1 La possibilità per il cittadino italiano di recarsi a lavorare all`estero

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1 La possibilità per il cittadino italiano di recarsi a lavorare all`estero
La possibilità per il cittadino italiano di recarsi a lavorare all’estero non è garantita soltanto dal principio di
libera circolazione posto dall’ordinamento comunitario. Anche l’articolo 16 della Costituzione assicura la
libertà di espatrio verso qualsiasi paese.
Quando il contratto di lavoro venga stipulato da un’impresa italiana con un lavoratore italiano nel paese
straniero, le parti possono scegliere tra l’applicazione della legislazione italiana e l’applicazione di quella del
paese dove la prestazione abitualmente si svolge.
In difetto di scelta delle parti, si applica la legge del luogo dove si svolge abitualmente la prestazione
lavorativa, oppure quella italiana – in quanto in Italia abbia sede l’impresa datrice di lavoro -. Qualora la
prestazione, essendo mobile, non si svolga abitualmente in un determinato paese straniero – convenzione
comunitaria europea 19 giugno 1980, resa esecutiva con legge 18 dicembre 1984 n.975, e articolo 3 legge
218/1995, recante la “riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato.”
Tuttavia nell’eventuale controversia di cui sia investito il giudice italiano, l’applicazione della legislazione
straniera trova il proprio limite nell’ordine pubblico di diritto internazionale privato italiano.
Esso deve essere inteso non come l’insieme di tutte le norme che disciplinano inderogabilmente la
materia, bensì soltanto come l’insieme dei principi etici fondamentali e imprescindibili del nostro
ordinamento.
Possono così comprendersi tra le norme di ordine pubblico internazionale le garanzie di libertà e dignità
del lavoratore, i divieti di discriminazione, la tutela essenziale della sicurezza del lavoro, andrebbero escluse
invece le norme relative all’estensione temporale della prestazione lavorativa, riposo settimanale, festività,
modalità di corresponsione della retribuzione.
La giurisprudenza è prevalentemente orientata nel senso della non applicabilità del contratto collettivo
italiano ai rapporti tra datore e prestatore di lavoro italiani all’estero, salvo diversa disposizione contrattuale
collettiva o individuale.
Con tutti i paesi verso i quali si registrano flussi migratori di nostro personale, l’Italia ha stipulato
convenzioni volte ad assicurare e disciplinare opportunamente la tutela previdenziale dei lavoratori stessi e
in particolare la ricongiunzione della posizione contributiva maturata presso l’assicurazione generale
obbligatoria nazionale con quella maturata all’estero.
Le stesse convenzioni disciplinano anche, in vario modo, il regime previdenziale applicabile nel caso di
trasferimento o missione del lavoratore italiano già dipendente da impresa italiana.
Per il caso invece in cui il trasferimento o missione comporti lo svolgimento di lavoro in un paese con il
quale non sia stata stipulata alcuna convenzione, il DL 3 luglio 1987 n. 317 dispone che continui ad
applicarsi il regime assicurativo obbligatorio italiano., facendosi riferimento a retribuzioni convenzionali
stabilite annualmente con decreto ministeriale.
La disciplina comunitaria dell’utilizzazione transnazionale dei lavoratori ( direttiva 16 dicembre 1996 n.71).
Il caso dell’invio di lavoratori nel territorio di uno stato membro dell’unione europea da parte di un’impresa
stabilita in un altro stato membro per una prestazione di servizi a carattere transnazionale è disciplinato dalla
direttiva 16 dicembre 1996 n.71 che distingue a questo proposito tre ipotesi:
1.
2.
3.
Il puro e semplice invio all’estero di un lavoratore che continua a prestare il proprio lavoro alle
dipendenze e sotto la direzione dell’impresa inviante.
Il distacco del lavoratore presso uno stabilimento o impresa appartenente allo stesso gruppo
societario dell’impresa inviante.
La fornitura temporanea della prestazione da parte di un’agenzia specializzata.
La direttiva prevede (articolo 3) che in questi casi gli stati membri, quale sia la legislazione applicabile al
rapporto di lavoro, il rispetto delle condizioni di lavoro generalmente applicabili nel territorio stesso per effetto
di norme di legge o contratti di lavoro con efficacia erga omnes, in materia di estensione temporale massima
della prestazione, riposi, retribuzione minima, straordinario, salute e igiene, protezine maternità, lavoro
minorile, discriminazione.
Legge 21 giugno 1971, n. 804 (in Gazz. Uff., 8 ottobre, n. 254). - Ratifica ed esecuzione della
convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e
commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968 (1).
1
Art. 2.
Salve le disposizioni della presente Convenzione, le persone aventi il domicilio nel territorio di uno
Stato contraente sono convenute, a prescindere dalla loro nazionalità, davanti agli organi
giurisdizionali di tale Stato.
Alle persone che non sono in possesso della cittadinanza dello Stato nel quale esse hanno il
domicilio, si applicano le norme sulla competenza vigenti per i cittadini.
Art. 3.
Le persone aventi il domicilio nel territorio di uno Stato contraente possono essere convenute
davanti agli organi giurisdizionali di un altro Stato contraente solo in virtù delle norme enunciate alle
sezioni 2-6 del presente titolo.
Articolo 5
Il convenuto domiciliato nel territorio di uno Stato contraente può essere citato in un altro Stato
contraente:
1) in materia contrattuale, davanti al giudice del luogo in cui l'obbligazione dedotta in giudizio è
stata o deve essere eseguita; in materia di contratto individuale di lavoro, il luogo è quello in cui il
lavoratore svolge abitualmente la propria attività in un solo paese, il datore di lavoro può essere
citato dinanzi al giudice del luogo in cui è situato o era situato lo stabilimento presso il quale è stato
assunto.
SULLA DEROGA DELLA GIURISDIZIONE ITALIANA IN MATERIA DI LAVORO NEL NUOVO SISTEMA DI
DIRITTO PROCESSUALE CIVILE INTERNAZIONALE
Giust. civ. 1997, 9, 429
Francesco Seatzu
SOMMARIO: 1. Osservazioni introduttive ed inquadramento della questione nell'attuale sistema di diritto
processuale civile internazionale. - 2. L'impostazione della questione sulla base della nozione di «diritti
disponibili» accolta nell'art. 4, comma 2°, della l. n. 218 del 1995. - 3. Compatibilità di tale impostazione con i
principi costituzionali di tutela del lavoro e con il principio del giudice naturale.
1. È noto che la disciplina della giurisdizione italiana, prevista nei suoi aspetti essenziali nel titolo II della l. n.
218 del 1995 (1), costituisce una delle novità di maggiore rilievo della legge italiana di riforma del diritto
internazionale privato (2).
Tra le molte questioni interessanti sollevate dalle recenti norme sulla giurisdizione, nel presente contributo si
intende affrontare quella dell'ammissibilità della deroga alla giurisdizione italiana in materia di lavoro (3).
Il tema, di evidente rilevanza pratica, richiede, una nuova valutazione in considerazione della diversa scelta
operata dall'art. 4, 2° comma della l. n. 218 del 1995 rispetto all'abrogato art. 2 c.p.c. a proposito della
deroga alla giurisdizione (4).
Prima di esaminare le conseguenze sulla deroga alla giurisdizione italiana in materia di lavoro derivanti
dall'introduzione del nuovo principio generale contenuto nel 2° comma dell'art. 4, è opportuno accennare
preliminarmente a due ulteriori disposizioni che, a proposito del tema in esame, sono state richiamate
frequentemente sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza.
Innanzitutto, si deve ricordare che il problema dell'ammissibilità e dell'eventuale ambito della deroga alla
giurisdizione in italiana in materia di lavoro è stato ed è tuttora complicato dalla presenza, nel nostro
ordinamento, della disposizione contenuta nel 5° comma dell'art. 413 c.p.c., che prevede la sanzione della
nullità per le clausole di deroga.
2
Sebbene, infatti, tale norma menzioni solamente i patti di deroga della competenza territoriale (5), da una
parte della dottrina è stata sostenuta la sua applicabilità anche ai casi di deroga della giurisdizione (6).
Secondo tale orientamento, una siffatta interpretazione estensiva è legittima in quanto un divieto di deroga
alla giurisdizione italiana in materia di lavoro risulta posto, implicitamente, a livello costituzionale, dalle
norme sulla tutela del lavoro nonché dal principio del giudice naturale (7).
L'interpretazione letterale del disposto del 5° comma dell'art. 413 c.p.c., e perciò la sua applicazione
esclusiva ai casi di deroga della competenza territoriale, è stata seguita, invece, dalla giurisprudenza
maggioritaria (8).
In realtà, come si chiarirà una volta esposte le ragioni che impediscono di accettare la tesi circa l'esistenza di
un divieto assoluto di deroga della giurisdizione in materia di lavoro a livello costituzionale, è da escludere
che la portata del 5° comma dell'art. 413 c.p.c. possa essere estesa in modo tale da ricomprendere tra le
clausole
affette
da
nullità
anche
quelle
sulla
deroga
della
giurisdizione
italiana.
Infine, occorre richiamere l'art. 17, ultimo comma, della Convenzione di Bruxelles sulla competenza
giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (9). costituzionale di tale norma;
in giurisprudenza, invece, si è individuata nella stessa la disposizione sulla deroga della giurisdizione italiana
in
Tale disposizione è stata oggetto di valutazioni contrastanti da parte della dottrina e della giurisprudenza.
Applicata dalla giurisprudenza a tutti i patti di deroga della giurisdizione italiana in materia di lavoro (10), la
disposizione dell'ultimo comma dell'art. 17 della Convenzione di Bruxelles è stata considerata
costituzionalmente illegittima da una parte della dottrina (11).
In realtà, a mio avviso, né la posizione sostenuta dalla dottrina né quella accolta dalla giurisprudenza mi
sembrano
convincenti.
Entrambe le tesi sottovalutano la circostanza che l'efficacia dell'art. 17, ult. comma, della Convenzione di
Bruxelles, diversamente dall'efficacia delle disposizioni della medesima Convenzione richiamate dall'art.3, 2°
comma, della l. n. 218, è circoscritta ai soli casi in cui sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente
l'attore o il convenuto (12).
