraq è più complessa che quella in Afghanistan perché l’Iraq si trova in una posizione strategica e potenzialmente capace di limitare le azioni dei principali avversari degli Usa in Medioriente quali la Siria e l’Iran. Al principio del 2003 sia la Gran Bretagna che gli Usa progettarono di costruire basi militari in Iraq e di mantenerle dopo il ritiro della forza di invasione (la Nato non partecipa ufficialmente a missioni combattenti in Iraq e il suo ruolo si limita all’addestramento dei militari iracheni). Il Dipartimento della Difesa progettava di costruire quattro basi aeree di sostegno alle forze che operavano in Iraq e servissero in alternativa alle basi analoghe in Turchia e Arabia Saudita, paesi entrambi riluttanti a sostenere l’invasione dell’Iraq (14). La Gran Bretagna progettava anche di rendere l’aeroporto di Bassora il suo principale hub logistico e base di elicotteri. Gli Stati uniti hanno incontrato seri ostacoli legali alla realizzazione dei loro piani di schieramento a lungo termine. Speravano che un governo iracheno riconosciuto internazionalmente avrebbe potuto concludere rilevanti accordi in cambio del trasferimento di sovranità nel giugno 2004. Invece le due principali organizzazioni politiche irachene erano quasi unite nella loro richiesta per un rapido ritiro piuttosto che per una presenza militare indefinita degli Usa. Malgrado i kurdi iracheni avrebbero visto con favore una presenza a lungo termine di basi militari statunitensi nel nord del paese (14), l’esistenza di tali basi avrebbe potuto incidere negativamente sia sull’unità interna sia sulle relazioni con i vicini dell’Iraq. La presenza di basi militari statunitensi è difficilmente difendibile sul piano politico perché gli attacchi degli insorgenti rendono l’Iraq non attraente per gli investimenti; gli interessi nazionali iracheni non sono definiti a causa dei conflitti tra le varie fazioni; e gli Stati uniti sono generalmente visti in maniera negativa come occupanti non graditi (15). Devono anche essere tenute in considerazioni possibili ripercussioni nella regione. Un “Accordo sullo status delle forze” (Sofa) non è stato firmato ma le forze statunitensi e della coalizione operano in Iraq e utilizzano le sue strutte sulla base di un temporaneo “memorandum of understanding”. Anche precedentemente alla “Joint Declaration of the United States–Afghanistan Strategic Partnership” gli Usa avevano preso provvedimenti che suggerivano stessero pianificando una presenza permanente nelle aree di conflitto in Asia (16). Gli Usa stimano una spesa di 300 milioni di dollari per istallazioni militari in Iraq nel 2004, e la richiesta per il 2005 ammontava a 670 milioni di dollari (17). Le somme principali sono andate alla base aerea e di supporto logistico Anaconda di Baghdad; al complesso militare e Al Taji e Camp Cook; e a camp Speicher a Tikrit. Le spese del Dipartimento della Difesa per le istallazioni militari Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI hanno provocato preoccupazioni nel Congresso Usa riguardo alla definizione ambigua di “istallazione militare” e al limitato controllo del Congresso stesso sulle prestazioni del Dipartimento della Difesa in quell’area (18). Nel maggio 2005 il presidente Bush firmava il decreto di finanziamento aggiuntivo che destinava risorse alla costruzione di basi – “in alcuni casi molto limitati, in altri strutture permanenti” – in Iraq. In quel momento si stimava una presenza di 110 basi e istallazioni militari statunitensi in Iraq. A metà del 2006 venne segnalato che 48 Forward Operating Bases in Iraq erano state trasferite sotto il controllo iracheno (19). Per quanto riguarda le altre strutture, 14 dovranno rimanere quali basi permanenti e saranno consolidate in quattro grandi basi aeree (mega basi). Queste si trovano a Tallil nel sud, Al Asad a ovest e Balad nel centro – dove già esistono strutture principali - e un’altra a Irbil o Quayyarah nel nord (20). Operazioni di supporto in Asia sud-occidentale: la regione del Golfo Le basi nei paesi del Golfo svolgono un ruolo speciale e sono fondamentali nella protezione degli interessi statunitensi nella regione e nelle aree adiacenti. Il Central Command degli Usa - Centcom (21) – ha consolidato o stabilito nuove basi in Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar e Emirati Arabi Uniti per compiti ausiliari, principalmente per le forze combattenti in Iraq e Afghanistan. Dalla guerra del Golfo del 1991 gli Usa hanno mantenuto importanti risorse militari preposizionate in Kuwait. Truppe dell’aviazione statunitense sono state dispiegate nella base aerea congiunta saudita- statunitense di Prince Sultan a sud di Riyad fin dal 1979 e l’Arabia Saudita è stata una base chiave nella Guerra del Golfo e per il rafforzamento delle “zone di non volo” fino all’invasione dell’Iraq nel 2003. I voli per il rafforzamento delle “No fly zone” e il potenziale utilizzo dell’Arabia saudita per attacchi di rappresaglia contro altri stati arabi nella “guerra globale al terrorismo” hanno reso altamente impopolare la presenza Usa in Arabia Saudita. Gli Usa hanno quindi ritirato la maggior parte delle loro truppe verso la grande base aerea Al Udeid in Qatar (che fornisce una sistemazione per circa 10.000 militari), dove sono continuati lavori di costruzione fino al 2000 (22). Le basi statunitensi nella regione sono percepite dai paesi ospitanti come una garanzia nei confronti di eventuali attacchi iraniani. Allo stesso tempo temono anche che, in caso di un conflitto tra Iran e Stati uniti, l’Iran possa rivolgersi contro di loro. Secondo il piano di riposizionamento delle basi del presidente Bush, gli Stati uniti manterranno, e in alcuni casi accresceranno, “senza essere permanenti”, infrastrutture in Medioriente per le forze necessarie alla rotazione e a diverse eventualità (come “Basi operative avanzate” e “Siti di Cooperazione per la Sicurezza”); queste saranno sostenute da quartier generali avanzati e strutture di addestramento (23). Per questo scopo gli Usa hanno stabilito una rete di siti per il preposizionamento di materiali bellici, come quelli delle basi aeree di Seeb, Thumrait e Masirah in Oman; la bese aerea Al Udeid in Qatar; e la base navale Manama in Bahrein - Quinta Flotta, Comando centrale delle forza navali Usa (24). […] NOTE (1) La “freedom agenda” si riferisce all’obiettivo dell’amministrazione Bush di promozione della democrazia in tutto il mondo. The White House, ‘President Bush Addresses United Nations General Assembly’, New York, 19 Sep. 2006, www.whitehouse.gov/news/releases/2006/09/20060919-4.html (2) US Department of State, International Information Programs, ‘U.S. outlines realignment of military forces’, 16 Aug. 2004, http://usinfo.state.gov/is/Archive/2004/Aug/17-437847.html (3) Gramaone, J., ‘No plans for long-term U.S. bases in Iraq, Rumsfeld says’, News transcript, US Department of Defense, 23 Dec. 2005, www.defenselink.mil/news/Dec2005/20051223_3735.html Il generale di brigata Mark Kimmitt ha anche dichiarato: “Gli Stati uniti non manterranno alcuna base di lungo periodo in Iraq. La nostra posizione è che quando ce ne andremo non avremo basi qui”. ‘US general maps out strategic refit for Iraq, Middle East and Asia’, “The Guardian”, 7 Feb. 2006. (4) Trowbridge, G., ‘Is U.S. planning permanent bases in war zones?’, Defense News, 9 May 2005. Esiste anche una rete regionale di basi nei paesi vicini; queste basi che supportano la presenza in Iraq e Afghanistan comprendono la base aerea Ali Ali Salem in Kuwait, le basi aeree Ali Sayliyah e Al Udeid in Qatar, e Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti. (5) Belasco, A. and Else, D., ‘Military Construction in Support of Afghanistan and Iraq’, US Library of Congress, Congressional Research Service (CRS) Report for Congress (CRS: Washington, DC, 11 Apr. 2005), www.fpc.state.gov/c14641.htm. Secondo il CRS le spese totali per il periodo 2001–2005 sono state di 2241.3 milioni di dollari Usa. (6) Si veda per es. Rogers, P., ‘The Pentagon overstretch’, openDemocracy, 29 Sep. 2005, www.opendemocracy.net/conflict/nato_2880.jsp; oppure Moulton, S., ‘Getting the right troops in the right places’, International Herald Tribune, 15 Sep. 2006. (7) International Security Assistance Force (ISAF), ‘Key facts’, 20 Apr. 2007, www.nato.usmission.gov/dossier/Afghanistan/Placemat%2020%20Apr%2007.ppt Vedi anche O’Bryant, J. e Waterhouse, M., US Forces in Afghanistan, US Library of Congress, Congressional Research Service (CRS) Report for Congress RS22633 (CRS: Washington, DC, 27 Mar. 2007), www.fpc.state.gov/documents/organization/82599.pdf Secondo O’Bryant e Waterhouse, gli Usa hanno circa 25 000 soldati stanziati in Afghanistan. (8) Quando gli è stato chiesto cosa avrebbe significato una “partnership strategica di lungo periodo” tra Afghansitan e Usa, il Sen. McCain (sottolineando che quello era un suo parere) la identificava in una partnership militare, incluso “basi militari permanenti comuni” (citato in Synovitz, R., ‘Afghanistan: how would permanent U.S. bases impact regional interests?’, Radio Free Europe/Radio Liberty, 23 Feb. 2005). La segreteria di McCain più tardi specificava che la sua frase “non implicava che tale impegno richiedesse basi militari Usa permanenti in Afghanistan”. Guerre & Pace 41 L’OMBRA DELLE BASI (9) Citato in Shanker, T., ‘Afghan leader to propose strategic ties with the U.S.’, “New York Times”, 14 Apr. 2004. Il 8 maggio 2005 Karzai chiese a circa 1000 delegati afghani in una consultazione nazionale a Kabul se Afghanistan avrebbe dovuto ospitare basi Usa permanenti. La loro risposta fu ambivalente: sostenevano una presenza indefinita delle forze straniere per mantenere la sicurezza, ma chiesero a Karzai di rinviare la sua decisione. (10) The White House, Office of the Press Secretary, ‘Joint Declaration of the United States– Afghanistan Strategic Partnership’, Washington, DC, 23 May 2005, www.whitehouse.gov/news/releases/2005/05/20050523-2.html (11) Katzman, K., Afghanistan: Post-War Governance, Security, and U.S. Policy, US Library of Congress, Congressional Research Service (CRS) Report for Congress RL30588 (CRS: Washington, DC, 23 Aug. 2006), www.fpc.state.gov/c4763.htm, pp. 21–22. Vedi anche ‘Afghanistan— airfields’, GlobalSecurity.org, www.globalsecurity.org/military/world/afghanistan/airfield.htm (12) Rolfsen, B., ‘Afghan base runways challenge U.S. pilots’, Defense News, 22 Aug. 2005. (13) Le 4 basi avrebbero dovuto essere posizionate: in una fascia aerea isolata definita H-1 nell’Iraq occidentale; a Bashur nel nord kurdo, a Tallil, vicino a Nassiriya, nel sud; e nell’aeroporto internazionale di Baghdad. Ripley, T., ‘US and UK reveal plans to set up bases in Iraq’, Defense News, 30 Apr. 2003. (14) Il Presidente iracheno Jalal Talabani, un kurdo, ha espresso la sua speranza in una presenza militare statunitense di lungo periodo in Iraq – almeno 10.000 soldati e 2 basi aeree nel Kurdistan iracheno per prevenire “ingerenza straniere”’. ‘Iraq is not in chaos’, Washington Post, 25 Sep. 2006. Il desiderio di Talabani contrastava con I sondaggi che mostravano il disaccordo della maggior parte degli iracheni con I loro leader. ‘Most Iraqis favor immediate U.S. pullout, polls show’, Washington Post, 27 Sep. 2006. (15) Marten, K. and Cooley, A., ‘Permanent bases won’t work’, International Herald Tribune, 3 Feb. 2005. (16) Trowbridge, G., ‘Is U.S. planning permanent bases in war zones?’, Defense News, 9 May 2005. (17) Belasco and Else (nota 5), p. 3. (18) Belasco and Else (nota 5), pp. 10–12. Si veda anche ‘Iraqi airfields’, Globalsecurity.org, www.globalsecurity.org/military/world/iraq/airfields.htm (19) US Department of State, International Information Programs, ‘U.S. announces transfer for two northern Iraqi provinces’, 8 Aug. 2006, http://usinfo.state.gov/usinfo (20) Spolar, C., ‘14 “enduring bases” set in Iraq: long term military presence planned’, Chicago Tribune, 23 Mar. 2004; e ‘Iraq facilities’, GlobalSecurity.org, www.globalsecurity.org/military/facility/iraq-intro.htm (21) L’area di responsabilità del CENTCOM si estende su 27 stati in Asia Centrale, Africa orientale e Medioriente. Nel il “US African Command” (AFRICOM) avrà la responsabilità per tutta l’Africa, escluso l’Egitto. (22) ‘US to move headquarters out of Saudi Arabia’, Jane’s Defence Weekly, 7 May 2003, p. 7. (23) US Department of State, International Information Programs, ‘U.S. outlines realignment of military forces’, 16 Aug. 2004, http://usinfo.state.gov/is/Archive/2004/Aug/17-437847.html (24) Per queste a e alter strutture si veda ‘US Central Command facilities’, GlobalSecurity.org, www.globalsecurity.org/military/facility/centcom.htm 42 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI LE MANI SULL’AMERICA LATINA Le basi militari Usa in America latina: la lunga mano armata sul più grande mercato economico al mondo Sabatino Annecchiarico, Guerre & Pace 142, ottobre 2007 Nelle dichiarazioni di Hugo Chávez rilasciate in una breve intervista al quotidiano “Clarín” di Buenos Aires (avvenuta lo scorso 7 agosto), viene da lui enfatizzata questa frase: “L’imperialismo statunitense ha le mani sull’America latina”. Dovrebbe essere una semplice frase, poiché nulla di nuovo aggiunge sui rapporti coloniali che gli Stati uniti esercitano da anni in America latina. Ma, se fu davvero una semplice frase, perché quella sottolineatura? GLI OBIETTIVI DEGLI USA In realtà Chávez dice altro con quella frase. Dice, o meglio avverte, su come si stanno preparando gli Stati Uniti per combattere, anche militarmente, il socialismo latinoamericano del XXI secolo. E lo fanno mettendo pesantemente le mani, armate, su tutto il continente. Anche su come sono fatte queste mani, si può aggiungere, non c’è nulla di nuovo nella frase di Chávez. Sono mani già conosciute da mezzo mondo per come si sono macchiate di sangue organizzando complotti, colpi di stato e altre atrocità. Per questa ragione i latinoamericani sono preoccupati più che mai; soprattutto se si considerano le basi militari Usa dislocate strategicamente in tutto il continente, dal Nord al Sud. Uno degli obiettivi da conseguire con queste basi militari, forse il principale nei piani della Casa bianca, è quello di cancellare militarmente la svolta di unità e sovranità continentale intraprese dalla stessa Venezuela di Chávez e dal mezzo secolo di rivoluzione socialista cubana. Un’azione militare necessaria qualora fallissero i piani economici di libero mercato proposti dalle multinazionali statunitensi e fortemente voluta dalla Casa bianca con cui vanno a braccetto. La militarizzazione territoriale Usa ha un’altro compito, non di secondo ordine: quello di far valere l’egemonia territoriale delle multinazionali statunitensi in concorrenza (braccio di forza, si direbbe) con quelle di matrice non Usa, prevalentemente quelle che appartengono all’altro grande impero planetario: l’Unione europea. L’ALTRO CONTENDENTE Questa Ue, che ha le stesse pretese degli Stati uniti nel contendere il medesimo territorio latinoamericano (il bottino), non vorrà rimanere fuori dal banchetto degli affari commerciali che questa regione offre: 34 paesi abitati da una popolazione che supera i 530 milioni di abitanti, con un Pil che sommato a quello degli Usa si aggira attorno ai 12.000 miliardi di dollari, che significa quasi un 30% più alto di quello della stessa Unione europea. Se si prevede, inoltre, che nei prossimi quarant’anni la popolazione latinoamericana raggiungerà la cifra di 800 milioni di abitanti, con il dovuto aumento proporzionale sugli affari commerciali, è facile capire che nessuna multinazionale vorrà rimanere nell’uscio della manna latinoamericana. Affari commerciali da capogiro dunque, che includono ovviamente la possibilità di avere le “mani libere” (riprendendo la non banale frase di Chávez), per facilitare alle imprese multinazionali la spogliazione del territorio. Ed è proprio su tale egemonia territoriale che si sta sviluppando la triangolare battaglia tra le grandi corporazioni capitaliste e colonialiste dell’Unione statunitense da una parte e dell’Unione europea dall’altra. Entrambe le potenze si pongono dunque contro il progetto di Unione degli stati dell’America latina e dei Carabi, che rivendicano, in questa guerra d’interessi, la sovranità territoriale. Ed è in questa trilogia di guerra che il Pentagono si muove in anticipo piazzando armi in quasi tutti i paesi del continente. LE BASI MILITARI USA IN AMERICA LATINA Per farsi un’idea di quante sono le basi militari Usa in America latina si devono innanzitutto escludere dal conteggio le micro-basi che operano per conto del Pentagono sotto forma di spie civili, militari, paramilitari o semplici mercenari (come i contractor in Iraq) anche latinoamericani, o ancora eserciti privati finanziati dalle stesse transnazionali con forte interesse nella regione. Ebbe risonanza il caso, in quest’ultimo esempio, della bananiera Chiquita Brands internazionale, quando finanziò nei primi anni del millennio l’esercito privato Autodefensas Unidad de Colombia, Auc, con 1,7 milioni di dollari e facilitò nel 2001 l’ingresso in Colombia di 3.000 fucili destinati alla stessa Auc. Queste basi minori sono, purtroppo, onnipresenti in tutti i paesi del continente e, come ha accennato Chávez nell’intervista sopra citata, “si occupano di mettere zizzania, fanno correre voci, tutto con lo scopo di frenare l’integrazione latinoamericana”. Queste presenze di piccola entità, ma molto numerose e potenti - un centinaio, o forse un migliaio? - sono facilmente trasferibili da un posto all’altro e sono inserite nel tessuto della popolazione, anonimamente, con grande operatività. In particolar modo sono molto efficaci per il controllo territoriale e, qualora fosse necessario, contribuiscono alla destabilizzazione dei governi cosiddetti “canaglia”, stabiliti dal vademecum delle corporazioni. Queste micro-basi sono senza scrupoli quando operano nelle “missioni” loro assegnate, che includono atti di terrorismo, sabotaggi e sequestri di persone. Molti di questi gruppi operano, come è noto, nei centri di addestramento o come consiglieri nell’ambito della lotta al narcotraffico o a quel terrorismo sognato da Bush. Il Pentagono dispone (oltre alle lunghe mani su cui può contare, ovvero le micro-basi segnalate), anche di una delle cinque strutture militari più grandi al mondo: il Comando Sud (Ussouthcom), che opera incisivamente in 31 paesi del Sud America, del Centro America e dei Caraibi. Restano fuori dall’influenza di questo Guerre & Pace 43 L’OMBRA DELLE BASI comando il Messico e la Guyana francese, che fanno parte del Comando Nord, e, ovviamente, la Repubblica di Cuba, che non ha mai autorizzato basi militari statunitensi nel proprio territorio (gli Stati uniti usurparono una parte di territorio della provincia orientale dell’isola per installare la famigerata base miliare di Guantánamo, uno dei centri di prigionia e di tortura internazionale statunitensa). In questo momento il Comando Sud - la centrale operativa per il “cortile di casa” - si trova a Miami, Florida, dove è stato trasferito da Panama dopo che gli Stati uniti hanno dovuto abbandonare la base di Howard il 31 dicembre 1999 in virtù degli accordi Carter-Torrijos del 1997. MANTA, LA PORTAEREI TERRESTRE La base aerea installata nel porto di Manta, sull’Oceano Pacifico, nel nord dell’Ecuador, è una delle basi gestite dall’Ussouthcom ed è una vera e propria portaerei terrestre, in grado di intervenire in azioni dirette sia di spionaggio che di attacco bellico su tutta la zona, che comprende i territori della Colombia, del Venezuela, il sud di Panama, il nordovest del Brasile, il Perú, la Bolivia settentrionale, tutto l’Ecuador, fino a predisporre del controllo dell’Oceano Pacifico centrale. Come è facile capire, questa base è parte integrante di una rete di basi militari con cui il Pentagono tiene sotto controllo una più vasta zona che va dall’area settentrionale del Sud America a tutto il Centro America e i Caraibi. La base di Manta ha molteplici funzioni. Ha un ruolo attivo di controllo e direzione nella guerra contro la resistenza armata colombiana che opera in quel paese da quasi cinquant’anni, le Farc e l’Eln. È inoltre una base strategica per eventuali azioni belliche contro la Repubblica bolivariana del Venezuela, Cuba, l’Ecuador o altri stati potenzialialmente iscritti nella lista degli stati canaglia. Questa base è fondamentale anche per il controllo energetico e degli idrocarburi della regione, della biodiversità forestale, dei grandi fiumi e dell’acqua dolce: risorsa preziosa del futuro immediato. Inoltre la base diventa indispensabile per controllare i flussi di collegamento bellico e commerciale tra l’Atlantico e il Pacifico (incluso il canale di Panama o eventuali alternative) e i collegamenti via terra, ovvero la Colombia, porta d’accesso della traiettoria Nord-Sud del continente. LA RETE DI SPIONAGGIO CONTINENTALE Le altri basi maggiori si trovano nelle isole dei Carabi a nord del Venezuela, in Curaçao, con la base di Hato e di Aruba e la base di Reina Beatriz. Altre si trovano in Comalapa, El Salvador, a Vieques, in Puerto Rico, a Soto di Cano in Honduras, Alcántaras nel Nordovest del Brasile, Tres Esquinas y Leticia in Colombia, Iquitos in Perú e infine, la già citata base di Guantánamo. Proseguendo verso il sud del continente si trovano altre lunghe “mani” militari Usa. In territorio della Repubblica del Paraguay esiste una base capace di controllare il bacino d’acqua dolce più grande del 44 pianeta dopo quello dell’Antartide: la Foresta centrosud amazzonica e l’Iguazú con i suoi affluenti nella triple frontiera brasiliana-argentina-paraguaiana. Anche in questa regione la base è strategica per il controllo della biodiversità forestale (chimicofarmaceutica), degli idrocarburi (petrolchimica), alimentare (coltivazione intensiva di soia transgenica) eccetera. Ha un raggio d’azione militare di pronto intervento che copre tutta la Bolivia, il sud del Brasile, il Centro-nord argentino, il Cile, l’Uruguay e lo stesso Paraguay. Questa base, che è immersa (nascosta?) nella foresta paraguaiana, ha una pista aerea capace di albergare i temibili bombardieri B52, oltre che i soliti aerei da spionaggio e i caccia bombardieri che le popolazioni di mezzo mondo hanno avuto la sfortuna di conoscere. Ancora più a sud, nell’estremo sud del continente, là dove finisce il mondo, nella Tierra del Fuego in Argentina, una base militare completa la mappa geopolitica di controllo egemonico del continente (e di minaccia militare), pronta a intervenire, come le altre, qualora il governo Usa lo ritenga opportuno. INTERESSI INTERCONTINENTALI Il 26 luglio 2001 il governatore di Tierra del Fuego, Manfredoni, firma il decreto legge 1369/01 che consente agli Stati uniti di installare una base nella città di Tolhuin, nel centro dell’Isola australe. Questo decreto in sostanza autorizza “sperimentazioni nucleari sotterranee”, grazie alla legge 25.022 siglata nel 1998 sotto il governo neoliberista del Berlusconi argentino, Carlo Saul Menem. Questa postazione, oltre a essere una base nucleare, è parte integrante della rete dello scudo spaziale antimissile creato dagli Stati uniti. Da quest’ultimo lembo di terra continentale, si controlla l’altro grande punto di passaggio tra gli oceani Atlantico e Pacifico: un controllo condiviso con il Regno unito che ha il possesso delle isole Malvinas e di tutti gli arcipelaghi dell’Atlantico Sud. L’egemonia territoriale in quest’area geografica implica anche il controllo dell’Antartide dove si trova il bacino d’acqua dolce più importante del pianeta, nonché una delle riserve petrolifere più grandi al mondo, che si calcola superiore a quella del Medio Oriente. Quest’immensa riserva di petrolio si trova nella piattaforma marittima dei due oceani, nel sottosuolo antartico e nella Patagonia argentina e cilena. Hugo Chávez, sempre nell’intervista rilasciata al quotidiano “Clarìn”, conferma che “quella in atto è una lotta d’interessi continentali” e pronostica con ottimismo che “la vinceremo noi latinoamericani”. Ma, visto cosa sono capaci di fare militarmente gli Stati uniti, nulla è così scontato: la posta in gioco è troppo alta. Se il vaticinio di Chávez non si avverasse, e se gli Stati Uniti fossero i vincitori di questa guerra non dichiarata ma implicita contro gli stati sovrani latinoamericani e contro la concorrenza europea, essi rimarrebbero al comando del mercato unificato più grande del pianeta, con la più vasta e assoluta ricchezza e con un terzo del Pil mondiale a disposizione. