GIUDITTA E OLOFERNE di Donatello
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GIUDITTA E OLOFERNE di Donatello
Giuditta e Oloferne di Donatello Nel 1300, Firenze visse un periodo disgraziato: ammorbata dalla peste, dilaniata dalle guerre e sconvolta dalla rivolta dei Ciompi. All’orizzonte di questo secolo buio e travagliato comparve, come d’incanto, un ragazzetto esile e mingherlino, figlio di un umile cardatore di lana, destinato a cambiare per sempre il corso dell’arte italiana e diventare il primo scultore dell’era moderna. Donato, soprannominato Donatello per la corporatura minuta, lavorò nei più importanti cantieri dell’epoca, abbellendo con le sue sculture la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, il Campanile di Giotto, la Chiesa di Orsanmichele. Giuditta e Oloferene, realizzata quando l’artista era già vecchio, fu, insieme al Marzocco (il leone simbolo di Firenze), la prima statua a ornare l’arengario di Palazzo Vecchio. Ce la misero i fiorentini, dopo la rivolta popolare che aveva cacciato i Medici dalla città, come simbolo della Repubblica che abbatte i tiranni 1 Giuditta, l’eroina che sconfisse un esercito Un giorno, il satrapo Arfaxad, signore della città di Ecbatana, si ribellò al Gran Re degli Assiri Nabucodonosor. Arfaxad fortificò la città con mura possenti, ben sette cerchi concentrici, e alte torri così da renderla inespugnabile. Per chiamare i sudditi alle armi Nabucodonosor aveva mandato messaggeri in tutto il suo vasto regno. Dalle montagne del Nord, dalle pianure del Tigri e dell’Eufrate, dalla lontana Persia giunsero soldati, carri, cavalli, oro e provviste. Sotto la sovranità del Gran Re degli Assiri ricadevano anche gli abitanti di Damasco, l’Alta Galilea, tutte le genti di Samaria, la valle del Giordano, Gerusalemme e tutto l’Egitto fino ai confini di Etiopia. Anche tra quelle genti giunsero i messaggeri, ma nessuno volle ascoltarli: li scacciarono e li derisero. Quando Nabucodonosor fu informato dell’accaduto, giurò vendetta. Prima di tutto bisognava punire il satrapo ribelle che col suo cattivo esempio aveva sobillato tutti gli altri. Nabucodonosor marciò contro Arfaxad, mise in fuga il suo esercito, s’impadronì di tutte le città, cinse d’assedio l’inespugnabile Ecbatana e l’espu2 gnò. Inseguì il ribelle fin sulle montagne e lo annientò sotto una pioggia di frecce. Compiuta la vendetta, si ritirò a Ninive insieme alla sua armata e per centoventi giorni pensò solo a bere, mangiare e divertirsi. Il 121° giorno pensò invece a completare la vendetta. Affidò il compito al generale Oloferne, ordinandogli di sottomettere tutti i popoli ribelli, uccidendo chiunque opponesse resistenza, ma lasciando in vita gli altri. Al comando di una moltitudine di carri, cavalieri, fanti e arcieri, Oloferne iniziò la spedizione punitiva. Varcò le montagne e dilagò nella pianura fin sotto le mura di Damasco; uccise, saccheggiò, rase al suolo le città fortificate. Nessuno poteva opporsi alla forza d’urto di quel formidabile esercito. L’intera Palestina fu presa dal panico. Ammoniti e Filistei inviarono ambasciatori per trattare la resa. Oloferne risparmiò le loro città dalla distruzione, vi stabilì dei presidi armati e aggregò al suo esercito un contingente di soldati scelti. Con quell’immensa armata, più di 160.000 uomini, mise il campo tra Geba e il monte Geboe, e per un intero mese ammassò rifornimenti. Allarmate da quel dispiegamento di forze, le tribù di Israele si prepararono a combattere. Fortificarono i villaggi, ammassarono viveri in previsione della guerra e occuparono i valichi di montagna, dove sarebbe stato più facile bloccare l’avanzata del nemico, perché i valichi erano così stretti da permettere il passaggio a due soldati alla volta. 