VENEZIANI A COSTANTINOPOLI ALLA FINE DEL XVI SECOLO

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VENEZIANI A COSTANTINOPOLI ALLA FINE DEL XVI SECOLO
MARIA PIA PEDANI-FABRIS
VENEZIANI A COSTANTINOPOLI ALLA FINE DEL XVI SECOLO
Venerdì 24 muharrem 1004 (29 settembre 1595) il noto predicatore Mevlâna
Muhyiddin efendi, parlando nella moschea di Santa Sofia, tuonò che occorreva convincere
il sultano a precludere la conduzione dello stato alle donne e che, se ciò non fosse avvenuto
in breve tempo, ne sarebbe conseguita sicuramente la rovina dell’Impero.1
Circa nove mesi erano passati dalla morte di Murad III, quando per le vie della
capitale si era visto passare il lunghissimo e mesto corteo formato dalle quaranta favorite
del defunto che, con i loro servi e le loro masserizie, lasciavano il Serraglio; altre sette,
gravide, erano state appena uccise assieme ai diciannove fratelli del nuovo sovrano,
Mehmed III. Più di millecinquecento persone avevano abbandonato in quei giorni il
Palazzo, ma il modo di far politica non era cambiato. Si era allora nel pieno di quel periodo
che la penna di Ahmed Refik definì con felice espressione kadınlar saltanatı (il sultanato
delle donne), influenzando con la sua visione misogina gli storici che vennero dopo di lui.
Effettivamente tra la metà del Cinquecento e quella del Seicento l’harem imperiale, con i
suoi intrighi e i suoi personaggi che agivano all’ombra del sultano, fu spesso in grado di
controllare il governo. Per fare politica non era più sufficiente agire in un mondo
esclusivamente maschile; occorreva bensì rivolgersi a nuovi e potenti intermediari: in
primo luogo alla sultana vâlide, la madre del sovrano regnante, poi a tutta una cerchia di
donne, convertite, musulmane ed ebree, oppure a eunuchi, buffoni e nani, che tenevano i
contatti tra l’interno del Serraglio e quanti ne vivevano al di fuori. Con la morte di Nur
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Archivio di Stato di Venezia (in seguito ASVe), Senato, Dispacci Costantinopoli (in seguito
SDC), filza 42, nº 10 (30 set. 1595); lo stesso fecero anche molti altri predicatori tra cui anche
i famosi Sunullah efendi nel 1597 ed Emir efendi nel 1602; alla fine del 1597 Çiğalazade
Sinan paşa disse invece al sultano stesso che, se voleva comandare, non doveva seguire i
consigli delle donne, neppure di sua madre, attirandosi in tal modo l’odio della sultana. ASVe,
SDC, reg. 11 copia, c. 153 (26 apr. 1597/II); c. 154v (10 mag. 1597/II); c. 234 (1 gen. 1597);
filza 55, nº 19 (7 lug. 1602); Selānikī Mustafa Efendi, Tarih-i Selānikī, hazırlayan M. İpşirli,
İstanbul 1989, p. 510. Sui medesimi concetti presenti in altri autori dell’epoca, cfr. Mustafa
Ali, Künh ül-ahbar, I, İstanbul 1277 (1860-61), p. 34; Mustafa Ali, Künh ül-ahbar,
Nuruosmaniye Kütüphanesi, ms. 3406, cc. 126v, (l’opera di Ali è solo in parte edita); M.
İpşirli, Hasan Kafī el-Akhisarī ve Devlet Düzerine ait Eseri Usūlü’l-hikem fī Nizāmi’l-Alem,
«Tarih Enstitüsü Dergisi», 10-11 (1979-1980), pp. 239-278, in particolare p. 250.
QSA, 15 (1997) Suppl., pp. 67-84
Veneziani in Levante, musulmani a Venezia
Banu,2 madre di Murad III, avvenuta il 7 dicembre 1583, quella ragnatela di conoscenze e
appoggi, intessuta pazientemente nel corso degli anni da quanti, come gli ambasciatori
esteri, vivevano intorno a quel mondo, sembrò improvvisamente crollare. Occorreva
avvicinare persone diverse e cercare nuovi, credibili e capaci intermediari. In tal senso si
mosse dunque il bailo veneziano Giovanni Francesco Morosini che fino ad allora si era
servito solo di Esther Handali, la kira ebrea di Nur Banu, per raggiungere con petizioni e
appelli le stanze più recondite dell’harem.3
Negli stessi giorni in cui moriva Nur Banu si trovava a Costantinopoli anche una
veneziana che sembrava poter diventare un importante tramite con chi abitava nel
Serraglio. Si trattava di Franceschina Michiel, la madre del kapıağası, il potente capo degli
eunuchi bianchi, la massima autorità dopo il sultano in quel mondo autonomo rispetto al
resto dello stato che era il Serraglio. La storia di questi personaggi appare triste e al tempo
stesso esemplare di quella di tante altre persone strappate con violenza al proprio ambiente
e agli affetti familiari nella realtà di quella guerra spesso non dichiarata, ma interminabile e
sanguinosa, che fu la guerra di corsa. Venticinque anni prima, nel 1559, Franceschina
Michiel era stata catturata con i suoi quattro figli, ancora bambini, mentre si recava a
Budua per raggiungere il marito che serviva in quel piccolo avamposto come cancelliere
del podestà veneziano Giuseppe Bollani.4 Ella riuscì a riscattare sé stessa e le due figlie ma
le fu impossibile liberare anche i due maschi, che erano stati portati nel palazzo imperiale.
Infatti nessuno schiavo del sultano poteva essere riscattato e anche chi tra loro accedeva
alle massime cariche dello stato non si affrancava per questo dalla condizione servile; solo
la fuga avrebbe permesso di riconquistare la libertà e rivedere la patria. Non fu questo il
caso dei due giovanissimi veneziani che, convertitisi, assunsero i nomi di Cafer e
Gazanfer.5 Essi salirono velocemente i gradi della gerarchia interna al servizio del principe
Selim, il figlio di Solimano il Magnifico, che, succeduto al padre nel 1566, li invitò a
entrare nel servizio interno del Palazzo (enderun), cosa che avrebbero potuto fare, avendo
ormai raggiunta la pubertà, solo diventando eunuchi. Gazanfer aveva allora circa diciotto
anni mentre di Cafer non si hanno notizie precise. Gli storici ottomani dicono che
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A. Refik, Kadınlar Saltanatı, İstanbul 1332 (1913-14), pp. 94-112; (M.)Ç. Uluçay,
Padışahların kadınları ve kızları, Ankara 1985, pp. 38-44; P. Tuğlacı, Osmanlı saray
kadınları, İstanbul 1985, pp. 318-319.
Kira (dal greco, signora) era l’appellativo attribuito a quelle ebree che, legatesi a una sultana,
tenevano per lei i contatti con chi viveva fuori dalle mura dell’harem imperiale. İ.H.
Uzunçarşılı, Osmanlı tarihi, Ankara 1982, III/1/3, pp. 121-122; III/2/3, p. 138; S.A. Skilliter,
The letters of the Venetian ‘Sultana’ Nūr Bānū and her Kira to Venice, in Studia turcologica
memoriae Alexii Bombaci dicata, Napoli 1982, pp. 515-536.
ASVe, Segretario alle voci, Maggior Consiglio, reg. 3, c. 156; Relazioni di ambasciatori
veneti al Senato, XIII: Costantinopoli (1590-1793), a cura di L. Firpo, Torino 1984, p. 361;
Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, XIV: Costantinopoli, Relazioni inedite (15121789), a cura di M.P. Pedani-Fabris, Padova 1996, p. 346.
ASVe, Senato, Deliberazioni Costantinopoli, filza 6 (29 dic. 1584).