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI Guerre & Pace 45 L’OMBRA DELLE BASI COMANDO AFRICA, COLONIALISMO IN STILE PENTAGONO Manlio Dinucci – “il manifesto” 4/3/2007 Al quartier generale del Comando europeo degli Stati uniti (EuCom), a Stoccarda, è appena arrivato l'ammiraglio Robert Moeller, con un compito di grande importanza: creare un nuovo comando di combattimento unificato, il Comando dell'Africa (AfriCom). La sua «area di responsabilità» coprirà quasi l'intero continente che, nella geografia del Pentagono, è oggi diviso tra Comando europeo, Comando del Pacifico e Comando centrale (la cui «area di responsabilità» comprende, oltre al Medio Oriente, il Corno d'Africa, Sudan ed Egitto). Solo l'Egitto resterà sotto il Comando centrale. Il nuovo comando, il cui quartier generale sarà dislocato direttamente in Africa e diverrà pienamente operativo entro il settembre 2008, è «ancora nella sua infanzia», ma il Pentagono lo sta facendo crescere rapidamente attraverso una intensa attività militare in Africa. Nel Nord Africa gli Stati uniti hanno stipulato accordi militari con Marocco, Algeria e Tunisia. Nel Sahel, forze speciali Usa addestrano da tempo le truppe di Mauritania, Mali, Niger e Ciad. In Senegal si è svolta, lo scorso 8 febbraio, la conferenza della «partnership trans-sahariana» promossa dall'EuCom con la partecipazione dei ministri della difesa di nove paesi africani. A Gibuti, dove gli Usa hanno installato una base militare, sta per divenire operativa la Task force congiunta del Corno d'Africa, che opererà con 2mila uomini in questa «regione di vitale importanza per la guerra globale al terrorismo»: in tale quadro, i marines hanno cominciato in febbraio ad addestrare le truppe di Gibuti. In Etiopia - secondo una inchiesta del New York Times (23 febbraio), smentita da Addis Abeba - è stata dislocata la Task Force 88, unità segreta per le operazioni speciali che, da qui e dal Kenya, effettua azioni in Somalia. A Pretoria, l'EuCom ha tenuto nel luglio 2006 una prima conferenza (Endeavor 2006) sulla «interoperabilità militare», che sarà replicata quest'anno: scopo di queste conferenze, cui partecipano militari di 24 paesi africani, è quello di integrare le loro forze armate in un unico sistema di comando, controllo, comunicazioni e informazioni (C3IS), ossia in quello del Pentagono. A Luanda ha fatto scalo nell'aprile 2006, per attività di addestramento della marina angolana, la Uss Emory Land, la nave appoggio dei sottomarini nucleari finora di stanza a La Maddalena, che ha visitato anche Congo, Gabon, Ghana e Senegal. In Angola, lo scorso febbraio, ha fatto scalo anche la fregata Kauffman, facente parte di una task force Usa proveniente anch'essa dall'Italia. Questa e un'altra unità hanno visitato anche il Congo e la Liberia. In Ghana una squadra di tecnici, inviata dal comando di Napoli delle forze navali Usa, ha effettuato una prospezione idrografica del porto di Tema nel quadro di un programma mirante a «migliorare la sicurezza marittima in tutto il golfo di Guinea». Ciò conferma il piano del Pentagono di stabilire basi militari in Ghana e altri paesi dell'Africa occidentale. Il perché emerge da un comunicato della marina Usa: «Il 15% del petrolio importato dagli Stati uniti proviene dal golfo di Guinea, regione ricca anche di altre risorse: nostro scopo è quindi stabilire un ambiente marittimo sicuro per permettere a tali risorse di raggiungere il mercato». E' però l'ambiente terrestre sempre meno «sicuro». In Nigeria, maggiore produttore petrolifero dell'Africa, il dominio delle multinazionali - che controllano il 95% della produzione (oltre la metà la sola Shell) - viene messo in pericolo dalla crescente ribellione delle popolazioni e dalla concorrenza cinese. Da qui il piano del Pentagono di costituire basi militari in Africa occidentale e rafforzare la capacità d'intervento dall'esterno. Non a caso l'esercitazione Steadfast Jaguar, con cui la «Forza di risposta della Nato» ha raggiunto lo scorso giugno la piena capacità operativa, si è svolta a Capo Verde in Africa occidentale. Siamo dunque di fronte a una crescente penetrazione militare statunitense in Africa, mirante al controllo soprattutto di aree strategiche, come il Corno d'Africa all'imboccatura del Mar Rosso, e di aree ricche di petrolio e altre risorse, come l'Africa occidentale. Questa politica di stampo coloniale sarà tra non molto attuata direttamente dal Comando dell'Africa che, per controllare tali aree, farà ancor più leva sulle élite militari, minando i processi di democratizzazione, provocando altre guerre e facendo aumentare le spese militari con disastrose conseguenze per le popolazioni già impoverite. In tal modo l'AfriCom proseguirà la «missione» del Comando europeo degli Usa, che si dichiara impegnato per «un'Africa autosufficiente e stabile». HOTEL CORNO D'AFRICA, GRANDE BASE AMERICANA Emilio Manfredi, Il Manifesto del 10/01/2007 Militari e civili americani vanno e vengono e, in nome della «lotta al terrorismo globale», tutto è sotto controllo: Etiopia, Somalia, Kenya, Sudan, Eritrea, Yemen, da quel centro strategico che è Gibuti Tigist ha ventidue anni e lavora come cameriera al Dil Hotel di Dire Dawa, la seconda città per importanza e numero di abitanti d'Etiopia. «Da quando ho trovato questo lavoro, finalmente posso dare una mano ai miei 46 genitori. Siamo in 10 in famiglia, e sino a un anno fa sopravvivevamo con lo stipendio di mio padre, autista di camion», racconta, mentre serve del the a due Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI avventori dell'albergo. «Ora con i miei 150 birr (meno di 15euro, ndr) al mese, viviamo un po' meglio». Dire Dawa è una città dove la vita scorre lenta al ritmo del Khat, la foglia stimolante che molti amano masticare. Soprattutto, un centro di passaggio sulla rotta dei camion e del treno che da Addis Abeba porta verso Gibuti, la piccola repubblica somala ex-colonia francese, oggi principale porto commerciale di cui si serve l'Etiopia. «Questo è un albergo molto frequentato da businessmen etiopi e turisti di passaggio in città, diretti soprattutto ad Harar, la quarta città santa dell'islam dove ha vissuto a lungo il poeta francese Rimbaud», racconta un facoltoso imprenditore di Addis Abeba, ospite dell'albergo. «Io vengo qui almeno due volte a settimana. Ultimamente, almeno metà dell'hotel è occupato da militari americani. Arrivano su vetture civili, targate Gibuti o Dubai oppure prese a noleggio qui in Etiopia. Scaricano attrezzatura e si installano per giorni, continuando a fare avanti e indietro. Io vengo sempre qui, e non mi posso esporre. In Etiopia ci sono molti argomenti di cui è meglio non parlare. Uno di questi sono i soldati americani e le loro attività», continua l'uomo. Per questo il suo nome non verrà citato. L'uomo parla e racconta usando un inglese perfetto. Ogni tanto però si interrompe e continua piano in amarico. Infatti, anche oggi, al Dil hotel, come in tutta Dire Dawa, si aggirano soldati americani. Primo fanteria, Air force, Us Navy. Tutti in divisa, con nomi e gradi ben in vista. Alcuni di loro sono armati, M-14 a tracolla, caricatori disinseriti ma a portata di mano. Stanno scaricando materiale appena arrivato a bordo di un van e di tre fuoristrada Toyota. Mezzi civili, come sempre. Computer, tecnologia di comunicazione satellitare e attrezzatura per costruire un campo (tende e brande) vengono lasciati sotto la custodia di 4 palestratissimi soldati del Primo reggimento fanteria. Intanto, altri uomini in divisa (ufficiali di aviazione e di marina), accompagnano tre uomini e una donna in un giro di perlustrazione dell'hotel. Discutono fitto, a bassa voce. Controllano le stanze, le entrate dell'albergo, le vie di fuga, i tetti. Poi alcuni di loro risalgono sui fuoristrada, e se ne vanno, scortati da ragazzi etiopi che parlano con un pesante accento americano. «Uno di loro ha chiesto informazioni sui clienti dell'hotel», racconterà poi un dipendente, la voce preoccupata. Che il Corno d'Africa sia diventato per gli Usa uno dei luoghi strategici nella cosiddetta «guerra al terrorismo» non è cosa nuova. Come non è nuovo il fatto che il piccolo Stato di Gibuti sia il centro del comando della Combined Joint Task Force (Cjtf) americana per il Corno d'Africa. Una missione militare di pronto intervento e di intelligence «il cui obiettivo è individuare, interrompere, e in ultima analisi sconfiggere i gruppi terroristici transnazionali che operano nella regione - impedendo paradisi sicuri, supporti esterni, e assistenza materiale per le attività terroristiche», come spiega il sito Globalsecurity.org. Inoltre, il Cjtf «ha lo scopo di combattere il riemergere del terrorismo internazionale nell'area attraverso operazioni militari/civili e supportando operazioni di organizzazioni non-governative, al fine di rinforzare la stabilità a lungo termine della regione». L'area di responsabilità della missione, stando al sito ufficiale, comprende lo spazio aereo e terrestre di Etiopia, Somalia, Kenya, Sudan, Eritrea, Gibuti e Yemen. La base principale di questa missione è - sin dai suoi esordi nel 2002 - Camp Lemonier, ex-caserma della legione straniera francese poco fuori da Djibouti-ville, capitale e unica città di un certo rilievo della piccola 7 repubblica. Qui sono basati soldati di fanteria, marines, ma anche forze della marina, dell'aviazione e di intelligence. Da qui, ieri, è partito l'aereo AC-130 che ha bombardato la zona di Ras Kamboni, nel sud della Somalia, dove secondo i servizi statunitensi si trovavano miliziani delle Corti e sospetti membri di alQaeda. Secondo il Comando, la missione nell'area supporta l'operazione Enduring freedom e unisce attività civili di supporto alla popolazione (operate da soldati armati e in divisa) a operazioni di addestramento militare a eserciti di paesi amici, oltre a vere e proprie operazioni antiterrorismo. Il tutto, dice l'ufficio stampa del Cjft, «ha il fine di garantire alle Nazioni ospitanti un ambiente stabile e sicuro, dove la gente abbia la libertà di scegliere. Dove l'educazione e la prosperità siano alla portata di ognuno e dove i terroristi, che con le loro idee estremiste cercano di ridurre in schiavitù le Nazioni, non possano calpestare il diritto di autodeterminazione». E l'Etiopia? Le attività militari Usa in Etiopia negli ultimi 4 anni sono andate aumentando. Fuori Dire Dawa, dagli inizi del 2004, unità americane hanno iniziato a cooperare e ad addestrare unità speciali etiopi in una piccola base militare chiamata «Camp United». Ma da lì partono anche azioni legate alla «guerra al terrorismo globale», coordinate dalla base di Gibuti. Lo stesso succedeva mesi fa a Gode, nella regione somala d'Etiopia, non lontano dal confine con la Somalia. Poi Addis Abeba ha iniziato i preparativi per l'intervento in Somalia, e la base Usa è sparita. Dove sia finita, non si sa. Di certo, le operazioni antiterrorismo americane che partono dall'Etiopia continuano. E la gente, che già non capisce il senso dell'intervento militare in Somalia, è perplessa. Nel centro di Dire Dawa, nel quartiere di Kezira, ancora soldati in divisa e armi in vista. «Non capiamo cosa stia succedendo», spiega Blein seduta ai tavoli del Mitto cafè, attorniata da una decina di soldati Us che bevono qualcosa. «L'unica cosa che sappiamo, è che non bisogna fare domande». Guerre & Pace 47 L’OMBRA DELLE BASI LE BASI MILITARI STRANIERE IN ITALIA “Nessuno ci ha mai chiesto basi militari e d’altra parte non è nello spirito del patto di mutua assistenza tra stati liberi e sovrani, come il Patto atlantico, di chiederne o concederne”. Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio, Discorso alla Camera del 18/03/49 Con la fine della seconda guerra mondiale e, successivamente, con lo scoppio della guerra fredda vengono costituite in Italia le prime basi militari straniere, il cui numero aumenta con il passare degli anni. La funzione “dichiarata” di queste basi è di fronteggiare la minaccia sovietica. Oggi, a 62 anni dalla fine della seconda guerra mondiale e a 18 anni dalla fine della guerra fredda, non sono però, curiosamente, scomparse le basi. Anzi. Con i mutamenti subentrati nelle dottrine operative USA e NATO - riassumibili in una presenza militare globale per la “difesa” dei propri interessi economici - le basi in Italia entrano, già dalla prima guerra contro l’Iraq del 1991, in una nuova fase di attività e fermento che, non ancora conclusa, vede oggi il passaggio decisivo, trasformandole decisamente in strumenti per supportare gli interventi militari all’estero e comunque di sostegno alle politiche aggressive statunitensi e della NATO Secondo una chiave di lettura, la concessione di basi militari alle forze USA e, secondariamente, NATO è stata la carta con cui l’Italia ha dato il proprio contributo allo schieramento occidentale durante la guerra fredda, sfruttando la posizione geopolitica di paese di confine tra i due blocchi. Certo è che oggi, quando nessuna minaccia militare incombe sull’Europa, le basi si sono trasformate in un’ingombrante eredità che finirà col far sentire direttamente il proprio peso sulla politica nazionale ed Europea (estera, di difesa ma anche economica) quando mai in futuro delle forze di governo decidessero di intraprendere strade diverse e non gradite all’alleato. Come d’altronde – è bene ricordarlo – è già successo in passato, nel caso di Camp Derby della quale, grazie alle successive inchieste dei giudici Casson e Mastelloni, è emerso che è stata la principale base della rete golpista costituita dalla CIA e dal SIFAR nel quadro dei piani segreti “Stay Behind” e “Gladio”; qui venivano addestrati i neofascisti pronti a entrare in azione e conservate le armi per l’eventuale colpo di stato47 qualora si fosse rivelato necessario per fermare l’avvicinarsi delle forze progressiste al governo. Ma in alcuni casi il costo delle basi è una cambiale che si paga subito. I casi di tumore nei poligoni in Sardegna, l’inquinamento radioattivo delle coste 47 pugliesi, i casi di tumore infantile accertati in presenza dei radar NATO vicino a Ferrara, il mercato nero e il prosperare della mafia all’ombra delle basi in Sicilia, sono il prezzo che le p opolazioni devono pagare subito e sulla propria pelle. Per attenerci solo al costo economico delle basi straniere occorre ricordare che secondo gli ultimi dati disponibili del Dipartimento della Difesa USA il contributo - diretto e indiretto – dell’Italia per le sole basi straniere che è stato di circa 366 milioni di dollari all’anno per i primi anni del 2000, mentre negli anni precedenti è arrivato fino a 1 miliardo di dollari (anni 1998 e 1997) Nell’agosto del 2004 il presidente Bush ha presentato un progetto di ristrutturazione delle basi militari all’estero. La sostanza è semplice: chiudere qualche base militare eredità della guerra fredda riportando a casa le truppe con i famigliari al seguito, per poi ridispiegarle in altre installazioni militari più vicine alle zone di crisi. Questa riduzione riguarda principalmente l’Europa, ed in particolare la Germania, con una riduzione da 236 a 88 delle installazioni militari Usa presenti. Per l’Italia non sono previste riduzioni, anzi assistiamo – caso unico in Europa – ad un ulteriore ampliamento della rete di infrastrutture e basi straniere destinate a servire soprattutto le politiche militari statunitensi. Negli anni ’90 gli interventi della Nato nei Balcani, e in particolare la guerra alla Jugoslavia nel 1999 per la questione del Kosovo hanno visto un impegno diretto delle basi in Italia. “Senza l’accesso alle basi e ai porti italiani semplicemente la NATO non avrebbe potuto effettuare questa importante operazione” ha dichiarato in Conferenza stampa nell’aprile del 1999 l’allora segretario alla difesa degli USA William S. Cohen in conferenza stampa con il ministro della difesa italiano C. Scognamiglio. Oggi la funzione delle basi statunitensi in Italia è rimasta sostanzialmente immutata, con funzioni di prima linea in caso del precipitare della situazione in Kosovo (e a catena, nei Balcani), con funzione di retrovia logistica e trampolino di lancio per rendere possibile il rapido dispiegamento delle armate statunitensi laddove gli interessi Usa lo richiedono. M.Dinucci, il manifesto, 26/02/04 48 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI LO STATUS DELLE BASI E GLI ACCORDI INTERNAZIONALI Dopo la seconda guerra mondiale nel campo occidentale i rapporti di alleanza si sviluppano su due piani differenti anche se strettamente connessi; quello comune tra i paesi della NATO e quello bilaterale con gli USA. Da qui l’esistenza di basi italiane concesse alla NATO e di basi concesse agli USA. Nel quadro della NATO, le strutture militari dell’organizzazione coesistono accanto a quelle derivanti da accordi bilaterali stipulati dagli Stati Uniti. Talvolta è difficile distinguere se si tratti di una base NATO, poiché può darsi che nella base NATO esistano aree riservati agli USA Vedi ad esempio la base per sommergibili di La Maddalena (oggi, forse, in via di chiusura/trasferimento): qui l’area demaniale a levante di S.Stefano è una base logistica della marina militare italiana, con un immenso deposito di munizioni incavernato, costruito con i soldi della NATO, per cui si chiama comunemente base NATO. In una banchina di servizio del deposito ha avuto concessione di approdo la nave appoggio statunitense che dal 1972 assiste i sommergibili a propulsione ed armamento nucleare statunitensi48. Occorre inoltre tenere presenti le basi che sono interamente italiane, ma che possono essere messe a disposizione dell’Alleanza (come Taranto, base italiana a cui le Navi dell’alleanza possono rifornirsi e appoggiarsi); oppure come Ghedi, base italiana ma da cui operano strutture e reparti statunitensi (qui in particolare per gestione degli armamenti nucleari che vi sono immagazzinati). Per non dimenticare i depositi di combustibili e munizionamento a disposizione dei membri dell’Alleanza. La differenza non è solo formale, in quanto «esiste una profonda diversità tra le “infrastrutture comuni” NATO, che sono installazioni collettive, utilizzabili solo per fini connessi all’Alleanza Atlantica, e le basi militari concesse in uso ad un solo Stato membro, che possono essere invece utilizzate per i fini specifici determinati dagli accordi bilaterali ad esse applicabili»49; anche se nell’accordo del 1954 l’art.2 obbliga gli USA ad “avvalersi (delle basi) nello spirito e nel quadro della collaborazione atlantica, di utilizzarle per assolvere gli impegni NATO e in ogni caso a non servirsi delle dette basi a scopi bellici se non a seguito di disposizioni NATO o accordi con il governo italiano”50 48 Intervista a Salvatore Sanna, presidente fino al 2001 del comitato paritetico sulle servitù militare della Sardegna, riportata su www.censurati.it il 12/12/03 49 Sergio Marchisio, ordinario di diritto Università di Perugia, in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi Senato della Repubblica, 2003, pag. 151 50 A. Desiderio su Limes, 4/99 Questa confusione è dovuta sia all’intrecciarsi delle funzioni delle singole strutture che a volte ospitano o servono contemporaneamente sia la NATO che le forze armate statunitensi, sia in base all’intrecciarsi degli accordi NATO con quelli bilaterali con gli USA; infatti «molte basi o facilitazioni sono “nominalmente” istituite nell’ambito della NATO, per essere in realtà utilizzate, spesso in regime di uso esclusivo e non collettivo, secondo accordi bilaterali, dalle sole forze armate degli Stati Uniti d’America»51 Il regime di segretezza che copre i trattati NATO e quelli bilaterali con gli USA non aiuta certo a fare chiarezza. Segretezza mai messa in discussione da nessun Governo e che continua a permanere ancora oggi. Una voce differente si è sentita quando nel 1993 il costituzionalista Giovanni Motzo, Ministro per le Riforme istituzionali, sostenne l’incostituzionalità dei trattati segreti tra Italia e USA52, arrivando nel 1995, in un’intervista ad Avvenire, a criticare apertamente la segretezza posta sugli accordi “tecnici” che disciplinano la problematica relative alle basi militari straniere (che in quanto “tecnici” non passano dal Parlamento e vengono firmati solo dal Governo) arrivando a parlare di sovranità limitata per ciò che questo comporta53. A riguardo è bene ricordare che nell’ordinamento italiano esistono due procedure per la stipulazione degli accordi internazionali. Una procedura solenne ed una procedura semplificata. La prima comporta che l’accordo venga sottoposto al Parlamento (art. 80 della Costituzione), al quale spetta autorizzare il presidente della Repubblica alla ratifica (art. 87 8° comma) mediante una legge ad hoc. La procedura semplificata, che non è disciplinata esplicitamente dalla Costituzione ma che è invalsa nella prassi, comporta invece che l’accordo entri immediatamente in vigore non appena sottoscritto dai rappresentanti dell’esecutivo54. Le categorie di accordi che debbono essere sottoposti al Parlamento per l’autorizzazione alla ratifica sono indicati dall’art. 80 della Costituzione e hanno in genere contenuti di rilievo politico. Gli accordi in forma semplificata, invece, dovrebbero avere un contenuto eminentemente tecnico55. 51 Sergio Marchisio, ordinario di diritto Università di Perugia, in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi Senato della Repubblica, 2003, pag. 160 (e 161) 52 Nota 15, pag 30, Limes, 4/99 53 Avvenire, 03/08/95, ripreso in “Gli accordi segreti? Illegittimi…” di Maria Lina Veca su www.tibereide.it il 20/10/01 54 Le basi americane in Italia-problemi aperti, dossier n. 70 Giugno 2007, servizio studi – servizio affari internazionali, Senato della Repubblica, XV legislatura 55 Le basi americane in Italia-problemi aperti, dossier Guerre & Pace 49 L’OMBRA DELLE BASI Comunque la legge n. 839 del 11/12/1984 prescrive la pubblicazione di tutti gli accordi internazionali, inclusi quelli in forma semplificata56. Longare, Maniaco, Catania, Pisa, Pordenone, Rovereto, Trinita e Vigonovo; vengono poi indicati altri 40 siti minori che non vengo però elencati. In realtà sembra proprio che la gran parte degli accordi sulle strutture militari NATO e USA sia definito da note, protocolli e simili, firmati solo dal Governo e non sottoposti al vaglio del Parlamento; attuati quindi come semplici atti di natura amministrativa, minimizzandone la valenza politica. 57 Ciò non sembra essere casuale, ma ha rappresentato negli anni la strada con cui i governi che si sono succeduti hanno esercitato un indebito ruolo direzionale ed esclusivo sugli accordi e i trattati internazionali, esautorando di fatto il Parlamento e il Capo dello Stato58. E’ da ricordare inoltre che già dagli anni ’80 trattati e accordi bilaterali tra USA e paesi appartenenti alla NATO, certo non meno “atlantici” dell’Italia, quali Spagna, Grecia e Turchia, «vengono sostituiti con accordi soggetti a regimi di pubblicità nei quali sono esattamente precisate natura ed estensione delle attività consentite alle forze armate straniere»59 senza che questo abbia comportato drammatiche evoluzioni nell’ambito di queste alleanze. Resta il dubbio, e la preoccupazione, su quali “sacri misteri” contengano mai gli accordi firmati dai governi italiani negli anni. Secondo il meritevole lavoro di ricerca effettuato da Carta nel 2003 (pur con qualche imprecisione tra strutture nazionali e statunitensi) che elenca anche antenne, centri di comunicazione e depositi, i siti militari statunitensi presenti in Italia sarebbero un centinaio circa. LE PRINCIPALI BASI Le principali basi statunitensi oggi presenti in Italia sono: Aviano, Camp Ederle (Vicenza), Camp Darby (Livorno), Napoli, Gaeta e Sigonella. Sono presenti strutture e soldati USA anche a Ghedi, base dell’Aeronautica Italiana. Altra importante base è Santo Stefano (La Maddalena), la cui chiusura è prevista per il 29 febbraio 2008; mentre San Vito dei Normanni risulta essere una base in dismissione. Queste basi principali comprendono inoltre altre strutture, come depositi munizioni, poligonio, villaggi per le famiglie dei militari, stazioni radar, situate nelle vicinanze. Nell’ultimo rapporto del Dipartimento della Difesa USA sulle installazioni militari60 risultano presenti inoltre strutture nell’aeroporto di Capodichino, nel porto di Agusta, a Belpasso, Coltano, Fontanafredda, 56 Le basi americane in Italia-problemi aperti, dossier Giovanni Motzo,Ordinario di diritto costituzionale comparato, Università di Roma “La Sapienza”, in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi Senato della Repubblica, 2003, pag. 193 58 Giovanni Motzo,Ordinario di diritto costituzionale comparato, Università di Roma “La Sapienza”, in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi Senato della Repubblica, 2003, pag. 195 59 Sergio Marchisio, ordinario di diritto Università di Perugia, in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi Senato della Repubblica, 2003, pag. 176 60 Base structure report, Fiscal year 2007, DoD 57 50 Si tratta di una imponente serie di basi, porti, caserme, aeroporti, poligoni, depositi, comandi, centri radar e per le telecomunicazioni che formano una rete complessa e imponente di cui è difficile, e forse inutile, cercare di individuare quale ne sia l’elemento più pericoloso (se il depositi di armi nucleari, per l’olocausto che possono rappresentare, se i poligoni per i danni concreti e immediati alle popolazioni locali, se i reparti operativi che poi sono quelli che “fanno concretamente” la guerra, o i centri di comando che la gestiscono… oppure ancora le strutture di comunicazione e controllo che permettono alle altre componenti di comunicare e coordinarsi tra loro per “fare la guerra”); si tratta infatti di una rete unitaria. A questa presenza si affiancano poi, è bene ricordarlo, le strutture della NATO (come ad esempio l’aeroporto di Decimomannu, il porto di Taranto o il comando di reazione rapida di Solbiate Olona) a cui gli USA hanno libero accesso e le basi dell’aeronautica, della marina e dell’esercito italiano, anch’esse integrate in questa rete e che spesso hanno direttamente un ruolo anche nella struttura NATO. Si tratta di caserme, poligoni, depositi e altre strutture di servizio, la cui presenza e impatto spesso non ha nulla da invidiare alle basi straniere. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI LE BASI DELLA GUERRA GLOBALE PERMANENTE Intervento al convegno di Pordenone sulle basi militari Piero Maestri, Guerre & Pace - 18 settembre 2004 All’interno di questo convegno – che ha come obiettivo quello di porre la questione della possibile e necessaria riconversione della base militare Usa di Aviano ad usi civili, restituendola in questo modo alle/ai cittadine/i del territorio – è importante comunque provare a tracciare un quadro complessivo del sistema globale delle basi militari e quindi definire come il movimento contro la guerra debba affrontare questa militarizzazione del territorio, necessaria a quella che abbiamo definito “guerra globale permanente”. 1 – Alla fine degli anni ’80 abbiamo dovuto assistere alla propaganda sui cosiddetti “dividendi della pace”, secondo la quale con la fine della guerra fredda e la caduta del muro di Berlino, finalmente saremmo entrati in un epoca di pace e di conseguente riduzione delle spese e della presenza di infrastrutture militari: meno addetti nelle industrie della difesa, minori spese militari, meno soldati e basi militari in Europa. La realtà ci ha mostrato una faccia diversa: • se per alcuni anni effettivamente le spese militari mondiali sono diminuite – soprattutto per la pesante riduzione dei bilanci militari dei paesi dell’ex Unione sovietica, ma anche in occidente – questa tendenza durerà per poco e già nel 1995/96 le spese militari mondiali ricominceranno a crescere, per raggiungere nel 2003/2004 livelli paragonabili alla metà degli ani ’80, quando la guerra fredda era all’apice; • si sono ridotti i contingenti militari dei vari paesi, in particolare dei paesi europei della Nato, soprattutto per effetto di una loro ridefinizione e ristrutturazione in senso professionale e volontario; • la riduzione del numero di basi militari in Europa e nel resto del pianeta è stata poco significativa, mentre si è consolidata la loro rete, che è andata sempre più formando un sistema della basi a livello planetario – diretto dagli Usa – con un ruolo ancor più definito e ancora più importante. Non siamo quindi di fronte ad una fase nella quale potremo aspettarci una progressiva “estinzione” della basi militari – nemmeno di quelle “straniere” – dal nostro territorio, mentre avanza a livello globale una maggiore presenza di basi e infrastrutture militari, degli Usa e dei loro alleati. 2 – Fin dai documenti governativi statunitensi dei primi anni ’90 (dalla “Defense Planning Guidance” del 1992, fino alla “Quadriennial Defense Review” del 2000 e alla “National Security Strategy” del 2001) risulta chiaro che uno degli obiettivi principali di quella che abbiamo chiamato “strategia dell’impero” era quello di assicurarsi una presenza militare diretta e indiretta nelle varie aree strategiche in tutto il pianeta. Naturalmente le zone geografiche dove avrebbero dovuto essere posizionate le nuove o rinnovate infrastrutture della guerra riguardavano in primo luogo il medioriente, il Golfo Persico e l’Asia Centrale (quell’area che oggi chiamano “Grande Medioriente”); ma non era esclusa l’Europa in questo quadro strategico. Una strategia di controllo planetario che rende sempre più vero il detto per cui “il sole non tramonta mai sulle basi” – e che ha fatto giustamente affermare che le nuove basi militari non sono un effetto secondari delle guerre che gli Usa hanno portato avanti dal 1991 ad oggi: è stato così con l’intervento contr o l’Iraq del 1991, che ha consolidato la presenza in Arabia Saudita e nei paesi del Golfo; con la guerra jugoslava, al “termine” della quale Stati uniti e Nato hanno a disposizione nuove basi in ognuno degli stati createsi con la dissoluzione della Jugoslavia – di cui Camp Bondsteel in Kosovo rappresenta la principale e piùgrande; con l’intervento in Afghanistan gli Usa si sono assicurati una presenza rinnovata in Pakistan, Uzbekistan, Kyrgizistan, Tajikistan e, ovviamente, in Afghanistan; e oggi ancora in Iraq, dove è programmata e in fase di realizzazione la costruzione di una quindicina di basi che renderanno permanente l’occupazione dell’Iraq stesso. Questo sistema di basi in tutto il pianeta è reso necessario dalle strategie di intervento rapido e dall’idea di flessibilità che la dottrina militare ha cercato di affermare in questi ultimi 15 anni, e rende complementari e totalmente intrecciati i sistemi di Usa, Nato e Unione Europea – e per questo risulta difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra le basi Usa, Nato o italiane sul nostro territorio, perché tutte partecipano a quel sistema di guerra globale. 