3 Le vedette assire avvertirono Oloferne delle manovre nemiche e il generale convocò immediatamente i comandanti delle milizie aggregate: «Dite un po’, voi che li conoscete, ma chi sono questi figli di Israele? Quali le loro città e la consistenza delle loro truppe? Chi li comanda? Chi è il loro Re?». Quelli si guardarono l’un l’altro, nessuno voleva prendere la parola, poi si fece avanti Anchior, comandante degli Ammoniti, e disse quello che c’era da dire. Lui li conosceva bene, li combatteva da una vita. Parevano un popolo debole, facile da sottomettere, invece nessuno c’era riuscito. Certo, la carestia li aveva fatti fuggire in Egitto dove erano stati fatti schiavi e i Babilonesi li avevano deportati a Babilonia in catene, ma dall’uno e dall’altra erano tornati più forti di prima. Un Re non ce l’avevano, avevano invece un solo Dio che dispensava loro grande aiuto e conforto, ma quando s’incavolava, e s’incavolava spesso, dispensava anche terribili punizioni. Con Dio dalla loro parte, diventavano un avversario pericolosissimo. Quando ebbe finito di parlare si accorse che era meglio se stava zitto: se li era messi tutti contro. Gli altri comandanti volevano menarlo subito, per fortuna intervenne Oloferne, che invece voleva menarlo più tardi. 4 Su ordine del generale, i soldati assiri lo condussero sui monti, abbandonandolo poco dopo le fonti di Betulia evitando di finire sotto il tiro dei frombolieri attestati sulle cime. Gli ebrei condussero Anchior davanti agli anziani del villaggio. Quand’ebbe spiegato loro l’accaduto, gli batterono grandi pacche sulle spalle e lo invitarono a rimanere. «Sei dalla parte giusta» lo rincuorarono; lui non ne era affatto convinto. Le truppe di Oloferne si schierarono nella pianura, bloccando tutti gli accessi ai monti. Era una moltitudine sterminata che riempiva la valle fino all’orizzonte, senza che se ne vedesse la fine. Benché scoraggiati da quello spettacolo spaventoso, gli abitanti di Betulia presero le armi, accesero i fuochi sulle torri e vegliarono tutta la notte, pronti a combattere. Il secondo giorno Oloferne schierò la cavalleria davanti a Betulia e fece una ricognizione di tutti gli accessi che salivano alla città, di pozzi e sorgenti d’acqua; e dovunque pose soldati di guardia. Poi tornò all’accampamento. 5 Ad aspettarlo c’erano i comandanti delle milizie aggregate con una proposta. Quelle vette non erano facili da prendere nemmeno per dei soldati esperti e si rischiavano gravi perdite, perciò, anziché dar battaglia, meglio occupare la sorgente ai piedi del monte, dove gli abitanti di Betulia andavano a rifornirsi di acqua, presidiando i monti vicini di modo che nessuno potesse uscire dalla città. Betulia si sarebbe arresa per sete, senza combattere. La proposta piacque ad Oloferne che mise subito in pratica il consiglio. Per 34 giorni Betulia rimase accerchiata. Senza più rifornimenti, le cisterne si vuotarono e la volontà di resistere venne meno: meglio arrendersi che morire di sete Il capo degli anziani chiese alla popolazione di aspettare altri cinque giorni, dopo di che, se la situazione non fosse cambiata, si sarebbero arresi. Tutti pregavano: chi per un aiuto, chi per la pioggia, chi per un miracolo, purché avvenisse entro 5 giorni. Viveva a Betulia una giovane e bellissima vedova, Giuditta. Suo marito era morto lasciandole in eredità molte ricchezze. Insomma, così bella, giovane e ricca, aveva una lunga schiera di pretendenti che la chiedevano in moglie, ma lei non volle risposarsi. Quando venne a sapere che i suoi concittadini avevano intenzione di arrendersi, si recò dagli anziani. «Ma non capite che se ci arrendiamo Israele sarà invasa e noi saremo per sempre additati come traditori dai nostri stessi fratelli!». Gli anziani, non sapendo cosa rispondere, la invitarono a pregare con loro: che altro potevano fare? Per quanto devota, quella sera Giuditta non pregò. Se ne tornò a casa, smise gli abiti da vedova, si lavò, si unse con oli profumati, 6 si pettinò e indossò il vestito più bello, quello della festa, che non aveva più indossato dalla morte di suo marito, e si adornò con bracciali, collane, orecchini, tutti i suoi gioielli più preziosi. Si fece così bella che chiunque l’avesse