Da ciò la necessità di impostare, in termini generali, il problema dell'ammissibilità e dell'ambitio della deroga
alla giurisdizione italiana in materia di lavoro sulla base di quanto previsto nel 2° comma dell'art. 4 della l. n.
218.
2. Dei due limiti posti nel 2° comma dell'art. 4 della l. n. 218 alla facoltà di deroga della giurisdizione, e cioè la
forma scritta per la sua prova ed il carattere indisponibile dei diritti dedotti in causa, nel presente lavoro
interessa soffermarsi solamente su quello relativo all'indisponibilità dei diritti controversi.
Già presente nel disegno di legge d'iniziativa governativa sulla riforma del sistema italiano di diritto
internazionale privato, il riferimento all'indisponibilità dei diritti è stato mantenuto invariato nel testo definitivo
dell'art. 4 della l. n. 218. Contrariamente, però, a quanto auspicato da una parte autorevole della dottrina è
stata omessa nella nuova norma sulla deroga della giurisdizione italiana l'indicazione del modo in cui il limite
del carattere indisponibile dei diritti è destinato ad operare in concreto (13).
Orbene, nonostante la formulazione adottata dal legislatore della riforma non sia tra le più felici (14), mi
sembra che il limite dell'indisponibilità dei diritti dedotti in causa sia di ntoevole utilità per la definizione
dell'ambito
della
deroga
alla
giurisdizione
italiana
in
materia
di
lavoro.
Nel settore del diritto del lavoro, la dicotomia «diritti disponibili-diritti indisponibili» possiede, a differenza di
quanto avviene in altri ambiti dell'ordinamento, un significato giuridicio preciso (15). Ne consegue, pertanto,
che non sussiste la necessità di individuare una disposizione speciale sulla deroga della giurisdizione
italiana in materia di lavoro così come è stato proposto, anche di recente, da alcuni autori (16).
3. Rimane da affrontare, in ultimo, la questione della conformità dell'impostazione qui adottata con quanto
stabilito implicitamente dai principi costituzionali sulla tutela del lavoro e dal principio del giudice naturale a
proposito della deroga della giurisdizione in materia di lavoro (17).
A tale fine, è necessario verificare l'eventuale esistenza di un divieto di deroga della giurisdizione italiana in
materia di lavoro (18).
Come già esposto nel primo paragrafo, una parte della dottrina che si è occupata del tema in esame ha
sostenuto, che dai principi costituzionali sopra menzionati si desume l'indergabilità assoluta della
giurisdizione italiana in materia di lavoro (19).
Tale tesi non mi sembra convincente.
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A mio avviso, infatti, l'inderogabilità della giurisdizione essendo una garanzia posta nell'interesse del
lavoratore, si giustifica solamente nei casi in cui i diritti del lavoratore per i quali è richiesta la tutela
giurisdizionale siano indisponibili e, cioè, tutelati in maniera speciale dal diritto sostanziale (20).
Viceversa, quando la tutela giurisdizionale è richiesta in relazione a diritti disponibili da parte del lavoratore,
e cioè a diritti non sottoposti ad alcun vincolo finalizzato alla loro protezione, è naturale che alle parti sia
concessa la facoltà di scegliere il Paese in cui instaurare il processo per la tutela di tali diritti (21).
(1) La l. 31 maggio 1995 n. 218 sulla riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato (pubblicata
in G.U. n. 128, suppl. del 3 giugno 1995) prevede nel titolo II rubricato «Giurisdizione italiana» gli art. 3-12.
(2) Cfr. LUZZATTO, Art. 3 (Ambito della giurisdizione) in La riforma del sistema italiano di diritto internazionale
privato - La l. 31 maggio 1995 n. 218 - Commentario, in Riv. dir. int. priv. proc. 1995, 924.
(3) Per un'inquadramento generale della questione cfr. CAMPEIS-DE PAULI, La procedura civile internazionale,
Padova 1991, 415-18 e F. DI NANNI, Il processo del lavoro, Roma 1995, 66-67; 76-77 e 84-85.
Sulla deroga alla giurisdizione italiana nel nuovo sistema introdotto dalla l. n. 218 cfr. ATTARDI, Diritto
processuale civile, I, Parte generale, Padova 1994 (con Appendice di aggiornamento 1995), 15-18;
BALLARINO, Diritto internazionale privato, Padova 1996, 119-126; LUZZATO, Accettazione e deroga della
giurisdizione, in La riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, cit., 938-942 e CARBONE
(S.M.), La (nuova) disciplina italiana della deroga alla giurisdizione, in Dir. comm. int. 1996, 553-580.
(4) Il comma 2° dell'art. 4 della l. n. 218 recita testualmente: «la giurisdizione italiana può essere
convenzionalmente derogata a favore di un giudice straniero o di un arbitrato estero se la deroga è provata
per
iscritto
e
la
causa
verte
su
diritti
disponibili.».
L'art. 2 c.p.c., abrogato dall'art. 73 della l. n. 218, disponeva invece che «la giurisdizione italiana non può
essere convenzionalmente derogata a favore di una giurisdizione straniera, né di arbitri che pronuncino
all'estero, salvo che si tratti di causa relativa ad obbligazioni tra stranieri o tra uno straniero e un cittadino
non residente né domiciliato nella Repubblica e la deroga risulti da atto scritto.».
(5) L'art. 413 c.p.c., inserito nel Capo I del Titolo IV «Norme per le controversie in materia di lavoro»
rubricato «Giudice competente», nel 5° comma stabilisce infatti che «sono nulle le clausole derogative della
competenza per territorio.».
(6) Cfr. in particolare FRANCHI, I rapporti fra giurisdizione e competenza territoriale in materia di lavoro, in
Giur. it. 1980, I, 83-86 e MARI, Rapporti di lavoro, principi costituzionali e deroga alla giurisdizione secondo la
Convenzione di Bruxelles del 1968, in Riv. dir. int. priv. proc. 1981, 51-84.
(7) Sul punto vedi MARI, Rapporti di lavoro, cit., 72 ss. Precisato dapprima che mentre «l'attribuzione di
competenza esclusiva al giudice straniero, pienamente comprensibile nei rapporti commerciali internazionali,
dove corrisponde ad un apprezzabile bisogno di certezza giuridica rilevante anche sul piano economico,
manca di ogni plausibile giustificazione quando il centro degli interessi personali, economici e sociali del
lavoratore è nel luogo ove ha esecuzione il rapporto.». Tale autore osserva, altresì, che: «anche
prescindendo dall'esistenza nel nostro ordinamento dello speciale procedimento del lavoro, si deve
comunque rilevare che lo spostamento del processo dalla sua sede naturale - quando, cioè, il lavoro sia
stato prestato nel territorio dello Stato, - è un fatto obiettivamente lesivo della effettività della tutela
processuale, quale si ricava da una lettura coordinata degli art. 3, comma 2°, 24, comma 1° e 35 Cost.».
(8) Cfr. Pret. Roma 5 gennaio 1977, Riv. giur. lav. 1979, II, 432, con nota di SPAGNOLETTI ZEULI; Cass., Sez.
un., 11 ottobre 1979 n. 5274, in questa Rivista 1980, I, 103; Cass., Sez. un., 3 novembre 1981 n. 5776, ivi
1982, I, 698; Cass., Sez. un. 18 novembre 1982 n. 6190, Giust. civ. Mass. 1982; in senso difforme cfr., Pret.
Brescia 25 ottobre 1975, Giust. civ. Resp. 1976, v. Competenza civile, 90, 100. Si precisa in tale ultima
sentenza che: «il divieto di deroghe convenzionali alla competenza per territorio, disposto dalla l. 11 agosto
1973 n. 533 al fine di facilitare al lavoratore il ricorso al giudice più idoneo, per il luogo ove opera, a risolvere
la controversia di lavoro, non può infatti comportare anche il divieto di deroghe alla giurisdizione italiana,
(...)».
(9) L'art. 17, ultimo comma, della Convenzione di Bruxeles del 1968 concernente la competenza
giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale prevede che «in materia di
contratti individuali di lavoro una clausola attributiva di competenza è efficace solo se posteriore al sorgere
della controversia o se il lavoratore l'adduce per adire giudici diversi da quello del domicilio del convenuto o
da quello di cui all'art. 5, punto 1».
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(10) Cfr., Pret. Roma 5 gennaio 1977, cit.; Cass., Sez. un., 11 ottobre 1979 n. 5274, cit., nella cui
motivazione è precisato che: «alla stregua della Convenzione giudiziaria di Bruxelles del 27 settembre 1968
è ammissibile la deroga alla giurisdizione italiana al di là dei limiti segnati dall'art. 2 c.p.c. (...)»; Cass. 3
novembre 1981 n. 5776, cit.; Cass., Sez. un., 18 novembre 1982 n. 6190, Cass. 28 marzo 1987n. 3030,
vedi, anche, C. Giust. C.E.E., 13 novembre 1979, Foro it. 1980, IV, 150. Tra le poche decisioni
giurisprudenziali recenti in cui è stata applicata l'abrogata disposizione generale contenuta nell'art. 2 c.p.c.,
ai patti di deroga della giurisdizione italiana in materia di lavoro cfr., Cass. 4 aprile 1986 n. 2323, Riv. dir. int.
priv. proc. 1987, 544.
(11) Cfr. MARI, Rapporti di lavoro, cit., specialmente 82. Al fine di evitare una dichiarazione
d'incostituzionalità dell'art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 1968 tale autore propone di fare «prevalere
in via interpretativa la norma dell'ultimo comma dell'art. 413 c.p.c., sul dettato dell'art. 17 della Convenzione
di Bruxelles del 1968, data la sua piena rispondenza ai principi costituzionali di tutela del lavoro» (corsivo
mio).