3 – Le basi in Italia sono obsolete, allora? Sono solamente un retaggio della guerra fredda e andranno poco a poco ad essere abbandonate? Purtroppo non è così, e se qualche base o infrastrutture sarà abbandonata, nel loro insieme assumono invece un rinnovato ruolo dentro il quadro che abbiamo provato a descrivere sommariamente. Così assistiamo a progetti di riqualificazione e potenziamento delle strutture militari in Italia: - - - ad Aviano, come sanno bene gli organizzatori di questo convegno, che continua a essere deposito di armi nucleari e oggetto di progetti di allargamento; a Solbiate Olona, vicino a Varese e all’aeroporto milanese della Malpensa, che dal 2002 ospita un Comando della Forza di Rapido Intervento della Nato, frutto delle nuove strategie di questa organizzazione, anch’essa purtroppo non considerata obsoleta; a Camp Darby, principale base logistica Usa del Mediterraneo, situata tra Pisa e Livorno, dove ci Guerre & Pace 51 L’OMBRA DELLE BASI - - - sono progetti per l’ampliamento del Canale dei Navicelli e per avere in esclusiva una banchina per l’approdo del materiale bellico; a Taranto, dove è stata inaugurata la seconda base navale e rischia di essere sede di una terza – e che rappresenta uno dei principali “trampolini di lancio” della proiezione di potenza Usa e Nato, strettamente legato alla riqualificazione di Sigonella e alla nuova funzione di Napoli, dove sarà trasferito il Comando generale delle Forze navali Usa in Europa, così che il Pentagono possa avere “la massima flessibilità nel proiettare forze in Medio Oriente, Asia Centrale e altri potenziali teatri bellici”, come ha comunicato il Pentagono stesso; e ancora La Maddalena, per la cui base è già previsto l’ampliamento, malgrado le lotte dei cittadini sardi di questi anni. e via così… (evidentemente Vicenza, progetto nel 2004 non ancora conosciuto, n.d.r.) 5 – Per poter sviluppare una campagna contro le basi militari in Italia, dobbiamo cominciare a conoscere e mettere in relazione le esperienze di lotte e iniziative contro la presenza militare in molte località, che partono da differenti ma spesso convergenti motivi specifici: - - - 4 – Questo ruolo rinnovato delle basi militari in Italia dentro il sistema della guerra globale permanente è e deve essere il principale motivo dell’opposizione che i movimenti pacifisti devono sviluppare contro la presenza militare e la militarizzazione del territorio. E’ questo ruolo che fa sì che dal nostro territorio partano aerei e navi che provocano i morti nei paesi vittime degli interventi militari – e questo è per noi sufficiente per chiedere la chiusura di queste infrastrutture. Ma dobbiamo sottolineare anche che questa stessa presenza ha un impatto continuo sulla vita delle popolazioni che si trovano a subirne la localizzazione: - - 52 un impatto economico. E’ idea comune che la presenza di basi militari sia un’occasione di “sviluppo” per i territori interessati. In realtà non c’è alcun sviluppo, ma solamente la crescita di un economia dipendente da tali basi e spesso negativa per il territorio stesso: se da una parte possono favorire la rendita per gli edifici affittati dai militari, dall’altra si stanno sempre più affermando le tendenze all’approvvigionamento diretto verso multinazionali Usa, mentre all’interno delle basi vengono negati i diritti dei lavoratori civili; e all’esterno ci sono conseguenze negative sulle produzioni agricole, mentre risulta bloccata qualsiasi possibilità di un diverso uso del territorio, completamente sottratto ad ogni programmazione delle comunità e degli enti locali; un pesantissimo impatto ambientale e sulla salute delle popolazioni, come è stato già ampiamente sottolineato da altri interventi in questo convegno e come mostra soprattutto il caso sardo, dal possibile inquinamento radioattivo dei fondali de la Maddalena, allo sviluppo di malattie tumorali nei paesi dove è localizzato il poligono militare di Salto di Quirra. E questi rischi sono generalmente nascosti alle stesse autorità locali, che avrebbero invece il dovere di garantire la tutela della salute per i propri cittadini. - le lotte contro i rischi per la salute, come in Sardegna, che sono spesso lotte per garantirsi un futuro economico che la presenza militare nega – come nel caso dei pescatori di Capo Teulada; l’iniziativa contro il nuovo porto militare di Taranto, sia per i suoi rischi nucleari che per le dimensioni che sta assumendo lo stesso porto al centro del sistema di guerra del mediterraneo; la lotta a Sigonella perché finalmente quel territorio abbia nuove prospettive economiche e di sviluppo, negate da un base “in odore di mafia” e nella quale le poche occasioni di lavoro sono sottoposte a dure condizioni e alla negazione dei diritti sindacali; le iniziative in Toscana per restituire l’area di Camp Darby a nuove funzioni civili e ambientali;, la nascita di nuovi comitati e gruppi locali, come in Romagna, o le iniziative che da tempo ci sono in altre zone, come a Brescia/Ghedi o Aviano/Pordenone. Dobbiamo però sapere e riconoscere che queste iniziative non hanno una forza di attrazione e di mobilitazione per la gran parte delle popolazioni, nemmeno nelle aree dove si trovano le basi – se si esclude, in parte, il caso sardo (e oggi quello di Vicenza… n.d.r.). Perché questo “minoritarismo” delle lotte contro le basi? Le autorità militari e politiche hanno saputo creare volta per volta consenso e/o indifferenza verso questa localizzazione, tanto che anche il movimento contro la guerra che ha saputo mobilitare milioni di donne e uomini contro l’intervento in Iraq, non ha realmente saputo collegare questo intervento alla funzione militare del territorio italiano – se non con la sporadica intuizione del “Train Stopping”, che ha avuto una discreta simpatia ma non una partecipazione di massa e si è comunque fermata “ai cancelli della basi”. Come possiamo scalfire questo consenso – nelle zone dove la presenza di infrastrutture militari è considerata occasione di sviluppo locale – o l’indifferenza e incomprensione del coinvolgimento globale dell’Italia nel sistema della guerra? Serve mettere insieme e sviluppare tutte le nostre intelligenze e competenze, per immaginare e comunicare proposte alternative all’uso militare del territorio; serve coinvolgere enti locali e comunità in una politica partecipata che mostri le prospettive positive della rinuncia alle basi militari; serve una forte e coordinata iniziativa che renda evidente e quindi insopportabile la complicità italiana alla guerra globale; serve una rete del movimento contro la guerra. 6 – Anche attraverso questi appuntamenti dobbiamo tutte/i impegnarci a tessere questa rete, che sia Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI organizzazione di un movimento per la smilitarizzazione del territorio e contro le basi militari. Una rete che in Italia ha provato a fare i suoi passi varie volte – l’ultima nel 1998 con la proposta di “Gettiamo le basi”, nata qui a Pordenone e motore di una giornata nazionale il 28 giugno 1998, purtroppo senza seguito. Questa rete deve saper agire a differenti livelli, per poter coinvolgere differenti soggetti sociali e una maggiore partecipazione politica di donne e uomini: - prima di tutto a livello politico, contestando e opponendosi al sistema delle basi e al suo ruolo strategico nelle politiche di ricolonizzazione e intervento militare occidentale; - a livello economico e di una diversa idea dello - - sviluppo territoriale, coinvolgendo sempre più donne e uomini in progetti di riconversione possibile e di riappropriazione di territori militarizzati e quindi sottratti ad un uso sociale; per la tutela della salute e contro i rischi della presenza delle basi. Questa rete deve essere un impegno forte per tutto il movimento, e deve vedere soprattutto la presenza dei comitati e dei soggetti locali, che hanno la capacità e l’opportunità di mettere a disposizione di tutto il movimento esperienze e competenze. Mi auguro che anche questo convegno possa rappresentare una spinta in questa direzione. GLI APPALTI “ROSSI” DA VICENZA A SIGONELLA Gli affari con il Pentagono delle coop legate alla sinistra. Tra i pretendenti ai lavori della nuova base vicentina la Cmc di Ravenna e la Cmr di Ferrara. Spuntano anche Pizzarotti e la Ccc del Mose. Angelo Mastrandrea, Il Manifesto, 27 gennaio 2007 Nell'ex aeroporto vicentino Dal Molin per il momento tutto ancora tace, di ruspe non c'è ancora ombra anche se ieri l'ex generale Luigi Ramponi ha annunciato che «i lavori cominceranno entro il 2007». E' probabilmente informato, il deputato di An ieri in visita a Vicenza con la commissione Difesa del senato, visto che il presidente del suo partito Gianfranco Fini è reduce da un incontro con la segretario di Stato Usa Condoleezza Rice, con la quale ha parlato anche della base vicentina. E per questo afferma che «appena il governo avrà detto di sì partiranno gli appalti, anche perché ci sono tempi stretti per il finanziamento statunitense». Per ora l'unico elemento tangibile che mostra l'avvio del progetto per la costruzione della nuova base è la lista delle imprese che continuano a iscriversi alla gara d'appalto per la prima tranche dei lavori. La torta è infatti di quelle appetitose: 680 milioni (230 nella prima fase, il rimanente in una seconda) di investimenti previsti dal Pentagono per costruire i 700 mila metri cubi di caserme, impianti militari e logistici; 40 milioni per la costruzione di 61 villette a schiera, di un albergo (10 milioni) e un campo da bowling; 52 milioni per tirar su un ospedale che sarà collegato con quello vicentino. Il progetto prevede infatti la nascita di una vera e propria cittadella autosufficiente, con centri commerciali e palestre, case e una grande mensa per 1.300 persone e 454 posti a sedere. A spulciare tra le 73 imprese (23 delle quali venete) che finora hanno risposto alla «presolicitation notice», una specie di invito a partecipare alla gara d'appalto lanciato dagli Stati uniti il cui bando si chiuderà il 6 marzo, troviamo infatti «coop rosse» come la Cmc (Cooperativa muratori cementisti) di Ravenna e la Cmr (Cooperativa muratori riuniti) di Ferrara, ma anche la contestata Pizzarotti di Parma, la stessa che nell'83 aveva vinto la gara per l'installazione dei missili Cruise a Comiso e che da 25 anni costruisce anche a Sigonella. O ancora la Ccc Spa(Cantieri costruzioni cemento), che tra i suoi fiori all'occhiello vanta la partecipazione al Consorzio Venezia Nuova che sta realizzando il Mose nella città lagunare. Non che sia una novità assoluta, la partecipazione di cooperative rosse a lavori per gli americani. Se è vero che nelle basi Usa in Italia resiste ancora una «pregiudiziale anticomunista» che impedisce ai lavoratori civili del nostro paese di iscriversi ad esempio alla Cgil (come l'altro ieri ha denunciato lo stesso sindacato di Corso d'Italia), è altrettanto vero che questa appare caduta ormai da tempo per quel che riguarda il fronte degli appalti, così come, viceversa, sull'altro versante di fronte ai dollari non c'è antiamericanismo che tenga. La Cmr lavora infatti da anni e con successo nelle basi Usa di Aviano, Camp Darby e nella stessa Vicenza. Mentre la Cmc, la prima cooperativa di costruzioni, la quarta impresa in Italia del settore, dopo alcuni appalti in Cina, il ruolo da general contractor per l'ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria e l'appalto per il tunnel di Venaus che un anno fa provocò la rivolta della Val di Susa contro l'alta velocità, da almeno un decennio partecipa agli appalti legati alla base Usa di Sigonella, in Sicilia. In particolare, ha preso parte al cosiddetto piano Mega II, quello precedente all'attuale progetto che punta a ridisegnare l'assetto urbanistico dell'insediamento militare siciliano, che sarà trasformato «nella base più moderna del teatro Mediterraneo» Guerre & Pace 53 L’OMBRA DELLE BASI ISOLE DI SEGRETEZZA Strutture sorte senza l’autorizzazione del Parlamento Falco Accame, da "Liberazione", 22 febbraio 1998 Le basi Usa e Nato in Italia sono state costituite sulla premessa di un presunto "stato di necessità" per fronteggiare la minaccia sovietica. Oggi che questa minaccia è scomparsa non sono però scomparse le basi, anzi, si nota addirittura un deciso incremento nella loro consistenza in uomini e mezzi (per la base di Aviano si parla addirittura di un raddoppio!). C'è da chiedersi qual'è il retroterra giuridico che ha permesso il sorgere di queste basi. L'articolo 80 della Costituzione stabilisce che le Camere autorizzino con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica e prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di legge, "ma molte basi sono sorte al di fuori della conoscenza e dell'autorizzazione del Parlamento". In effetti, molti accordi internazionali rientranti nelle categorie dell'articolo 80 non sono stati sottoposti alla ratifica delle Camere ed alla ratifica, (in base all'articolo 87) del presidente della Repubblica. Sono stati infatti sottoposti a verifica solo quelli per i quali si prevedeva dovesse esservi uno scambio con un altro paese contraente e quindi la ratifica da parte di quest'altro paese. Alcuni trattati sono in realtà noti solo a livello governativo o addirittura solo a livello dei servizi segreti. Ed è comunque inconcepibile che né il Parlamento, né il capo dello Stato siano stati messi a conoscenza di taluni accordi. Per trovare una soluzione al problema di escludere determinate autorità dalla conoscenza, sono stati concepiti alcuni inghippi. E' stato ad esempio introdotto il concetto di "accordi in forma semplificata", la cui conclusione dovrebbe spettare al governo per effetto di delega. Nella questione interviene il problema del segreto: si afferma che tutto ciò che riguarda le basi è coperto dal segreto e da una (non meglio precisata) "riservatezza". Di fronte a questo, anche le Camere devono inginocchiarsi. Ma si dimentica che esiste l'articolo 64 della Costituzione che recita: "Ciascuna delle due Camere e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta". Il punto è questo: possiamo fidarci del Parlamento? Certo, pare che possiamo fidarci dei servizi segreti! Per esempio, attraverso accordi segreti tra i servizi Usa (la Cia) ed i servizi segreti italiani (Sifar) è stata resa possibile la costituzione di "Basi Nazionali Clandestine" (BNC, come quelle operanti con la Gladio) e di depositi di armi nascosti (i cosiddetti Nasco) ed anche la costruzione di gruppi di operatori speciali dei servizi chiamati "Ossi", coperti con documenti segretissimi, che la seconda Corte di Assise di Roma con la sentenza del 21 dicembre '96 ha considerato eversivi dell'ordine costituzionale. Tutto questo ci rimanda ad uno dei primissimi accordi segreti che risale al lontano 1952. I servizi americani ed italiani si accordarono "segretissimamente" per la costruzione della base di Capo Marargiu di Gladio in Sardegna, base "ufficialmente" italiana, ma progettata 54 e pagata dagli Usa, che avrebbe ospitato, in caso di colpo di Stato, i personaggi considerati politicamente pericolosi (i cosiddetti enucleandi). Nell'accordo italo-Usa del cosiddetto piano Demagnetize (smagnetizzare i comunisti) si legge: "I governi italiano e francese non devono essere a conoscenza, essendo evidente che l'accordo può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale". In questo caso erano comunque esclusi dalla conoscenza addirittura i governi italiano e francese, mentre il tutto si svolgeva a livello dei Servizi. Come si è detto, le basi sono nate all'insegna della segretezza e in rapporto ad una esigenza di protezione rispetto al blocco di Varsavia. Ma ora che la guerra fredda è finita, c'è da chiedersi se tali esigenze di sicurezza e segretezza siano ancora esistenti e se si possa continuare a tenere il Parlamento all'oscuro di tutto! Vi sono ad esempio dei "protocolli segreti aggiuntivi della Nato" che a distanza di oltre mezzo secolo ancora non conosciamo. Si tratta di una materia che ci fa vedere chiaramente la condizione di "sovranità limitata" in cui ci troviamo. In alcune basi sono custodite armi nucleari e vettori che possono portare distruzione ben oltre i confini italiani, cioè ben al di là di quei i limiti che la Costituzione considera come "riferimento" per il concetto di difesa. Viene così violato l'articolo 11 (primo e secondo comma), l'articolo 78 e l'articolo 87 (nono comma), e ci troviamo di fronte ad una deroga al principio del ripudio della guerra ed alle prerogative del Parlamento ed alle procedure costituzionali previste per lo stato di guerra. Per venire ad un aspetto che riguarda i nostri giorni, possiamo menzionare quello delle"mine antiuomo". Tali armi sono state recentemente bandite nel nostro paese e ne è stata stabilita la distruzione. Ma nelle basi Usa continuano a rimanere conservati grandissimi stock di queste armi che possono essere spedite in tutto il mondo. E qui si evidenzia un altro aspetto dell'incompatibilità delle basi con la legislazione italiana. Nel nostro paese esiste tra l'altro una legge che limita e condiziona la vendita delle armi, ma ovviamente questa legge non vale per le basi straniere. Che fare allora in questa situazione? L'opposizione alle basi deve portare in tempi brevi ad una revisione costituzionale. Tutti i trattati debbono essere messi a conoscenza del Parlamento. Il permanere di eventuali basi straniere deve però prevedere che esse passino sotto il controllo delle autorità italiane. Ma come possiamo far sentire la nostra voce? Come possiamo manifestare un nostro "diritto di resistenza"? Forse potremmo richiamarci ad un lontano decreto luogotenenziale del 14 settembre '44, il n. 288. Allora era in gioco la questione al diritto alla resistenza contro l'occupazione tedesca. Oggi ci opponiamo ad un altro tipo di occupazione, ma è in questione ancora una volta la sovranità del nostro paese. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI IL COSTO - ECONOMICO - DELLE BASI Molte agevolazioni fiscali e qualche contributo. Ecco quanto pesano le basi statunitensi sul bilancio italiano. Altro che occasioni di sviluppo. Una leggenda circola da anni negli ambienti Nel 2003 - ultimo anno per il Contributo politici e economici: gli americani saranno quale ci sono le cifre in milioni di Alleati NATO anche ingombranti, però pagano l'affitto delle ufficiali – l’Italia ha dollari 2002 basi allo Stato italiano. Falso. Completamente. contribuito con 366,55 Belgio 17,78 La verità è contenuta nel "2004 Statistical milioni di dollari che Canada 0 Compendium on Allied Contributions to the rappresentano il 41% del Repubblica Ceca 0 Common Defense" ultimo rapporto ufficiale costo totale di mantenimento Danimarca 0,12 reso noto dal Dipartimento della Difesa degli delle basi americane in Francia 0 Stati Uniti. Alla pagina "B-10" c'è la scheda Italia. Una percentuale che Germania 1.563,92 che ci riguarda: vi si legge che il contributo fa di noi i più generosi Grecia 17,69 annuale alla "difesa comune" (anche se parlare alleati degli americani in di “difesa comune” può sembrare inopportuno Ungheria 3,51 Europa, dopo la Spagna. visto che le basi statunitensi in Italia non sono Molto più generosi degli Islanda 0,12 basi Nato e le missioni che partono da lì sono inglesi, che sborsano solo il Italia 366,55 decise a Washington) versato dall'Italia agli 27% delle spese di Lussemburgo 19,25 Usa per le "spese di stazionamento" delle forze mantenimento delle basi. Più Nuova Zelanda 0 armate americane è pari a 366 milioni di generosi dei tedeschi, che si Norvegia 10,32 dollari. Tre milioni, spiega il documento limitano a pagare il 32%, la Polonia 0 ufficiale, sono versati direttamente, mentre gli stessa percentuale che paga Portogallo 2,47 altri 363 milioni arrivano da una serie di dalla Grecia. Il Belgio paga Spagnia 127,27 facilitazioni che l'Italia concede all'alleato: si ancora meno, il 24%, per Turchia 116,86 tratta (pagina II-5) di «affitti gratuiti, riduzioni non parlare del quasi Regno Unito 238,46 fiscali varie e costi dei servizi ridotti». Ciò che invisibile 3,6% dato dal le imprese del Nord-Est e del Meridione Portogallo. domandano da anni a Roma senza ottenerlo, gli Usa lo Vale la pena quindi ricordare che la media del contributo incassano in silenzio già da molti anni. È come se il degli alleati europei della Nato è del 28%; molto più basso padrone di casa, oltre a dare alloggio all'inquilino, gli quindi di quello italiano. girasse anche dei soldi. Nel caso delle basi americane,il Italia 41 per cento dei costi totali di stazionamento sono a Contributo a Usa per la difesa comune carico del governo italiano: il dato è riportato alla milioni di dollari a valuta corrente pagina B-10. Alla tabella di pagina E-4 sono invece 1995 524,16 messi a confronto gli alleati: più dell'Italia pagano solo 1996 528,46 Giappone e Germania, mentre persino la fidata Gran 1997 1.092,79 Bretagna è dopo di noi, si è limitata - nel 2004 - a contribuire con 238 milioni di dollari. 1998 1.113,83 Una sorpresa la si ha mettendo a confronto i dati del 1999 532,64 1999 e del 2004: si scopre che il Governo Berlusconi 2000 364,20 ha incrementato i pagamenti agli Usa, passando dal 37 2001 324,03 per cento al 41 per cento dei costi totali sostenuti dalle 2002 366,55 forze armate ospiti. Ma non basta. Ma cosa c´è dentro quel 41%? Molte cose: dalla E SE CHIUDONO C'E’ ANCHE L’INDENNIZZO concessione a titolo gratuito di terreni ed edifici, riduzione delle spese telefoniche, esenzione dalla tassazione di beni e In base agli accordi bilaterali firmati da Italia e Usa nel servizi destinati ai militari Usa, manutenzione delle basi 1995, se una base americana chiude, il nostro governo (che formalmente sono "italiane"). A tutto questo bisogna deve indennizzare gli alleati per le «migliorie» aggiungere molte facilitazioni concesse ai militari e alle apportate al territorio. Gli Usa, per esempio, hanno loro famiglie come l´acquisto della benzina in esenzione di deciso di lasciare la base per sommergibili nucleari di imposte e accise. La Maddalena, in Sardegna: una commissione mista dovrà stabilire quanto valgono le «migliorie» e Roma Fonte: provvederà a pagare. Con un ulteriore vincolo: se Allied contribuitons to the common defence, DoD, vari anni l'Italia intende usare in qualche modo il sito entro i Marco Mostallino, il giornale di Sardegna, 10 ottobre 2005 primi tre anni dalla partenza degli americani, Toni De Marchi, l’Unità 18 gennaio 2007 Washington riceverà un ulteriore rimborso. Guerre & Pace 55 L’OMBRA DELLE BASI BASI VISTE DA VICINO PRINCIPALI BASI USA/NATO IN ITALIA La cartina mostra il collegamento funzionale tra le basi. Molte basi sono composte da più infrastrutture nella stessa zona Principali basi Usa Base italiana con presenza Usa Comandi/infrastrutture Nato Presenza di bombe nucleari Mezzi a propulsione nucleare Aeronautica Usa Marina Usa Esercito Usa Tra le centinai di basi e stazioni USA e NATO presenti in Italia andiamo a vedere, base per base, ruoli, strutture e compiti delle principali basi straniere. Per quanto riguarda e cosiddette basi statunitensi (si tratta comunque di basi formalmente italiane, con comandante italiano, che ospitano truppe e strutture statunitensi) tra le principali figura sicuramente la base USAF di Aviano, sede del 31° gruppo da caccia dell’aeronautica USA e fortemente impegnata nelle guerre balcaniche. A Vicenza c’è la caserma Ederle, che ospita il comando della forza tattica dell’esercito statunitense – SETAF (è una unità di intervento rapido), la 173^ brigata paracadutisti oggi impegnata in Afghanista e il 22° gruppo di supporto d’area che gestisce le attività logistiche delle basi di Vicenza e Camp Darby. Un piccolo ma importante distaccamento USA c’è anche a Ghedi. Importante è la base di Camp Darby, il più grande arsenale dell’esercito USA all’estero, dove vi sono custodite 20.000 tonnellate di missili, razzi e bombe. Gaeta è la sede della nave comando della VI Flotta, ma è certamente Sigonella la più grande base aeronavale statunitense nel mediterraneo, con circa 5/6.000 persone e circa 40 comandi. Per quando riguarda le basi NATO, la più importante è a Bagnoli, dove si trova il comando alleato per il Sud Europa, poi c’è il recente comando di Solbiate Olona, sede del comando per le forze di reazione rapida, mentre a Poggio Renatico c’è il Centro combinato per le operazioni aeree NATO. 56 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI AVIANO L’aviazione statunitense nel sud Europa (…e per i Balcani) Per anni la base di Aviano è stata la sede di reparti di supporto, destinati a compiti di presidio e di appoggio alle unità di volo di volta in volta qui schierate. Sul finire degli anni ’70 e nel decennio successivo vengono compiuti presso la base estesi lavori per la costruzione di numerosi shelter e depositi corazzati per la conservazione di armi nucleari. Nei primi anni ’90 con il trasferimento dei reparti di volo dell’USAF dalla Spagna (la base di Torrejon è stata chiusa in seguito a continue proteste popolari) e in seguito ai conflitti nella vicina area dei Balcani, la base di Aviano vede crescere il proprio ruolo. Oggi la base è anche uno dei due depositi “ufficiali” (l’altro è la base di Ghedi) che ospitano armi nucleari statunitensi; qui dovrebbero trovarsi cinquanta bombe termonucleari. finalizzato al compimento di funzioni di sorveglianza aerea, controllo e comunicazioni. E’ inoltre presente una unità medica e una compagnia del 502° Aviation Regiment che con gli elicotteri Chinook svolge funzioni di trasporto per la NATO in Sud Europa. Anche se Aviano ha svolto una funzione importante già ai tempi della guerra del golfo del 1991 è con le guerre Jugoslave che la base entra in piena attività; durante gli anni ’90 nella base sono stati schierati altri reparti con velivoli di vario tipo (A10 da attacco al suolo, F/A18D con la doppia capacità di caccia e attacco al suolo, F15 da caccia, EA6B per l’attacco e la guerra elettronica, nonché KC135 per il rifornimento in volo; nei momenti di massimo impegno la base è arrivata ad ospitare fino a 62 aerei pienamente operativi) Attualmente nella base opera il 31° Fighter Wing. Esso è l’unico reparto da caccia dell’USAF schierato in permanenza nell’area del Mediterraneo. Sotto il suo comando si trovano altre unità dislocate in Italia (tra cui alcune presso le basi di Ghedi, Pisa, Camp Darby, Comiso), Grecia, Spagna e Turchia. Il suo compito è di svolgere operazioni aeree nel Sud Europa, garantendo il munizionamento necessario a svolgere qualsiasi tipo di azione, su comando NATO e nazionale USA. Questo reparto ha sotto il suo comando, oltre a due squadroni da caccia, per un totale di 36 F16, altre unità specializzate; esse sono il 31° Operation Support Squadron e il 603° Air Control squadron, quest’ultimo Secondo i dati USAF la base di Aviano occupa 4.700 acri, con una pista lunga più di 26 km. La base ospita circa 4.000 militari (più i famigliari), 2000 dipendenti e circa 6/700 dipendenti civili italiani. Il progetto di ampliamento di fine anni ’90 ha comportato un aumento delle truppe di 3/4000 unità. La base di Aviano è suddivisa in nove aree separate e collocate tra la città di Aviano e Pordenone. Le principali sono (vedi fig.1) 1. Main support base, ospita le strutture di supporto non militari della base (negozi e servizi) 2. Billeting services, servizi, alloggi e i pompieri. Fig.1 ”l’impronta” della base di Aviano secondo l’ USAF Guerre & Pace 57 L’OMBRA DELLE BASI 3. 