La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali

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La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali
La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali
RAPPORTO
CNEL - 13 DICEMBRE 2011
Il Rapporto “La Primavera Araba: sfide e opportunità economiche e sociali”
è stato elaborato per il CNEL dall’Istituto Affari Internazionali, a cura di
Maria Cristina Paciello.
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INDICE
Introduzione
1. Quadro socio-economico e politico della primavera araba
Introduzione
1.1 Mercato del lavoro
1.1.1 Deterioramento del mercato del lavoro
1.1.2 Debolezze dei modelli di crescita e impatto sul mercato del lavoro
1.1.3 Inefficacia delle politiche attive del mercato del lavoro
1.2 Sistema di welfare e condizioni di vita
1.2.1 Crisi del sistema di welfare
1.2.2 Erosione del potere d’acquisto
1.3. Quadro politico
1.3.1 Contesti autoritari
1.3.2 Dinamiche politiche e problemi economici
2. Sfide socio-economiche dopo la primavera araba
Introduzione
2.1 Incertezze del cambiamento politico
2.2 Ripercussioni socio-economiche della primavera araba
2.3 Risposte dei governi
3. Ruolo della società civile
3.1 La società civile alla vigilia della primavera araba tra repressione e cooptazione
3.2 Crescente contestazione nell’ultimo decennio
3.3 La primavera araba
3.4 Società civile tra sfide e opportunità
3.4.1 Quadro d’insieme
3.4.2 Sindacati dei lavoratori
3.4.3 Organizzazioni rappresentative degli imprenditori
3.4.4 Attivismo giovanile
3.4.5 Attivismo femminile
Conclusioni
Bibliografia
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INTRODUZIONE
Nei primi mesi del 2011, il mondo arabo, e particolarmente il Nord Africa, sono stati investiti da
un’ondata di proteste e agitazioni che hanno sconvolto profondamente la regione. In Tunisia, Egitto
e Libia, le sollevazioni popolari si sono concluse con il rovesciamento dei rispettivi dittatori,
mentre, in Algeria e in Marocco, i regimi in carica hanno risposto alle proteste con una serie di
riforme politiche e misure economiche calate dall’alto, nella speranza di non incorrere nello stesso
destino.
I fattori che hanno generato questa ondata di proteste nel Nord Africa sono profondamente radicati
nel contesto socio-economico e politico di questi paesi: da una parte, un progressivo e drammatico
peggioramento del quadro socio-economico, soprattutto nell’ultimo decennio; e dall’altra, un
quadro politico diventato ugualmente insostenibile, a causa del rafforzamento dell’autoritarismo e
dell’indurimento della repressione, anche se con modalità ed intensità diverse da paese a paese.
La primavera araba ha avuto un profondo impatto sulla regione, ed in particolare sul Nord Africa.
Nel breve termine, ha contribuito ad aumentare i fattori di instabilità e ad acutizzare, in molti casi, i
problemi socio-economici all’origine delle proteste, mentre resta incerta la futura evoluzione
politica di questi paesi. Nel lungo termine, tuttavia, potrebbe offrire opportunità per un reale
cambiamento politico ed economico nella regione. Tra i principali effetti positivi della primavera
araba va sottolineato, in particolare, il riemergere della società civile, che, benché sia ancora debole,
poco organizzata e, per alcuni aspetti, in una fase ancora embrionale, testimonia, in queste prime
fasi, di un grande dinamismo.
Alla luce di tali premesse e focalizzando l’attenzione su tre paesi del Nord Africa - Algeria, Egitto e
Tunisia - il presente rapporto analizza i seguenti temi: le principali dinamiche socio-economiche e
politiche che hanno portato al crollo dei regimi in Tunisia ed Egitto e che hanno suscitato le ondate
di proteste in Algeria; le sfide socio-economiche dopo la primavera araba, alla luce delle forti
incertezze che gravano sulle prospettive di cambiamento politico, delle ripercussioni socioeconomiche delle proteste e delle risposte messe in atto dai governi in carica nei tre paesi; il ruolo
che può svolgere la società civile nel promuovere e influenzare il cambiamento politico ed
economico in tali paesi, con particolare riguardo ai sindacati dei lavoratori, alle organizzazioni degli
imprenditori e alle diverse forme di attivismo sociale dei giovani e delle donne.
1. QUADRO SOCIO-ECONOMICO
PRIMAVERA ARABA
E
POLITICO
DELLA
Introduzione
Nel corso dell’ultimo ventennio, l’Algeria, l’Egitto e la Tunisia hanno proceduto ad una progressiva
liberalizzazione delle loro economie, seppur con tempi e modalità diverse. Alla metà degli anni
ottanta, infatti, terminato il boom petrolifero (1973-1981) e in seguito ai deludenti risultati delle
politiche economiche stataliste e protezionistiche attuate fino ad allora, i tre paesi, come il resto del
mondo arabo, furono colpiti da una grave crisi economica, segnata da deficit di vaste proporzioni,
debiti insostenibili e livelli di inflazione mai raggiunti prima di allora (vedi Alexander, 2010;
Richards e Waterbury, 1998; Paciello, 2010). Per uscire dalla crisi socio-economica degli anni
ottanta, prima la Tunisia (1986), poi l’Egitto (1991) ed infine l’Algeria (1994)1 furono costretti a
ricorrere all’aiuto della Banca Mondiale (BM) e del Fondo Monetario Internazionale (FMI),
L’autrice ringrazia Andrea Dessì, assistente alla ricerca IAI, per la preziosa collaborazione, e Silvia Colombo, ricercatrice IAI, per i commenti al
rapporto.
1
In Algeria, il primo programma di aggiustamento strutturale fu firmato nel 1991, ma l’inizio della guerra civile, seguita all’annullamento del primo
turno elettorale vinto dal partito islamista Fronte Islamico di Salvezza, posticipò la sua attuazione al 1994.
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adottando un pacchetto di misure volto a liberalizzare l’economia, noto con il nome di Programmi
di Aggiustamento Strutturale (PAS).2 Da allora, anche se con differenze, i tre paesi hanno
proseguito sulla strada delle riforme strutturali finalizzate a ridurre il peso dello stato
nell’economia, promuovere il settore privato e favorire l’integrazione nei mercati internazionali.
A partire dai primi anni novanta, la Tunisia e l’Egitto sono riusciti a rimettere in moto, seppur
lentamente, la crescita economica, e a riportare sotto controllo il deficit pubblico e l’inflazione (ElGhonemy 1998; Pfeifer 1998). Nell’ultimo decennio, la crescita economica nei due paesi ha
proceduto a ritmi più rapidi. In Tunisia, durante il periodo 2000-2007, il Pil reale è cresciuto a una
media del 5% (International Monetary Fund, 2010). In Egitto, si osserva lo stesso tasso medio di
crescita economica dal 2002 al 2006, anno in cui il Pil reale tocca il picco massimo del 7,1% (Imf,
2007). Anche in Algeria, dove negli anni novanta la guerra civile aveva portato al collasso
economico (Belkacem, 2001), a partire dal 2000 gli indicatori macro-economici hanno cominciato a
migliorare (Talahite e Hammadache, 2011; International Monetary Fund, 2011). Durante il periodo
2001-2007, il Pil reale è cresciuto ad una media del 4,2% (IMF, 2008; IMF, 2009). Inoltre,
approfittando degli ampi ricavi derivanti dall’elevato prezzo del petrolio, tra il 2005 ed il 2010,
l’Algeria è riuscita a ridurre significativamente il suo debito estero, che è passato dal 17% del Pil
allo 0,5% (Zoubir e Darbouche, 2011).
Benché, nell’ultimo ventennio, nei tre paesi oggetto di studio, si siano registrati progressi sul fronte
della stabilizzazione macroeconomica, come vedremo a breve la situazione del mercato del lavoro e
le condizioni di vita di ampi strati della popolazione hanno subito un progressivo peggioramento.
Nell’ultimo decennio, a fronte di una rapida crescita economica, i problemi socio-economici nei tre
paesi si sono persino aggravati. Infine, l’analisi dei fattori che hanno generato l’ondata di proteste in
Egitto, Tunisia e Algeria sarebbe incompleta senza considerare anche il quadro politico da cui sono
emerse. Il drammatico peggioramento del quadro socio-economico osservato nei tre paesi,
soprattutto nell’ultimo decennio, è stato infatti accompagnato da una situazione politica ugualmente
insostenibile, contraddistinta da un progressivo rafforzamento dell’autoritarismo, dall’indurimento
della repressione e della chiusura degli spazi di espressione politica, anche se con modalità ed
intensità diverse da paese a paese.
1.1. Mercato del lavoro
1.1.1 Deterioramento del mercato del lavoro
A partire dalla crisi economica della metà degli anni ottanta, si comincia ad assistere in tutto il
mondo arabo, ed in particolare in Algeria, Egitto e Tunisia, ad un peggioramento della situazione
del mercato del lavoro: crescente informalizzazione, significativa diminuzione dei salari reali e,
soprattutto, aumento vertiginoso della disoccupazione (Paciello, 2007). In Algeria, per esempio, il
tasso di disoccupazione a livello nazionale passò dal 16,9% nel 1989 al 29,9% nel 2000.3
Nell’ultimo decennio, nonostante la buona crescita economica, i problemi del mercato del lavoro
nei paesi oggetto di studio si sono acutizzati, soprattutto tra i giovani e le donne. Anche se, a livello
nazionale, il tasso di disoccupazione in tutti e tre i paesi considerati è diminuito,4 tuttavia, tra i
giovani laureati non ha smesso di aumentare. In Algeria, nonostante il tasso di disoccupazione
totale sia sceso drammaticamente, tra i giovani laureati addirittura è raddoppiato, passando dal 10%
nel 2001 a circa il 20% nel 2008 (Achy, 2011).5 Anche in Egitto, in contro tendenza con
l’andamento nazionale, la disoccupazione tra i laureati è salita, dal 9,7% nel 1998 al 14,4% nel
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Occorre precisare, comunque, che già negli anni settanta, prima la Tunisia (nel 1969), poi l’Egitto (nel 1974) e l’Algeria (nel 197879) avevano avviato un timido processo di liberalizzazione economica. Tuttavia, tali misure non avevano alterato il ruolo dello stato
nell’economia (Richards e Waterbury, 1998).
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Organizzazione Internazionale del Lavoro, Banca Dati Laborsta Internet (http://laborsta.ilo.org/).
4
In Tunisia, il tasso di disoccupazione passa dal 16,0% nel 1999 a 14,1% nel 2007 (Observatoire National de l’Emploi et des
Qualifications, 2008); in Egitto scende da 11,7% nel 1998 a 8,3% nel 2006 (Asaad, 2007), mentre, in Algeria, dal 29,9% nel 2000
all’11,3% nel 2009 (Bouklia-Hassane e Talahite, 2010).
5
Secondo fonti non ufficiali, il tasso di disoccupazione tra i giovani laureati toccherebbe il 40% (Layachi, 2011).
5
2006 (Assaad, 2007).
In Tunisia, nell’ultimo decennio, l’aumento del tasso di disoccupazione tra i giovani (25-34) e
soprattutto tra i laureati ha subito una forte accelerazione. Tra i laureati, il tasso di disoccupazione è
arrivato al 19,6% nel 2007, rispetto all’8,6% nel 1999 (Observatoire National de l’Emploi et des
Qualifications, 2008). Secondo stime tenute nascoste sotto il regime di Ben Ali e rivelate dopo la
sua fuga, il tasso di disoccupazione tra i laureati sarebbe ancora più ampio e sarebbe aumentato dal
22,1% nel 1999 al 44,9% nel 2009.6 Infine, sempre in Tunisia, i tassi di disoccupazione sono
particolarmente elevati nelle regioni più povere da cui ha avuto origine l’ondata di proteste (le
regioni sud occidentali e centro-occidentali): nel 2007, a fronte di un tasso medio nazionale del
14%, la disoccupazione sfiorava il 40% a Sidi Bouzid, il 30% nel governatorato di Gafsa, il 24,1% a
Jandouba ed il 25,1% a Tozeur (Mahjoub, 2010; Amnesty International, 2009).
Come per i giovani, anche per le donne, l’evoluzione dei tassi di disoccupazione è stata sfavorevole
(Paciello e Pepicelli, 2011). In Tunisia, per esempio, contrariamente alla tendenza osservata per i
maschi nell’ultimo decennio, la disoccupazione femminile ha continuato ad aumentare (dal 17,2%
nel 1999 al 18,6% nel 2008) (Observatoire National de l’Emploi et des Qualifications, 2008).7 Ad
oggi, quindi, nei tre paesi la proporzione di donne disoccupate, soprattutto tra le laureate, risulta
essere di gran lunga più elevata rispetto a quella degli uomini (per l’Egitto, UNICEF, 2010). In
Algeria, per esempio, nel 2010, il tasso di disoccupazione tra le giovani laureate toccava il 33,6%
rispetto all’11,1% per i giovani con lo stesso livello di istruzione (Ons, 2010). In Tunisia, nel 2009,
il 34,9% delle ragazze laureate erano disoccupate contro il 14,6% dei ragazzi laureati (Romdhane,
2011).
Nell’ultimo decennio, inoltre, il processo di informalizzazione e flessibilizzazione del mercato del
lavoro ha subito un’accelerazione. Nei tre paesi oggetto di studio, l’economia informale e le attività
a debole valore aggiunto hanno giocato un ruolo centrale nella creazione di posti di lavoro. In
Algeria, la spettacolare riduzione della disoccupazione osservata nel periodo che va dal 2000 al
2007 si è prodotta al costo di un deterioramento della qualità dei posti di lavoro creati, che tendono
ad essere precari, mal pagati e senza copertura sociale (Achy, 2011; Bouklia-Hassane e Talahite,
2007). Il contributo dell’economia informale alla creazione di lavoro nel settore privato urbano è
infatti passato dal 34,9% nel 2000 al 42,6% nel 2007 (Achy, 2011). In Egitto, dove le prospettive di
impiego nel settore pubblico sono diminuite significativamente, la maggior parte dei posti di lavoro
creati durante il 1998-2006 ha avuto luogo nell’economia informale, tanto che la proporzione di
lavori non coperti da contratto legale è aumentata di quattro punti percentuali, arrivando a toccare il
61% nel 2006 (Assaad, 2007). Anche per quanto riguarda la Tunisia, si osserva una tendenza simile.
La proporzione di lavori a contratto determinato ha subito un rapido innalzamento a partire dalla
metà degli anni novanta, dopo l’approvazione della riforma del codice del lavoro (1994) che ha
istituzionalizzato questa tipologia di impiego (contrats à durée déterminée/CDD) (Hibou et al.
2011).
Nei tre paesi oggetto di studio, la maggior parte di coloro che accettano di lavorare con contratti
temporanei, sotto pagati e senza alcuna protezione sociale o come microimprenditori nell’economia
informale sono tendenzialmente giovani con un’istruzione intermedia o universitaria (Unicef, 2010;
Wahba, 2010; Assad, 2007; Romdhane, 2011). Per esempio, i call center in Tunisia hanno
rappresentato negli ultimi anni un’opportunità di lavoro per molti giovani laureati tunisini, bilingue
e spesso trilingue, che, non riuscendo a trovare un posto di lavoro corrispondente ai loro studi,
hanno accettato di lavorare anche senza un contratto in condizioni di lavoro difficili (Meddeb,
6
Haouari, I. “Ces chiffres qu'on ne nous a jamais révélés”, La presse de Tunisie, 6 febbraio 2011,
http://www.lapresse.tn/06022011/21973/ces-chiffres-qu-on-ne-nous-a-jamais-reveles.html
7
In Algeria, negli anni duemila, il tasso di disoccupazione femminile è diminuito molto più lentamente rispetto a quello maschile.
Per le donne, il tasso di disoccupazione è passato da 26,4% nel 2000 a 17,4% nel 2008, mentre, per gli uomini, da 29,2% a 10,1%
durante lo stesso periodo (Ons, 2010). In Egitto, il fatto che la disoccupazione tra le donne egiziane nel periodo 1998-2006 sia
diminuita non riflette un miglioramento, quanto piuttosto il cosiddetto “effetto di scoraggiamento”. Un numero crescente di giovani
donne istruite, scoraggiate dalle persistenti discriminazioni di genere nel mercato del lavoro e le scarse opportunità di impiego,
preferisce uscire dal mercato del lavoro e rinunciare alla ricerca di un posto di lavoro (Assaad, 2007).
6
2010).
La recente crisi finanziaria ed economica mondiale scoppiata nel 2007 è intervenuta nei tre paesi
arabi ad esacerbare il quadro del mercato del lavoro su descritto, rallentando la creazione di posti di
lavoro e causando numerosi licenziamenti nei settori più colpiti come l’industria
tessile/abbigliamento ed il turismo (Paciello, 2010, 2011, Klau 2010, Gana-Oueslati e Moisseron,
2011; Center for Trade Union and Workers Services, 2009; Romdhane, 2011). Negli ultimi anni
quindi la crisi mondiale ha acuito il problema della disoccupazione e della precarietà, soprattutto
per i giovani e le donne (Paciello, 2010).
1.1.2 Debolezze del modello di crescita e impatto sul mercato del lavoro
L’andamento negativo del mercato del lavoro su descritto è da ricondurre al fallimento dei modelli
di crescita e delle politiche economiche seguite nei paesi oggetto di studio. Tali modelli, con le loro
fragilità e debolezze, che differiscono da paese a paese, non sono riusciti a generare sufficienti posti
di lavoro per una forza lavoro giovane ed istruita in rapida espansione. Di seguito, vengono discussi
separatamente i tre casi di studio.
Algeria
La guerra civile degli anni novanta fece piombare il paese in una crisi socio-economica drammatica
(El-Ghonemy 1998; ICG 2004). Verso la fine degli anni novanta, ma soprattutto a partire dai primi
anni del duemila, l’economia algerina ha cominciato a mostrare segnali di ripresa, come indica il
netto miglioramento nei principali indicatori macroeconomici (Belkacem 2001; Darbouche 2011).
Comunque, al di là di tali dati, l’economia algerina ha continuato a soffrire di debolezze strutturali
che mettono a rischio la sostenibilità del suo modello di crescita. Le politiche economiche messe in
atto in Algeria nell’ultimo ventennio si sono rivelate fallimentari nella misura in cui non sono
riuscite a ridurre la totale dipendenza del paese dalla produzione ed esportazione di idrocarburi. E’
mancata infatti da parte delle autorità algerine una strategia globale, coerente e di lungo termine.
Nella seconda metà degli anni novanta, con l’adozione del programma di aggiustamento strutturale,
il governo algerino perseguì in maniera drastica l’obiettivo dell’austerità fiscale previsto da tali
accordi, procedendo ad una profonda ristrutturazione delle imprese pubbliche per preparare il paese
alle privatizzazioni. Nonostante tali misure causarono numerosi licenziamenti,8 aggravando il
problema della disoccupazione, un reale e trasparente processo di privatizzazioni non ebbe mai
inizio (ICG, 2004). Laddove alcune imprese pubbliche nel settore turistico agro-alimentare e
farmaceutico vennero privatizzate, ciò avvantaggiò un ristretto gruppo di imprenditori vicini ai
militari e ai funzionari di governo (ibid). Successivamente, le riforme strutturali ed istituzionali
sono state gestite in maniera arbitraria, caotica e selettiva. Dopo aver rilanciato le riforme di
mercato nei primi anni del duemila puntando sulla promozione del settore privato, negli ultimi anni,
a partire dal 2006, il presidente Bouteflika sembra aver invertito rotta, optando per un
protezionismo esagerato e l’accrescimento dell’interventismo dello stato (Zoubir e Darbouche,
2011). Come vedremo successivamente, le ragioni di queste inefficienze ed incertezze sono
essenzialmente di natura politica e riflettono quella complessa rete di interessi che lega l’elite
politica, i militari ed un gruppo ristretto di imprenditori.
Benché, sotto la presidenza di Bouteflika, le autorità algerine abbiano ripetutamente manifestato
l’intenzione di diversificare l’economia (Darbouche, 2011), l’intera economia algerina ha
continuato a dipendere dalla produzione ed esportazione di idrocarburi. La ripresa della crescita
economica nell’ultimo decennio infatti è stata trainata dal settore degli idrocarburi, che ad oggi
contribuisce per il 98% alle esportazioni totali, per il 40-45% al Pil e per i 2/3 alle entrate statali
(International Monetary Fund, 2011). Grazie ai ricavi degli idrocarburi che hanno generato un
aumento significativo delle riserve in valuta straniera, l’Algeria è riuscita a ridurre drasticamente il
8
Si stima che, tra il 1994 ed 1998, ben 76 grandi imprese pubbliche vennero chiuse, portando al licenziamento di 450000 persone
(Martin, 2003).
7
debito estero e a risolvere il problema del deficit di bilancio.9 Anche il notevole incremento del
settore dei servizi ed in particolare del settore edilizio osservato nell’ultimo decennio si deve
unicamente ai ricavi provenienti dal petrolio e dal gas (Darbouche e Zoubir, 2011). Approfittando
infatti dell’aumento degli introiti fiscali derivanti dagli idrocarburi e delle giacenze accumulate nel
fondo di stabilizzazione (Fonds de Regulation de Recettes), a partire dal 2005, il governo algerino si
è impegnato in un ambizioso programma di investimenti pubblici nelle infrastrutture.
A fronte di questa completa dipendenza dalla produzione di un solo bene responsabile del
fenomeno della “sindrome olandese”,10 l’economia algerina ha assistito nell’ultimo ventennio ad un
processo di progressiva deindustrializzazione (Dillman 1998; Talahite e Hammadache, 2011). Il
terzo boom petrolifero ha contribuito ad accelerare tale processo a vantaggio di una progressiva
terziarizzazione dell’economia. Durante il periodo 2001-2006, il contributo dell’industria
manifatturiera alla crescita economica è infatti fortemente diminuito (Talahite e Hammadache,
2011). In mancanza di un tessuto produttivo industriale locale e nel contesto del rilancio degli
investimenti pubblici, il paese è stato costretto a ricorrere in maniera crescente alle importazioni di
beni e servizi per soddisfare la domanda interna. A questo si aggiunga anche l’incapacità
dell’economia algerina di rispondere alla domanda interna di generi alimentari, che obbliga il paese
ad importare la maggior parte del suo fabbisogno alimentare. Nell’ultimo decennio, le importazioni
sono quindi aumentate in maniera preoccupante arrivando a toccare il 23% del Pil nel 2008 (World
Bank, 2010).11
Infine, il livello di investimenti privati locali, necessari per avviare il paese verso una reale
diversificazione della struttura produttiva, è rimasto del tutto marginale. Al di fuori di alcuni grandi
gruppi che hanno tratto vantaggio dalle sporadiche privatizzazioni condotte dal governo, la quasi
totalità del settore privato è infatti composta da piccole e medie imprese che tendono ad operare nel
mercato parallelo dell’economia informale, che ad oggi contribuirebbe per il 40% al reddito
nazionale lordo (Darbouche, 2011). Tali imprese, piuttosto che essere impegnate nelle attività di
produzione ed esportazioni di beni manufatti, preferiscono operare nei settori che presentano meno
rischi come le attività connesse al commercio dei beni importati (Talahite e Hammadache, 2011).
E’ indicativo a tal proposito il fatto che il numero di imprese algerine attive nell’esportazione di
beni al di fuori degli idrocarburi sia crollato nell’ultimo ventennio, passando da 280 negli anni
ottanta a 40 nel 2011.12 Il settore privato ha fatto fatica ad emergere perché il clima d’affari è
rimasto fortemente ostile agli investimenti a causa della lentezza con cui sono state condotte le
riforme istituzionali e strutturali. L’iniziativa privata è poi stata scoraggiata dalle enormi difficoltà
incontrate nell’accesso al credito bancario, dall’incertezza politica e dalla rete di rapporti mafiosi
che legano la politica all’economia. Tutto ciò ha reso imprevedibile ed incerto il clima d’affari
(Talahite 2007; World Bank, 2010, 2011; Lahouhari, 2011; Achy, 2011). Anche gli investimenti
diretti esteri sono rimasti limitati e continuano ad essere concentrati nel settore degli idrocarburi
(Talahite e Hammadache, 2011).
In presenza di una struttura produttiva così rigida, la capacità dell’economia algerina di creare posti
di lavoro è dunque rimasta ridotta. Ad oggi, il settore energetico, che è a forte concentrazione di
capitale, contribuisce a creare poco meno del 5% dell’occupazione totale nel paese (Achy, 2011),
mentre, parallelamente al processo di deindustrializzazione nell’ultimo ventennio, il contributo del
settore industriale all’occupazione è sceso (Bouklia-Hassane e Talahite, 2010). I programmi di
investimento finanziati dallo stato durante il terzo boom petrolifero hanno contribuito a creare la
quasi totalità dei posti di lavoro, ma si tratta di impieghi temporanei, mal remunerati e non adatti a
9
Il debito estero, che nel 1994 rappresentava il 70% del Pil, scende allo 0,5% nel 2010 (Darbouche, 2011).
In base alla teoria della “malattia olandese”, il boom nel settore petrolifero determina una crescita del settore terziario attraverso
l’aumento degli investimenti pubblici e una diminuzione delle esportazioni dei prodotti manifatturieri per effetto dell’apprezzamento
del tasso di cambio reale.
11
Le importazioni di beni passano da 20 miliardi di dollari nel 2006 a 37,5 miliardi di dollari nel 2008 (Talahite e Hammadache,
2011)
12
Dati riportati dal ministro dell’industria Mohamed Benmeradi al quotidiano Magharebia (“Algeria finances strained by strife”,
Magharebia, 7/07/2011, http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/07/07/feature-02).
10
8
manodopera qualificata (Achy, 2011). Infine, laddove le imprese straniere si sono impegnate in
settori al di fuori degli idrocarburi, come la realizzazione di grandi infrastrutture, sembra abbiano
preferito utilizzare manodopera straniera a basso costo piuttosto che manodopera locale (Lahouari,
2011).
A causa della totale dipendenza dalla produzione di un solo bene, l’economia algerina non è riuscita
quindi a rispondere alla crescente offerta di forza lavoro proveniente dai giovani ed è rimasta
fortemente vulnerabile alla domanda e alle fluttuazioni dei prezzi delle risorse energetiche. La crisi
finanziaria mondiale ha evidenziato i rischi legati alla caduta dei prezzi del petrolio. Con la
conseguente contrazione della domanda internazionale e la caduta dei prezzi del petrolio tra la fine
del 2008 ed il 2009, le entrate derivanti dall’esportazione di idrocarburi sono crollate del 42,5% (nel
2009). Nel 2009, la crescita economica ha rallentato, scendendo al 2,4% contro le previsioni del 4%
(Talahite e Hammadache, 2011).13 Per la prima volta dopo dieci anni, nel 2009, l’Algeria ha
registrato un deficit di bilancio, oltre a una riduzione del surplus del conto corrente della bilancia
dei pagamenti, che è passato dal 14% del Pil nel 2006 allo 0,3% nel 2009 (Darbouche, 2011). Al
fine di controbilanciare la caduta delle esportazioni di idrocarburi, nel 2009, il governo algerino si è
visto costretto a prendere una serie di misure di carattere protezionistico volte a contenere le
importazioni di beni e servizi, combattere l’economia informale e aumentare le entrate statali, tra
cui imporre tasse aggiuntive sui beni importati, inclusi i generi alimentari, e l’obbligo di emettere
assegni per pagamenti al di sopra di 500 dinar algerini. Tali misure, comunque, si sono rivelate
inefficaci e controproducenti: non hanno ridotto le importazioni, che hanno continuato a crescere ad
un ritmo sostenuto e, a partire dal 2010, hanno contribuito ad accelerare l’aumento dell’inflazione
dei beni alimentari, uno dei fattori che ha innescato le proteste del gennaio 2011 (Talahite e
Hammadache, 2011; vedi § 1.2.2 nel presente rapporto).
In parte grazie alla rapida ripresa della crescita economica nei paesi asiatici, che si è tradotta in una
veloce rimonta dei prezzi del petrolio, l’Algeria è riuscita a contenere l’impatto negativo della crisi
finanziaria. Tuttavia, una riduzione del prezzo e della domanda di idrocarburi, a fronte di un elevato
livello di importazioni e nel contesto di una politica pubblica fortemente espansionistica, potrebbe
avere effetti disastrosi sugli equilibri esterni e le finanze pubbliche dell’Algeria e portare ad una
crisi socio-economica dalle dimensioni simili a quella del 1988 (Darbouche, 2011). Inoltre, anche
se l’Algeria ha accumulato larghe riserve di divise straniere a partire dai primi anni del 2000, la
sostenibilità del suo modello di crescita nel medio e lungo termine è a rischio. Si calcola che le
riserve di idrocarburi sulla base dei livelli correnti di produzione si esauriranno nei prossimi 40
anni. Ad aumentare la vulnerabilità dell’economia algerina, quasi la metà delle sue esportazioni di
gas naturale sono dirette verso un unico mercato, quello europeo (Ibid.).
Egitto
A partire dai primi anni novanta, l’Egitto ha proceduto sulla strada delle riforme di liberalizzazione
economica ispirate dal FMI e dalla BM. Fino al 2004, pur avanzando gradualmente, il governo ha
messo in atto una serie di riforme volte a promuovere il settore privato e a favorire una maggiore
integrazione sui mercati internazionali, attraverso una parziale privatizzazione delle imprese
pubbliche (circa un terzo alla fine degli anni novanta), l’introduzione di misure intese a migliorare il
clima degli investimenti (tra cui la legge sui diritti di proprietà intellettuale, la creazione di zone
economiche speciali, l’unificazione del sistema bancario ecc), l’adesione alla World Trade
Organisation (nel 1995) e la firma di diversi accordi commerciali (tra cui quello con gli Stati Uniti
nel 1999, con l’Unione Europea nel 2001; l’Accordo di Agadir con Giordania, Marocco e Tunisia
nel 2004 ecc). Negli ultimi anni, dopo il 2004 con la nomina del primo ministro Ahmed Nazif, le
riforme strutturali hanno subito un’accelerazione. Oltre all’approvazione della legge antimonopolio, il governo egiziano ha intensificato le privatizzazioni, che si sono estese al settore
bancario, alla telefonia mobile e a diversi complessi industriali, e ha ridotto significativamente le
13
La crescita media annuale al di fuori degli idrocarburi è rimasta sostenuta al 9,3% grazie ad un’annata eccezionalmente positiva
per il raccolto di cereali.
9
barriere tariffarie (Wurzel, 2009; Alissa 2007).
Nonostante i numerosi provvedimenti presi nell’ultimo ventennio e l’accelerazione delle riforme
dopo il 2004, la struttura dell’economia egiziana è rimasta pressoché immutata, continuando ad
essere “un’economia di rendita” vulnerabile agli shocks esterni (Gana-Oueslati e Moisseron, 2011).
Ancora oggi, l’andamento dell’economia egiziana dipende in modo significativo da entrate di
natura esogena, quali quelle derivanti dal turismo, il traffico nel canale di Suez, le rimesse, gli aiuti
americani e l’esportazione di petrolio (Ibid.). Nel periodo 2003-2007, la rapida crescita economica
dell’Egitto non è stata quindi il risultato di politiche economiche efficaci ma piuttosto è stata
trainata da un aumento significativo delle rendite esterne a seguito della congiuntura internazionale
favorevole innescata dall’impennata dei prezzi del petrolio proprio durante quegli anni. In Egitto, il
terzo boom petrolifero ha dato rinnovato impulso ai flussi di turisti provenienti dai paesi del Golfo,
principali beneficiari dell’andamento favorevole dei prezzi del petrolio, alle rimesse degli egiziani
che lavoravano nei paesi produttori di petrolio, alle entrate del canale di Suez e alle esportazioni di
idrocarburi, che sono quadruplicate (AFDB, 2009; Gana-Oueslati e Moisseron, 2011). Alle rendite
tradizionali, si è aggiunto l’aumento esponenziale degli investimenti diretti esteri, che, fino al 2003,
erano rimasti pressoché insignificanti.14 Anche tale aumento, comunque, riflette una combinazione
di fattori di natura temporanea poiché è associato sia all’afflusso di capitali provenienti dai paesi del
Golfo in coincidenza con il boom petrolifero sia soprattutto all’intensificarsi dei programmi di
privatizzazione tra il 2004 ed il 2006 (Alissa, 2007; El-Megharbel, 2007; ENCC, 2008; Naguib,
2009).
Con l’arrivo della crisi finanziaria globale ed il rallentamento delle economie dei paesi del Golfo, i
principali motori della crescita economica egiziana – esportazioni di petrolio, investimenti diretti
esteri, rimesse e entrate derivanti dal turismo – hanno perso vigore e l’economia egiziana ha, di
conseguenza, subito un repentino rallentamento (Paciello, 2010; Radwan, 2009; Abu Hatab, 2009;
Gana-Oueslati e Moisseron, 2011). Dopo il 2006, anche i programmi di privatizzazione hanno
subito una decelerazione, causando una diminuzione degli investimenti diretti esteri. Se nel 2007 il
numero di imprese vendute ammontava a sessantacinque, nel 2009 scendeva a quattro.
Contemporaneamente, l’afflusso di investimenti diretti esteri si dimezzava, passando da 13 miliardi
di dollari americani nel 2007 a 6,7 miliardi nel 2009 (Gana-Oueslati e Moisseron, 2011).
Tale modello di crescita non soltanto poggia su basi fragili e instabili, ma ha avuto un impatto
molto limitato in termini di creazione di posti di lavoro. In primo luogo, benché gli investimenti
diretti esteri siano aumentati, non hanno generato nuove opportunità di lavoro perché sono cresciuti
in coincidenza con l’accelerazione delle privatizzazioni. In secondo luogo, il settore petrolifero, che
ha alimentato la crescita delle esportazioni durante il 2003-2007, è per sua natura intensivo di
capitale, mentre la crescita delle esportazioni al di fuori degli idrocarburi ha riguardato per lo più
prodotti agricoli, fertilizzanti, e beni manufatti di basso contenuto tecnologico (come i prodotti
tessili), che hanno offerto opportunità di lavoro limitate e per una manodopera generalmente non
qualificata (Alissa, 2007; El-Megharbel, 2007; ENCC, 2008). A tal proposito, si ricorda che i
prodotti di alto contenuto tecnologico costituiscono solo il 2% delle esportazioni egiziane (GanaOueslati e Moisseron, 2011).
Il settore privato si è mostrato poco ricettivo alle riforme economiche su descritte nella misura in
cui gli investimenti privati come percentuale del Pil sono diminuiti durante il periodo 1990-2006
(World Bank, 2010: 86). Infatti, in Egitto, la maggioranza del tessuto imprenditoriale (circa il 90%)
è composto di piccole e medie imprese, scarsamente competitive e dinamiche, che tendono per lo
più ad operare nell’economia informale. Queste piccole e medie imprese lamentano innanzitutto
enormi difficoltà di accesso al credito bancario poiché le banche preferiscono prestare denaro alle
grandi imprese. Ma soprattutto il clima d’affari è rimasto imprevedibile ed incerto a causa della
corruzione e del clientelismo che pervadono tutti i livelli della società egiziana,
dall’amministrazione pubblica fino alle elite al potere, scoraggiando gli investimenti privati
14
Gli investimenti diretti esteri sono aumentati da 400 milioni di dollari americani nel 2000 a 13,2 miliardi di dollari americani nel
2007 (Radwan, 2009).
10
(Lahouhari, 2011; World Bank, 2010; Achy, 2011). Le opportunità di lavoro nel settore privato
formale sono rimaste dunque limitate (UNDP, 2010). Infine, occorre tenere presente che, mentre il
settore privato non è stato in grado rispondere alla crescente offerta di lavoro, le prospettive di
impiego nel settore pubblico si sono drammaticamente ridotte a seguito delle riforme neo-liberiste
che hanno imposto tagli alla spesa pubblica e promosso le privatizzazioni (UNDP, 2010; Wahba,
2010).
Tunisia
La Tunisia è stato tra i primi paesi arabi ad aver firmato un programma di aggiustamento strutturale
e dunque a dar il via alle riforme di liberalizzazione economica ispirate al FMI e alla BM. La
Tunisia di Ben Ali ha proceduto gradualmente sulla strada delle riforme strutturali al fine di ridurre
gli effetti sociali negativi generalmente ad esse associati, e dunque evitare il rischio di instabilità
politica (Paciello, 2007; Richards e Waterbury, 1998; Alexander, 2011). Per esempio, i programmi
di privatizzazione durante gli anni novanta furono attuati con estrema lentezza e riguardarono
settori non strategici al fine di dilazionare il numero di licenziamenti nel tempo (Issaoui, 2009). Pur
avanzando gradualmente, il governo di Ben Ali ha comunque seguito senza indugi e ripensamenti la
via dell’apertura dei mercati. Sin dal 1990, con l’adesione al General Agreement on Trade in
Services (GATS), la Tunisia si è impegnata a sottoscrivere una moltitudine di accordi commerciali
per favorire una maggiore integrazione sui mercati internazionali. Nel 1995, è stato il primo paese
della riva sud del Mediterraneo a firmare l’accordo di associazione con l’Ue. L’anno successivo,
con il supporto dell’UE, il governo tunisino ha lanciato un programma di rafforzamento della
competitività delle imprese tunisine, che va sotto il nome di Mise à Niveau, della durata di dieci
anni, con l’obiettivo di prepararle al processo di liberalizzazione commerciale. Sin dal 1987, con
l’approvazione del codice degli investimenti e successivamente con molteplici dispositivi, la
Tunisia ha offerto agli investitori stranieri un sistema di generosi incentivi fiscali.
Negli ultimi cinque anni, la Tunisia ha proceduto più speditamente sulla strada delle riforme
strutturali,15 accelerando le privatizzazioni (nel settore bancario e della telefonia mobile) e
completando lo smantellamento delle barriere tariffarie sui prodotti industriali provenienti dall’UE
con due anni di anticipo.16 In tal modo, la Tunisia diventava nel 2008 il primo paese del sud del
mediterraneo a conseguire l’obiettivo di creare una zona di libero scambio con l’UE. Anche in
materia di riforme tese a migliorare il clima d’affari, negli ultimi anni, secondo Doing Business
2011, la Tunisia ha fatto numerosi progressi (World Bank, 2011).