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quest’ultimo morì in seguito all’operazione, mentre dalle fonti veneziane sembra che fosse
ancora vivo nel febbraio 1577 quando il fratello ottenne l’importante carica di odabaşı del
sultano, e che la sua morte avvenisse poco prima del 1583.6 Finora tutti hanno sempre
concordemente affermato che i due fratelli erano ungheresi anziché veneziani; l’equivoco
nacque probabilmente verso il 1596, quando tale appellativo venne attribuito, in senso
dispregiativo, a Gazanfer dai suoi nemici, che lo accusavano di aver convinto il sultano,
durante la guerra d’Ungheria, a fuggire su un cocchio disperando della presa della città di
Eger.7
Gazanfer, che riunì in sé le cariche di odabaşı e kapıağası, si mantenne al potere per
circa trent’anni, più a lungo di qualsiasi gran visir. Nonostante il cognome Michiel,
appartenente anche a una famiglia patrizia veneziana, la professione di suo padre,
cancelliere, fa ritenere che fosse un cittadino, appartenesse cioè a quella classe posta tra la
nobiltà e il popolo da cui uscivano i maggiori burocrati della Repubblica. Solo la relazione
del bailo Matteo Zane del 1594 lo dice nativo di Chioggia, piccola città posta ai margini
della laguna, cosa non impossibile per il figlio di un funzionario dell’amministrazione
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ASVe, SDC, filza 9, nº 78 (24 feb. 1577/II). Il precedente odabaşı (letteralmente ‘capo della
camera, una delle cariche più importanti del Serraglio) era stato privato della carica perché gli
erano stati trovato addosso 45.000 ducati di cui non aveva saputo spiegare la provenienza. Cfr.
anche ASVe, Senato, Deliberazioni Costantinopoli, filza 6. A leggere i dispacci veneziani
sembrerebbe quasi che il figlio di Franceschina Michiel, divenuto odabaşı nel 1577, fosse poi
morto nell’ottobre 1582 quando il fratello era già capo degli eunuchi bianchi. Infatti quando
Gazanfer morì, nel 1603, il bailo scrisse che egli era kapıağası e odabaşı da ventidue anni.
ASVe, Consiglio di dieci, Dispacci ambasciatori, filza 5 (13 ott. 1582); SDC, filza 56, nº 26
(9 gen. 1603/I). Leopold Ranke, basandosi sulla relazione di Matteo Zane del 1594, fu l’unico
ad affermare che Gazanfer era veneziano, L. Ranke, Fürsten und Völker von Süd-Europa im
sechszehnten und siebzenten Jahrhundert, I, Hamburg 1827, p. 58 e n. 2.
Mustafa Ali, Künh ül-ahbar, ms., cc. 290-290v. Peçevi e Naima raccontano la presa di Eger
sottolineando come il sultano, pur sfiduciato, non abbandonò il campo di battaglia ma, spinto
dalle parole dell’hoca (maestro) Sadeddin «la pazienza è seguita dalla vittoria e alla cosa
difficile succede quella facile», riprese coraggio e partecipò alla battaglia. Comunque il vero
vincitore di Eger fu Çiğalazade Sinan paşa, che attese, nascosto con pochi uomini, che il
nemico si impadronisse del campo ottomano e poi, approfittando dell’euforia del saccheggio,
lo assalì e lo mise in fuga. Secondo il racconto di Ali ağa, presente ai fatti, fu Sinan paşa
stesso a rincuorare il sultano che gridava aiuto. Il fethname (‘lettera annunciante vittoria’) per
la presa di Eger è ancora conservato a Venezia, ASVe, Documenti turchi, nº 1091; si tratta del
secondo documento scritto in tale occasione, in quanto la troppa enfasi posta sull’intervento di
Çiğalazade Sinan paşa in quello scritto subito dopo la battaglia costò il posto al nişacı (capo
della cancelleria), Lam Ali çelebi, come concordemente affermano fonti turche e veneziane;
cfr. ASVe, SDC, copia reg. 11, c. 162 (23 nov. 1596); c. 183 (5 dic. 1596); c. 207 (25 dic.
1596, secondo quanto detto dal gran visir İbrahim paşa al bailo); İbrahim Peçevi (Peçuyi),
Tarih-i Peçevī, 2 voll., İstanbul 1271 (1854-1855), II, pp. 200-201; Mustafa Naima, Tarih, 6
voll., İstanbul 1280 (1863-1864), I, p. 173; İpşirli, Hasan Kafī, p. 275; M.P. Pedani-Fabris,
Ottoman Fethnames. The imperial letters announcing a victory, «Tarih Incelemeleri Dergisi»
(in corso di stampa).
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veneziana, e che si può forse collegare con la cattura, avvenuta proprio nel 1559, di vari
abitanti di quella zona. Quanto a sua madre, Franceschina Michiel, è descritta come
«honestissima et valorosissima gentildonna», mentre lo stesso Gazanfer figura nei dispacci
dei rappresentanti diplomatici veneziani come un uomo freddo e chiuso, molto attento a
non apparire amico della Repubblica, per non essere accusato di mantenere ancora legami
con l’antica patria.8 È soprattutto il sincero e ingenuo storico ottomano Mustafa Ali a
parlare bene di lui, additandolo come un generoso protettore di poeti e dotti, colui che
«sebbene fosse spento il lume della sua forza virile, accese molte chiare lampade, con
l’aver incoraggiato la produzione di libri utili, la cui luce risplende ancora oltre la tomba;
egli lasciò tali monumenti che porteranno la sua memoria ai posteri in modo molto più
durevole di una schiera di figli». Tra l’altro fu proprio Gazanfer a promuovere la
traduzione in turco della opera geografica di Abū Zayd Aḥmad ibn Sahl al-Balḫī, le Ṣuwar
al-Aqālīm. Come kapıağası egli fu una delle massime autorità dello stato ottomano, pari
nel rango ai visir; nelle cerimonie era preceduto solo dal gran visir e dallo şeyhülislâm, il
gran muftì di Costantinopoli; solo lui assieme al sultano sapeva con esattezza il numero
delle giare, ripiene di monete d’oro chiuse e bollate con il suo sigillo, sepolte nei
sotterranei del tesoro interno, la riserva aurea cui si faceva ricorso nei momenti più tragici
per l’impero, quando le casse dello stato erano ormai prosciugate. Mantenne sempre un
grande potere a causa del favore dei sultani, anche se la sua autorità sull’harem subì una
drastica limitazione nel 1585, quando l’eunuco nero Habeşi Mehmed ağa riuscì a
prevalere. In ambito politico la protezione di Gazanfer permise a molti di fare carriera,
mentre la sua opposizione relegò altri nell’ombra. Per esempio fu lui a sostenere un altro
veneziano Hasan (Andrea Celeste) e a difenderlo contro il kapudan paşa Uluç Ali,
comandante in capo della flotta ottomana, cui era destinato a succedere, e fu sempre lui,
assieme ai suoi alleati lo şeyhülislâm Sadeddin efendi, l’agà dei giannizzeri Tırnakcı Hasan
ağa e la sultana Safiye, a causare nel 1598 la rovina del gran visir Hadım Hasan paşa.9
Si capisce dunque come poter essere in contatto con la madre di un sì grande
personaggio avrebbe potuto essere rilevante per il bailo veneziano, alla ricerca di nuovi e
autorevoli agganci all’interno del Serraglio. In realtà sembra che Franceschina Michiel non
abbia approfittato della sua posizione di favore; anzi, dopo aver riabbracciato il figlio tornò
a Venezia dove rimase fino al 1590. Lo scarso attivismo dimostrato dalla Michiel è
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ASVe, SDC, filza 2/B nº 91 (31 dic. 1559, le donne di Chioggia supplicano il doge di
intervenire per ottenere la liberazione dei loro mariti); filza 18, nº 26 (13 dic. 1583); filza 20,
nº 7 (18 set. 1584); nº 13 (2 ott. 1584); nº 30 (11 dic. 1584); nº 54 (9 feb. 1585); nº 60 (6 feb.
1585). Relazioni di ambasciatori, XIII, p. 437; Relazioni di ambasciatori, XIV, pp. 417-419.
Mustafa Ali, Künh ül-Ahbar, ms., cc. 290-292; İ.H. Uzunçarşılı, Osmanlı devleti teşkilâtına
mehdal, İstanbul 1941, pp. 354-355; İ.H. Uzunçarşılı, Osmanlı Devletinin ilmiye teşkilâtı,
Ankara 1988, p. 63; İ.H. Uzunçarşılı, Osmanlı Tarihi, III/2/3, pp. 357-358; Mehmed ağa, capo
degli eunuchi neri, morì nel 999/1590-1591, Selānikī, Tarik, pp. 229-230; Tuğlacı, Osmanlı
saray kadınları, pp. 325-326. Su Hasan paşa cfr. l’articolo di Antonio Fabris in questo stesso
volume.
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sottolineato dal fatto che il Senato le concesse, sempre nel 1584, solo la rendita di un
ufficio del valore di dieci ducati l’anno. Ben diverso fu il trattamento riservato a chi agiva
fattivamente a favore della Repubblica, come a Esther Handali, che teneva allora i contatti
tra l’harem e il mondo esterno, e che ottenne per suo figlio Salomone la concessione di
poter effettuare a Venezia un’importante vendita di pietre preziose. Safiye, dopo un primo
momento di riorganizzazione dell’harem, seguìto alla morte di Nur Banu, aveva
evidentemente trovata importante la collaborazione di questa ebrea, considerata da tutti
come generosa e affidabile, nonostante fosse una delle creature di sua suocera. La sua
morte avvenne, tra il cordoglio della sultana e di quanti aveva aiutato, nel dicembre del
1588. Per un po’ suo figlio cercò di sostituirla come intermediario, ma senza buoni risultati
in quanto non all’altezza della madre e per di più non certo aiutato dalla fortuna; infatti la
sua casa andò bruciata nel grande incendio di Costantinopoli dell’aprile 1589, e lui stesso
morì poco dopo, verso la fine di maggio del 1590.10
Dopo la morte della kira tutti si affrettarono a cercare nuovi e affidabili intermediari.