4. 5. 6. CE complex; contiene le attività non militari di supporto tecnico 16TH AF, è il quartier generale della 16^ forza aerea Flightline, è l’aeroporto volo vero e proprio, ospita il comando del 31 stormo da caccia, i due gruppi di volo, la gestione del traffico aere, le forze di sicurezza, il campo da golf e l’area ricreativa. (vedi anche Fig.2) Weapon storage, deposito armi IL PROGETTO AVIANO 2000 Inoltre la presenza della base di Aviano è uno degli elementi che hanno reso possibile il progetto di unificazione della 173^ brigata d’assalto a Vicenza. Le garanzie sul territorio qui certo non mancano: le amministrazioni locali, coinvolte sempre più da abili campagne di public relations, si prodigano nel migliorare la qualità della vita delle truppe alleate (I 20 miliardi di finanziamento strappati al governo quale indennizzo per il progetto Aviano 2000 verranno interamente spesi per la viabilità che conduce alla Base, della cui pericolosità si lamentava il gen. Leaf nel documento citato); la qualità della vita delle popolazioni locali viene un po’ dopo. Ad aviano è avvenuto quello che sta avvenendo a oggi a Vicenza. Il progetto Aviano 2000, siglato nel 1992 e reso pubblico nel 1995 è stato reso operativo dal Governo Prodi nel 1996. Si è trattato in sostanza di un ampliamento per implementare la funzionalità della base (sia dal punto di vista strettamente operativo che da quello della qualità della vita dei militari e delle loro famiglie). Il progetto ha usufruito di un finanziamento di 530 milioni di dollari, di cui 352 fondi NATO e 178 USA. La parte più rilevante del progetto è stata realizzata sull’area dell’ ex Caserma Zappalà, a cavallo fra i comuni di Aviano e Fig.3 Area 1 e 2, attualmente divise dalla strada di Pedemonte Roveredo concessa agli americani con accordo tecnico che risale al 1994. E del tutto evidente che un E sintomatica, su questo punto, la vicenda della strada simile investimento, secondo un piano decennale di Pedemonte. Le aree 1 e 2 della base di Aviano (vedi conclusosi negli scorsi anni, implica il permanere Fig.3) sono divise dalla vecchia strada di Pedemonte, indefinito di questa installazione. che collega la frazione con il centro di Aviano e poi In più occasioni preoccupate cronache locali hanno fatto balenare l’ipotesi di un trasferimento verso l’Europa Orientale; ma questo sembra difficile in quanto nelle basi in Romania e Bulgaria sono previste truppe a rotazione rapida, inoltre ci vorranno anni per realizzare strutture simili a quelle italiane o tedesche. Infatti quello che a inizio 2007 sembrava essere una possibile chiusura si è rivelato invece un piano di ristrutturazione del personale Usaf a livello globale: secondo quanto dichiarato nel marzo 2006 dal portavoce dell’Usaf, maggiore Glen Roberts, la forza aerea statunitense ha intenzione di tagliare almeno 59.000 dipendenti, tra civili e militari. E gli esuberi per Aviano dovrebbe aggirarsi intorno ai 1.200/1.500 circa. 58 sbuca nella strada Pedemontana, all’altezza della strada per il Piancavallo. Alcuni anni fa gli americani hanno realizzato un sottopasso per collegare le due aree, ma ancora non basta: il senato americano ha deciso che per motivi di sicurezza le due aree devono essere unite e la strada pubblica “spostata”. RAPPORTO FRA LA BASE E L’INQUINAMENTO AMBIENTALE. Numerosissimi studi effettuati in varie parti del mondo documentano in maniera inoppugnabile la pericolosità di questo tipo di installazioni. In occasione della loro chiusura i nodi vengono al pettine: dalla Germania alle Filippine, dagli Stati Uniti all’ Europa Orientale allorquando si mette mano alla riconversione o alla Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI semplice chiusura dei siti militari si devono affrontare problemi enormi di inquinamento. I perchè sono ovvii: i compiti e le operazioni delle basi militari richiedono una varietà di processi industriali: alcuni sono specificamente militari, altri sono del tutto simili alle routines delle industrie civili. Le tipiche operazioni che vengono svolte in una base sono le seguenti: - caricamento, stoccaggio e distribuzione di carburanti - manutenzione, pulizia, riparazione e smontaggio di natanti, veicoli, aerei - stoccaggio, trasporto, montaggio e distruzione di armi e munizioni - produzione di energia - trasformazione e distribuzione di energia elettrica - impianti di telecomunicazioni (radio, radar) - raccolta e trattamento di acque di scarico - stoccaggio e trattamento di rifiuti pericolosi - produzione di bitume - galvanotecnica - protezioni anticorrosive di superfici metalliche - lotta agli insetti nocivi ed alle erbe infestanti Questi processi richiedono l’uso di sostanze chimiche pericolose che possono rappresentare una minaccia per la salute dei lavoratori della base e dei cittadini che abitano nei dintorni, in quanto possono entrare in contatto con le sostanze nocive sia direttamente che attraverso l ambiente. L'impatto della base sull'ambiente fisico e sociale, è molto elevato anche se il filo spinato che le corre attorno, così come avviene per tutte le zone militari, l'ha resa nel corso di questi decenni una zona grigia, un territorio inesplorabile; ma la natura non riconosce il filo spinato. Vediamo allora cosa "esce" da quel territorio, quali sono le interazioni con quello circostante. lavasecco, giustamente, autorizzazioni! sono soggette ad A questo si aggiunge il problema dell’inquinamento dell’aria; infatti gli aerei, atterrando e decollando, certo non migliorano certo la qualità. In varie occasioni si sono notati bruciori agli occhi e la caduta di materiale oleoso. Inoltre l'aria è inquinata anche dalle automobili e più militari ci sono più automobili circolano. Ma è il rumore degli aviogetti l'aspetto forse più macroscopico della presenza militare americana perché colpisce migliaia di cittadini che abitano anche a una certa distanza dalla base. E' un problema che i roveredani conoscono bene. INQUINAMENTO DI SUOLO, ARIA E ACQUA Si sa per certo che 4.500 litri di carburante sono fuoriusciti da una delle cisterne interrate della base. Si è trattato, ovviamente, di un incidente. Non c’è alcuna garanzia che questo non si ripeta in futuro, né che questo si sia verificato altre volte nel corso della storia della base, come gli stessi americani ammettono. Esistono altre cisterne interrate e prive di protezione da sversamenti, come risulta da un verbale dell'USL (e a distanza di 15 anni dall'incidente l'area non risulta ancora bonificata nonostante l'ordinanza del Sindaco). Come è noto la Magistratura italiana non ha potuto accertare responsabilità fermata da una clausola di un trattato internazionale. Impianti del genere, se realizzati "in Italia" comportano pesanti procedure autorizzative e di controllo. Le fognature della base sono un po' misteriose. Pare che sia in progetto la realizzazione di reti fognarie. Ma è evidente che poi il tutto deve pur uscire dalla base e finire nel territorio circostante. All'interno della base poi vi sono varie cabine di verniciatura. Si tratta di impianti che, sempre in Italia, devono avere almeno 2 o 3 autorizzazioni. Perfino le Guerre & Pace 59 L’OMBRA DELLE BASI RIFIUTI Un abitante di New York produce da 3 a 4 kg. di rifiuti ogni giorno. Un cittadino di Pordenone ne produce 1,2 kg. E così capita che dove la concentrazione di cittadini americani è più alta cresce la media della produzione pro-capite: gli avieri dell'AIR FORCE, infatti, non figurano fra i residenti e quindi, considerato che la tassa sui rifiuti è commisurata non al loro quantitativo ma alla superficie delle abitazioni, è facile capire che una parte delle tasse che, ad esempio, pagano i Roveredani è dovuta al surplus di produzione di rifiuti da parte della popolazione ospite, dedita a consumi decisamente più avanzati dei nostri. A questo aspetto si deve aggiungere la naturale produzione di rifiuti, sia urbani che speciali e tossico-nocivi, provenienti dall'interno della base. Questi rifiuti vengono smaltiti da ditte italiane a spese degli statunitensi, però è evidente che questi rifiuti rimangono in carico al nostro ambiente. 60 Ad esempio, magari non di molto, ma la durata delle discariche viene ridotta dall'apporto di questi rifiuti che giudichiamo del tutto inutili. Senza contare che non abbiamo dati sui rifiuti tossici e nocivi che vengono prodotti, né di come vengono trattati all'interno della base. Quello che è certo, per ammissione delle autorità USAF, è che l'arrivo degli F16 ha fatto aumentare di molto la produzione di questi rifiuti. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI GHEDI Una base d’attacco italiana… con l’atomica La base di Ghedi è un aeroporto dell’aeronautica militare italiana da cui opera il 6° stormo con velivoli Tornado PA-200. Il 6° Stormo ha una doppia dipendenza: Nazionale e NATO. Per la catena gerarchica italiana dipende dal Comando Forze Aerotattiche di Attacco e Ricognizione (COMFATAR), che a sua volta dipende dal Comando Squadra Aerea, Alto Comando subordinato allo Stato Maggiore dell’Aeronautica (SMA). Secondo la catena NATO è alle dirette dipendenze del CAOC 5 che fa capo al Comando delle Forze Alleate del Sud Europa (SACEUR). Caratteristica principiale di Ghedi è di essere uno dei due depositi “ufficiali” di armi atomiche statunitensi in Italia; qui sono infatti presenti 40 ordigni B-61 (l’altra base è Aviano). La base occupa una superficie di 10 kmq, ospita circa 1500 militari italiani con circa 30 velivoli Tornado. I velivoli sono in grado di portare armamento nucleare e i piloti sono addestrati all’impiego delle armi nucleari contenute nella base. A Ghedi sono infatti presenti anche 150 militari statunitensi del 831st MUNSS, squadra supporto munizioni che, dalla mensa al campo di basket, vivono in installazioni autonome e separate. L’831^ squadra risponde ad una doppia catena di comando, sia USA che NATO; il suo compito è la gestione dell’armamento nucleare e il supporto all’aeronautica italiana. comando operativo con alloggiamenti e attrezzature per la sopravvivenza di 200 persone e, naturalmente, il nuovo deposito per ospitare gli ordigni nucleare: non più tutti insieme ma ognuno con il suo loculo singolo. Sembra che ne siano stati costruiti undici anche se però alcuni dovrebbero essere vuoti. Gli ordigni ospitati a Ghedi sono del tipo B-61, la bomba termonucleare americana costruita in più esemplari. La potenza della testata può essere compresa tra 0,3 e 300 chilotoni, a seconda dei modelli. Si ritiene probabile che gli ordigni ospitati a Ghedi siano del tipo da 200 chilotoni, ossia tredici volte l’ordigno che ha incenerito Hiroshima. Queste bombe cancellano tutto nel raggio di un chilometro e uccidono subito qualunque essere umano nel raggio di tre chilometri. Per dare un’idea con una di queste bombe si può distruggere una città come Milano. Gli aerei della base ricoprono un ruolo principale di attacco e secondario di ricognizione. Il 154° gruppo del 6° stormo è stato impiegato nella prima guerra del Golfo; ha poi partecipato alle successive missioni in Bosnia e alla guerra contro la Jugoslavia. Inoltre è da Ghedi che sono partite strutture logistiche per la missione in Afghanistan. Tra il 1993 e il 1996 la base si rinnova; vengono costruiti con nuove tecnologie tre bunker che dovrebbero garantire la capacità operativa della base in qualsiasi condizione. Per “qualsiasi condizioni” si intende anche un attacco nucleare diretto, batteriologico o chimico. Tra le nuove strutture troviamo un Guerre & Pace 61 L’OMBRA DELLE BASI VICENZA: CAMP EDERLE &… DAL MOLIN (?) Caserma Ederle – la forza tattica statunitense per il sud europa La Caserma Ederle di Vicenza ospita la forza tattica dell’esercito statunitense – SETAF. Questa forza tattica è presente in Italia fin dal 1951, prima a Camp Darby, in seguito presso la caserma Passalacqua di Verona fino ad approdare nel 1965 a Vicenza Dal 1973 la SETAF è un’unità di intervento rapido dell’esercito USA, le cui forze sono in grado di essere dispiegate entro 24 ore nell’area di combattimento. Nel 2000 le forze presenti assumono la denominazione di 173^ brigata paracadutisti (unità già impiegata a suo tempo in Vietnam e sciolta nel 1972; tristemente conosciuta per i massacri di contadini nelle risaie di Katum). Le maggiori unità stanziate alla caserma Ederle sono il comando della SETAF, il comando della 173^ brigata paracadutisti, due battaglioni della 173^, una batteria di artiglieria con cannoni aviotrasportabili da 105mm, il 22° gruppo di Supporto d’area (il cui compito è la gestione della base), il 509° battaglione trasmissioni, il 14° battaglione trasporti e la 13^ compagnia di polizia militare. La base ospita circa 2.500 militari e 600 impiegati civili statunitensi (ma la comunità statunitense a Verona si aggira sulle 12.000 unità, di cui circa 4.000 familiari dei militari). All’interno della base si trovano negozi, banche, scuole, strutture per lo svago e tutti i servizi necessari per la vita dei soldati e dei loro familiari. Circa 1.200 sono i civili italiani trovano impiego presso le strutture SETAF a Vicenza e a Livorno. Oltre della Caserma Ederle altre cinque installazioni completano la struttura del comando Setaf; si tratta del villaggio per il personale collocato vicino alla caserma, del deposito munizioni di Tormento, dei depositi per veicoli e apparecchiature logistiche siti a Lerino e Torri di Quartesolo e del Sito Pluto, a Longare Quest’ultimo è formato da una serie di gallerie e grotte sotterranee di origine naturale, ampliate e collegate artificialmente, collocate sotto i Colli Berici. Dal 1957 al 1992 sono stati ospitati armi nucleari tattiche . Oggi dopo anni di apparente disuso sono stati ripresi lavori per l’espansione e il rafforzamento della struttura. LA 173^ BRIGATA La 173^ brigata è una brigata aviotrasportata; ha la possibilità di poter operare autonomamente, nell’ambito di un’unità a livello di divisione o come componente nell’ambito di un comando interforze (JTF). Il suo impiego principale è quello di forza da 62 attacco (tipo conquistare aeroporti o installazioni strategiche). Il suo impiego, nella dottrina statunitense, non e' mai disgiunto da un sollecito rincalzo da parte di forze corazzate, che subentrano per consolidare le posizioni. E’ dalla caserma Ederle che nel marzo 2003 partono camion e mezzi blindati che viaggiano su ferrovia in giro per l’Italia, fino a Camp Darby per l’imbarco verso l’Iraq. Ed è da qui che verso la fine di marzo partono per imbarcarsi ad Aviano circa 1.000 paracadutisti della 173^ brigata con destinazione Bashour, nel Kurdistan iracheno. Dopodiché nel 2004 li troviamo impegnati nel massacro di Falluja Nella primavera del 2005 i paracadutisti della 173^ vengono inviati in Afghanistan, impegnati nell'operazione "Enduring Freedom" (dove collaboreranno con il Nato Rapid Deployable Corps di Solbiate Olona). Attualmente la 173^ è ancora impegnata in Afghanistan. Oggi la 173^ è divisa in tre basi: le basi di Bamberg (1200 soldati) e Schweinfurt (460 soldati) in Germania e Camp Ederle (1870 soldati) in Italia. I piani di ristrutturazione globale delle forze armate statunitensi prevedono di trasformare la 173^ aviotrasportata in una brigata da combattimento, cioè una forza d’attacco con la potenza di fuoco di una divisione. Si tratta quindi di un’unità d’assalto speciale con caratteristiche esclusivamente offensiva. Questo vuol dire anche raggruppare i vari reparti in un’unica base. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI DAL MOLIN Parlare della 173^ brigata vuol dire affrontare anche la questione del raddoppio di Camp Ederle attraverso la costruzione di una nuova base presso l’aeroporto Dal Molin, dove verrebbero ospitate le truppe e relativo materiale d’armamento provenienti dalla Germania. Non si tratterà quindi una semplice espansione dell’esistente ma di una nuova base pienamente operativa che nei piani del Pentagono dovrà essere il fulcro delle politiche militari per il Medio Oriente e l’Africa. La nuova base prevede un ampio intervento edilizio che occuperà 550 mila mq, suddivisa in area logistica, abitativa e tattica. Inoltre sembra che siano previsti anche depositi NBC, cioè per materiale nucleare, biologico e chimico. Inoltre è prevista anche una dotazione di armi pesanti, quali 55 tank M1 Abrams, 85 veicoli corazzati da combattimento, 14 mortai pesanti semoventi, 40 blindo con sistemi di ricognizione elettronica, due batterie di artiglieria con obici semoventi, 2 nuclei di aerei telecomandati Predator In quanto a risorse la nuova struttura utilizzerebbe tanta acqua ed elettricità circa quanto 30.000 cittadini di Vicenza. Una delle caratteristiche che hanno favorito la scelta di Vicenza da parte dei comandi statunitensi è stata indubbiamente anche la relativa vicinanza di altri due nodi importanti per la strategia bellica USA, cioè la base di Aviano (150 km) e la base di Camp Darby, con il relativo porto di Livorno, (360 km). Queste due basi sono quelle che permettono la mobilità e la disponibilità di riserve strategiche, in armi e munizioni, per la brigata. Non è un caso che Aviano abbia subito all’inizio degli anni 2000 un ampliamento delle proprie strutture, mentre Camp Darby ha visto negli ultimi anni ripetuti tentativi di ampliamento, anche se per ora senza successo. E’ certo che se andrà in porto il raddoppio della base questi tentativi riprenderanno con più forza, visto l’aumento delle forze che dovrà servire. Guerre & Pace VICENZA Siti militari di Camp Ederle e Dal Molin 63 L’OMBRA DELLE BASI CAMP DARBY – LIVORNO Un enorme e pericoloso magazzino di armi e attrezzature belliche Con l'accordo segreto firmato nel 1951 da Italia e Stati Uniti si stabilì che questi ultimi potessero attivare delle linee di comunicazione sul suolo italiano e occupare dei territori nelle vicinanze di Livorno. Quando viene divulgata la notizia le autorità italiane sottolineano la "temporaneità" della concessione, infatti la base è ancora li e l’accordo continua a rimanere rigorosamente segreto. Per quanto riguarda la durate del trattato alcune fonti parlano di 99 anni, il giornale anarchico Umanità Nova sostiene che l’accordo prevedesse inizialmente una durata di 40 anni, poi divenuti 45 e, dopo il 1996, (governi Dini e Prodi) protratto di non si sa quanto. DESCRIZIONE GENERALE Camp Darby è una base USA a tutti gli effetti anche se ospita un comando NATO. E’ situata nella pineta della Tenuta di Tombolo, a due km circa della cittadina balneare toscana di Tirrenia, nell’area amministrativa del Comune di Pisa. Ha un perimetro di 14 km circa ed occupa una superficie di circa mille ettari (10 kmq) oggi parte integrante del Parco di Migliarino-S. Rossore, in provincia di Pisa anche se si trova a poche centinaia di metri dall'abitato di Stagno, cioè dall'estrema periferia di Livorno. Infatti nei documenti ufficiali americani viene solitamente definita come la "base di Livorno". La popolazione permanente di Camp Darby, considerando le unità e le famiglie, è di circa 2.000 persone. Nella base vi sono all’incirca 350 militari statunitensi (esercito e aviazione) e circa 580 dipendenti italiani, addetti a servizi interni quali manutenzione, pulizia e manovalanza, lavori appaltati ad aziende italiane. In estate sono presenti altri 700 militari della Guardia nazionale. 64 La stragrande maggioranza del personale risiede dentro la base, i pochi ufficiali che abitano a Livorno (che comunque sono sempre di meno) sono relegati in poche palazzine appositamente affittati dall’Amministrazione militare. La base è inoltre un riferimento costante per le ferie del personale statunitense di stanza in Italia ed in Europa, tanto che si calcola che ogni anno sia capace di calamitare circa 52.000 presenze sul territorio. All’interno della base vi sono supermercati, negozi di vario tipo, una scuola (dall’asilo alle superiori), una clinica generale, una dentistica ed una veterinaria, un ufficio per la tutela della sicurezza sul lavoro, un canile e una lavanderia che serve anche altre basi militari. Per il tempo libero ci sono vari campi sportivi, una spiaggia in affitto a Tirrenia e convenzioni con i vicini campi di golf. Hanno sede nella base anche una televisione ed una radio, ascoltabile solo nelle zone di Pisa e di Livorno alle frequenze 106,0 e 107,0 megaherz. La televisione invece può essere vista solo con il sistema Multisystem usato dalle famiglie dei militari USA. La programmazione quotidiana proviene dalla California; sono collegate allo stesso circuito le emittenti di altre due grandi basi americane a Vicenza e a Francoforte. GUERRA, PROTEZIONE CIVILE E … La base è la principale struttura logistica dell'U.S. Army nel mediterraneo (le altre grandi basi americane sono della Marina o dell'Aviazione). Vi vengono stoccate armi convenzionali di tutti i tipi, dai carri armati ai cannoni e ai corrazzati. Accanto alle armi convenzionali ci sono armi chimiche e al napalm e, anche se gli americani non lo hanno mai ammesso, armi nucleari che sono ospitate nei suoi bunker lunghi circa 150 metri e larghi dai 15 ai 20 metri, bunker superprotetti e nascosti dalla folta vegetazione; la struttura per la conservazione di munizioni è di 2000 acri. Nel 1999 la capacità complessiva dei magazzini è stata certificata per contenere 32.000 tonnellate di ordigni. Si stima che nella base siano stoccate oltre un milione e mezzo di munizioni. Nei 125 bunker sotterranei che lo compongono (67 per l’esercito e 49 per l’aeronautica USA) Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI sono contenute le riserve di munizioni strategiche delle divisioni europee dell'esercito, e dell'aviazione statunitensi nonché del Comando per il Materiale dell'Esercito: 20.000 tonnellate di munizioni per artiglieria, missili, razzi e bombe d’aereo con 8.100 tonnellate di alto esplosivo. Vi sono poi 2.600 tra tank, blindati, jeep e camion, inclusi 35 carri armati M1 Abrams e 70 veicoli da combattimento Bradley. Infine, vi è custodito l’equipaggiamento completo per armare veicoli e soldati. In totale, a Camp Darby ci sono materiali bellici del valore di due miliardi di dollari, missili ed ordigni esclusi. Grazie alla sua posizione al centro del Mediterraneo la base ha svolto una funzione fondamentale nelle operazioni belliche statunitensi in Medio Oriente, specie negli anni '80 e '90. A Camp Darby si rifornirono le portaerei che colpirono la Libia nei raid contro Gheddafi, da Camp Darby partirono le munizioni che bombardarono Beirut, da Camp Darby partirono buona parte delle munizioni impiegate nella guerra contro l'Iraq; da qui partirono anche grandi quantitativi di armi destinate ai gruppi paramilitari centroamericani impegnati a spegnere nel sangue le lotte popolari: nel 1988 si scoprì che dal porto di Livorno erano partite diverse centinaia di tonnellate di armi dirette ai fascisti honduregni e nicaraguensi. Inoltre nel 1986 si scoprì anche che la bas e di Livorno era stata al centro di un traffico segreto di armi verso l'Iran, ne seguì uno scandalo clamoroso perché fu dimostrato il coinvolgimento della CIA con la connivenza dei servizi segreti e del governo italiano. Naturalmente nel giro di pochi mesi lo scandalo fu insabbiato. Nel 1990-91, durante lo schieramento nel Golfo, hanno transitato per Camp Darby 20.000 tonnellate di Nel corso dell'estate del 2000, il 31st Munitions Squadron (MUNS) di Camp Darby ha trasferito, in un'operazione durata 12 giorni, più di 100.000 articoli per un peso netto di materiale esplosivo maggiore di 53000 libbre (oltre 28 tonnellate), spostandoli da otto strutture per l'immagazzinamento di munizioni ad un'altra zona di custodia. Motivo di questo trasferimento sono stati gli errori nella costruzione del soffitto dei depositi. I problemi strutturali di questi elementi, costruiti 22 anni fa, sono andati peggiorando di anno in anno. Nel maggio del 2000, il peso degli interventi di sostegno al rivestimento aveva provocato, in un deposito, il distacco di grandi porzioni di cemento armato e di parte del soffitto preesistente. La situazione si è rivelata preoccupante riguardo alla fatiscenza delle strutture, quindi si è dovuto interrompere la corrente degli otto capannoni ed interdirne temporaneamente l'accesso lasciandovi abbandonate pile di munizioni che arrivano fino al soffitto. Tutto ciò è avvenuto senza nessun avviso alle autorità locali. munizioni. Nel 1991, durante la guerra contro l’Iraq, ne sono partite dalla base altre 22.000 tonnellate, pari alla quasi totalità delle munizioni usate durante la campagna Tempesta nel Deserto. Nei giorni del Natale 1998, alla vigilia del conflitto balcanico, sono arrivate alla base 3.278 cluster bombs. Nel 1999, in occasione della guerra contro la Serbia, sono partite dalla base 16 mila tonnellate di munizioni, pari al 60% degli ordigni schierati dalla NATO. La base ha svolto anche attività di protezione civile: in occasione del terremoto in Turchia del 1999 da Camp Darby sono stati inviati provviste e vestiario. Nel corso del 2002 sono state effettuate otto missioni umanitarie nei confronti di comunità colpite da calamità naturali (terremoti o altro), con l’invio di materiali per la prima assistenza, tra cui coperte, cucine da campo, kit igienici, potabilizzatori, contenitori per l’acqua potabile. I paesi interessati sono stati Iran, Pakistan, Israele, Angola, Algeria, Congo, Nigeria, Turkmenistan. …TERRORISMO: CAMP DARBY E LA STRATEGIA DELLA STABILIZZAZIONE ITALIANA DEGLI ANNI '70 La base di Livorno ha avuto anche un ruolo centrale nella strategia di destabilizzazione che ha insanguinato l'Italia negli anni '70 e '80. Fin dal 1974 erano filtrate voci sull'uso della base per l'addestramento di neofascisti, voci successivamente confermate dalle indagini dei giudici Felice Casson e Carlo Mastelloni. Nel 1990 un’indagine condotta dal giudice Casson rende noto che Camp Darby è la principale base strategica, chiamata in codice “Base A”, della rete paramilitare di Gladio, che se ne serviva per l’addestramento e come magazzino di armi e munizioni. L’indagine di Casson ha avuto inizio nel 1974, quando, il 28 dicembre, a casa del neofascista veneto Marcello Soffiati sono stati rinvenuti documenti scottanti. Altri importanti documenti sono stati poi rinvenuti nel 1980 a Nizza, presso il neofascista toscano Marco Affatigato. Infine, vi sono le confessioni del generale Fausto Fortunato, responsabile dell’ufficio R del Sismi tra il novembre 1971 ed il settembre 1974. Dall’indagine di Casson emergono varie interessanti circostanze: 1) All’interno della base veniva svolto un “seminario” per fascisti e gladiatori su ”uso delle armi e studio delle tecniche investigative”. L’istruttore era Gianni Bandoli, neofascista veneto appartenente ad Ordine Nuovo. 2) Bandoli aveva contatti con Amos Spiazzi, colonnello protagonista del golpe Borghese e membro del gruppo neofascista della Rosa dei Venti, il quale a sua volta aveva contatti con un maresciallo dei servizi segreti in contatto con la P2 che operava a Tirrenia. 