In virtù della sua stabilità macroeconomica e dell’avanzamento delle riforme strutturali, alla vigilia
della rivoluzione dei gelsomini, la Tunisia era considerata dalle agenzie internazionali e dall’UE un
modello di successo nella regione araba, quello che è stato definito “un bon élève” (vedi Hibou et al
2011). Nonostante la Tunisia abbia intrapreso un processo di generale liberalizzazione
dell’economia e abbia notevolmente migliorato la sua posizione macro-economica, il suo modello
di crescita non è riuscito a garantire uno sviluppo equilibrato e sostenibile, come vedremo nei
prossimi paragrafi.
Anche se l’economia tunisina è riuscita a ridurre significativamente la sua dipendenza
dall’esportazione di petrolio, e appare quindi relativamente più diversificata rispetto all’Algeria e
all’Egitto, essa è rimasta concentrata su un numero ristretto di attività economiche che sono a basso
valore aggiunto: l’industria tessile e dell’abbigliamento, che costituisce il 29% delle esportazioni; il
turismo, che rappresenta l’80% delle esportazioni di servizi ed il 16% delle esportazioni totali, e
l’agricoltura (Haddar, 2011). L’industria tessile/abbigliamento, integrata sui mercati internazionali
attraverso il sistema del subappalto, ha infatti basato la sua competitività unicamente sul basso costo
15
Per un quadro delle riforme, vedi World Bank (2008, 2009, 2010, 2011); “Politique Européenne de Voisinage – Tunisie’’, Europa
Press Releases RAPID”, MEMO/09/178, 23 April 2009,
http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=MEMO/09/178&format=HTML&aged=
0&language=EN&guiLanguage=en).
16
Le tariffe sui beni industriali provenienti dall’Ue sono scese dal 100% nel 1996 a circa il 4% nel 2007 (World Bank, 2008).
11
della manodopera (Romdhane, 2011). L’integrazione della Tunisia sui mercati internazionali, e più
specificatamente dell’UE, è dunque avvenuta sulla base dell’aumento della flessibilità e della
riduzione dei salari. Inoltre, dato il basso contenuto tecnologico delle esportazioni, il settore
dell’industria tessile/abbigliamento è stato incapace di assorbire il crescente numero di laureati in
cerca di lavoro (Bouoiyour, 2010; Lachcy, 2011). Infine, pur impiegando la maggioranza dei
lavoratori nell’industria manifatturiera, il settore tessile è da diversi anni in crisi avendo perso
progressivamente di competitività di fronte all’avanzata dei paesi dell’Estremo Oriente e
dell’Europa dell’Est (Mohammed Hedi Bchir et al., 2009).
Anche l’industria turistica, nonostante l’ampio patrimonio artistico della Tunisia, ha puntato
principalmente sul turismo balneare e, sotto la pressione dei tour operator, sul ribasso dei prezzi a
discapito della qualità (Hibou et al., 2011). Di conseguenza, anche nel settore turistico, le
opportunità di lavoro sono state di natura precaria e mal pagate. L’industria turistica ha inoltre
cominciato, negli ultimi anni, a mostrare segnali di crisi, in controtendenza con quanto osservato in
altri paesi arabi (Fitch Ratings, 2007). Ciò ha avuto ripercussioni negative sull’occupazione,
causando una perdita di posti di lavoro ed un’ulteriore contrazione dei salari (Hibou et al., 2011;
Fitch Ratings, 2007).
A completare il quadro, l’economia tunisina deve la sua fragilità alla quasi totale dipendenza da un
solo mercato, quello dell’UE, per quanto riguarda le esportazioni, le rimesse, gli investimenti diretti
esteri ed il turismo. 17 Per contro, l’integrazione della Tunisia con altri mercati, quali quello asiatico
e americano, è rimasta marginale (World Bank, 2008). Data la sua quasi totale dipendenza dal
mercato europeo, l’economia tunisina risulta fortemente vulnerabile agli shocks provenienti
dall’esterno. Non sorprende il fatto che la Tunisia sia stato il paese nordafricano ad aver risentito
maggiormente della crisi finanziaria globale proprio attraverso il canale della recessione economica
dell’UE. Tra il 2007 ed il 2009, il tasso di crescita economica della Tunisia si è quasi dimezzato,
passando da una media annua del 6,3% nel 2007 al 3,3% nel 2009 (Paciello, 2010). La crisi
finanziaria mondiale si è tradotta in Tunisia in una forte riduzione delle esportazioni e degli
investimenti diretti esteri, e, anche se in misura minore, delle rimesse e delle entrate derivanti dal
turismo (ibid).
Infine, pur presentando un sistema di incentivi fiscali relativamente più generoso rispetto all’Egitto
e all’Algeria, anche la Tunisia soffre di un deficit di investimenti privati, locali e stranieri, che,
paradossalmente, sembra essere ancora più marcato che in Egitto. Per quanto riguarda il tasso di
investimenti privati domestici, non soltanto esso rimane modesto, e ben al di sotto di altri paesi
nordafricani come il Marocco e l’Egitto, ma ha persino subito una diminuzione continua, passando
da un tasso medio di crescita di circa il 13% nei primi anni novanta a circa il 10% nel 2007
(Romdhane, 2011; Casero e Varoudakis, 2006; World Bank, 2007). Come mostrano diversi studi
sulla Tunisia, gli investimenti privati locali sono rimasti mediocri e concentrati nelle regioni
costiere per ragioni simili a quelle riscontrate per Egitto e Algeria: l’esistenza di un’economia
parallela, relativamente più competitiva a causa di pratiche scorrette (evasione delle tasse, non
pagamento dei contributi della previdenza sociale ecc); difficoltà di accesso al credito formale e
tassi di interesse particolarmente elevati; una corruzione endemica, usata per aggirare un problema,
ottenere un favore, evadere le imposte o eliminare un concorrente scomodo; e l’avidità del clan
dell’ex presidente Ben Ali e di sua moglie Leila Trabelsi, che ha bloccato l’emergere di un elite
imprenditoriale (Romdhane, 2011; Haddar, 2011). Oltre a questi problemi, la mediocrità delle
infrastrutture e la mancanza di incentivi fiscali, che riflettono il disinteresse delle autorità per le
zone più svantaggiate del paese, sembrano aver scoraggiato gli investimenti privati nelle regioni del
sud (Ben Slama, 2011). Afflitto quindi da un problema di sotto-investimento, il tessuto economico
della Tunisia è composto principalmente di piccole e medie imprese che contribuiscono a creare
opportunità di lavoro mal pagate, precarie e adatte a manodopera poco qualificata (Haddar, 2011).
17
Le esportazioni verso l’Ue rappresentano il 77% del totale delle esportazioni; le entrate derivanti dal turismo europeo costituiscono
l’85% delle entrate turistiche totali; l’88% delle rimesse provengono da lavoratori tunisini che risiedono nell’Ue, mentre gli
investimenti diretti esteri provenienti dall’Ue rappresentano il 58% del totale (International Monetary Fund, 2010).
12
Per questo, il settore pubblico continua ad essere il primo creatore di occupazione per i giovani
diplomati (55% sul totale dei diplomati occupati), mentre per il resto dei diplomati che lavorano nel
settore privato, le condizioni di lavoro sono peggiori: salari più bassi e maggiore instabilità (World
Bank, 2009).
Anche la performance degli investimenti diretti esteri è stata deludente. Benché, nell’ultimo
decennio, gli investimenti diretti esteri siano cresciuti,18 l’incremento è stato più lento rispetto agli
altri paesi nordafricani (World Bank, 2008). Ma soprattutto, come nel caso dell’Egitto, gli
investimenti diretti esteri non hanno portato i benefici attesi in termini occupazionali poiché hanno
creato poche opportunità di lavoro. Questo per due ragioni: si sono rivolti tendenzialmente verso il
settore degli idrocarburi, che come già detto è ad alta intensità di capitali e, nell’ultimo decennio,
sono cresciuti in coincidenza con l’accelerazione delle privatizzazioni, che, invece di creare nuovi
posti di lavoro, hanno spesso causato licenziamenti del personale (Meddeb, 2010; Dillman 2001;
Hedi Bchir et al., 2009). Al di fuori del settore energetico, infine, gli investimenti diretti esteri si
sono concentrati in industrie a debole contenuto tecnologico, come l’industria tessile e
dell’abbigliamento, oppure in alcuni comparti del settore dei servizi (come ad esempio i call
centers), che hanno generato opportunità di lavoro precarie, temporanee e sottopagate (Haddar,
2011; Meddeb, 2010).
1.1.3 Inefficacia delle politiche attive del mercato del lavoro
Anche le politiche attive del mercato del lavoro messe in atto dai governi dei tre paesi si sono
rivelate inadeguate per risolvere i problemi del mercato del lavoro su descritti. Nonostante le ingenti
risorse stanziate dai governi dei tre paesi e la messa a punto di molteplici dispositivi, che vanno dai
programmi di formazione professionale a quelli di microcredito,19 il bilancio di tali politiche è
deludente (Hibou et al., 2011; Destreamau, 2009; Bouklia-Hassane e Talahite 2010). In particolare,
a fronte delle notevoli risorse investite, tali misure hanno avuto un debole impatto in termini di
riduzione della disoccupazione tra i giovani istruiti (Lahcen, 2011; intervista dell’autore con un
rappresentante dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, Cairo, novembre 2010).
Un primo problema riguarda il fatto che le opportunità di lavoro generate da tali dispositivi si sono
rivelate spesso di natura precaria e temporanea, come dimostrano diversi studi sulla Tunisia e
l’Algeria, e dunque inefficaci ad affrontare il problema della disoccupazione nel lungo termine
(Hibou et al., 2011; Achy, 2011; Abbaci, 2009; Bouklia-Hassane e Talahite 2010). In Tunisia, per
esempio, le imprese che ricevevano incentivi statali per assumere personale hanno di rado
trasformato le opportunità di lavoro create in impieghi a tempo indeterminato.20 I giovani assunti
nell’ambito dei programmi di sovvenzione statale perdevano dunque tale impiego una volta
terminato il contratto.
In secondo luogo, spesso i programmi di creazione di impiego messi in atto dai governi non sono
stati destinati specificatamente ai giovani che incontravano problemi ad inserirsi nel mercato del
lavoro (Directorate-General for Economic and Financial Affairs, 2010). Per esempio, in Algeria,
nell’ambito delle politiche dell’occupazione, il governo ha privilegiato i programmi di lavori
pubblici che non soltanto offrono lavori temporanei e mal remunerati ma si rivolgono soprattutto a
manodopera non qualificata (Achy, 2011). In terzo luogo, i programmi di microcredito, uno degli
strumenti maggiormente usato dai governi dei tre paesi per creare opportunità di lavoro tra le donne
ed i giovani, spesso non sono riusciti a creare iniziative imprenditoriali finanziariamente sostenibili
nel tempo. La maggior parte di tali imprese non sono riuscite a posizionarsi in maniera competitiva
sul mercato, hanno generato bassi profitti e sovente sono state costrette ad operare nell’economia
informale (Destremau, 2009, per la Tunisia; Achy, 2011, per l’Algeria).
18
Tra il 1990 ed il 1997, gli investimenti diretti esteri rappresentano soltanto l’1,7% del Pil, poi arrivano a toccare il 2,9% tra il 1998
ed il 2005, il 3,2% nel 2006, il 6% nel 2007 ed il 6,9% nel 2008 (Haddar, 2011).
19
Per un quadro di tutti i dispositivi messi in atto nei diversi paesi, vedi Bouklia-Hassane e Talahite (2010) per l’Algeria; Mahjoub,
(2010) per la Tunisia; e El-Megharbel (2007) per l’Egitto.
20
Abdelaziz Barrouhi, “Emplois « assistés”, Jeune Afrique, N° 2368, 28 mai - 3 juin 2006.
13
Infine, nonostante le ingenti risorse investite, le politiche attive del mercato del lavoro sono state
inefficaci perché frammentate in molteplici dispositivi e programmi privi di coordinamento tra loro
e tra le agenzie incaricate di gestirli (El-Megharbel, 2007; Wahba, 2010; interviste dell’autore al
Cairo, novembre 2010; Achy, 2011). E’ mancata quindi una politica coerente e comprensiva
dell’occupazione che rispondesse ai reali problemi del mercato del lavoro.
1.2 Sistema di welfare e condizioni di vita
1.2.1 Crisi del sistema di welfare
Durante gli anni sessanta e settanta, i governi in Algeria, Tunisia e Egitto portarono avanti politiche
sociali molto generose, destinando una parte sostanziosa della spesa pubblica ai settori sociali
(istruzione e sanità gratuite, sussidi pubblici universali ed espansione dell’impiego pubblico). Con
la fine del boom petrolifero e l’adozione dei programmi di aggiustamento strutturale che
impongono la stabilità macro-economica, si è assistito ad una progressiva ma profonda crisi del
sistema di welfare, che ha accelerato nell’ultimo decennio.
In Tunisia, nonostante i programmi di aggiustamento strutturale abbiano imposto in genere un forte
taglio alla spesa pubblica, in un primo tempo, il governo di Ben Ali si è impegnato a proteggere la
spesa sociale, proseguendo lungo la strada tracciata da Bourghiba. La Tunisia si è distinta dagli altri
paesi arabi per aver continuato a destinare una percentuale consistente della spesa pubblica al
welfare, circa il 19 percento del Pil nel periodo 1987-2007 (Ben Romdhane, 2007). La spesa per
l’istruzione e per la sanità durante lo stesso periodo hanno raddoppiato. Per compensare i tagli al
sistema dei sussidi pubblici e far fronte agli effetti sociali negativi derivanti dalle riforme
economiche, Ben Ali inoltre creò due programmi presidenziali come il Fondo di Solidarietà
Nazionale, conosciuto come “26-26” (1992), per finanziare la costruzione di infrastrutture nelle
zone più povere, ed il Fondo Nazionale per l’Occupazione o “21-21” (2000), per favorire la
creazione di lavoro. La Tunisia di Ben Ali è riuscita quindi a realizzare importanti progressi nel
campo dell’istruzione, dei diritti delle donne e nella lotta alla povertà (Ibid.). Il generoso sistema di
welfare sostenuto da Ben Ali durante il suo regime ha costituito uno dei suoi più efficaci strumenti
di potere e di controllo della società tunisina (Hibou, 2006). Tali politiche hanno contribuito a
formare una classe media molto ampia, che, in cambio degli estesi vantaggi sociali ed economici
offerti dal regime, è stata disposta ad accettare e/o a sopportare di vivere in una società dove ogni
libertà politica e civile veniva negata (Ben Romdhane, 2007). Come spiega Bèatrice Hibou (2006),
il regime di Ben Ali deve la sua longevità a una combinazione di coercizione e consenso.
Tuttavia, nel corso dell’ultimo decennio, il tacito contratto sociale tra il regime di Ben Ali ed una
parte della popolazione sembra progressivamente essere venuto meno. Nell’ultimo ventennio,
l’ampliamento della copertura del sistema di sicurezza sociale, benché abbia continuato, ha subito
un progressivo rallentamento rispetto al ventennio precedente a causa dell’elevata disoccupazione e
la diffusione dell’economia informale (Ben Romdhane, 2007, 2011). Anche il sistema della sanità
pubblica si è rivelato sempre più incapace di rispondere alle esigenze mediche della popolazione.
La spesa delle famiglie destinata alle cure mediche è andata aumentando, poiché un numero
crescente di tunisini è stato costretto a rivolgersi al privato, che nell’ultimo ventennio ha subito una
rapida crescita (Hibou et al., 2011; Ben Romdhane, 2011). Si sono acuite anche le drammatiche
disparità regionali nell’accesso ai servizi sociali (istruzione, sanità, acqua potabile e elettricità). Lo
spettacolare sviluppo del turismo medico, che ha attratto negli ultimi anni un grande numero di
pazienti dalla Libia e dall’Europa nelle lussuose cliniche di Tunisi, contrasta con la pessima
situazione delle infrastrutture ospedaliere nei governatorati più poveri di Kasserine, Thala e Gafsa,
dove sovente non è possibile fare neppure semplici interventi chirurgici (Hibou et al., 2011).
L’intervento pubblico si è infatti concentrato quasi unicamente nelle zone costiere, a cui per l’anno
2011 il governo di Ben Ali avrebbe destinato l’82% del bilancio statale (Ibid). Per questo, anche se,
14
a partire dalla metà degli anni ottanta, si è assistito ad una progressiva riduzione della povertà di
reddito a livello nazionale, nelle regioni interne la povertà è rimasta particolarmente elevata.21
In Egitto, il sistema di welfare ha subito un progressivo deterioramento a partire dagli anni novanta
(Bayat, 2006; Tadros, 2007; Harrigan e el-Said, 2009). Anche se, per tutti gli anni novanta, la spesa
sociale fu relativamente protetta, questo non fu sufficiente per prevenire il peggioramento della
qualità dei servizi sanitari e dell’istruzione perchè una parte significativa della spesa sociale
continuò ad essere destinata al pagamento dei salari degli impiegati pubblici. Progressivamente, e
soprattutto nell’ultimo decennio, la presenza dello stato nel settore dei servizi sociali è diminuita
visibilmente, come attesta il forte taglio apportato alla spesa pubblica destinata all’istruzione e alla
sanità (Paciello, 2011). Per esempio, la spesa pubblica per l’istruzione sul totale della spesa statale è
scesa dal 19,5% nel 2002 all’11,5% nel 2006 (UNDP, 2008). Il finanziamento pubblico
all’istruzione universitaria ha sofferto il maggior taglio.22 Questi tagli alla spesa sociale hanno
contribuito ad un ulteriore e drammatico aumento delle spese per le famiglie egiziane anche quando
si rivolgevano ai servizi pubblici e al peggioramento della qualità di tali servizi: classi sovraffollate,
edifici scolastici fatiscenti, scarse condizioni igieniche negli ospedali e continui casi di malasanità
(Paciello, 2011).
Infine, a differenza dell’Egitto e della Tunisia, l’Algeria, sin dall’inizio dei programmi di
aggiustamento strutturale, ha optato per un taglio drastico della spesa sociale al fine di perseguire
l’austerità fiscale: la spesa per l’istruzione sul totale della spesa pubblica è passata da 23% nel 1993
al 17,8% nel 1997, mentre quella per la sanità dal 54,5% al 47% durante stesso periodo (Layachi,
2009). Nei primi anni del duemila, a causa del taglio drastico alla spesa sociale combinato a
politiche sociali inefficaci, l’Algeria si trovava quindi ad attraversare una crisi sociale dalle
dimensioni enormi, marcata da un aumento vertiginoso della povertà e delle ineguaglianze sociali
(ibid).
Negli anni duemila, anche se la povertà sembra essere diminuita secondo i dati ufficiali (dal 12,1%
nel 2000 al 5,7% nel 2005), il sistema di welfare risulta essere allo sbando. Scuole, università e
ospedali pubblici sono in uno stato di completo abbandono e indigenza (Brown 2011; Abderrahim,
2011). La quasi totale dipendenza dell’Algeria dalle importazioni di medicinali ha esposto il paese a
periodi prolungati di mancanza di medicinali mettendo a rischio la vita dei pazienti malati di
cancro.23 I tassi di abbandono scolastico sono preoccupanti ed il problema delle classi sovraffollate
è drammatico ovunque nel paese, anche nella capitale Algeri, dove il rapporto studenti/insegnati per
classe può toccare il numero di 40 (UNCESCR, 2010; Interviste condotte dall’autore, Algeri,
ottobre 2011). Per questo, l’Unesco ha recentemente raccomandato al governo algerino di assumere
10,000 nuovi insegnanti entro il 2015 per far fronte alla domanda di studenti.24
Uno dei problemi socialmente più preoccupanti in Algeria è quello della carenza di alloggi. Le
Nazioni Unite stimano che 1,2 milioni di persone vivono nelle bidonville (UNCESCR, 2010).
Anche se, negli ultimi anni, il governo algerino ha lanciato un ampio programma di investimenti
nelle infrastrutture prevedendo la costruzione di nuovi alloggi per le famiglie più svantaggiate, tale
politica non ha sortito gli effetti sperati, come mostrano le continue proteste della popolazione.25 Le
risorse stanziate rimangono limitate rispetto alle effettive esigenze; molti dei progetti per la
21
Il tasso di povertà di reddito è sceso da 7,7% nel 1985 a 3,8% nel 2005 (Ben Romdhane, 2011). Comunque, secondo il ministro
degli affari sociali del governo di transizione, la povertà a livello nazionale sarebbe più alta rispetto alle cifre diffuse sotto il regime
di Ben Ali, toccado il 10% nel 2005 (Hibou et al., 2011). Tra il 1985 ed il 2000, nel sud e nelle zone centro-occidentali, il livello di
povertà non è affatto migliorato, come invece è avvenuto nel resto del paese (Harrigan e el-Said, 2009). Secondo gli ultimi dati
ufficiali disponibili, dal 2000 al 2005, la povertà nelle regioni centro occidentali sarebbe aumentata, passando da 7,1% a 13% (Hibou
et al., 2011). Alcuni analisti stimano che il tasso di povertà in queste zone raggiungerebbe anche il 30% (Ibid.).
22
Abul Soud Mohamed e Mohamed Kamel, “University teachers criticize reduced funding for education and research”, Al-Masry alYoum, 19/04/2010 (http://www.almasryalyoum.com/en/news/university-teachers- criticize-reduced-funding-education-and-research);
Fahim e Sami (2009).
23
Per l’ultima crisi, vedi “Algeria cancer patients lack proper treatment”, Magharebia, 24/09/2011
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2010/09/24/feature-01)
24
“Algeria needs more teachers, UN report finds”, Magharebia, 7/10/2011.
25
“Housing riots rock Algiers”, Magharebia, 16/09/2011
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/09/16/feature-02).
15
costruzione di alloggi inizialmente annunciati non sono stati ancora realizzati e molte famiglie sono
state sfrattate senza ricevere un’adeguata protezione, alternativa o compensazione (OHCHR, 2011).
Infine, la situazione socio-economica risulta particolarmente difficile nelle province del sud del
paese. Come nel caso della Tunisia, la spesa pubblica stanziata per le province più svantaggiate
continua ad essere di gran lunga più bassa rispetto a quella destinata alle province più ricche.26
1.2.2 Erosione del potere d’acquisto
Nell’ultimo decennio, una parte crescente della popolazione in Egitto, Algeria e Tunisia ha visto
diminuire il proprio potere d’acquisto a causa dell’aumento dell’inflazione, che ha riguardato
soprattutto i beni alimentari, a fronte di una stagnazione dei salari. Questa impennata dei prezzi
riflette, oltre a fattori endogeni specifici ad ogni paese, l’impressionante aumento dei prezzi dei beni
alimentari a livello internazionale. Infatti, i tre paesi arabi oggetto di studio dipendono in modo
significativo dalle importazioni di generi alimentari per garantire il loro fabbisogno e dunque sono
fortemente vulnerabili alle oscillazioni dei prezzi a livello mondiale. L’elevata inflazione ha
contribuito ad accrescere il malcontento in larghe fasce della popolazione. Tra giugno 2010 e
gennaio 2011, quindi nei mesi che hanno preceduto le proteste in Tunisia, Egitto e Algeria, i prezzi
internazionali di farina e zucchero sono aumentati in modo impressionante (rispettivamente del
113% e 86%) (World Bank, 2011).
In Egitto, l’indice dei prezzi al consumo, che ha cominciato a salire dal 2003, ha raggiunto il picco
massimo del 23,6% nell’agosto 2008 dietro la spinta dell’aumento vertiginoso dei prezzi di farina,
riso e olio (Jones et al., 2009). L’aumento dei prezzi del pane ha scatenato nell’aprile dello stesso
anno una serie di sommosse nel paese, in cui persero la vita undici persone. Anche se, a partire da
quella data, l’inflazione ha cominciato a scendere, il suo andamento è stato soggetto a continue
oscillazioni e il suo livello è rimasto elevato (Paciello, 2011).
Le misure prese da Mubarak a partire dal 2008 per mitigare gli effetti della crisi alimentare
mondiale, tra cui l’espansione della copertura del sistema di sussidi alimentari (di 22 milioni di
persone), l’aumento dei salari degli impiegati pubblici e l’innalzamento del salario minimo, si sono
rivelate insufficienti. Il sistema di sussidi alimentari soffre da anni di numerose inefficienze e lascia
fuori un numero importante di poveri, circa 1/3 secondo la Banca Mondiale (World Bank, 2007),
mentre, gli aumenti previsti per i dipendenti pubblici sono stati quasi del tutto irrilevanti per
sostenere l’aumento dei prezzi dei beni alimentari.27 Non bisogna poi dimenticare che le misure
relative agli aumenti dei salari e dei bonus hanno riguardato solo i dipendenti pubblici, escludendo
una parte importante di lavoratori, quelli nell’economia informale. Infine, l’aumento del salario
minimo a 400 pound egiziani per mese è stato irrisorio (i sindacati indipendenti propongono 1200
pound egiziani).28
La pressione inflazionistica in Egitto ha colpito con forza i ceti medio bassi, che spendono una larga
parte del loro reddito in generi alimentari, ed è ritenuto il principale fattore responsabile
dell’aumento della povertà osservato a partire dal 2000 (Klau, 2010). Infatti, in controtendenza alla
seconda metà degli anni novanta, successivamente il tasso di povertà di reddito ha ripreso a
crescere, passando dal 16,7% nel 2000/2001 al 23,4% nel 2008/2009 (Jones et al., 2009; UNICEF,
26
Come mostra l’ultimo bilancio supplementare stanziato per l’anno 2011, in base al quale dodici località su trentadue sarebbero
state escluse e tra queste, ci sarebbero proprio Légata, Souk El Had, Kharouba, Taouarga, Larbatache, che sono le zone più povere
dell’Algeria (“APW: L'argent du contribuable mal distribé Boumerdes : les autres articles”, El Watan, 10/10/2011,
http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342801).
27
Interviste dell’autore, Cairo, novembre 2010; Vedi Abdelhamid e el-Baradei, 2009, “Workers, not voters, worry Egypt's
government”, Al-Masry al-Youm, 23/11/2010 (http://www.almasryalyoum.com/en/news/workers-not-voters-worry-egyptsgovernment);
Mona
el-Fiqi,
“Not
Even
Minimum
Wage”,
Al-Ahram
Weekly,
20-30/07/2008
(http://weekly.ahram.org.eg/2008/907/ec1.htm).
28
Vedi §3.4 nel presente rapporto. Mohamed Azouz, “Investors’ federation calls for upping minimum wage to LE600/month”, AlMasry Al-Youm, 2/11/2010 (http://www.almasryalyoum.com/en/news/investors-federa- tion-calls-upping-minimum-wagele600month); Noha el- Hennawy, “School teachers form Egypt’s and Independent Union”, Al-Masry Al-Youm, 20/07/2010,
(http://www.almasryalyoum.com/en/news/school-teachers- form-egypts-2nd-independent-union).
16
2010). Nel 2008/2009, il numero di poveri in Egitto raggiungeva i 16,3 milioni, rispetto ai 13,7
milioni nel 2005 (UNICEF, 2010).
In Algeria, l’inflazione media annuale (misurata dall’indice nazionale dei prezzi al consumo) ha
ricominciato a salire dal 2007 per toccare la punta record nel 2009,29 trainata dall’aumento dei
prezzi di alcuni beni alimentari, quali per esempio le verdure che hanno subito un aumento del
20,5% (Ons, 2009). Per contro, i salari sono rimasti bassi e la revisione del salario minimo a 15000
dinari algerini per mese ($250) entrata in vigore a gennaio 2010 è risultata inadeguata a soddisfare i
bisogni di base delle famiglie.30 Il fattore scatenante, seppur non decisivo, delle proteste scoppiate a
gennaio 2011 in Algeria sembra sia stato proprio l’incremento dei prezzi di alcuni prodotti
alimentari di base, tra cui lo zucchero e l’olio da cucina che, secondo stime non ufficiali, sarebbe
arrivato a toccare tra il 33% ed il 45% (Layachi, 2011; Brown, 2011). Tale aumento, come già
detto, è il risultato, oltre che di fattori esogeni, quali l’innalzamento dei prezzi dei beni alimentari a
livello mondiale, anche delle misure prese dalle autorità algerine nel 2009 per rispondere alla crisi
finanziaria mondiale (vedi § 1.1.2 nel presente rapporto).
Infine, anche in Tunisia, negli ultimi anni, il potere d’acquisto della classe media è stato colpito
dall’aumento del costo dei beni alimentari, dalla stagnazione dei salari e dall’espansione del lavoro
nell’economia informale, che ha offerto redditi irrisori senza alcun tipo di benefit (International
Monetary Fund, 2007; Hibou et al., 2011; interviste dell’autore, Tunisi, dicembre 2010). Tutto ciò
ha contribuito a frustrare le aspettative della classe media tunisina, che per contro ha accumulato un
elevato livello di indebitamento (Marzouki, 2011; interviste dell’autore, Tunisi, dicembre 2010).
1.3 Quadro politico
L’analisi delle cause che hanno portato alle sollevazioni popolari in Egitto e Tunisia e alle proteste
di minore entità in Algeria sarebbe incompleta senza considerare il quadro politico da cui sono
emerse così come le dinamiche politiche che hanno contribuito all’inefficacia delle politiche
economiche e sociali. Tali politiche si sono infatti rivelate fallimentari per ragioni di natura
essenzialmente politica.
1.3.1 Contesti autoritari
Una lunga storia di gestione autoritaria del potere ha contraddistinto i tre paesi, seppur con varianti
e differenze. In Tunisia, Ben Ali, diventato presidente nel 1987 con un tacito colpo di stato, ha
proceduto rapidamente a creare un sistema autoritario tra i più repressivi nel mondo arabo, che ha
consolidato negli anni novanta e inasprito nell’ultimo decennio. Ben Ali ha attuato una repressione
sistematica e totale di ogni forma di dissenso, esercitando un controllo severo delle libertà civili e
politiche. Esponenti politici, militanti dei diritti umani, giornalisti, membri dell’opposizione e
chiunque rappresentasse potenzialmente un rischio per il regime sono stati quotidianamente
sorvegliati, intimiditi ed esposti a vessazioni fisiche da parte di un apparato poliziesco, che, a partire
dagli anni novanta, si è allargato a dismisura (Kausch, 2009; Emhrn, 2010; Alexander, 2011). Il
regime ha esercitato un controllo completo sui media, vietando qualsiasi organo di stampa, radio e
televisioni indipendenti e, negli ultimi anni, con l’espandersi di internet, adottando un blocco
sofisticato ed esteso dei siti web ritenuti pericolosi e quotidianamente tenendo sotto controllo gli
account email (Emhrn, 2010). Inoltre, Ben Ali ha limitato fortemente l’attività di tutte le
organizzazioni politiche. Oltre al partito di regime, il Rassemblement Constitutionnel Dèmocratique
(RCD), totalmente sotto controllo di Ben Ali, soltanto ad un numero ristretto di partiti è stato
permesso di operare legalmente nel paese. Su sei partiti legalizzati, solo tre rappresentavano
29
Secondo stime ufficiali, l’indice dei prezzi al consumo passa da 3,9% nel 2007, al 4,4% nel 2008, al 6,4% nel 2009 (Ons, 2009).
Comunque, tali stime potrebbero essere sottostimate. Per esempio, altri studi non ufficiali riportano per il 2007 un valore del 12%
contro il 3,7% pubblicato dal governo algerino (“Le gouvernement peut-il juguler l’inflation et créer 400 000 emplois par an ?”, La
Nouvelle République, 23/04/2008, http://www.algeria-watch.org/fr/article/analyse/inflation_emplois.htm).
30
“Que va lâcher le gouvernement ?”, el Watan, 29/09/2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/administration/gouvernement_face_malaise.htm).
17
l’opposizione indipendente: il Parti Démocratique Progressiste (PDP), il Forum Démocratique
pour le Travail et le Libertés (FDTL) e l’Ettajdid. Questi partiti, comunque, hanno svolto un ruolo
molto marginale nella vita politica tunisina, nel timore di essere messi a tacere del tutto e per i
divieti imposti dal regime alla libertà di associazione ed espressione.
Infine, le elezioni presidenziali sono state sapientemente manipolate per favorire la rielezione
incontrastata di Ben Ali. Nel 2002, un referendum costituzionale ha abolito il limite dei mandati
presidenziali e ha alzato l’età massima per candidarsi da 70 anni a 75 anni, permettendo a Ben Ali
di ripresentarsi, e vincere, le elezioni del 2004 e del 2009. Nel 2008, una nuova legge, che stipulava
che ogni candidato alla presidenza dovesse essere leader di un partito da almeno due anni, ha
escluso dalle elezioni dell’anno seguente due dei rappresentanti dei principali partiti di opposizione,
Mustafa Ben Jafaar, segretario del FDTL, e Nejib Chebbi, leader del PDP.
Per quanto riguarda l’Egitto, Hosni Mubarak era al potere dal 1981. Dopo un periodo di cauta
apertura politica tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, Mubarak invertì rotta, dando
inizio ad una dura repressione contro gli oppositori politici, in particolare contro i Fratelli
Musulmani, e restrinse, attraverso importanti emendamenti alla costituzione, gli spazi di azione e di
libertà della società civile (Pioppi, 2004; Kienle, 1998; Din Arafat, 2009). Nella prima metà degli
anni duemila, sotto la pressione di una crescente contestazione politica (vedi §3.2 nel presente
rapporto), il regime tornò a fare alcune concessioni. Diversamente da Ben Ali, Mubarak acconsentì
ad una certa libertà di stampa, concedendo ad alcuni giornali indipendenti, come al Masry al Youm,
al Arabi e al Dustur, di operare. Venne inoltre emendata la costituzione (articolo 76) così che nel
settembre 2005 si tennero le prime elezioni presidenziali aperte ad altri candidati oltre al presidente
Mubarak. Tutto ciò, comunque, non cambiò affatto la natura autoritaria e repressiva del regime.
Grazie alla legge di emergenza in vigore dal 1981, continuarono gli arresti, le detenzioni arbitrarie e
le intimidazioni verso quei giornalisti ed oppositori che oltrepassavano i confini fissati dal regime
(Beinin, 2009). La possibilità o meno di presentarsi come candidati alla presidenza continuò ad
essere sottoposta alla stretta supervisione del regime e le frodi e le intimidazioni continuarono a
inficiare i risultati delle elezioni del 2005 (Dunne, 2006; Din Arafar, 2009).
Negli ultimi cinque anni, dopo il successo inatteso dei Fratelli Musulmani alle elezioni parlamentari
del 2005,31 il regime di Mubarak ha rafforzato significativamente il controllo sulla vita politica e ha
intensificato gli arresti e le intimidazioni contro gli oppositori politici, soprattutto i Fratelli
Musulmani, ma non solo (Paciello, 2011). L’uccisione del giovane Khaled Saieed da parte di alcuni
poliziotti nel giugno 2010 ha rivelato tutta la brutalità del regime, contribuendo a politicizzare le
coscienze di molti egiziani, soprattutto ragazzi. Una serie di emendamenti costituzionali approvati
nel 2006 e nel 2007 hanno conferito al presidente il potere di sciogliere il parlamento senza
referendum, hanno arginato ogni tentativo da parte dei Fratelli Musulmani di dar vita ad un partito,
vietando la costituzione di formazioni politiche basate sulla religione, e hanno limitato il ruolo dei
giudici nella supervisione delle elezioni, incaricando un comitato appositamente nominato dal
governo (Sullivan 2009; el-Ghobashy, 2010; Shehata, 2009). In vista delle elezioni presidenziali,
previste per settembre 2011, sono state introdotte condizioni ancora più restrittive per le candidature
alla carica di presidente, di fatto impedendo alle forze di opposizione di presentare un loro
candidato e preparando la strada alla rielezione di Mubarak o alla nomina di suo figlio Gamal
(Brown et al., 2007).
Le ultime elezioni parlamentari tenute il 28 novembre 2010, qualche mese prima della rivoluzione,
sono state le più fraudolente da quando Mubarak era al potere, segnate da violazioni senza
precedenti, arresti di centinaia di attivisti dei Fratelli Musulmani e forti pressioni sui media. Grazie
anche agli emendamenti costituzionali del 2006/2007, la vittoria massiccia del National Democratic
Party (NDP)32 è stata quindi inevitabile, mentre i partiti di opposizione ha ottenuto una manciata di
voti. I Fratelli Musulmani, principale forza di opposizione del paese, non sono riusciti a conquistare
31
Per la prima volta, 88 candidati indipendenti appartenenti ai Fratelli Musulmani riuscirono ad entrare in parlamento,
aggiudicandosi il 20% dei seggi totali.
32
Partito nazionale democratico
18
neppure un seggio, decidendo di boicottare il secondo turno elettorale in segno di protesta (Dunne e
Hamzawy, 2010).
In Algeria, benché Bouteflika, eletto nel 1999 con il supporto dell’esercito, sia riuscito, anche se
non completamente, a contenere la violenza esplosa durante gli anni novanta e a ridurre il peso
politico dei militari (Tlemcani, 2008), sotto la sua presidenza, si è assistito ad un consolidamento
dell’autoritarismo. Di fatto, nel giro di dieci anni, Bouteflika ha proceduto ad una progressiva
concentrazione del potere e dei processi decisionali nelle sue mani, subordinando completamente
l’organo legislativo a quello esecutivo e dunque indebolendo l’azione del parlamento (Darbouche,
2011; Tamburini, 2010). Nel 2008, una serie di emendamenti costituzionali approvati dal
parlamento hanno contribuito a rafforzare ulteriormente il potere del presidente e consentirgli di
ricandidarsi per la terza volta alle elezioni del 2009, rimuovendo il limite di due mandati
all’eleggibilità dei presidenti imposto dalla costituzione del 1993 (Aghrout e Zoubir, 2009). Inoltre,
il regime di Bouteflika è riuscito a contenere le espressioni di dissenso grazie alla legge
d’emergenza introdotta nel 1992, al forte controllo dello stato sui media e all’opera di intimidazione
della polizia (il noto Département du Renseignement et de la Sécurité) (Roberts, 2007; Darbouche,
2011). Nonostante la presenza di innumerevoli partiti politici, la maggior parte di essi sono stati
cooptati e indeboliti dal regime attraverso la strategia del divide et impera che ha generato rivalità e
fazionalismi tra gli stessi partiti di opposizione (Dessi, 2011; Layachi, 2011; Roberts 2007). I partiti
politici appaiono dunque deboli e godono di scarsa credibilità, come mostra il progressivo aumento
nei tassi di astensionismo al voto a partire dalle elezioni del 1995 (Dris-Ait-Hamadouche, 2008).