Süleyman ağa, il muto della sultana, venne inviato più volte alla casa bailaggia, qualche
volta accompagnato dall’amico, pure muto, al servizio del principe Mehmed. Molti
messaggi furono poi portati da Pietro Bragadin fu Giovanni, che risiedeva a Costantinopoli
da vari anni, conosceva bene il turco e come mercante poteva liberamente conversare con
quelli che vivevano nel Serraglio.11 Comunque, oltre al kapıağası, un altro suddito veneto
viveva nel Palazzo e ricopriva un posto di un certo rilievo. Si trattava dello zaratino Ömer
ağa,12 anche lui eunuco, che proprio in questo periodo si fece vivo con il bailo per ottenere
che la sorella e il cognato, il bombardiere Francesco Cievalelli da Pago, potessero
raggiungerlo; sua madre viveva già a Costantinopoli, a casa del kapıcıbaşı (capo degli
usceri del Palazzo) Mustafa ağa, nipote di Çiğalazade Sinan paşa, e si era già convertita,
anche se in segreto, all’Islam. Con lei era giunta anche un’amica, che pure si era fatta
musulmana, assieme al figlio, Paolo da Zara che, arrivato con grandi speranze di fortuna,
aveva però rifiutato di abbandonare la fede, minacciando di suicidarsi se vi fosse stato
costretto; poco tempo dopo fece ritorno nella sua città, libero ma povero com’era partito,
senza i tesori sognati.13
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ASVe, SDC, filza 28, nº 31 (27 nov. 1588/II); nº 41 (19 dic. 1588/IV); filza 29, nº 14 (12 apr.
1589); filza 31, nº 24 (26 mag. 1590/I). Salomon di Ceres, nei documenti veneziani, in quanto
originario di Jerez de la Frontera in Spagna. Cfr. S.A. Skilliter, The letters of the Venetian
‘Sultana’, pp. 517-536.
ASVe, SDC, filza 30, nº 32 (6 gen. 1590/I); nº 33 (6 gen. 1590/II); filza 31, nº 1 (3 mar.
1590/I); filza 32, nº 11 (18 set. 1590); nº 14 (29 set. 1590/III); filza 39, nº 1 (12 mar. 1594).
Pietro Bragadin lasciò Costantinopoli nel 1594.
Relazioni di ambasciatori, XIV, p. 420.
ASVe, SDC, filza 29, nº 46, (7 lug. 1589/III); filza 30, nº 35 (6 gen. 1590/IV); filza 32, nº 3 (2
set. 1590/III); filza 32, nº 14 (29 set. 1590/III). Cfr. anche filza 56, nº 22 (28 dic. 1602/II),
dove si parla di un’altra veneziana, sorella di un Michiel, tenuta come moglie dal secondo visir
Mahmud paşa.
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In un mondo in cui l’elemento femminile era relegato a funzioni di secondo piano
può essere interessante trovare anche sia pur esigue notizie riguardo a donne che da
cristiane divennero musulmane. È già più facile rintracciare quante seguirono la via
opposta come, per esempio, quella turca figlia di un notabile di Castelnuovo, presso
Ragusa, che, rapita e poi sposata dal corsaro genovese Visconte Cigala, prese il nome
cristiano di Lucrezia e fu la madre di Scipione che, catturato ragazzo dai barbareschi,
convertito all’Islam e cresciuto nel Serraglio, divenne il famoso comandante della flotta
ottomana Çiğalazade Sinan paşa.14 Queste notizie rivestono poi un maggiore interesse se
riguardano donne che gravitarono attorno ai centri del potere e che svolsero un loro ruolo,
anche se marginale, nella grande politica internazionale della fine del Cinquecento. Vi
furono dunque suddite della Repubblica, in particolare appartenenti alle famiglie di
Gazanfer e di Ömer ağa, che arrivarono a Costantinopoli nell’ultimo decennio del secolo,
proprio quando il periodo del cosiddetto ‘sultanato delle donne’ raggiungeva l’apogeo,
frequentarono l’harem imperiale, ebbero libero accesso al Serraglio presso i loro figli o
fratelli, in alcuni casi si convertirono di buona o mala voglia all’Islam, e comunque tennero
sempre contatti con il bailo veneziano, fungendo spesso da tramite tra l’interno e l’esterno
del Palazzo.
Così nel settembre 1590 giunse a Costantinopoli la sorella di Ömer ağa con il
marito, e fu accolta da un çavuş (militare con funzioni, tra l’altro, di messaggero) e
accompagnata su un cocchio chiuso dalla madre a casa di Mustafa ağa. Entro tre giorni era
già ‘turca’, come si diceva allora dei rinnegati, mentre il marito venne picchiato e lasciato
tre giorni senza mangiare perché, a suo dire, non aveva voluto abiurare: d’altro canto Ömer
meditava di far sposare la sorella, il cui matrimonio cristiano ormai non aveva più per lui
alcuna validità, con qualche importante funzionario della Porta, forse addirittura un
sangiacco, così da rafforzare la sua posizione con parentele altolocate. A casa, a Zara,
restavano le tre figlie della coppia. Comunque, nonostante i suoi pianti, le sue fughe alla
casa del bailo, le malattie vere o presunte che sembra lo abbiano portato in punto di morte,
Francesco Cievalelli non rinunciò alla moglie facendosi alla fine anche lui ‘turco’,
prendendo il nome di Yusuf e ottenendone in cambio un ufficio di çavuş e un tımar (specie
di feudo) del valore di 500 scudi di rendita posto presso i confini. Fu anche incaricato di
alcuni sopralluoghi in Dalmazia, per riferire poi sul problema dei pirati uscocchi che
cominciavano allora a infestare quei mari. La sua carriera andò di pari passo con quella del
cognato che divenne nel febbraio 1597 ağa del Serraglio, un’alta carica tra gli eunuchi. La
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İ.H. Uzunçarşılı, Osmanlı Tarihi, III/2, Ankara 1954, pp. 235; 354-357; V.J. Parry, Âighālazāde Yūsuf Sinān pāshā, in Encyclopedia of Islām, II, Leiden 1983, pp. 33-34; G. Benzoni,
Cicala, Scipione, in Dizionario biografico degli italiani, 25, Roma 1981, pp. 320-340; G.
Benzoni, Cicala, Visconte, in ibidem, pp. 340-346; M. Tayyib Gökbilgin, Ciğala-zâde, in
İslâm Ansiklopedisi, 3 cilt, İstanbul 1977, pp. 161-164 e bibliografia ivi citata; Kātip Çelebi,
Tuhfetül-Kibar fī esfari’l-bihar, hazırlayan O.S. Gökyay, İstanbul 1973, pp. 147-148, 209; S.
Eyice, Trakya’da meydan şadırvanları, in Mansel’e Armağan, Ankara 1974, pp. 831-845.
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madre di Ömer morì di peste, sembra con animo cristiano, alla fine di settembre del 1598.
Le nipoti rimasero invece in patria; di due non si hanno altre notizie, mentre la terza, di
nome Gerolama, fu sottratta dalla Repubblica a un tentativo di rapimento da parte dello zio,
portata a Venezia nell’ospizio delle Zitelle e quindi incoraggiata a entrare nel monastero
del Corpus Domini, nonostante Ömer la volesse presso di sé, e pensasse di maritarla con il
cristiano Marco Cercel, reggente di Moldavia (Bogdania), un parente del nobilhomo
veneziano Giovanni Zane; questo principe, promettendo di sposarla, prese anche una
notevole somma di denaro da Ömer ağa come anticipo della dote, ma poi, quando le nozze
andarono a monte, non la restituì; l’ağa divenne allora suo nemico e cominciò a proteggere
il suo rivale Geremia Movila, pretendente al trono di Moldavia, che riuscì infatti a
insediarsi nel principato.15
Nello stesso settembre 1590, giunse nuovamente a Costatinopoli anche Franceschina
Michiel assieme al genero Giovanni Zaghis, secondo marito di sua figlia Beatrice, che era
rimasta a Venezia con i due giovani figli di primo letto. Furono accolti con grande onore e
condotti nel palazzo, abitato da più di cento schiavi e schiave, appartenente al kapıağası
che, per far sfoggio di importanza li ricevette solo otto giorni dopo il loro arrivo. Nello
stesso tempo, forse spinto dall’esempio di Ömer e di un altro importante rinnegato, il
silahdar (portaspada) del sultano Halil ağa, originario d’Ancona,16 anche il kapıağası
cominciò allora a far pressioni sulla madre perché si convertisse e la fece incontrare in
Serraglio con la madre di Ömer. Le sue speranze però naufragarono ben presto; infatti le
due donne cominciarono a litigare furiosamente: Franceschina Michiel accusò l’altra di
aver rinunciato alla fede, a più di sessant’anni, e aver costretto la figlia a fare lo stesso; la
madre di Ömer le rispose per le rime, tanto che i presenti dovettero intervenire per
separarle. Un’altra lite in Serraglio doveva coinvolgere, alcuni anni dopo, ai primi di
dicembre 1596, proprio la figlia di Franceschina, Beatrice, e Speranza Malchi, la nuova
kira dell’harem. Questa volta però fu presente la stessa Safiye che sentì dunque la
veneziana difendere con fervore la Repubblica dalle accuse avanzate dall’ebrea.17
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ASVe, SDC, filza 31, nº 52 (18 ago. 1590/III); filza 32, nº 3 (2 set. 1590/III); nº 8 (15 set.