vista se ne non avrebbe potuto fare a meno di innamorarsene. Insieme alla sua serva, si diresse verso la porta della città, dov’erano gli uomini di guardia. «Ascoltate» disse la bella Giuditta, «stanotte lascerò Betulia e prima che il tempo fissato per consegnare la città sia scaduto, per mezzo mio il Signore abbatterà i nostri nemici». Quindi uscì dal villaggio insieme alla serva. Ben presto le due donne incontrarono le sentinelle assire: «Chi siete? Dove andate?» chiesero sorpresi. «Sono ebrea» rispose Giuditta, «fuggo dal mio popolo e vengo dal vostro capo Oloferne perché ho una proposta da fargli. Portatemi da lui». I soldati la scortarono dal comandante supremo. In tutto il campo non si parlava che della bellissima straniera, e da ogni parte accorrevano a vederla. « C h e vuoi?» le chiese Oloferne fissandola ammirato: in vita sua non aveva mai visto una donna tanto bella! «Sono venuta a farti una proposta» rispose Giuditta. «Finché il Signore li protegge, tu non riuscirai a sconfiggere gli abitanti di Betulia, ma quando, spinti dalla fame, mangeranno gli animali e il grano destinati al Signore, allora il Signore si arrabbierà a causa 7 del loro peccato e per mano tua li punirà. Ogni notte io uscirò dal campo a pregare per conoscere quando ciò accadrà, a quel punto tu potrai attaccare Betulia e conquistarla facilmente». Queste parole piacquero a Oloferne, quanto la donna che l’aveva pronunciate. «Hai fatto la scelta giusta» le disse. «Sei bella e saggia, e se farai come hai detto saprò ricompensarti». Per tre notti Giuditta uscì dall’accampamento a pregare il Signore. Sempre più innamorato della bella straniera, Oloferne la invitò nella sua tenda per una cenetta intima. Giuditta si fece ancora più bella e andò all’appuntamento. Oloferne non perdeva occasione per farle dei complimenti, Giuditta non perdeva occasione per riempirgli il bicchiere. Ormai ubriaco, il gran generale, comandante degli Assiri le si avvicinò barcollando e cercò di baciarla. Lei gli appoggiò le mani sulle spalle e con una dolce pressione lo costrinse a sedersi. Lo afferrò per i lunghi capelli e, fissandolo intensamente, gli sussurrò: «Adesso chiudi gli occhi». Lui li chiuse obbediente, pensando di ricevere un bacio appassionato, invece ricevette un colpo di scimitarra che gli tagliò di netto la testa. 8 Giuditta avvolse la testa in un drappo e uscì dalla tenda. La serva la stava aspettando, infilarono la testa nella sua bisaccia e insieme si diressero verso Betulìa. Seguendo gli ordini di Giuditta, gli uomini del villaggio si armarono e uscirono come volessero ingaggiare combattimento. Le sentinelle assire corsero ad avvertire il loro comandante, e così di seguito fino al comandante supremo Oloferne. Gli ufficiali che entrarono nella tenda trovarono il corpo del generale immerso in un lago di sangue: la testa non c’era più. In breve la notizia si sparse per tutto l’accampamento: il Dio degli Ebrei era davvero potente se aveva decapitato il loro generale nella sua tenda. L’esercito fu preso dal panico e si disperse. Chi fuggì per i sentieri della pianura e chi per quelli delle montagne, e dovunque trovarono i soldati di Israele ad attenderli per massacrarli. L’esercito sbandato fu accolto dalle popolazioni in armi che inseguirono e massacrarono i soldati assiri fin oltre i confini di Damasco. Trenta giorni durò il saccheggio dell’immenso accampamento davanti a Betulia, e tre mesi durarono le feste in onore di Giuditta, l’eroina che da sola aveva sconfitto il più potente degli eserciti. Passata la festa, ognuno se ne tornò a casa, e Giuditta tornò a Betulia, nella casa che era stata di suo marito. In molti la chiesero in moglie, ma lei non volle mai risposarsi. Visse fino a 105 anni, poi morì e fu sepolta a Betulia dov’era sempre vissuta, accanto a suo marito. Nessuno vi fu che spaventasse i figli di Israele durante i giorni di Giuditta, né per molto tempo ancora dopo la sua morte. 9
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