(12) In realtà, se si dovesse applicare la disposizione in questione sulla base della sua lettera, l'efficacia
dell'ultimo comma dell'art. 17 della Convenzione di Bruxelles riguarderebbe i soli casi in cui sia domiciliato
nel territorio di uno Stato contraente il convenuto. In relazione a tutte le altre ipotesi varebbero le disposizioni
di diritto comune, e cioè, nell'attuale sistema di diritto processuale civile internazionale, il 2° comma dell'art. 4
della l. n. 218. Invero, è stato dimostrato in modo convincente già da altri autori, che l'interpretazione più
corretta è quella che prescinde dalla posizione di convenuto o di attore nell'applicazione dell'ultimo comma
dell'art. 17 della Convenzione di Bruxelles. È pertanto sufficiente, a tale fine, che ad avere il domicilio in uno
Stato contraente sia almeno una delle due parti in causa. Cfr., GAJA, La deroga alla giurisdizione italiana,
Milano
1971,
150
in
nota,
e
MARI,
Rapporti
di
lavoro,
cit.,
67.
L'art. 3 della l. n. 218, rubricato «Ambito della giurisdizione», dopo avere stabilito che «1. La giurisdizione
italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia
autorizzato a stare in giudizio a norma dell'art. 77 c.p.c. e negli altri casi in cui è prevista dalla legge»
prevede al 2° comma che «2. La giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3, e 4
della Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile
e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la l. 21 giugno 1971,
n. 804, e sucecssive modificazioni in vigore per l'Italia, anche allorché il convenuto non sia domiciliato nel
territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie comprese nel campo di applicazione
della Convenzione (...)».
(13) Cfr., CARBONE (S.M.), La (nuova) disciplina italiana della deroga, cit., 565.
(14) Per una posizione sostanzialmente analoga a quella del testo cfr. LUZZATO, Sulla riforma del sistema
italiano di diritto processuale civile internazionale, in Riv. dir. ined. 1990, 838.
(15) Si pensi, per esempio, alle previsioni dell'art. 2113 c.c. rubricato «Rinunzie e transazioni». Nel 1°
comma di tael articolo si stabilisce che: «le rinunce e le transazioni che hanno per oggetto diritti del
prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi
concernenti i rapporti di cui all'art. 409 del c.p.c., non sono valide.».
(16) Per una riproposizione della tesi che ricava l'inderogabilità della giurisdizione dall'inderogabilità della
competenza territoriale cfr. in ultimo BALLARINO, Diritto internazionale privato, cit., 124-125.
(17) I principi costituzionali rilevanti sono quelli contenuti negli art. 3, comma 2°, 24, comma 1°, 25, 1°
comma e 35 Cost.
(18) Per una puntuale, ancorché non più recente, rassegna di diritto internazionale privato comparato sui
limiti posti dai diversi ordinamenti alla facoltà di deroga della giurisdizione nazionale in materia di lavoro ad
opera delle parti cfr. FRAGISTAS, La compétence internationale en droit privé, in Recueil des Cours de
l'Académie de droit international de La Haye, 1961, III, 246.
(19) Cfr. in particolare MARI, Rapporti di lavoro, cit., 73-82.
(20) L'inderogabilità della giurisdizione, pertanto, sussiste non solamente in relazione alle cause aventi ad
oggetto diritti totalmente indisponibili ma anche per quelle aventi ad oggetto diritti parzialmente indisponibili.
Per alcune puntuali precisazioni sulle categorie dei diritti totalmente indisponibili (o primari) e dei diritti
parzialmente indisponibili (o secondari) nell'ambito del diritto del lavoro cfr. per tutti CARINCI, DE LUCA TAMAJO
E TREU, Diritto del lavoro, 2, Il rapporto di lavoro subordinato, Torino 1992, 462-463.
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(21) Secondo quanto è stato proposto in dottrina la «disponibilità» del diritto controverso andrebbe stabilita
sia in funzione della prospettazione della domanda sia sulla scorta della normativa applicabile dal giudice
designato dalle parti. Cfr. sul punto CARBONE (S.M.), La (nuova) disciplina italiana della deroga, cit., 567-569.
Massimario di Giurisprudenza del Lavoro
Edizione n. 5 del 1 maggio 2004
pagina
Autore:
391
Magnani
Mariella
I rapporti di lavoro con elementi di internazionalità
1.
La
necessità
di
comunicazione
tra
diritto
internazionale
e
diritto
del
lavoro
2. La volontà delle parti nell'individuazione della legge applicabile e i suoi limiti
3.
Norme
imperative
e
"superimperative"
4. I rapporti tra la convenzione di Roma e la direttiva comunitaria sul distacco dei lavoratori
5. I contratti collettivi quale parte della legge applicabile
1. La necessità di comunicazione tra diritto internazionale e diritto del lavoro
Inizio
Nell'affrontare il tema dei rapporti di lavoro con elementi di internazionalità avverto sempre un certo disagio,
tipico di chi si avventura su un terreno non perfettamente conosciuto. Occorre infatti ammettere che gli snodi
concettuali strutturali sono di pertinenza degli studiosi del diritto internazionale.
A ben vedere, però, anche i giuslavoristi possono, anzi debbono, al fine di colmare un pernicioso difetto di
comunicazione, apportare alla tematica il proprio contributo. E questa è precisamente la finalità del presente
saggio.
Nell'accostare l'argomento, è da scontare anzitutto l'aumentata dimensione transnazionale dei rapporti di
lavoro, dovuta alla accentuata mobilità delle imprese e dei lavoratori in un'economia globalizzata.
Questo, da un punto di vista sociologico.
Da un punto di vista giuridico, la transnazionalizzazione dei rapporti di lavoro, nel porre il problema della
individuazione della legge applicabile, costituisce il banco di prova di concetti classici e fondanti, o anche
solo tralatiziamente tramandati, del diritto del lavoro. Più precisamente costringe a ridefinire certe categorie e
loro condizioni d'uso. Basti ricordare, a tal proposito, il problema della norma inderogabile, che, dall'angolo
visuale dei rapporti di lavoro con elementi di internazionalità, assume una inaspettata, ma illuminante,
relatività.
Come si diceva, il tema solleva questioni di diritto internazionale privato, ma il contributo dei giuslavoristi
sembra parimenti importante. Si ponga mente alla complessità delle fonti del diritto del lavoro: alla disciplina
dei rapporti di lavoro concorre infatti, insieme alla legge, il contratto collettivo, con la sua peculiare
ambivalenza di contratto e atto normativo, che costituisce la croce e la delizia degli studiosi del diritto del
lavoro.
2. La volontà delle parti nell'individuazione della legge applicabile e i suoi limiti
Inizio
Il testo base in materia è la convenzione di Roma del 1980 sulle obbligazioni contrattuali, poi incorporata
nella l. n. 218/1995, di riforma del sistema di diritto internazionale privato.
In base a detta convenzione, in caso di contratti con elementi di internazionalità, il criterio per l'individuazione
della legge applicabile è (essenzialmente) quello della volontà delle parti.
Tuttavia, l'art. 6 della convenzione di Roma introduce per il contratto di lavoro, così come per i contratti
conclusi con i consumatori, una regola, definita espressamente derogatoria, in base alla quale la legge
scelta dalla volontà delle parti non può privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme
imperative che regolerebbero il contratto, in mancanza di scelta. E tale legge, ex art. 6, paragrafo 2, della
convenzione, è la c.d. lex loci laboris, cioè la legge del Paese in cui si esegue la prestazione lavorativa, nel
caso in cui essa venga abitualmente svolta in un solo Paese, ovvero, nel caso di lavoro itinerante, quella del
luogo ove ha sede l'impresa che ha proceduto all'assunzione del lavoratore.
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Ora, tralasciando gli specifici problemi interpretativi sollevati da questi criteri di collegamento, interessa qui
sottolineare che la preferenza loro accordata si spiega esattamente in un'ottica di favore per il lavoratore.
La lex loci laboris coincide spesso con la legge del domicilio del lavoratore; dunque, una legge con la quale
egli ha, per così dire, una certa dimestichezza.
Il criterio della sede dell'impresa che ha proceduto all'assunzione risponde poi alle aspettative, non solo del
datore di lavoro, ma anche del lavoratore, che, stipulando un contratto con una impresa straniera, avrà fatto
in qualche modo riferimento alla legge del Paese ove tale impresa è ubicata.
Peraltro, il sistema della convenzione è più complesso, perché l'art. 7 pone un "superlimite", costituito dalle
c.d. norme "di applicazione necessaria". Dispone infatti l'art. 7, paragrafo 2, che la convenzione non può
impedire l'applicazione di norme in vigore nel Paese del giudice, le quali disciplinino imperativamente il caso
concreto, indipendentemente dalla legge che regola il contratto.
Inoltre, mezzo potenzialmente idoneo a limitare l'applicazione della legge individuata ex art. 6, è la clausola
di ordine pubblico, di cui all'art. 17 della convenzione. L'ordine pubblico, secondo la comune definizione,
evoca i principi fondamentali dell'ordinamento considerato nella sua interezza, tenendo conto delle regole e
dei principi entrati a far parte di un determinato ordinamento giuridico in virtù del suo conformarsi al diritto
internazionale, ma tenendo altresì presenti i connotati politici, economici, sociali e morali che lo
caratterizzano e che spesso sono espressi nella Carta costituzionale (1).
Tuttavia, l'eccezione di ordine pubblico, incorporata in tutti i sistemi di diritto internazionale privato come
mezzo per bloccare l'ingresso nell'ordinamento di norme antinomiche ai valori che esso esprime, non implica
- come è stato ben messo in luce (2) - che il giudice si erga a censore dell'attività legislativa di altri Stati. Egli
deve infatti limitarsi, appunto, a rifiutare di consacrare, attraverso la propria decisione, effetti giuridici
assolutamente incompatibili con le concezioni fondamentali dell'ordinamento giuridico.
In definitiva, l'ordine pubblico costituisce un limite eccezionale e non normale all'aprirsi all'esterno del
sistema giuridico. Non a caso, nella relazione Giuliano-Lagarde, che ha accompagnato l'approvazione della
convenzione, si è sottolineato che alla riserva di ordine pubblico è stata conferita una formulazione precisa e
restrittiva. Di qui il rilievo, comune in dottrina, che non possa attribuirsi all'eccezione di ordine pubblico se
non un ruolo marginale e circoscritto.
3. Norme imperative e "super-imperative"
Inizio
Più che a un criterio di favor laboris (in base al quale, tra due discipline astrattamente applicabili, dovrebbe
prevalere quella più favorevole al lavoratore), la convenzione risponde all'esigenza di tutela del contraente
debole, che viene realizzata unicamente restringendo la libertà delle parti di scegliere la legge applicabile.