1590/II); nº 14 (29 set. 1590/III); nº 27 (10 nov. 1590/II); filza 33, nº 8 (30 mar. 1590/II); nº
53 (24 ago. 1591/I); filza 38, nº 34 (1 gen. 1593); ASVe, SDC, copia reg. 11, c. 167 (10 lug.
1597/II); c. 274 (15 feb. 1597) ; copia reg. 12, cc. 191v (28 gen. 1598), cc. 205-210 (28 gen.
1598); c. n.n. (24 feb. 1598); filza 47, nº 18 (30 mag. 1598); filza 50, nº 27 (10 gen. 1599/I);
filza 55, nº 19 (7 lug. 1602).
Nel 1591, quando cercò di diventare agà dei giannizzeri, costui aveva circa quarant’anni e da
ventisette serviva il sultano; egli aveva fatto convertire la madre e un suo nipote che lo
avevano raggiunto a Costantinopoli; l’anno seguente fu sostituito; ASVe, SDC, filza 32, nº 27
(10 nov. 1590/II); nº 28 (10 nov. 1590/III); filza 33, nº 1 (2 mar. 1591); nº 27 (1 giu. 1591/II);
filza 35, nº 25 (18 apr. 1592/V).
ASVe, SDC, filza 32, nº 14 (29 set. 1590/III); copia reg. 11, c. 181 (5 dic. 1596); J.H.
Mordtmann, Die jüdischen Kira im Serai der Sultane, «Mitteilungen des Seminars für
Orientalische Sprachen», 32 (1929), pp. 1-38; S.A. Skilliter, Three letters from the Ottoman
73
Qualche episodio della vita nell’harem dei sultani riesce alle volte a trapelare anche
tra le carte più ufficiali, come, per esempio, alcune tragiche storie, che, se conosciute,
avrebbero sicuramente trovato posto in qualche romanzo ottocentesco d’ambiente orientale.
Ai primi di ottobre del 1591, per esempio, il nano Kurt ağa, favoritissimo del sultano,
sebbene eunuco «del tutto tagliato», si innamorò della più bella fanciulla dell’harem e
vedendola parlare con un altro nano, pure eunuco, preso da gelosia, la uccise con una
pugnalata; per simile delitto il giorno dopo venne segretamente annegato. Ai primi di luglio
del 1596 fu invece il sultano stesso che uccise con il pugnale una sua favorita che, ligia agli
ordini di Safiye, cercava di trattenerlo dal partire per la guerra. Infine nell’ottobre 1594 si
trovarono in momenti diversi, dietro il cortile del divano, i corpi senza vita di un ebreo, di
un armeno e di una donna; dopo molte ricerche si scoprì che l’assassino era un baltacı
(alabardiere), che aveva ucciso per appropriarsi di denaro e gioielli.18
Franceschina Michiel non tornò più a Venezia, morendo improvvisamente il 27
dicembre 1591, lo stesso giorno in cui arrivò a Costantinopoli la figlia Beatrice. Gazanfer
l’aveva voluta a tutti i costi presso di sé e aveva mandato a Venezia il genero, assieme al
dragomanno veneziano Mateca Salvago, a prenderla. Tutti sapevano che l’intento del
kapıağası era quello di convertire la sorella e di darla in sposa a qualche importante
personaggio, in modo da stringere dei nuovi legami politici. Giovanni Zaghis, il secondo
marito di Beatrice, pensò bene di restare nella città lagunare, senza tuttavia impedire alla
moglie di partire. Pochi mesi dopo la donna fu costretta ad abiurare; vari personaggi si
fecero allora avanti per sposarla, primo fra tutti Memi Corso, già pascià di Tripoli di
Barberia, che aveva già sposato la figlia del kapudan paşa Hasan, detto il Veneziano, e che
sperava con questo nuovo matrimonio di ottenere la carica del suo defunto suocero.
Gazanfer alla fine scelse un sipahi circasso appena uscito dal Serraglio, di nome Ali ağa, in
modo da avere come cognato una persona fidata, che a lui doveva tutto. Da questo
momento in poi Beatrice, tenuta chiusa nel Serraglio o nei palazzi del fratello e del marito,
divenne la confidente del bailo veneziano. A questo scrisse lettere struggenti in cui
chiedeva di proteggere i suoi due figli, rimasti a Venezia, sia da Zaghis, pronto ad
approfittare di ogni occasione per arricchirsi, che dalle mire del fratello che li voleva a
Costantinopoli. Nel contempo però, introdotta anche nelle stanze più segrete dell’harem,
era in grado di fornire precise e preziose informazioni su quello che si discuteva e decideva
nelle più alte sfere dello stato.19 Così, ancora una volta, i documenti veneziani risultano più
18
19
‘Sultana’ Ṣāfiye to Queen Elizabeth I, in Documents from Islamic Chanceries, ed by S.M.
Stern, Oxford 1965, pp. 119-157; L.P. Peirce, The Imperial Harem. Women and Sovereignty
in the Ottoman Empire, New York-Oxford 1993, p. 242.
ASVe, SDC, filza 34, nº 8 (5 ott. 1591); filza 43, nº 25 (6 lug. 1596); filza 41, nº 12 (27 ott.
1594).
ASVe, SDC, filza 32, nº 36 (22 dic. 1590/III); filza 33, nº 25 (26 mag. 1591); nº 27 (1 giu.
1591/II); filza 34, nº 20 (2 nov. 1591); nº 38 (28 dic. 1591); filza 35, nº 68 (10 ago. 1592/II);
filza 37, nº 9 (11 apr. 1593); nº 30 (6 giu. 1593/I); nº 34 (21 giu. 1593/II, sue lettere al bailo in
74
particolareggiati e precisi delle cronache ufficiali. I baili infatti, informati non solo delle
decisioni prese ma spesso anche di desideri, odi o simpatie, erano interessati a riferire ogni
minimo dettaglio e non dovevano sottostare in questo campo ad alcuna censura; gli storici
ottomani invece, quand’anche fossero stati a conoscenza di avvenimenti e retroscena, non
sempre potevano raccontare ai contemporanei e ai posteri quanto sapevano.
Per difendere i figli dal marito Beatrice dunque nominò loro tutori due nobili
veneziani, Antonio Morosini e Agostino da Ponte, incaricati anche di amministrare le
grosse somme che inviava loro e la rendita che avevano di una grazia concessale dalla
Repubblica, che per compiacerla aveva anche saldato un debito di 400 ducati contratto dal
suo primo marito Angelo Bianchi (o Bianco). L’invio di migliaia di ducati a Venezia fu
comunque effettuato con l’assenso del fratello, che vedeva in ciò un modo per mettere al
sicuro quei denari che a Costantinopoli erano sempre in pericolo di confisca. A questo
proposito appaiono interessanti i contatti che Gazanfer stesso ebbe, poco prima della morte
del sultano Murad III, con il bailo. L’intento era quello di depositare tutti i suoi capitali
nella Zecca veneziana. L’operazione poi non andò in porto per il timore di essere scoperto,
però da tali passi risulta chiaro come uno dei maggiori esponenti dello stato ottomano,
tradizionalmente nemico della Serenissima, ritenesse allora più sicure per i suoi denari le
casse della Repubbica che non quel tesoro da lui stesso sigillato.20
Le speranze di Beatrice, che i suoi figli si costruissero una tranquilla esistenza a
Venezia, vennero frustrate dall’intervento del cipriota Giovanni Bustroni, un losco figuro
che, attratto dalla prospettiva di un rapido e ingente guadagno, riunì una decina di
compagni per accompagnare a Costantinopoli il maggiore dei due fratelli e consegnarlo
allo zio. Si ripeté dunque la storia che la stessa Beatrice aveva già vissuto quando era stata
venduta dal marito al fratello in cambio di denaro sonante; per questo ella scrisse al bailo
scongiurando che la Repubblica intervenisse per dare all’altro suo figlio una moglie
veneziana, con un padre e una madre che si prendessero cura anche di lui. La madre pianse
dunque lacrime per la venuta a Costantinopoli del figlio e suo marito Ali ağa non ne fu
certo contento trovandosi un rivale in casa a contendergli i favori del kapıağası. Ignaro di
tanti problemi, il giovane si convertì immediatamente e la vita nel Serraglio gli parve così
bella da rimpiangere di non essersi recato presso lo zio cinque anni prima. Il Bustroni,
cambiato il proprio nome in Ali beyi, fu ricompensato con la carica di müteferrika (corpo
militare d’élite) dell’arsenale, mentre i compagni da lui sedotti con la prospettiva di ingenti
ricchezze, pur accettando l’Islam, rimasero poveri in canna. La loro sorte fu dunque simile
20
materia politica): filza 39, allegato al nº 31 (20 mag. 1594); copia, reg. 11, c. 222 (29 gen.