3) A Tirrenia aveva sede la Loggia Massonica “Franklin” per ufficiali americani. Guerre & Pace 65 L’OMBRA DELLE BASI 4) A Tirrenia risiedeva Enzo Giunchiglia, reclutatore P2 per conto di Gelli. Nel 1997 nell’ambito dell’inchiesta portata avanti dal giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni sulla caduta a Marghera il 23 novembre del 1973 dell’aereo Argo 16 emergono una serie di interessanti circostanze circa la base di Camp Darby. 1) Risulterebbe, infatti, che negli anni Settanta nei silos dei depositi sotterranei erano stivati centinaia di missili dotati di testata nucleare; secondo Mastelloni gli ordigni nucleari sarebbero ancora nascosti nei depositi sotterranei della base. Negli stessi anni erano immagazzinate bombe atomiche tattiche in un deposito dell’aeroporto di Aviano, in Veneto. 2) Camp Darby sarebbe stata la «Base A», nome in codice per definire l’uso addestrativo e come magazzino di armi e munizioni per la struttura segreta paramilitare e di ispirazione anticomunista Gladio. Quest’ultima, cioè, avrebbe utilizzato la base al fine di rifornirsi di armamenti per la costituzione dei propri depositi sotterranei denominati Nasco, da usare in caso di necessità contro l’Unione Sovietica. 3) Gli ufficiali del Sid, il servizio segreto militare italiano dell’epoca, si sarebbero ripetutamente recati a prelevare armamenti e materiale tattico, da smistare, poi, attraverso l’uso di aerei come Argo 16, nella base di Alghero in Sardegna e in altre strutture militari. 4) Alla base avrebbero avuto accesso esponenti dell’estrema destra grazie a permessi rilasciati dai comandanti americani. Ad un miglio dalla base si trova il Leghorn Army Depot, dove sono stanziati il 314° Support Center (Reserves) ed il Combat Equipment Battalion-Livorno (CEB-L). Quest’ultimo si occupa dello stoccaggio e della manutenzione dei veicoli e dell’equipaggiamento del 2x2 Brigade Set, che consiste in due unità blindate e due battaglioni di fanteria meccanizzata. Questa è l'unica struttura deputata allo svolgimento di tale compito in tutto il sud dell'Europa e ne costituisce una delle attività delegate principali. Tutte le attrezzature, i pezzi di ricambio e il materiale di sostegno, sono contenuti in enormi depositi; file di carrarmati M1, M2 e M3 Bradleys, carri di recupero M88, jeep blindate Humvees e camion punteggiano le installazioni trastullandosi sotto l'italico sole. Presso l’abitato di Stagno, a tre miglia dalla base, si trova l’839° Transportation Battalion, che è assegnato al Military Traffic Management Command (MTMC “Comando per la Gestione del Traffico Militare”) ed è incaricato di gestire tutti i porti marittimi che offrono appoggio alle operazioni militari degli Stati Uniti nel Mediterraneo. LE “ALTRE” STRUTTURE MILITARI Camp Darby è circondata da altre strutture militari USA di primaria importanza stanziate tra Pisa e Livorno. In Totale Camp Darby è la sede di 26 strutture di appoggio dell’Esercito, dell’Aeronautica e del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. A poche centinaia di metri, nei pressi dell'abitato di S. Piero a Grado, sorge il Centro di ricerca interforze (ex CAMEN ed ex CRESAM) che negli anni 60 ospitava un mini reattore nucleare che la Marina militare italiana utilizzava nei suoi studi per realizzare la bomba atomica nazionale (Il Centro fu diretto per anni da un ammiraglio e da alti ufficiali aderenti alla P2, la loggia massonica golpista creata da Licio Gelli). A pochi chilometri da Camp Darby (5 miglia) sorge poi il Centro radar di Coltano, sede del 509° Signal Battalion, SATCOM. E’ un importante terminale del sistema di telecomunicazioni del Pentagono in Europa e nel Medio Oriente e comprende, tra le altre cose, il centro AUTODIN (Automatic Digital Network) del terminale di comunicazione via satellite. Fra il personale dell'aviazione presenti in misura permanente sul posto figurano il 31st Munitions Squadron (31° squadrone munizioni) e il 31st Redhorse Flight (corpo speciale dell'aviazione). Quest'ultima unità gestisce due set completi di attrezzature preposte per l'ingegneria, circa 500 pezzi in tutto, che l'aviazione utilizza per la costruzione di campi di aviazione e per riparare le piste danneggiate. 66 Camp Darby è l'unico sito integrato dell'esercito USA, cioè è l'unico sito dell'esercito statunitense in cui il materiale preposto venga custodito insieme alle munizioni, così da permettere il trasferimento simultaneo di attrezzature, veicoli e munizioni alle unità in attesa. Ad esempio, questo è l'unico luogo in tutta la regione meridionale da cui si possano trasportare munizioni via mare: queste raggiungono il porto di Livorno passando per un canale che lo collega direttamente a Camp Darby, da lì vengono caricate su piccole imbarcazioni transoceaniche e portate, dopo un viaggio di due ore verso sud, in un altro porto dove possono essere caricate su navi da munizioni. Inoltre il campo è molto vicino all’aeroporto di Pisa, in grado di permettere le manovre di un aereo da trasporto C-5, così da rendere possibile il trasferimento aereo di munizioni o attrezzature da combattimento fondamentali. LEGHORN L'Attività di Deposito dell'Esercito Leghorn (Livorno), già conosciuto come Centro Generale di SostegnoLivorno, situato sulle coste nordoccidentali italiane, è diventato IOC (Comando per le Operazioni Industriali) Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI nel 1994. La missione dell'attività di immagazzinamento è quella di ricevere, imbarcare, provvedere alla custodia e alla manutenzione della Riserva di Guerra dell'Esercito e delle scorte per i piani operativi. La responsabilità per le scorte della riserva di guerra immagazzinate sul posto è stata trasferita al IOC nel 1993, l'anno successivo sono state fatte traslocare anche le installazioni. Il IOC è responsabile del Comando per il Materiale dell'Esercito per la gestione di tutte le Riserve di Guerra dell'Esercito nel mondo. Nonostante il deposito sia recente nel IOC, il proprio servizio per l'esercito ha una lunga storia: costruito nel 1951 nei pressi di Livorno, il magazzino e l'adiacente area per la custodia di munizioni hanno fornito sostegno alle forze armate statunitensi in Austria; pochi anni dopo estesero i propri servizi alle divisioni presenti in Italia e nel sud della Germania. La missione di Leghorn è cambiata al cambiare delle esigenze dell'esercito. In principio la struttura era stata creata per rifornire esclusivamente una piccola regione dell'Europa; al giorno d'oggi i suoi 2.400 acri di deposito ospitano tanto materiale da poter garantire l'equipaggiamento di un'intera brigata. Fra le scorte, chiamate AWR-2, sono comprese munizioni, materiale rotabile, Unit Basic Loads, ed articoli di sopravvivenza suddivisi in 45 pacchi per le compagnie. A differenza dei POMCUS (materiale per le operazioni d'oltreoceano assemblato negli Stati Uniti) che hanno una destinazione già definita, queste attrezzature sono pacchetti pronti per essere imbarcati ed utilizzati in operazioni degli Stati Uniti in tutto il mondo. Ad ottobre, quando il IOC assumerà il comando ed il controllo dell'organizzazione Gruppo Attrezzature da Combattimento per l'Europa, Leghorn ne entrerà a fare parte. Attualmente Leghorn è responsabile dell'immagazzinamento, della distribuzione e della manutenzione di scorte AWR-2, delle scorte del Dipartimento di Stato, delle scorte di appoggio dell'Ufficio degli Stati Uniti per i Disastri Esteri, e delle scorte di decremento delle divisioni europee dell'esercito statunitense. Il Combat Equipment Battallion-South (battaglione per le attrezzature da combattimento per la zona meridionale) e la sua 24th Cbt. Equip. Company (24° compagnia per le attrezzature da combattimento) nel Deposito dell'Esercito Leghorn di Livorno conservano un inventario di materiale e munizioni, compreso l'equipaggiamento sufficiente a rifornire una brigata pesante composta da due unità blindate e due battaglioni di fanteria meccanizzata, per un valore totale di 2miliardi di dollari. Il deposito contiene 2.600 pezzi di materiale rotabile dell'esercito oltre alle attrezzature e alle forniture, più di 11.000 articoli delle scorte nazionali, ed offre la maggiore area di immagazzinamento di munizioni di tutte le divisioni europee dell'esercito statunitense. Dieci capannoni ospitano forniture fra cui razioni da campo, petrolio conservato, materiale da costruzione e da barriera, camion e carrarmati oltre ai pezzi di ricambio per le attrezzature. Leghorn ha giocato un ruolo importante nel supporto di esercitazioni militari della NATO e delle missioni umanitarie degli Stati Uniti imbarcando e trasportando materiale per la Somalia, le Filippine, il Rwanda e la Cecenia. Il deposito, presieduto da un colonnello luogotenente, conta su una forza lavoro composta da 330 dipendenti fra militari, civili statunitensi e civili locali. RICADUTE ECONOMICHE Dati precisi è difficile reperirli. Secondo il consigliere regionale di AN, Luvisotto, la base rappresenta un indotto di 25 milioni di euro all’anno. In un reportage di Rosa Mordenti per il settimanale Carta si ricorda come oggi la base non incide affatto sulla vita di Livorno, in quanto completamente autosufficiente; e anche i livornesi che vi lavorano sono sempre meno (circa 580 ottanta civili italiani impiegati rispetto ai 3500 dei primi tempi). LAVORI ALLA BASE: MANUTENZIONE E… Dal 2001 al 2003, solo per le riparazioni alle strutture, era stata prevista una spesa di 8,5 milioni di dollari.53 Nel 2002 vengono inoltre stanziati altri 15 milioni di dollari, una cifra molto superiore a quella degli anni precedenti. Il 23 gennaio 2003 il Sottosegretario per la Difesa rispondendo ad un’interrogazione informa che per la base di Camp Darby è in esecuzione un contratto di circa 2,5 milioni di dollari, con oneri a carico degli Stati Uniti, per il riattamento dei magazzini nei quali si sono verificati cedimenti strutturali e per la manutenzione di tutti gli altri. …POTENZIAMENTO All’inizio degli anni Novanta viene concepito in sede NATO un progetto (Nato CP 340019) da 52 milioni di dollari (circa 40 milioni di euro) per l’ampliamento della base di Camp Darby. Il progetto prevede la costruzione di sette magazzini climatizzati, di una grande officina, e di varie infrastrutture per complessivi 450.000 metri cubi e 9 ettari di superfici coperte o impermeabilizzate. Nel 1996 il Comipar (Comitato misto paritetico sulle servitù militari; è un comitato che per legge si occupa di esaminare i problemi connessi all’armonizzazione fra piani di sviluppo territoriale ed economico-sociale della regione ed i programmi delle istallazioni militari; ha solo funzione consultiva) approva il progetto (dossier Nato CP 340019), ma all’approvazione non segue nessun atto che porti all’inizio dei lavori. Il 2 luglio 2003 il Comipar approva all’unanimità il dossier recante le sigle Usa PN 58497 e PN 58493, che contiene il progetto di potenziamento della base per la costruzione di “sette magazzini e varie infrastrutture per complessivi 450 mila metri cubi e nove ettari di superfici coperte o impermeabilizzate”. Il dossier è praticamente identico a quello già approvato nel 1996, e tuttavia viene votato una seconda volta poiché nel frattempo è cambiato il proponente: non più la NATO ma gli Stati Uniti. Guerre & Pace 67 L’OMBRA DELLE BASI Intanto, Il 6 maggio 2002, adducendo motivazioni legate alla propria sicurezza, il comando italiano della base richiede all’Università di Pisa di poter recintare un terreno demaniale prospiciente alla base (superficie complessiva di 33.000 mq) ed una attualmente in concessione all’ateneo. La richiesta avanzata dai militari di Camp Darby è respinta dal Senato accademico dell’Università di Pisa a larghissima maggioranza. Ma già nei primi mesi del 2003 l’associazione GlobalSecurity informa dell’esistenza di un progetto per la ristrutturazione e l’ampliamento del canale dei Navicelli (canale artificiale che collega la base al porto di Livorno), che sarà finanziato grazie ad un emendamento al pacchetto NATO per i possibili progetti militari. Gli interventi previsti, del costo di 1,8 milioni di dollari (dragatura e cementificazione del fondale esclusi), consentiranno di raddoppiare la capacità di carico del canale: allargamento della portata e dell’ampiezza del canale per permettere alle chiatte la conversione ad U; cementificazione dei fondali; estensione della lunghezza della banchina per consentire l’attracco simultaneo di due chiatte per il carico o lo scarico di munizioni; pavimentazione dello scalo; illuminazione del molo per consentire appoggio alle operazioni 24 ore su 24; costruzione di una struttura di controllo delle munizioni; costruzione di una struttura per lo svolgimento delle operazioni di scalo; riparazione di tre ponti che danno accesso alla struttura; costruzione di 6 piattaforme per la custodia delle munizioni. La conclusione dei è prevista per il 2010. Ma il canale ha bisogno anche dei lavori di dragatura e cementificazione del fondale se si vuole garantire la possibilità di scaricare agevolmente le munizioni necessarie ad un'eventuale operazione futura. Le eliche delle navi-munizioni e i propulsori ad arco continuano a trascinare il fondale del canale dai punti di minore a quelli di maggiore profondità provocando una riduzione dell'effettiva profondità delle acque a tal punto da dimezzare l'effettiva capacità di trasferimento marittimo delle munizioni. Questo problema è stato esasperato dalle operazioni di trasporto di munizioni in sostegno alle operazioni della NATO e degli Stati Uniti nei Balcani e verso l’Iraq realizzati negli ultimi anni. 68 Il Canale dei Navicelli potrebbe essere dragato al vantaggioso costo di 24.000 dollari, grazie alle operazioni di dragaggio già in corso; se invece si dovesse stipulare un nuovo contratto di dragaggio le spese si raddoppierebbero. L'ulteriore dragaggio, con la posa di un tappeto di cemento armato (con pannelli di questo materiale), o pietrame per fondazioni subacquee lungo tutta l'estensione e l'ampiezza dello Scalo Tombola costerebbe all'incirca 150.000 dollari; ma anche questo non garantirebbe una stabilizzazione del fondale di lunga durata. L'esercito sta portando avanti delle ricerche sull'integrità delle pareti a pannelli metallici esistenti per scoprire ogni eventuale falle nei pannelli; le riparazioni, se necessarie, costerebbero 50/65.000 dollari a seconda della gravità del problema. Nel febbraio 2004 si apprende che il comando statunitense si sta muovendo per ottenere nel porto di Livorno una banchina in uso esclusivo dove far approdare le navi con il materiale bellico in arrivo e in partenza. In seguito all’uscita della notizia sulla stampa, il commissario dell’Autorità Portuale di Livorno, Bruno Lenzi, dichiara che: “L’Autorità Portuale non ha mai ricevuto una richiesta del genere. La base Usa vorrebbe eventualmente un accosto preferenziale, ma nessuna concessione”. Nell’agosto 2005 il giornale Il Tirreno da notizia di movimenti informali e riservati da parte degli statunitensi per arrivare ad un raddoppio della base. Il progetto avrebbe previsto un ampliamento della base nella piana di Guastocce, dove è già attivo un interporto, complesso di infrastrutture logistiche per lo smistamento delle merci, che ha a disposizione un milione di metri quadri ancora da allestire. Si tratterebbe insomma del potenziamento della infrastrutture, da quelle stradali a quelle ferroviarie, a disposizione dei militari, che faciliterebbe l’utilizzo degli impianti del porto di Livorno e dell’aeroporto di Pisa. L’operazione potrebbe presentare anche un aspetto di ambiguità, in quanto anziché i militari potrebbe presentarsi un’azienda civile (contractors) che lavori per conto delle forze armate USA. Il 7 novembre 2005 il comune di Collesalvetti, sul cui territorio è collocato l’interporto, approva una mozione per la riconversione a fini civili di Camp Derby. Il 18 gennaio 2007 anche il comune di Pisa vota una mozione per la dismissione e la riconversione a usi esclusivamente civili di Camp Darby. Anche se ad oggi di questo progetto non se ne è saputo più nulla è purtroppo evidente che se alla fine dovesse procedere il raddoppio della base di Vicenza, con l’inglobamento del Dal Molin nella struttura militare della Ederle per ospitare la 173^ brigata d’assalto al completo, i progetti di ampliamento di Camp Darby tornerebbe in primo piano. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI NAPOLI Il comando della marina per tre continenti Come conseguenza delle politiche di riposizionamento delle basi e delle forze armate statunitensi dall’Europa settentrionale e centrale a quella meridionale e orientale, nel 2004 la marina USA ha preso la decisione di unire il Quartier Generale delle Forze Navali USA in Europa (precedentemente collocato a Londra), con il comando della VI flotta (allora collocato a Gaeta) e alcuni altri comandi minori, in un unico comando collocato a Napoli. Secondo la marina l’accorpamento dei comandi ha permesso una forte riduzione del personale impiegato; oggi infatti il comando della marina a Napoli dovrebbe impiegare all’incirca 500 persone (erano circa 1500 solo nel comando di Londra) Il Comando della forze navali USA-Comando della VI flotta (CNE-C6F) agli ordini del Comandante in capo delle Forze navali USA in Europa ora di stanza a Napoli ha un’area di responsabilità che comprendente 89 paesi in tre continenti: Europa, Africa e Asia; Medio Oriente compreso. In pratica da Capo Nord al Capo di Buona Speranza e, ad est, fino al Mar Nero. Il suo compito è quello di comando e controllo operativo delle forze navali statunitensi nella sua area di responsabilità; in pratica pianifica dirige e supporta le operazioni navali Usa. Il comando dispone di sette Basi, tra cui Rota (in Spagna), Sigonella (stazione a terra per gli aerei della marina), Gaeta (base della VI flotta) e La Maddalena (base di supporto per i sommergibili nucleari, in fase di chiusura/trasferimento). Il comando è situato presso la cittadella militare statunitense costruita attorno all’aeroporto di Capodichino (mentre i famigliari dei militari sono ospitati in un villaggio della marina statunitense a Gricignano di Aversa); le forze di cui dispone sono incentrate principalmente sulle navi della VI flotta (oltre 41 unità navali, tra sommergibili nucleari, portaerei e navi per operazioni di sbarco, 175 aerei e 16.000 marinai e 6000 marines, inquadrati nel Bataan Expeditionary Strike Group, che comprende sette navi da guerra per operazioni di sbarco). Un altro importante Comando della marina statunitense a Napoli è il NCTAMS EUROCENT. Questa è una delle tre stazioni al mondo con il compito di fornire servizi di telefonia, comunicazione, controllo, elaborazione dati e supporto informatico al Comando navale USA in Europa, alla VI flotta, alla V flotta e al Comando Centrale della marina USA (con sede in Bahrain, l’area di operativa di questo comando copre 7,5 milioni di miglia quadrate in un’area che comprende l’Africa orientale, il Medio Oriente e il sudovest dell’Asia; in quest’area opera la V flotta) e numerosi altri comandi Nato e congiunti nell’area del Mediterraneo e dell’Oceano Indiano. Napoli è divenuta così un centro importante nella strategia del Pentagono, ma qui si trovano anche una serie di importanti strutture della NATO, a partire dal quartier generale NATO delle forze alleate del Sud Europa, oggi denominato Joint Force Command Naples (JFC), la cui sede sarà presso la base Nato di Lago Patria, che già oggi ospita un centro di comunicazione della NATO. Nella nuova struttura lavorano circa 2500 persone e sorge su un’area di 183.780 mq a cui si aggiungono tre aree satelliti per un totale di altri 35.056 Esistono poi, nella provincia di Napoli, altre strutture di servizio (depositi, centri comunicazione, antenne radar) a Ischia, Lago Patria, Licola, Camaldoli, Bagnoli, Nisida, Agnano. Sebbene l’importanza di Napoli nella rete di basi USA nel mondo è dovuto principalmente al ruolo di comando per la marina, occorre ricordare che il suo porto è inserito nell’elenco degli undici porti italiani concessi per lo scalo di unità a propulsione nucleare e vi fanno regolarmente scalo navi e sommergibili delle flotte USA in transito nel Mediterraneo Il comandante delle forze navali USA in Europa, attualmente è l’ammiraglio Harry Ulrich, che ricopre anche il ruolo di comandante delle forze della NATO per il sud Europa (JFC-NATO). Suddivisione del mondo in aree di responsabilità dei comandi Usa; dal 2006 è in fase di attivazione Africom, con area di competenza l’intera Africa. Guerre & Pace 69 L’OMBRA DELLE BASI GAETA La base della VI flotta Dopo il trasferimento a Napoli del comando della VI Flotta e la sua fusione con il comando delle forze navali statunitensi in Europa (COMUSNAVEUR) avvenuto nel settembre 2005, il principale compito della base di Gaeta è quello di supportare il personale e le attività della nave ammiraglia della VI flotta, attualmente la USS Mount Whitney, ormeggiata presso il molo di San Antonio. Oggi la base di Gaeta risulta essere un distaccamento del comando di Napoli e le cui strutture sono situate sul Monte Orlando, dove oltre alla base logistica è presenta anche un deposito di carburante. Il personale militare statunitense impegnato a Gaeta è in costane diminuzione dal 2005 e la marina Usa stima che alla fine del processo di ristrutturazione si assesterà su circa 600 unità (rispetto alle 1900 iniziali). Questo dato non va letto come un processo di smilitarizzazione ma quanto come effetto della ristrutturazione e dell’accorpamento dei comandi in Europa, e dello sviluppo della tecnologia dei sistemi d’arma che richiedono sempre meno personale; ad esempio l’attuale nave ammiraglia, la USS Mount Whitney, opera oggi con metà del personale rispetto alla precedente nave ammiraglia. Inoltre una metà dell’attuale equipaggio non risulta come militare ma come marinai civili impiegati da Sealift Command. Altro importante compito del distaccamento di Gaeta è quello di fornire supporto alla scuola di telecomunicazione NATO (NCISS) situata in provincia di Latina. Gaeta inoltre rientra nell’elenco dei porti nucleari, infatti nella rada è previsto un punto di fonda, a circa 2 km dalla costa, per accogliere sommergibili o navi di superficie a propulsione nucleare. 70 Sopra, Gaeta: vista dall’alto dell’attracco della USS Mount Withney, nave ammiraglia della VI flotta. Sotto, Struttura del comando sul Monte Orlando. In ultimo, passaggio di consegne dall’ USS La Salle all’attuale nave ammiraglia della VI flotta SS Mount Withney. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI SIGONELLA Base dell’aviazione di marina USA Non esiste in Italia struttura militare come quella di Sigonella che assuma in sé tutte le contraddizioni del modello neoliberista che Washington e i suoi più fedeli alleati tentano d’imporre nel mondo. Guerre sanguinarie, il ricatto degli strumenti di sterminio di massa, militarizzazione del territorio e delle coscienze, violazione dei principi costituzionali, disprezzo per le libertà individuali, sperimentazione di strategie funzionali al nuovo ordine mondiale, sfruttamento intensivo delle risorse, sperpero di ricchezze e capitali, lotta armata alle migrazioni, potenziamento del controllo mafioso e sociale, contribuzione ai processi di distruzione ambientale, cancellazione dei diritti sindacali e precarizzazione del lavoro. Succede tutto questo nella più grande base aeronavale e nucleare USA del Mediterraneo, baricentro dell’ennesimo conflitto nord-sud, il più cruento, il più ideologico, il più imprevedibile per gli sviluppi futuri internazionali. Ogni operazione bellica degli ultimi trent’anni è stata sostenuta dalla base che sorge nel cuore della Sicilia: creata per contenere la presenza sovietica nel Mediterraneo, l’infrastruttura si è progressivamente trasformata nel trampolino di lancio delle missioni USA e NATO nei Balcani, in Africa e in Medio Oriente. Guerre per il petrolio innanzitutto, mascherate prima dalla “difesa della democrazia contro il comunismo”, poi dalla “lotta al terrorismo fondamentalista”. Una base che sta crescendo enormemente, che concentra decine di comandi e reparti tra i più importanti delle forze armate e dei servizi segreti statunitensi, che rappresenta il centro strategico di direzione e controllo delle operazioni nell’intero continente africano, nel Golfo Persico e nell’Oceano Indiano, che si erge a baluardo della “resistenza occidentale” contro i flussi di migranti provenienti proprio da quelle aree del globo lacerate dalle bombe ospitate nei suoi siti protetti. sorge invece a circa 10 miglia di distanza dalla prima stazione aeronavale e comprende le due zone militari operative degli Stati Uniti e della NATO, altri centri residenziali, commerciali e ricreativi, un “Air Terminal”, due piste di atterraggio di 2.500 metri, due aree di parcheggio in grado di garantire la "prontezza operativa" ad una ottantina tra aerei da trasporto, cacciabombardieri, pattugliatori ed elicotteri da combattimento, numerose infrastrutture per la A partire della seconda metà degli anni '60 la base di Sigonella è uno dei principali punti di rifornimento per le operazioni della VI Flotta nel Mediterraneo. Attualmente Sigonella è la principale installazione terrestre della Marina USA nella rotta aeronavale tra l’oceano Atlantico e l’area mediorientale e sicuramente quella che ha avuto la più rapida espansione al mondo. UNA CITTA’ USA NEL CUORE DELLA SICILIA Dal punto di vista prettamente logistico la base sorge nel territorio dei comuni di Lentini (Siracusa) e Motta Sant’Anastasia (Catania) e comprende due settori distinti NAS 1 e NAS 2 (Naval Air Station 1 e 2). Il primo ospita gli uffici amministrativi e di sicurezza, gli alloggi per gli ufficiali, alcuni servizi per il personale, differenti strutture di tipo ricreativo e sportivo; NAS 2 Guerre & Pace 71 L’OMBRA DELLE BASI sistemazione del personale, delle apparecchiature e dei materiali, i depositi munizioni, i sistemi radar e di intercettamento. Sempre a NAS 2 risiede il personale italiano del 41° Stormo antisommergibile e dell’88° gruppo di volo dell’Aeronautica militare. A circa 3 chilometri da NAS 2, accanto alla Strada Statale che collega Catania a Caltagirone e Gela, nel territorio del comune di Belpasso, è presente una terza area militare in cui sono stati realizzati un Centro trasmissioni ed una decina di depositi sotterranei atti ad ospitare periodicamente munizioni e sistemi d'arma. Oltre ai residence e alle caserme esistenti all’interno di NAS 1 e NAS 2 i militari USA e le loro famiglie occupano alloggi e unità abitative in una quindicina di comuni alle pendici dell’Etna e in una decina di comuni costieri, per un totale di 1.580 unità. Dal punto di vista operativo la base di Sigonella ospita più di una quarantina tra comandi operativi e di appoggio alla flotta integrati nella rete del Comando Navale USA in Europa. REPARTI OPERATIVI Tra i reparti schierati dagli Stati Uniti assume rilevanza il "VR-24", uno Squadrone di Supporto Logistico della Marina a cui sono assegnate le funzioni di trasporto, rifornimento e munizionamento delle unità della VI Flotta in transito nel Mediterraneo. Il “VR-24” ha in forza 20 velivoli, tra aerei ed elicotteri, che garantiscono il collegamento aereo tra la base di Sigonella, gli alti comandi USA di Napoli e le installazioni della Marina USA nello scacchiere mediterraneo. Il 24° Squadrone assicura infine il sostegno logistico alle operazioni di collegamento aereo con il molo e il deposito di combustibile e munizioni della vicina baia di Augusta, dove è presente un distaccamento dell’ US Navy, classificata in ambito militare quale "NATO facility": essa è