Il principale problema interpretativo che scaturisce dalla convenzione è quello di distinguere le norme
imperative di cui all'art. 6 rispetto alle norme c.d. di applicazione necessaria di cui all'art. 7.
In base alla convenzione, le norme imperative di cui all'art. 6 sono quelle cui non si può derogare per
contratto.
Poiché l'art. 6 dispone che la scelta di una legge da parte dei contraenti non possa valere a privare il
lavoratore della disciplina derivante dalle norme imperative applicabili in mancanza di scelta, potrebbe qui
eventualmente nascere il problema del criterio di raffronto tra la legge designata dalle parti e quella
applicabile in base ai criteri di collegamento: un problema che il giuslavorista è abbastanza aduso a
risolvere.
In base alla relazione Giuliano-Lagarde, sembra che la comparazione debba essere effettuata clausola per
clausola. In dottrina si è tuttavia fatto notare come sarebbe più opportuno affidarsi ad un criterio di raffronto
più comprensivo (3), simile ad esempio al criterio di raffronto per istituti, comunemente utilizzato nel nostro
ordinamento per definire il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale.
Per tornare alla questione principale, dal confronto dell'art. 6 con l'art. 7, emerge che le norme c.d. di
applicazione necessaria debbano essere ricondotte al genus delle norme imperative.
Non vale però il reciproco: non può dirsi che tutte le norme imperative e inderogabili siano egualmente
norme di applicazione necessaria.
7
In sostanza, dalla convenzione si deduce che all'interno delle norme imperative vi è una graduazione tra
norme imperative tout court e norme "super-imperative", chiamate appunto norme di applicazione
necessaria.
Secondo la dottrina internazionalistica, le norme di applicazione necessaria sono quelle che, per espressa
volontà del legislatore, oppure perché volte a salvaguardare l'organizzazione politica, sociale ed economica
dell'ordinamento del foro, impediscono il normale funzionamento delle norme di conflitto (4).
Che vi sia una differenza quali-quantitativa tra le norme di cui all'art. 6 e quelle di cui all'art. 7 è ben chiaro,
per esempio, nella giurisprudenza tedesca.
In un caso del 1989, il BAG, rifacendosi alla distinzione tra norme cogenti a tutela di un interesse generale e
norme imperative non rispondenti a suddetta funzione, ha escluso che la disciplina dei termini di preavviso in
caso di licenziamento fosse di applicazione necessaria (5).
Meno chiara, forse, è la distinzione per la nostra giurisprudenza (6), la quale invoca spesso, del tutto
impropriamente, la scorciatoia dell'ordine pubblico (7): un limite che dovrebbe operare invece, come detto, in
via eccezionale.
4. I rapporti tra la convenzione di Roma e la direttiva comunitaria sul distacco dei lavoratori
Inizio
In questo quadro normativo, in cui non è facile riempire di significato il concetto di norme di applicazione
necessaria e individuare poi il discrimine rispetto alle norme imperative tout court, si inserisce la direttiva
comunitaria n. 96/71, in tema di distacco del lavoratore nell'ambito di una prestazione di servizi, attuata nel
nostro ordinamento con il d.lgs. n. 72/2000.
La direttiva contempla tre ipotesi: I) l'ipotesi in cui un lavoratore venga distaccato a prestare la propria opera
in uno Stato membro nell'ambito di un contratto di prestazione di servizi tra il suo datore di lavoro e il
destinatario, che si trovi in quello Stato membro; II) l'ipotesi in cui il lavoratore venga distaccato presso uno
stabilimento o un'impresa del gruppo, che si trovi in altro Stato membro; III) l'ipotesi del distacco del
lavoratore interinale in uno Stato membro diverso da quello del suo datore di lavoro.
La ratio fondamentale della direttiva è stata individuata dalla dottrina nell'esigenza di tutela della
concorrenza.
Ad aprire la strada a questa direttiva è stata una sentenza della Corte di Giustizia (8), la quale, nel famoso
caso Rush Portuguesa, ha affermato che il diritto comunitario osta "a che uno Stato membro vieti ad un
prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro di spostarsi liberamente nel suo territorio con tutto il
suo personale, ovvero a che detto Stato membro sottoponga lo spostamento del personale di cui trattasi a
condizioni restrittive quali una condizione di assunzione in loco o un obbligo di permesso di lavoro".
Sennonché, in quella decisione, la Corte di Giustizia è andata, per così dire, ultra petita. Nel caso Rush
Portuguesa la questione era solo se gli Stati "ospitanti" potessero richiedere al prestatore di servizi di
ottenere permessi di lavoro per i propri dipendenti distaccati.
La Corte andò oltre precisando che "il diritto comunitario non osta a che gli Stati membri estendano
l'applicazione delle loro leggi o dei contratti collettivi di lavoro stipulati tra le parti sociali a chiunque svolga un
lavoro subordinato, anche temporaneo, nel loro territorio, indipendentemente dal paese in cui è stabilito il
datore di lavoro; il diritto comunitario non vieta agli Stati membri neanche di imporre l'osservanza di queste
norme con i mezzi adeguati". In un certo senso, la Corte ha così avallato le legislazioni dei Paesi che
sostanzialmente imponevano il rispetto dei propri standard protettivi, in materia di lavoro, alle imprese aventi
sede in altri Stati membri. Non a caso questa decisione ha suscitato diverse critiche, perché - si è detto (9) gli standard protettivi di un Paese dipendono in gran parte dalla produttività dei lavoratori di quel Paese e
pongono perciò le imprese di un altro Stato in una situazione di svantaggio competitivo. Tanto è vero che si
riscontra una certa inversione di rotta da parte della giurisprudenza comunitaria (10).
Il cuore della direttiva del 1996 consiste nell'imporre agli Stati membri di provvedere perché le imprese
distaccanti applichino, quali minimi di tutela, le normative del Paese in cui la prestazione si deve eseguire, in
particolare nelle materie del tempo di lavoro, della durata delle ferie annuali, delle tariffe minime salariali,
della sicurezza e della salute nel posto di lavoro.
Il problema fondamentale è allora di comprendere se le disposizioni relative alle materie indicate dalla
direttiva integrino le disposizioni di"applicazione necessaria", ex art. 7 della convenzione di Roma. In altri
termini, si pone il problema dei rapporti tra la direttiva e la convenzione.
8
Orbene, è quanto meno lecito dubitare che le previsioni della direttiva debbano essere apprezzate come una
interpretazione o una precisazione del contenuto dell'art. 7 e, quindi, della nozione di norma di applicazione
necessaria.
Al di là degli argomenti di carattere formale, preme sottolineare il carattere eminentemente empirico ed
estrinseco dei criteri seguiti per l'individuazione delle materie da includere nell'elenco. Trattasi infatti di
materie - come si può desumere dalla stessa relazione della Commissione - nelle quali vi sono norme
vincolanti in tutti gli Stati, oltreché compatibili con la natura temporanea del rapporto. Scorrendo la lista ci si
avvede facilmente che essa è composta in massima parte da materie oggetto di armonizzazione ad opera
del diritto comunitario.
Per contro, per quanto riguarda le tariffe minime salariali, la loro inclusione risponde all'obiettivo prioritario
della direttiva di livellare le condizioni di concorrenza tra le imprese che operano su uno stesso mercato.
Pertanto, nel valutare la direttiva si può affermare che essa configuri un sistema speciale, la cui "legittimità" è
consacrata dall'art. 20 della Convenzione, sul primato del diritto comunitario.
Occorre dunque prestare la massima cautela nel ritenere che le disposizioni relative alle materie
contemplate nella direttiva integrino il nucleo delle norme di applicazione necessaria.
Tanto meno può essere utilizzato in chiave interpretativa il d.lgs. n. 72 del 2000 (11) che ha tout court
previsto l'applicabilità, durante il periodo del distacco, delle medesime condizioni di lavoro - previste dalle
leggi o dai contratti collettivi - applicate ai lavoratori nazionali. Ciò in "apparente" applicazione dell'art. 3,
paragrafo 10, della direttiva: applicazione "apparente", perché esso in realtà consente di dilatare l'elenco
solo nel caso in cui si tratti di disposizioni di ordine pubblico.
Serpeggia dunque, ancora una volta, l'idea - a mio avviso erronea - per cui tutto il diritto del lavoro rientri
nella nozione di ordine pubblico.
Un'idea totalizzante ed erronea, di chiara marca corporativa, che è stata alla base dell'interpretazione del
sistema internazionalprivatistico ed in particolare dell'art. 31 disp. prel. c.c., prima della convenzione di
Roma.
5. I contratti collettivi quale parte della legge applicabile
Inizio
Con riferimento invece alla fonte contrattuale collettiva, ha dominato per lungo tempo il problema della
"territorialità " del contratto collettivo.
Falso problema, in realtà, perché l'applicabilità del contratto collettivo al lavoro prestato all' estero dipende, in
definitiva, dall'interpretazione della volontà contrattuale. E' pur vero che la destinazione del lavoratore all'
estero può comportare mutamenti rilevanti nelle modalità della prestazione. Ma tutto si traduce allora in una
questione interpretativa, dovendosi appunto stabilire quali clausole siano neutre rispetto al luogo della
prestazione e quali invece non possano ritenersi volute in relazione all'attività da svolgersi all' estero.
Sgomberato, come la giurisprudenza sembra abbia ormai fatto da tempo (12), il campo da questo problema,
si pongono le premesse perché il contratto collettivo riceva un trattamento non diverso da quello destinato
alla legge, partecipando, come un elemento della prima - purché naturalmente esso sia vincolante per il
datore di lavoro - al gioco delle norme di conflitto.
Una conferma di ciò sembra provenire dalla direttiva del 1996 sul distacco dei lavoratori. Per la disciplina
applicabile al settore dell'edilizia si fa infatti richiamo alle disposizioni dettate dalla legge, dai regolamenti,
nonché dai contratti collettivi dichiarati di applicazione generale. Ed è data facoltà agli Stati, se così
decidono, di fare riferimento, in mancanza di un sistema che attribuisca efficacia erga omnes ai contratti
collettivi, a quelli generalmente applicabili nell'industria o nella categoria, oppure ai contratti collettivi stipulati
dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale.