1597); c. 278 (15 feb. 1597); filza 52, nº 25 (7 dic. 1600/II); nº 44 (20 feb. 1601, Memi detto
Arnaud Memi); cfr. Selānikī, Tarih, pp. 249, 313, 535.
ASVe, SDC, filza 32, nº 38 (5 gen. 1591/II); filza 33, nº 13 (19 apr. 1591); filza 35, nº 35 (15
mag. 1592/I); nº 43 (12 giu. 1592/I); nº 69 (10 ago. 1592/3); filza 36, nº 3 (6 set. 1592/II); filza
37, nº 1 (12 mar. 1592); nº 3 (14 mar. 1593/II); filza 38, nº 11 (16 ott. 1593/III); nº 53 (13 feb.
1594); filza 39, nº 2 (12 mar. 1594/II); filza 41, nº 28 (23 dic. 1594).
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a quella di molti altri europei che abbandonarono patria e fede con il miraggio di favolose
ricchezze per rimanere poi miseramente disillusi. Infatti i rinnegati che ebbero successo
furono soprattutto coloro che, accolti ancora fanciulli o al più adolescenti, nel palazzo di
qualche importante personaggio, se non in quello imperiale, ebbero la fortuna di trovare chi
potesse sostenerli nella carriera. Tanti altri, senza appoggi o prospettive, si persero nella
folla anonima. A testimonianza viva di tale situazione possono essere prese le parole di un
ignoto candiotto, che nel 1593 affermò di non convertirsi all’Islam perché a Costantinopoli
avrebbe guadagnato 40 aspri al giorno, così come già prendeva a Candia.21
Fu proprio nel periodo in cui Beatrice fu in più stretto contatto con la corte ottomana,
dal 1594 in poi, che i rappresentanti veneziani cominciarono a ricevere alcune inusitate
dimostrazioni di considerazione. Per esempio nel marzo 1594, il bailo Marco Venier venne
introdotto nel Serraglio per far visita al kapıağası, privilegio mai concesso prima ai suoi
predecessori, anche se poi si ripeté con una certa regolarità. Ancora, poco dopo, il sultano
inviò in dono allo stesso bailo una sua veste, poiché pensava gli stesse bene giudicandolo
della sua statura. A questo proposito non si può dimenticare il significato simbolico che
rivestiva tale dono proveniente da parte del sovrano.22 Fino ad allora Gazanfer, che pure
aveva goduto per anni di un immenso potere, si era sempre tenuto lontano dai veneziani,
cercando di avere con loro meno contatti possibile. La sua paura, comune a molti veneziani
rinnegati, era quella di essere considerato un sostenitore della Repubblica e rischiare così la
carriera, il denaro e forse la vita. Per questo Venezia trovò spesso i suoi più acerrimi nemici
nell’amministrazione statale ottomana proprio tra i suoi ex-sudditi e per questo stesso
motivo altri si comportarono nel modo opposto, come la sultana Nur Banu, che volendo
passare per amica della Serenissima riuscì a farsi creare una genealogia ‘veneziana’,
ingannando anche agli storici futuri sulla sua vera ascendenza.23
Nello stesso periodo in cui Gazanfer cominciava ad agire in modo meno circospetto,
forte forse anche dell’aperto appoggio della sultana Safiye, altri personaggi estranei alla
gerarchia statale ottomana o ricoprenti posti di secondo piano cominciarono a trattare affari
di stato, ad aver relazioni dirette con i rappresentanti stranieri o a far carriera grazie a
raccomandazioni di donne ed eunuchi. Nel 1596 di Speranza Malchi, la kira di Safiye, si
diceva addirittura che tenesse «divano in casa», che volesse far nuove leggi e si
considerasse regina di tutti gli ebrei. La sua fine fu però tragica: durante la sollevazione dei
21
22
23
ASVe, SDC, filza 37, nº 47 (2 ago. 1593); filza 51, nº 10 (7 apr. 1600); nº 11 (8 apr. 1600); nº
15 (20 apr. 1600); nº 17 (22 apr. 1600); nº 19 (6 mag. 1600); nº20 (19 mag. 1600); nº 24 (16
giu. 1600/I); nº 38 (29 lug. 1600, il marito di Beatrice molesta Leoni per la sua dote); nº 42 (12
ago. 1600); nº 43 (26 ago. 1600); filza 52, nº 1 (12 set. 1600); filza 52, nº 5 (5 ott. 1600); nº 25
(7 dic. 1600/II); Relazioni di ambasciatori, XIV, p. 418.
T. Majda, Libās, IV. Turkey, in Encyclopedia of Islām, V, Leiden 1986, pp. 750-753; M.P.
Pedani-Fabris, La dimora della pace. Considerazioni sulle capitolazioni tra i paesi islamici e
l’Europa, Venezia 1996, pp. 36-37.
ASVe, SDC, filza 39, nº 2 (12 mar. 1594/II); nº 7 (24 mar. 1594); B. Arbel, Nur Banu (c.
1530-1583): a Venetian Sultana?, «Turcica», 24 (1992), pp. 241-259.
76
sipahi (soldati di cavalleria) contro gli ebrei del 1600 venne uccisa e il suo cadavere,
portato nella piazza dell’ippodromo, venne fatto a brani; anche uno dei due suoi figli,
conosciuto come ‘il piccolo padişah’ seguì la sorte della madre, mentre il fratello, che si
diceva si fosse sempre tenuto in disparte, si salvò convertendosi all’Islam.24
La kâhyakadın (maggiordoma dell’harem, detta anche kethüda hatun), Canfeda
hatun, invece, fu la responsabile dell’harem dalla morte di Nur Banu al 1595, quando salì
al trono Mehmed III. Fu la stessa sultana che la volle alle sue dipendenze come incaricata
della sorveglianza delle quaranta prime schiave, tra cui quelle destinate al servizio del
sultano, e quindi, sul letto di morte, la impose al figlio Murad III. Gli usi ottomani
volevano infatti che vi fosse sempre, a capo di tale istituzione, una sultana vâlide o, nel
caso in cui questa fosse venuta a mancare, una sua sostituta. Si capisce dunque come
Canfeda, in tale veste e godendo di tali prerogative, abbia potuto far costruire una moschea
a Istanbul; altre opere pubbliche che promosse furono una fontana, sempre nella capitale, e
un’altra moschea e un bagno pubblico in uno dei sobborghi.25 Ella cercò sempre di
proteggere suo fratello İbrahim26 che riuscì a fare una discreta carriera nonostante il suo
agire violento, privo di scrupoli e soprattutto di intelligenza. Nel luglio del 1591 i
giannizzeri approfittarono di un incendio a Pera, che erano stati mandati a domare, per
saccheggiargli la casa; per difenderlo la kâhyakadın si scontrò allora con Çiğalazade Sinan
paşa. Nel 1592, come governatore del Diyarbekir, egli riuscì a provocare una sommossa
della popolazione, tanto che rischiò di essere giustiziato per ordine del gran visir, ma nel
1593 aspirava già a divenire kapudan paşa.27 Le sue speranze furono però deluse e nel
1594 egli si trovava nella prigione delle Sette Torri, mentre poco dopo sua sorella veniva
inviata al Vecchio Serraglio dove erano relegate le donne non più in grazia agli occhi del
sultano.28
Accanto alla kâhyakadın cominciava intanto a mettersi in luce un’altra
sovrintendente dell’harem, la kalfa (assistente) Raziye hatun, amica di Nur Banu dai tempi
in cui questa aveva accompagnato il giovane figlio Murad a Magnesia, e sostenuta anche
dalla madre del principe Selim (m. 1597) che lei stessa aveva presentato al sultano
Mehmed III. Il sultano la teneva in tale considerazione da inviare anche a lei una lettera per
24
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27
28
ASVe, SDC, copia reg. 11, c. 75 (20 ott. 1596); cc. 193-196 (15 nov. 1596); cc. 172-173 (5
dic. 1596). Selānikī, Tarih, pp. 419, 679, 854-855. Padişah era uno dei titoli attribuiti al
sultano.