utilizzata per lo stoccaggio delle munizioni e quale deposito POL (petrolio, nafta e lubrificanti) dalle forze navali della NATO e della VI Flotta USA (dal “terminal petrolifero” si diramano le condutture di un oleodotto che giunge alla base di Sigonella per la distribuzione del carburante ai velivoli aerei ivi schierati). circa 12 aerei P-3 "Orion" per il pattugliamento marittimo a lungo raggio. La missione originaria dello Squadrone è la guerra antisottomarino (ASW) e il minamento dei fondali. Oggi con la scomparsa dell’Unione Sovietica e lo smantellamento della sua flotta, il dispositivo "ASW" predisposto nel Mediterraneo è divenuto sproporzionato rispetto i potenziali “rischi” reali, così le operazioni della US Navy si sono sempre meno orientate al pattugliamento e sempre di più invece alle attività di IntelligenceSorveglianza-Riconoscimento (ISR) e vigilanza del traffico aeronavale e all’intervento “anti-terrorismo”. Le informazioni raccolte dagli “Orion” vengono trasmesse ai Centri di Controllo di Sigonella e Napoli, mentre le operazioni di pattugliamento sono dirette dal “Sigonella’s Tactical Support Center”. Classificato anche come “Nato Marittime Air Control Authority”, questo Centro di Supporto Tattico coordina le operazioni dei velivoli NATO ed in particolare dei velivoli Atlantic dell’Aeronautica italiana. Lo sforzo operativo del 25° Squadrone Antisommergibile USA si è fatto particolarmente dirompente con lo scoppio dei conflitti nei Balcani (i velivoli sono costantemente utilizzati nel “monitoraggio” di Bosnia-Herzegovina, Kosovo, Serbia e Montenegro). Con l’attacco all’Iraq un distaccamento del “VP-25” è stato insediato presso la base di Souda Bay (Creta) e il controllo marittimo in “funzione anti-terrorismo” è stato esteso dallo Stretto di Gibilterra al Mediterraneo orientale. Il 25° Squadrone è inoltre preposto al supporto delle esercitazioni navali USA e NATO e alla raccolta di informazioni sullo schieramento navale di Paesi “non amici” e dei mercantili e delle unità navali sospettate di trasportare migranti e merci “illegali”. Il contrasto dei flussi migratori è realizzato in accordo con i paesi rivieraschi dell’Alleanza Atlantica; sempre più frequentemente i dati d’intelligence dello Squadrone “antisommergibile” della US Navy sono “trasferiti” alle autorità militari italiane che poi intervengono per bloccare, dirottare o sequestrare navi cargo sospettate di trasportare migranti “clandestini”. I velivoli "Orion P-3C" in forza al “VP-25” possono essere armati con bombe nucleari di profondità del tipo B 57 con una potenza distruttiva sino a 20 kiloton o con siluri convenzionali antisottomarino MK-46. Per una missione di ricerca a bassa altitudine, il raggio operativo del velivolo è di 1.300 miglia marine con un'autonomia di volo superiore alle 10 ore. Per una missione ad alto livello, il raggio di azione dell'”Orion” può superare le 1.600 miglia nautiche con un'autonomia di circa 14 ore. Il carico standard di armi è di 4 missili e 4 bombe di profondità. Al 25° Squadrone sono inoltre assegnati alcuni elicotteri da combattimento antisottomarino SH-3D/H “Sea King”, anche questi dotati della doppia capacità di armamento, nucleare e convenzionale. Sigonella ospita poi il 25° Squadrone Antisommergibile "VP-25" della US Navy, dotato di 72 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI UNA PRESENZA RISOLUTIVA IN OGNI GUERRA Dal 1984 Sigonella ospita l’Helicopter Combat Support Squadron Four HC-4 “Black Stallions”, l’unico della Marina USA dotato di 9 elicotteri pesanti MH-53E “Sea Dragon” (i più grandi delle forze armate) per il trasporto di uomini, mezzi e munizioni. Lo squadrone assicura il sostegno logistico alle operazioni delle forze militari USA in Europa, Africa e Medio Oriente e garantisce il ponte aereo tra la base siciliana, le portaerei in navigazione nel Mediterraneo e nel Mar Rosso e la base avanzata del Marine Corp di Guam (Oceano Indiano). Oggi, in seguito alle ristrutturazioni della macchina bellica Usa il comando operativo è stato trasferito negli Usa (Norfolk, Virginia) e a Sigonella è rimasto un distaccamento che ospità le unità di volo destinate ad operare nell’area. L’HC-4 “Black Stallions” partecipa a tutte le esercitazioni navali USA e NATO nello scacchiere mediterraneo e non c’è stata crisi o evento bellico negli ultimi vent’anni in cui i suoi mezzi e i suoi uomini non abbiano interpretato un ruolo chiave (tra i principali 1994 Somalia, 1996 Liberia, 1997 Sierra Leone e Rep. Dem. Del Congo, 1999 Kosovo e Serbia, 2001 e 2002 Afghanista, 2003 Iraq). Durante la cosiddetta missione “Enduring Freedom”, nei tre mesi precedenti l’attacco all’Iraq, lo Squadrone di stanza a Sigonella ha assicurato il trasporto alle unità navali di oltre 1.500 passeggeri; nel febbraio 2003 una parte dei velivoli è stata direttamente trasferita nel teatro di guerra mediorientale. Inoltre ha operato nel dispositivo di “vigilanza” impegnato a Genova nel 2001 per il vertice G 8. ENTI DI COMANDO E CONTROLLO Sigonella è inoltre sede del Dipartimento per le Operazioni della Marina USA nel Mediterraneo; esso supporta le operazioni del Comando navale USA in Europa e dirige il traffico aereo di tutti i velivoli USA e le attività della speciale divisione preposta al controllo delle operazioni aeree e dei sistemi di comunicazione e di sicurezza elettronica della base; inoltre sovrintende le attività degli enti (ASCOMED e Command Post) che forniscono il supporto logistico ai voli di trasporto passeggeri e merci delle forze armate degli Stati Uniti. A questo dipartimento è infine subordinato il trasferimento di uomini e mezzi in tutto il bacino sino all’Africa meridionale, Israele, Norvegia e Gran Bretagna. Qui sorge anche la “Naval Computer and Telecommunication Station - NCTS Sicily” che fornisce l’assistenza alle telecomunicazioni e alle attività informatiche della Marina e dei reparti schierati nella base, nonché alle operazioni del Dipartimento della Difesa e delle forze armate USA e multinazionali. La “NCTS” ha il compito di decodificare e sistematizzare i dati raccolti dalle unità aeree e navali e di trasferirli ai differenti Comandi USA. Nella base è inoltre presente una divisione di telecomunicazione via satellite legata alla NAVCASMED (Naval Communications Area Master Station Mediterranean) di Napoli che in stretto collegamento con il centro sorto a Niscemi a fine anni ’80, provvede alle trasmissioni della Flotta USA e all'appoggio di altre comunicazioni tattiche nell'area del Mediterraneo e del Mar Rosso, garantendo tra l'altro il comando e il controllo delle forze sottomarine di attacco dotate di missili balistici. A Sigonella sorgono poi gli impianti di comunicazione del Centro Operativo di Controllo Aerei Antisommergibili della US Navy, abilitato alla raccolta ed alla elaborazione di tutte le informazioni fornite dagli aerei da pattugliamento marittimo delle forze armate statunitensi ed alleate. L’ASWOC di Sigonella svolge contemporaneamente il ruolo di Autorità di Controllo Marittimo Arereo dell’Alleanza Atlantica e di Centro di Supporto Tattico per il Comando Sorveglianza e Riconoscimento Marittimo delle Forze armate statunitensi, per la VI Flotta e per i velivoli NATO assegnati al Comando delle forze aeree del Mediterraneo. Da trent’anni a questa parte il Centro di Supporto Tattico di Sigonella svolge una funzione centrale in tutte le missioni USA ed alleate; in particolare va segnalato il suo contributo alle operazioni di pattugliamento aereo durante il conflitto in Kosovo quando il velivolo P-3C “Orion” fu utilizzato per la prima volta nella storia, oltre che alla “protezione” delle unità navali statunitensi schierate nel Mare Adriatico, in operazioni di bombardamento aereo. Dal gennaio 1991 è stato distaccato a Sigonella un reparto d’intelligence e data link della Marina USA che dipende dal Comando di San Diego (California). Nonostante siano 4 i distaccamenti di questo tipo esistenti a livello mondiale, quello di Sigonella è l’unico in assetto operativo. A Sigonella è stato infine installato il “JMAST”, un sistema automatico C4I (Comando, Controllo, Comunicazione, Calcolo e Intelligence) per il controllo video ed elaborazione dati su tutte le operazioni delle forze navali e dei Comandi navali USA. Il JMAST della base siciliana è l’unico terminale operativo in Europa. INFINE LA LOGISTICA Esistono altri reparti specializzati che fanno di Sigonella il “baricentro” di tutte le operazioni strategiche USA nel Mediterraneo. Presso le infrastrutture della base sono stati assegnati infatti un Battaglione Costruzioni; un Battaglione di genieri della Marina USA a cui è attribuito il compito di preparare le spiagge rimuovendo gli eventuali ostacoli in caso di operazioni da sbarco; una unità specializzata nella manutenzione delle testate nucleari; l’EODMU 8, che ha lo scopo di identificare la presenza di mine, cariche di profondità e armi convenzionali e nucleari inesplose Guerre & Pace 73 L’OMBRA DELLE BASI e che rappresentano una minaccia alle unità e al personale della Marina; il MOMAU 5, un’unità mobile di assemblaggio mine, bombe antisottomarino ed antinave MK-63 per le operazioni di guerra e le esercitazioni del Comando USA, della VI Flotta e della NATO; un centro meteorologico ed oceanografico. A Sigonella è inoltre operativa la NEPMU-7, unità di supporto sanitario della VI Flotta e del Corpo dei Marine e di individuazione, prevenzione e cura di eventuali attacchi con agenti chimici e biologici. Dal 1993 è in funzione a NAS 1 l’ospedale, strutture veterinarie e dentistiche, a cui viene affidata anche la cura del personale della Marina in forza sulle unità di stanza nel Mediterraneo. Nel 1998 è stata attivata un’unità del centro addestrativo per il personale superiore predisposto ai velivoli HC-4 ed EA-6B “Prowler”, utilizzato per la guerra elettronica. Sigonella ospita inoltre il Dipartimento per la manutenzione intermedia dei velivoli aerei in grado di eseguire i complessi lavori di riparazione dei velivoli imbarcati sulle unità della V e VI Flotta USA e delle marine alleate della NATO. L’AIMD di Sigonella è anche utilizzato per la riparazione delle componenti aeree e dei motori dei caccia da guerra dipendenti dal Comando centrale europeo delle forze armate USA. Il 30 marzo 2004 è stato attivato a Sigonella il “Defense Distribution Depot”. Esso ha sede presso il magazzino di rifornimento della base ed è uno dei 23 Centri di Distribuzione della Difesa realizzati tra Stati Uniti, Europa e Giappone; il deposito è a disposizione delle unità navali, dei caccia da guerra e degli squadroni aerei che opereranno nel Mediterraneo. Come ha spiegato il generale Kathleen M. Gainey, comandante del DDC (Defense Distribution Command) da cui dipende il deposito di Sigonella, i servizi e i beni saranno messi a disposizione anche dei reparti dell’Aeronautica e dell’Esercito USA che si troveranno a transitare nell’area. ”La scelta di realizzare il DDD nella base siciliana – ha spiegato Kathleen M. Gainey – si deve proprio al fatto che si prevede a medio termine una ulteriore espansione delle sue funzioni logistiche”. un centro religioso, la nuova centrale telefonica; il centro polifunzionale ricreativo dotato di due sale teatrali e cinematografiche, biblioteca, piscina, sauna e bowling; un edificio polivalente con annesso ristorante e club privato, un ampio asilo nido e scuola materna, impianti sportivi e parco giochi per i figli del personale USA). l’ampliamento della pista di volo e la creazione di 1.100 nuovi alloggi per i reparti dislocati in Sicilia. Inoltre oggi è attivo il progetto MEGA IV (costo previsto 59,5 milioni di euro e fine lavori per il 2008), che prevede la realizzazione di una scuola situata all’interno della base NAS1 (la zona adibita principalmente a centro residenziale per i militari USA) e di altri sette edifici, prevalentemente uffici ed officine, nella base operativa NAS2 (lo scalo aeroportuale con i depositi di armi e gli hangar per i cacciabombardieri e velivoli pattugliatori.). Inoltre nell’ultimo triennio sono stati costruiti due residence nei territori dei comuni di Belpasso e Mineo per un totale di altri 930 alloggi. I GLOBAL HAWK... I Global Hawk sono velivoli senza pilota di ultima generazione il cui compito è sorvegliare e perlustrare vaste aree geografiche mondiali. Per questo compito sin dalla fine degli anni ’50 le forze aeree USA hanno utilizzato gli aerei-spia U-2 operativi da varie basi nel mondo tra cui Sigonella. Più recentemente gli U-2 hanno assunto un ruolo centrale per coordinare le operazioni di guerra contro l’Iraq nel 1991 e contro la Serbia nel 1999. “Gli U-2 – scrivono gli analisti statunitensi - hanno fornito durante l’Operazione Desert Storm il 30% di tutti i dati di intelligence, il 50% delle immagini fotografiche ed il 90% delle informazioni relative agli obiettivi terrestri nemici. Successivamente in Kosovo gli U-2 hanno fornito più dell’80% delle immagini necessarie per i bombardamenti aerei alleati contro la Serbia. UNA BASE IN ESPANSIONE PERMANENTE Dalla fine della guerra fredda Sigonella è in espansione; dopo i piani MEGA e MEGA II alla fine del 2003 ha preso avvio il progetto MEGA III; che vede la base è al centro del secondo programma di investimenti nel mondo da parte della marina statunitense, con una spesa preventivata di 675 milioni di dollari. Il progetto, che dovrebbe concludersi entro la fine del 2007, prevede il potenziamento delle infrastrutture (edifici amministrativi, uffici, centri comunitari, ricreativi e sportivi, ristoranti e pub, circoli giovanili, un ufficio postale, i locali dove ospitare agenzie di viaggio e la sede della Croce Rossa, una clinica dentistica ed una veterinaria, una nuova centrale a gas, 74 Nel XXI secolo il Global Hawk (RQ-A4) è destinato a sostituire gli U-2, accrescendone le capacità operative”. Quest’ultimo velivolo è infatti dotato di maggiore autonomia e raggio di azione e di migliorate capacità d’intelligence; inoltre presenta i vantaggi di essere teleguidato e di poter operare sfuggendo al controllo dei radar avversari; le sue caratteristiche tecniche non sono comparabili con nessuno dei sistemi ospitati negli arsenali di morte: il Global Hawk può volare a circa 600 chilometri all’ora a quote di oltre Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI 20.000 metri; il velivolo è in grado di monitorare un'area di 103,600 chilometri quadrati grazie ad un potentissimo radar e all’utilizzo di telecamere a bande infrarosse. Le immagini registrate vengono poi trasmesse per via satellitare ai comandi terrestri. L’autonomia di volo di questo aereo senza pilota è invidiabile: 36 ore con un solo pieno di carburante. La sua rotta è fissata da mappe predeterminate, un po’ come accade con i missili da crociera Cruise, ma gli operatori da terra possono cambiare le missioni in qualsiasi momento. I Global Hawk della marina saranno dislocati in cinque siti: Kaneohe, Hawaii; Jacksonville, Florida; Diego Garcia, Oceano Indiano; Kadena, Okinawa e, naturalmente, Sigonella, Italia. La previsione di spesa per realizzare le strutture del centro operativo a Sigonella è di 26 milioni di dollari, 2/3 dei quali necessari per la realizzazione del complesso vero e proprio; il progetto per il nuovo megacomplesso per i Global Hawk prevede l’utilizzazione di una superficie totale di 5,700 metri quadrati di terreno dove costruire un nuovo hangar con quattro sezioni indipendenti per i velivoli. Il completamento dei lavori è previsto entro il marzo 200961. …E LE ATOMICHE SICILIANE Sigonella ricopre un ruolo fondamentale nello stoccaggio e nella manutenzione di testate e munizioni per le unità della VI flotta ed i reparti dell’aviazione USA e NATO. Nella base opera infatti il “Weapons Department” con 101 militari che movimentano annualmente armi per 80 milioni di libbre (una libbra corrisponde a 0,45 kg circa). L’infrastruttura è classificata dai vertici militari statunitensi quale "Special Ammunitions Depot" (“deposito di munizioni speciali”), in quanto è a Sigonella che viene effettuato lo stoccaggio delle bombe nucleari del tipo B 57 utilizzate per la guerra antisottomarino. Essa è l'unica base aeronavale degli USA nel Mediterraneo preposta a questo scopo e le bombe antisom custodite sono stimate intorno alle 100 61 I dati sono tratti da due documenti statunitensi citati da www.terrelibere.org (Sigonella base operativa dei Global Hawk, Antonio Mazzeo, 05.09.07) unità. Esse vengono messe a disposizione oltre che ai P-3C “Orion” della US Navy, anche agli aerei britannici da pattugliamento marittimo "Nimrod MR.2" che operano nel bacino in ambito NATO. Una ventina circa di queste testate nucleari sono destinate ai velivoli "Atlantic" debitamente preposti, in forza al 41° Stormo dell'Aeronautica Italiana che come abbiamo visto ha sede presso l’aeroporto di Sigonella. Il numero delle testate nucleari ospitate a Sigonella cresce in particolari periodi di esercitazione o di crisi internazionale, quando la base aeronavale funziona da centro di manutenzione per le armi nucleari destinate alle unità navali della VI Flotta e ai velivoli aerei imbarcati. Periodicamente vengono dislocate a Sigonella anche le testate nucleari del tipo B 43, B 61 e B 83 con potenza distruttiva variabile da 1 kiloton a 1,45 megaton, in dotazione ai caccia dell'US Air Force operativi nelle basi tedesche e britanniche e presso la base aerea di Aviano (Pordenone) e che vengono periodicamente trasferiti nel Mediterraneo. Ciononostante le autorità militari statunitensi ed italiane continuano a mantenere il più assoluto riserbo sul numero totale di ordigni atomici ospitati a Sigonella, giungendo perfino a negarne l’esistenza davanti ai parlamentari italiani in visita presso le installazioni della Stazione aeronavale siciliana. Inoltre verso Sigonella è stato avviato il trasferimento della componente dei velivoli anti-sommergibile dall’Aeronautica militare italiana sino ad allora ospitata presso l’aeroporto di Cagliari-Elmas. È opportuno rammentare in proposito che i pattugliatori marittimi “Atlantic”, come i “cugini” P-3C “Orion”, hanno oramai assunto un ruolo fondamentale nelle operazioni di identificazione e contenimento di navi e mercantili sospettate di trasportare migranti “illegali”. E SIGONELLA VA ALLA GUERRA… Con sempre maggiore frequenza nella base siciliana la US Navy rischiera a rotazione per periodi mediolunghi alcuni dei suoi principali squadroni stanziati negli Stati Uniti, per partecipare a cicli di esercitazione nell’area mediterranea e mediorientale o direttamente ad operazioni belliche. Inoltre sono periodicamente dislocati gli aerei cisterna KC-130 e KC-135 utilizzati dagli Stati Uniti per il rifornimento in volo dei velivoli in transito nel Mediterraneo centrale; in più occasioni è stata registrata la presenza degli aerei radar AWACS Boeing E-3A "Sentry" della Forza NATO di “Allarme in volo a distanza” e degli aerei da ricognizione "U2" delle forze aeree USA che raggiungono un'altezza in quota di 21.336 metri ed un'autonomia di volo di 11.265 chilometri. La base fornisce anche il supporto tecnicologistico ai velivoli antisommergibile dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica durante le loro operazioni nell’area ed in particolare ai pattugliatori “Nimrod MR.2” della Royal Air Force (RAF) britannica. Guerre & Pace 75 L’OMBRA DELLE BASI Dal punto di vista numerico, gli aerei stabilmente schierati a Sigonella sono una cinquantina; nei periodi di crisi i velivoli possono raggiungere però le 85-100 unità. Di norma il solo Comando dell'Aviazione di Marina USA compie da Sigonella 125 voli la settimana, tra cui 2 voli commerciali che collegano direttamente la base siciliana con gli Stati Uniti. Durante la recente Operazione “Iraqi Freedom” è stato calcolato che a NAS 2 siano atterrati 12.000 aerei con oltre 29.000 passeggeri a bordo. Buona parte del traffico era diretto alle basi statunitensi in Kuwait e Bahrein e alle basi greche di Souda Bay e di Akrotiri dove hanno stazionato per lungo tempo le portaerei “Truman” e “Roosevelt”. Sempre nei giorni dei bombardamenti aerei, a Sigonella si sono realizzati i rifornimenti dei velivoli che giungevano dalle basi statunitensi e che erano diretti contro obiettivi civili e militari in Iraq. La locale divisione per il rifornimento carburanti ha fornito oltre 200.000 galloni di carburante al giorno contro una media in periodi “normali” di 60-90.000 galloni. Buona parte del carburante è stato trasferito negli aerei cisterna KC-135 operativi nel rifornimento in volo dei cacciabombardieri. Secondo fonti ufficiali della Marina USA, nel febbraio 2003 il “Weapons Department” di Sigonella ha movimentato 1.905.000 tonnellate di munizioni ed esplosivi fornendo perfino centinaia di missili alle unità di superficie impegnate nello scacchiere di guerra. Un suo distaccamento ha anche operato direttamente nel Golfo Persico per coordinare l’installazione di 122 missili Tomahawk. Un’escalation delle operazioni e della presenza militare si è anche registrata nella vicina baia di Augusta dove in meno di 4 mesi hanno attraccato 98 unità navali USA con oltre 11.000 tonnellate di “merci” movimentate (annualmente sono 155 circa le unità che attraccano ad Augusta con una movimentazione di circa 7.600 tonnellate). Mentre la Sicilia orientale assumeva il ruolo di trampolino avanzato delle operazioni di morte delle forze armate USA in Medio Oriente, governo ed autorità militari italiane si ostinavano a negare qualsivoglia coinvolgimento del nostro Paese. Nonostante i dati sul numero di voli e sulle armi caricate a Sigonella venissero settimanalmente pubblicati nel bollettino interno della Naval Air Station 76 The Signature, il comandante del 41° Stormo Antisom dell'aviazione militare italiana, colonnello Giorgio Russo, non perdeva l’opportunità di dichiarare alla stampa che “condizioni ed attività nella base” si mantenevano “normali”. SICUREZZA E ORDINE PUBBLICO Dal punto di vista delle attività finalizzate alla sicurezza e alla protezione delle infrastrutture che giuridicamente dovrebbero essere riservate al personale italiano, siamo di fronte invece ad una preoccupante involuzione. Nel luglio del 1997 il parlamentare di Rifondazione Comunista Russo Spena aveva denunciato l’implementazione di un programma di osservazione e perlustrazione in funzione di ordine pubblico dei "dintorni" della base di Sigonella con l’utilizzo esclusivo di personale statunitense. Il programma comprendeva tra l’altro anche la “segnalazione” e “l’archiviazione di notizie di incidenti, furti e reati in genere”: concretamente era stato creato un vero e proprio “osservatorio” con relativa centrale telefonica a cui indirizzare le segnalazioni. Il programma ha rappresentato una vera e propria rottura del monopolio della sicurezza da parte dello Stato italiano sul territorio nazionale, principio sancito dalla Costituzione italiana (e qualcosa di moto simile avviene in Sardegna presso gli impianti di La Maddalena). Il processo è ulteriormente degenerato con gli attentati dell’11 settembre 2001 ed il varo della strategia USA della cosiddetta “guerra preventiva”. Nelle strade che si diramano esternamente alla base, alle vetture di Carabinieri e Polizia di Stato si sono affiancate le sempre più numerose “Alfa Romeo 166” di colore bianco della Polizia Militare statunitense, che come chiarito dallo stesso comando italiano di Sigonella, “possono fermare individui o mezzi ritenuti sospetti se in prossimità di sedi USA, anche perciò nei pressi dei villaggi-residence presenti nei diversi comuni vicini a Sigonella”. “In questo caso – si aggiunge – gli agenti statunitensi devono immediatamente fare intervenire le forze dell’ordine italiane che hanno competenza d’azione”. Dal 2004 al personale di sicurezza della Marina USA è stato infine delegato l’addestramento sulle “tecniche di controllo” dei militari italiani in forza presso la base aerea italiana. A riprova dell’extraterritorialità di cui gode la base di Sigonella va poi segnalato che segretamente a fine 2003 è stato predisposto un nuovo “Accordo Tecnico” tra Italia e Stati Uniti per regolare “l’utilizzo delle installazioni militari di Sigonella”. Così ancora una volta il Parlamento è stato espropriato dei suoi poteri di controllo ed indirizzo della politica internazionale e di difesa. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI LA MADDALENA Una base in via di… trasferimento Stando alle comunicazioni che sono circolate da fine 2005 all’inizio del 2007 sembra che la base USA a La Maddalena sia avviata verso la chiusura; nonostante questo ci sembra comunque riportarne qui una descrizione per ricordare cos’è (stata?) la base, quali compiti ha assolto in questi anni e qual è, tuttora, la missione dei sommergibili della VI flotta. Per prima cosa è importante ricordare che la chiusura della base, prevista per il 29 febbraio 2008, è il frutto delle lotte e delle costanti mobilitazioni degli abitanti e dei movimenti sardi e non di una graziosa concessione statunitense. E’ quindi altrettanto importante ricordare che la chiusura della base non significa la scomparsa dei sottomarini della VI flotta dal Mediterraneo, infatti ricordiamo come molte comunicazioni delle agenzie, che a fine 2005 comunicavano la prossima smobilitazione della base, parlavano di trasferimento dei sottomarini fuori dal territorio nazionale e non di ritiro dal Mediterraneo. Anche a fronte delle notizie sui progetti di ampliamento della base circolati negli anni 2004 e 2005, sarebbe ingenuo interpretare la chiusura de La Maddalena come una scelta di diminuzione della presenza militare statunitense; molto più probabile che il bisogno di ampliamento della base e, d’altro canto, l’aumento delle proteste abbia portato il Pentagono, all’interno dei piani di ristrutturazione della sua presenza militare in Europa (e nel mondo) in atto dai primi anni 2000, a studiare una diversa dislocazione dei suoi sottomarini. In attesa di scoprire dove verrà ricollocata la nuova base appoggio per i sommergibili statunitensi, aspettiamo la prima fase della chiusura della base, prevista per il 1° ottobre 2007, quando la nave appoggio USS Emory Land dovrebbe lasciare definitivamente la Sardegna per tornare a casa. UN APPRODO PER SOMMERGIBILI Attualmente sono presenti nella base di Santo Stefano (La Maddalena) due diverse strutture: gli sterminati depositi sotterranei di carburanti, armi e munizionamento navale della NATO e la base della US NAVY per operazioni d’appoggio dei sottomarini a propulsione nucleare dotati di testate atomiche La U.S. Navy ha ottenuto la base nell’ambito di una serie di accordi tuttora segreti, mai conosciuti né ratificati dal Parlamento. Ai primi protocolli stipulati alla metà degli anni cinquanta, che già garantivano agli Stati Uniti nell’uso delle basi in Italia una libertà valutata "insolita (unusual)" dagli stessi ministri Usa, fa seguito, l’accordo stipulato nel 1972 dal governo Andreotti Tra il luglio e l’agosto del 1972, approdano a La Maddalena la nave appoggio Fulton e i sommergibili della 69 Task Force della VI flotta; il 15 settembre il portavoce del Comando della Marina Militare degli Stati Uniti comunica notizia della nuova funzione strategica dell’isola: base Usa per sommergibili a propulsione nucleare. LA BASE USS Emory Land mentre “accudisce” alcuni sommergibili Guerre & Pace La “base” della U.S. Navy nell’isola di Santo Stefano nasce come un punto di approdo per nave appoggio sommergibili (attualmente la US Lemory Land); in seguito, con operazioni di volgare abusivismo, gli statunitensi ritennero necessario avere a terra 77 L’OMBRA DELLE BASI servizi tecnologici e di benessere con la scandalosa complicità dei governi italiani e, sempre per non potere o volere chiamarla “base”, si risolse di ricorrere a prefabbricati, baracche, containers, bettoline ed altri manufatti precari. Il fulcro della base è costituito dalla nave-appoggioofficina, attualmente la USS Emory Land, alla quale si affiancano gli i sommergibili d’attacco, classe Los Angeles, a propulsione nucleare della 69 Task Force della VI flotta USA. «Le navi-appoggio sono officine mobili e basi di rifornimento per sommergibili e navi soccorso sommergibili.