Infine, nonostante i tentativi di Bouteflika di consolidare la natura civile del suo governo, i servizi
di sicurezza hanno continuato ad esercitare una forte influenza sulla politica algerina, interna e
estera, e sulle decisioni del governo (Tlemcani, 2008).
Il contesto politico su delineato mostra dunque come il drammatico peggioramento delle condizioni
socio-economiche osservato nei tre paesi soprattutto nell’ultimo decennio sia stato accompagnato
da un progressivo rafforzamento dell’autoritarismo, della repressione e della chiusura degli spazi di
espressione politica, anche se con modalità ed intensità diverse da paese a paese. Il deterioramento
della condizione socio-economica combinato ad una regressione sul fronte politico hanno
contribuito dunque ad esasperare la frustrazione ed il risentimento tra la popolazione. In assenza di
canali formali di espressione politica, il quadro socio-economico e politico si è rivelato insostenibile
e inaccettabile, sfociando in una forma di mobilitazione spontanea.
1.3.2 Dinamiche politiche e problemi economici
Il contesto autoritario su presentato ha influenzato profondamente gli sviluppi sociali ed economici
dei paesi oggetto di studio. Le politiche pubbliche si sono rivelate inefficaci ad affrontare i problemi
socio-economici su descritti per ragioni di natura essenzialmente politica.
Le riforme di liberalizzazione economica sono state infatti uno strumento centrale di
consolidamento del potere autoritario nei tre paesi. Esse hanno offerto opportunità di arricchimento
all’elite di potere, ad una cerchia ristretta di imprenditori vicini ai regimi e, nel caso dell’Egitto e
dell’Algeria, anche ai militari. I programmi di privatizzazione, condotti in maniera opaca e in
assenza di una competizione trasparente, sono un chiaro esempio di come le riforme economiche
abbiano avvantaggiato solo coloro che avevano stretti legami con l’elite al potere: i membri della
famiglia di Ben Ali e di sua moglie Leila Trabelsi in Tunisia, i generali dell’esercito in Algeria e un
gruppo di grandi imprenditori locali vicini agli uomini di governo in Egitto (Hibou, 2006; Larsson,
2010; Alissa, 2007; Delhaye e Le Pape, 2004). Come mostrano numerosi casi, molti dei quali legati
alle privatizzazioni, anche gli investitori stranieri non sono sfuggiti a questo fitto sistema di
corruzione, compromessi e favoritismi con i regimi in carica (Escribano e Lorca, 2011; el Naggar,
2010; Hibou et al., 2011).
19
Allo stesso tempo, tali riforme sono servite ai regimi al potere per cooptare importanti segmenti del
settore privato al fine di ampliare o rafforzare la loro base di consenso.33 A loro volta, in cambio di
supporto politico ed acquiescenza, gli imprenditori collusi con il potere hanno beneficiato delle
riforme economiche, ad esempio rilevando le compagnie pubbliche a prezzi irrisori per poi
rivenderle a prezzi maggiorati; hanno fatto maggiori profitti grazie ad agevolazioni fiscali e ad altri
privilegi personali; e hanno potuto perseguire i loro interessi economici nella più totale assenza di
trasparenza (Hibou 2007; El Naggar, 2011). Il magnate dell’acciaio Ahmad Ezz, uno dei primi ad
essere arrestato dopo la fuga di Mubarak, rappresenta il caso più emblematico, ma non l’unico,
della fitta rete di privilegi che legava un gruppo di imprenditori al potere politico (Al Din Arafat,
2009). Grazie alla sua stretta amicizia con Gamal Mubarak e alla sua posizione di primo piano nel
partito di regime, il parlamento non osò mai mettere in discussione il monopolio dell’imprenditore
nel settore dell’acciaio (Beinin, 2009). Insieme ad altri noti imprenditori, Ahmed Ezz fu uno dei
principali finanziatori della campagna presidenziale di Mubarak nel 2005 (Alissa, 2007). Non è un
caso che, in Egitto, all’epoca di Mubarak, il numero di uomini d’affari aderenti al partito di regime
e presenti in parlamento fosse progressivamente aumentato (dal 12% alle elezioni del 1995 al 22%
nel 2005) (Beinin, 2009; Al Din Arafat, 2009). Grazie alla loro presenza in parlamento e dunque
all’immunità parlamentare di cui godevano, questi imprenditori riuscirono ad accumulare
illegalmente enormi fortune, ricambiando con una totale acquiscienza al regime (Al Din Arafat,
2009).
Infine, nonostante l’attuazione delle riforme di mercato volte a rafforzare l’iniziativa privata, i
regimi nei tre paesi hanno continuato ad esercitare una forte sorveglianza sul settore privato. Il caso
della Tunisia, studiato in modo approfondito da Bèatrice Hibou (2006), serve ad illustrare
chiaramente questo punto. In Tunisia, l’accesso alle agevolazioni fiscali di cui si è parlato o ai
numerosi dispositivi di finanziamento disponibili per le imprese così come ai vantaggi contemplati
dallo stesso programma di Mise à Niveau finanziato dall’Europa, erano parte integrante di questo
sistema di controllo da parte del regime, che determinava l’attribuzione di tali benefici in base a
logiche politiche (Hibou, 2006; Cassarino 2004). A tali pratiche di “inclusione”, si affiancavano
strategie diffamatorie nei confronti degli imprenditori non accondiscendenti al potere e misure di
natura coercitiva. A questo proposito, per esempio, si ricorda che i programmi presidenziali di
assistenza sociale erano in gran parte finanziati da donazioni “volontarie” provenienti dal settore
privato, a cui ognuno era costretto a partecipare per non incorrere in ritorsioni da parte del regime
(Hibou, 2006, 2009). Inoltre, se da una parte il regime tollerava l’evasione fiscale e l’illegalità, in
cambio gli imprenditori erano in qualche modo costretti a versare denaro al partito di regime o alle
associazioni vicine al potere (Hibou, 2006). Gli imprenditori tunisini che si rifiutavano di sottostare
al sistema mafioso di Ben Ali rischiavano persino di essere imprigionati.34
Queste modalità di gestione economica, profondamente radicate in un sistema autoritario e
repressivo, hanno impedito l’emergere di un settore imprenditoriale dinamico ed indipendente
realmente capace di generare opportunità di lavoro e di produrre un profondo cambiamento
economico, favorendo il dilagare della corruzione e delle pratiche predatorie, del nepotismo, ed il
perpetuarsi di inefficienze nell’economia. Il basso livello di investimenti privati dunque, oltre a
riflettere problemi di natura economica soprattutto tra le piccole e medie imprese (difficoltà di
accesso al credito, mancanza di accesso alle nuove tecnologie, limitate infrastrutture, mercati
limitati ecc) è dovuto innanzitutto a fattori di natura essenzialmente politica. Come emerge da
numerose analisi,35 uno dei principali fattori che sembra aver scoraggiato gli investimenti privati,
33
La letteratura su questo tema è molto ampia (vedi Alissa, 2007; Beinin, 2009; Droz-Vincent, 2009; Wurzel, 2004, 2009;
Heydemann, 2007; Richter, 2007; Sfakianakis, 2004; Cassarino, 2004; Hibou, 2004, 2006; Delhaye e Le Pape, 2004).
34
Si rimanda alla testimonianza di un giovane imprenditore tunisino rimasto in carcere per cinque anni, pubblicata dopo la fuga di
Ben Ali su La Presse (“Le récit d’un entrepreneur tunisien broyé par le système Ben Ali”, 17/02/2011, La Presse,
http://www.lapresse.tn/17022011/22809/le-recit-dun-entrepreneur-tunisien-broye-par-le-systeme-ben-ali.html).
35
Hibou et al. 2011; Robert F. Godec ,“Corruption en Tunisie: Ce qui est à toi m’appartient”, Tunisia Watch, 14/12/2010
(http://www.tunisiawatch.com/?p=3166); “Bribes and prejudice: why anti-graft measures worry Egypt's economists”, Ahram online,
04/05/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11412/Business/Economy/Bribes-and-prejudice-why-antigraft-measuresworry-.aspx).
20
locali e stranieri, nei tre paesi è proprio la corruzione, la mancanza di trasparenza ed il sistema di
favoritismi. Uno studio sull’Egitto condotto da Transparency International prima della rivoluzione
dimostra che gli investitori stranieri investivano poco nel paese proprio a causa della corruzione
dilagante e della poca trasparenza del clima d’affari. Allo stesso modo, un’altra indagine
dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni rileva che il primo fattore a scoraggiare gli
investimenti della diaspora egiziana nel paese d’origine era proprio la mancanza di trasparenza
(IOM, 2010).
Anche i programmi di assistenza sociale e di creazione di impiego devono la loro inefficacia ad una
gestione opaca, corrotta e nepotistica, guidata da motivazioni politiche (Kallander, 2011; Harrigan e
el-Said, 2009). In Tunisia, per esempio, il programma presidenziale noto con il nome di Fondo 2626 fu gestito con poca trasparenza e molte delle sue risorse intese a risolvere il problema della
disoccupazione furono distribuite secondo criteri puramente clientelari (Kallander, 2011). Sempre
in Tunisia, poiché era il partito di regime che determinava l’attribuzione dei benefici sociali, a chi
anche lontanamente fosse sospettato di essere oppositore politico, venne precluso l’accesso ai
servizi sociali o ad altri benefici (Hibou, 2007; Harrigan e el-Said, 2009). Tali considerazioni
naturalmente si estendono anche agli altri paesi oggetto di studio. In Algeria, il processo di
attribuzione delle nuove case ha sollevato numerose proteste poichè è stato condotto in modo
opaco, dando luogo a favoritismi e escludendo le famiglie realmente bisognose (OHCHR, 2011).
2. SFIDE SOCIO-ECONOMICHE DOPO LA PRIMAVERA ARABA
Introduzione
La primavera araba ha avuto nel breve termine effetti diversi sulle economie studiate in questo
rapporto. Nella fase successiva all’ondata di proteste di gennaio e febbraio, il quadro socioeconomico in Tunisia e in Egitto ha continuato a peggiorare. Le sollevazioni popolari hanno avuto
ripercussioni drammatiche sulle economie dei due paesi, andando a peggiorare una situazione che
era già complicata in precedenza. Inoltre, le risposte elaborate nei mesi successivi alla rivoluzione
dai governi di transizione per contenere il drammatico deterioramento della situazione socioeconomica si sono rivelate inefficaci perché hanno riproposto le stesse ricette del passato. Anche se
l’Algeria sembra godere, almeno nel breve termine, di una situazione relativamente più favorevole
rispetto a Tunisia e Egitto, considerando l’impatto della crisi libica sui prezzi del petrolio, tuttavia
in una prospettiva di lungo termine le misure socio-economiche messe in atto dal governo algerino
per contenere le proteste di gennaio non sono sostenibili e continuano ad essere insufficienti per
affrontare i problemi strutturali del paese.
Dal punto di vista politico, l’incertezza che ha accompagnato la fase della transizione in Tunisia e
Egitto, combinata ad uno persistente stato di insicurezza e instabilità, ha scoraggiato la ripresa di
settori economici chiave, come il turismo, e quella degli investimenti privati. Ma soprattutto, il fatto
che i governi di transizione abbiano esitato a rompere con il vecchio sistema di potere, anche se con
differenze tra Egitto e Tunisia, ha finora impedito un ripensamento profondo delle strategie di
sviluppo. In Algeria, le riforme politiche inaugurate da Bouteflika dopo le proteste di gennaio non
hanno apportato alcun miglioramento tangibile, preservando dunque lo status quo non soltanto negli
equilibri politici ma anche in quelli economici.
2.1 Incertezze del cambiamento politico
Tunisia: segnali incoraggianti e molte incognite sul futuro politico
Dopo le sollevazioni popolari che hanno portato al rovesciamento di Ben Ali, i poteri del presidente
sono passati temporaneamente a Fouad Mebazaa, ex presidente del Parlamento, che ha nominato un
governo di transizione con l’incarico di guidare il paese fino alle elezioni. I primi due governi ad
21
interim hanno avuto breve durata perchè accoglievano diverse personalità note per i legami con l’ex
presidente e la sua famiglia, ed erano diretti da Muhammad Ghannouschi, primo ministro uscente
del governo sotto Ben Ali e figura di spicco durante il precedente regime. Proprio per questo, i
primi due governi ad interim hanno esitato ad attuare misure volte a mettere seriamente in
discussione il sistema passato di potere (Paciello 2011). Ad esempio, non hanno preso alcuna
iniziativa per dissolvere il vecchio apparato di sicurezza ideato da Ben Ali per controllare gli
oppositori politici. Inoltre, la nomina dei nuovi governatori delle province (il 3 febbraio) si è svolta
senza previa consultazione delle forze politiche e quasi tutti i nuovi governatori eletti provenivano
dall’ex partito di regime. Il problema dell’insicurezza, che ha attraversato la Tunisia sin dalla fuga
di Ben Ali, è stato affrontato solo tardivamente e senza riuscire a porre fine all’anarchia nel paese.
Il terzo governo ad interim guidato da Beji Caid Essebsi ha rappresentato, rispetto ai precedenti, un
passo avanti. La transizione politica ha infatti proceduto più speditamente. Una delle prime misure
adottate è stato lo smantellamento del vecchio apparato di sicurezza, una delle richieste prioritarie
dei manifestanti. Il governo di Essebsi ha inoltre fatto numerose concessioni in favore del
cambiamento politico: ha accettato la proposta, arrivata dalla società civile, di eleggere
un’Assemblea Costituente incaricata di riscrivere la Costituzione prima di tenere elezioni
parlamentari e presidenziali, così da aprire la strada ad un processo di riforme costituzionali
condiviso e rappresentativo; ha posticipato la data delle elezioni dell’Assemblea Costituente,
inizialmente previste per il 24 luglio 2011, al 23 ottobre 2011 in modo da lasciare più tempo alle
forze politiche per organizzarsi; e, attraverso la creazione della Instance Supérieure36 per la
realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, ha accettato di consultarsi con numerosi
rappresentanti della società civile su diverse questioni, come per esempio sulla riforma della legge
elettorale (vedi §3.4.1). Infine, la riforma della legge elettorale per nominare l’Assemblea
Costituente ha introdotto importanti provvedimenti: ha vietato la candidatura dei rappresentanti
dell’ex partito di regime che avevano ricoperto incarichi dirigenziali nell’ultimo decennio; ha
adottato la parità uomo-donna ed il principio dell’alternanza nella presentazione delle liste
elettorali; e ha concesso il diritto di voto ai tunisini residenti all’estero, attribuendo loro dieci seggi.
Il 23 ottobre, si sono tenute in Tunisia le elezioni dell’Assemblea Costituente, che hanno visto il
partito islamista moderato al Nahda ottenere il maggior numero di seggi (89 su 217) e aggiudicarsi
voti in pressocchè quasi tutti i distretti. Entro un anno, l’Assemblea dovrà terminare la stesura della
costituzione, che verrà poi sottoposta a referendum popolare. Al termine di questo processo, ci
saranno le elezioni del parlamento. Nel frattempo, un nuovo governo diretto dal segretario generale
di al Nahda, Hamadi Jebali, avrà il compito di occuparsi di alcune questioni cruciali per il paese
come il rilancio dell’economia e la riforma della giustizia e della sicurezza. L’elezione
dell’Assemblea Costituente potrebbe quindi dare inizio ad una nuova fase della transizione politica
della Tunisia, quella che potrebbe aprire la strada alle riforme istituzionali, su cui finora i governi
ad interim hanno esitato, accelerare la trasformazione politica e rilanciare l’economia. Benché ci
siano diversi segnali incoraggianti, la traiettoria della transizione politica tunisina è piena di
incertezze.
L’incognita maggiore riguarda il futuro ruolo di al Nahda, che secondo alcuni osservatori ed
esponenti della società civile tunisina potrebbe costituire una minaccia per il processo di transizione
democratica, soprattutto per quanto riguarda la questione dei diritti delle donne. Sul piano
programmatico, sin da quando il suo leader, Rachid Ghannouchi, in esilio a Londra è tornato in
Tunisia (30 gennaio 2011), il partito islamista ha ripetutamente ribadito la sua volontà di rispettare
le regole della democrazia e i diritti dell’uomo, di non voler instaurare la legge islamica ma di
rifarsi ad un Islam moderato sul modello del Partito Giusizia e Sviluppo in Turchia, nè di voler
rimettere in discussione il Codice della Famiglia, che tra le altre cose vieta la poligamia. Anche
dopo le elezioni, gli esponenti del partito islamista hanno continuamente rassicurato l’opinione
pubblica sul rispetto di tali principi.
36
Instance Supérieure pour la Réalisation des Objectifs de la Révolution, de la Réforme Politique et de la Transition Démocratique.
22
Anche se non è possibile escludere il rischio che al Nahda, attraversato da numerose correnti,
inverta rotta per avvicinarsi a posizioni conservatrici, alcuni elementi potrebbero contribuire a
scoraggiare un eventuale spostamento del partito islamista in tale direzione. Non avendo ottenuto la
maggioranza assoluta, al Nahda ha formato un governo di coalizione con due partiti di sinistra, il
Congrès pour la République (CPR) di Moncef Marzouki, che ha ottenuto ventinove seggi, e
Ettakatol di Mustapha Ben Jaafar, che si è aggiudicato venti seggi. Questi due partiti devono il loro
relativo successo elettorale al fatto di aver tenacemente combattuto contro la dittatura di Ben Ali e
aver difeso strenuamente i diritti umani. Proprio in virtù di tali prerogative, il CPR e Ettakatol
potrebbero porsi a garanzia del fatto che al Nahda rimanga coerente con le affermazioni e le
rassicurazioni fatte finora in tema di diritti umani e sul codice della famiglia. Gli altri molteplici
partiti che hanno dichiarato di posizionarsi all’opposizione sono in maggioranza formazioni liberali
e di sinistra, che potrebbero anch’essi svolgere un ruolo in tal senso.37 Infine, la scelta del presidente
ad interim della repubblica nella figura di Moncef Marzouki, leader del CPR, potrebbe
rappresentare un ulteriore garanzia per assicurare il rispetto delle istituzioni, equilibrare i rapporti di
forza tra le parti e garantire le libertà fondamentali.
Una seconda incognita riguarda il grado di compattezza e solidità del nuovo governo. Da una parte,
la futura coalizione sembra convergere su diversi temi, tra cui l’attaccamento all’identità arabo
musulmana, la volontà di rompere radicalmente con il passato regime, essendo tutti e tre ex partiti
di opposizione duramente repressi sotto Ben Ali, ed il tema della giustizia sociale. Tuttavia, il
dibattito sulla costituzione all’interno dell’Assemblea Costituente potrebbe dividere queste forze
politiche che hanno posizioni diverse su questioni quali la scelta del sistema politico (parlamentare
o presidenziale), i rapporti tra stato e religione, i poteri del presidente ecc.38
Un terzo fattore di incertezza è dato dal ruolo che svolgerà la controversa formazione Pétition
Populaire (Al Aridha Chaâbia), guidata da Hachemi Hamdi, potente uomo d’affari e proprietario
del canale satellitare al Mustaquilla basato a Londra, e sospettato di aver forti legami con il
precedente regime. Contrariamente ad ogni aspettativa, Pétition Populaire ha ottenuto ventisei
seggi diventando così la terza forza politica del paese dopo il CPR grazie al canale satellitare
attraverso il quale ha condotto la sua campagna elettorale e a un programma fortemente populista,
che ha conquistato le regioni più povere del sud. Immediatamente dopo le elezioni, sei liste di
Pétition Populaire39 erano state annullate con l’accusa di aver condotto una campagna elettorale
scorretta e, nel caso di una circoscrizione, per avere come capo lista un dirigente dell’ex partito di
regime. La decisione di Hachemi Hamdi di ritirare tutte le liste della sua formazione politica aveva
causato scontri violenti e saccheggi da parte dei suoi sostenitori a Sidi Bouzid, sua città natale e
luogo da cui, come è noto, ha preso piede la sollevazione popolare contro Ben Ali. A seguito di
diversi ricorsi, il tribunale ha annullato la decisione di invalidare le sei liste. Quale ruolo giocherà
questa lista nella futura assemblea costituente è ancora presto per dirlo. Per il momento, Hechmi
Hamdi non è ancora rientrato in Tunisia perché il suo nome figurerebbe nell’ultimo rapporto redatto
dalla Commissione Nazionale sugli Affari di Corruzione commessi all’epoca di Ben Ali. Il fatto che
Pétition Populaire, sospettata di avere il sostegno di membri dell’ex partito di regime, sia presente
nell’Assemblea Costituente, insieme ad un altro partito, El Moubadara, fondato da un ex ministro
di Ben Ali, Kamel Morjane (con 5 seggi), potrebbe influenzare negativamente la direzione del
cambiamento politico.
Infine, la presenza di numerose forze politiche nell’Assemblea Costituente, che riflette il sistema
elettorale proporzionale scelto dall’Alta Istanza per garantire una maggiore rappresentatività,
potrebbe rallentare il processo decisionale e dar luogo ad alleanze fragili e imprevedibili. A tal
proposito, si ricorda che, oltre ai partiti su menzionati, l’Assemblea Costituente è composta da altri
quattordici partiti che hanno ottenuto un seggio a testa.
37
Tra questi: l’ex partito di opposizione il Parti Démocratique Progressiste (16 seggi), Afek Tounès (4 seggi), il Partito Comunista
Operaio Tunisino (3 seggi), il Pôle Démocratique Moderniste (5 seggi) e diversi partiti di sinistra che hanno ottenuto un seggio a
testa.
38
Slate Afrique, 8/11/2011 (http://www.slateafrique.com/62767/les-missions-de-l%E2%80%99assemblee-constituante-tunisie).
39
Si tratta delle circoscrizioni di Tatauoine, Sfax I, Jendouba, Kasserine, Sidi Bouzid e France 2.
23
Egitto: tra involuzione autoritaria e instabilità politica
In Egitto, il processo di transizione politica ha proceduto molto lentamente. La fase post Mubarak è
stata gestita dal Consiglio Supremo delle Forze Armate presieduto da Mohammed Hussein Tantawi,
ministro della difesa durante il precedente regime. A causa dei forti legami con il regime di
Mubarak, il Consiglio delle Forze Armate è stato molto reticente a rompere con il passato sistema di
potere e ha fatto pochissime concessioni alla rivoluzione. Il primo governo di transizione guidato da
Ahmed Shafiq, pur essendo stato nominato da Mubarak poco prima della sua destituzione, è rimasto
in carica, dopo un piccolo rimpasto, fino al 3 marzo. Il successivo governo, diretto da Essam Sharaf,
ha continuato ad essere composto di ex ministri e personalità legate a Mubarak. In risposta alle
recenti proteste di novembre, represse duramente dalle autorità, è subentrato un terzo governo
diretto da Kamal el Ganzouri, che in quanto ex primo ministro all’epoca di Mubarak, continua ad
essere un esponente del passato regime.
Inoltre, al di là di alcune caute iniziative, le autorità di transizione non hanno preso alcuna seria
misura per riformare l’apparato di sicurezza, il sistema di informazione e il sistema della giustizia,
che rimangono ancora sotto il controllo di uomini legati all’ex regime (Paciello, 2011). I militari
hanno usato, sempre più frequentemente, gli stessi metodi repressivi e violenti del precedente
regime, rispondendo alle continue proteste con l’uso della forza, arrestando arbitrariamente
bloggers, avvocati e giornalisti, e arrivando a processare ben 12,000 civili davanti alle corti militari
(Paciello, 2011; Amnesty International, 2011). A metà settembre, contrariamente a quanto
inizialmente dichiarato, il Consiglio delle Forze Armate ha annunciato la riattivazione della legge
d’emergenza estendendola fino a giugno 2012. Il recente arresto di Alaa Abdel-Fattah, uno dei più
famosi blogger egiziani e animatori della sollevazione contro Mubarak, e la violenta repressione
contro le proteste di novembre, che ha provocato la morte di quarantadue persone, testimoniano la
forte continuità con il passato regime. Infine, le autorità di transizione non hanno saputo o voluto
gestire le tensioni intra-religiose, scoppiate tra Musulmani e Copti, e tra Sufi e Salafiti,
contribuendo ad esacerbare il clima di insicurezza e instabilità che pervade il paese, come mostrano
gli ultimi violenti incidenti di ottobre tra militari e manifestanti copti.
Il 28 novembre, si è aperto il lungo processo elettorale per la nomina del nuovo parlamento dopo il
rovesciamento di H. Mubarak che si concluderà il 4 marzo.40 Successivamente, il neo-parlamento
avrà il compito di nominare il comitato incaricato di riscrivere la costituzione, che dovrà poi essere
finalizzata entro sei mesi e soggetta all’approvazione di un referendum popolare. Benché sia
difficile fare previsioni attendibili sull’esito delle elezioni a causa della complessità della legge
elettorale e della nebulosità del panorama delle forze politiche, le opportunità di un reale
cambiamento politico, almeno per i prossimi mesi, sembrano molto limitate. Le elezioni serviranno
per chiarire quali sono gli equilibri di forza dei vari partiti politici nel paese, ma certamente non
contribuiranno ad avviare il paese verso una netta rottura con il passato sistema di potere,
indispensabile per una profondo cambiamento politico.
Un primo problema riguarda le molte esitazioni, la confusione e l’opacità con cui il Consiglio
Supremo delle Forze Armate ha gestito la fase di preparazione delle elezioni che rischiano di
comprometterne la legittimità, aumentando l’incertezza e l’instabilità nei prossimi giorni e mesi. La
legge elettorale, che era già stata emendata alla fine di maggio, è stata modificata nuovamente dal
Consiglio delle Forze Armate alla fine di settembre, a meno di due mesi dalle elezioni. Ciò ha
lasciato pochissimo tempo per organizzare la campagna elettorale e per sensibilizzare la
popolazione sul complesso sistema di voto (IFES, 2011), che potrebbe scoraggiare l’elettorato o
indurlo in errore, soprattutto nelle zone rurali. Inoltre, la complessità e le molte ambiguità della
legge elettorale, oltre ai numerosi problemi logistici, amministrativi e tecnici rimasti irrisolti,
rischiano di sollevare nei prossimi mesi ricorsi e ulteriori proteste.
Uno dei principali rischi legati alle elezioni parlamentari in Egitto è che il futuro parlamento sia
40
I primi tre turni (28 novembre, 14 dicembre ed il 3 gennaio) riguarderanno le elezioni dell’Assemblea Popolare, mentre i tre
successivi (29 gennaio, 14 febbraio e 4 marzo) serviranno per eleggere la camera alta (Consiglio della Shura).
24
poco rappresentativo delle forze sociali e politiche che hanno animato la sollevazione popolare
contro Mubarak. Infatti, sembra del tutto plausibile che la configurazione del futuro parlamento sarà
caratterizzata dalla predominanza del partito islamista Giustizia e Libertà (Freedom and Justice
Party), espressione della Fratellanza Musulmana. Benché si tratti di risultati preliminari relativi alla
prima tornata elettorale condotta in nove governatorati su ventisette, il partito islamista si sarebbe
aggiudicato tra il 40% ed il 45% dei voti. Anche se è difficile dire se Giustizia e Libertà otterrà la
maggioranza assoluta in parlamento dato l’elevato numero di partiti islamisti, la formazione dei
Fratelli Musulmani gode indubbiamente di una posizione nettamente più favorevole rispetto a tutte
le altre in termini di strutture organizzative, risorse finanziarie e presenza sul terreno attraverso le
sue attività caritatevoli. Accanto al partito islamista dei Fratelli Musulmani, il blocco dei partiti
salafiti ultraconservatori coalizzato nell’Alleanza Islamica e guidato dal partito al Nour potrebbe
conquistare una parte importante dei voti, tanto da diventare la seconda forza nel paese. Per ora, alla
prima tornata elettorale, avrebbe ottenuto il 20% dei voti, posizionandosi dopo la formazione dei
Fratelli Musulmani. Un elemento che influenzerà certamente il corso della transizione politica è
rappresentato dalla strategia del partito Giustizia e Libertà nei confronti degli altri partiti: se cioè
opterà per un’alleanza con i partiti salafiti o con quelli secolari. Benché i partiti islamisti si siano
presentati alle elezioni frammentati in diverse coalizioni o, come nel caso di al Wasat senza aderire
a nessuna alleanza, le divergenze, per alcuni dovute a rivalità personali piuttosto che a
incomprensioni programmatiche, potrebbero ricomporsi una volta entrati tutti in parlamento.
Secondo alcuni osservatori, se i salafiti si rivelassero il secondo blocco dopo il partito Giustizia e
Libertà, questo potrebbe spingere il partito dei Fratelli Musulmani verso posizioni più
conservatrici.41 La strategia del partito Giustizia e Libertà dipenderà naturalmente anche se ed in
che misura i partiti secolari decideranno di cooperare con il partito islamista.42
Benché, data la complessità della legge elettorale, sia difficile prevedere quale sarà il ruolo degli
altri partiti politici nel futuro parlamento, sembra probabile che le forze che si propongono di
rappresentare le istanze rivoluzionarie e le giovani generazioni riescano ad ottenere una presenza
molto marginale nel futuro parlamento. Per ora, i risultati della prima tornata elettorale mostrano
che la terza forza nel paese è il Blocco Egiziano che raccoglie i cosiddetti partiti liberali e prosecolaristi, tra cui il Partito degli Egiziani Liberi, il Partito Social Democratico ed il Tagammu’.
Questo blocco, che certamente potrebbe giocare un ruolo nel controbilanciare il peso delle forze
islamiste, presenta numerosi aspetti controversi. Uno dei partiti che compone l’alleanza è il partito
Free Egyptians,43 fondato dal ricco imprenditore Naguib Sawiris, che ha accumulato grandi fortune
durante il regime di Mubarak e si dica fosse vicino al figlio dell’ex presidente, Gamal Mubarak.44 Il
partito ha inoltre presentato nella sua lista otto membri dell’ex partito di regime. Infine,
l’eterogeneità dell’Alleanza, formata da un partito ultra liberista come quello di Sawiris e da un
partito socialista come il Tagammu’, potrebbe, in futuro, minacciarne la coesione. L’Alleanza
Revolution Continues,45 l’unica ad essere costituita da alcuni gruppi giovanili protagonisti della
rivoluzione, ad aver un programma fortemente improntato sulla giustizia sociale, oltre ad aver
presentato un gran numero di candidati al di sotto dei quaranti anni e diverse donne nelle liste, non
sembra aver grandi opportunità di successo. La stessa considerazione vale per il partito al Adl
(Giustizia), l’altra formazione politica fondata da esponenti di vari gruppi giovanili (6 Aprile,
Kifaya ecc) e blogger, tra cui Mostafa Naggar.
C’è inoltre il rischio che, benché l’ex partito di regime, il National Democratic Party (NDP), sia
stato ufficialmente dissolto ad aprile, molti dei suoi membri possano conquistare una parte non
41
Vedi “Egypt's Islamists Pushed to Right”, Middle East News, 30/11/2011
(http://online.wsj.com/article/SB10001424052970203441704577068301585521704.html).
42
“Egypt’s Election, Take One”, Carnegie Endowment, 2/12/2011.
(http://egyptelections.carnegieendowment.org/2011/12/02/egypt’s-election-take-one).
43
“Liberi Egiziani”
44
“The Free Egyptians”, Ahram Online, 18/11/2011, (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/33/104/24944/Elections-/PoliticalParties/The-Free-Egyptians.aspx)
45
“La Rivoluzione Continua”
25
trascurabile di seggi in Parlamento. Diversamente dalla Tunisia e nonostante le continue pressioni
da parte dei gruppi giovanili, il Consiglio Supremo delle Forze Armate non ha imposto alcun
divieto ai membri dell’ex partito di regime di presentarsi alle prossime elezioni. Per questo,
numerosi esponenti del NDP si sono candidati come indipendenti o hanno trovato ospitalità nei
nuovi e molteplici partiti guidati da uomini legati al precedente regime, tra cui il Freedom Party, il
Egyptian Citizen Party, il National Party of Egypt, il Modern Egypt Party, e molti altri.46 Oltre a
questi partiti chiaramente legati all’ex regime, altre formazioni politiche, come già detto, non hanno
esitato ad accogliere candidati esponenti del NDP. Infine, si dice che il sistema elettorale,
particolarmente favorevole ai candidati indipendenti, avvantaggerebbe coloro che hanno forti
contatti personali a livello locale e ampie risorse finanziarie, come è il caso di molti uomini d’affari
e notabili appartenenti all’ex partito di regime.
Una terza questione dagli esiti incerti riguarda il futuro ruolo dei militari nel processo di transizione
politica del paese. Se i militari continueranno a guidare il paese nei prossimi mesi, il processo di
transizione politica è destinato a subire una drammatica involuzione. Inoltre, come mostrano le
proteste scoppiate il 18 novembre per chiedere la fine del governo del Consiglio Militare ed il
passaggio alle autorità civili, la continuazione di un governo militare rischia di esporre il paese ad
una crescente instabilità e spirale di violenza. Prima delle proteste, il Consiglio Supremo delle
Forze Armate avrebbe dovuto guidare il paese almeno fino al 2013, quando, al termine del processo
di stesura e approvazione della nuova costituzione, si sarebbero tenute le elezioni presidenziali.
Sotto la pressione delle proteste, il Consiglio Militare ha annunciato di volere anticipare le elezioni
presidenziali a giugno 2012, ma numerosi segnali sembrano indicare che non rinuncerà facilmente
al suo ruolo politico. Al di là degli annunci fatti, concretamente i militari si sono limitati a proporre
la creazione di un Consiglio di civili per assistere il Consiglio dei Militari nella fase di transizione
senza tra l’altro specificare chiaramente le competenze.47 Inoltre, cominciano, a circolare voci che il
generale Mohamed Tantawi alla guida del Consiglio e altri generali potrebbero presentarsi alle
elezioni presidenziali. Ma soprattutto, per continuare ad esercitare una forte ingerenza nel processo
di stesura della costituzione, ai primi di novembre, il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha
emesso una dichiarazione dei “principi sovracostituzionali”, in cui, tra le altre cose, attribuiva ai
militari il potere di nominare ottanta dei cento membri della futura commissione costituzionale,
spogliando di tale prerogativa il nuovo parlamento.48 Questa dichiarazione, nonostante sia stata
criticata da molte parti e respinta dai manifestanti, non è stata ancora ufficialmente annullata dai
militari. Tuttavia, secondo alcuni osservatori, il successo dei partiti islamisti, ed in primis dei
Fratelli Musulmani, potrebbe contribuire a controbilanciare i poteri del Consiglio Supremo delle
Forze Armate e quindi ad accelerare il processo di rottura con il regime di Mubarak. Nella misura in
cui queste forze islamiste con una larga maggioranza rivendicheranno un ruolo politico reale per il
neo parlamento eletto, sarà molto difficile per i militari imporre la loro volontà sulla composizione
della futura commissione costituzionale così come sul contenuto della costituzione se non al prezzo
di uno scontro diretto con il parlamento e di nuove proteste.49
Algeria: insostenibilità dello status quo e incertezza sugli scenari di cambiamento politico
Il futuro politico dell’Algeria appare particolarmente incerto. Sotto la pressione di quanto successo
in Tunisia ed Egitto, e delle proteste interne, il regime algerino ha avviato una serie di riforme
politiche che, secondo le autorità, hanno dato inizio all’atteso processo di democratizzazione del
paese. Dopo aver abolito la legge d’emergenza a febbraio 2011, il presidente Bouteflika ha
46
Per una lista completa, vedi “NDP Offshoots”, Ahram Online, (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/33/104/26897/Elections/Political-Parties/NDP-Offshoots.aspx).
47
“SCAF expected to announce 'advisory council' imminently”, 1/12/2011,
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/28256/Egypt/Politics-/SCAF-expected-to-announce-advisory-council-imminen.aspx)
48
“SCAF's proposal for constitution 'abuses will of the people', charge critics”, Ahram Ondine, 3/11/2011
http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/0/25802/Egypt/0/SCAFs-proposal-for-constitution-abuses-will-of-the.aspx
49
“Egypt’s Election, Take One”, Carnegie Endowment, 2/12/2011.
http://egyptelections.carnegieendowment.org/2011/12/02/egypt’s-election-take-one
26
annunciato ad aprile una serie di misure, che vanno dalla riforma della legge sui partiti e sulle
organizzazioni della società civile fino al provvedimento che riporterebbe il limiti della candidatura
presidenziale a due anni. Il 12 settembre, il consiglio dei ministri ha approvato il primo pacchetto di
riforme politiche promesse da Bouteflika: la riforma dei media, che mira a liberalizzare il settore
dell’audio-visivo, e una serie di misure volte a favorire maggiore trasparenza nel finanziamento ai
partiti e ridurre la corruzione. Tali misure di fatto non hanno apportato alcun cambiamento
significativo alla situazione politica del paese e alla vita degli algerini. Per questo, sono state accolte
con molto scetticismo dalla società civile e dalla popolazione in generale (Dessi, 2011; Darbouche,
2011; interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Accanto a questi cauti provvedimenti, il regime
ha preso misure che restringono gli spazi di espressione, come indicato dal nuovo progetto di legge
sulle associazioni recentemente approvato dal consiglio dei ministri, che limita ulteriormente il
margine d'azione della società civile.50 Inoltre, negli ultimi mesi, sembra esserci stato da parte del
regime un inasprimento della repressione in risposta all’intensificarsi della contestazione sociale
(vedi §3.4).