Peraltro, gli Stati membri possono anche utilizzare i contratti collettivi, alle condizione previste (cioè qualora
si tratti di contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, o siano generalmente applicabili, oppure siano
stipulati dai sindacati più rappresentativi), quali fonti del trattamento applicabile anche in attività diverse da
quelle edili.
9
Dalla direttiva risulta quindi confermata la piena consapevolezza del concorso dei contratti collettivi a definire
il regime giuridico del lavoro subordinato in un dato Paese; e ciò perfino nei sistemi privi di meccanismi per
l'applicazione generalizzata dei contratti collettivi.
Il giudice, dunque, nell'individuare la legge applicabile a rapporti di lavoro con elementi di internazionalità,
per confrontarla eventualmente con la legge scelta dalle parti, considererà, quale parte integrante di tale
normativa, anche le disposizioni dei contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, oppure applicabili in virtù
di meccanismi quali l'iscrizione;
al limite, anche indipendentemente da tali meccanismi, allorché sia demandata alla fonte collettiva la
concretizzazione o specificazione di precetti posti direttamente dalla legge, come spesso accade nel nostro
ordinamento.
Se si pone mente alle diverse modalità di integrazione tra legge e contratto collettivo nei singoli sistemi, e
segnatamente al caso italiano, non è neppure da escludere che le disposizioni dei contratti collettivi, di per
sé privi di efficacia generalizzata, siano riconducibili, almeno indirettamente e a seguito del richiamo ad
opera della legge, al novero delle norme di applicazione necessaria. Si conferma così, in termini
giuslavoristici, una intuizione propria della dottrina internazionalista, priva però di quel supporto
argomentativo che qui si è cercato di evidenziare.
__________
Destinato agli Studi in memoria di Salvatore Hernandez. Lo scritto riproduce, con qualche adattamento, la
relazione svolta il 5 maggio 2003 presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
(1) L'aggancio della nozione di ordine pubblico ai principi internazionali è confermato da alcune recenti
pronunce della Corte di Cassazione: cfr. Cass. 11 novembre 2002, n. 15822, in "Riv. it. dir. lav." 2003,
II, 663; Cass. 11 novembre 2000, n. 14662, in questa rivista 2001, 365.
Testo
(2) Cfr. F. MOSCONI, Exceptions to the Operation of Choice of Law Rules, Recueil des Cours de La
Haye, 1989, vol. 217, 67.
Testo
(3) F. GAMILLSCHEG, Conflicts of law in employment contract and industrial relations, in BlanpainEngels (eds.), Comparative labour law and industrial relations in industrialized market economies,
Deventer: Kluwer 1993, 191-192; P. RODIE'RE, Note, in RCDIP 1990, 711.
Testo
(4) F. MOSCONI, Giurisdizione e legge applicabile ai rapporti di lavoro, in "Quad. dir. lav. rel. ind."
1998, 53 ss.
Testo
(5) Cfr. BAG, 24 agosto 1989, in"Der Betrieb" 1990, 1666 ss.
Testo
(6) Anche nell'ordinamento francese, nel quale gli interpreti sono forse più avvezzi di quanto non siano
nel nostro sistema a maneggiare la categoria delle norme di applicazione necessaria (immédiate,
secondo la terminologia francese), l'operazione di identificazione delle norme in questione nel campo
del diritto del lavoro appare alquanto incerta: le decisioni riguardano un numero limitato di disposizioni
e, a parte che in materia di regolamentazione amministrativa del lavoro e di rappresentanza sindacale,
non sempre giungono a risultati univoci: v. S. ROBIN, L'application du droit social français aux
enterprises prestataires de services établiesà l'étranger, in "Droit Social" 1994, 128.
Testo
(7) Anche se, ad onor del vero, recentemente cercando di circoscrivere la portata del concetto: cfr.
Cass 11 novembre 2002, n. 15822, cit.; Cass. 11 novembre 2000, n. 14662, cit.
Testo
10
(8) Cfr. sentenza 27 marzo 1990, C-113/89, in "RaccGC" 1990, 1439.
Testo
(9) P. DAVIES, The Posted Workers Directive and the EC Ttreaty, in "Industrial Law Journal" 2002,
300.
Testo
(10) V. Corte di Giustizia 23 novembre 1999, c-369/96 e c-376/96, Arblade e Seloup; 15 marzo 2001,
c-165/98, Mazzoleni; 25 ottobre 2001, c-49/89, 50/98, 52-54/98, 68-71/98, Finalarte; 24 gennaio 2002,
c-164/99, Portejara Construçoes; 25 ottobre 2001, c-493/99, Commisione c. Repubblica federale
tedesca. Su tutto ciò, v. P. DAVIES, The Posted Workers Directive and the EC Treaty, cit., 298 ss.
Testo
(11) Sul quale cfr. in generale S. MARETTI, Il recepimento della direttiva Cee sul distacco dei
lavoratori, in questa rivista 2000, 1148 ss.
Testo
(12) Cfr. ad es. Cass. 3 ottobre 1996, n. 8668, in "Lav. giur." 1997, 339; Cass. 15 luglio 1994, n. 6652,
in questa rivista 1994, 491 ss., con nota di I. INGLESE, Sull'efficacia extraterritoriale dei contratti
collettivi.
Testo
Legge 31 maggio 1995, n. 218 (in Suppl. ordinario alla Gazz. Uff., 3 giugno, n. 128). - Riforma del sistema
italiano di diritto internazionale privato (1).
Articolo 3 Ambito della giurisdizione.
1. La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha
un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell'articolo 77 del codice di
procedura
civile
e
negli
altri
casi
in
cui
è
prevista
dalla
legge.
2. La giurisdizione sussiste inoltre in base ai criteri stabiliti dalle sezioni 2, 3 e 4 del titolo II della
Convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia
civile e commerciale e protocollo, firmati a Bruxelles il 27 settembre 1968, resi esecutivi con la legge
21 giugno 1971, n. 804, e successive modificazioni in vigore per l'Italia, anche allorché il convenuto
non sia domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, quando si tratti di una delle materie
comprese nel campo di applicazione della Convenzione. Rispetto alle altre materie la giurisdizione
sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza per territorio.
Legge 18 dicembre 1984, n. 975 Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile alle
obbligazioni contrattuali, con protocollo e due dichiarazioni comuni, adottata a Roma il 19 giugno 1980.
Articolo 1 Campo d'applicazione.
1. Le disposizioni della presente convenzione si applicano alle obbligazioni contrattuali nelle
situazioni che implicano un conflitto di leggi.
Articolo 2 Carattere universale.
La legge designata dalla presente convenzione si applica anche se è la legge di uno Stato non
contraente.
Articolo 3 Libertà di scelta.
11
1. Il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti. La scelta dev'essere espressa, o risultare in
modo ragionevolmente certo dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze. Le parti possono
designare la legge applicabile a tutto il contratto, ovvero a una parte soltanto di esso.
2. Le parti possono convenire, in qualsiasi momento, di sottoporre il contratto ad una legge
diversa da quella che lo regolava in precedenza vuoi in funzione di una scelta anteriore secondo il
presente articolo, vuoi in funzione di altre disposizioni della presente convenzione. Qualsiasi
modifica relativa alla determinazione della legge applicabile, intervenuta posteriormente alla
conclusione del contratto, non inficia la validità formale del contratto ai sensi dell'art. 9 e non
pregiudica i diritti dei terzi.
3. La scelta di una legge straniera ad opera delle parti, accompagnata o non dalla scelta di un
tribunale straniero, qualora nel momento della scelta tutti gli altri dati di fatto si riferiscano a un unico
paese, non può recare pregiudizio alle norme alle quali la legge di tale paese non consente di
derogare
per
contratto,
qui
di
seguito
denominate
"disposizioni
imperative".
Articolo 4 Legge applicabile in mancanza di scelta.
1. Nella misura in cui la legge che regola il contratto non sia stata scelta a norma dell'art. 3, il
contratto è regolato dalla legge del paese col quale presenta il collegamento più stretto. Tuttavia,
qualora una parte del contratto sia separabile dal resto e presenti un collegamento più stretto con un
altro paese, a tale parte del contratto potrà applicarsi, in via eccezionale, la legge di quest'altro
paese.
2. Salvo quanto disposto dal paragrafo 5, si presume che il contratto presenti il collegamento più
stretto col paese in cui la parte che deve fornire la prestazione caratteristica ha, al momento della
conclusione del contratto, la propria residenza abituale o, se si tratta di una società, associazione o
persona giuridica, la propria amministrazione centrale. Tuttavia, se il contratto è concluso
nell'esercizio dell'attività economica o professionale della suddetta parte, il paese da considerare è
quello dove è situata la sede principale di detta attività oppure, se a norma del contratto la
prestazione dev'essere fornita da una sede diversa dalla sede principale, quello dove è situata
questa
diversa
sede.
Articolo 6. Contratto individuale di lavoro.
1. In deroga all'art. 3, nei contratti di lavoro, la scelta della legge applicabile ad opera delle parti
non vale a privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative della legge che
regolerebbe il contratto, in mancanza di scelta, a norma del paragrafo 2.
2. In deroga all'art. 4 ed in mancanza di scelta a norma dell'art. 3, il contratto di lavoro è regolato:
suo
a) dalla legge del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto compie abitualmente il
lavoro, anche se è inviato temporaneamente in un altro paese, oppure
b) dalla legge del paese dove si trova la sede che ha proceduto ad assumere il lavoratore, qualora questi
non compia abitualmente il suo lavoro in uno stesso paese, a meno che non risulti dall'insieme delle
circostanze che il contratto di lavoro presenta un collegamento più stretto con un altro paese. In questo caso
si applica la legge di quest'altro paese.
Cassazione civile , sez. lav., 11 novembre 2002, n. 15822
Dal contratto discendono non solo i singoli specifici vincoli direttamente voluti dalle parti, bensì anche quelli
previsti dalla legge (artt. 1339 e 1374 cod. civ.): attraverso norme dispositive (non espressamente escluse
dalle parti: art. 1487 primo comma cod.
civ.) o norme inderogabili (art. 1487 secondo comma cod. civ.). Pur previsti dalla legge, tali vincoli, avendo la
loro ragione in questa volontà, sono di natura contrattuale.