(..) Principale funzione è riparare (..), riparazione sistema propulsione, sistema lancio, revisione missili(..). Fornisce nafta, olio lubrificante, composizione d’acqua per reattori nucleari, siluri, missili anti-sommergibile(..) Possiede una tale facilità di movimento che, con breve preavviso, è capace di raggiungere qualsiasi posizione geografica avanzata a seconda delle situazioni strategiche.» (opuscolo promozionale della nave-appoggio Orion) I sottomarini da caccia per la guerra a navi e sommergibili sono dotati di armamento nucleare, siluri, mine, missili anti-nave e anti-aereo. Dal 1984, con il dispiegamento a bordo di Cruise Tomahawk acquistano la capacità di sferrare l’attacco nucleare in profondità contro obiettivi a terra nel raggio di tremila chilometri e, quindi, la funzione di deterrenza nucleare strategica. All’inizio degli anni ’90 l’intera flotta di sommergibili statunitensi comprendeva 22 sottomarini classe Sturgeon, con capacità di 12 missili da crociera Tomahawk, e 56 classe Los Angeles armati con 31 Tomahawk. Nella stiva delle navi appoggio che di volta in volta vengono dislocate a S.Stefano sono stoccati 34 missili Tomahawk. Il missile da crociera Tomahawk, nella versione lanciabile dal mare, ha una gittata di tremila chilometri e può portare una testata nucleare di 150 kilotoni. Anche nella versione con testata convenzionale il missile trasporta, come penetratore, 750 libbre di uranio impoverito. Il carico nucleare in dotazione ai sottomarini e alla 78 nave-appoggio è stivato a bordo, in condizioni di massimo rischio, anziché essere custodito a terra, in condizioni di relativa sicurezza, nell’adiacente deposito Nato di armi e munizioni. Il motivo è semplice: se fossero stoccati nel deposito sottoroccia, struttura Nato in territorio italiano, gli Usa perderebbero la piena "sovranità" e le armi passerebbero sotto il controllo e la gestione del Paese ospitante. Il molo di attracco della nave-officina con la sua muta di sottomarini, in assurda noncuranza delle più elementari misure di cautela, è al centro di una ridottissima fascia costiera di poche centinaia di metri su cui gravitano due impianti dove si maneggiano e si custodiscono esplosivi e carburanti. La banchina di sosta è lo stesso pontile del gigantesco deposito armi e munizioni Nato, a sua volta paurosamente vicino al megadeposito Nato di carburanti. Si determinano le condizioni previste e vietate dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), l’organismo plurinazionale cui aderiscono gran parte degli Stati, Italia e USA compresi; l’Agenzia, infatti, nelle norme che detta per l’uso dei porti da parte di natanti a propulsione o a carico nucleare, stabilisce quanto è anche alla portata del comune buonsenso: l’approdo non deve stare nelle vicinanze di impianti esplodenti o infiammabili. NUOVI COMPITI Con la dotazione ai sommergibili dei missili Tomahawk essi hanno acquisito una doppia funzione; mantengono quella tradizionale antisommergibile e acquisiscono la capacità di proiezione contro terra. Cioè la originaria guerra subacquea viene integrata con la guerra contro ciò che sta in superficie, città e popolazioni. Si registra, così, un significativo salto di qualità che oggettivamente trascina anche il paese ospite nella corresponsabilità di scelte belliche operate dal governo della forza armata ospitata. La prima funzione venne svolta sino a quando gli antagonisti sovietici non abbandonarono il Mediterraneo nel 1990. Da quel momento l’ 8° gruppo iniziò a svolgere solo la seconda funzione “contro Terra” (nel 1986 contro la Libia, nel 1991 contro l’Iraq e poi in Enduring Freedom) Questa nuova configurazione operativa esalta la fisionomia più problematica della presenza statunitense di S. Stefano: la unilateralità decisionale ed operativa. L’originaria funzione antisom poteva avere, comunque, un significato di cointeresse tra USA e Europa nel controllo del comune avversario sovietico; la nuova funzione, per come è stata sinora svolta e per come si può prevedere che continuerà ad essere svolta, risulta, invece, completamente avulsa da qualsiasi contesto di compartecipazione d’interesse bilaterale e/o d’interesse di alleanze più vaste. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI SOLBIATE OLONA – MILANO Comando forze di reazione rapida della NATO Secondo il nuovo concetto operativo della NATO, gli eserciti devono essere in grado di schierarsi rapidamente in aree di crisi (nei territori delle nazioni appartenenti alla NATO o fuori di essi) ed essere capaci di autosostenersi. Uno degli aspetti principali di questo processo per quanto riguarda la ristrutturazione delle forze armate è la creazione di comandi che siano in grado di rischiararsi rapidamente e assumere il controllo sul campo delle forze assegnate. Sono nati così i sei comandi di corpo d’armata a elevata prontezza operativa che le nazioni hanno reso disponibili alla NATO. Il comando di corpo d’armata di Solbiate Olona NRDC-IT è uno dei questi sei comandi (gli altri sono localizzati a Strasburgo, Francia; Istanbul, Turchia; Valencia, Spagna; Munster e Rheindalen, Germania). Esso ha ricevuto la certificazione della NATO nel dicembre 2002, dimostrandosi in grado di operare in 50 diverse aree del mondo. Secondo gli accordi con la Nato è previsto che il Comando possa essere impiegato, previa autorizzazione, anche in operazioni a guida europea. A Solbiate non sono presenti carri armati, esplosivi e missili; nella caserma sono presenti uomini e strutture logistiche e di comunicazione in grado di prendere il comando di un corpo di spedizione. Caratteristica di questo comando è quella di essere proiettabile in ogni parte del mondo in soli 30 giorni e di gestire quattro divisioni (60.000 uomini). Il comando è costituito da circa 410 ufficiali e sottufficiali dello Stato Maggiore, provenienti da undici paesi facenti parte della NATO, e da due unità, una di supporto logistico, con sede a Solbiate Olona e l’altra, per le trasmissioni, con sede a Milano, per un totale di circa 2200 uomini. Il Comando può attingere le “sue” truppe sia da forze nazionali che internazionali. Per quanto riguarda le forze nazionali il comando può attingere unità che possono arrivare a costituire una Divisione, composta da quattro Brigate operative (due meccanizzate, Sassari e Aosta; una aerotrasportata, Friuli; e una alpina, Julia), più eventuali altre due Brigate di supporto logistico. Le forze internazionali sono messe a disposizione dai rispettivi paesi, ed il comando può impiegare fino a tre divisioni. Il sistema di comando controllo e comunicazione a disposizione del Comando è suddiviso in due strutture, una fissa alla base e l’altra mobile, da impiegare sul teatro operativo. Il sistema da impiegare sul teatro operativo è dotato di sistemi satellitari con accesso sia al sistema militare SICRAL che ai sistemi civili. Le strutture di NRDC-IT sono situate nella caserma Ugo Marra e sebbene non vi siano presenti direttamente grandi sistemi d’arma questo non vuol dire che non vi siano già problemi di spazio; infatti sebbene all’inizio del 2004 sia stata completata una nuova palazzina comando la caserma ha bisogno di ulteriori spazi soprattutto per soddisfare le esigenze abitative dei militari presenti. A fine 2005 ha preso quindi il via il progetto del Villaggio Monterosa, dal costo preventivato di circa 54,5 milioni di euro e che dovrebbe concludersi nel marzo 2009. Si tratti di un villaggio militare, che prevede la realizzazione di 227 villette per 330mila mq, campi da calcio, tennis, basket e piscina, una scuola, un supermercato e due zone a verde, in previsione di future espansioni (non si sa mai). Il maggiore impegno del Comando di Solbiate Olona è stato in Afghanistan dove ha assunto il comando della missione ISAF dall’agosto 2005 al maggio 2006; mentre attualmente (dal 1° luglio 2007 fino al 15 gennaio 2008) il NRDC-IT sarà impegnato nel comando della componente terrestre (Land component command, Lcc) della Forza di risposta della Nato (Nato response force, Nrf). TARANTO Un porto per tre bandiere (Italia, Nato e Usa) L’ascesa di Taranto a principale base nel Mediterraneo incomincia nel settembre 1998 con la decisione del Pentagono di installare a Taranto il sistema USA di comunicazione satellitare e di spionaggio telematico C4I. La decisione di collegare direttamente con il sistema statunitense C4I la base navale di Taranto al comando della marina militare negli Stati Uniti è stata presa con un accordo fra il governo USA e il governo D’Alema. Allora come oggi non ci furono comunicazioni in merito, né al Parlamento né alle commissioni difesa (l’installazione del C4I fu rivelata invece pubblicamente da Peacelink nel 2000). Oggi sulle isole Cheradi, di fronte a Taranto, c’è già un’antenna di 120 metri che collega la base navale con il Centro della marina USA per la “interoperabilità dei sistemi tattici” situato a San Diego in California. A Taranto è stato così installato un centro di comando e spionaggio del Pentagono (l’unico nell’area mediterranea) che, collegato a uno analogo nel Bahrain, viene usato anche per le operazioni militari in Iraq. Guerre & Pace 79 L’OMBRA DELLE BASI Nell’ottobre 2002 la base di Chiapporo (Mar Grande) – ancora non pienamente operativa – diviene comando NATO, e in quanto tale è destinata ad ospitare il Quartier generale USA della forza di pronto intervento marittimo. Con l’inaugurazione della nuova base navale di Chiapporo nel Mar Grande Taranto ha ora non una ma due basi militari: accanto alla nuova, che si estende su 60 ettari (la nuova base comprende 20 banchine, un eliporto, chilometri di strade, un parcheggio, una mensa e una sorta di cittadella in grado di ospitare 4000 persone; quanto alle aree a mare al progetto originario si aggiungono due darsene, quattro pontili, due banchine e impianti di depurazione) resta quella del Mar Piccolo col suo arsenale, la scuola e la stazione sommergibili, anch’essa già avviata all’ampliamento e alla modernizzazione, e un deposito sotterraneo di rifornimento dell’aeronautica. La costruzione della base, integrata con quella aerea della marina italiana a Grottaglie (pochi chilometri da Taranto) è venuta a costare oltre 200 milioni di euro, di cui un terzo a carico della NATO. Si tratta quindi di un porto militare che sarà usato, oltre che dalla marina italiana, da quelle degli altri paesi NATO, soprattutto dalla US Navy. A Taranto ha sede anche il COMITMARFOR, il comando italiano delle forze marittime, che nel 2003 è divenuto pienamente operativo come quartier generale della Forza marittima ad alta prontezza operativa, uno dei tre comandi marittimi della NATO. Taranto ha quindi tutti i requisiti per essere sede di una terza base navale, destinata ad ospitare forze della marina USA. Inoltre, secondo altre fonti, Tarando dovrebbe essere destinata ad ospitare anche la stazione Echelon – il sistema globale a controllo statunitense in grado di intercettare qualunque tipo di comunicazione – fino a poco tempo fa collocata presso la base statunitense di San Vito dei Normanni (Brindisi) Taranto sta diventando così uno dei principali trampolini della “proiezione di potenza” USA verso sud ed est. POGGIO RENATICO - FERRARA il comando operativo dell’aeronautica per l’Italia e i Balcani A Poggio Renatico (vicino a Ferrara) ha sede il comando operativo delle forze aeree nazionali (COFA) e il 5° centro operativo aereo combinato della NATO per le operazioni NATO in Italia, Slovenia, Ungheria e Balcani (CAOC5). Il COFA è l’Alto Comando che pianifica e coordina tutte le operazioni aeree, responsabile nei confronti del governo italiano e della NATO della difesa e della sicurezza dello spazio aereo nazionale. Inoltre dal comandante del COFA dipendono direttamente i Reparti Operativi Autonomi (ROA) dislocati nei diversi teatri operativi. Il comandante del COFA è un ufficiale generale dell’aeronautica con “doppio berretto”, in quanto è anche comandante del CAOC5; pertanto rappresenta l’elemento di congiunzione tra la struttura nazionale e quella NATO. COFA e COAC 5 sono il punto di conciliazione delle catene di comando e controllo nazionale e NATO e coordinano le Forze Aree in caso di crisi/guerra; i loro compiti vanno dalla difesa aerea, alle operazioni di attacco, alla gestione della difesa missilistica di teatro; inoltre, esercitazioni aeree, addestramento dei reparti di volo italiani, operazioni di ricerca e soccorso (SAR). Il COFA è chiamato a gestire e ad impiegare i mezzi dell’Aeronautica Militare per ogni specifica esigenza operativa. Esso svolge un ruolo chiave 80 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI nell’organizzazione della forza armata con la responsabilità di garantire la difesa e la sicurezza sia dello spazio aereo italiano che di quello di pertinenza NATO. Il trasferimento operativo da Vicenza cominciò con la stazione NATO nel 2001 e poi nel 2002 con il COFA; la scelta di Poggio Renatico è stata motivata in quanto era già presente una importante installazione NATO (un sistema radar della NATO, inserito nella catena Nadge dell’Alleanza che proteggeva gli spazi della Turchia e della Norvegia) e, con finanziamenti della Alleanza Atlantica, si è potuto aggiungere una sede protetta da utilizzare e condividere da entità nazionali e NATO. Dalla prima metà degli anni ’90, in funzione delle nuove strategie della NATO volte più a SUD-EST, lo stato maggiore dell’aeronautica costruisce nella pianura ferrarese un grande e unico centro di comando e controllo di tutte le operazioni aeree (incluse quelle di soccorso). Il bunker (struttura stagna) è a prova di atomica e posto su tre piani interrati, con una sala operativa con una trentina di computer. Nasce così il COFA dove confluiscono tutti i segnali radar ubicati sul territorio nazionale, ma anche quelli degli aerei si sorveglianza della NATO (Awacs) cioè tutto quello che entra ed esce o sorvola lo spazio aereo nazionale (civile e militare). La fase di ammodernamento del COFA e COAC 5 (5° centro operativo aereo combinato della NATO per le operazioni NATO in Italia, Slovenia e Ungheria) è continuata sino al giugno 2004 per garantire l’alloggio delle circa 1600 persone impegnate nella base. Il bunker ha subito negli scorsi anni lavori di riconfigurazione degli spazi interni, per l’installazione di un nuovo sistema di comando e controllo NATO ACCS (Air Combat and Control System). CAMERI Un altro tipo di base, per costruire armi Alla catena di basi statunitensi si affiancano poi tutta una serie di altre strutture non meno importanti (comandi, depositi, centri di comunicazione, poligoni di addestramento, stazioni radar). Una di queste, anche se con una funzione molto diversa da quelle esposte finora, è, o meglio lo sarà nel caso peggiore, l’aeroporto di Cameri, in Piemonte. Qui non si tratta di ospitare truppe o depositi di armi bensì di costruirle, le armi; e se la produzione bellica è certamente il secondo pilastro delle politiche di guerra, in questo caso quanto qui si andrebbe a produrre per le forze armate nazionali andrebbe direttamente a sostenere anche lo sviluppo del sistema militare Usa. Certamente nell’aeroporto piemontese non ci sono statunitensi e non ne sono previsti, ma qui rischia di vedere la luce il JSF, il nuovo controverso aereo da guerra statunitense, con capacità nucleari e dai costi esorbitanti. L’aereo, made in Usa, è costruito esclusivamente sulla base delle esigenze operative degli Stati uniti, i quali, per contenerne i costi, hanno invitato fin da subito i più fidi alleati a farsi finanziare il prototipo. Attualmente Cameri ospita un reparto manutenzione velivoli dell’aeronautica militare e una struttura di Agusta Westland, ma l’aeroporto è già stata valutato come sito per l’assemblaggio finale e le prove di volo per quello che potrebbe essere il prossimo aereo da guerra dell’aeronautica militare; cosa questa sempre più probabile dopo che il 7 febbraio scorso il sottosegretario alla Difesa Forcieri ha firmato al Pentagono il nuovo memorandum d’intesa del programma JSF. In realtà la produzione non riguarderebbe solo Cameri. Secondo quanto dichiarato dal sottosegretario di stato alla Difesa Forcieri in audizioni alle commissioni difesa di Camera e Senato già ora il progetto JSF coinvolge circa quaranta siti industriali in dodici regioni, con Alenia Aeronautica come capocommessa e altre quindici ditte che hanno acquisito contratti e impegni per il futuro. Da qui anche una certa confusione sul numero dei posti di lavoro: la previsione di diecimila è riferita all’insieme di tutte le imprese che sono o “potrebbero” essere coinvolte, ma è importante sottolineare che non si tratta di nuovi posti ma di manodopera già oggi occupata su altri programmi. A questo punto risulta più credibile la cifra di 200 occupati nella nuova linea a Cameri e qualche altro centinaio nell’indotto. Guerre & Pace 81 L’OMBRA DELLE BASI manodopera, che nel frattempo avrà finito con la lavorazione del programma EFA. Il costo poi dei singoli aerei resta ancora molto vago: secondo quanto dichiarato dal sottosegretario Forcieri in commissione Difesa del Senato la previsione riguarderebbe circa 100 aerei per un costo che varia dai 45 ai 55 milioni di euro a seconda della versione, mentre nel comunicato stampa emesso dopo la firma del memorandum si specifica che per l’acquisto dei velivoli l’impegno per l’Italia sarà di 11 miliardi di dollari… RISORSE BRUCIATE Linea di montaggio del prototipo dell’ F-35. I COSTI DEL NUOVO GIOCATTOLO La firma di questo accordo con gli Usa ha un costo non da poco: oltre ai 1.028 milioni di dollari per cui l’Italia si era impegnata nella precedente fase, ulteriori 903 milioni di dollari dovranno essere pagati da qui al 2046. Per quanto riguarda il ritorno alle imprese nazionali, a fine 2006, a fronte di un preventivato ritorno di 1.018 miliardi di dollari, solo 191 si sono trasformati in contratti. È vero che anche questa firma, come la precedente, non vincola l’Italia all’acquisto dei velivoli in quanto questo passo è rimandato almeno al 2013, quando si presume sarà pronta la produzione di serie, ma è altrettanto vero che se non si mettono in atto per tempo strategie alternative sarà molto più difficile sottrarsi domani a tale scelta, soprattutto dopo aver già investito quasi due miliardi di dollari e senza avere in mano soluzioni concrete per il reimpiego della 82 Ma per cosa bruceremo tanti soldi? Nei progetti questo nuovo aereo da guerra dovrebbe costituire la componente aerotattica di proiezione, cioè un aereo progettato per l’attacco al suolo con la caratteristica, per una delle versioni a cui è interessata sia la marina che l’aeronautica, di poter operare anche da piste corte e da portaerei o comunque da navi dotate di ponti di volo di dimensioni ridotte, come la nave Garibaldi o le tre navi da sbarco della marina militare. In pratica, è lo strumento ideale per fornire la necessaria componente aerea alla “forza nazionale di proiezione dal mare” che abbiamo visto all’opera durante il dispiegamento delle truppe italiane in Libano, permettendo così una ancora più forte integrazione con le forze Usa; non a caso il progetto, che nasce negli Usa e si integra totalmente nel concetto del sea basing, è stato voluto fortemente dai Marines, in quanto strumento ideale per la proiezione della forza. Cioè per andare a portare la guerra in giro per il mondo. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI UN USO SOCIALE DEL TERRITORIO di Andrea Licata , intervento al convegno Disarmare il territorio, Brescia 2007 La conversione di basi militari, benché non sia un argomento di moda a livello istituzionale in Italia, è già avvenuta in molte parti nel mondo perché se l’utilizzo di spazi da parte privata di strutture militari è un costo come vedremo - la loro liberazione invece offre moltissime opportunità. Insieme al Comitato contro Aviano 2000 abbiamo curato un (Dal militare al civile, Ed. Kappa Vu) che rappresenta una delle poche pubblicazioni sul tema. I movimenti per la pace devono essere ambiziosi, non ci interessa la sola testimonianza ma cominciare a vincere alcune sfide, visto che, come sostiene Luca Mercalli facendo un paragone tra la situazione dei cambiamenti climatici e le attività militari energivore, di tempo non è che ne rimanga molto. Sulla base dei grafici proposti da Mercalli ci sono due possibilità rispetto al surriscaldamento e all’esaurimento delle risorse energetiche: o si va, dopo lo “sviluppo senza limiti” a una “guerra senza limiti”, cioè a una lotta senza limiti per le ultime risorse, una lotta non tra esercito e esercito ma a tutto campo nella quale i civili sono le prime vittime, una lotta per colpire l’avversario colpendo la sua economia, il suo sistema sanitario, destabilizzando per esempio la borsa, ecc.; oppure ci si dirige in maniera molto urgente verso la smilitarizzazione, la riconversione, la sostituzione di queste attività aggressive a livello umano e ambientale con progetti molto più utili e intelligenti. PORRE DEI LIMITI La situazione generale in cui ci collochiamo prevede progetti militari dichiaratamente rivolti verso i civili: oltre il 90% delle vittime dei conflitti moderni sono civili, come si vede con chiarezza nella guerra in atto in Iraq, dove ci sono già stati oltre 650.000 morti. Un’altra delle caratteristiche dei nostri tempi che dovremmo considerare è l’accelerazione delle decisioni, perché se c’è un’accelerazione della politica che promuove queste guerre dovrà esserci anche, se vogliamo vincer, un’accelerazione dei movimenti. Le strategie militari oggi prevedono il deliberato uso della forza nei confronti delle economie civili – cioè si attacca un paese per distruggerne l’economia (lo abbiamo visto in molti casi, come in Serbia nel 1999 e recentemente in Libano). Gli eserciti hanno un progetto separato deliberatamente rivolto contro i civili che rende importante e urgente un nostro progetto di risposta. Altra vittima degli interventi militari oggi è certamente l’ambiente, aggredito con tecniche di distruzione ambientale che provocano inquinamento, come abbiamo visto nel 1999 con l’attacco alle industrie chimiche. Siamo quindi di fronte a situazioni molto pericolose, anche nuove se vogliamo, e da qui, a mio parere, la nascita di movimenti anche consistenti con una nuova consapevolezza. Quello che mi è parso di poter vedere a Vicenza è un movimento molto concreto che vuole raggiungere risultati per porre un limite; un movimento del limite, che si è reso conto che c’è un progetto di sviluppo senza limiti e di guerra senza limiti. Per entrare nel concreto, a Vicenza non c’è solo la caserma Ederle, si vuole fare il Dal Molin, si vogliono fare due villaggi militari, un ospedale per reduci di guerra e probabilmente anche un grande luogo per le esercitazioni, riarmare tutti i siti della provincia in chiave offensiva: un’operazione militare in grande stile. Il discorso del limite ritorna, e dobbiamo porre un limite e proporre delle alternative alle basi già in attività, prima di arrivare alla riconversione. LE RAGIONI DELLA RICOLLOCAZIONE Prima di entrare nel merito dell’argomento - quello delle opportunità della riconversione dal militare al civile -dobbiamo premettere che le basi militari non si collocano su un certo territorio per aiutare l’ambiente o l’economia, anzi economia e ambiente sono le loro controparti. Oggi è in corso in tutto il mondo, e in Europa in particolare, una ricollocazione delle basi militari, per ragioni non solo geopolitiche - anche se queste sono importanti, come nel caso dell’Italia e della Bulgaria, luoghi più vicini al fronte di guerra: l’Italia, se questo processo continuasse, diventerebbe la principale piattaforma per i prossimi conflitti, con conseguenze politiche notevoli, tra l’altro quella di annullare la politica estera italiana, perché non ci saranno più margini per essa in quanto, se si creano basi di guerra per il fronte africano e il fronte mediorientale, com’è dichiarato in maniera chiara nei documenti, non ci sarà in futuro la possibilità di discutere se concedere le basi, diventerà una scelta definitiva. Ci sono altre quattro ragioni per le quali le basi vengono ricollocate, sulla base di decisioni prese in forma non democratica e nascosta, fuori dagli stessi trattati militari come conferma il caso del Dal Molin: non si sa chi abbia deciso, come, quando, non c’è un documento ufficiale - anche questo è un superamento del limite. La prima condizione per la scelta del luogo dove collocare una base militare è quella dei costi. Le basi Usa, che sono quelle di cui stiamo parlando, vengono previste nelle situazioni più vantaggiose. È ormai noto che i cittadini italiani contribuiscono per circa il 41% alle spese di stazionamento delle truppe statunitensi: condizione favorevole che induce gli Stati uniti a posizionare le loro strutture in Italia, così come è altrettanto conveniente mantenerle in Giappone (ci sarebbero naturalmente discorsi più ampi da fare: è chiaro che posizionarsi militarmente in un paese significa anche condizionarne la politica in generale e quella economica in particolare). Guerre & Pace 83 L’OMBRA DELLE BASI La seconda condizione ritenuta favorevole è quella della deroga ambientale, per cui si cercano paesi e zone in cui la legislazione ambientale sia debole e/o ci siano scarsi controlli. Questo perché le attività militari quelle ordinarie, quindi anche le esercitazioni e il mantenimento della struttura - prevedono l’utilizzo di una serie di sostanze inquinanti (solventi, metalli pesanti, sostanze tossiche) che colpiscono il terreno, rendendo inevitabile la bonifica, che sarà molto costosa e difficoltosa (ed era negli anni Novanta una delle principali preoccupazioni del Pentagono perché con la dismissione di molti siti si trovò di fronte a enormi spese da affrontare). Come viene risolta questa condizione nel caso italiano? Al momento della chiusura della base il governo Usa vanta delle migliorie, cioè sostiene di aver portato a miglioramenti del territorio, principalmente attraverso la costruzione di prefabbricati, e quindi “si astiene dalle spese di pulizia del sito”. È di qualche giorno fa la notizia dell’inquinamento della Ederle: non sarebbe una novità, infatti nel 1995 su 9.000 siti il dipartimento di stato Usa individuò 27.000 aree inquinate, quindi almeno tre per ogni sito, facendo la media. L’inquinamento c’è sempre: tutte le basi inquinano e sono inquinate. Tra le forme più gravi c’è quello delle falde acquifere. Nel caso di Vicenza le basi sarebbero proprio sopra le falde acquifere a distanza di un metro. Ad Aviano - nel libro l’abbiamo scritto - nelle falde c’è inquinamento da bromacile che ci porteremo avanti per parecchio tempo. Le falde acquifere sono una delle risorse più colpite, ma in realtà l’inquinamento riguarda anche il terreno e altre varie forme, tra le quali l’inquinamento acustico, di cui abbiamo già