Lo status quo appare ormai insostenibile, come segnala l’aumento della contestazione sociale ed il
crescente malcontento (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Nel caso in cui ci fosse un
ulteriore involuzione della situazione politica o l’elite al potere continuasse ad esitare nel
promuovere riforme politiche reali, lo scenario più plausibile è che il malcontento, soprattutto
giovanile, possa degenerare in un movimento spontaneo violento e incontrollabile di protesta, i cui
esiti non sono affatto prevedibili. C’è il rischio, seppur poco probabile per alcuni osservatori, che i
militari possano intervenire, tornando a svolgere un ruolo politico di primo piano e dunque
favorendo un’ulteriore involuzione del sistema politico che potrebbe tornare nella situazione che
caratterizzava il paese prima del 1999 (Darbouche, 2011a). Per poter superare l’impasse politico ed
economico, l’Algeria necessita di un profondo cambiamento degli assetti politici ed istituzionali,
che implichi un rinnovamento dell’elite al potere, il ritiro di Bouteflika dalla scena politica, una
profonda riforma della costituzione e dell’apparato di sicurezza, l’elezione di un parlamento
realmente rappresentativo, e la completa demilitarizzazione della sfera politica. Le prospettive per
tale cambiamento politico dipendono da come evolveranno le pressioni interne ed internazionali
(ibid). Per esempio, se la contestazione dei movimenti sociali e giovanili continuasse a crescere, le
autorità algerine potrebbero scegliere di avviare le riforme politiche attese, invece di persistere sulla
strada della repressione, che, come già detto, potrebbe innescare un processo dagli esiti comunque
distruttivi per il regime. Ma perché questo processo di cambiamento avvenga, occorre che le diverse
forze sociali e politiche di contestazione superino divergenze e rivalità, convergendo in un fronte
comune contro il regime (§3.4). In tale contesto, le pressioni degli attori internazionali sul regime
potrebbero contribuire a innescare il cambiamento atteso. Il futuro politico dell’Algeria rimane
segnato da molte incertezze: il futuro ruolo dei militari; la successione di Bouteflika, che per ragioni
di salute potrebbe non riuscire a completare il mandato presidenziale; la questione della
riabilitazione degli islamisti del Fis, che il regime ha continuato ad escludere dalla vita politica; il
ruolo del Dipartimento di intelligence e sicurezza, che esercita un forte peso nella politica nazionale
(Darbouche, 2011a; Dessi, 2011).
2.2. Ripercussioni socio-economiche della primavera araba
La primavera araba ha avuto effetti diversi sulle economie studiate in questo rapporto. In Tunisia ed
Egitto, le proteste hanno avuto un impatto drammatico, andando a peggiorare un quadro socioeconomico che era già complicato in precedenza. La ripresa nei due paesi appare al momento lenta
a causa della continua incertezza politica, il clima di insicurezza e la continuazione degli scioperi.
Anche se, in entrambi i paesi, tutte le attività economiche hanno subito un rallentamento durante le
50
EMHRN, “Algeria: Review of the Proposed Legislation on Associations”, 27/10/2011, (http://www.euromedrights.org/en/newsen/emhrn-releases/emhrn-statements-2011/10559.html); “Le mouvement associatif ligoté”, El Watan, 28/09/2011,
(http://www.algeria-watch.org/fr/article/just/mvt_associatif_ligote.htm).
27
proteste e nei mesi successivi, i settori maggiormente colpiti sono stati il settore turistico, l’industria
tessile ed il settore delle costruzioni (World Bank, 2011). L’industria turistica, che impiega circa
350000 persone in Tunisia e 2 milioni di persone in Egitto, ha subito un drastico rallentamento, con
effetti prevedibilmente negativi sulle entrate dei due paesi e sul mercato del lavoro. In Tunisia, dove
nei primi dieci mesi del 2011 il numero di arrivi turistici è crollato del 33%,51 si stima che le entrate
turistiche per l’anno in corso scenderanno dell’80% rispetto all’anno precedente.52 In Egitto, solo
nel mese di febbraio, a seguito delle cancellazioni delle prenotazioni, le entrate turistiche sono
cadute del 53% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, equivalente ad una perdita di 825
milioni di dollari (World Bank, 2011). Nei primi sette mesi, il numero di arrivi turistici è diminuito
del 28% rispetto all’anno precedente,53 e, benché il turismo sembra aver ripreso nelle località
balneari, l’incertezza politica continua a scoraggiarne una ripresa sostenuta.54 Anche gli
investimenti diretti esteri e le esportazioni dei due paesi hanno subito un forte rallentamento durante
e dopo le proteste. Per esempio, da gennaio ad aprile, in rapporto allo stesso periodo dell’anno
precedente, gli investimenti diretti esteri sono diminuiti del 24,5% in Tunisia e del 33% in Egitto.55
Anche se le esportazioni e la produzione in alcuni settori (manifatturiero e edile) hanno
ricominciato a crescere, la ripresa è stata lenta.56 Infine, nel caso dell’Egitto, anche le rimesse
sembrano aver subito un crollo a causa dell’incertezza politica, anche se più di recente hanno
ricominciato ad aumentare.57
L’impatto sulla crescita economica dei due paesi è stato quindi drammatico. Secondo le stime più
ottimiste, nel 2011, il Pil reale in Tunisia crescerà solamente dell’1,5%, a fronte del 3,5% previsto
prima della rivoluzione, mentre in Egitto toccherà solo l’1,0% contro il 3,5% inizialmente stimato
(World Bank, 2011). Il settore privato, già debole, sta facendo fatica a riemergere dalla crisi. Molte
società, soprattutto nel settore alberghiero e della ristorazione, sono state costrette a chiudere. In
Tunisia, alla fine di aprile, le perdite delle imprese causate dalla crisi post-rivoluzione sono stimate
a 140 milioni di dinari tunisini e coinvolgerebbero 515 imprese, considerando solo quelle che
operano nell’economia formale.58 Le difficoltà economiche combinate all’incertezza della
situazione politica sembrano aver scoraggiato, almeno per ora, anche gli investimenti da parte della
diaspora tunisina ed egiziana.
Anche se l’impatto sull’occupazione non è stato ancora ufficialmente quantificato, sia in Egitto che
in Tunisia, si parla di numerosi licenziamenti, di riduzione dei salari e di molti posti a rischio se non
arriva l’attesa ripresa.59 In Tunisia, la crisi economica subentrata dopo la fuga di Ben Ali avrebbe
prodotto 200000 disoccupati supplementari, portando il tasso di disoccupazione al 19% nel mese di
51
“Tunisie: 33% de visiteurs en moins”, 12/11/2011(http://www.europe1.fr/International/Tunisie-33-de-visiteurs-en-moins-813281/).
“Tunisie: Les 7 défis capitaux d'une économie fragilisée”, Jeune Afrique, 21/06/2011,
(http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2631p064-067.xml0/france-canada-suisse-investissementtunisie-les-7-defiscapitaux-d-une-economie-fragilisee.html).
53
Dichiarazioni del Ministro del Turismo (“Minister anticipates 25% drop in 2011 tourist arrivals”, al Masry Al Youm, 28/09/2011
http://www.almasryalyoum.com/en/node/500103).
54
Per esempio, gli scontri di ottbre che hanno visto coinvolti la comunità copta e i soldati hanno causato una nuova ondata di
cancellazioni da parte dei turisti (“Cairo hotel occupancy down 11%”, al Masry al Youm, 11/10/2011,
http://www.almasryalyoum.com/en/node/503964).
55
“Tunisie:
Les
7
défis
capitaux
d'une
économie
fragilisée”,
Jeune
Afrique,
21/06/2011,
(http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2631p064-067.xml0/france-canada-suisse-investissementtunisie-les-7-defiscapitaux-d-une-economie-fragilisee.html); Sherin Abdel-Razek, “Bad, but we’ve seen worse”, Ahram Weekly, 26 May – 1 June 2011
(www.weekly.ahram.org.eg).
56
World Bank (2011); “Egypt's economy grows 0.4 per cent in second quarter 2011”, Ahram Online, 8/09/2011,
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/20643/Business/Economy/Egypts-economy-grows--per-cent-in-second-quarter.aspx).
57
“Another blow: Egypt's economy pays the price of continued political instability”, Ahram Weekly, 13-19/10/2011
( http://weekly.ahram.org.eg/2011/1068/ec1.htm).
58
“Tunisie - UTICA: 515 entreprises sinistrées et 140 MDT de dégâts”, Webmanagercenter, 26/04/2011
(http://www.webmanagercenter.com/management/article-105100-tunisie-utica-515-entreprises-sinistrees-et-140-mdt-de-degats).
59
“Tunisie:
Les
7
défis
capitaux
d'une
économie
fragilisée”,
Jeune
Afrique,
21/07/2011
(http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2631p064-067.xml0/france-canada-suisse-investissementtunisie-les-7-defiscapitaux-d-une-economie-fragilisee.html).
52
28
luglio.60 In Egitto, secondo dati ufficiali, da dicembre 2010 ad aprile 2011 il tasso di disoccupazione
sarebbe aumentato di quasi due punti percentuali, toccando l’11,9% (circa 800 000 disoccupati in
più).61
Infine, la crisi libica a partire da febbraio ha contribuito ad aggravare ulteriormente la situazione
socio-economica dei due paesi. La Tunisia è il primo partner commerciale arabo e africano della
Libia, oltre ad accogliere ogni anno quasi 2 milioni di turisti libici (De Santis et al., 2011). Nei
primi tre mesi dell’anno 2011, le esportazioni tunisine verso la Libia sono cadute di circa il 34%
(Ibid.). Per quanto riguarda il turismo, le enormi perdite dovute all’interruzione degli arrivi di turisti
libici sono state compensate, anche se solo in parte, dall’arrivo degli 80000 libici che si sono
rifugiati in Tunisia per fuggire alla guerra, molti dei quali hanno alloggiato negli alberghi di lusso
del paese.62 Inoltre, circa 120000 tunisini che lavoravano in Libia prima della guerra hanno fatto
ritorno, con implicazioni in termini di riduzione delle rimesse e di ulteriori pressioni sul mercato del
lavoro (De Santis et al., 2011). Infine, la guerra in Libia ha prodotto un’impennata dei prezzi dei
beni alimentari in Tunisia, soprattutto durante il periodo del ramadan. A causa della guerra, per
soddisfare il proprio fabbisogno alimentare la popolazione libica si è approviggionata sul mercato
tunisino, generando una penuria di generi alimentari, anche perché i produttori tunisini hanno
preferito dare priorità al mercato libico per trarne maggiori profitti.63
In Egitto, l’impatto della guerra libica ha riguardato soprattutto la riduzione delle rimesse dei
lavoratori egiziani che sono ritornati in massa nel loro paese d’origine, aggravando ulteriormente la
situazione del mercato del lavoro.64 La fine della guerra in Libia e la progressiva stabilizzazione del
paese potrebbero quindi aprire nuove opportunità economiche e commerciali sia per la Tunisia che
per l’Egitto, ma per il momento le prospettive di ripresa economica del paese appaiono lente. Altri
fattori che hanno contribuito a peggiorare il quadro socio-economico, e rischiano di rendere più
complicata la ripresa economica di Egitto e Tunisia, sono l’andamento dei prezzi dei beni
alimentari, che continuano ad aumentare sulla spinta dell’aumento dei prezzi del petrolio indotto
dalla crisi libica, ed il rallentamento della crescita economica dell’Unione Europea, che potrebbe
avere ricadute negative soprattutto per la Tunisia.
Infine, diversamente dall’Egitto e dalla Tunisia, l’Algeria non ha risentito delle ripercussioni delle
proteste di gennaio data la loro limitata ampiezza e, complessivamente, ha beneficiato della
primavera araba, attraverso la crisi libica. La crisi in Libia, causando una totale interruzione della
produzione di petrolio nel paese, ha infatti generato un’impennata dei prezzi del petrolio,
avvantaggiando gli altri paesi arabi produttori di petrolio e nello specifico anche l’Algeria
(International Monetary Fund, 2011). Il che ha permesso al governo algerino, come vedremo, di
contenere rapidamente le proteste di gennaio ampliando la spesa sociale. Tuttavia, nonostante
l’aumento delle entrate petrolifere, le misure sociali messe in atto per placare il malcontento
causeranno, secondo la legge finanziaria del 2011 emendata a giugno, un deficit del 33,9% del Pil.65
Questo livello di deficit, come già detto, potrebbe costituire un serio rischio per l’economia algerina
se il prezzo del petrolio dovesse scendere.
60
Ibid.
“Egypt's index of labour demand falls 37 per cent in May”, Ahram Online, 30/06/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/15371/Business/Economy/Egypts-index-of-labour-demand-falls--per-cent-inM.aspx).
62
« Tunisie: les réfugiés libyens disputent l'île Djerba aux touristes”, Jeune Afrique, 7/06/2011
(http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAWEB20110607163810/libye-tunisie-tourisme-mouammar-kaddafitunisie-les-refugieslibyens-disputent-l-ile-djerba-aux-touristes.htm).
63
“Tunisie - Libye: la guerre des prix”, Jeune Afrique, 28/07/2011
(http://www.jeuneafrique.com/Article/ARTJAJA2637p016.xml0/prix-libye-inflation-alimentationtunisie-libye-la-guerre-desprix.html); interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011.
64
Ad aprile, per esempio, si stima che fossero già ritornati 120,000/140,000 Egiziani dalla Libia (Ahram Online, 21/04/2011,
http://english.ahram.org.eg/).
65
“Algeria Responds to Social Tensions”, Magharebia, 24/06/2011,
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/06/24/feature-02).
61
29
2.3 Risposte dei governi
In Egitto e in Tunisia, i governi di transizione hanno promosso una serie di misure per tentare di
rispondere alla crisi socio-economica post rivoluzione. Benché sia difficile valutare l’impatto
concreto di tali misure a causa della limitata disponibilità di informazioni, è certo che, come
mostrano i dati socio-economici su discussi e la continua contestazione sociale (vedi §3.4), esse
continuano ad essere del tutto insufficienti per affrontare i problemi socio-economici, vecchi e
nuovi, dei due paesi.
In Tunisia, la prima risposta ai problemi sociali ed economici dopo la rivoluzione è arrivata, seppur
tardivamente, il 1 aprile, sotto il terzo governo di transizione diretto da Essebsi. Il pacchetto di
misure d’urgenza si propone i seguenti obiettivi: riportare la sicurezza; creare 60000 posti di lavoro
(di cui 40000 nel pubblico ed il resto nel privato); rilanciare il settore privato, attraverso incentivi e
agevolazioni fiscali e finanziarie; promuovere lo sviluppo delle regioni più svantaggiate,
raddoppiando gli investimenti pubblici; sostenere le famiglie più bisognose (estendendo ad altre
50000 l’accesso ai trasferimenti monetari); ed offrire un supporto finanziario alle famiglie di ritorno
dalla Libia.66 Comunque, pur prefiggendosi obiettivi validi, il piano socio-economico di breve
termine sembra non aver sortito gli effetti desiderati. Innanzitutto, non è chiaro quali di queste
misure siano state effettivamente realizzate e quali semplicemente annunciate. Per esempio,
nell’ambito del piano di aprile, il governo ad interim ha deciso di raddoppiare gli investimenti
pubblici da destinare alle aree più svantaggiate,67 ma ancora ad oggi è difficile capire se, come e
quanti di questi soldi siano stati effettivamente sborsati. Soprattutto, le misure del governo di
transizione hanno continuato ad essere in linea con le politiche del passato messe in atto sotto il
regime di Ben Ali (Hibou et al., 2011). Per esempio, il piano d’urgenza ha previsto di creare 40000
posti di lavoro nel settore pubblico attraverso un aumento degli investimenti nei progetti di pubblica
utilità e l’attivazione di una serie di programmi di inserzione nel mercato del lavoro. Questi ultimi,
tuttavia, come in passato, hanno previsto opportunità di lavoro temporanee per i giovani, senza
contemplare alcun meccanismo di inclusione stabile nel mercato del lavoro, dunque acutizzando il
problema della precarizzazione tra i giovani (Ibid.). Oppure, per promuovere la creazione di 20000
posti di lavoro nel settore privato, il governo di transizione si è limitato a riproporre la stessa logica
fallimentare delle agevolazioni fiscali e finanziarie alle imprese in cambio dell’impegno da parte di
queste ad assumere nuovo personale (Ibid.). Infine, alcuni degli obiettivi fissati dal piano appaiono
limitati rispetto alle reali esigenze del paese. Per esempio, se anche si riuscisse a raggiungere
l’obiettivo di creare i 60000 posti previsti, non sarebbero sufficienti in considerazione del fatto che
più di 600000 entreranno nel mercato del lavoro nel prossimo anno.
In Egitto, dopo annunci e smentite tra febbraio e maggio, solo a luglio, nella nuova legge finanziaria
del 2011-2012, le autorità di transizione hanno approvato un pacchetto di misure per rispondere alla
crisi socio-economica nella fase post-rivoluzione. Anche nel caso dell’Egitto, comunque, la legge
finanziaria non ha fatto altro che riproporre le stesse politiche inefficaci del passato: un aumento dei
sussidi alimentari (del 26%) per controbilanciare l’incremento dei prezzi dei beni alimentari a
livello mondiale; un aumento dei salari e delle pensioni per i dipendenti pubblici (del 15%); la
creazione di 450000 posti di lavoro nel settore pubblico a contratto determinato; e ampliamento del
numero di famiglie coperte dal programma di solidarietà sociale (150000 famiglie in più).68 La
legge di bilancio non ha presentato alcuna novità sul fronte degli investimenti pubblici, della spesa
per la ricerca e l’università o per quanto riguarda il sistema di tassazione. Per esempio, è stata
66
Per le misure dettagliate, vedi “Les 17 nouvelles mesures économiques et sociales d'urgence décidées par le gouvernement”,
1/04/2011
(http://leaders.com.tn/article/les-17-nouvelles-mesures-economiques-et-sociales-d-urgence-decidees-par-legouvernement).
67
“Tunisie:
le
gouvernement
rééquilibre
le
développement
régional”,
Tunis
News,
11/04/2011,
(http://www.tunisnews.net/11Avril11f.htm).
68
“Egypt’s Democratic Transition: Five Important Myths About the Economy and International Assistance”, Carnegie Endowment,
21/07/2011( http://www.carnegieendowment.org/2011/07/21/egypt-s-democratic-transition-five-important-myths-about-economyand-international-assistance/41ca); World Bank, 2011; “Egypt ruling military approves tightening in spending in 2011/2012 budget”
Ahram online, 4/07/2011.
30
accantonata all’ultimo momento la proposta di tassare i profitti derivanti dalle transazioni in borsa
presente nella prima versione della legge finanziaria finalizzata dal governo.69 Tale imposta se
fissata al limite più basso dello 0,5% avrebbe fruttato allo stato 5 miliardi di sterline egiziane
all’anno.70 L’aumento del salario minimo previsto dalla legge finanziaria a 685 sterline egiziane
mensili è ritenuto da più parti insufficiente per migliorare il potere d’acquisto degli egiziani e, tra
l’altro è applicabile solo ai lavoratori del pubblico impiego che hanno un contratto permanente,
escludendo il settore privato ed i lavoratori precari (Beinin, 2011). Inoltre, ad oggi, l’aumento del
salario minimo non è ancora entrato in vigore per mancanza di risorse.
Infine, è mancata in questa prima fase, una visione coerente e condivisa da parte di tutte le autorità
di transizione, governo e Consiglio delle Forze Armate, sul fronte delle politiche economiche. 71
L’esempio più emblematico riguarda la questione degli aiuti internazionali. In un primo momento, a
giugno, il Consiglio Militare aveva rifiutato il generoso pacchetto di aiuti proposto dal FMI e la
BM, contrariamente a quanto inizialmente contemplato nella legge di bilancio preparata dal
Ministro delle Finanze. Al momento, comunque, il governo sta riconsiderando seriamente la
possibilità di ricorrere al Fmi poiché l’opzione di basarsi essenzialmente sul prestito interno e sugli
aiuti finanziari senza condizionalità dei Paesi del Golfo sembra insostenibile ed insufficiente per
finanziare il bilancio.
I governi di transizione in Tunisia ed in Egitto si sono dunque limitati a riproporre una serie di
misure socio-economiche che sono in forte continuità con il passato e che, come sotto i governi
precedenti, mancano di una chiara visione strategica di lungo termine intesa a promuovere un
cambiamento strutturale profondo delle economie dei due paesi. Ciò può essere in parte
riconducibile alla natura transitoria dei primi governi del dopo rivoluzione, alla loro composizione
ideologica eterogenea72 così come alla scarsa legittimità di cui hanno goduto sin dall’inizio perché
non eletti democraticamente. Tali fattori possono aver certamente scoraggiato la messa a punto di
una strategia coerente ed innovativa di lungo periodo. Inoltre, in previsione delle prime elezioni, sia
le autorità ad interim sia le forze della società civile hanno dato priorità alla dimensione politica
della transizione, perdendo così di vista la dimensione socio-economica. Peraltro, senza considerare
il rischio che un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica potrebbe compromettere
o rallentare la transizione dei due paesi verso la democrazia. Se è vero infatti che l’incertezza
politica è tra i principali fattori responsabili della mancata ripresa economica dei due paesi, allo
stesso tempo, senza un cambiamento radicale e profondo delle politiche sociali ed economiche
seguite finora, è del tutto improbabile che i due paesi riescano a superare la crisi e le loro difficoltà
socio-economiche. C’è infine un problema di totale inattendibilità dei dati economici disponibili,
che impedisce, pur volendo, l’elaborazione di una strategia o politica economica efficace.73 Lo
stesso ministro del lavoro e delle migrazioni in Egitto ha dichiarato che le stime ufficiali sulla
disoccupazione sono inaccurate e sottostimano la realtà.74 Benché i passati regimi, e quello di Ben
Ali ne è un caso emblematico, abbiano manipolato i dati statistici, omettendo quelli scomodi o
modificandoli per confortare il discorso ufficiale sul successo economico (vedi Hibou et al. 2011),
non c’è stata finora alcuna volontà da parte dei governi di transizione di rimettere in discussione tali
informazioni.
Il fatto che le misure economiche messe in atto dalle autorità di transizione nei due paesi non
abbiano preso le distanze da quelle dei precedenti regimi ha anche e soprattutto una spiegazione
69
“Egypt ruling military approves tightening in spending in 2011/2012 budget”, Ahram online, 4/07/2011.
“In search of a way out”, Ahram Weekly, 13-19/10/2011 (http://weekly.ahram.org.eg/2011/1068/ec2.htm).
71
Per esempio, la versione definitiva della legge di bilancio approvata a luglio dal Consiglio Militare differisce rispetto a quella
compilata e presentata a giugno dal Ministro delle Finanze su alcune questioni: l’entità dell’aumento del salario minimo e degli
investimenti pubblici, la tassa sui profitti derivanti dalle transazioni in borsa e il ricorso agli aiuti internazionali (“Egypt ruling
military approves tightening in spending in 2011/2012 budget”, Ahram online, 4/07/2011).
72
In Egitto, per esempio, Gouda Abdel-Khaleq, ministro della solidarietà sociale, è membro del Tagammu’, partito di ispirazione
socialista, mentre Hazem Beblawi, il ministro delle finanze, è un fervente neo-liberista.
73
Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011.
74
“Egypt's unemployment statistics not accurate, says manpower minister”, Ahram Online, 30/05/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/13287/Business/Economy/Egypts-unemployment-statistics-not-accurate,-says-.aspx).
70
31
politica. Ciò infatti riflette una continuità di legami tra il vecchio sistema di potere e le autorità di
transizione. In Tunisia, per esempio, i principali ministri del governo di transizione addetti alla sfera
economica erano stati ministri o funzionari di rilievo all’epoca di Ben Ali. Abdelhamed Triki,
ministro della pianificazione e della cooperazione internazionale nel governo di transizione, fu ex
segretario di stato del ministro dello sviluppo e della cooperazione internazionale sotto Ben Ali.
Altri uomini che svolsero incarichi di rilievo sotto Ben Ali sono Abdelaziz Rassaa, ministro
dell’industria e delle tecnologie e Slim Chaker, segretario di stato del turismo (vedi Hibou et al.,
2011). In Egitto, il fatto che la fase di transizione sia stata diretta dai militari, che, sotto Mubarak,
hanno esercitato un diffuso controllo sull’economia, rende, almeno per ora, improbabile
l’attuazione di misure che rompano radicalmente con il passato e che rischierebbero di mettere in
discussione i vantaggi economici acquisiti in passato. Inoltre, Samir Radwan, che è stato ministro
delle finanze nel governo di transizione fino alla metà di luglio, era stato nominato dallo stesso
Mubarak qualche giorno prima della sua fuga. Hazem Beblawi, chiamato al suo posto, ha la fama di
essere un fervido sostenitore delle riforme neo-liberiste, mentre il ministro per il commercio e
l’industria nominato a luglio, Ahmed Fikry Abdel Wahab, è un noto uomo d’affari, che ha ricoperto
posti di rilievo in varie strutture pubbliche e private sin all’epoca di Mubarak.75
Infine, un cambiamento reale nelle strategie di sviluppo necessita innanzitutto di una
ristrutturazione profonda dei rapporti di potere tra economica e politica, indispensabile tra l’altro
per favorire l’emergere di una classe di imprenditori autonoma dalla classe politica. Un segnale
importante in tal senso sono state certamente le misure prese dalle autorità di transizione contro le
pratiche predatorie delle famiglie degli ex-presidenti, di alcuni esponenti noti dei precedenti governi
e degli imprenditori di spicco vicini all’establishment politico. In Tunisia, il secondo governo di
transizione ha creato un’apposita commissione di inchiesta per indagare sugli atti di corruzione
commessi all’epoca del precedente regime, a cui numerosi imprenditori hanno fatto ricorso (Hibou
et al., 2011). A partire da marzo, hanno avuto inizio le espropriazioni dei beni appartenenti al clan
di Ben Ali e Leila Trabelsi, e a imprenditori a loro vicini, tra cui le azioni delle compagnie
telefoniche Orange e Tunisiana.76 In Egitto, dopo continue proteste, alcuni ex ministri e diversi
uomini d’affari vicini all’ex presidente, tra cui il magnate dell’acciaio Ahmed Ezz, e i due figli di
Mubarak sono stati processati e condannati con l’accusa di appropriazione illecita e corruzione.77 A
fine settembre e ai primi di dicembre, la Corte Amministrativa presso il Consiglio di Stato ha
dichiarato illegali alcuni contratti di privatizzazione poiché conclusi in circonstanze sospette.78
Tali azioni sono certamente necessarie per mandare un segnale incoraggiante alla popolazione
locale e agli investitori, nazionali ed internazionali, e dovranno essere accompagnate da ulteriori
riforme sul piano istituzionale e normativo volte a rendere più trasparenti le istituzioni pubbliche e a
creare un sistema efficace di controlli e sanzioni. Comunque, in assenza di un cambiamento
profondo e radicale dei rapporti di potere tra economia e politica, si rischia di riprodurre le stesse
inefficienze del passato. In questo senso, non è incoraggiante il fatto che numerosi uomini d’affari
in Egitto e in Tunisia abbiano deciso di entrare in politica, presentandosi alle elezioni come
candidati o fondando un partito. In Egitto, oltre al già citato Naguib Sawiris, tra i tanti imprenditori
entrati in politica ci sono Hisham el-Khazindar, finanziatore del Justice Party e Nabil Deabis che ha
75
Vedi “Nominating a businessman as minister stirs Egyptian bad memories”, Ahram Online, 20/07, 2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/16758/Business/Economy/Nominating-a-businessman-as-minister-stirsEgyptia.aspx).
76
Global Net, 21/06/2011 (http://www.gnet.tn/temps-fort/tunisie-la-peur-de-la-confiscation-des-biens-hante-les-hommesdaffaires/id-menu-325.html); “Télécom: la Tunisie nationalise”, Jeune Afrique, 18/04/2011 (http://www.jeuneafrique.com).
77
“Egypt ministers face corruption charges”, al Jazeera, 17/04/2011
(http://english.aljazeera.net/news/middleeast/2011/04/201141715562214192.html); “Money, power and law-twisting: The makings
of the real Ezz empire”, Ahram Online, 7/05/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11480/Business/Economy/Money,-power-and-lawtwisting-The-makings-of-there.aspx).
78
“Privatisation in reverse”, Ahram Weekly, 29/09/2011– 5/10/2011 (http://weekly.ahram.org.eg/2011/1066/ec1.htm); “Egypt court
revokes privatisation of a fourth public sector firm”, Ahram Online, 3/12/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/28377/Business/Economy/Egypt-court-revokes-privatisation-of-a-fourth-publ.aspx).
32
creato il partito Modern Egypt. In Tunisia, come già detto, la Pétition Populaire di Mohammed
Hechmi Hamdi e il partito Afek Tounes, fondato da alcuni noti imprenditori tunisini, sono presenti
nell’Assemblea Costituente.
Inoltre, se è vero che una ristrutturazione dei rapporti tra economia e politica richiederà molto
tempo ed un impegno condiviso tra tutte le forze della società civile, la direzione che prenderà la
transizione politica sarà determinante nel definire l’entità e la natura del cambiamento economico.
L’esito delle elezioni influenzerà non soltanto la traiettoria della transizione politica dei due paesi
ma anche naturalmente quella delle politiche economiche. Benché sia al Nahda in Tunisia sia il
partito dei Fratelli Musulmani in Egitto dichiarino di non voler rimettere in discussione la direzione
delle politiche economiche del passato,79 questo non significa che non ci saranno cambiamenti,
anche rilevanti, sul piano economico.
In Tunisia, dopo le elezioni dell’Assemblea Costituente, al Nahda ha ribadito continuamente il suo
sostegno all’economia di mercato, agli investimenti stranieri e all’iniziativa privata, oltre
all’intenzione di non voler cambiare la natura del sistema bancario né di voler introdurre divieti,
come quello sugli alcolici, che potrebbero danneggiare il settore turistico.80 Tuttavia, non bisogna
dimenticare che il nuovo governo è composto da tre forze politiche che non hanno alcun legame
con il passato regime e questo potrebbe dare inizio a quel processo di graduale riorganizzazione dei
rapporti tra politica ed economia a cui si è accennato, aprendo la strada, eventualmente, ad una
nuova classe di imprenditori o a più gruppi di imprenditori. Inoltre, sul piano delle proposte
concrete per rilanciare il turismo, tra le altre cose, al Nahda ha insistito sulla necessità di
diversificare l’offerta turistica in direzione del turismo ecologico, culturale e rivoluzionario, che
potrebbe servire per rilanciare anche le regioni interne più povere e aprire nuove opportunità per il
settore privato.81 Ancora, il fatto che i tre partiti che hanno formato il nuovo governo convergano
soprattutto sulla priorità data alla giustizia sociale82 potrebbe portare alla realizzazione di politiche
di sviluppo più inclusive e sensibili ai problemi dei giovani nel mercato del lavoro..E’ presto per
capire quali saranno le misure concrete per perseguire questo obiettivo poiché è probabile che il
piano Jasmin, la strategia di sviluppo per il periodo 2012-2016 presentata dal governo provvisorio a
settembre, venga rivista, come vorrebbe al Nahda, o persino respinta integralmente, come richiede
il CPR.83 Infine, il nuovo governo potrebbe optare per una maggiore diversificazione dei partner
commerciali verso Turchia, Libia e paesi del Golfo,84 e per ridurre la dipendenza del paese dal
debito estero.85
Infine, per quanto riguarda l’Algeria, le proteste di gennaio 2011 non hanno innescato alcun
cambiamento sul piano delle politiche economiche, anche se sembrano aver rafforzato la
consapevolezza negli ambienti governativi sulla necessità di cambiare rotta. Sin dai primissimi
giorni delle rivolte, le autorità hanno risposto con una serie di misure socio-economiche volte a
79
Per i Fratelli Musulmani, vedi “Egypt Brotherhood businessman: Manufacturing is key”, Ahram Online, 28/10/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/25348/Business/Economy/Egypt-Brotherhood-businessman-Manufacturing-iskey.aspx).
80
“Hamadi Jebali se prononce sur l'avenir de la Stratégie 2016 du tourisme tunisien”, Webmanagercenter, 8/11/2011
(http://www.webmanagercenter.com/management/article-112348-hamadi-jebali-se-prononce-sur-l-avenir-de-la-strategie-2016-dutourisme-tunisien); “Tunisia's Ennahda likely to back an open economy: Analysts”, Ahram Online, 27/10/2011 (
http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/25250/Business/Economy/Tunisias-Ennahda-likely-to-back-an-open-economyAn.aspx); “Tunisia Islamists send business-friendly message after victory”, Ahram Online, 26/10/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/25190/Business/Economy/Tunisia-Islamists-send-businessfriendly-message-af.aspx).
AfriqueJet, 12/11/2011 (http://www.afriquejet.com/ennahdha-tunisie-2011111227096.html).
81
“Tunisie, Ennahdha dévoile son plan d’action pour relancer le tourisme”, Gnet, 10/11/2011 ( http://www.gnet.tn/tempsfort/tunisie-ennahdha-devoile-son-plan-daction-pour-relancer-le-tourisme/id-menu-325.html).
82
“Tunisie/Politique: S’achemine-t-on vers un AKP à la tunisienne ? “, Gnet, 14/11/2011 (http://www.gnet.tn/sur-levif/tunisie/politique-sachemine-t-on-vers-un-akp-a-la-tunisienne/id-menu-1006.html).
83
“Economie tunisienne: Ennahdha veut revoir "le plan jasmin", Businessnews, 12/11/2011
(http://www.businessnews.com.tn/details_article.php?a=27603&t=520&lang=fr&temp=3)
84
Adriquinfos, 12/11/2011 (http://www.afriquinfos.com/articles/2011/11/12/brevesdafrique-190627.asp).
85
Al Nahda vorrebbe rivedere le modalità di finanziamento del piano jasmin perché non è d’accordo con il fatto che il 30% del piano
verrà finanziato contraendo debiti con l’estero (“Economie tunisienne : Ennahdha veut revoir "le plan jasmin", 12/11/2011
http://www.businessnews.com.tn/details_article.php?a=27603&t=520&lang=fr&temp=3).
33
contenere l’aumento dei prezzi dei beni alimentari di base, tra cui la revoca dei provvedimenti
economici che erano stati adottati nel 2009 per ridurre la dipendenza dalle importazioni e
l’alleggerimento della tassazione sui beni alimentari importati, oltre a riconfermare l’impegno dello
stato a finanziare i sussidi alimentari.86 Accanto a queste misure, il governo ha annunciato aumenti
salariali per i lavoratori pubblici, la costruzione di nuove abitazioni, la creazione di posti di lavoro
nel settore pubblico, esenzioni fiscali (fino a tre anni) e agevolazioni finanziarie per giovani
imprenditori, ed infine trasferimenti diretti per le famiglie più povere.
Secondo diversi osservatori, è grazie a queste misure che il regime di Bouteflika è riuscito a far si
che le proteste non degenerassero in un movimento più ampio come in Egitto e Tunisia.87 Ciò è
stato possibile naturalmente in virtù delle generose entrate derivanti dagli idrocarburi che hanno
permesso al regime algerino di godere di un margine di risposta più ampio rispetto a quello tunisino
e egiziano. Tali misure, che hanno fatto lievitare la spesa pubblica prevista per il 2011 del 25%, non
sono comunque sostenibili nel lungo termine, come ammette lo stesso ministro delle finanze (Dessi,
2011). Inoltre, al di là dell’immediata diminuzione dei prezzi dei beni alimentari, che è servita a
fermare le violente proteste di gennaio, e benché il governo dichiari di aver creato 1 milione di posti
di lavoro e realizzato 64000 alloggi nel primo semestre del 2011,88 le misure socio-economiche
rimangono insufficienti per risolvere i problemi della carenza di alloggi, della disoccupazione
giovanile e dei bassi salari, come mostra la forte contestazione sociale degli ultimi mesi (vedi §3).
Per esempio, non soltanto occorre cautela sull’attendibilità dei dati ufficiali, ma la realizzazione dei
64000 alloggi è ben al di sotto delle promesse fatte da Bouteflika nel suo programma elettorale del
2009 (2 milioni in cinque anni e dunque una media di ben 200000 a semestre),89 ed inoltre, come
già anticipato, le politiche per la casa soffono di numerose debolezze. Infine, per quanto le autorità
algerine continuino a sottolineare la necessità di diversificare l’economia del paese,90 la risposta alle
proteste di gennaio non va affatto in tale direzione, poiché non propone nulla di nuovo, continua a
mancare di una visione strategica di lungo periodo e non affronta i problemi strutturali
dell’economia algerina. Alla luce di quanto detto, è più che mai chiaro che, al fine di uscire
dall’attuale crisi socio-economica, l’Algeria necessita di un profondo cambiamento degli assetti
politici ed istituzionali.
3. RUOLO DELLA SOCIETÀ CIVILE
3.1 La società civile alla vigilia della primavera araba tra repressione e
cooptazione
I contesti autoritari su delineati hanno influenzato significativamente le dinamiche e le modalità di
azione delle organizzazioni della società civile nei tre paesi presi in esame. Piuttosto che reprimere
in toto le organizzazioni della società civile, a partire dalla metà degli anni ottanta, i regimi hanno
preferito tenerle sotto controllo attraverso una molteplicità di strategie: repressione selettiva degli
oppositori scomodi; regolamentazione del quadro normativo in modo da scoraggiare la nascita di
nuove organizzazioni; elargizione dei fondi pubblici unicamente alle organizzazioni vicine al
regime; e restrizione delle libertà di associazione e di espressione, tra cui il divieto di tenere riunioni
pubbliche (Ben Achour, 2011; Liverani, 2008; Kausch 2009; Albrecht, 2007). Per esempio, la
nascita di nuove organizzazioni (dai partiti alle associazioni in difesa dei diritti umani) è stata
duramente ostacolata e soggetta alla selettiva approvazione delle elite al potere. In Egitto e Algeria,
il riconoscimento legale di un’associazione è sottoposto all’autorizzazione formale delle autorità,
86
Dessi (2011); “Algerian experts criticise food subsidy policy”, Magharebia 31/07/2011
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/07/31/feature-01)
87
Lahcen Achy, “Why did protests in Algeria fail to gain momentum?”, The Middle East Channel, March 2011.
88
Elmoudjahid, 9/08/2011 (http://www.elmoudjahid.com/fr/actualites/15316).
89
La Tribune, 10/08/2011, http://www.djazairess.com/fr/latribune/55885
90
“Bouteflika calls for energy diversification”, Magharebia, 04/08/2011
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/newsbriefs/general/2011/08/04/newsbrief-05).