In questo ambito si collocano le norme che disciplinano lo scioglimento del contratto di lavoro a tempo
indeterminato con il licenziamento: in particolare, il divieto di licenziamento senza giusta causa o giustificato
12
motivo (art. 1 della legge 15 luglio 1966 n. 604), e l'obbligo della reintegrazione nel posto di lavoro (art.
18 della legge 20 maggio 1970 n. 300). Questo divieto e questo obbligo sono vincoli che, pur previsti dalla
legge e con norme inderogabili, traggono la foro causa immediata (ex art. 1374 cod.
civ.) dal contratto: hanno pertanto natura contrattuale (e di essi il contratto collettivo nazionale di lavoro è talora - solo una non necessaria risonanza).
Quando, dunque, si deduce la violazione - da parte del datore di lavoro - dei limiti inerenti alla sua facoltà di
recesso
dal
rapporto
di
lavoro,
si
deduce
un
inadempimento
contrattuale.
E pertanto, nell'ambito dei rapporti fra il diritto interno ed il diritto straniero, questo inadempimento,
riguardando un'obbligazione contrattuale, deve essere valutato alla stregua del diritto applicabile in virtù
della Convenzione di Roma 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (art. 57 della
legge 31 maggio 1995 n. 218).
Nel caso in esame, l'oggetto della controversia (la lamentata illegittimità del licenziamento per assenza di
giusta causa e giustificato motivo, e l'invocato diritto del lavoratore alla tutela prevista a fronte di tale
illegittimità) è costituito da obbligazioni contrattuali. E queste sono regolate dalla predetta Convenzione.
5. Per l'art. 6 n. 2 lettera "a" della Convenzione, in mancanza di scelta, il contratto di lavoro è regolato dalla
legge del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, compie abitualmente il suo lavoro.
E nel caso in esame, poiché il rapporto di lavoro si è svolto negli Stati Uniti d'America, le situazioni giuridiche
delle parti del rapporto discendente dal contratto di lavoro sono regolate dalla legge di tale paese.
6. Questo generale principio ha tuttavia un limite interno, fissato dalla stessa Convenzione: la legge straniera
non è applicabile "se tale applicazione sia manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico" del paese i
cui organi giudiziari dovrebbero applicare detta legge (art. 16).
Nel quadro di questa disposizione, è da rilevare che, secondo la relazione alla Convenzione, l'avverbio
"manifestamente" ha solo la funzione di obbligare "il giudice a motivare dettagliatamente la fondatezza
dell'eccezione". Ed è significativo che l'avverbio stesso non compaia nella generale successiva formula
dell'art. 16 della legge 31 maggio 1995 n. 218 (riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).
Generato dalla rottura dell'unità giuridica del mondo occidentale (con la formazione degli Stati nazionali e dei
loro differenziati principi), e formalmente introdotto nel codice napoleonico, l'ordine pubblico interno
Cassetto", "sistema", dalla dottrina letto anche come "giustizia") è un concetto definito con una clausola
generale (categoria diffusamente utilizzata nel codice del 1942).
Come ogni clausola generale, anche questa, da un canto esige la specificazione dell'interprete; e d'altro
canto (a questo riconoscendo maggiore spazio ed autonomia) consente di adeguare il principio non solo ai
multiformi irripetibili aspetti assunti dalla realtà in un determinato momento storico, bensì ai mutamenti della
coscienza nel tempo (in tal modo, la stessa formula. inizialmente recependo i valori emersi dalla Rivoluzione
francese - dalla dottrina definiti come le grandi idee di "libertà e dignità" della persona - ha poi espresso i
valori del sec. XIX con l'art. 10 preleggi del cod.
civ. del 1865, quindi le idee del codice del 1942, ed ora i principi dell'ordinamento repubblicano). L'esigenza
che i principi del nostro ordinamento debbano essere intesi non in senso astratto ed universale bensì in
relazione alla coscienza della convivenza in un determinato momento storico, è stata rilevata anche dalla
giurisprudenza (Cass. 21 ottobre 1955 n. 3399 e Cass. 17 maggio 1952 n. 1428).
In tal modo, l'ordine pubblico non è costituito da singole norme imperative (nelle quali non si identifica,
espressamente differenziandosene: artt. 643. 1343 e 1354 cod. civ.), nè dai principi generali
dell'ordinamento (che, deducibili attraverso progressiva generalizzazione dalle singole norme ed in ognuna
di queste restando inscritti, non sono ipotizzabili come esterno limite delle stesse), nè da singole norme
costituzionali (lo specifico limite dell'ordine pubblico non avrebbe ragione e funzione alcuna).
Dottrina e giurisprudenza (e plurimis, Cass. 9 marzo 1998 n. 2622) ritengono che l'ordine pubblico è
costituito dai principi che formano la struttura etica della convivenza. Questi assumono tuttavia rilievo (come
ordine pubblico) solo in quanto recepiti dall'ordinamento giuridico, costituendo, come autorevolmente
specificato in dottrina, "l'eticità dell'ordinamento quale risulta dal complesso delle sue norme", formula da cui
non è distante il pensiero di Corte cost. 2 febbraio 1982 n. 18, per cui l'ordine pubblico è costituito dalle
"regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici nei quali si articola
l'ordinamento positivo nel suo adeguarsi all'evoluzione della società". Da questa definizione Cass. Sez. Un.
1 ottobre 1982 n. 5026 deduce che, poiché non tutti i principi caratterizzanti l'ordinamento giuridico italiano
sono posti dalla Costituzione (concorrendovi anche le leggi), il concetto dell'ordine pubblico non può essere
ridotto nell'ambito, molto più ristretto, dei supremi principi costituzionali.La dottrina ritiene, poi, che a
delineare il concetto concorrano anche le norme programmatiche, poiché anche queste, per il loro contenuto
(principi),
esprimono
la
coscienza
della
convivenza,
come
recepita
dall'ordinamento.
7. Come parte dell'ordine pubblico, assume rilievo anche uno specifico aspetto della disciplina del lavoro.
13
Ed invero, il lavoro è giuridicamente costruito come fondamento della Repubblica (art. 1 primo comma Cost.)
nonché fondamentale diritto dovere d'ogni cittadino (art. 4 Cost.). Nella legislazione ordinaria, che a tali
principi si ispira. sono poi disciplinate (oltre ad altri importanti aspetti) "la libertà e la dignità" della persona
che lo svolge (legge 20 marzo 1970 n. 300), la professionalità (ad es., art. 2103 cod. civ.), l'anzianità (ad es.
l'art. 5 della legge 23 luglio 1991 n. 223), nonché la protrazione del rapporto in alcune ipotesi di sospensione
del lavoro (come le leggi sulla Cassa per l'integrazione dei guadagni) e nel trasferimento d'azienda (art. 2112
cod. civ.).
In tal modo, nel lavoro a tempo indeterminato, a fronte dell'unilaterale potere del datore di lavoro di porre
termine al rapporto, il lavoro è tutelato attraverso la previsione di limiti ed oneri inerenti a tale potere, i quali
hanno ridotto ad eccezione marginale l'arca della c.d. recedibilità ad nutum (vedi l'art. 1 della legge 15 luglio
1966 n. 604, l'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300; nonché il principio normativo affermato dalla
Direttiva comunitaria 28 giugno 1999 n. 70 e confermato da Corte cost. 7 febbraio 2000 n. 41, per cui "i
contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e
contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati ed a migliorare il rendimento"; vedi anche Cass.
21 maggio 2002 n. 7468, per.cui, anche dopo il decreto legislativo 6 settembre 2001 n. 368 e l'abrogazione
della legge 18 aprile 1962 n. 230, il termine costituisce la deroga d'un generale sottinteso principio, in base
al quale il contratto di lavoro subordinato, per sua natura, è a tempo indeterminato).
L'immagine che emerge da questo quadro normativo non è un rapporto che un mero flatus vocis del datore
possa spegnere, bensì un rapporto che tende a permanere nel tempo ove non intervenga ragione che ne
giustifichi la risoluzione.
Componente della ragione normativa di questa tendenziale protrazione (oltre alla dignità della persona,
come inscritta nella coscienza della collettività) è anche il fatto che l'aspettativa della protrazione,
alimentando l'interesse del lavoratore al suo stesso lavoro, conferendogli dignità, fornendogli la base per una
programmazione (economica ed ambientale: personale e familiare), e tuttavia in tal modo irreversibilmente
condizionandolo al suo stesso impegno, è nel contempo il migliore strumento di incremento della
produzione, per l'azienda e per più ampi contesti: finalità cui è sensibile l'ordinamento (vedi anche la citata
Direttiva comunitaria 28 giugno 1999 n. 70), e che contribuisce a giustificare molteplici interventi legislativi (è
da aggiungere che nella coscienza collettiva e nella norma che l'ha recepita è inscritto - con non minore
spessore - anche il dovere di lavorare).
La tutela di questa tendenziale stabilità, investendo uno dei fondamenti dello Stato e la dignità della persona,
coinvolgendo un ampio quadro normativo, ed essendo in tal modo parte essenziale dell'assetto del
l'ordinamento, rientra nello spazio dell'ordine pubblico.
La dottrina (tedesca, francese ed italiana) ha posto in evidenza come nella cultura della società europea il
"diritto al lavoro" contiene necessariamente in sè l'immagine della stabilità e della tutela contro i
licenziamenti ingiustificati (tutela che il diritto tedesco ha introdotto per primo, dai primi anni di Weimar).
Nè può trascurarsi, nella ricognizione dei testi che concorrono a delineare i tratti dell'ordine pubblico
internazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, il cui art. 30 stabilisce che ogni
lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato; senza entrare qui nel merito della
questione relativa all'efficacia giuridica di tale testo, è indubbio che esso sia espressione dei principi giuridici
fondamentali, comuni agli ordinamenti europei (in tal senso, Corte cost. 24 aprile 2002 n.
135).
Per tale via si saldano l'ordine pubblico della Repubblica al patrimonio di tradizioni costituzionali comuni ai
paesi dell'Unione, e i tratti fondamentali dell'ordine pubblico italiano a quelli dell'ordine pubblico dell'Unione
nel quale l'ordinamento italiano si inserisce e dal quale è conformato.