Mustafa Ali, Künh ül-ahbar, ms., cc. 290-292; Hafız Hüseyin Ayvansarayī, Hadikat ülCevami, 2 voll. İstanbul 1281/1864-1865, I, p. 183; Selānikī, Tarih, pp. 302, 436; Peirce, The
Imperial Harem., pp. 131-132.
Detto Deli (pazzo), ma anche titolo onorifico per alcuni corpi militari; Selānikī, Tarih, pp.
246-8, 256, 258, 261-2, 273-5, 288, 305, 349, 351-2, 361, 439, 566, 678, 362, 367.
ASVe, SDC, filza 33, nº 44 (27 lug. 1591/II); filza 34, nº 33 (11 dic. 1591/II); filza 35, nº 54
(10 lug. 1592/II); nº 72 (22 ago. 1592/I); filza 38, nº 10 (15 ott. 1593/II); nº 32 (30 dic.
1593/III); filza 411, nº 47 (19 ago. 1595); Selānikī, Tarih, pp. 247, 256, 302, 351, 436.
Selānikī, Tarih, pp. 436, 439.
77
annunziarle subito la vittoria di Eger. Ella ben presto divenne la segretaria della sultana;
comunque viveva fuori dal Serraglio in un proprio palazzo e aveva anch’essa la sua kâhya,
una donna di Cipro che era stata catturata quando l’isola veneziana era caduta in mano
turca. Il fatto che Raziye hatun avesse una tale inserviente come le donne più importanti di
Costantinopoli avessero esemplato l’organizzazione della loro casa su quella dei più alti
funzionari dello stato, così come nell’harem imperiale si ripetevano, al femminile, gli stessi
uffici che gravitavano attorno alla figura del sultano come, per esempio, una maestra, una
maggiordoma, una scrivana, una segretaria e anche una donna medico, la più famosa delle
quali fu la moglie di Salomone Ashkenasi, che nell’aprile 1604 curò e guarì dal vaiolo il
giovanissimo sultano Ahmed I. Nel 1596 Raziye hatun aveva due figli maschi, uno,
Mustafa, beylerbeyi (governatore) ad Erzurum, l’altro sangiacco al Cairo e due femmine di
cui una aveva sposato un ağa che, per interessamento della suocera, era subito diventato
pascià al Cairo, mentre l’altra, bellissima e molto intelligente, era sposata con Muhyiddin
efendi, allora kadıasker (giudice militare) di Rumelia. Quest’ultima giovane frequentava il
Serraglio; il sultano stesso si dilettava di giocare a scacchi con lei, e come hoca (maestra)
dell’harem doveva spesso leggere e spiegare le lettere che giungevano dall’esterno alla
sultana. Se Speranza Malchi era ferocemente avversa a Venezia, Raziye hatun e sua figlia
erano invece filo-veneziane e cercarono più volte, assieme a Beatrice, di sostenere la causa
della Repubblica davanti alla sultana. Raziye hatun morì improvvisamente il 26 giugno
1597, come ricorda Selānikī, e venne sepolta nella sua casa a Beşiktaş, mentre sua figlia
continuò a frequentare il Serraglio godendo di molta autorità.29
In questo stesso periodo altri due veneti cominciano a occupare le pagine degli
storici ottomani, naturalmente con i loro nomi da convertiti: Osman, kapıcıbaşı (capo dei
portieri) di Damad İbrahim paşa,30 appartenente alla famiglia cipriota Flangini, che nel
1664 venne accolta nella nobiltà veneziana, e Beğzade Frenk Mehmed ağa, cioè il
nobilhomo Marcantonio Querini figlio di Andrea Vincenzo, fatto prigioniero dai turchi
sulla galea di suo zio Vincenzo Priuli e portato a Costantinopoli.31 Flangini si dimostrò in
definitiva ben disposto verso i Veneziani, tenendoli per quanto poteva informati di quanto
succedeva; il suo padrone, che fu per due volte gran visir e per una kapudan paşa,
apparteneva al partito opposto a quello di Safiye e Gazanfer. Flangini si comportò così
anche per aiutare suo fratello che era medico al servizio della Repubblica. Suo cugino era
invece Mustafa Flangini, pascià di Cipro nel 1601, pure lui veneziano e con una sorella a
29
30
31
ASVe, SDC, copia, reg. 11, cc. 174-182 (5 dic. 1596); c. 229 (1 gen. 1597); c. 167 (10 lug.
1597/II); Selānikī, Tarih, p. 695; Uzunçarşılı, Osmanlı Tarihi, III/1/3, pp. 43-44, 52; Il primo
figlio di questa kâhyakadın, detto Razıie Hatun-oğlu, fu anche visir e beylerbeyi; il secondo fu
cadì a Bursa e poi a Istanbul, kadıasker di Anatolia, cadì al Cairo e kadıasker di Rumelia; cfr.
Selānikī, Tarih, pp. 502-503, 574-587, 598, 695, 698.
Su Ibrahim paşa cfr. İ. Parmaksızoğlu, İbrâhim Paşa, in İslâm Ansiklopedisi, 5 cilt, 2 kısım,
İstanbul 1977, pp. 915-919 e bibliografia ivi citata.
Relazioni di ambasciatori, XIV, p. 420.
78
Venezia. Al contrario Marcantonio Querini divenne un fervente musulmano, tanto da
compiere nel 1597 il pellegrinaggio alla Mecca, benché talvolta, a leggere le carte, non
manchi l’impressione che questo potesse essere il mezzo usato allora dagli uomini politici
per allontanarsi senza destare sospetto dalla capitale quando la congiuntura non appariva
favorevole. Infatti, una volta tornato a Costantinopoli, Querini trovò che i suoi denari e i
suoi mobili erano stati confiscati. Comunque il favore del kapıağası lo aiutò tanto da fare
ottenere subito a lui, che era stato prima kağıt-emini (soprintendente ai rifornimenti di
carta) e poi, fino al 1596, scrivano nel corpo dei giannizzeri, la carica di cebecibaşı (capo
degli armaioli). Nel 1599 fu lui che riuscì ad acquietare una prima sommossa di sipahi e
cebeci che protestavano per ottenere la paga loro spettante. Questo lo portò a divenire uno
dei personaggi più in vista, tanto da essere ricordato da Selānikī per aver partecipato, come
ağa degli ulufeciyânı yesâr (uno di due corpi dei soldati di cavalleria) ai torbidi che
portarono alla morte della kira Speranza Malchi, circostanza che lo pose certamente in urto
con la sultana Safiye che la proteggeva. Assunse poi il comando dei sipahi, ma nei tumulti
dell’autunno 1602 venne ucciso dalle sue stesse milizie.32
Tra il 1599 e il 1603 si succedettero nella capitale dell’Impero Ottomano una serie di
moti contro i maggiorenti dello stato, accusati di essere corrotti, di vendere cariche e favori,
di permettere che i detentori di tımar non andassero alla guerra, di riscuotere le ‘avanie’ per
la flotta senza decidersi ad armarla, di estinguere la religione e di avere le mani bagnate del
sangue degli stessi ulema. Questi, i sipahi e i giannizzeri furono le tre maggiori forze
coinvolte: fino a che i loro interessi rimasero conflittuali chi esercitava il potere riuscì a
controllarli, ma quando, anche se solo per un momento, le loro aspettative vennero a
convergere, allora non vi fu scampo per i loro oppositori.
Dopo i primi moti del 1599 e quelli dell’anno seguente in cui perse la vita Speranza
Malchi gli avvenimenti cominciarono a precipitare per Safiye, Gazanfer e la loro cerchia.
Verso la metà di marzo del 1601 ulema e sipahi fecero fronte comune per imporre al
sultano le loro istanze e infatti riuscirono a far allontanare dal Serraglio quattro ministri di
dentro, cioè Ömer ağa, il kâhya del kapıağası, il kapıcılar kâhya, che era il custode del
divano, e infine il bostancıbaşı (capo della guardia imperiale, detta dei giardinieri), e a
impedirne l’accesso alla figlia di Raziye hatun e ai due buffoni favoriti. D’altro canto si
32
ASVe, SDC, copia reg. 11, c. 149 (12 apr. 1597/2); c. 153v (26 apr. 1597/II); c. 154 (10 mag.
1597/I); c. 172 (24 ago. 1597); copia reg. 12, c. 235 (11 feb. 1597/II), cc. 153-154 (16 dic.