34
che dispongono di un ampio potere discrezionale (Liverani, 2007; Kausch, 2009). Nella Tunisia di
Ben Ali, dove le procedure per ottenere la legalizzazione di un’associazione erano più facili poiché
era richiesta una semplice notifica da parte delle autorità, il processo era ugualmente pieno di
insidie (Kausch, 2009).91
Accanto all’uso di misure coercitive e repressive, i regimi hanno tentato di assorbire le
organizzazioni della società civile nel sistema esistente di potere nel duplice intento di
marginalizzare quelle più pericolose e proiettare verso l’esterno un'immagine positiva (Heydemann,
2007). Hanno, per esempio, sponsorizzato e finanziato la formazione di innumerevoli
organizzazioni della società civile. Le first ladies, Susanna Mubarak e Leila Ben Ali, ed altri
esponenti dell’establishment erano in prima fila nel promuovere e fondare organizzazioni non
governative impegnate nella realizzazione di progetti di sviluppo, nella lotta alla povertà, in
campagne per l’empowerment delle donne e i diritti dei minori. Grazie ai loro rapporti con i regimi,
queste organizzazioni semi-ufficiali, compiacenti con il potere, hanno così goduto di una situazione
privilegiata, catalizzando i fondi pubblici e stranieri, e ricoprendo una maggiore rilevanza a livello
nazionale ed internazionale (EMHRN, 2010). Inoltre, pur continuando a violare continuamente i
diritti umani, i regimi in carica hanno astutamente creato strutture o ministeri ad hoc incaricati di
monitorare il rispetto dei diritti umani e dialogare con la società civile su questi temi. Oppure,
hanno veicolato dall'alto campagne in favore dei diritti delle donne.
Il caso delle organizzazioni in difesa dei diritti delle donne nei tre paesi è emblematico dell'efficacia
delle strategie di cooptazione e del divide et impera perseguite dai governi in carica. Proprio perché
questi regimi si sono fatti portavoce di rivendicazioni centrali per le donne e a causa delle enormi
difficoltà ad operare in un contesto autoritario, molte organizzazioni in difesa dei diritti delle donne,
anche se animate dalle più genuine intenzioni, hanno preferito lavorare con le dittature in una logica
di continuità (El-Mahdi, 2010a). Ciò significa, ad esempio, che diverse organizzazioni in difesa dei
diritti delle donne in Egitto, Tunisia e Algeria si sono frequentemente allineate alle politiche
repressive dei governi contro le forze islamiste (Cavatorta e Durac, 2010). Tutto questo ha
fortemente indebolito il movimento in difesa dei diritti delle donne e la legittimità delle loro
rivendicazioni, mostrando allo stesso tempo l'efficacia delle strategie di cooptazione e del divide et
impera perseguite dai regimi. Il fatto che certe riforme approvate nell’ultimo decennio, come ad
esempio la riforma del Khul’ (o ripudio) in Egitto o la decisione di introdurre quote rosa sempre in
Egitto e in Tunisia, siano arrivate dall’alto di governi autoritari, le ha di fatto svuotate di ogni
legittimità, rendendole inaccettabili alla gran maggioranza della popolazione, indipendentemente
dal valore intrinseco (Bernard-Maugiron, 2011).
Oltre ai limiti imposti dai regimi, le organizzazioni della società civile, sia quelle politiche che
sociali, hanno in genere sofferto di numerose debolezze interne: incapacità di mobilitare un largo
consenso tra la popolazione perché prive di radicamento nel tessuto sociale e per il carattere elitario;
contrasti e profonde spaccature ideologiche e programmatiche tra le varie organizzazioni; la
mancanza di democrazia interna e la limitata presenza dei giovani e delle donne, soprattutto nelle
posizioni dirigenziali.92 Tutti i fattori descritti sinora hanno generato una società civile fortemente
frammentata, debole e incapace di costituire un fronte comune contro i regimi in carica. La capacità
e la volontà delle organizzazioni della società civile di promuovere un reale e profondo
cambiamento politico ed economico è dunque rimasta molto limitata.
In quanto organizzazioni della società civile, i sindacati dei lavoratori e le associazioni
rappresentative degli imprenditori non fanno eccezione al quadro su delineato, anche se ci sono
91
In Tunisia, le autorità avevano tre mesi di tempo per rifiutare la domanda di registrazione fatta dall’associazione. Se, dopo tre mesi,
non veniva emesso un rifiuto formale, l’associazione risultava legalmente registrata. In pratica, comunque, per un’associazione che
non era in sintonia con il regime era pressoché impossibile ottenere l’approvazione dal Ministero. Nella maggior parte dei casi, come
denunciano numerosi attivisti tunisini, queste associazioni si vedevano negare la ricevuta che attestava la presentazione della pratica
alle amministrazioni competenti. Non avendo alcun documento che confermava l’avvenuta registrazione, anche dopo il silenzio
assenso del ministero, le associazioni non potevano considerarsi legalmente riconosciute né fare ricorso.
92
Per un quadro delle debolezze della società civile, dai partiti politici alle organizzazioni dei diritti umani, vedi Guazzone e Pioppi,
(2007), Paciello (2011a, 2011b), Liverani (2008), Jalaby (2011). Sulla limitata presenza dei giovani e delle donne nelle
organizzazioni della società civile, vedi UNDP (2011), Tadros (2008) e UNICEF (2010).
35
differenze rilevanti tra i tre paesi. Per quanto riguarda i sindacati dei lavoratori, in Egitto, da Nasser
in poi, l’unica organizzazione legalmente riconosciuta è stata la Egyptian Trade Union Federation
(ETUF),93 creata nel 1957 e rimasta subordinata senza interruzione al potere politico. Nel corso
degli anni, con l’intensificarsi della liberalizzazione economica, Mubarak ha rafforzato il controllo
sulla leadership della Federazione, intervenendo pesantemente nelle elezioni sindacali, soprattutto a
partire dal 1996, e corrompendo ripetutamente i quadri dell’organizzazione (Gobe, 2006; Beinin,
2009; el Mikawy e Pripstein Posusney, 2000). Le ultime elezioni sindacali nel novembre 2006,
segnate da frodi e manipolazioni ad opera del ministero del lavoro, non hanno lasciato spazio ad
alcun candidato indipendente a livello di comitati e sindacati di base, esacerbando le frustrazioni tra
i lavoratori e il sentimento di sfiducia verso l’ETUF (Clément, 2006). La forte continuitá tra potere
politico e ETUF é chiaramente evidente nel fatto che i dirigenti della Federazione sindacale fossero
presenti in parlamento a nome del partito di regime: alla vigilia della rivoluzione, ventuno su
ventitre membri del comitato esecutivo della Federazione appartenevano al NDP, mentre il suo
presidente era anche vice presidente del parlamento.94 La Federazione ha accettato silenziosamente
le riforme di mercato iniziate da Mubarak, senza reagire al progressivo deterioramento del potere
d’acquisto della popolazione né al peggioramento della condizione dei lavoratori nel settore
pubblico e ai licenziamenti causati dalle privatizzazioni (Beinin, 2009; Gobe, 2006). Col passar
degli anni, quindi, la Federazione ha perso ogni legittimità agli occhi dei lavoratori.
Anche in Tunisia, la Union Générale Tunisienne du Travail (UGTT),95 che costituiva all’indomani
dell’indipendenza una delle forze più rappresentative ed organizzate del paese, è stata trasformata
rapidamente in un organo di inquadramento e di controllo della società da parte del regime, prima
sotto Bourghiba e poi sotto Ben Ali (Gobe, 2006). I vertici dell’UGTT si sono assoggettati
completamente al potere, come mostra per esempio il sostegno ufficiale dato alla candidatura di
Ben Ali come presidente nel 2004 e poi nel 2009. Ogni tentativo di costituire sindacati indipendenti
al di fuori dell’UGTT è stato duramente ostacolato dal regime di Ben Ali (Human Rights Watch,
2010). Tuttavia, a differenza dell’Egitto, in Tunisia, l’UGTT non è stata mai completamente
assorbita dal potere, come dimostrano le manifestazioni di dissenso e di contestazione verso il
regime che hanno segnato la storia tunisina dall’indipendenza ad oggi (Camau et Geisser, 2003;
Khiari, 2000). A livello locale e regionale, soprattutto nelle province del sud, i sindacati di base, ben
radicati nel tessuto sociale, sono infatti riusciti a conservare una certa autonomia rispetto alla
direzione centrale e, spesso, molti militanti dei movimenti di opposizione illegali hanno trovato
rifugio nell’UGTT (Cavallo, 2002; Zghai, 1998; Allal e Geisser, 2011). Ciò spiega il ruolo centrale
svolto dall’organizzazione nel sostenere e promuovere le proteste di gennaio 2011 che hanno
portato alla fuga di Ben Ali.
A differenza di Egitto e Tunisia, in Algeria il pluralismo sindacale è stato riconosciuto a partire dal
1990, in coincidenza con la relativa apertura politica seguita alle rivolte scatenate dalla crisi
economica della metà degli anni ottanta. La Costituzione approvata nel 1989, oltre ad abolire il
sistema del partito unico, garantiva la libertà di associazione (art. 39) e il diritto di sciopero (art.
54), mentre la legge del 2 giugno 1990 introduceva per la prima volta il pluralismo sindacale. Fino
ad allora, il solo sindacato tollerato dal regime era stata l’Union Générale des Travailleurs
Algériens (UGTA),96 posto sotto la direzione del partito unico immediatamente dopo l’indipendenza
(nel 1963). A partire dai primi anni novanta, in alternativa all’UGTA, sono nate le prime unioni
indipendenti nel settore pubblico. Tra le più importanti, figurano il Syndicat National Autonome des
Personnels de l’Administration Publique (SNAPAP),97 il Syndicat National de l’Enseignement
Supérieur (SNES)98 e il Syndicat Autonome des Travailleurs de l’Education et de la Formation
93
Federazione dei sindacati egiziani.
El Mahdi (2010b); “The road to trade union independence”, Ahram Online, 20/09/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/21615/Egypt/Politics-/The-road-to-trade-union-independence.aspx).
95
Unione generale tunisina del lavoro.
96
Unione generale dei lavoratori algerini.
97
Sindacato nazionale autonomo del personale dell’amministrazione pubblica.
98
Sindacato nazionale dell’insegnamento superiore.
94
36
(SATEF).99 Comunque, il regime si è opposto alla legalizzazione di numerosi sindacati: il sindacato
islamico, creato nel giugno 1990 ma poi scomparso dopo il colpo di stato nel 1992; il sindacato
degli avvocati; il Syndicat National des Travailleurs de la Formation Professionnelle,100 che cerca
di essere legalizzato dal 2002; e i sindacati nel settore privato (Kettab, 2004; ITUC, 2011; interviste
dell’autore, Algeri, ottobre 2011). I sindacati autonomi, inoltre, hanno avuto un margine di azione
molto limitato a causa dei forti limiti imposti nella pratica ai diritti sindacali, e a causa delle
continue intidimidazioni e violenze da parte della polizia (Kettab, 2004; Werenfels, 2007). Infine,
nonostante l’esistenza di una pluralità di sindacati, l’UGTA, grazie al suo appoggio incondizionato
all’azione del regime e del potere militare, è stato l’unico interlocutore coinvolto nel dialogo tra le
parti sociali, che si tiene ogni quattro anni a partire dal 2006. Il governo ha giustificato l’esclusione
degli altri sindacati dal dialogo sociale sulla base della non rappresentatività, ma allo stesso tempo
ha ostacolato tutte le iniziative volte a creare una confederazione di sindacati indipendenti
alternativa all’UGTA (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Il pluralismo sindacale in
Algeria rimane quindi un pluralismo di facciata.
Per quanto riguarda le associazioni rappresentative degli imprenditori, anch’esse sono rimaste
politicamente acquiescenti e soggette ad un rigido controllo da parte dei regimi in carica,
contribuendo a preservare lo status quo e a consolidare i sistemi autoritari. In Egitto, il modello
corporativista applicato ai sindacati all’epoca di Nasser è stato esteso anche alle organizzazioni
imprenditoriali. Nel 1958, la Federation of Egyptian Industries (FEI)101 e la General Federation of
Chambers of Commerce (GFCC)102 sono state poste sotto la diretta supervisione dello stato, a cui
spettava la nomina di 1/3 dei rispettivi comitati esecutivi e dei presidenti. Anche se a partire dagli
anni settanta e ottanta, in coincidenza con i primi tentativi di apertura economica, sono apparse
numerose associazioni di imprenditori alternative a quelle controllate direttamente dallo stato,103
esse non sono state affatto autonome dal regime, contribuendo quindi a preservare lo status quo.
Queste associazioni, formate da imprenditori cooptati e dipendenti dal regime, apolitici o proMubarak, non hanno avuto infatti alcun interesse a promuovere un reale cambiamento politico ed
economico e, laddove hanno ottenuto delle concessioni, è stato solo grazie ai loro contatti con il
potere (al Din Arafat, 2009). Non hanno avuto contatti con altre organizzazioni della società civile e
non hanno osato prendere posizioni contro il regime. Inoltre, nonostante, all’epoca di Mubarak, un
gran numero di imprenditori fosse presente in parlamento e nei posti di governo, questi hanno
perseguito i loro interessi particolaristici, piuttosto che rappresentare gli interessi più ampi della
comunità di imprenditori (Ibid). Infine, queste organizzazioni, come negli altri paesi oggetto di
studio, difficilmente hanno rappresentato gli interessi e le reali esigenze delle piccole e medie
imprese, che, pur costituendo la maggioranza del tessuto produttivo, non hanno sinora avuto alcun
peso sulle decisioni economiche (Escribano e Lorca, 2011; World Bank, 2011).
In Tunisia, l’unica organizzazione di imprenditori riconosciuta all’epoca di Ben Ali è stata la Union
Tunisienne de l’Industrie, du Commerce et de l’Artisanat (UTICA),104 diretta per ventitre anni da
Hèdi Dijilani, membro della famiglia di Leila Trabelsi. L’organizzazione è stata dunque parte
integrante del sistema di potere al punto che, nel 2009, il suo presidente si è posto alla guida della
campagna presidenziale per la rielezione di Ben Ali (Escribano e Lorca, 2011).
In Algeria, con l’avanzata delle riforme di liberalizzazione economica, il panorama delle
associazioni che rappresentano gli imprenditori si è notevolmente ampliato. Le cinque associazioni
99
Sindacato autonomo dei lavoratori dell’educazione e della formazione.
Sindacato nazionale dei lavoratori della formazione professionale.
101
Federazione delle industrie egiziane.
102
Federazione generale delle camere di commercio.
103
Tra le più importanti, si ricorda: Association of Egyptian Businessmen (1977), Economic Committee for Alexandria Businessmen
(1983), Association of Investors of 10th Ramadan City (1986) e Association of Investors of 6th October City (1986). Nel 2007, in
Egitto si contavano 97 associazioni tra organizzazioni di imprenditori e di investitori (UNDP, 2008).
104
Unione tunisina dell’industria, il commercio e l’artigianato.
100
37
di imprenditori105 riconosciute dal governo come interlocutori privilegiati del dialogo sociale sono
state completamente cooptate. L’associazione più influente e potente, il Forum des Chefs
d’Enteprise (FCE)106 formato dai più grandi gruppi industriali del paese (circa un centinaio) è
invece rimasta ai margini del dialogo sociale a partire dal 2000, anno della sua nascita. Comunque,
il Forum sembra aver avuto un peso importante nell’influenzare alcune decisioni economiche del
governo.107 Diversamente dalle altre associazioni imprenditoriali, il FCE è arrivato a criticare
apertamente certe misure prese dal governo come quelle protezionistiche varate nel 2009. Per
questo, successivamente, sotto pressione del ministro delle finanze, le società pubbliche
appartenenti alla FCE sono state costrette a ritirarsi. Benché il Forum abbia più volte ribadito la sua
piena autonomia dal governo (intervista dell’autore, Algeri, ottobre 2011), comunque,
l’organizzazione deve il suo margine di manovra relativamente ampio alla vicinanza di alcuni dei
suoi aderenti ai generali (Werenfels, 2008). Lo stesso presidente Reda Hamiani, al suo terzo
mandato, si definisce un uomo ben inserito nel sistema di potere in quanto ex-ministro (intervista
dell’autrice a Reda Hamiani, Algeri, ottobre 2011). Infine, nel 2009, insieme ad altre organizzazioni
della società civile, il Forum ha sostenuto la campagna di rielezione del presidente Bouteflika. Al di
là delle sei organizzazioni su menzionate, le molteplici organizzazioni di imprenditori presenti nel
paese, che rappresentano soprattutto proprietari di piccole e medie imprese, sono rimaste deboli e
prive di influenza (Escribano e Lorca, 2011). Per esempio, la Union des Commerçants et Artisans
Algériens (UGAA),108 che rappresenta circa 200000 piccole e medie imprese e rivendica una lotta
decisa al mercato parallelo, è stata completamente esclusa dalle consultazioni con il governo (ibid).
3.2 Crescente contestazione nell’ultimo decennio
Un complesso sistema di restrizioni, coercizione e cooptazione ha dunque accompagnato
l’evoluzione della società civile nel Nord Africa nell’ultimo ventennio, indebolendola fortemente e
limitandone la capacità e la volontà di promuovere un reale e profondo cambiamento politico e
economico. Detto questo, sarebbe sbagliato concludere che la società civile nel mondo arabo, e nei
tre paesi nello specifico, sia rimasta immobile e passiva. Il solo fatto che i regimi abbiano negli anni
rafforzato il loro apparato repressivo attesta che una certa opposizione in grado di minacciarne il
potere è progressivamente emersa (Cavatorta e Durac, 2010). E soprattutto, non si
comprenderebbero fino in fondo le dinamiche profonde che sono state all’origine delle rivoluzioni
in Tunisia e in Egitto, e della primavera araba in generale.
Innanzitutto, esiste una parte della società civile organizzata, che pur essendo minoritaria e pur non
costituendo una seria minaccia per i regimi in carica, ha svolto un’azione importante nei paesi
interessati, portando avanti quello che l’attivista Sana Ben Achour (2011) definisce, nel caso della
Tunisia, un “movimento pacifico di insubordinazione”. Ad esempio, quei pochi gruppi in difesa dei
diritti umani che sono riusciti a mantenere una certa autonomia rispetto ai regimi hanno fornito
assistenza legale agli oppositori perseguitati, hanno denunciato le continue violazioni dei diritti
umani, oltre a darne risonanza all’opinione pubblica internazionale, e hanno contribuito a far
penetrare, seppur lentamente, nelle società interessate quel linguaggio dei diritti umani e delle
libertà politiche che ha dato voce alle rivoluzioni egiziana e tunisina (Nefissa, 2011; Albretch,
2007; Bayat, 2009; Ben Achour, 2011).
Sopratutto, nell’ultimo decennio, le forme di contestazione politica e, in maniera maggiore, quelle
di contestazione sociale al di fuori della società civile organizzata si sono moltiplicate. A livello
105
Confédération Générale des Entreprises Algériennes (CGEA), Confédération Algérienne du Patronat (CAP), Confédération
National du Patronat Algérien (CNPA), Association des Femmes Chefs d'Entreprises (SEVE) e Confédération des Industriels et
Producteurs Algériens (CIPA).
106
Forum dei capi di impresa.
107
Il Forum avrebbe giocato un ruolo importante nella decisione dell’Algeria di entrare dell’accordo di libero scambio con l’Unione
Europea (Delhaye e Le Pape, 2004).
108
Unione dei commercianti e artigiani algerini.
38
politico, a partire dai primi anni del duemila,109 l’Egitto è stato percorso da un’ondata di movimenti
non inquadrati nelle organizzazioni tradizionali della società civile (tra cui Kifaya,110 Women for
Democracy,111 ElShayfeen.com,112 il Club dei Giudici ed altri)113 che hanno chiesto la riforma del
sistema politico, elezioni competitive e trasparenti, la fine dello stato di emergenza, l’indipendenza
della magistratura e la rimozione di tutti i vincoli imposti alla libertà di associazione e di stampa (el
Mahdi, 2009a, 2009b). Tutti questi movimenti di contestazione politica, in cui i giovani e le donne
hanno rappresentato una componenente importante, hanno il merito di aver contribuito a sgretolare,
seppur lentamente, il muro della paura tra la popolazione. Kifaya, il più noto tra tutti, nato nel 2004
e composto da attivisti di diverso orientamento ideologico (di sinistra, nasseristi e islamisti), si è
spinto fino a chiedere la fine del governo del presidente Mubarak. A partire dal 2005, diversi
giudici si sono mobilitati apertamente contro il regime, denunciando la corruzione e le irregolarità
in occasione delle elezioni parlamentari di quell’anno e dando inizio ad una serie di dimostrazioni,
appoggiate da altri movimenti di contestazione, in favore della loro indipendenza dal potere.
Anche in Tunisia, il movimento di resistenza politica si è intensificato nell’ultimo decennio,
manifestandosi attraverso varie forme: scioperi della fame di attivisti e militanti politici, che hanno
portato l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani nel paese; la dura mobilitazione dei magistrati
e degli avvocati che sono stati in prima fila, sin dai primi anni duemila, nelle numerose battaglie per
l’indipendenza della giustizia; l’azione dei collettivi, dei comitati e degli osservatori indipendenti
non riconosciuti legalmente, che hanno dato il loro sostegno ai prigionieri politici e denunciato la
tortura e l’assenza di libertà di stampa; la militanza del sindacato degli studenti tunisini, la Union
Generale des Etudiants Tunisiens (UGET)114 e dell’associazione dei disoccupati diplomati, la
Union des Diplômés Chômeurs (UDC),115 duramente represse dal regime; ed infine, il più rilevante
tra i movimenti, il Collectif du 18 Octobre pour les Droits et les Libertés,116 costituito da numerose
personalità di diverso orientamento politico per denunciare le violazioni della libertà di espressione
in occasione del summit mondiale sull’informazione organizzato nel 2005 in Tunisia (Ben Achour,
2011; Gobe e Bechir Ayari, 2007; Human Rights Watch, 2010).
Nell’ultimo decennio, inoltre, si sono intensificate anche le espressioni di dissenso da parte dei
giovani. Diversamente dal passato, queste nuove forme di attivismo giovanile hanno contestato i
regimi al di fuori dei campus universitari, facendo ampio uso delle nuove tecnologie, come
facebook, siti internet e blog, per organizzare le mobilitazioni, condividere opinioni, far circolare
materiale audio-visivo sulle violazioni da parte della polizia e criticare i governi al potere.117 In
Egitto, il movimento giovanile April 6 Youth Movement,118 che ha svolto un ruolo importante
durante le proteste di gennaio, è nato nel 2008 dall’iniziativa di alcuni giovani attivisti di Kifaya e
blogger che lanciano un appello di solidarietà da una pagina facebook ad unirsi allo sciopero
generale indetto per quel giorno dai lavoratori del complesso industriale di Mahalla (Shehata,
2008). Anche tra le giovani donne, i social networks sono diventati una forma molto diffusa di
109
L’inizio di questo attivismo politico viene fatto risalire al settembre 2000 con lo scoppio della seconda intifada palestinese che
diede luogo a numerose dimostrazioni spontanee, soprattutto nelle università e nelle scuole. Successivamente, la mobilitazione si è
focalizzata su temi domestici.
110
Può essere tradotto con “Enough”. Noto anche con il nome di Egyptian Movement for Change.
111
Conosciuto anche con il nome di El Shar’i lina (“The Street is Ours”).
112
“We Can See You”.
113
Tra questi: Engineers for Democracy, The March 9th Group for Academic Freedoms, Egyptian Anti-Globalization Group e Leftist
March 20th Movement.
114
Unione generale degli studenti tunisini.
115
Unione dei disoccupati diplomati.
116
Collettivo 18 ottobre per i diritti e le libertà.
117
Tra le iniziative in Tunisia: il sito web Tazrik, sviluppato da giovani tra i 20 ed i 30 anni; Radio Kalima fondata da Sihem Ben
Sèdrine; Alternatives Citoyennes di Nadia Omrane; il blog di Slim Amamou, tra i blogger arrestati durante le proteste di gennaio
2011; e la grande campagna Sayab Salah contro la censura iniziata nel 2009 che ha portato all’occupazione pacifica delle terrazze dei
cafè. In Egitto, si ricorda, tra le numerose iniziative, il gruppo facebook We are all Khaled Said, con un milione di aderenti, creato in
memoria del giovane ragazzo ucciso brutalmente dalla polizia ad Alessandria nel giugno 2010 e utilizzato per lanciare diverse
proteste nell’estate di quell’anno, oltre che la grande mobilitazione del 25 gennaio 2011.
118
Movimento Giovanile 6 Aprile.
39
contestazione politica e di denuncia delle violazioni dei diritti umani.119 Tra i fondatori della pagina
facebook 6 Aprile, per esempio, c’era una donna, Esraa Abdel Fattah Ahmed Rashid, arrestata il
giorno dello sciopero generale.
Nell’ultimo decennio, è stata soprattutto la contestazione sociale ad aumentare in modo
significativo, confermando il peggioramento delle condizioni di vita e della situazione del mercato
del lavoro discussi in precedenza. La contestazione sociale ha preso spesso la forma di micro
proteste, di natura spontanea, concentrate su rivendicazioni settoriali e quotidiane che non hanno
rimesso in causa direttamente il sistema di potere autoritario: proteste nei quartieri popolari contro
la demolizione delle case abusive; sit-ins di genitori per denunciare le pessime condizioni degli
edifici scolastici; proteste contro il caro vita e per la carenza di acqua (Al-Mahdi, 2009b; Nefissa,
2011; Khalil, 2011; Beinin e Varel, 2011; Ben Nefissa e Destremau, 2011).
Negli anni recenti, si è intensificata, in modo particolare, la contestazione dei lavoratori e dei
giovani disoccupati. In Tunisia, le cellule di base dell’UGTT hanno sostenuto gli scioperi dei
lavoratori nelle fabbriche e nelle regioni più svantaggiate senza l’approvazione della direzione
sindacale (Allal e Geisser, 2011). A partire dal 2008, sono aumentate le proteste nelle regioni piú
povere (CIHRS, 2011).120 La rivolta scoppiata in diverse città della provincia di Gafsa nel gennaio
2008 è stata la più ampia attestando della frustrazione e del malcontento diffusi tra i giovani senza
un lavoro (Seddik e Gantin, 2008; Gobe, 2010; Chouikha e Gobe, 2009). In risposta alla
pubblicazione dei risultati, ritenuti fraudolenti, del concorso indetto dalla compagnia mineraria della
regione, i giovani esclusi, insieme ad altri disoccupati, studenti e alla popolazione locale, hanno
reagito protestando per sei mesi, durante i quali il regime ha attuato una durissima repressione.
E’ in Egitto che, nell’ultimo decennio, soprattutto dal 2004, è emersa la più ampia mobilitazione di
lavoratori,121 che non ha precedenti nella storia egiziana almeno dagli anni quaranta e che ha agito
in completa autonomia rispetto alla Federazione dei lavoratori (ETUF). I lavoratori hanno
rivendicato l’innalzamento dei salari, il pagamento dei bonus (per il settore pubblico) e la
stabilizzazione dei contratti precari (Beinin, 2008). Le proteste hanno investito tutte le categorie di
lavoratori, dagli operai delle fabbriche ai medici, e, differentemente dagli scioperi degli anni ottanta
e novanta, hanno toccato anche il settore privato, ed in particolare quelle imprese privatizzate che
non avevano mantenuto gli impegni contrattuali presi con i lavoratori (Beinin 2011). Una delle
mobilitazioni più imponenti è stata quella condotta nell’autunno del 2007 dai 55000 esattori delle
tasse dipendenti dalle autorità locali che reclamavano un adeguamento dei loro salari a quelli dei
dipendenti del ministero delle finanze. Dopo undici giorni di sit-ins e proteste, in cui i lavoratori
hanno incrociato le braccia bloccando il funzionamento di tutta l’amministrazione pubblica, il
governo è stato costretto a soddisfare le richieste dei manifestanti. Di particolare rilievo, infine, è
stata la larga partecipazione delle donne lavoratrici, talora anche in posizioni di leadership,122 a tali
proteste, contravvenendo così alle norme e agli stereotipi di genere (Beinin, 2010; Solidarity
Center, 2010).
Anche l’Algeria, da qualche anno, è stata investita da una crescente contestazione, ma, per certi
aspetti diversa, da quella osservata in Tunisia e in Egitto perché si è trattato di movimenti di
contestazione completamente disorganizzati, senza una chiara prospettiva politica, sovente di natura
violenta e di cui sono stati protagonisti gruppi di giovani senza lavoro e con un basso livello di
istruzione.123 Comunque, accanto a queste rivolte divenute quasi quotidiane, e diversamente dalle
119
Per la Tunisia, tra le più note, si ricorda Lina Ben Mehenni (“A Tunisian girl”, http://atunisiangirl.blogspot.com/.)
See “Tunisie: Un rassemblement de jeune diplômés chômeurs de la ville de Skhira tourne à l’affrontement avec les forces de
l’ordre”, Nawaat, 4/02/2010 (http://nawaat.org/portail/2010/02/04/tunisie-un-rassemblement-de-jeune-diplomes-chomeurs-de-laville-de-skhira-tourne-a-laffrontement-avec-les-forces-de-lordre/); Christophe Ayad, “Face au gâchis social, la Tunisie ose
s’insurger”, Tunisia Watch, 22/12/2010 (http://www.tunisiawatch.com/?p=3180); Amnesty International (2009).
121
Tra il 2004 ed il 2008, sono stati coinvolti circa 1,7 milioni di lavoratori (Solidarity Center, 2010).
122
Aisha Abd-al-Aziz Abu-Samada, per esempio, ha organizzato i lavoratori, uomini e donne, alla fabbrica Hennawi che produce
tabacco nella zona del Delta (Solidarity Center, 2010).
123
Nasser Jaby (2011); “Algeria: A Quiet Revolution in Civil Society Takes Hold”, Mideastposts, 24/03/2011
(http://mideastposts.com/2011/03/24/algeria-a-quiet-revolution-in-civil-society-takes-hold/); “Algeria’s Midwinter Uproar”, MERIP,
20/01/2011 (http://www.merip.org/mero/mero012011).
120
40
proteste degli anni passati concentrate su rivendicazioni culturali e religiose, si è assistito
all’intensificarsi della contestazione sociale (Larabi, 2011). I sindacati indipendenti, soprattutto
dopo il 2008, sono tornati a mobilitare gli impiegati pubblici in tutti i settori - dalla sanità,
all'istruzione e ai trasporti - contro il caro vita e i bassi salari, arrivando talvolta alla paralisi dei
servizi pubblici (Khalil, 2011). Di fronte a questo intensificarsi dell'azione dei sindacati autonomi, il
regime ha risposto in maniera crescente con l'uso della forza e l'arresto dei manifestanti (CIHRS,
2011).
Il quadro che emerge dalla nostra breve analisi rivela dunque che, alla vigilia della primavera araba,
i tre paesi, anche se con intensitá e modalità diverse, erano attraversati da un movimento di diffusa
contestazione, soprattutto di natura sociale. Tuttavia, a causa della natura non organizzata e
frammentata in molteplici e particolaristiche rivendicazioni, tale contestazione sembrava non
minacciare almeno nell’immediato l’esistenza stessa dei regimi. Allo stesso tempo, é chiaro che
essa attestava di un malcontento e di un'insofferenza ormai condivisi da ampie fasce della
popolazione, confermando l'analisi presentata nella prima parte. Infine, benché spontaneo e
disperso, questo generale movimento di contestazione mostra che il muro della paura verso i regimi
cominciava a sgretolarsi.124
3.3 La primavera araba
L’ondata di proteste che ha investito la Tunisia, l’Egitto e, in misura minore, l’Algeria non è dunque
emersa dal nulla, ma è profondamente radicata nel quadro socio-economico e politico evidenziato
finora ed in quel movimento diffuso, benché poco visibile, di contestazione sociale e politica, che si
è protratto, intensificandosi, nell’ultimo decennio. Nella misura in cui un forte deterioramento della
situazione socio-economica è stato accompagnato da un indurimento della repressione e
dell’autoritarismo, un sentimento di frustrazione e di esasperazione si è progressivamente
generalizzato, esprimendosi in molteplici forme di contestazione, individuali e collettive.
Il 17 dicembre 2010, Mohammed Bouazizi, un giovane disoccupato della città di Sidi Bouzid in
Tunisia, costretto a lavorare come venditore ambulante, si è dato fuoco, dopo che la polizia gli
aveva sequestrato la merce. Il gesto disperato di questo ragazzo ha innescato un’ondata di proteste
spontanee nella città di Sidi Bouzid, dando così inizio alla rivoluzione del popolo tunisino. Le
proteste sono emerse quindi da fattori di natura economica. Non a caso, hanno origine a Sidi
Bouzid, una delle zone più povere della Tunisia, dove la disoccupazione giovanile tocca il 40%, e
hanno visto come principali protagonisti giovani, studenti e disoccupati. Comunque, la
mobilitazione è diventata rapidamente un movimento di natura politica, una rivoluzione per le
libertà civili e politiche, anche se, nelle primissime fasi, non è stata guidata da alcun partito o
movimento politico. Da Sidi Bouzid è arrivava fino alle città più ricche del nord e della costa, come
la capitale Tunisi (Alexander, 2011; Marzouki, 2011), estendendosi velocemente ad ampie fasce
della popolazione (avvocati, artisti, giornalisti, insegnanti, ecc) e registrando una grande
partecipazione da parte delle donne.
Circa una settimana dopo la fuga di Ben Ali in Tunisia, in Egitto l’appello a scendere per la prima
volta nelle strade è arrivato dai giovani, donne e uomini, senza alcuna appartenenza politica. Via
web, questi giovani istruiti delle classi medie sono riusciti ad organizzare per il 25 gennaio, giorno
in cui ricorreva la festa della polizia, una protesta che ha portato nelle strade mezzo milione di
persone.125 Il passaggio dal virtuale al reale è stato possibile grazie alla rivoluzione tunisina, che ha
convinto gli egiziani, inizialmente i più giovani, che rovesciare un dittatore era possibile (Ben
Nefissa, 2011; ICG, 2011). Sono soprattutto i giovani istruiti, i professionisti, gli avvocati e gli
artisti che hanno partecipato alla prima mobilitazione. Successivamente, le proteste hanno
conquistato gli strati più poveri, coloro che non avevano accesso ad internet (Nefissa, 2011;
124
Khalil (2011); Hossam el-Hamalawy, “Egypt's revolution has been 10 years in the making”, The Guardian, 2/02/2011
(http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2011/mar/02/egypt-revolution-mubarak-wall-of-fear).
125
Lindsey (2011); ICG (2011); Amr Hamzawy, “Egypt's Bread and Butter Issues”, The New York Times, 27/01/2011
(http://www.carnegieendowment.org/publications/index.cfm?fa=view&id=42393).
41
Lindsey, 2011). Come in Tunisia, anche in Egitto, le donne sono state in prima fila a manifestare
(Paciello e Pepicelli, 2011). Anche alcuni imprenditori, come Naguib Sawiris, Anis Aclimandos,
Mohamed Metwally e Safwan Thabet, hanno dato il loro supporto a titolo personale all’ondata di
proteste.126 Infine, sin dall’inizio, le rivendicazioni hanno riguardato questioni sia economiche che
politiche, convergendo rapidamente nella richiesta delle dimissioni di Mubarak.127
Il fatto che, diversamente dalla contestazione degli anni passati, le proteste in Tunisia e in Egitto
abbiano finalmente coniugato rivendicazioni socio-economiche con rivendicazioni chiaramente
politiche può essere considerato un elemento importante del loro successo. Per questo, in Tunisia, le
proteste non si sono arrestate di fronte alle concessioni economiche fatte da Ben Ali nel suo
secondo discorso alla popolazione (11 gennaio), come la promessa di creare 300000 posti di lavoro
nell’arco di due anni. Quando, infine, nel discorso del 13 gennaio, Ben Ali ha fatto concessioni
politiche più esplicite, dichiarando di non ricandidarsi alle elezioni del 2014 e di togliere la censura
su internet, era ormai troppo tardi e le sue parole sono apparse poco credibili.
Anche il fatto che le proteste non siano state iniziate da alcun partito politico o altra organizzazione
della società civile e che sia mancata una leadership politica precisa spiegano l’ampiezza,
l’eterogeneità e la natura non ideologica delle mobilitazioni in entrambi i paesi, e dunque
nuovamente il loro esito positivo. Inoltre, in questo contesto, nei primi giorni, l’uso di internet e dei
social networks come Facebook e Twitter si è rivelato determinante per mobilitare ed organizzare
rapidamente le proteste, e, successivamente, per diffondere in tempo reale filmati e aggiornamenti
sulle manifestazioni, che hanno contribuito a conquistare il consenso della popolazione e degli altri
paesi alle rivoluzioni.128
Relativamente al ruolo delle forze politiche e sociali durante le fasi delle proteste, è importante,
comunque, fare alcune precisazioni. Dopo un primo momento di esitazione e di divergenze, tutti i
partiti politici e le forze di opposizione hanno preso parte alle proteste.129 Nel caso tunisino, il
sindacato dei lavoratori, l’UGTT, ha svolto un ruolo determinante sin da subito, soprattutto nelle
regioni dell’interno. Nei primi giorni, contrariamente all’atteggiamento prudente della direzione
nazionale, le cellule locali dell’UGTT hanno giocato un ruolo cruciale nel sostenere ed inquadrare
le manifestazioni. Sotto la pressione delle federazioni regionali, infine, la direzione centrale è stata
costretta a sostenere più apertamente il movimento di proteste per paura di essere sconfessato dalla
base. Dopo aver emesso l’11 gennaio un comunicato che condannava l’uso della forza e della
repressione delle proteste, il 14 gennaio, la direzione nazionale dell’UGTT ha decretato lo sciopero
generale in tutto il paese. Lo stesso giorno, Ben Ali è fuggito dalla Tunisia (Alexander, 2011; Allal
e Geisser, 2011).