Con la riduzione delle differenze culturali e nella misura dell'emersione d'una struttura giuridica unitaria,
nell'ambito dell'Unione europea, l'ordine pubblico dei singoli ordinamenti, generato dai differenziati principi
dei singoli Stati, tende ad uniformarsi.
Attraverso questo progressivo processo di conformazione dell'ordinamento al valore costituzionale del lavoro
si è pervenuti ad una connotazione dell'ordine pubblico che questa Corte ha espresso con la formula
secondo cui "la stabilità del posto di lavoro costituisce principio di ordine pubblico" (Cass. 9 marzo 1998 n.
2622, Cass. 27 marzo 1996 n. 2756, Cass. 22 febbraio 1992 n. 2193, Cass. n. 3209 del 1985 e n. 1990 del
1974, che tuttavia riguardano in modo particolare l'abrogato art. 31 delle preleggi e l'abrogata legge 18 aprile
1962 n. 230).
Confermando e specificando questo principio, è da affermare che, poiché la stabilità del posto di lavoro è
tutelata dall'ordinamento attraverso il pressoché generale divieto di recesso ad nutum, parti integranti
dell'ordine pubblico sono le norme che predispongono questa tutela, nel suo nucleo essenziale, ben
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espresso dalla formula del surriportato art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione.
Inconferenti appaiono pertanto le considerazioni della controricorrente sulla non qualificabilità della tutela
reale di cui all'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 come connotato dell'ordine pubblico. Se ciò è
indiscutibilmente esatto, è pur vero che di tale dimensione fa parte non il concreto meccanismo attraverso il
quale si sanziona il recesso ingiustificato del datore di lavoro, bensì il principio che questi non possa a
proprio arbitrio recedere dal rapporto. Solo ove, in esito a tale verifica, si dovesse escludere l'applicazione
della legge straniera e ritenere applicabile la legge del foro, le conseguenze saranno quelle da questa
concretamente previste. In altri termini, lo scrutinio sulla compatibilità della legge straniera applicabile al
caso dev'essere compiuto non sulla scorta del petitum immediato della domanda ma comparando in astratto
la legge straniera con l'ordine pubblico del foro come sopra inteso.
8. La sentenza impugnata ha del tutto trascurato i suesposti ,principi. In particolare, fuorviata dall'errore
iniziale di considerare la controversia come relativa - non già ad obbligazione contrattuale, ma - ad
obbligazione nascente dalla legge o da atto illecito (vedi supra sub "4."), ha perso di vista la problematica
indicata sub "5.", "6." e "7"; ed ha omesso di compiere le operazioni logico - giuridiche alle quali il giudicante
era tenuto per l'individuazione della legge applicabile al rapporto e, una volta tale legge individuata, per
scrutinarne
le
disposizioni
alla
luce
dell'ordine
pubblico
internazionale.
9. La sentenza impugnata deve essere dunque cassata e la causa rinviata ad altro giudice, che la deciderà
attenendosi ai seguenti principi di diritto:
1. Ai fini del diritto internazionale privato italiano. la domanda con la quale il lavoratore chieda dichiarasi
l'illegittimità del licenziamento e la reintegra nel posto di lavoro, in relazione a rapporto di lavoro sorto
all'estero, ivi eseguito e poi risolto, introduce una controversia relativa ad obbligazioni contrattuali ai sensi
dell'art. 57 della legge 31 maggio 1995 n. 218. Pertanto la legge applicabile a tale controversia dev'essere
individuata secondo le disposizioni della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 resa esecutiva con legge
18 dicembre 1984 n. 975.
2. A norma dell'art. 6 secondo comma lettera "a" della predetta Convenzione, il rapporto di lavoro sorto,
eseguito e risolto negli Stati Uniti d'America ed in relazione al quale, all'atto della stipulazione del relativo
contratto, le parti non abbiano esercitato la facoltà di scelta di cui all'art. 3 della stessa Convenzione, è
regolato dalla legge del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, salvo che tale legge - che il giudice
ha il dovere d'accertare d'ufficio a norma dell'art. 14 della citata legge 31 maggio 1995 n. 218 - non risulti
manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico italiano.
3. È manifestamente incompatibile con l'ordine pubblico italiano una legge che, in linea generale, non
preveda tutela contro il licenziamento ingiustificato.
4. In caso di accertata incompatibilità con l'ordine pubblico italiano, ai sensi del numero che precede, il
giudice applicherà i criteri di cui all'art. 4 della richiamata Convenzione di Roma.
Il ricorso deve essere accolto. E, con la cassazione della sentenza, la causa deve essere rinviata a contiguo
giudice di merito, che provvederà anche alla disciplina delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata, e rinvia alla Corte d'Appello di L'Aquila, anche per
le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 10 aprile 2002.
1. Fattispecie e definizioni
Quali sono gli elementi di estraneità all’ordinamento del rapporto di lavoro:
Carattere straniero del datore di lavoro
Carattere straniero del lavoratore
Luogo estero di conclusione del contratto
Luogo estero di svolgimento del rapporto di lavoro.
Formule contrattuali per l’invio del lavoratore all’estero
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1. Titolarità del contratto in capo al datore di lavoro italiano:
a) trasferta
b) trasferimento
c) distacco
2. Titolarità del contratto in capo alla società estera.
a) risoluzione del rapporto
b) clausola di rientro
c) aspettativa.
2. giurisdizione.
Essa è in primo luogo disciplinata dall’articolo 3 della legge 218/95.
In base a tale articolo il primo criterio è dato dalla residenza o dal domicilio del convenuto in Italia.
Regolamento CE 44/2001 Articolo 19:
“ Il datore di lavoro domiciliato nel territorio di uno stato membro può essere convenuto:
1. Davanti ai giudici dello Stato membro in cui è domiciliato, o in un altro Stato membro:
a) davanti al giudice del luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o a quello
dell’ultimo luogo in cui la svolgeva abitualmente, oppure
b) qualora il lavoratore non svolga o non abbia svolto abitualmente la propria attività in un solo paese,
davanti al giudice del luogo in cui è o era situata la sede dell’attività presso la quale è stato assunto.
In ogni caso, ai fini dell’individuazione del foro di esecuzione abituale, sono rilevanti:
a - volontà delle parti nel contratto
b – esistenza di una minima base d’appoggio dove il lavoratore organizza l’attività
c – esistenza di una minima base d’appoggio dove il lavoratore mantiene i contatti con il datore di lavoro.
D – esistenza di clienti italiani.
Il Tribunale di Vicenza e la competente Corte D’Appello tra il 2003 ed il 2005 ebbero ad affrontare il caso
di un lavoratore, assunto in UK, presta la propria attività in vari paesi europei, ma che vive in Italia, dove ha
locato un immobile dove vive ed organizza la propria attività. In questo caso, il giudice di secondo grado ha
riconosciuto la giurisdizione del giudice italiano.
In quella sede è stata affermata la nozione di luogo abituale di svolgimento della prestazione lavorativa:
“ E’ il luogo ove sussiste il centro effettivo di svolgimento della prestazione lavorativa o l’ambito dove il
lavoratore adempie alle sue obbligazioni nei confronti del datore di lavoro o organizza la sua attività
lavorativa.” – “ o comunque il luogo ove svolge la parte principale delle prestazioni lavorative”.
3. legge applicabile
Convenzione di Roma 1985 – Articolo 3 – Il contratto è regolato dalla legge scelta dalle parti –
La scelta deve risultare in modo ragionevolmente certo dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze.
La scelta di una legge straniera qualora al momento della scelta tutti i dati del contratto si riferiscano ad un
unico paese non consente di derogare per contratto alle leggi imperative di quel paese.
Regole specifiche valgono invece per il contratto individuale di lavoro (articolo 6 della convenzione).
La scelta della legge applicabile è sempre possibile, ma non può privare il lavoratore della protezione che gli
sarebbe assicurata da norme imperative in caso di mancata scelta e quindi dalla legge del paese dove
compie abitualmente il suo lavoro anche se inviato temporaneamente in altro paese, oppure dalla legge del
paese dove si trova la sede del datore di lavoro che ha provveduto all’assunzione.
In ogni caso è esclusa l’applicazione della normativa contraria all’ordine pubblico del nostro paese.
Veniamo ad alcuni casi pratici:
Un lavoratore presta la propria attività presso la sede di New York di una società. E’ pattuita l’applicazione
della legge statunitense, in una fase successiva del rapporto, si pattuisce l’applicazione della legge italiana.
Cessato il rapporto di lavoro, egli ricorre al giudice chiedendo il pagamento della buonuscita e del TFR per
l’intero periodo. La cassazione nel 2005 gli da ragione.
E’ chiaro che avendo operato negli Stati Uniti per società che ivi aveva la sede potevano essere derogate le
norme imperative dell’ordinamento italiano, ma non quelle di ordine pubblico. La Cassazione ha infatti
ritenuto che il principio di continuità e non frazionabilità del rapporto di lavoro sia principio di ordine pubblico.
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Il secondo caso riguarda invece alcuni dipendenti di RAI CORPORATION SPA operante negli USA, essi alla
cessazione del rapporto si rivolgono al giudice italiano chiedendo di essere considerati sin dall’inizio
dipendenti dalla RAI e quindi chiedono il calcolo del TFR ed il versamento dei contributi omessi. La Corte di
Cassazione con sentenza del 2005 da loro torto. Essi hanno operato negli USA stabilmente e quindi non
sono soggetti alle norme imperative italiane. La legge 1369/60 da loro invocata non è considerata d’ordine
pubblico.
Un dipendente da una banca italiana è assunto con scelta della legge USA e lavora negli Stati Uniti.
Secondo la legge locale, egli è licenziato senza il ricorrere della giusta causa. Ricorre al giudice italiano. La
normativa in tema di limitazione del licenziamento è considerata principio d’ordine pubblico e la cassazione
con sentenza del 2002 stabilisce la legittimità della reintegra.