1597/I), c. 185 (30 dic. 1597/I), cc. 226-228 (10 feb. 1598/I); filza 49, nº 12 (1 mag. 1599/II);
filza 51, nº 35 (15 lug. 1600); nº 42 (12 ago. 1600); filza 52, nº 20 (18 nov. 1600/I); filza 53,
nº 1 (3 mar. 1601); nº 2 (3 mar. 1601); nº 3 (19 mar. 1601); Miscellanea codici, s. I, nº 22, M.
Barbaro, Arbori de’ patritii veneti, ms. VI, c. 336. Marcantonio fu anche il nome assunto da
un suo parente Sebastiano, quando alla fine del Cinquecento vestì l’abito crocifero; cfr. E.
Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1853, pp. 77; Selānikī, Tarih, pp. 350, 591597, 738-9, 854-856; İ.H. Uzunçarşılı, Osmanlı devleti teşkilātında kapukulu ocakları, Ankara
1988, 2 voll., II, pp. 16-17. Sul rinnegato Flangini cfr. l’articolo di Francesca Lucchetta in
questo stesso volume.
79
sostenne che il sultano non era il padrone ma il mütevelli, cioè l’amministratore o
l’usufruttuario dello stato. A nulla valsero però le loro pur fortissime pressioni contro
Gazanfer, che rimase saldamente al suo posto, tanto che i suoi nemici arrivarono ad
affermare che ormai nel Serraglio tutto si decideva non in nome del sultano ma in nome di
sultan Gazanfer kapıağası, attribuendogli quindi ironicamente quel titolo sovrano che,
poco meno di settant’anni prima, aveva fatto prima la gloria e quindi la rovina del serasker
sultan İbrahim paşa, il gran visir favorito di Kanunî Süleyman. In quei giorni, densi di
tragici avvenimenti, la folla non smetteva di ripetere la profezia turca che affermava che
l’impero, cominciato con un Mehmed, sarebbe finito con un altro Mehmed, contribuendo
con tale triste presagio a tenere gli animi in sospeso.33
Ben cinque dei personaggi maggiormente coinvolti nei moti di questi anni, pur
schierati su posizioni opposte, erano veneziani o legati in qualche modo a Venezia: dalla
parte della sultana stavano il kapıağası Gazanfer, Ömer ağa del Serraglio e il capo dei
giannizzeri Ali ağa; dall’altra parte, con i sipahi e gli ulema, vi erano invece Mehmed
Querini e Osman Flangini. A osservare, attenta e partecipe, questa lotta per il potere stava
invece Beatrice, testimone preziosa ma al tempo stesso impotente, di vicende certo più
grandi di lei.
Pochi mesi dopo nel luglio 1601 la notizia dei successi d’Ungheria e della morte di
İbrahim paşa venne recata a Costantinopoli da Frenk Mehmed ağa, cioè il Querini, così
come anni prima quella della presa di Eger era stata portata a Costantinopoli da Ali ağa.
Con gli anni e il potere il suo malanimo per la madrepatria non accennava a diminuire,
tanto che poco dopo egli sostenne in divano che bisognava pensare a conquistare Venezia e
che a lui, come figlio di uno che era stato notabile (bey) a Cipro, spettava quel pascialato
(paşalık); continuò dicendo che già da tempo aveva persuaso sua madre, con le sue lettere,
a divenire musulmana e che si doleva solo di avere alcune sorelle monache a Venezia che
sicuramente, all’arrivo dei giannizzeri in quella città, sarebbero state violate, per cui aveva
esortato la madre a inviarle a Costantinopoli per accasarle con importanti personaggi della
Felice Porta.34
Nel frattempo la reazione di Gazanfer ai moti dei sipahi fu quella di ritirarsi dalla
conduzione dello stato, limitandosi a esercitare le funzioni richieste dalla sua carica,
alternando momenti in cui desiderava abbandonare il Serraglio ad altri in cui la vicinanza
del sultano e quelle mura tra cui aveva passato tutta la vita gli sembravano l’unica àncora di
salvezza.35 Tra il novembre e il dicembre del 1601 avvenne però una convergenza tra le
33
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ASVe, SDC, filza 53, nº 5 (21 mar. 1601); nº 6 (25 mar. 1601); nº 8 (4 apr. 1601); nº 10 (18
apr. 1601); nº 12 (4 mag. 1601); nº 14 (18 mag. 1601); nº 16 (30 mag. 1601); nº 18 (12 giu.
1601); nº 23 (15 lug. 1601). Effettivamente l’Impero ottomano terminò, ma nel 1918, con
Mehmed VI. M.T. Gökbilgin, Venedik devlet Arşivindeki Türkçe belgeler kolleksiyonu ve
bizimle ilgili diğer belgeler, «Belgeler», 5-8/9-12 (1968-71), pp. 1-151, in particolare nº 136.
ASVe, SDC, filza 53, nº 24 (27 lug. 1601); nº 25 (27 lug. 1601).
ASVe, SDC, filza 54, nº 10 (19 ott. 1601); nº 17 (18 nov. 1601).
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aspettative dei giannizzeri e quelle dei sipahi, tutti inviati a combattere in Ungheria, che si
trovarono dunque a essere in grado di fare fronte comune contro la sultana e la sua cerchia;
per questo si cercò con ogni mezzo di impedire ai giannizzeri di tornare a svernare a
Costantinopoli, come era invece uso. Ali ağa, che fino ad allora era stato un potente alleato
per Gazanfer, cominciò a compiere dei passi falsi rendendosi inviso alle sue truppe e ai
suoi superiori come quando, poco dopo la presa di Székesfehérvár (Albareale), chiese al
generale Yemişci Hasan paşa, colui che aveva preso il posto di İbrahim paşa, di essere
pagato per 15.000 soldati mentre ne aveva portato alla guerra solo 5.000. Alcune
turbolenze dei sipahi, che chiedevano una ridistribuzione dei tımar a chi veramente si
recava alla guerra, vennero acquietate, all’inizio del 1602, accogliendo le richieste avanzate
e concedendo loro anche l’amministrazione delle entrate di Santa Sofia e gli uffici
dell’arsenale; a questo proposito Çiğalazade Sinan paşa riuscì a conservare per un suo
uomo almeno l’incarico di scrivano, importantissimo in quanto si trattava di colui che
seguiva l’amministrazione e pagava gli arsenalotti. Il vecchio ammiraglio preferì anzi
lasciare senza soldo i suoi uomini, ma donare al sultano 40.000 ducati e armare ottanta
galee. Gli altri invece pensavano solo a spendere per acquietare le milizie, come il capo
degli eunuchi neri, Osman, la sultana Safiye e Gazanfer che, per prendere tempo,
arrivarono a prelevare 20.000 ducati dal tesoro interno, dopo aver dato fondo a quello
esterno. Anche le richieste dei giannizzeri, tornati a Costantinopoli a gennaio, furono
dunque accolte: vennero pagati e fu consentito di sostituire alcuni dei loro capi. Comunque
a marzo, dieci giorni prima che finisse il ramazan, erano in rivolta anche gli uomini
dell’arsenale, che tra l’altro accusavano Sinan paşa di aver lasciato che la madre, nata
musulmana, rimanesse libera e in Cristianità quando la aveva incontrata nel 1598 presso
Messina. Ancora una volta i moti furono acquietati; Sinan paşa, sostenuto ora dal suo exnemico, il kapıağası, che vedeva in lui uno degli uomini forti dello stato, trattò con le
maestranze ricordando tra le lacrime il suo passato di fedele servitore dell’Islam e alla fine
riuscì a ottenere che si contentassero solo del licenziamento del suo agà e del suo scrivano.
Ciò avvenne anche grazie all’intervento del muftì di Costantinopoli, detto anche
şeyhülislâm, che rifiutò di emettere un’opinione legale del tenore desiderato dalla piazza,
affermando anzi che anche lui, per compiacere sua madre, si sarebbe comportato nello
stesso modo e che i rivoltosi erano liberi dal giuramento che avevano fatto di divorziare
dalle proprie mogli nel caso non avessero ottenuto il loro intento, in quanto opporsi agli
ordini del proprio superiore era un peccato gravissimo. La rivolta contro Sinan paşa appare
in effetti sottilmente preparata dal punto di vista dell’ortodossia islamica; non potendo
attaccare il vecchio capitano mettendogli contro i suoi stessi uomini, in un primo momento
lo si costrinse ad accettare dei sipahi tra i capi dell’Arsenale; poi probabilmente si pensò di
rinfacciargli una scarsa considerazione degli interessi statali e si capisce in questa logica il
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suo dono al sultano e l’affrettato armo delle galee; quindi occorreva dimostrare la sua
empietà, in quanto solo in tale caso le sue maestranze potevano disobbedirgli.36
Dopo questi moti la situazione rimase incerta. Cominciò a peggiorare in autunno
quando i sipahi ardirono uccidere Mehmed Querini. La campagna d’Ungheria intanto
procedeva malamente, e una ritirata sotto Pest impedì di trattenere le truppe lontano da
Costantinopoli per tutto l’inverno; si videro allora per le vie della capitale soldati macilenti,
che in Ungheria erano stati costretti a cibarsi anche di cammelli e cavalli, derubare
chiunque incontravano, tanto che nessuno osava più uscire in strada con un abito buono.