A differenza della Tunisia, in Egitto, il movimento dei lavoratori, particolarmente attivo nell’ultimo
decennio, è entrato in scena solo nelle fasi conclusive delle proteste. Questo potrebbe riflettere in
parte l’interruzione delle attività economiche durante i primi giorni delle proteste (Shehata, 2011) e
le divisioni interne al movimento (Interviste dell’autore, Cairo, giugno 2011), fattori che possono
aver rallentato l’organizzazione dei lavoratori. Negli ultimi giorni, tra il 9 e l’11 febbraio,
comunque, il contributo dei lavoratori alle proteste è stato determinante (Beinin, 2011). Lo sciopero
generale indetto per il 9 febbraio ha portato in strada 300 000 lavoratori, appartenenti a numerosi
settori (trasporti, canale di Suez, telecomunicazioni, tessile, elettricità, cantieri navali, siderurgica)
(Clément et al., 2011). Nei giorni successivi, il paese è stato attraversato da un’ondata di scioperi,
126
Ellis Goldberg, “Egyptian businessmen eye the future”, The Middle East Channel, 10/02/2011
(http://mideast.foreignpolicy.com/posts/2011/02/10/egyptian_businessmen_eye_the_future).
127
Amr
Hamzawy,
“Egypt's
Bread
and
Butter
Issues”,
The
New
(http://www.carnegieendowment.org/publications/index.cfm?fa=view&id=42393).
York
Times,
27/01/2011
128
E’ indicativo, a tal proposito, che, durante i giorni delle proteste in Tunisia il regime abbia arrestato diversi bloggers (Hamadi
Kalutcha, Slim Amamu and Aziz Amami). Anche alcune donne sono state in prima fila a documentare le proteste attraverso i blog
(vedi Boris Vanenti, “Sidi Bouzid ou la révolte tunisienne organisée sur Facebook”, 4/01/2011, Nouvelobs.com).
129
Il movimento dei Fratelli Musulmani, per esempio e il partito di sinistra Tagammu hanno aderito alle proteste solo nei giorni
successivi al 25 gennaio (vedi Husam Tammam e Patrick Haenni, “Egypt: Islam in the insurrection”, Religious Globe, 22/02/2011
(http://religion.info/english/articles/article_519.shtml).
42
che ha investito tutte le attività economiche, toccando anche i liberi professionisti, e ha portato in
strada 8 milioni di lavoratori (Beinin, 2011). Al di là delle rivendicazioni economiche (aumento del
salario minimo, introduzione dell’indennità di disoccupazione, stabilizzazione dei contratti
temporanei ecc), i lavoratori hanno chiesto, per la prima volta, la fine della presidenza di H.
Mubarak (Clément et al., 2011). Secondo alcuni osservatori, la ripresa della mobilitazione dei
lavoratori avrebbe spinto i militari ad accelerare le pressioni su Mubarak affinché lasciasse la
presidenza del paese (Shehata, 2011).
Infine, il quadro dei fattori che hanno favorito il successo delle proteste sarebbe incompleto senza
considerare il ruolo dell’esercito nei due paesi. In Tunisia, i militari, non soltanto si sono rifiutati di
agire contro i dimostranti ma si sono schierati in molto casi anche in loro difesa contro le violenze
della polizia. Questo riflette certamente il fatto che i rapporti tra militari e Ben Ali non sono stati
mai buoni e il ruolo politico ed economico dell’esercito è rimasto marginale (Kallander, 2011). In
Egitto, i militari hanno giocato un ruolo altrettanto importante nell’esito della rivoluzione, ma
diverso, e per certi aspetti ambivalente dal momento che, a differenza della Tunisia, essi sono stati
parte integrante del sistema di potere economico e politico creato da H. Mubarak. 130 Se è vero che
l’esercito in Egitto non ha agito contro i manifestanti, tuttavia, diversamente da quello tunisino, esso
non ha preso le parti degli insorti né è intervenuto a fermare le violenze dei sostenitori di H.
Mubarak. Comunque, dopo l’allargamento delle proteste ai lavoratori, i militari hanno optato per
spingere H. Mubarak alle dimissioni nella speranza di non venir travolti dall’ondata di proteste.
Guardando al caso dell’Algeria, rispetto alla Tunisia e all’Egitto, emergono importanti differenze,
che spiegherebbero perché, benché i tre paesi condividano un quadro socio-economico e politico
simile, le proteste di gennaio in Algeria non abbiano portato ad un cambio di regime. In primo
luogo, sul piano delle rivendicazioni, diversamente da Tunisia ed Egitto, almeno nelle prime fasi, le
proteste di gennaio sembrano essere state motivate da questioni di natura essenzialmente socioeconomica e, comunque, non hanno avanzato richieste specifiche, sia politiche che sociali (Nasser
Jaby, 2011; Dessi, 2011). Per questo, ed in virtù della disponibilità delle generose rendite
petrolifere, il governo è riuscito ad evitare che le proteste si allargassero approvando una serie di
misure di breve termine volte a migliorare il potere d’acquisto della popolazione (§2.3). Inoltre,
anche se, come vedremo a breve, nei mesi successivi, nell’ambito di alcune iniziative promosse
dalla società civile, sono state avanzate richieste più specificatamente politiche, queste non hanno
riguardato un cambio di potere, ma si sono limitate a chiedere un ampliamento delle libertà civili e
politiche.131 Su questo differente approccio rispetto alla Tunisia e all’Egitto, sembra aver pesato
profondamente l’eredità della guerra civile degli anni novanta ed il timore di ricadere nella violenza
di quel periodo (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011).
Un secondo elemento di differenza del caso algerino con quello tunisino e egiziano riguarda il ruolo
svolto dalle forze politiche e sociali organizzate del paese durante le proteste. Diversamente
dall’Egitto e dalla Tunisia, in Algeria, durante i giorni delle proteste, le organizzazioni politiche e
sociali di opposizione non sono riuscite a costituire un fronte unico contro il regime e si sono divise
sulla strategia da seguire di fronte alle proteste. Ciò a causa delle profonde divisioni etniche e
ideologiche così come delle forti rivalità che, da un ventennio, hanno indebolito le forze di
opposizioni (Nasser Jaby, 2011; Dessi, 2011). Per esempio, alcune formazioni politiche, come gli
islamisti e il partito dei lavoratori di Louisa Hanoune, si sono dissociate apertamente dalla
mobilitazione di gennaio (Brown, 2011). L’iniziativa di alcuni partiti politici di opposizione,
sindacati indipendenti e gruppi per i diritti umani di creare un Coordinamento, il Coordination
Nationale pour le Changement el la Democratie (CNCD),132 il 21 gennaio al fine di avanzare
richieste di natura politica, tra cui l’abolizione della legge di emergenza, è stata boicottata da
130
Clement M. Henry e Robert Springborg, “Why Egypt's Military Will Not Be Able to Govern”, Foreign Affairs, 2/02/2011
(http://www.foreignaffairs.com/articles/67475/clement-m-henry-and-robert-springborg/a-tunisian-solution-for-egypts-military).
131
Heven
Armede,
“La
révolution
est-elle
impossible
en
Algérie?”,
(http://www.lexpress.fr/actualite/monde/la-revolution-est-elle-impossible-en-algerie_983439.html).
132
Coordinamento Nazionale per il Cambiamento e la Democrazia.
43
L'Express,
16/04/2011
diverse forze sociali e politiche.133 Tra queste, vi è il partito di Louisa Hanoune, il Front des Forces
Socialistes (FFS),134 uno dei principali partiti d’opposizione in Algeria, e l’UGTA, la principale
organizzazione sindacale del paese (Dessi, 2011). Infine, le profonde divisioni che attraversano le
forze di opposizione hanno portato a scissioni in seno allo stesso CNCD.135 Il 22 febbraio, il CNCD
si è diviso in due gruppi: il primo formato da rappresentanti dei partiti politici vicini al
Rassemblement pour la Culture et la Démocratie (RCD),136 e il secondo costituito dalle principali
organizzazioni dei diritti umani, i sindacati autonomi, alcuni movimenti di studenti e associazioni di
donne.137 Benché le ragioni di tale scissione non siano chiare, tra i fattori sembra esserci sia la scarsa
credibilità di cui godono i partiti politici che avrebbe spinto gli altri rappresentanti della società
civile a prenderne le distanze sia divergenze sulle strategie di azione (interviste dell’autore con
esponenti del CNCD, Algeri, ottobre 2011). Infine, diversamente da Egitto e Tunisia, i social
networks non hanno giocato alcun ruolo nelle proteste di gennaio in Algeria. Questo sembra
riflettere il fatto che i gruppi coinvolti nelle proteste fossero poco istruiti e provenienti dai quartieri
popolari (Nasser Jaby, 2011).
3.4 Società civile tra sfide e opportunità
3.4.1 Quadro d’insieme
All’indomani della fuga di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, la società civile ha subito una
vera e propria esplosione in questi paesi, con la legalizzazione di numerosi partiti politici138 e la
nascita di molte altre associazioni, dai sindacati di lavoratori ai gruppi giovanili. Sul piano del
cambiamento politico, vecchi e nuovi attori della società civile si sono mobilitati per fare pressione
sui governi di transizione affinchè non tradissero le aspettative della rivoluzione (vedi Paciello,
2011). Sul piano delle sfide socio-economiche, nel periodo post rivoluzionario, la contestazione dei
lavoratori in entrambi i paesi si è intensificata. In Egitto, dopo la caduta di Mubarak, gli scioperi e i
sit-ins dei lavoratori, spesso organizzati dai nuovi sindacati, si sono susseguiti allo stesso ritmo del
periodo antecedente, toccando tutti i settori e le categorie di lavoratori, dai trasporti pubblici alle
forze della polizia.139 Nonostante la forte contestazione sociale e l’urgenza delle sfide socioeconomiche, le diverse forze della società civile, ad eccezione dei sindacati, hanno concentrato la
loro azione e le loro rivendicazioni quasi unicamente sulle riforme politiche. Tutto ciò ha fatto sì
che finora sia mancato un dibattito serio su come affrontare le sfide economiche presenti e future,
ritardando un ripensamento delle politiche del passato da parte dei governi di transizione, che, come
già detto, si sono limitati a riproporre le stesse misure inefficaci dei precedenti regimi.
Ad una prima valutazione d’insieme sul ruolo delle forze della società civile nei primi dieci mesi
dopo le rivoluzioni emergono importanti differenze tra la Tunisia e l’Egitto sia in termini di impatto
133
Benmehdi, Redouane, “In State of High Alert, Algiers Braces for Protests”, The North African Journal, 10/02/2011
(http://www.north-africa.com/social_polics/security_politics/1dzprotests46.txt). Anche alcuni partiti islamisti moderati e il partito F
134
Fronte delle Forze Socialiste.
135
Per dettagli sulle dinamiche, vedi Achy Lahcen, “Why did protests in Algeria fail to gain momentum?”, 31/03/2011
(http://mideast.foreignpolicy.com/posts/2011/03/31/why_did_protests_in_algeria_fail_to_gain_momentum); Layachi Azzedine.
“Algeria’s Rebellion by Instalments”, MERIP, 12/03/2011 (http://www.merip.org/mero/mero031211).
136
Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia.
137
“CNCD: c’est la division”, Le Temps D’Algerie, 22/02/2011 (http://www.letempsdz.com/content/view/53688/1/). Le maggiori
organizzazioni rappresentate nel secondo gruppo sono: l’organizzazione per la difesa dei diritti umani, la Ligue Algerienne de
Defense des Droits de l’Homme (LADDH), alcuni sindacati autonomi (SNAPAP e SATEF), il Collectif Des Familles de Disparus en
Algerie, il Comité des Citoyens pour la Défense de la République ed il gruppo, Tharwa Fatma N’Soumer, che lavora per l’abolizione
del Codice della Famiglia, introdotto in Algeria nel 1984.
138
In Tunisia, sono stati legalizzati più di cento partiti, mentre in Egitto una cinquantina.
139
Beinin (2011); “Egyptian labour flaunt anti-strike law with rising strike action”, Ahram Online, 11/08/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/18659/Business/Economy/Egyptian-labour-flaunt-antistrike-law-with-rising-.aspx);
“Mffco
Helwan
workers
protest
for
third
day”,
Ahram
Online,
4/05/2011
(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11392/Business/Economy/Mffco-Helwan-workers-protest-for-third-day.aspx);
“Industrial
protests
rumble
on
in
Sadat
city”,
Ahram
Online,
8/05/2011(http://english.ahram.org.eg/NewsContent/3/12/11649/Business/Economy/Industrial-protests-rumble-on-in-Sadatcity.aspx); “Doctors strike on hold”, Ahram Weekly, 26/05-1/06/2011 (http://weekly.ahram.org.eg/2011/1049/eg12.htm).
44
sui processi decisionali sia nelle modalità di azione. In Egitto, le poche concessioni politiche fatte
dal Consiglio Militare sono state il risultato delle continue proteste animate dai gruppi giovanili. Al
di là di queste timide concessioni, tutte le decisioni prese dal Consiglio Militare in materia di
questioni politiche ed economiche sono state calate completamente dall’alto, senza alcun
coinvolgimento della società civile (Paciello, 2011). Il modo con cui è stata emendata la
costituzione del 1971 ne è l’esempio più eclatante. La costituzione è stata infatti modificata da un
comitato di giuristi, tutti uomini, nominato arbitrariamente dal Consiglio Militare e senza il
coinvolgimento di alcun rappresentante della società civile (ad eccezione di un membro dei Fratelli
Musulmani). Le proposte costituzionali, presentate il 26 febbraio, sono state sottoposte ad un
referendum popolare il 19 marzo, lasciando solo pochissimi giorni per informare l’opinione
pubblica sul suo contenuto. Due settimane dopo l’approvazione degli emendamenti costituzionali
tramite referendum popolare, il Consiglio Militare ha emanato una dichiarazione costituzionale che
conteneva articoli non contemplati nella precedente proposta costituzionale, scavalcando così la
volontà popolare espressa nel referendum. Ed ancora una volta, senza consultarsi con le forze della
società civile. Sul piano delle decisioni in materia di questioni economiche, il Consiglio Militare è
stato ancora più opaco, come mostra la totale assenza di trasparenza nell’approvazione della legge
finanziaria.140 Inoltre, le organizzazioni della società civile, soprattutto quelle in difesa dei diritti
umani e dei diritti delle donne, hanno continuato ad essere soggette a intidimidazioni, arresti dei
loro esponenti e ad una dura campagna di denigrazione.141 La società civile in Egitto ha continuato
quindi, come in passato, ad essere emarginata dai processi decisionali per due ragioni: in primo
luogo, perchè la transizione politica è stata diretta dai militari che hanno gestito il paese in modo
autoritario, e perché, come vedremo a breve, la coesione raggiunta tra le forze politiche e sociali del
paese durante la mobilitazione popolare che ha portato alla fuga di Mubarak sembra aver lasciato il
posto a profonde divisioni e spaccature, che hanno impedito la formazione di un fronte unico vis-àvis il Consiglio Militare (Paciello, 2011 per maggiori approfondimenti).
Diversamente dall’Egitto, in Tunisia, gli attori della società civile, dai partiti politici alle
associazioni in difesa dei diritti delle donne, sembrano aver giocato un ruolo più influente sulle
decisioni riguardanti le questioni politiche, grazie alla creazione della già menzionata Instance
Supérieure. Alla fine di marzo, infatti, dietro la forte pressione di vari esponenti della società civile,
la commissione nominata dal primo governo di transizione per riformare la costituzione,142 ma
composta da un numero ristretto di esperti di diritto alcuni dei quali vicini al passato regime, è stata
trasformata in un’istituzione più rappresentativa, appunto la Instance Supérieure. L’Alta Istanza è
arrivata ad includere 145 rappresentanti della società civile (tra cui l’UGTT, l’Ordine Nazionale
degli Avvocati, gli ex partiti di opposizione, alcune organizzazioni in difesa dei diritti delle donne
ecc).143 Attraverso questa struttura, i principali esponenti della società civile sono quindi riusciti ad
esercitare una certa influenza sulle decisioni prese dal governo di transizione, partecipando alla
stesura della legge elettorale per nominare l’Assemblea Costituente (approvata l’11 aprile), facendo
slittare la data delle elezioni nonostante le forti resistenze del governo di transizione, e contribuendo
ad elaborare la nuova legge sulle associazioni e sui partiti politici, oltre al nuovo codice della
stampa.
Per quanto riguarda l’Algeria, dopo le proteste di gennaio, il margine d’azione della società civile e
le opportunità di influenzare le decisioni del governo sono rimasti limitati. Le riforme politiche
intraprese recentemente dal governo sono state calate dall’alto: le consultazioni guidate dalla
commissione di Bensalah sono state boicottate dai principali partiti di opposizione e non hanno
140
“Egypt ruling military approves tighthening in spending in 2011/12 budget”, Ahram online, 4/07/2011.
Vedi per esempio la denuncia di 36 organizzazioni della società civile “Successors of the Mubarak regime redouble their assault
on civil society and the freedom of association”, 26/08/2011
(http://en.eohr.org/2011/08/26/successors-of-the-mubarak-regime-redouble-their-assault-on-civil-society-and-the-freedom-ofassociation/).
142
Si tratta della Commission Supérieure de la Réforme Politique (Commissione Superiore della Riforma Politica).
143
Per una lista dei membri dell’Alta Istanza, vedi “Instance Yadh Ben Achour: la dernière liste actualisée des membres du Conseil”,
Tunis News, 29/03/2011 (www.tunisnews.net).
141
45
coinvolto nessuna altra forza della società civile.144 Tuttavia, la primavera araba sembra aver dato
un rinnovato impulso alla nascita di nuovi comitati, gruppi giovanili e sindacati dei lavoratori nel
settore privato (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). La contestazione sociale ha inoltre
subito un’accelerazione negli ultimi mesi, investendo, oltre al settore pubblico, anche quello
privato.145 Per esempio, oltre ai casi degli hotel Sheraton e Aurassi, le multinazionali nel settore
degli idrocarburi nel sud del paese, dove finora la mobilitazione dei lavoratori era rimasta
contenuta, hanno cominciato ad assistere a un susseguirsi di scioperi e sit-ins che rivendicano un
aumento dei salari alla stregua dei dipendenti stranieri e un’indennità di lavoro per le difficili
condizioni di lavoro (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011).
3.4.2 Sindacati dei lavoratori
Il periodo post-rivoluzionario in Egitto e Tunisia ha aperto la strada al pluralismo sindacale. In
Egitto, già durante i primi giorni delle proteste, il 31 gennaio 2011, si è costituita, in alternativa
all’ETUF, la prima Federazione dei Sindacati Indipendenti, la Egyptian Federation of Independent
Trade Unions (EFITU),146 sotto la direzione del noto sindacalista Kamal Abu Eita e su iniziativa di
alcuni sindacati indipendenti.147 La Federazione è nata in risposta ad un comunicato dell’ETUF
emesso il 27 gennaio in cui si chiedeva ai segretari di tutti i sindacati federati di opporsi ad ogni
tentativo dei lavoratori di partecipare alle proteste. Qualche giorno dopo, l’8 febbraio, la EFITU ha
lanciato un appello ai lavoratori affinché aderissero alle proteste e scendessero in piazza il giorno
successivo per uno sciopero generale. L’appello, come già detto, ha segnato l’inizio del
coinvolgimento dei lavoratori nel movimento di proteste. Dopo la fuga di Mubarak, la Federazione
indipendente si è ampliata notevolmente, arrivando ad includere più di cento sindacati per un totale
di 1 milione di lavoratori.148 Accanto alla nascita della nuova Federazione, all’indomani della
rivoluzione, si è assistito in tutto il paese alla costituzione di numerosi sindacati e comitati di
lavoratori.149
Grazie alle pressioni della nuova federazione e di alcune organizzazioni in difesa dei diritti dei
lavoratori già attive all’epoca di Mubarak,150 le autorità di transizione si sono viste costrette a fare
alcune concessioni ai lavoratori, tra cui la nomina di Ahmad Hasan al-Burai a ministro del lavoro
(Clément et al., 2011). Il nuovo ministro, professore di diritto del lavoro presso l’Università del
Cairo, per anni sostenitore del pluralismo sindacale, ha riconosciuto immediatamente i nuovi
sindacati indipendenti in una dichiarazione ufficiale, soprassedendo alla legislazione nazionale in
nome delle convenzioni internazionali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL)
ratificate dall’Egitto. Inoltre, seppur tardivamente, ai primi di agosto, è arrivata la decisione del
governo di dissolvere il comitato esecutivo dell’ETUF. Fino ad allora, nonostante l’arresto del suo
presidente Hussein Megawer ed il ricorso presentato dalla federazione indipendente ed altre
144
Magharebia, 26/05 /2011, http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/05/26/feature-01
“Algeria Responds to Social Tensions”, Magharebia (http://www.city-dz.com/crise-sociale-en-algerie-l’etat-tourne-le-dos-auxprotestataires/); Daily Telegraph, 07/03/2011 (http://www.dailytelegraph.com.au/news/breaking-news/thousands-of-police-rally-inalgeria/story-e6freuyi-1226017339629); Echorouk online, 20/06/2011 (http://www.echoroukonline.com/eng/algeria/13741-algeriamunicipal-workers-launch-nationwide-strike-action.html);
El
Watan
28/09/2011
(http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/syndicat/sante_option_greve.htm);
El
Watan
29/09/2011
(http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/syndicat/contractuels_education_fronts.htm). Per il settore privato, CISA, “L a g rèv e d e s t r av a i l l eu rs
d es g ran d s h ô t el s d e l u x e al g é ri en s “, 29/09/2011 (http://www.cisa-solidaritesyndicats-algerie.org/spip.php?article60);
Magharebia, 10/11/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/11/10/feature-03).
146
Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti.
147
La Retired Workers Union (Unione dei Pensionati), la Health Professionals Union e la Teachers Independent Union. Vedi “After
50-year hiatus, Egypt’s first independent labor union is born”, al Masry al Youm (http:// www.almasryalyoum.
com/en/node/337515); CTUWS, “The formation of the Constituent Body of the Egyptian Independent Trade Union Federation”
30/01/2011 (http://www.ctuws.com/ Default.aspx?item=689).
148
I dati si riferiscono al 30 settembre 2011 (Mena Solidarity Network, http://menasolidaritynetwork.com/2011/10/04/egyptindependent-union-federation-welcomes-tuc-solidarity/).
149
Secondo
stime
non
ufficiali
circa
novanta.
Beinin
(2011);
al
Masry
al
Youm,
3/06/2011
(http://www.almasryalyoum.com/en/node/462369); Ahram Online, 20/09/2011
(http://english.ahram.org.eg/~/NewsContent/1/64/21674/Egypt/Politics-/Human-rights-in-postMubarak-Egypt-the-jury-is-stil.aspx).
150
Egyptian Center for Economic and Social Rights, Center for Trade Unions and Workers Services, Hisham Mubarak Center e
Center for Socialist Studies.
145
46
associazioni che ne chiedevano la dissoluzione, l’ETUF aveva continuato ad operare e ad essere
considerato l’unico interlocutore ufficiale in rappresentanza dei lavoratori.151 Infine, ai primi di
novembre, il governo di transizione ha approvato la bozza della nuova legge sui sindacati proposta
dal ministro del lavoro dopo lunghe consultazioni con i sindacati indipendenti e attivisti dei diritti
dei lavoratori. La bozza, che elimina i numerosi impedimenti all’azione dei sindacati imposti dalla
legge n. 35 del 1976 e riconosce il diritto per i lavoratori di organizzarsi, è in attesa di essere
approvata dal Consiglio dei Militari.
Comunque, la maggior parte delle richieste dei lavoratori, dei nuovi sindacati e della EFITU sono
rimaste disattese. Le principali rivendicazioni dei lavoratori e dei sindacati hanno riguardato:
l’aumento dei salari; l’innalzamento del salario minimo a 1200/1500 pound egiziani, poiché il
recente aumento deciso nella legge finanziaria è stato considerato inadeguato; la stabilizzazione dei
contratti temporanei; il diritto per tutti i cittadini alla sicurezza sociale; l’approvazione della legge
sui sindacati; la rimozione dei vecchi membri dei consigli d’amministrazione delle aziende;
l’abolizione della legge contro il diritto di sciopero introdotta dal Consiglio dei Militari e la
reintegrazione di tutti quei lavoratori licenziati arbitrariamente.152
Per quanto riguarda la Tunisia, le dinamiche del pluralismo sindacale appaiono per molti aspetti
differenti da quelle dell’Egitto. Dati la diversa storia dell’UGTT e il peso rilevante avuto da questo
sindacato nell’esito delle proteste, è naturale che tale organizzazione abbia continuato a giocare un
ruolo importante nel periodo post-rivoluzionario. Dal punto di vista politico, l’UGTT ha contribuito
a far cadere il primo governo di transizione diretto da Ghannouchi e successivamente ha partecipato
con ben quattro rappresentanti all’Alta Istanza.153 Dal punto di vista socio-economico, nonostante la
nascita di nuovi sindacati, l’UGTT ha continuato ad essere, almeno in questa prima fase, l’unica
organizzazione dei lavoratori riconosciuta dalle autorità di transizione nelle sedi ufficiali di
contrattazione. Infatti, nella fase post Ben Ali, l’UGTT ha continuato ad essere l’unico sindacato
coinvolto nelle negoziazioni sociali con il governo e l’UTICA, concludendo il 21 luglio un accordo
sugli aumenti salariali nel settore pubblico e privato. Tuttavia, le richieste dei lavoratori in sciopero
sono rimaste insoddisfatte poiché gli aumenti non hanno riguardato i numerosi precari del pubblico
e del privato, e tra le principali richieste c’è la fine dei contratti precari.
Come in Egitto, anche in Tunisia, il nuovo contesto politico ha aperto la strada al pluralismo
sindacale. Accanto all’UGTT, sono sorti due nuovi sindacati: a febbraio, è nata la Confédération
Générale des Travailleurs Tunisiens (CGTT),154 sotto la direzione di Habib Guiza, ed il 1 maggio, la
Union Tunisienne du Travail (UTT),155 guidata da Ismaël Sahbani. Anche a livello di associazioni
professionali, si è assistito ad una riorganizzazione interna in rottura con le pratiche del passato. 156
Per esempio, il Syndicat National des Journalistes Tunisiens,157 costituitosi nel 2008 e
completamente paralizzato dal controllo del regime, ha eletto ai primi di giugno il nuovo comitato
esecutivo, nominando alla sua guida una donna, Nejiba Hamrouni, e ha contribuito attivamente a
prepare il nuovo codice dei media (intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011).
La fase post rivoluzionaria in Tunisia ed in Egitto ha dunque aperto la strada al pluralismo
sindacale. L’emergere di una pluralità di organizzazioni sindacali forti e rappresentative potrebbe
contribuire a uno sviluppo economico equilibrato ed inclusivo. Nell’attuale fase di grande
incertezza politica ed economica, coinvolgere le organizzazioni dei lavoratori nel dibattito su come
151
Al Masry al Youm, 4/08/2011 (http://www.almasryalyoum.com/en/node/483386).
Beinin (2011). Per una lista completa delle rivendicazioni della EFITU, vedi Egypt Workers Solidarity, 20/09/2011
(http://www.egyptworkersolidarity.org).
153
Moncef Yaacoubi, Ridha Bouzriba, Abid Briki, Hacine El Abassi e Marwan Chérif.
154
Confederazione Generale dei Lavoratori Tunisini. La CGTT esisteva già dal 2006 ma non era riuscita a ottenere l’autorizzazione
sotto il regime di Ben Ali. “Naissance du second syndicat de l'histoire de la Tunisie”, Jeune Afrique, 1/02/2011
(http://www.jeuneafrique.com/).
155
Unione Tunisina del Lavoro.
156
Per i cambiamenti che hanno investito alcuni sindacati professionali, tra cui il Syndicat tunisien des Médecins Spécialistes de
Libre Pratique (Faouzi Charfi) e la Association des Magistrats Tunisiens (Ahmed Rahmouni), vedi Business News 16/05/2011
(http://www.businessnews.com.tn/Tunisie-–-Une-justice-à-dépolitiser,519,24802,1 ).
157
Sindacato Nazionale dei Giornalisti Tunisini.
152
47
affrontare le sfide socio-economiche, di breve e lungo termine, e nell’elaborazione delle future
politiche economiche e sociali appare più che mai cruciale. Il dialogo sociale potrebbe
rappresentare uno strumento efficace per superare le tensioni sociali, costruire un consenso sulle
politiche nazionali dei nuovi governi e migliorare le condizioni di lavoro. Affinché il pluralismo
sindacale si trasformi in una grande opportunità di cambiamento per entrambi i paesi, occorre che le
organizzazioni sindacali emergenti diventino forti, credibili, rappresentative e indipendenti.
Tuttavia, nella fase attuale, come è prevedibile, nonostante l’emergere di una pluralità di sindacati,
tali organizzazioni appaiono ancora deboli e poco rappresentative. E dunque non sono ancora in
grado di contribuire in maniera efficace al processo di cambiamento economico. In Egitto, per
esempio, non è chiaro se ed in che misura la federazione dei sindacati indipendenti riuscirà a
diventare un organo rappresentativo dei lavoratori ed alternativo all’ETUF. Si sono registrate già
alcune defezioni, mentre altri sindacati indipendenti si sono rifiutati di aderire.158 Anche il futuro
dell’ETUF rimane incerto e non è chiaro se ed in che misura riuscirà a rompere con il passato.
Nonostante sia stato formato un comitato esecutivo temporaneo incaricato di gestire gli affari della
Federazione fino alle nuove elezioni interne, la struttura piramidale dell’organizzazione è rimasta in
piedi. Inoltre, il nuovo comitato esecutivo, formato da venticinque membri di orientamento politico
eterogeneo - socialisti, figure indipendenti, membri della nuova federazione e della Fratellanza
Musulmana - include anche alcuni ex-dirigenti dell’ETUF.159 La presenza di membri legati al
passato regime potrebbe rallentare il processo di dissoluzione delle 24 unioni generali e dei 173
comitati di base eletti all’epoca di Mubarak. La data delle elezioni interne inizialmente previste per
novembre non è stata ancora definita e c’è il rischio che vengano posticipate di diversi mesi,
ritardando il processo di rinnovamento delle strutture dell’ETUF.160
Infine, i risultati delle elezioni interne, da cui dipenderà il futuro dell’ETUF, non sono affatto
prevedibili poiché ci si aspetta un’aspra competizione tra i gruppi di sinistra, i rappresentanti dei
Fratelli Musulmani e gli ex-membri del regime.161 A conferma dell’incertezza che avvolge le future
elezioni all’interno dei sindacati controllati dal passato regime, può essere utile notare che, a
ottobre, in occasione delle prime elezioni libere tenute al sindacato dei medici egiziani, benché la
lista dei Fratelli Musulmani, corrente predominante nel sindacato da trenta anni, fosse considerata la
favorita, non ha ottenuto un risultato schiacciante come previsto. La corrente contrapposta, quella
dei medici indipendenti, ha ottenuto risultati impensabili, conquistando una solida maggioranza di
seggi nei comitati locali del sindcacato in quattordici su ventisette governatorati e rompendo il
monopolio dei Fratelli Musulmani a livello nazionale, aggiudicandosi sei seggi su ventiquattro nel
comitato esecutivo.162 Le ragioni di questo relativo successo sono da ricercare nel ruolo chiave
svolto dai medici copti, che rappresentano quasi il 30% della categoria e alla nuova generazione di
medici, critica dell’atteggiamento passivo adottato dalla Fratellanza Musulmana negli anni del
regime di Mubarak e nel periodo post rivoluzionario.163 I Fratelli Musulmani hanno inoltre perso la
presidenza di altri sindcati professionali, quello dei giornalisti e degli avvocati.
Anche nel caso della Tunisia, in queste prime fasi nel periodo post rivoluzionario, le organizzazioni
sindacali sono indebolite da innumerevoli problemi. L’UGTT ha continuato a soffrire delle stesse
debolezze del passato. In primo luogo, è rimasta un’organizzazione ambigua poichè non ha rotto
completamente con il passato regime: i vertici dell’UGTT - il segretario generale Abdesslem Jrad e
158
Vedi per esempio CTUW, “The Center for Trade Union and Workers Services Decides to Withdraw From the Formation Process
of The Egyptian Federation of Independent Trade Unions”, 25/07/2011 (http://www.ctuws.com/Default.aspx?item=990); al Masry al
Youm, 31/08/2011 (http://www.almasryalyoum.com/en/node/491205)
159
“Committee
for
new
federation
of
trade
unions
formed”,
al
Masry
al
Youm,
06/08/2011,
(http://www.almasryalyoum.com/en/node/483781).
160
Le elezioni sono previste sei mesi dopo l’approvazione della bozza della nuova legge sui sindacati da parte del Consiglio Militare,
che, tuttavia, non si è ancora pronunciato in tal senso.
161
Ahram Online, 20/09/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/21615/Egypt/Politics-/The-road-to-trade-unionindependence.aspx).
162
Ahram Online, 20/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/24533/Egypt/Politics-/Behind-the-Brotherhoodslosses-in-historic-Doctors.aspx).
163
Alain Gresh, “Echec relatif des Frères musulmans aux élections du syndicat des médecins”, 23/10/2011, Le blog du Diplo,
(http://blog.mondediplo.net/2011-10-23-Echec-relatif-des-Freres-musulmans-aux-elections).
48
il comitato esecutivo - non sono stati cambiati. Secondo il rapporto preparato dalla commissione
sugli atti di corruzione commessi all’epoca di Ben Ali, Abdessalam Jrad sarebbe coinvolto in
diversi affari di corruzione.164 In secondo luogo, la sua struttura ha continuato ad essere fortemente
centralizzata e non democratica. Il prossimo congresso e le elezioni interne che si dovrebbero tenere
a breve saranno decisive per determinare il futuro dell’UGTT e favorire un rinnovamento dei quadri
dirigenti. A questo proposito, appare come un segnale positivo la decisione che nove membri
dell’attuale comitato esecutivo su dodici non potranno ricandidarsi.165 In terzo luogo, l’UGTT
sembra aver perso legittimità e credibilità tra alcune fasce di lavoratori come mostrano i numerosi
scioperi non inquadrati e coordinati dalla direzione centrale.166 Ancora, per la sua storia di sindacato
unico ma non completamente cooptato dal regime, l’UGTT è composto da molteplici anime –
esponenti di sinistra, islamisti, sostenitori dell’ex regime ecc. Nel contesto di un crescente
pluralismo politico e sindacale, questa eterogeneità può esporre l’UGTT al rischio di continue
scissioni, come mostra la fondazione dei due nuovi sindacati da parte di ex militanti dell’UGTT o
l’adesione di numerosi sindacalisti ai nuovi partiti politici nati dopo la rivoluzione.167
Anche i due nuovi sindacati presentano alcuni problemi. Pur proponendosi in alternativa alle
pratiche burocratiche e centralizzate dell’UGTT, non è chiaro in che misura le due organizzazioni
sindacali rappresentino effettivamente una rottura con il passato. I segretari generali dei due
sindacati sono ex-membri dell’UGTT. In particolare, Ismael Sahbani a capo della UTT fu exsegretario generale dell’UGTT per diversi anni ed è considerato un uomo molto vicino a Ben Ali
(interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Inoltre, al momento, le due organizzazioni sindacali
sembrano ricoprire ancora un ruolo marginale in termini di capacità di mobilitazione dei lavoratori
e di impatto sui processi decisionali (ibid).
Al di là delle debolezze interne su menzionate, un’altra sfida che si pone ai sindacati, vecchi e
nuovi, è la questione del livello di rappresentatività. Uno dei principali problemi dei sindacati
esistenti all’epoca dei precedenti regimi, la ETUF in Egitto e l’UGTT in Tunisia, è stata la loro
scarsa presenza nel settore privato. In Tunisia, per esempio, si stima che solo il 10% dei lavoratori
salariati nel privato aderisca all’UGTT.168 Ma soprattutto, nonostante le forme di lavoro precario
senza contratto siano andate crescendo in modo significativo in entrambi i paesi, i sindacati hanno
completamente ignorato questa parte di lavoratori più vulnerabili. Gli aumenti salariali firmati da
UGTT, UTICA e governo ad interim alla fine di luglio, per esempio, hanno riguardato solo i
lavoratori con contratti indeterminati.169 Sembra, comunque, esserci all’interno dell’UGTT una certa
consapevolezza sulla necessità di rivolgersi ai lavoratori del settore privato e dell’economia
informale in senso più ampio (interviste dell’autore con esponenti UGTT, Tunisi, settembre 2011).
L’efficacia e la rilevanza dei sindacati e delle federazioni di sindacati, vecchi e nuovi, in entrambi i
paesi dipenderanno quindi dalla misura in cui coinvolgeranno i lavoratori del settore privato e le
categorie più vulnerabili del mercato del lavoro come i lavoratori nell’economia informale.
Infine, altra questione cruciale è la rappresentanza delle donne. Non soltanto l’adesione delle donne
ai sindacati nel mondo arabo, ed in particolare in Tunisia ed Egitto, è rimasta di gran lunga più
bassa rispetto a quelle degli uomini, ma soprattutto le donne sono state sottorappresentate ai livelli
dirigenziali e nei comitati esecutivi. Il periodo post rivoluzionario sembra offrire un’opportunità per
riequilibrare queste disparità di genere. I nuovi sindacati e l’UGTT in Tunisia dichiarano di voler
164
Tunis News, 13/11/2011 (http://www.tunisnews.net/13Novembre11f.htm).
In particolare, non si presenteranno: Abdesslem Jrad, Ali Romdhane, Mohamed Chandoul, Ridha Bouzriba, Abid El Brigui e
Mohamed Shimi.
166
Webmanager Center, 4/06/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-106700-tunisie-ugtt-jrad-s-interesse-ala-politique-mais-ignore-le-travail).
167
Webmanager Center 6/05/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-105500-tunisie-pluralisme-syndicalavec-la-creation-de-la-cgtt-et-de-l-utt-l-ugtt-risque-gros).
168
Webmanager Center 14/03/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-103183-tunisie-syndicats-l-ugtt-avoulu-jouer-le-jeu-de-la-terre-br%FBlee-affirme-habib-guiza). Si stima che solamente il 10% dei salariati nel settore privato aderisca
al’UGTT.
169
Webmanager Center 30/07/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-108614-tunisie-ca-y-est-l-accord-surles-majorations-salariales-a-ete-signe).