parlato parecchie volte. TOGLIERE L’”OSPITALITÀ” La terza caratteristica congeniale è quella dell’ospitalità: ospitalità politica, cioè giornali favorevoli, governi più o meno accondiscendenti, ma anche corruzione, in alcuni casi (e in Italia sicuramente c’è un legame tra la costruzione delle basi Usa e la mafia). Spesso nascono invece critiche rispetto alla questione dell’impatto economico benefico di una base. È stato scritto che “le argomentazioni economiche in favore della base, sebbene false, sembrano essere state il fattore più importante nel frenare l’opposizione locale. Una volta che la costruzione della base cominciava il divario tra le premesse e la realtà diventava chiaro: la realtà includeva la corruzione del comune, impiego temporaneo minimo, qualche contratto a livello di servizi, spesa trascurabile, carenza di affitti, tensione sociale, criminalità”. Già da questo si vede come la base porti in realtà molti svantaggi economici. Una quarta variabile riguarda i giorni nostri: le truppe Usa vivono una grande difficoltà, sia sul fronte, come abbiamo visto, sia in generale. L’Italia in questa fase è un buon biglietto da visita da presentare al momento del reclutamento, perché hanno grande difficoltà a reclutare truppe per il fronte, c’è un dissenso ormai pubblico, con i soldati che firmano a migliaia ed 84 esprimono il dissenso in vari modi, dalla protesta per avere più diritti alla diserzione, che riguarda migliaia di persone. Tutte cose che dobbiamo tenere presente noi che vogliamo opporci alle basi militari. Se vogliamo arrivare alla loro chiusura dobbiamo anche creare delle condizioni di non ospitalità sociale. Appunto questo è il tentativo che si sta facendo a Vicenza: modificare le condizioni favorevoli alla base. LA RICONVERSIONE È POSSIBILE In teoria se non ci fosse questo flusso economico, questo finanziamento, le basi non potrebbero esistere; se esistesse un controllo ambientale rigido, sarebbe impossibile operare; se non ci fosse ospitalità ma appunto ogni mattina ci fossero i picchetti, prima o poi la situazione diventerebbe ingestibile. Esistono quindi molte maniere concrete e tecniche che, combinate, i movimenti possono utilizzare per mettere in crisi queste strutture. Certo serve tempo, servono i numeri però è possibile: oggi i movimenti sociali utilizzando delle tecniche combinate in maniera non soltanto spettacolare, non riducendosi dunque soltanto alla manifestazione, hanno notevoli possibilità di successo. Possiamo citare i casi di Scanzano, della Val di Susa, della Sardegna, dove il clima di crescente inospitalità è probabilmente una delle ragioni che hanno portato alla chiusura della Maddalena, e ora le difficoltà di costruire una nuova base a Vicenza. È possibile in termini pratici recuperare un sito militare e riconvertirlo a scopi civili magari aumentando i posti di lavoro? In Germania l’ex base aerea Nato di Werl è divenuta una combinazione di attività commerciali e logistiche con un sistema energetico a fonti rinnovabili e una zona residenziale: ci lavorano circa mille persone, con un aumento occupazionale. Ad Achim, una piccola città vicino a Brema, il processo di recupero ha mantenuto inalterata un’area verde a disposizione dei cittadini e nel contempo sono nate attività commerciali e un’area residenziale. La base militare con deposito di munizioni di BrugenBrache è stata rimboschita e inserita con successo in percorsi turistici e culturali, sono stati avviati corsi di riqualificazione nei settori del giardinaggio, dell’architettura del paesaggio, dell’economia forestale, della lavorazione del legno e dell’edilizia e sono nate attività nuove come la cooperativa di ex lavoratori della base che opera nel settore della ristorazione e del turismo. L’ex base aerea di WegbenWidenrath è stata trasformata in un centro collaudi per le ferrovie e in un distretto commerciale; la struttura impiegava un numero di civili compreso tra i 500 e i 700, prevalentemente tedeschi. Spesso questi impieghi sono stati riqualificati e maggiormente retribuiti. Nel mondo sono 8.000 le stazioni militari che sono state riconvertite dopo il 1989. In Renania Palatinato (Germania) 132.000 lavoratori hanno vissuto il passaggio di riqualificazione da militare a civile; dei 500 siti militari in una sola regione, in pochi anni circa due terzi avevano già ottenuto forme di riuso. I casi di riconversione riguardano anche l’Irlanda del Nord, le Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI Filippine, Hong Kong, Panama, il Sudafrica. Ci sono pubblicazioni che riguardano gli stessi Stati uniti, così come la Scandinavia e i Paesi baltici. La conversione è sicuramente possibile. L’ingegnere vicentino Vivian (www.altravivenza.it) ha confermato gli studi fatti ad Aviano: ha calcolato il numero di posti di lavoro che si otterrebbero recuperando la caserma Ederle attraverso attività basate sulle energie rinnovabili. Questo è molto interessante perché all’inizio della caserma Ederle non si parlava, a Vicenza, mentre ormai si fanno ragionamenti complessivi, a tutto campo. Le tre curve individuate dall’ingegnere mostrano come la costruzione del Dal Molin porterebbe a una fase speculativa iniziale e poi a una fase discendente, mentre invece la riconversione massima porterebbe ad aumenti occupazionali. PASSARE A PROPOSTE CONCRETE Quello delle energie rinnovabili - l’abbiamo visto anche con Marcalli - è un tema di grande attualità con il quale mostriamo il nostro realismo e l’opposizione a guerre per il petrolio sempre più disastrose e improponibili. Grazie alle energie rinnovabili, adatte agli ampi spazi delle aree militari, si prevedono 100.000 posti di lavoro in Italia e 2 milioni in Europa e questo prima che l’Ue, pochi giorni fa, richiedesse che queste diventino il 20% della produzione complessiva di energia. Ci si può allora riappropriare di siti e luoghi militari per progetti veramente utili, sostenibili, nel senso vero della parola, con progetti coerenti. Questi studi, condotti nel tempo libero da associazioni e da studiosi, arrivano alle stesse conclusioni, cioè che il recupero di queste aree sarebbe sicuramente vantaggioso anche economicamente. Voglio sottolineare questo aspetto economico, elemento che i movimenti per la pace hanno sottovalutato. Siamo oggi di fronte non solo alla delega politica ma anche alla delega economica. Soltanto con il prelievo di enormi flussi di denaro si possono mantenere le basi militari: senza questi soldi non potrebbero essere costruite e non potrebbero operare. Questa è quindi una grande sfida che i movimenti prima o poi dovranno affrontare. Nel 2003 la manifestazione contro la guerra in Iraq - 3 milioni di persone, una delle più grandi del mondo, con una popolazione al 90% contraria alla guerra in Iraq ma, e qui vediamo ancora il progetto separato, con un governo che gestiva l’opzione militare attraverso la delega - si è sciolta senza nessuna proposta concreta, non ha prodotto successivamente iniziative pratiche, ad esempio mettendo in discussione il finanziamento alla guerra in Iraq. Dobbiamo uscire dalla dimensione spettacolare della politica in cui a volte siamo relegati e andare verso progettualità come questa della riconversione. Questi movimenti crescono anche velocemente: si tratta di mantenere la consapevolezza del legame tra gli aspetti sociali e quelli complessivi della politica di guerra e mi pare che in alcuni casi ci stiamo riuscendo. VICENZA: UN PROGETTO ALTERNATIVO Per tornare sull’aspetto specifico della riconversione, ad Aviano come a Vicenza abbiamo cercato di vedere quali aree possiamo coinvolgere e quali attività possiamo fare. Quindi abbiamo provato a definire progetti specifici immaginando un recupero dell’area diversificato, attraverso la creazione di diverse iniziative e immaginando usi sociali e tecnologici. Quella che proponiamo è una riconversione di tipo preventivo, che serva a prevenire nuovi conflitti ma anche ad accelerare i tempi del passaggio al civile; ci interessa diminuire l’ospitalità nei confronti delle basi militari, ma anche fare da subito iniziative di facile attuazione. Ne abbiamo proposte tre. In primo luogo la creazione di un fondo regionale per la riconversione da militare a civile - proposta fino a questo momento inascoltata ma che sarebbe molto utile perché in Friuli-Venezia Giulia ci sono caserme abbandonate, poligoni di tiro non bonificati ecc. (tra l’altro i fondi Konver per la conversione c’erano, ma adesso non ci sono più). La seconda proposta è quella di un monitoraggio indipendente, perché queste aree sono inquinate ma non si capisce mai che tipo di inquinamento c’è. Dato che oggi l’acqua è sempre più importante, conoscere il tipo di inquinamento ci permetterebbe anche di fare valutazioni sul tipo di attività da proporre nel territorio: per esempio, se il terreno è totalmente inquinato l’opzione agricola risulta compromessa, e questo dobbiamo saperlo prima altrimenti si perdono degli anni. Preventiva anche in questo senso, non solo in polemica con la guerra preventiva, ma per il senso di urgenza che avvertiamo. La terza sfida che proponiamo è quella di creare da subito attività economiche alternative, possibilmente nei pressi della base: questo potrebbe diminuire l’ospitalità nei confronti del sito, spegnere il ricatto occupazionale. A Vicenza stiamo progettando di mettere in piedi corsi di formazione per lavoratori, preventivi appunto, in modo che al momento in cui la base chiuderà una parte del personale si possa reimpiegare. Iniziative da fare subito, e se all’estero sono stati ottenuti degli ottimi risultati in condizioni normali, con una chiusura calata dall’alto, noi immaginiamo di poter fare meglio e di più, cioè di avere attività non speculative, non inquinanti. Ecco, in tutto questo ci sentiamo molto realisti: abbiamo veramente la possibilità di respingere al mittente l’accusa di estremismo, che in realtà appartiene ai sostenitori della guerra preventiva, perché noi proponiamo un’economia non di guerra, progetti politici complessivi. In conclusione, il movimento “No Dal Molin” ha un progetto alternativo, un progetto non autoritario nei confronti del territorio, che prevede la discussione; un progetto alternativo che prevede non le guerre per il petrolio ma il recupero di queste strutture per le energie rinnovabili; un progetto alternativo nei confronti degli altri popoli, verso i quali propone relazioni pacifiche. La sfida è aperta e dipenderà dai numeri e dalla qualità delle proposte. Guerre & Pace 85 L’OMBRA DELLE BASI UNA RETE NO-BASI di Herbert Docena, Guerre & Pace aprile 2007 Il consolidarsi di una rete internazionale che lotta per l'abolizione delle basi militari straniere segna un importante passo avanti per il movimento globale di pace e giustizia Dal 1999 la base aerea di Eloy Alfaro a Manta, in Ecuador, è stata utilizzata come “avamposto operativo” dall'esercito statunitense e questa è soltanto una delle oltre 730 installazioni militari attualmente disseminate in circa cento nazioni del mondo. Il 9 marzo cinquecento visitatori si sono presentati al cancello principale. Uno di loro ha raggiunto la recinzione e ha attaccato un adesivo blu e rosso sul quale era scritto “No Bases”, con una X sulla lettera “o” formata dalle due parti di un fucile spezzato. Un piccolo gesto simbolico per un nuovo movimento internazionale formatosi di recente con un grande obiettivo: la chiusura di tutte le basi militari sparse nel mondo. Con la riuscita conferenza che ha lanciato la Rete internazionale per l’abolizione delle basi (NoBasi), dal 5 al 9 marzo a Quito e a Manta, in Ecuador, questo obiettivo è diventato un po’ più vicino. L’OPPOSIZIONE CRESCE La conferenza ha riunito oltre quattrocento attivisti di base che rappresentano l'avanguardia dei gruppi regionali, da Okinawa alla Sardegna, a Vieques, Pyongtaek, le Hawaii e dozzine di altre località sparse in almeno quaranta nazioni: probabilmente il più ampio raduno della storia contro le basi militari. Erano presenti ambientalisti, femministe, pacifisti, oppositori alla guerra, contadini, parlamentari, lavoratori, studenti, organizzazioni religiose, gruppi per i diritti umani e vari network locali e globali. Ma qualunque conteggio finale delle presenze è comunque inferiore all’estensione dell’adesione: alla vigilia dell’incontro nelle mailing list di partecipazione un attivista islandese anti-basi ha voluto chiarire che essere assenti dall'evento non vuole dire essere assenti dal movimento. La varietà, sia geografica che politica, dei gruppi che hanno partecipato dimostra facilmente quanto sia diventato ampio il movimento contro le basi. Le conferenze internazionali sono spesso etichettate come occasioni per parlare e niente più. Ma trovarsi assieme e parlare è il primo importante passo per costruire una comunità. Attraverso numerosi seminari autorganizzati, rassegne di video e forum i partecipanti hanno approfondito la comprensione del ruolo che hanno le basi nell'assetto geopolitico globale, le varie forme che assume la presenza militare e l'impatto che questa realtà viene ad avere sull'ambiente e sulle comunità locali. Vi sono stati anche scambi di esperienze rispetto alle strategie e agli approcci da adottare contro le basi una volta tornati nella propria realtà. Anche il Pentagono si è reso conto delle crescenti opposizioni locali: sono proprio queste campagne popolari ad aver rovinato i loro piani. Ma non è tutto. Ciò che è stato veramente significativo è che i partecipanti sono andati oltre le discussioni 86 sull'impatto nocivo delle basi e sul come combatterle. Si sono impegnati a fondo e, un incontro dopo l'altro, sono riusciti a mettere in piedi una rete organizzata, definendo delle linee guida, concordando su un più efficace livello di coordinamento e decidendo di attuare piani più concreti per un'azione comune. Il compito è stato difficile ma illuminante. LE QUESTIONI PIÙ IMPORTANTI Mentre i partecipanti tentavano di chiarire cosa esattamente li legasse gli uni agli altri, sono emerse questioni potenzialmente spinose ma fondamentali: la rete si dovrebbe occupare solo di basi militari all'estero o anche di quelle interne al paese di appartenenza? Dato che hanno tutte scopi militari, non dovrebbero essere abolite tutte, indipendentemente dal fatto che siano statunitensi o cubane? Cosa si dovrebbe fare per le basi “domestiche” alle Hawaii, Guam o a Porto Rico? O quelle nei paesi occupati come l'Iraq e l'Afghanistan? Come comportarsi rispetto alle basi militari della Nato che sono presumibilmente tanto “nazionali” quanto “internazionali”? Se la rete si occupa solo delle basi in terra straniera, cosa la distingue da tutti quei gruppi di destra, in Europa o nel Medio Oriente, che si oppongono alle basi solo perché sono “straniere”? E mentre tutti hanno concordato sul fatto che nessun paese può avvicinarsi agli Stati uniti per numero di avamposti, resta comunque da comprendere quanto sforzo debba essere messo in campo dalla rete contro le basi di altre nazioni come la Russia o la Francia. Tutte questioni che si sono rivelate importanti, perché le risposte modificano i valori e l'identità stessa della rete. Sottolineare tali aspetti è stato necessario per definire i punti di dissonanza e concordanza delle varie correnti interne al network e forse anche interne a un più ampio movimento contro la guerra. LE DIFFERENZE In linea di massima, e forse troppo categoricamente, possiamo dire che all'interno di questa rete ci sono coloro che si oppongo a queste basi da una prospettiva “antimperialista”. Considerano le basi sia come strumento, sia come manifestazione visibile dell'imperialismo. Sono contro le basi statunitensi su suolo straniero, ma allo stesso tempo difendono il diritto di Cuba o dell'Iran di avere basi militari nazionali per autodifesa. All'interno di questa corrente ci sono ulteriori differenze: mentre tutti sono concordi nello stabilire che gli Usa sono la principale minaccia, diversi ritengono che anche l'Europa segua delle politiche di stampo imperialista e sia ugualmente pericolosa. Poi ci sono altri gruppi che si oppongono alle basi in un'ottica “antimilitarista”: sono contrari a tutte la basi militari, indipendentemente da chi le controlla. Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI Questo dibattito ha fatto emergere una seconda questione, legata alle idee di “nazionalismo” e di “sovranità”. In molti contesti, principalmente nei paesi del Sud ma non solo, l'opposizione alle basi militari nasce da principi fortemente nazionalisti, che vedono nelle basi militari una minaccia “esterna” contro la “sovranità”. In questo senso il “nazionalismo” viene percepito come un necessario baluardo contro il colonialismo. In altri contesti queste stesse parole, “nazionalismo” e “sovranità”, hanno assunto un significato negativo. Sono state utilizzate per ottenere consensi per muovere guerre contro “l'altro” e per giustificare misure repressive contro gli “stranieri”. Prudentemente, la rete ha assunto una linea di condotta posta tra autodeterminazione e sciovinismo. NO IN NESSUN CORTILE Dopo dieci ore di animato ma cordiale dibattito la bozza di dichiarazione presentata alla riunione plenaria è stata lodata come chiara ma leggermente sfumata, cosa che ha permesso di ottenere l'approvazione tanto degli antimilitaristi quanto degli antimperialisti (oppure si potrebbe dire che nessuno dei due gruppi l'ha rifiutata). Ciò che ha qualificato la giornata è stata la scelta di estendere gli obiettivi della rete non solo alle basi militari all'estero ma a “tutte le infrastrutture utilizzate per guerre di aggressione”, ciò che richiede una più sofisticata comprensione della complessa configurazione delle basi militari situate negli Stati Uniti, nei paesi Nato e ovunque. Una decisione gradita a coloro che volevano una forte focalizzazione sulle basi militari straniere poste all'estero - molte delle quali Usa e probabilmente usate per guerre di aggressione ma allo stesso tempo non ha contraddetto coloro che desideravano ampliare l'obiettivo del proprio lavoro. A differenza della sciovinista posizione di destra, la dichiarazione chiarisce che la critica della rete alle basi non è basata sulla logica del Nimby (not-in-mybackyard, non nel mio cortile, cioè le basi militari straniere vanno bene fintanto che sono gli altri a doverne subire le conseguenze: frastuono, spazzatura, criminalità) ma sulla logica del Nyaby (not in any one's backyard, no in nessun cortile: le basi militari straniere sono negative perché rafforzano la militarizzazione, il colonialismo, la politica imperialista e il razzismo). Alla luce dell'influenza delle obiezioni dei gruppi di destra alle basi, l’opposizione della rete a tutte le basi e non solo a quelle in alcune località offre un diverso punto di riferimento basato sull'internazionalismo e sulla solidarietà. DEMOCRAZIA E ORGANIZZAZIONE Non deve essere sottovalutata, per un gruppo appena nato che ancora deve definire i propri obiettivi, l'importanza di discutere e raggiungere accordi sulle premesse dalle quali partire. Helga Serrano, una delle organizzatrici della conferenza, ha concluso: “Le basi politiche e ideologiche di unità della rete sono più solide di quanto ci attendessimo”. Vero è che la pianificazione successiva di azioni e strategie concrete da mettere in atto non è stata altrettanto chiara: è emersa infatti una generica lista di idee e non l’indicazione di vere e proprie priorità. Ma senza il raggiungimento di un accordo per una visione comune la rete sarebbe potuta rimanere paralizzata dalla confusione e da contraddizioni irrisolte. La stesura di principi collettivi ha gettato le fondamenta per le azioni future. Mettere in atto queste azioni richiede un certo grado di organizzazione: attenzione contro le minacce alla propria autonomia, cautela rispetto alle tendenze accentratrici. Molti delegati desiderosi di raggiungere i propri obiettivi hanno espresso la necessità di unire l'apertura e l’orizzontalità a un'azione strategica e organizzata. La sfida, come espresso da una commissione, era quella di rafforzare la cooperazione all'interno della rete senza centralizzare e burocratizzare il tutto. Accettando la necessità di una più intensa interazione ma senza affrettare troppo il processo, i partecipanti alla fine hanno raggiunto un punto di accordo decidendo di rimanere comunque gruppi separati ma con un elevato livello di organizzazione. È stato deciso di creare un comitato internazionale aperto per il coordinamento, che avrà un chiaro e circoscritto mandato politico e una serie precisa di responsabilità nella conduzione di progetti collettivi. NO BASI, NO GUERRA, NO GLOBALIZZAZIONE Permangono significativi ostacoli da superare: la rete deve riuscire a raggiungere ancora molti attivisti locali, in particolare in Asia centrale e occidentale; la questione delle basi non è ancora in cima alla lista delle priorità dei movimenti contro la guerra; la rete è priva di risorse perché il tema delle basi viene percepito come troppo radicale per i semplici simpatizzanti e all'interno del network stesso l'accesso alle risorse risulta non uniforme; i testi devono essere tradotti meglio... e così via. Nonostante questi limiti la rete è riuscita ad andare molto avanti e la conferenza rappresenta una pietra miliare che segna il suo consolidarsi, tanto come spazio di incontro per organizzazioni, coalizioni e movimenti, quanto come strumento organizzativo che può coordinare e sostenere globalmente campagne di lotta messe in atto a livello locale. Ma c'è di più. Lo sviluppo di questa rete potrebbe essere considerato come la prova di un ulteriore rafforzamento dei movimenti antiglobalizzazione/antiguerra che sono nati nell'ultimo decennio. Se l'idea era precedente, la vera nascita della rete può essere rintracciata nella riunione dei movimenti contro la globalizzazione e quelli contro la guerra appena dopo l'invasione dell'Iraq, a Jakarta, in Indonesia, nel maggio del 2003, dove era stata proposta la creazione di una rete internazionale contro le basi da considerarsi come prioritaria per i movimenti. Alcune organizzazioni presenti in questo incontro avevano Guerre & Pace 87 L’OMBRA DELLE BASI coordinato il 15 febbraio 2003 la giornata globale di azione contro la guerra in Iraq e in seguito portato avanti questo tema durante i vari Social forum, a livello mondiale, locale e regionale. Come ha affermato Wilbert ven der Zeijden, un attivista che ha avuto modo di seguire il network nel corso degli anni: “Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il World Social Forum”, che ha concesso diverse opportunità per superare ostacoli altrimenti insormontabili o troppo onerosi per essere gestiti. Il consolidarsi della rete dimostra che il movimento è capace non solo di unificarsi attorno a una proposta ma anche di farla evolvere ulteriormente. UNA RISPOSTA GLOBALE Spesso viene sottostimato e non menzionato abbastanza il grado di efficienza e organizzazione raggiunto dal movimento. Quello che va apprezzato, ma non deve essere dato per scontato, è che gli attivisti, che non sono addestrati o pagati come organizzatori professionisti di simili eventi, sono riusciti a realizzare ambiziosi progetti con costi notevolmente più bassi rispetto a quelli spesi dalle imprese o dai governi per analoghe manifestazioni. I movimenti stanno imparando e stanno diventando più efficienti e questo preannuncia una crescente capacità di azioni organizzate. Questo rafforzamento mostra che i movimenti stanno volontariamente divenendo più strategici. La rete è una campagna con un “singolo obiettivo”, focalizzata sulla questione delle basi e, come avverte Lindsey Collen, un'attivista delle Mauritius, “la frammentazione sulle singole questioni può portare a successi a breve termine ma conduce a un fallimento sul lungo periodo”. Ma il focalizzarsi sulle basi non confonde e non divide, anzi permette una comprensione più ampia della questione all'interno della strategia globale di dominio. Piuttosto che dividere, l'enfasi sulle basi permette una più olistica comprensione di come l'aspetto aziendale e quello coercitivo della globalizzazione militarizzata si siano fusi assieme per perpetuare la spogliazione e l’ingiustizia. Per dirla come Joseph Gerson, un esperto attivista antibasi: “Le basi mantengono lo status quo”. La decisione di focalizzarsi sulla questione delle basi in modo coerente e sostanziale nasce da una semplice deduzione logica: senza basi militari in terra straniera la guerra sarebbe molto più costosa da sostenere; senza guerre il perseguimento di interessi geostrategici ed economici a danno delle democrazie e dell'autodeterminazione risulterebbe molto più difficoltoso da mettere in atto. Corazon Fabros, attivista filippino di lungo corso, afferma:”La strategia dell'impero è globale. La nostra risposta deve esserlo altrettanto” Da: “Focus on Global South”, 14-3dos-2007, www.no-bases.org. Trad. di Fabio Sallustro, rid. e adatt. redazionale. 88 Guerre & Pace L’OMBRA DELLE BASI CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DAI TERRITORI IN ITALIA Contro la presenza di basi militari o i progetti di allargamento, potenziamento, riqualificazione - si sono costituiti negli ultimi anni comitati o iniziative in tutt’Italia. Non pretendiamo di dare conto di tutto quello che si muove, ma proviamo a fare un breve elenco fornendo riferimenti di siti dove si possono trovare le piattaforme e le proposte di iniziativa di questi comitati. Vicenza Presidio permanente “No Dal Molin” e “Giornale No Dal Molin” www.nodalmolin.it AltraVicenza (sito informativo con ricco materiale sulla lotta contro il Dal Molin) www.altravicenza.it Blog di approfondimento e confronto: http://www.bloggers.it/osservatoriosulleservitumilitari/ Aviano Comitato Unitario contro Aviano 2000 http://cuca2000.noblogs.org/ http://www.fvg.peacelink.it/aviano2000 Comitato “Via le bombe” http://www.vialebombe.org/ Ghedi Comitato “Via le atomiche” Ghedi (sito in preparazione; per info [email protected]) Camp Darby Comitato unitario per lo smantellamento e la riconversione a scopi esclusivamente civili della base di Camp Darby” http://www.viacampdarby.org/ Cameri Coordinamento contro gli F 35 http://www.nof35.org/ Tavolo di lavoro NO F35 http://www.disarmolombardia.org/CAMERI_JSF/tavolo_NOF35.pdf Sigonella Terre Libere (sito di informazione con molti riferimenti e approfondimenti sulla lotta contro la presenza militare in Sicilia) http://www.terrelibere.it/ Napoli Comitato pace, disarmo e smilitarizzazione del territorio (NA) http://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/ Sardegna Comitato sardo Gettiamo le basi http://gettiamolebasi.wordpress.com/ Taranto/Puglia Coordinamento salentino contro la guerra http://www.salentonowar.org/ Peacelink (sul sito ci sono molte informazioni sulla militarizzazione della Puglia e sui porti nucleari) http://italy.peacelink.org/mappa/topic_2.html Altre informazioni si possono chiedere a: [email protected] Solbiate Olona DiramAmo la pace (rete di associazioni della provincia di Varese e di altre province lombarde) http://disarmiamolapace.altervista.org/html/ ALTRI RIFERIMENTI Rete regionale contro la guerra – Lombardia www.disarmolombardia.org Rete Via le Basi www.vialebasi.net Guerre & Pace 89 L’OMBRA DELLE BASI Campagna per una proposta di legge di iniziativa popolare che dichiari l'Italia "Zona Libera da Armi Nucleari” http://www.unfuturosenzatomiche.org/ ControllArmi – Rete italiana per il disarmo www.disarmo.org 90 Guerre & Pace
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