Nel 2005, la Cassazione si trovava ad affrontare un ulteriore caso, dove un lavoratore aveva stipulato un
contratto secondo la legge canadese dove non era previsto il pagamento del TFR e della tredicesima
mensilità. La Cassazione aveva ritenuto che le norme che prevedono il pagamento di questi istituti sono
norme inderogabili, ma non di ordine pubblico, per cui non debbono necessariamente assistere il contratto
del lavoratore italiano che si svolga all’estero.
In particolare la Corte di Cassazione ribadiva la non coincidenza di norma imperativa con norma di ordine
pubblico.
In questa occasione, la Cassazione forniva la definizione del concetto di ordine pubblico identificato nei
principi fondamentali della Costituzione e delle regole che tutelano i diritti fondamentali dell’uomo e la cui
lesione può stravolgere le regole della nostra società.
4. distacco
Nella normativa italiana l’istituto del distacco è regolamentato dall’articolo 30 del DLGS 276/2003 – si ha il
distacco:
“ Quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più
lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.”
Abbiamo diverse categorie di distacco:
a) distacco semplice – sufficiente interesse datore e temporaneità
b) distacco con mutamento di mansioni – sufficiente interesse datore, temporaneità, consenso
lavoratore.
c) Distacco oltre 50 KM – interesse datore, temporaneità, comprovate ragioni tecniche, organizzative,
sostitutive.
d) Distacco oltre 50 KM con mutamento di mansioni – interesse datore, temporaneità, consenso del
lavoratore, comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive, sostitutive.
Il distacco nella normativa comunitaria:
E’ disciplinato dalla direttiva comunitaria 96/71 recepita nel decreto legislativo 72/2000 – esso offre una
nozione di distacco più ampia di quella di cui all’articolo 30 DLGS 276/2003.
Si legge all’articolo 2 DLGS 72/2000:
“ E’ lavoratore distaccato colui che per un periodo limitato svolga il proprio lavoro nel territorio di uno stato
membro diverso da quello nel cui territorio lavora abitualmente.”
Per quanto riguarda la disciplina applicabile al lavoratore distaccato, l’articolo 3 del DLGS n.72 /2000
stabilisce per i lavoratori degli stati membri dell’Unione Europea l’applicazione delle medesime condizioni di
lavoro applicate ai lavoratori del paese in cui è in corso il distacco.
Vi sono delle eccezioni per i lavori di assemblaggio e di installazione nel contratto di fornitura di beni di
durata inferiore ad otto giorni.
In ogni caso e quindi anche per i lavoratori degli stati che non sono membri della Comunità spetta ai
lavoratori distaccati le condizioni minime vigenti presso lo stato in tema di durata massima dell’orario di
lavoro, ferie minime, tariffe minime retributive, sicurezza sul lavoro, tutela della maternità, parità uomo –
donna, non discriminazione.
La responsabilità di trattamento è solidale.
Sono soggette alla presente disciplina anche le imprese stabilite in uno stato membro che effettuano attività
di fornitura di lavoro temporaneo e che, in caso di distacco in Italia, debbono possedere i requisiti previsti
dalla nostra legge in tema di somministrazione. Esse possono avere un’autorizzazione equivalente se
rilasciato da altro paese comunitario.
La giurisdizione nel distacco.
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L’articolo 6 del DLGS n. 72 /2000 stabilisce che il lavoratore distaccato che presta la propria attività nello
stato italiano può agire anche davanti ad altro giudice di uno stato con il quale esista convenzione
internazionale in tema di giurisdizione nei rapporti di lavoro oppure può agire innanzi al giudice italiano
senza necessità che sia applicato l’articolo 410 CPC (tentativo obbligatorio di conciliazione).
5. retribuzione
Il punto più importante riguarda l’indennità estero.
Questa particolare indennità riveste spesso una duplice natura in quanto essa può risultare volta ad
incrementare il corrispettivo retributivo del dipendente in forza delle particolari mansioni svolte, come d’altro
canto, essa può tendere a risarcirlo di particolari contenuti di gravosità.
In questi casi è sorto contenzioso determinato dalla ritenuta violazione del principio di irriducibilità della
retribuzione di cui all’articolo 2103 del codice civile.
La Cassazione è più volte intervenuta sul punto sostenendo come il principio valga esclusivamente per gli
emolumenti che vengono corrisposti a fronte di una maggiore e più qualificata prestazione, ma non invece
per quegli aspetti di gravosità del rapporto che vengono meno con il mutare delle condizioni di lavoro.
Ciò non significa che l’indennità estero non possa contribuire a formare la base per il TFR o per altri
emolumenti, potendo ben assumere natura retributiva, ma non per questo del tutto correlata alle mansioni e
quindi da conservarsi nel corso dell’intero rapporto di lavoro.
Dunque è importante approfondire i contenuti reali dell’indennità prima di stabilirne il regime.
6. contribuzione.
E’ stabilita una deroga temporanea al principio di territorialità della legislazione applicabile.
Accade così che per il termine di 12 mesi il lavoratore mantiene il regime previdenziale del paese di
provenienza e quindi, oltre questo periodo, egli viene assoggettato al regime di sicurezza sociale del paese
di provenienza e dove risiede il datore di lavoro.
Per quanto riguarda i paesi extra comunitari valgono invece le convenzioni.
Dove invece non vi sono convenzioni si applica il regime italiano.
www.fmb.unimore.it
Bollettino Adapt, 23 settembre 2008, n. 28
La legge applicabile al rapporto di lavoro transnazionale dopo
il c.d. Regolamento “Roma I”*
Qual è la legge applicabile ad un contratto di lavoro tra una società italiana e un cittadino francese se la
sede di lavoro è nella Repubblica Ceca, oppure in Slovenia o ancora in Bulgaria?
Sino ad ora, il primo riferimento per rispondere a questa domanda era la Convenzione di Roma del 1980
sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali in materia civile e commerciale che, all’articolo 6, si
occupa dei contratti di lavoro. Una tappa intermedia nella creazione di uno spazio giuridico comune,
caratterizzata tuttavia, dai limiti propri dello strumento convenzionale: ratifica da parte del singolo Stato e
legge interna di esecuzione.
Dopo un lungo dibattito, lo scorso mese di giugno, gli Stati membri dell’Unione Europea hanno adottato il
Regolamento n. 593 che troverà applicazione per i contratti stipulati dopo il 17 dicembre 2009 e che
recepisce la Convenzione di Roma in forma di strumento comunitario. Si raggiunge così l’importante
obiettivo della uniformazione dei criteri di individuazione della legge applicabile ai contratti internazionali,
inclusi i contratti di lavoro.
Non solo. Si garantisce anche l’effettività di tale uniformazione attraverso il controllo giurisdizionale della
Corte di Giustizia. Regno Unito e Danimarca hanno esercitato l’opzione di escludere l’applicazione del
Regolamento.
Rimane applicabile per questi Paesi la Convenzione di Roma, ferma comunque la facoltà di accedere
successivamente al Regolamento.
Il Regolamento ha carattere universale, la legislazione designata si applica, infatti, anche se non è quella di
uno Stato membro.
La legge applicabile al rapporto di lavoro transnazionale è ora individuta dall’articolo 8. Si tratta di ipotesi
quali quella del cittadino italiano assunto da una società italiana per lavorare in un diverso Paese europeo,
della società italiana che assume in Italia un cittadino comunitario, della società con
sede all’interno dell’Unione che assume in un Paese comunitario lavoratori italiani.
In tutti questi casi, il Regolamento, come prima la Convezione, stabilisce che datore di lavoro e lavoratore
sono liberi di individuare la legge applicabile al rapporto di lavoro. D’altro canto, il criterio di tutela della
autonomia contrattuale attraverso la scelta della legge applicabile costituisce un principio consolidato del
diritto internazionale privato a livello comparato, pienamente valorizzato dalla Convenzione di Roma. Poiché
però il lavoratore è considerato parte debole del contratto, la disciplina comunitaria prevede una
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Bollettino Adapt, 23 settembre 2008, n. 28 2
specifica misura di tutela. Convenzione e Regolamento individuano, infatti, criteri sussidiari di collegamento
per determinare la legge applicabile al rapporto transnazionale in mancanza di scelta delle parti. Si tratta, in
particolare, del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa e, se questo non può essere individuato, del
Paese dove ha sede il datore di lavoro che assume.
Entrambi i criteri sono derogati se si dimostra che il contratto ha un più stretto collegamento con un diverso
Paese la cui legislazione sarà dunque quella applicabile. Orbene, quand’anche le parti abbiano
autonomamente designato la legge applicabile, tale scelta non priva il lavoratore della protezione
assicuratagli dalle norme imperative vigenti nel Paese individuato attraverso tali criteri sussidiari di
collegamento. Questo vuol dire che datore di lavoro e lavoratore possono scegliere la legge regolatrice del
rapporto di lavoro in base alle proprie convenienze e valutazioni, ma al lavoratore è assicurata la tutela
derivante dalle norme inderogabili del Paese in cui svolge la prestazione ovvero ove ha sede il datore di
lavoro che lo assume.
L’adozione del Regolamento non pregiudica l’applicazione della direttiva 16 dicembre 1996, n. 96/71/CE,
relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi. Si tratta dell’ipotesi specifica in cui
il lavoratore, impiegato stabilmente in un determinato Paese (anche presso un’agenzia di somministrazione),
è inviato all’estero solo temporaneamente dal proprio datore di lavoro nell’ambito di una prestazione di
servizi.
Seppure appare rilevante l’intervento di chiarificazione di alcune ambiguità del testo convenzionale, non si
registrano nel Regolamento Roma I variazioni di rilievo sostanziale sulla regolazione dei rapporti di lavoro
rispetto alla Convenzione di Roma. Resta tuttavia fondamentale il passaggio relativo alla applicazione
generalizzata della disciplina e alla giurisdizione della Corte di Giustizia. Un progresso la cui portata deve
essere evidentemente dimensionata all’attuale contesto di allargamento.
Chiara Bizzarro
Roberta Caragnano
Scuola internazionale di Alta formazione in Relazioni industriali e di lavoro
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Adapt – Fondazione Marco Biagi
* Anche in Conquiste del Lavoro, 5 settembre 2008.
Per un approfondimento, si veda il regolamento CE n. 593/2008 in Boll. Adapt, 2008, n. 25,
in www.fmb.unimore.it.
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