165
49
puntare su una maggiore rappresentatività delle donne. Sul piano delle misure concrete, l’UGTT sta
discutendo seriamente l’ipotesi di introdurre delle quote rosa per favorire una maggiore presenza di
donne nel prossimo congresso e nel comitato esecutivo (interviste dell’autore con esponenti UGTT,
Tunisia, settembre 2011). In Egitto, alla fine di ottobre, è nato il primo sindacato di donne occupate
nell’agricoltura, mentre nei nuovi sindacati indipendenti sembra esserci maggiore sensibilità alle
questioni di genere e attenzione al coinvolgimento delle donne.170
Infine, un quadro normativo nazionale in linea con le convenzioni internazionali sulla protezione
dei diritti dei lavoratori, che riconosca, tra gli altri, il diritto per i lavoratori di costituire
organizzazioni e la libertà per i sindacati di condurre le proprie attività senza interferenze o
intimidazioni, è una precondizione indispensabile sia per un dialogo sociale efficace e trasparente
sia per permettere alle organizzazioni dei lavoratori di svolgere un ruolo propositivo nei processi di
trasformazione economica e politica. Tuttavia, nella fase post-rivoluzione, il contesto politico ed il
quadro normativo in cui operano i sindacati ed in linea generale le organizzazioni della società
civile continuano ad essere sfavorevoli alla libertà di espressione e di associazione, soprattutto in
Egitto. La situazione appare particolarmente preoccupante in Egitto. Oltre a quanto già detto sopra,
immediatamente dopo la destituzione di Mubarak, il Consiglio Militare ha vietato gli scioperi ed il
24 marzo ha approvato un progetto di legge che punisce chiunque organizzi, inciti o partecipi a
proteste che danneggiano l’economia, con pene che vanno dal carcere al pagamento di un’ammenda
(Clément et al., 2011). Benché la legge sia stata applicata per la prima volta solo alla fine di
giugno,171 rimane comunque in vigore, ponendo seri impedimenti al diritto di sciopero. Infine,
finchè la nuova legge sulle libertà sindacali depositata dal governo di transizione non verrà
approvata dal Consiglio dei Militari, la vecchia legge restrittiva delle libertà sindacali (legge n. 35
del 1976) rimane attiva.
La Tunisia presenta un quadro normativo relativamente più favorevole rispetto all’Egitto poiché il
diritto di costituire sindacati indipendenti dall’interferenza del governo è riconosciuto nella
Costituzione (art. 8) e nel Codice del Lavoro così come nelle convenzioni internazionali della OIL
ratificate dalla Tunisia. Comunque, per quanto riguarda il diritto di sciopero, benché sia garantito
dalla Costituzione, esso è soggetto ad alcune restrizioni. Gli scioperi devono ricevere
l’approvazione dell’UGTT (art. 376 del Codice del Lavoro) ed essere annunciati con dieci giorni di
anticipo. In caso di scioperi non autorizzati, si rischia persino il carcere da tre a otto mesi (Human
Rights Watch, 2010). L’Assemblea Costituente eletta a ottobre avrà il compito tra le altre cose, di
adottare una costituzione che garantisca i diritti fondamentali dei lavoratori e meccanismi adeguati
per proteggerli.
Infine, una sfida centrale in questa prima fase di transizione politica è posta certamente dal
persistere della contestazione sociale che potrebbe continuare, intensificandosi e portando al caos.
Le richieste dei lavoratori rischiano infatti di rimanere inattese sia per le resistenze del settore
privato, che soprattutto in questa fase di crisi economica non sembra disposto a fare concessioni
salariali e contrattuali, sia per i problemi finanziari dei governi. In Egitto, per esempio, i dipendenti
pubblici hanno denunciato ritardi nei pagamenti dei salari e dei bonus, e gli aumenti del salario
minimo non sono ancora entrati in vigore. Inoltre, le rivalità e le divergenze esistenti tra i diversi
sindacati potrebbero frammentare e indebolire il movimento dei lavoratori, impedendo un’azione
comune in nome di interessi particolaristici e indebolendone il potere di contrattazione, con il
rischio che tutto ciò alimenti la contestazione sociale. L’emergere di sindacati credibili agli occhi
dei lavoratori, forti e indipendenti è dunque un fattore importante per attenuare le tensioni sociali e
incanalarle nel quadro del dialogo sociale.
Tornando al caso dell’Algeria, le opportunità per i sindacati indipendenti di influenzare le politiche
economiche e sociali del paese continuano a rimanere limitate. Anche dopo le proteste di gennaio e
170
Ahram Online 25/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/NewsContent/1/64/25107/Egypt/Politics-/Egypt-Women-peasants-formhistoric-union.aspx). Solidarity Center (www.solidaritycenter.org-content.asp?contentid=1161).
171
In occasione di alcuni sit-ins organizzati da duecento lavoratori precari della Petrojet, che dipende dal ministero del petrolio. In
tale occasione, sono stati arrestati 5 lavoratori, poi condannati da una corte militare ad un anno di prigione (Beinin, 2011).
50
con l’intensificarsi della contestazione sociale, l’atteggiamento del governo nei confronti dei
sindacati autonomi è rimasto immutato e, per certi aspetti, sembra essere peggiorato. Alle due
negoziazioni tripartite che si sono tenute a partire da gennaio (l’ultima alla fine di settembre),
l’UGTA ha continuato ad essere l’unico rappresentante per i lavoratori.172 Nella misura in cui il
dialogo sociale è condotto escludendo i sindacati indipendenti dei lavoratori, non c’è alcuna
possibilità né di costruire un consenso nazionale sugli accordi raggiunti né promuovere un reale
cambiamento delle riforme economiche e sociali in direzione di uno sviluppo più inclusivo.
L’accordo tripartito di ottobre si è concluso senza alcun concreto miglioramento del potere
d’acquisto degli algerini e ha prodotto risultati al di sotto persino delle aspettative dell’UGTA. Per
esempio, tra le tante richieste portate al tavolo delle trattative ma disattese, l’UGTA aveva proposto
un innalzamento del salario minimo da 15000 a 20000 dinar algerini, ritenuto già insoddisfacente
dai sindacati autonomi, ma è riuscita ad ottenere solo un aumento a 18 000 dinar algerini.173
Ancora, nonostante l’abolizione dello stato di emergenza decretato il 24 febbraio 2011 e i tentativi
di riforma politica presi dopo le proteste di gennaio, gli atti di repressione e di intimidazione contro
gli esponenti dei sindacati indipendenti, tra cui lo SNAPAP, si sono intensificati negli ultimi
mesi.174
Infine, anche se il quadro normativo concernente i diritti dei lavoratori appare relativamente più
favorevole in Algeria rispetto ad altri paesi arabi, non soltanto permangono alcune importanti
restrizioni come quelle sul diritto di sciopero, ma c’è un serio problema di non applicazione della
legge da parte del governo e del settore privato. Per quanto riguarda il diritto di sciopero, per
esempio, benché riconosciuto nella costituzione, le autorità e i datori di lavoro hanno il potere di
proibirlo o sospenderlo nel caso in cui possa provocare una seria crisi economica al paese (ITUC,
2011). I diritti dei lavoratori, tra cui quello di costituire un sindacato, sono stati completamente
ignorati nel settore privato, soprattutto nelle multinazionali nel settore degli idrocarburi nel sud del
paese (Ibid).
In questo contesto fortemente restrittivo e vincolante, che limita significativamente l’efficacia dei
sindacati del lavoratori, è possibile tuttavia cogliere alcuni segnali di cambiamento all’interno della
società civile algerina. Un elemento di debolezza dei sindacati indipendenti è stato finora quello di
aver concentrato la propria azione su rivendicazioni spesso particolaristiche legate al settore di
appartenenza o esclusicamente socio-economiche.175 Sempre più frequentemente, comunque, i
sindacati stanno affiancando a rivendicazioni economiche richieste di natura politica, come ad
esempio la dissoluzione del parlamento e la creazione di un’assemblea costituente.176 Un’altra delle
debolezze dei sindacati autonomi è stato il fatto di essere rimasti circoscritti all’amministrazione
pubblica, mentre l’UGTA, pur essendo organizzata sulla base dei settori economici, è stata reticente
a sostenere ogni rivendicazione nel settore privato, come mostrano i recenti episodi agli hotels
Sheraton e Aurassi (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). In coincidenza con il crescente
malcontento nel settore privato, sono emersi diversi tentativi di creare sindacati autonomi in tale
settore.
Inoltre, sebbene la frammentazione della società civile in molteplici gruppi, comitati,
organizzazioni e sindacati continui ad essere uno dei principali fattori di debolezza della
contestazione sociale in corso nel paese, sembrano esserci segnali di convergenza e di crescente
172
El Watan, 26/09/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/syndicats_exclus.htm).
Tra le altre richieste disattese dell’UGTA: l’abolizione dell’imposta sulle entrate globali (impôt sur le revenu global), la
rivalorizzazione delle pensioni e l’annullamento dell’articolo 87 bis. Le Quotidien d'Oran, 1/10/2011 2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/eco/soc/snmg_augmente.htm); El Watan 29/09/2011 (http://www.algeriawatch.org/fr/article/pol/administration/gouvernement_face_malaise.htm); El Watan 1/10/2011
(http://www.djazairess.com/fr/elwatan/341738)
174
Furti alla sede dello SNAPAP (8 maggio), minaccie di morte al suo presidente M. Rachid Malaoui, arresti di alcuni membri,
chiusura della sede dello SNAPAP (12 maggio). Vedi anche “Algeria: Halte à la campagne de harcèlement contre les militants
syndicaux!”
(http://www.algeria-watch.org/fr/mrv/mrvrepr/harcelement_militants_syndicaux.htm);
El
Watan
6/10/2011
(http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342378); Interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011.
175
La Nation, 4/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/faiblesse_syndicats_autonomes.htm).
176
Algerie Focus, 3/06/2011 (http://www.algerie-focus.com/2011/06/13/algerie-des-syndicats-autonomes-du-secteur-de-leducationdemandent-la-dissolution-du-parlement-et-le-fin-du-monopole-syndical-de-lugta/).
173
51
coordinamento tra le diverse forze sociali. Per esempio, i differenti sindacati autonomi nel settore
dell’istruzione hanno rafforzato i contatti tra loro sulla base del perseguimento di obiettivi comuni
(libertà sindacale, aumenti salariali, riforma dello statuto dell’educazione pubblica e stabilizzazione
dei precari) e, a ottobre, hanno indetto insieme uno sciopero generale.177 Il sindacato autonomo
dell’amministrazione pubblica, lo SNAPAP, sta offrendo sostegno e assistenza ai sindacati nel
settore privato, ai giovani precari o disoccupati che si stanno organizzando in comitati di protesta e
ai lavoratori in sciopero alle multinazionali petrolifere nel sud del paese (Interviste dell’autore,
Algeri, ottobre 2011). Allo stesso tempo, attraverso il suo centro la Maison des Syndicats, lo
SNAPAP offre un punto di scambio e di incontro tra le diverse forze della società civile, giovani,
lavoratori e militanti dei diritti umani. Infine, in seno all’UGTA, dalla base, cominciano ad
emergere, con sempre più frequenza, voci discordanti con la direzione, come mostrano gli scioperi
organizzati dalle sezioni locali dell’UGTA a Arcellor Mittal nel porto di Algeri, alla Société
nationale des véhicules industriels a Rouiba e presso il gruppo Lafarge.178 A ottobre, i lavoratori di
Rouiba aderenti all’UGTA hanno contestato, con sit-ins e proteste, i risultati mediocri ottenuti con
la tripartita.179 La sfida cruciale che si pone a questi molteplici movimenti di constestazione sociale
che provengono da vari settori della società algerina – giovani, lavoratori del settore privato e
pubblico, base dell’UGTA – è convergere in un grande movimento organizzato, coeso e credibile.
3.4.3 Organizzazioni rappresentative degli imprenditori
Il periodo post-rivoluzionario in Egitto e in Tunisia potrebbe offrire grandi opportunità di crescita
per il settore privato, contribuendo a promuovere uno sviluppo sociale ed economico che sia
inclusivo e generatore di occupazione. In questa prospettiva, l’emergere di strutture realmente
rappresentative delle diverse categorie di imprenditori e, diversamente dal passato, autonome dal
potere politico, rappresenta un fattore chiave: per lo sviluppo di un settore privato, vitale e
innovativo in grado di generare opportunità di lavoro soprattutto per i giovani; per un reale
rinnovamento dell’elite economica; e per un dialogo sociale efficace, credibile e condiviso. Dal
punto di vista delle esigenze specifiche delle piccole e medie imprese o dei giovani imprenditori, il
nuovo contesto post rivoluzionario potrebbe aprire la via alla formazione di organizzazioni più
sensibili agli interessi di queste categorie. Finora, comunque, il processo di riconfigurazione delle
organizzazioni rappresentative degli imprenditori in Tunisia ed in Egitto ha proceduto lentamente,
anche se è prevedibile che nuovi sviluppi emergano con più chiarezza nel periodo post elettorale.
Nel contesto post-rivoluzionario, il panorama delle organizzazioni rappresentative degli
imprenditori appare ancora nebuloso e ambivalente, seppur con differenze importanti tra il caso
tunisino e quello egiziano. In Egitto, il panorama delle associazioni imprenditoriali o datoriali ha
continuato ad essere dominato dalle stesse organizzazioni operanti all’epoca di Mubarak. In seno a
queste organizzazioni, non sembra esserci stato, almeno per ora, un ricambio dei quadri dirigenti.
La Federation of Egyptian Industries (FEI), controllata dal precedente regime, è ancora diretta dallo
stesso presidente Galal Zorba. La Federazione, insieme alle altre note organizzazioni
imprenditoriali, ha continuato a partecipare agli incontri e alle consultazioni con il governo di
transizione ed il Consiglio Militare. L’unica nuova organizzazione rappresentativa degli
imprenditori emersa dopo il 25 gennaio è il Sindacato degli Importatori di Materiale Medico
(Syndicate for Importers of Medical Devices) costituitasi a metà agosto.180
Comunque, anche se il periodo post rivoluzionario non sembra abbia favorito l’emergere di nuove
organizzazioni imprenditoriali, il mutato contesto politico potrebbe dare nuovo slancio ad alcune
associazioni rimaste finora ai margini dei processi decisionali perché meno compromesse con il
potere politico. E’ il caso, per esempio, della Federation of Economic Development Associations
177
Intervista dell’autore ad un esponente di un sindacato autonomo nel settore, Algeri, ottobre 2011; El Watan 28/09/2011
(http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/education_greve_prevue.htm).
178
La Nation 4/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/faiblesse_syndicats_autonomes.htm).
179
Le Soir d'Algérie, 5/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/travailleurs_rouiba.htm); el Watan 1/10/2011
(http://www.djazairess.com/fr/elwatan/341740); el Watan 5/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342251)
180
al Masry al Youm 14/08/2011 (http://www.almasryalyoum.com/en/node/486255).
52
(FEDA)181 creata nel 2001, che raccoglie numerose associazioni che rappresentano circa 30000
piccole e medie imprese. La Federazione aveva osato criticare apertamente le elezioni fraudolenti di
novembre 2010 e, durante le proteste di gennaio, ha lanciato un appello in cui denunciava le
pratiche autoritarie di Mubarak.182 Nella fase di transizione, la Federazione ha sottoposto
all’attenzione del Consiglio Militare una bozza di legge, in cantiere dal 2008, per aiutare i venditori
ambulanti (circa 5 milioni) ad entrare nell’economia formale.
In Tunisia, il quadro delle organizzazioni rappresentative degli imprenditori appare relativamente
più dinamico, anche se l’UTICA ha continuato ad essere il principale portavoce degli imprenditori,
come indica la presenza di due suoi rappresentanti nell’Alta Istanza e la sua partecipazione alle
negoziazioni salariali con l’UGTT. In un primo tempo, il comitato esecutivo dell’UTICA si è
limitato a sostituire il suo presidente Hédi Djilani con Hamadi Ben Sedrine (il 9 marzo), ma queste
misure sono state considerate insufficienti da una parte degli imprenditori aderenti
all’organizzazione. Alla fine di aprile, il nuovo presidente è stato costretto a dimettersi poichè
accusato di essere un uomo vicino al passato regime e di non aver fatto niente per affrontare i
problemi degli imprenditori. La pressione al cambiamento è arrivata da due correnti riformiste
emerse in seno all’UTICA: il gruppo Sauvons l'Utica, costituitosi a metà gennaio e coordinato da
Faouzi Belhadj, e il Mouvement pour le Renouveau de l’Utica, formatosi in un secondo tempo e
capeggiato da Charfi, Sellami e Fourati. Al fine di garantire l’indipendenza dell’UTICA e rompere
con le pratiche del passato, il primo gruppo ha proposto una ristrutturazione radicale: la nomina di
un nuovo comitato esecutivo; il rinnovamento delle strutture a livello nazionale, regionale e locale;
la revisione dello statuto e l’organizzazione di nuove elezioni libere e trasparenti. 183 Il secondo
gruppo, più moderato, che ha chiesto un cambiamento più dolce, è riuscito a prevalere,
promuovendo una soluzione di compromesso tra la vecchia guardia e le correnti riformiste.
Contrariamente alla richiesta di formare un comitato esecutivo ex novo, il 2 maggio, l’UTICA ha
optato per una soluzione intermedia, tra continuità con il passato e cambiamento, creando un
comitato di transizione che include sia membri del vecchio comitato esecutivo (5 membri) sia gli
imprenditori riformisti (cinque del gruppo Sauvons l’Utica e cinque del gruppo Mouvement pour le
Renouveau), oltre a cinque rappresentanti delle federazioni.184 Accanto al comitato temporaneo,
incaricato di gestire le questioni operative durante la fase di transizione, riscrivere lo statuto e il
regolamento interno e preparare il prossimo congresso, ha continuato ad operare il vecchio comitato
esecutivo che dovrà occuparsi delle questioni amministrative e finanziarie fino al nuovo
congresso.185 Infine, a capo del comitato di transizione è stata nominata Wided Bouchemmaoui,
membro del vecchio comitato esecutivo eletto nel 2006 sotto il controllo ed il benestare di Ben Ali,
benché meno compromessa di altri con il precedente regime (Intervista dell’autore, Tunisi,
settembre 2011).
Oltre ad aver condotto un’operazione di ristrutturazione interna, seppur contenuta, in vista del
prossimo congresso, l’UTICA sta procedendo a rinnovare le sue strutture a livello di unioni
regionali, camere sindacali settoriali e federazioni.186 L’organizzazione ha inoltre dichiarato di voler
garantire una maggiore rappresentatività degli imprenditori in tutte le regioni e settori economici, e
si è impegnata a rinnovare le sue strutture dirigenziali in tutta trasparenza. 187 Al di là di queste
dichiarazioni e timide riconfigurazioni interne, è presto per capire quale sarà il futuro dell’UTICA.
181
Federazione delle Associazioni per lo Sviluppo Economico.
FEDA, 4/02/2011 (http://www.cipe.org/regional/mena/pdf/fedaStatement020411.pdf).
183
WebManager Center, 19/04/201 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-104829-tunisie-l-utica-ne-doit-pasetre-un-otage)
184
WebManager Center 29/94/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-105226-tunisie-l-utica-tourne-t-elleenfin-la-page); Tunis Visions (http://www.tunivisions.net/emergence-des-filles-bouchamaoui-au-devant-de-la-scene,12239.html).
185
Interviste
aderenti
UTICA,
Tunisi,
settembre
2011;
WebManager
Center
29/94/2011
(http://www.webmanagercenter.com/management/article-105226-tunisie-l-utica-tourne-t-elle-enfin-la-page);
186
Leaders, 19/09/2011 (http://www.leaders.com.tn/article/utica-le-premier-congres-regional-demarre-ce-samedi-a-sousse).
187
WebManager Center 04/07/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-107642-tunisie-la-creation-d-unecentrale-concurrente-pousse-l-utica-a-chercher-des-nouveaux-adherents); “Tunisie: L'intérêt national doit primer… dans les
négociations sociales, estime l’UTICA”, 25/06/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-107314-tunisie-linteret-national-doit-primer%85-dans-les-negociations-sociales-estime-l-utica); Interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011.
182
53
Benché, nel periodo post rivoluzionario, l’UTICA si sia fatta portavoce di alcune rivendicazioni a
nome degli imprenditori,188 non ha per ora ancora definito una strategia nuova di lungo termine, in
quanto completamente concentrata sui problemi interni. Il congresso e le elezioni del nuovo
comitato esecutivo, che si terranno nei prossimi mesi, saranno certamente una tappa importante per
capire in che direzione andrà l’UTICA.
Oltre ad una ristrutturazione interna, l’UTICA ha assistito anche a diverse defezioni. 189 Non è da
escludere che, in occasione del congresso e delle elezioni, in seno all’organizzazione, si acutizzino
le divisioni dando luogo a nuove scissioni. E’ proprio dalla decisione di un gruppo di ventisei
imprenditori, tra cui alcune donne, di abbandonare l’UTICA che nasce il progetto di una nuova
confederazione di imprese, la Confédération des Entreprises Citoyennes de Tunisie (CONECT). I
fondatori della nuova confederazione, lanciata il 14 settembre e guidata da Tarek Chérif, ex
membro dell’esecutivo dell’UTICA, hanno denunciato l’eccessiva politicizzazione di tale
organizzazione, che l’ha portata a trascurare gli interessi degli imprenditori, e hanno deciso di
creare CONECT nella consapevolezza che riformare l’UTICA dall’interno fosse impossibile
(Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Nel suo piano d’azione di lungo termine, la nuova
Confederazione sembra in aperta rottura con le pratiche del passato dell’UTICA. Dichiara di
ispirarsi al valori della cittadinanza (pagamento delle imposte, buona governance, rispetto delle
norme ambientali e miglioramento delle condizioni di lavoro dei lavoratori), di rivolgersi ai giovani
e alle donne, e ha nominato come vice-presidente una giovane donna imprenditrice, Douja Garbi. 190
Comunque, pur dichiarandosi in rottura con l’UTICA, esponenti di CONECT hanno affermato di
non essere affatto in concorrenza con tale organizzazione, auspicando una possibile cooperazione
sul fronte delle future negoziazioni sociali (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Infine,
diversamente dall’UTICA, la nuova organizzazione ha definito in modo più preciso il profilo degli
imprenditori a cui si rivolge, escludendo esplicitamente le micro-imprese e indirizzandosi alle
imprese che hanno un minimo di almeno tre dipendenti e che appartengono al regime fiscale reale
(e non forfettario).191 Occorrerà comunque del tempo per capire se ed in che misura CONECT
metterà in pratica la sua agenda ispirata ai valori della cittadinanza e quali saranno i rapporti con
l’UTICA.
Infine, mentre al momento, non è chiaro se ed in che misura l’UTICA e la CONECT saranno in
grado di diventare strutture participative e rappresentative degli interessi dei giovani imprenditori, è
possibile che il Centre des Jeunes Dirigeants (CJD),192 che si rappresenta come una forza di
proposizione e di riflessione finalizzata a promuovere l’impresa giovanile, e che, in passato, ha
osato criticare alcune politiche del regime di Ben Ali (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre
2011), giochi un ruolo più incisivo nell’avanzare le esigenze dei giovani imprenditori, donne e
uomini.193 A differenza delle altre organizzazioni imprenditoriali e, pur essendo parte dell’UTICA,
il CJD non ha avuto bisogno di cambiare il suo presidente, apprezzato per la sua trasparenza, nè il
188
Tra cui: la fine degli scioperi e dei sit-in dei lavoratori, ripristino della sicurezza, lotta al mercato parallelo, che danneggia
l’industria locale, e l’indennizzazione delle imprese colpite dalla crisi post rivoluzione (Intervista dell’autore a esponenti UTICA,
Tunisi, settembre 2011); Webmanager Center 24/08/2011 (http://www.webmanagercenter.com/management/article-109485-tunisie31-ao%FBt-2011-dernier-delai-de-depot-des-demandes-d-indemnisation-des-entreprises-sinistrees);
28/05/2011
(http://www.webmanagercenter.com/management/article-106439-tunisie-amnistie-sur-les-cheques-sans-provisoires-inacceptablepour-l-utica); Leaders, 29/05/2011 (http://www.leaders.com.tn/article/commerce-parallele-l-utica-veut-eradiquer-le-phenomene).
189
A livello regionale, alcune associazioni prima sotto il controllo dell’UTICA hanno optato per affermare la loro completa
indipendenza, come ad esempio, la Foire Internazionale di Sfax, che a luglio ha rivendicato il completo controllo del suo immenso
patrimonio immobiliare e la nomina del prossimo comitato esecutivo (Webmanager Center 6/07/2011
(http://www.webmanagercenter.com/management/article-107758-tunisie-la-foire-internationale-de-sfax-prend-ses-distances-vis-avis-de-l-utica-regionale).
190
Intervista
dell’autore,
Tunisi,
settembre
2011;
Tunisie
News
14/09/2011
(http://www.tunisienews.com/business/dossier_53_conect+nouvelle+organisation+patronale.html);
Webmanager
Center
14/09/2011
(http://www.webmanagercenter.com/management/article-110318-tunisie-conect-demarre-sur-les-chapeaux-de-roues).
191
Differentemente dall’UTICA dunque non include i lavoratori autonomi, i piccoli mestieri e quelli che seguono un regime
forfettario (intervista dell’autore a esponente CONECT, Tunisi, settembre 2011).
192
Centro dei Giovani Dirigenti.
193
Il CJD ha già un certo numero di donne presenti nel comitato esecutivo, una donna presidente di una federazione e donne presenti
in tutte le sedi regionali.
54
comitato esecutivo. La strategia del CJD diventerà certamente più esplicita con l’elezione del nuovo
esecutivo e con il congresso, che si terranno nei prossimi mesi, occasioni in cui si prospettano
cambiamenti importanti (Intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011).
Quanto detto finora offre un quadro ancora provvisorio e preliminare sulle dinamiche riguardanti le
organizzazioni rappresentative degli imprenditori. Il quadro si andrà certamente chiarendo
soprattutto dopo che gli assetti dei nuovi governi saranno più definiti e verranno elaborate le
politiche economiche da mettere in atto per affrontare le importanti sfide socio-economiche dei due
paesi. Una questione importante è come evolveranno i rapporti tra organizzazioni imprenditoriali e
potere politico, che certamente si riconfigureranno con più chiarezza nella fase post-elettorale. La
composizione dei nuovi governi influenzerà sia le strategie economiche, in particolare quelle verso
il settore privato, sia potrebbe favorire l’emergere di nuovi e molteplici gruppi di interesse. L’arrivo
al governo di forze politiche nuove senza alcun legame con il vecchio sistema di potere, come è
avvenuto in Tunisia, potrebbe, per esempio, portare all’emergere di nuovi gruppi di imprenditori
non collusi con il precedente regime. In Egitto, se i militari continuassero a giocare un ruolo
politico ed economico importante nella seconda fase di transizione post-elettorale, è possibile che
emergano resistenze da parte di alcuni gruppi di imprenditori intenzionati a promuovere reali
riforme economiche e che potrebbero rimettere in discussione i privilegi dei militari. Un ricambio
della classe imprenditoriale dipenderà anche dalle decisioni prese dai nuovi governi in merito alle
politiche economiche. Se queste politiche saranno orientate verso un processo di diversificazione e
di innovazione delle economie, è possibile che si aprano nuove opportunità per il settore privato e
quindi che emergano nuovi gruppi di imprenditori. Anche la ricostruzione libica potrebbe offrire
nuove opportunità di sviluppo per il settore privato sia in Tunisia che in Egitto, anche se non si può
escludere che i soliti imprenditori continuino a beneficiarne. Tutti questi fattori, generando nuovi
gruppi di interesse, potrebbero portare, nel lungo termine, alla nascita di nuove organizzazioni che li
rappresentano.
Un’altra questione importante è se ed in che misura le organizzazioni imprenditoriali riusciranno a
diventare strutture realmente rappresentative dei diversi gruppi di interesse presenti nei due paesi.
Uno dei principali problemi all’epoca di Mubarak e Ben Ali è stata infatti la mancanza di
rappresentatività delle organizzazioni imprenditoriali esistenti, che tendevano a trascurare gli
interessi delle piccole e medie imprese, delle micro-imprese nell’economia informale, dei giovani
imprenditori e delle donne. Al momento è certo che tutta quella parte di piccoli e medi imprenditori
operanti nell’economia informale, molti dei quali giovani e donne, meno connessa ai passati regimi
ha continuato, anche in questa fase post-rivoluzionaria, a non essere rappresentata nelle
organizzazioni imprenditoriali esistenti. Tutto ciò riflette il fatto che queste piccole e medie imprese
sono ancora deboli economicamente e finanziariamente, e dunque incapaci di organizzarsi
efficacemente. Per quanto riguarda il ruolo delle donne imprenditrici, è indubbio che, almeno in
Tunisia, il periodo post rivoluzionario abbia avuto effetti positivi, portando alcune di loro nei posti
dirigenziali. E’ presto, comunque, per dire se tali risultati siano transitori, e se si tradurranno in
un’effettiva e maggiore rappresentatività degli interessi delle donne imprenditrici.
Concludendo con l’Algeria, le proteste di gennaio e la primavera araba in generale hanno avuto un
impatto importante sulle dinamiche concernenti le organizzazioni imprenditoriali. Per la prima
volta, infatti, a maggio, il Forum des Chefs d’Enteprise (FCE), l’unica organizzazione
relativamente più critica delle politiche del governo, è stato chiamato a presiedere le prime
negoziazioni tripartite dopo le proteste di gennaio. L’avvicinamento tra governo e FCE potrebbe
riflettere un cambiamento nell’approccio del primo alle politiche economiche. Sotto la pressione
delle proteste di gennaio e alla luce delle rivoluzioni egiziane e tunisine, il governo sembra voler
ridare nuovo impeto al settore privato e alle riforme di liberalizzazione economica nella speranza di
rilanciare l’economia e rispondere alla pressione sul mercato del lavoro (intervista dell’autore,
Algeri, ottobre 2011). Allo stesso tempo, si potrebbe interpretare questo avvicinamento come un
tentativo da parte del governo di cooptare un’organizzazione che era diventata troppo critica delle
politiche pubbliche. Quel che è certo è che il FCE è tra coloro che hanno maggiormente beneficiato
55
nelle ultime negoziazioni tripartite concluse a ottobre, ottenendo risposta a tutte le richieste fatte
(Intervista dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Tali rivendicazioni sono state tradotte in molteplici
misure micro-economiche volte a sostenere le imprese e agevolarne la creazione, migliorare il clima
d’investimento, e promuovere il settore privato impegnato nell’esportazione di beni al di fuori degli
idrocarburi.194 Se è vero che queste misure possono essere viste come il segnale di un maggior peso
delle organizzazioni imprenditoriali sulle decisioni economiche del governo, tuttavia, l’assenza di
sindacati indipendenti dei lavoratori al dialogo sociale ha fatto sì che la FCE, sostenuta dalle altre
organizzazioni di imprenditori, riuscisse ad imporsi contro le richieste fatte dall’UGTA (relative
all’innalzamento del salario minimo e all’abrogazione dell’articolo 87 bis) e l’estensione dei diritti
sindacali al settore privato.195
3.4.4 Attivismo giovanile
All’indomani delle rivoluzioni in Egitto e Tunisia, l’attivismo giovanile si è intensificato,
esprimendosi attraverso una molteplicità di forme (gruppi giovanili, blogger, collettivi di
informazione, partiti politici ecc). In Egitto, durante i giorni delle proteste contro Mubarak, diversi
gruppi di giovani, tra i quali il Movimento 6 Aprile e i giovani della Fratellanza Musulmana, si sono
uniti nella coalizione dei giovani della rivoluzione, la Revolution’s Youth Coalition (RYC), per
dialogare con le altre forze politiche e chiedere le dimissioni di Mubarak. Nella fase post
rivoluzionaria, i gruppi e le coalizioni di giovani in Egitto si sono moltiplicati, svolgendo un ruolo
cruciale nelle prime fasi della transizione.196 Attraverso la continuazione delle proteste, hanno fatto
pressioni sulle autorità ad interim affinché avanzassero sulla strada delle riforme politiche (vedi
Paciello, 2011). Grazie alla pressione di questi gruppi, il Consiglio delle Forze Armate è stato
costretto a fare concessioni sempre più ampie, che probabilmente non avrebbe fatto, come l’arresto
dei due figli di Mubarak, la decisione di posticipare le elezioni parlamentari da settembre a
novembre, la dissoluzione dell’ex partito di regime e, in occasione delle recenti proteste di
novembre, lo scioglimento del governo di Essam Sharaf. Anche se alcune richieste centrali dei
manifestanti sono rimaste disattese (come il passaggio della direzione del paese dalla giunta militare
ad autorità civili, la riforma della costituzione prima delle elezioni parlamentari e la fine della legge
d’emergenza), senza l’azione di questi gruppi, la transizione politica in Egitto avrebbe avanzato
ancora più lentamente. Le recenti manifestazioni del 18 novembre, degenerate in scontri e represse
con violenza dalle forze dell’ordine, mostrano chiaramente che i giovani non sono affatto disposti
ad assistere in silenzio all’involuzione autoritaria che si prospetta nel paese e probabilmente
rappresentano ad oggi le uniche forze nel paese che aspirano ad un profondo e radicale
cambiamento politico del paese. Tra le loro richieste più urgenti, ci sono la fine del governo militare
entro Aprile 2012 e la formazione di un governo di unità nazionale, oltre ad una seria riforma del
Ministero dell’Interno.
Oltre a scendere in piazza, i giovani si sono mossi su molteplici fronti. Gli studenti hanno protestato
nelle università per chiedere le dimissioni dei presidi e di altri funzionari eletti dal vecchio regime,
molti dei quali sono rimasti al loro posto dopo il rovesciamento di Mubarak. I giovani sono stati tra
i principali animatori dei comitati popolari sorti in Egitto per rispondere al vuoto istituzionale
seguito alle dimissioni di Mubarak, con il compito di garantire la sicurezza dei quartieri, fornire
servizi pubblici non più erogati dalle municipalità e sensibilizzare la popolazione al cambiamento
politico in corso.197 I giovani blogger hanno continuato a denunciare le pratiche autoritarie della
Giunta Militare, ed alcuni di loro sono stati arrestati e processati davanti ai tribunali militari
(Amnesty International, 2011). Oltre a protestare e a denunciare le violazioni delle autorità ad
194
Le Quotidien d'Oran, 1/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/eco/tripartite_gagnant.htm); Liberté, 1/10/2011
(http://www.algeria-watch.org/fr/article/eco/mesures_entreprise.htm).
195
Le Quotidien d'Oran, 1/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/eco/soc/snmg_augmente.htm); interviste dell’autore,
Algeri, ottobre 2011.
196
Oltre alla RYC, le formazioni più importanti sono state il movimento 6 Aprile e la Union of the Revolution’s Youth (URY).
197
Vedi Alia Mosallam, “Popular Committees continue the revolution”, al Masry Al Youm, 18/06/2011; Interviste dell’autore, Cairo,
giugno 2011.
56
interim, i gruppi giovanili e diversi blogger si sono fatti promotori di iniziative di sensibilizzazione
ed informazione. Tra le iniziative più interessanti, c’è quella denominata “Let’s write our
constitution”, promossa dal centro Hisham Mubarak Law e dal giovane blogger Alaa Abdel Fatah,
con l’obiettivo di coinvolgere la popolazione egiziana nel processo di stesura della costituzione.
L’idea è stata quella di elaborare una carta popolare da redarre sulla base di un questionario rivolto
alla gente per strada e su internet, da presentare poi al comitato incaricato di riscrivere la
costituzione che verrà nominato dal nuovo parlamento.198 Inoltre, per ridurre la presenza dei
dirigenti dell’ex partito di regime nel futuro parlamento, diversi gruppi giovanili, tra cui Shadow
Government of the Coalition ed il movimento 6 Aprile, si sono mobilitati per redigere una “lista
nera” degli ex parlamentari del regime di Mubarak così da aiutare gli elettori a riconoscere gli
esponenti legati al vecchio partito e a Mubarak.199 Infine, come già detto, esponenti di vari gruppi
giovanili hanno costituito la coalizione Revolution Continues e il partito al Adl per tentare di entrare
nel futuro parlamento.
In Tunisia, il quadro dell’azione giovanile è ugualmente variegato, anche se diverso rispetto a
quello egiziano perché non dominato dalla presenza dei gruppi giovanili rivoluzionari. Alcune
iniziative nate dopo la rivoluzione sono state animate dai giovani con l’intento di sensibilizzare ed
informare l’opinione pubblica nel mutato contesto politico. Tra le più interessanti, per esempio, c’è
quella del Collectif des Jeunes Indépendants Démocrates,200 un gruppo di giovani studenti di diverse
discipline che attraverso il suo blog ha offerto un’analisi critica dei fatti politici nei primi mesi dopo
la rivoluzione. Successivamente, durante la fase pre-elettorale, il Collettivo ha lanciato l’originale
campagna ikhtiar per sensibilizzare la popolazione alla scelta degli innumerevoli partiti politici nati
dopo la rivoluzione in modo da ridurre il rischio dell’astensionismo (intervista dell’autore, Tunisi,
settembre 2011). Come in Egitto, i giovani liceali e gli studenti universitari si sono mobilitati per far
dimettere i presidi nominati da Ben Ali, mentre i giovani laureati disoccupati, molti dei quali
organizzati nella già menzionata Union des Diplômés Chômeurs (UDC), hanno continuato le loro
proteste ed i loro sit-in senza sosta in tutto il paese. L’UDC ha chiesto una riforma profonda del
sistema dell’istruzione e l’introduzione di criteri meritocratici nei concorsi pubblici (intervista
dell’autore, Tunisi, settembre 2011).
Diversamente dall’Egitto, i giovani in Tunisia sono riusciti ad accedere ad alcuni posti decisionali.
Alcune organizzazioni di giovani esistenti già all’epoca di Ben Ali, come lo storico sindacato degli
studenti tunisini l’UGETT e l’UDC, sono stati coinvolti nell’Alta Istanza, mentre il famoso blogger
Slim Amamou, arrestato nei primi giorni delle proteste contro Ben Ali, è stato nominato segretario
di stato alla gioventù e allo sport sotto il governo di transizione. A fine maggio, comunque, per
ragioni poco chiare, il blogger si è dimesso. Infine, in previsione delle elezioni, sono nati alcuni
partiti politici fondati da giovani, come il Mouvement des Jeunes Tunisiens Libres costituito da
disoccupati laureati e il partito Rencontre Jeunes Libres, mentre l’UDC ha presentato cinque liste
indipendenti con suoi rappresentanti. Tuttavia, nessuna di queste formazioni è riuscita a conquistare
un seggio all’Assemblea Costituente.
Uno degli elementi più interessanti del periodo post rivoluzionario è stato dunque il dinamismo
giovanile nelle sue molteplici forme, che contrasta in maniera netta con quanto succedeva all’epoca
di Mubarak e Ben Ali, quando le innumerevoli associazioni e comitati di giovani erano sotto il
totale controllo del regime. Poichè oggi i giovani rappresentano probabilmente gli attori più vibranti
e l’espressione più genuina del cambiamento politico, se ed in che misura, nei prossimi mesi,
saranno in grado di influenzare i processi decisionali è di vitale importanza per il futuro politico di
Egitto e Tunisia. La capacità dei giovani di influenzare il futuro del cambiamento politico ed
198
Heba Fahmy, “Rights group initiative aims to include people in writing the constitution”, Daily News, 15/06/2011
(http://www.thedailynewsegypt.com/human-a-civil-rights/rights-group-initiative-aims-to-include-people-in-writing-theconstitution.html).
199
Il 6 aprile ha lanciato la campagna "The White Circle and the Black Circle" (http://www.almasryalyoum.com/en/node/496825).
Ahram Online 9/10/2011 (http://english.ahram.org.eg/~/NewsContent/1/64/23618/Egypt/Politics-/Revolution-Youth-blacklistexposes-exregime-remnan.aspx).
200
Collettivo dei Giovani Indipendenti Democratici.
57
economico nei due paesi in parte dipenderà dalla misura in cui riusciranno ad organizzarsi in un
movimento ben strutturato, con una chiara leadership, un largo consenso e una strategia coerente di
lungo termine e di ampio respiro, che includa questioni politiche ed economiche.
In queste prime fasi, il movimento giovanile sia in Egitto che in Tunisia è infatti rimasto
frammentato in molteplici espressioni (gruppi giovanili, blogger, associazioni non governative,
comitati di disoccupati, partiti politici ecc), per lo più non coordinate tra loro, divise da questioni
ideologiche, strategiche e di appartenenza sociale. Il caso dei gruppi giovanili in Egitto illustra
chiaramente i rischi legati ad un’eccessiva frammentazione del movimento giovanile nella
prospettiva di avere un impatto sui processi decisionali. Secondo un recente studio condotto
sull’Egitto da Dina Shehata, le principali caratteristiche dei gruppi giovanili su descritti sono: la
struttura flessibile, fluida, fortemente decentralizzata; l’eterogeneità ideologica dei loro aderenti; e
la dipendenza dalle nuove tecnologie per comunicare, organizzarsi e mobilitare le persone. 201
Queste caratteristiche sono state certamente i punti di maggiore forza nella fasi delle proteste di
gennaio/febbraio 2011 e nei momenti delle ampie proteste post Mubarak poichè hanno permesso di
coinvolgere un gran numero di giovani senza alcuna affiliazione politica e molto diversi
ideologicamente, ma accomunati prima dalla rabbia contro il regime di Mubarak e poi dalla volontà
di accelerare la rottura con il vecchio sistema di potere.
Tuttavia, questi fattori di forza del movimento dei giovani possono nel lungo termine tramutarsi in
fattori di debolezza. Le defezioni che, all’indomani della fuga di Mubarak, hanno colpito la RYC,
soprattutto da parte del movimento 6 Aprile, a causa di divergenze sulle strategie, hanno indebolito
fortemente l’azione dei giovani, il loro potere di contrattazione e la loro efficacia nel trattare con il
Consiglio dei Militari, così come la loro credibilità (Paciello, 2011; interviste dell’autore, Cairo,
giugno 2011). I gruppi giovanili sono infatti entrati in disaccordo sulla strategia da adottare nei
confronti dei militari: alcuni hanno optato per il dialogo, mentre altri hanno adottato un
atteggiamento più critico e di rottura, come il movimento 6 Aprile (interviste dell’autore, Cairo,
giugno 2011). Sono apparsi divisi anche sulla questione del referendum costituzionale di marzo, sul
riformare o meno la costituzione prima delle elezioni parlamentari, e sulla strategia da adottare in
previsione delle elezioni parlamentari (quale partito sostenere, se presentare candidati indipendenti
ecc).202 Dal canto loro, diversi blogger egiziani, come Isma al Fattah hanno considerato questi
gruppi giovanili inefficaci e per niente rappresentativi dei giovani (Ibid).
L’altra questione cruciale riguarda l’importanza di elaborare una chiara e coerente strategia di lungo
termine, che includa rivendicazioni politiche ed economiche, necessaria per condurre una lobby
efficace sui futuri governi. In Egitto, per esempio, i gruppi giovanili hanno per lo più concentrato la
loro attenzione su rivendicazioni di natura politica a discapito delle questioni socio-economiche,
benché negli ultimi mesi, alcuni di loro, come il movimento 6 Aprile, abbiano cominciato a fare
proprie alcune richieste come l’indennizzo delle famiglie dei martiri e l’aumento del salario
minimo.203 In Tunisia, l’UGET e l’UDC sembrano invece attivi su questioni specifiche che
riguardano le categorie che rappresentano (studenti, disoccupati istruiti, ecc), a discapito di una
visione più ampia delle questioni economiche e politiche.
Infine, anche in Algeria, la primavera araba sembra aver dato un inaspettato impulso all’attivismo
giovanile, come indica la nascita di nuovi gruppi e comitati di giovani (studenti, disoccupati e
precari) e l’intensificazione delle loro azioni di protesta non violenta.204 La maggior parte di questi
201
Review: A Map of the New Youth Movements in Egypt, 6 Luglio,
http://english.ahram.org.eg/NewsContent/18/62/15667/Books/Review/Review-A-Map-of-the-New-Youth-Movements-in-Egypt.aspx
202
Mohamed Abdel Baky, “Back to square one?”, al-Ahram Weekly, 31 March-6 April 2011, No. 1041
(http://weekly.ahram.org.eg/2011/1041/eg11.htm). Interviste dell’autore, Cairo, giugno 2011.
203
Beinin (2011), “What have workers gained from Egypt’s revolution?” The Middle East Channel.
Per le proteste studentesche, vedi “Thousands of Students March in Algiers”, Magharebia,
13/04/2011
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/04/13/feature-02); “University System Causes
Controversy
in
Algeria”,
Magharebia
20/02/2011
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/02/20/feature-01); “Sofiane Baroudi: Youth’s
Dreams
will
Build
Better
Algeria”,
Magharebia
11/04/2011
(http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/04/12/feature-04)
204
58
gruppi si è concentrata su rivendicazioni sociali. Per esempio, il Comitato Nazionale dei Precari
(Comité National des Travailleurs du Pré-emplois et Filet Social), nato a marzo, e fondato da una
ragazza, Malika Fallil, ha chiesto la stabilizzazione dei precari nell’amministrazione pubblica. Il
Comitato Nazionale per i Diritti dei Disoccupati (Comité National pour la Défense des Droits des
Chômeurs) ha rivendicato un lavoro decente per tutti i disoccupati, l’aumento dell’indennità di
disoccupazione, la possibilità di partecipare all’elaborazione delle politiche per l’impiego.205
Benché queste iniziative da parte dei giovani siano ancora ad uno stato embrionale, poco strutturate,
concentrate su rivendicazioni specifiche a certe categorie (precari, disoccupati ecc) e senza
un’agenda di lungo termine, presentano enormi potenzialità di cambiamento. Innanzitutto,
canalizzando le frustrazioni dei giovani disoccupati e precari, questo movimento potrebbe
rappresentare un antitodo all’esplosione della violenza tra i giovani.206 Soprattutto, l’efficacia e la
forza di questi gruppi giovanili, per ora concentrati sulle loro richieste specifiche, dipenderanno
dalla misura in cui convergeranno insieme ai sindacati indipendenti su una piattaforma condivisa di
rivendicazioni dei diritti sociali e economici (Interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Per ora,
tra questi gruppi, sembra esserci almeno la consapevolezza che questo passo sia importante (Ibid).
Ciò potrebbe innescare un grande movimento di contestazione sociale con implicazioni politiche
imprevedibili. Il governo, forse consapevole delle potenzialità di questo movimento di protesta, ha
tentato di reprimerlo duramente, come indicano gli arresti e le intimidazioni a cui sono stati soggetti
gli attivisti.207
3.4.5 Attivismo femminile
Le donne sia in Egitto che in Tunisia hanno partecipato massivamente alle sollevazioni popolari di
gennaio/febbraio 2011 e, nella fase post rivoluzionaria hanno continuato a mobilitarsi attraverso
numerose organizzazioni della società civile (associazioni in difesa dei diritti delle donne, partiti
politici, nuovi sindacati, associazioni rappresentative degli imprenditori ecc). Nonostante le grandi
aspettative dei primi giorni delle proteste, la fase di transizione post-rivoluzionaria non sembra
finora aver offerto alle donne le opportunità attese. Le donne sono rimaste ai margini dei processi
decisionali, pur con importanti differenze tra il caso tunisino e quello egiziano, mentre hanno
dovuto fare i conti con il riaffacciarsi delle intimidazioni da parte delle frange ultraconservatrici
salafite (Paciello e Pepicelli, 2011).
In controtendenza al grande dinamismo della società civile delineato finora, le associazioni
femminili, ed in particolare le organizzazioni in difesa dei diritti delle donne, sono apparse
particolarmente deboli. A pesare maggiormente su queste organizzazioni, sia in Egitto che in
Tunisia, è stato certamente il fatto che i precedenti regimi autoritari avessero strumentalizzato la
questione dei diritti delle donne. Per questo, le concessioni fatte in tema di diritti delle donne dai
passati regimi sono oggi viste con molto sospetto dalla maggior parte della popolazione. Già
fortemente discreditate all’epoca dei precedenti regimi, le organizzazioni in difesa dei diritti delle
donne stanno facendo molta fatica a riconquistare la loro credibilità. C’è poi la convinzione diffusa
che, nella fase della transizione politica, la questione dell’eguaglianza di genere sia la meno urgente
da affrontare (intervista dell’autore, Tunisi, settembre 2011).
Al di là di queste premesse comuni, esistono importanti differenze tra il caso egiziano e quello
tunisino. Benché in Tunisia le donne siano rimaste pressocchè assenti nei tre governi di transizione,
che hanno incluso soltanto due donne (una agli affari femminili e una alla sanità), sotto il terzo
governo ci sono stati cambiamenti positivi. Due delle storiche organizzazioni femministe
all’opposizione del regime di Ben Ali, l’Association Tunisienne des Femmes Démocrates (ATFD) e
l’Association Femmes Tunisiennes pour la Recherche et le Développement (AFTURD), hanno
partecipato all’Alta Istanza, contribuendo, tra le altre cose, ad influenzare il contenuto della legge
205
El Watan, 10/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342836).
La Nation, 4/10/2011 (http://www.algeria-watch.org/fr/article/pol/syndicat/faiblesse_syndicats_autonomes.htm).
207
El Watan, 10/10/2011 (http://www.djazairess.com/fr/elwatan/342836). “Arrestation de Malika FALLIL”, 21/09/2011
(http://www.maisondessyndicats-dz.com/imag/ISP%20MALIKA%20(2).pdf).
206
59
elettorale in maniera più favorevole alle donne. Tra le decisioni più importanti, c’è stata quella di
introdurre la quota sulla parità di genere nelle liste elettorali per l’elezione dell’Assemblea
Costituente. Inoltre, il governo di Essebsi, con l’appoggio del ministro degli affari delle donne e
sotto la pressione di alcune organizzazioni di donne, ha tolto a settembre tutte le riserve della
Tunisia alla Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione
contro le Donne.208 Il governo ha inoltre lanciato una campagna video "I need to go" per convincere
le donne ad andare a votare, dopo che ad agosto soltanto 1/5 delle donne aventi diritto si era
registrato per votare.209
Nella fase post rivoluzionaria, l’ATFD e l’AFTURD insieme ad altre associazioni210 hanno inoltre
riorganizzato le loro attività e lanciato nuovi progetti per adattarsi al mutato contesto politico.
L’ATFD, per esempio, ha cominciato a espandersi oltre la capitale, creando nuove sezioni in altre
città; ha condotto campagne di sensibilizzazione sui diritti delle donne nelle zone più povere; e ha
creato una commissione di investigazione sulle violazioni commesse dalla polizia di Ben Ali, con
particolare attenzione alle violenze subite dalle donne. In cooperazione con altre associazioni,
l’ATFD ha elaborato un progetto di costituzione per garantire l’eguaglianza di genere, con proposte
concrete da sottoporre all’attenzione dell’Assemblea Costituente e, nella fase pre-elettorale, ha
inviato diverse delegazioni di donne presso i partiti politici al fine di sensibilizzarli all’alternanza
uomo donna nelle liste elettorali (interviste dell’autore, Tunisi, settembre 2011).
In Egitto, la situazione appare molto più preoccupante. Le donne sono state completamente escluse
dai processi decisionali. Nessuna donna è stata nominata nella commissione di esperti incaricata di
emendare la costituzione nonostante il vice presidente della corte costituzionale sia una donna,
Tahani al Gebali. Soltanto una donna, tra l’altro legata al passato regime, Fayza Abul-Naga, ha fatto
parte dei primi due governi di transizione. Inoltre, differentemente dalla Tunisia, per l’Egitto, si
prevede che il numero di donne presenti in parlamento sarà molto basso. Il sistema di quote rose
introdotto sotto Mubarak nel 2010 è stato infatti abolito e, benché la nuova legge elettorale imponga
che ogni lista deve contenere almeno una donna, i partiti, con qualche eccezione, le hanno collocate
agli ultimi posti, dove le opportunità di essere elette si riducono notevolmente.211 Benché alcune
organizzazioni, quali la New Woman Foundation (NWF), Egyptian Center For Women's Rights
(ECWR) e Network of Women’s Rights Organisation (NWRO), si siano mobilitate contro la
persistente esclusione delle donne dai processi decisionali, per la dissoluzione del Consiglio
Nazionale delle Donne, organo controllato dall’ex regime, e contro le intimidazioni salafite, le loro
richieste sono rimaste completamente inascoltate.212 Queste associazioni, che si definiscono
apertamente femministe, hanno un scarso seguito nella società egiziana, e dunque hanno un potere
di contrattazione molto limitato nei confronti delle autorità di transizione. Inoltre le associazioni
femminili sono apparse divise su numerose questioni: sulle quote rosa; sul ruolo della legge
islamica nella futura costituzione; e sulla rilevanza da accordare alla questione dei diritti delle
208
Kristine Goulding, “Tunisia: Feminist Fall?” 25/10/2011 (http://www.opendemocracy.net/5050/kristine-goulding/tunisia-feministfall)
209
Magharebia 20/10/2011 (http://www.magharebia.com/cocoon/awi/xhtml1/en_GB/features/awi/features/2011/10/20/feature-02).
210
Tra queste: Collective Maghreb 25, International Federation of Human Rights presieduta da Souhayr Belhassen e Egalitè et Paritè.
211
“Which Egyptian parties represent women and Copts and young people? “, 15/11/2011
(http://democratizingegypt.blogspot.com/2011/11/which-egyptian-parties-represent-women.html)
212
Petizione firmata contro il comitato per la riforma della costituzione, che non include alcuna donna
(AWID,
http://www.awid.org/eng/Library/The-constitutional-committee-starts-working-while-neglecting-and-excluding-female-legalexperts); per la dissoluzione del Consiglio delle Donne, controllato dall’ex regime (http://www.wluml.org/node/7255); appello contro
gli emendamenti costituzionali che escludono le donne dalla presidenza (http://www.asafeworldforwomen.org/womens-rights/wregypt/589-statement-from-the-egyptian-centre-for-womens-rights.html); appello per l’assenza di donne tra i nuovi governatori
(http://www.awid.org/Library/The-Egyptian-Center-for-Women-s-Rights-Condemns-the-Exclusion-of-Women-from-BeingAppointed-as-New-Governors); contro le intimidazioni salafite (http://www.awid.org/News-Analysis/Women-s-Rights-in-theNews2/Press-Release-Egyptian-Center-for-Women-s-Rights-The-Law-of-the-Salafi-s-challenges-the-Law-of-the-State-and-terrifieswomen-in-Egypt).
60
donne nella fase post rivoluzionaria.213 Tali divisioni hanno dunque impedito che le diverse
associazioni femminili arrivassero ad elaborare una strategia comune e condivisa per fare pressioni
sulle autorità di transizione.
Le differenze tra la Tunisia e l’Egitto sono da attribuire ad una combinazione di fattori: la diversa
natura dei governi di transizione presenti nei due paesi; la diversa situazione legale e sociale della
donna nel periodo antecedente le rivoluzioni; ed infine una diversa configurazione del panorama
delle associazioni femminili durante i passati regimi. La Tunisia infatti presenta un contesto
relativamente più favorevole all’integrazione delle donne nel processo di transizione: la guida del
paese sin dall’inizio della transizione è stata in mano ad un governo di natura civile e non ad una
giunta militare; la società tunisina è relativamente ben istruita e, sin dal periodo post indipendenza,
è stata all’avanguardia rispetto agli altri paesi arabi per quanto riguarda la questione dei diritti delle
donne, a cominciare dal codice della famiglia promulgato nel 1956, che tra gli altri diritti, ha
concesso alle donne quello al divorzio e ha abolito la poligamia; ed infine, il movimento femminile
è relativamente più forte con una lunga storia di attivismo e di resistenza al passato regime, e molto
meno frammentato ideologicamente poichè Ben Ali, a differenza di Mubarak, represse
violentemente l’opposizione islamista.
Nei prossimi mesi, il rischio che la transizione politica in entrambi i paesi proceda nella direzione di
un peggioramento della situazione delle donne sul piano legale, economico e politico è elevato.
Anche in Tunisia, dove la situazione appare relativamente più favorevole, il processo di riforma
della costituzione sarà difficile e faticoso. Nonostante l’introduzione del sistema di quote femminile
nelle liste per l’Assemblea Costituente, le donne sono riuscite a conquistare un numero di seggi
inferiore alle aspettative, 55 su 217 seggi, corrispondente al 34% del totale. La presenza delle donne
è inoltre concentrata in un numero limitato di partiti. La maggior parte proviene naturalmente da al
Nahda (39 su 55 eletti), il partito che ha ottenuto il maggior numero di voti, ed il resto soltanto da
quattro partiti - Ettakatol (3 donne), il PDP (3 donne) ed il Pôle démocratique moderniste (2
donne). La seconda formazione politica dopo al Nahda, il CPR ha solo due donne. Questo significa
che, anche in una società come quella tunisina, esistono ancora forti resistenze alla presenza delle
donne in posti decisionali importanti.214
La presenza di donne nell’ampio spettro delle associazioni della società civile (sindacati, gruppi
giovanili, partiti politici, gruppi in difesa dei diritti umani, associazioni di imprenditori ecc) è
cruciale per promuovere un cambiamento di genere in queste strutture e nella società più in
generale. L’azione delle organizzazioni in difesa dei diritti delle donne nei prossimi mesi è
anch’essa fondamentale per far sì che le donne non vengano emarginate dalla fase di transizione
politica ed economica. Nei prossimi mesi, per esempio, quando verrà riformata la costituzione in
entrambi i paesi, le organizzazioni in difesa dei diritti delle donne, in collaborazione con altre
associazioni dei diritti umani, avranno il compito di supervisionare il processo di riforma
costituzionale, e sensibilizzare le forze politiche, l’opinione pubblica e gli osservatori
internazionali. L’azione delle associazioni femminili dovrebbe estendersi anche alla sfera delle
politiche economiche e sociali affinché i futuri governi integrino una prospettiva di genere. E’
interessante, in tal senso, il fatto che l’AFTD in Tunisia si sia posta come priorità per i prossimi
mesi proprio quella di allargare il suo raggio d’azione alla questione dei diritti sociali ed economici
delle donne. Tra le iniziative previste, ci sono: quella di creare un Osservario sull’Eguaglianza delle
Opportunità e della Cittadinanza che, tra le sue funzioni principali, abbia proprio quella di fare
lobbying sui governi e sulle istituzioni locali per politiche pubbliche sensibili all’eguaglianza di
genere; quella di realizzare dei centri locali per aiutare le donne a trovare un’occupazione; e di
sensibilizzare le donne ai loro diritti sociali ed economici, in primis quello sindacale (intervista
dell’autore, Tunisi, settembre 2011). Un maggior coinvolgimento delle associazioni femminili sulle
213
Per esempio sulla questione delle quote rosa, vedi “Sharaf seems responsive to women’s demands”, Pathways Middle East Hub.
(2011).
214
Kristine Goulding, “Tunisia: Feminist Fall?” 25/10/2011 (http://www.opendemocracy.net/5050/kristine-goulding/tunisia-feministfall)
61
questioni socio-economiche potrebbe richiedere tra le altre cose che queste comincino a cooperare
in maniera costruttiva con altri attori chiave della società civile, gruppi giovanili, sindacati e
associazioni di imprenditori.
Le organizzazioni si trovano comunque a dover affrontare numerose sfide, tra cui certamente un
contesto politico ostile, il loro scarso radicamento sul terreno, che le rende poco credibili, ed il
limitato coinvolgimento delle giovani generazioni. Una delle sfide più grandi è poi rappresentata
dalla forte frammentazione dell’associazionismo femminile, soprattutto su basi ideologiche e
programmatiche, che ha finora inibito la possibilità per le donne di costituire un movimento
compatto e credibile, più che mai necessario nella fase post-rivoluzionaria. Sebbene questo sia un
problema che finora ha riguardato soprattutto l’Egitto, anche in Tunisia il panorama
dell’associazionismo femminile potrebbe nel tempo divenire più frammentato ideologicamente, con
l’emergere di associazioni femminili collocabili nel quadro dell’Islam politico, finora assenti nel
paese ma adesso in fase di crescita. Comunque, non bisogna sottovalutare il ruolo che le donne
all’interno dei movimenti o partiti islamisti potrebbero svolgere nei prossimi mesi, soprattutto alla
luce del successo di al Nahda in Tunisia e di una possibile vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto.
Come è noto, la presenza femminile, soprattutto di giovani donne, in questi movimenti, sia alla base
che in posizioni di leadership, si è ampliata notevolmente negli anni (Pepicelli, 2010). E’
prevedibile che, nel mutato contesto politico, le donne di al Nahda si esprimano più esplicitamente
su alcune questioni rilevanti per i diritti delle donne, offrendo interpretazioni alternative o
discordanti da quelle maschili. Accanto a figure controverse come Suad Abdel Rahim, deputata
senza velo di al Nahda, criticata recentemetne per le sue affermazioni sulle donne madri, ci sono
altre donne del partito come Mehrezia Laabidi, eletta vice-presidente dell’Assemblea Costituente, e
nota per le sue interpretazioni riformiste dell’Islam e per aver criticato quelle più rigoriste.215
Iniziare un dialogo tra le donne di diversi orientamenti, secolariste e islamiste, potrebbe essere un
primo passo per rompere diffidenze reciproche e capire i punti su cui eventualmente poter
cooperare.
Tornando all’Algeria, la situazione delle donne non soltanto rimane preoccupante, ma per certi
aspetti sembra aver subito un’involuzione. Nell’ambito delle attese riforme politiche, il parlamento
ha rifiutato all’ultimo momento la controversa proposta contenuta nel progetto sulla legge elettorale
che proponeva una quota femminile del 30% nelle liste elettorali. Nel contesto della crescente
contestazione politica e sociale post primavera araba, la questione dei diritti delle donne sembra
essere passata in secondo piano nei programmi del governo, anche per evitare il rischio di
aggiungere instabilità alla già precaria situazione politica. Anche dal punto di vista delle
organizzazioni in difesa dei diritti delle donne, nulla è cambiato. Oltre ad operare in un contesto
autoritario, che ha ridotto al silenzio tutte le associazioni della società civile, le organizzazioni di
donne in Algeria rimangono particolarmente deboli. Oltre a condividere con Egitto e Tunisia, le
stesse debolezze su menzionate (divisioni ideologiche e assenza di ricambio generazionale) (Gray,
2009), le associazioni di donne in Algeria sono numericamente poche a causa della deciminazione
indotta dalla guerra civile, che spinse molte militanti di sinistra e leader femministe ad emigrare, e
hanno seri problemi di risorse materiali e finanziarie (interviste dell’autore, Algeri, ottobre 2011).
Inoltre, con qualche eccezione come Sos Femmes Detresse, la maggior parte di queste associazioni
è stata cooptata dal regime e dunque non intende rimettere in discussione lo status quo (Interviste
dell’autore, Algeri, ottobre 2011). Le prospettive per queste organizzazioni di aver un impatto sulla
vita politica e sulle questioni di genere rimangono quindi molto limitate.
215
Business News, 24-11-2011 (http://www.businessnews.com.tn/Tunisie---Mehrezia-La%C3%A2bidi-contre-les-niqab-et-lesbarbes-!,520,27826,1).
62
Conclusioni
Nell’ultimo ventennio, si è assistito in Algeria, Egitto e Tunisia ad un progressivo peggioramento
della situazione del mercato del lavoro e delle condizioni di vita di ampi strati della popolazione. La
disoccupazione tra i giovani istruiti e le donne ha registrato un aumento vertiginoso, mentre il
lavoro precario e in nero si è diffuso soprattutto tra i giovani. Nell’ultimo decennio, nonostante la
buona crescita economica, questi problemi si sono acutizzati. La crisi finanziaria mondiale ha
ulteriormente aggravato un quadro del mercato del lavoro già drammatico. Accanto a questo
deterioramento del mercato del lavoro, si è assistito ad una crisi profonda del sistema di welfare,
mentre il potere d’acquisto di una parte crescente della popolazione è diminuito a causa
dell’aumento dei prezzi dei beni alimentari e della stagnazione dei salari. Questi problemi, che sono
stati all’origine dell’ondata di proteste che ha scosso il Nord Africa, sono andati peggiorando nel
periodo successivo alle rivolte in Egitto e Tunisia, a causa delle ripercussioni negative delle
sollevazioni sulle economie interessate, delle risposte inefficaci dei governi di transizione, che
hanno riproposto le stesse ricette del passato, e delle incertezze che hanno accompagnato il
cambiamento politico. Anche se l’Algeria sembra godere, almeno nel breve termine, di una
situazione relativamente più favorevole rispetto a Tunisia e Egitto, nel lungo termine le misure
socio-economiche messe in atto dal governo algerino per contenere le proteste di gennaio non
affrontano i problemi strutturali del paese e appaiono difficilmente sostenibili.
I problemi sociali appena descritti sono stati il risultato di politiche pubbliche fallimentari e
inefficaci che non sono riuscite a generare uno sviluppo sostenibile, inclusivo e generatore di
occupazione. Nonostante la buona crescita economica e le riforme di mercato, le economie dei tre
paesi, pur con le importanti differenze documentate nel rapporto, continuano a soffrire di numerose
debolezze strutturali: la scarsa diversificazione, la dipendenza da fattori esogeni (rimesse, turismo,
esportazioni di idrocarburi ecc), la conseguente vulnerabilità agli shock esterni, e il basso livello di
investimenti privati, domestici e esteri. Anche laddove gli investimenti diretti esteri sono aumentati,
hanno generato poche opportunità di lavoro perché sono cresciuti in coincidenza con
l’accelerazione delle privatizzazioni o si sono rivolti a settori intensivi di capitale (es. idrocarburi).
A causa di queste debolezze, le economie dei tre paesi non sono riuscite a rispondere alla crescente
offerta di lavoro proveniente soprattutto da giovani istruiti e hanno generato per lo più opportunità
di lavoro mal pagate, precarie e adatte a manodopera poco qualificata.
Anche le politiche attive del mercato del lavoro messe in atto dai governi dei tre paesi si sono
rivelate inadeguate per risolvere i problemi del mercato del lavoro perchè spesso hanno offerto
soluzioni temporanee e precarie o finanziariamente insostenibili (nel caso dei programmi di
microcredito), oppure poco mirate. Infine, i progressivi tagli alla spesa sociale in settori chiave
come la sanità e l’istruzione hanno portato a un deterioramento della qualità dei servizi e della loro
effettiva copertura, con implicazioni sulla spesa delle famiglie, sul loro benessere e sulle prestazioni
del sistema universitario. A causa del peggioramento della qualità, il sistema pubblico universitario
ha prodotto una generazione di giovani laureati con competenze inadeguate per rispondere alle reali
esigenze del mercato, una delle cause dell’elevata disoccupazione giovanile.
Continuare a seguire le stesse politiche economiche e sociali inefficaci del passato non può che
portare ad un ulteriore e continuo peggioramento della situazione sociale dei tre paesi, con esiti
imprevedibili e catastrofici.
Per poter affrontare le drammatiche sfide sociali ed economiche evidenziate per i tre paesi, occorre
innanzitutto un profondo ripensamento della strategia di sviluppo verso un modello sostenibile
ed inclusivo, che si ponga i seguenti obiettivi:

Diversificare la struttura produttiva e il ventaglio dei partner commerciali, al fine di
garantire una crescita economica sostenibile, perché meno vulnerabile agli shock esterni, e
generatrice di opportunità di lavoro per giovani istruiti e qualificati.
63

Mettere l’agenda del lavoro dignitoso proposta dall’OIL al centro delle future politiche
economiche e delle politiche del lavoro per fermare la crescente precarizzazione e
informalizzazione del mercato del lavoro, che colpisce soprattutto i giovani. Per i governi in
carica, ciò significa creare nuova occupazione garantendo redditi dignitosi, stabilità e
protezione ai lavoratori, ratificare le Convenzioni Internazionali in materia di diritti dei
lavoratori, riformare la legislazione nazionale conformemente a tali Convenzioni e
garantirne l’effettiva applicazione, ed infine promuovere un dialogo sociale reale e
trasparente con tutti i rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori.

Migliorare il sistema pubblico dell’istruzione e della formazione professionale per adattarlo
alle reali esigenze del mercato, eventualmente favorendo una maggiore cooperazione tra
mondo universitario e imprese.

Integrare una prospettiva giovanile e di genere nelle politiche economiche e sociali a tutti i
livelli, privilegiando politiche macro-economiche che generino prospettive di lavoro non
precarie per i giovani, uomini e donne; creando strutture, a livello di ogni ministero, che
contribuiscano a incorporare tali prospettive nell’elaborazione delle politiche pubbliche,
oppure valutando l’impatto di genere e sui giovani delle misure economiche e sociali messe
in atto, incluse quelle che non si rivolgono specificatamente e direttamente a queste
categorie.

Migliorare la qualità e l’accesso dei servizi sociali nella direzione di un ampliamento della
copertura verso le regioni svantaggiate, i lavoratori nell’economia informale ecc. Ciò
richiede, tra le altre cose, una radicale riforma del sistema di tassazione per aumentare gli
introiti fiscali con cui finanziare la spesa sociale.

Favorire l’emergere di un settore privato autonomo e dinamico in modo da generare
maggiori opportunità di lavoro e contribuire al processo di diversificazione della struttura
produttiva. Ciò comporta la messa a punto di misure rivolte specificatamente alle piccole e
medie imprese, che rappresentano una parte consistente del tessuto produttivo dei tre paesi,
con l’obiettivo di facilitarne il graduale passaggio verso l’economia formale. E’ inoltre
necessario affrontare seriamente tutti quei problemi che hanno finora scoraggiato gli
investimenti locali, soprattutto da parte delle piccole e medie imprese, tra cui l’accesso al
credito bancario e la scarsa trasparenza delle istituzioni. Occorre poi ripensare il sistema
degli incentivi alle imprese, possibilmente agevolando quelle che decidano di operare nelle
zone più svantaggiate e creino opportunità di lavoro per manodopera qualificata,
adeguatamente remunerate e protette.
Un ripensamento delle strategie di sviluppo non può avvenire senza un reale cambiamento
politico. Le politiche pubbliche adottate finora nei tre paesi si sono rivelate inefficaci ad affrontare i
problemi socio-economici su esposti per ragioni di natura essenzialmente politica. Le riforme
economiche attuate nell’ultimo ventennio hanno offerto opportunità di arricchimento all’elite di
potere, ad una cerchia ristretta di imprenditori vicini ai regimi e, nel caso di Egitto e Algeria, anche
ai militari. Allo stesso tempo, tali riforme sono servite ai regimi al potere per cooptare importanti
segmenti del settore privato al fine di ampliare o rafforzare la loro base di consenso. In cambio di
sostegno politico, questi imprenditori hanno potuto perseguire i loro interessi economici nella più
totale assenza di trasparenza. Questo tipo di gestione economica, profondamente radicato in un
sistema autoritario e repressivo, ha impedito l’emergere di un settore imprenditoriale dinamico ed
indipendente realmente capace di generare opportunità di lavoro e un profondo cambiamento
economico, favorendo il dilagare della corruzione e delle pratiche predatorie, del nepotismo, ed il
perpetuarsi di inefficienze nell’economia.
64
Nel periodo-post rivoluzionario, in Egitto e in Tunisia, il fatto che i governi di transizione abbiano
esitato a rompere con il vecchio sistema di potere, anche se con differenze tra Egitto e Tunisia, ha
impedito un ripensamento profondo delle strategie di sviluppo. Anche nel caso dell’Algeria, è
evidente che, al fine di uscire dall’attuale crisi socio-economica, c’è bisogno di un profondo
cambiamento degli assetti politici ed istituzionali.
Un reale cambiamento politico è dunque condizione indispensabile per smantellare i passati
rapporti tra economia e politica, favorire progressivamente l’emergere di una classe di imprenditori
indipendenti e dinamici, e creare le condizioni affinché, contrariamente a quanto finora successo, la
nuova strategia di sviluppo sia il frutto di un processo condiviso, trasparente e partecipativo in cui
possano essere coinvolte le forze politiche e sociali nei tre paesi. Benché il futuro politico dei tre
paesi appaia più che mai incerto e pieno di incognite, la direzione che prenderà la transizione
politica in Egitto e in Tunisia, e lo scenario politico che si materializzerà in Algeria, saranno
determinanti nel definire l’entità e la natura del cambiamento economico.
Infine, il futuro ruolo della società civile e la sua effettiva capacità di influenzare i processi
decisionali contribuiranno a determinare la direzione del cambiamento nei tre paesi.
All’indomani della fuga di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto, la società civile ha subito una
vera e propria esplosione, con la legalizzazione di numerosi partiti politici, la nascita di molte altre
associazioni, tra cui i sindacati di lavoratori, e l’intensificarsi dell’attivismo giovanile. Anche in
Algeria, la primavera araba sembra aver dato un rinnovato impulso alla nascita di nuovi gruppi
giovanili e sindacati dei lavoratori nel settore privato, anche se il margine di azione della società
civile è rimasto molto limitato.
In Egitto e in Tunisia, il grande dinamismo della società civile che ha contraddistinto le prime fasi
post-rivoluzionarie ha potenzialità enormi per il futuro dei due paesi. L’emergere di organizzazioni
sindacali indipendenti e rappresentative potrebbe contribuire ad avviare un dibattito serio su come
affrontare le sfide socio-economiche, di breve e lungo termine, elaborare politiche sociali ed
economiche più inclusive e migliorare la condizione dei lavoratori. Allo stesso modo, l’apparire di
organizzazioni realmente rappresentative delle varie categorie di imprenditori e, diversamente dal
passato, autonome dal potere politico, potrebbe aiutare a far emergere le potenzialità del settore
privato e spingere i governi a elaborare politiche più sensibili alle esigenze delle piccole e medie
imprese anche nell’economia informale. In presenza di sindacati e organizzazioni di imprenditori
autonome e rappresentative, il dialogo sociale potrebbe rappresentare uno strumento efficace per
superare le tensioni sociali e costruire un consenso sulle politiche nazionali. Infine, una maggiore
presenza di giovani e donne nelle varie organizzazioni della società civile (sindacati, organizzazioni
di imprenditori, gruppi giovanili, partiti politici ecc) potrebbe favorire l’integrazione di una
prospettiva giovanile e di genere nelle future politiche economiche e sociali così come ridurre il
rischio che vengano emarginati dal processo di transizione politica.
Se il dinamismo della società civile scaturito dalla primavera araba si trasformerà o meno in una
reale opportunità di cambiamento dipenderà in parte da come evolveranno questi attori emergenti.
Affinché il pluralismo sindacale sia vantaggioso per i lavoratori, occorre che le organizzazioni
sindacali in Egitto e Tunisia diventino strutture forti, credibili, rappresentative e indipendenti. Per
quanto riguarda le associazioni di imprenditori, il processo di riorganizzazione ha proceduto molto
lentamente, soprattutto in Egitto, dove il panorama delle associazioni imprenditoriali ha continuato
ad essere dominato dalle stesse organizzazioni operanti all’epoca di Mubarak, legate al vecchio
sistema di potere. In Tunisia, benché ci siano stati alcuni segnali di cambiamento come mostra la
ristrutturazione interna all’UTICA e la nascita di CONECT, non è chiaro ancora quali saranno i
rapporti tra queste organizzazioni imprenditoriali e il potere politico e di quali interessi si faranno
realmente portavoce. Per entrambi i paesi, una questione importante è se i piccoli e medi
imprenditori riusciranno a organizzarsi per far sentire la loro voce. Infine, la capacità dei giovani di
influenzare il futuro del cambiamento politico ed economico nei due paesi in parte dipenderà dalla
misura in cui riusciranno ad organizzarsi in un movimento ben strutturato, con una chiara
65
leadership, un largo consenso e una strategia coerente di lungo termine e di ampio respiro, che
includa questioni non soltanto politiche ma anche economiche.
Per quanto riguarda l’Algeria, le prospettive per un cambiamento politico, e dunque anche
economico, dipenderanno da come evolverà la contestazione sociale in atto. Se l’azione dei
sindacati indipendenti e dei movimenti giovanili continuasse a crescere, le autorità algerine
potrebbero scegliere di avviare le riforme politiche attese, e dunque un cambio di rotta nelle
politiche economiche. Ma perchè ciò avvenga, occorre che le diverse forze sociali e politiche di
contestazione presenti nel paese superino divergenze e rivalità, convergendo in un fronte comune
contro il regime, così da creare una forte pressione interna al cambiamento.
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