Ali ağa, che dubitava dei suoi stessi uomini, decise di dimettersi. I sipahi, che avevano i
tımar in Asia, cominciarono a protestare di essere stati mandati alla guerra mentre le loro
terre venivano occupate dai ribelli. Negli stessi giorni, ai primi di gennaio 1603, Çiğalazade
Sinan paşa che da Metelino veleggiava verso Costantinopoli, avuto sentore che la
situazione stava precipitando, invertì la rotta. Lo şeyhülislâm Mehmed efendi venne allora
sostituito con il suo predecessore Sunullah efendi, l’uomo rigoroso e osservante («che non
riceve presenti» nota con soddisfazione il bailo veneziano), che però di nascosto tirava le
fila della ribellione.37
Il 20 receb 1011 (3 gennaio 1603) vi fu l’ultimo atto di questa tragedia. Dopo essersi
ritrovati nella moschea e aver giurato sul Corano di non venire meno alle loro richieste
giannizzeri e sipahi, uniti come un anno prima, obbligarono il sultano a riceverli. Mehmed
III li attese seduto presso la terza porta, come usava fare il suo grande antenato Mehmed II.
Pure seduto, discosto da lui stava Sunullah efendi; i pascià erano invece in piedi;
giannizzeri e sipahi facevano ala, gli uni da una parte gli altri dall’altra. Il primo a essere
accusato dai dodici portavoce delle truppe fu Hasan paşa, che, chiamato dalle Sette Torri
dove era stato imprigionato, riuscì con un discorso eloquente a salvarsi affermando, con
documenti alla mano, che aveva solo obbedito agli ordini del kapıağası e della sultana. In
secondo luogo venne chiesto che Safiye abbandonasse il Serraglio, ma a tale pretesa il
sultano rispose che lui stesso avrebbe impedito alla madre di occuparsi degli affari di stato.
Venne poi chiesta la testa del kapıağası; la risposta fu che si sarebbe proceduto secondo
giustizia, ma Hüseyin kalfa rispose, a nome dei soldati, che chi aveva fatto uccidere
diciannove fratelli non doveva chiamare in suo aiuto la giustizia. Si trattava in effetti di
scegliere tra la vita del sultano e quella del suo servitore che, toltosi la veste di raso bianco,
si gettò ai piedi del suo signore chiedendogli aiuto, ma le supplichevoli parole di
intercessione di Mehmed III non vennero ascoltate dai presenti che, spogliato Gazanfer, lo
decapitarono. Quindi si chiamò il kızlarağası Osman, il capo degli eunuchi neri, per le cui
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ASVe, SDC, filza 54, nº 22 (16 dic. 1601); nº 23 (28 dic. 1601); nº 26 (13 gen. 1602); nº 28
(28 gen. 1602); nº 29 (12 feb. 1602); nº 30 (13 feb. 1602); nº 31 (25 feb. 1602); nº 32 (27 feb.
1602); filza 55, nº 1 (11 mar. 1602); nº 2 (13 mar. 1602); nº 3 (24 mar. 1602).
ASVe, SDC, filza 56, nº 8 (17 ott. 1602), nº 16 (2 dic. 1602), nº 17 (14 dic. 1602), nº 21 (28
dic. 1602/I), nº 23 (5 gen. 1603/I), nº 24 (5 gen. 1603/II), nº 25 (5 gen. 1603/III); su Sunullah
efendi cfr. Selānikī, Tarih, pp. 525-526, 850, 854-855, 857, 860-861.
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mani passavano tutte le lettere della sultana, cui spettò la stessa sorte: così le teste dei due
capi degli eunuchi rotolarono ai piedi del sultano come una perla bianca e una perla nera. Il
sultano si levò allora per ritirarsi con le lacrime agli occhi e battendo con la mano sopra il
ginocchio, per il sommo dolore che provava. Il bailo veneziano, nonostante la distanza
esistente tra Pera, dove era la casa bailaggia, e il Serraglio, sentì lo strepito delle milizie
che urlavano. Lo şeyhülislâm pregò allora il sultano di non allontanarsi; vennero quindi
chieste le teste del precedente muftì di Costantinopoli e dei suoi due fratelli, già kadıasker
di Anatolia e cadì a Bursa, che vennero però solo relegati a Rodi. Fu poi la volta di
Tırnakcı Hasan paşa, il quarto visir che, ormai con il filo della spada sul collo, venne
graziato perché era stato agà dei giannizzeri alla presa di Kanizsa. I suoi servitori,
ritenendolo ormai spacciato, si erano già precipitati a svaligiare la sua casa, quando lo
rividero comparire su un cavallo che non gli apparteneva, e da cui quasi cadde per tre o
quattro volte. Il sole che tramontava pose infine termine all’assemblea. Il sultano si alzò e
ritornò nei suoi appartamenti; non volle vedere la madre, ma di sua mano uccise la scrivana
dell’harem che quella notte stessa con altre tre donne fu gettata in mare.38
In tal modo terminò la incredibile vicenda umana del veneziano Gazanfer e con lui
ebbe fine il periodo in cui i veneziani furono presenti sin nelle più segrete stanze del
Serraglio. L’Impero Ottomano sin dai tempi di Mehmed II era retto in larga misura da
convertiti che provenivano soprattutto dall’Occidente; nonostante ciò i veneti raramente
giunsero in posti di vera responsabilità. Gli ultimi anni del Cinquecento rappresentano in
questo campo l’eccezione in quanto numerosi rinnegati veneziani arrivarono quasi
contemporaneamente ai vertici dello stato. L’antica paura di far ricoprire agli ex-sudditi di
san Marco posizioni di rilievo era forse ormai esorcizzata ma, nello stesso tempo, si
trattava dell’ultimo grande periodo in cui i rinnegati gestirono da soli lo stato. Con il
Seicento il loro potere cominciò a diminuire, mentre la classe degli ulema andò via via
rafforzandosi e i posti di vera responsabilità vennero occupati in sempre maggior numero
da turchi, o comunque da musulmani di nascita.
Nei giorni che seguirono quel 3 gennaio i sipahi si fecero sempre più audaci:
cominciarono a chiamare femmine i giannizzeri, per i loro ampi copricapi, a taglieggiare
gli abitanti della capitale e assalire le donne, tanto che alle più giovani fu ordinato
dall’autorità di polizia di non uscire per strada. Già ai primi di febbraio però cominciò la
repressione contro i capi dei sediziosi. Il 9 febbraio a due di loro fu tagliata la testa, mentre
la sera precedente, due ore dopo il tramonto, si erano sentiti dal Serraglio i due lugubri tiri
di artiglieria che annunciavano l’esecuzione per annegamento di qualcuno di «quelli di
dentro». Lo şeyhülislâm Sunullah efendi, riconosciuto come uno dei capi della rivolta,
venne allontanato. Anche il sultano era destinato a rimanere ormai poco sul trono; nel
gennaio 1604 gli succedette il figlio tredicenne Ahmed I, mentre il titolo di vâlide passò
38
Seguo qui l’inedita descrizione degli avvenimenti conservata in ASVe, SDC, filza 56, nº 26 (9
gen. 1603/I), nº 27 (9 gen. 1603/II).
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alla sultana Handan, una bosniaca donata dal governatore di Grecia al futuro Mehmed III
quando era divenuto sangiacco di Amasia , in Anatolia. Handan venne tenuta lontano dalla
politica dal figlio, per paura che acquistasse il potere che aveva detenuto la nonna Safiye.
Ali ağa, che solo pochi mesi prima aspirava al capitanato del mare, fuggì disperato con un
solo servitore, mentre i suoi beni venivano incamerati. Poi, col mezzo di donativi, riuscì a
rientrare nella sua casa e, rinfrancato dalle parole del gran visir, ricominciò a mostrarsi a
cavallo con gran seguito in città. Improvvisamente ai primi di marzo, mentre era per strada,
venne afferrato da alcuni kapıcı (membri del corpo dei portinai di Palazzo), portato in
Serraglio e strangolato tra le due porte, come si usava fare per le persone di riguardo. Causa
della sua rovina furono forse le ricchezze che ancora nascondeva o forse l’odio a lungo
dissimulato che gli portava il gran visir. Di sua moglie, Beatrice, ora ricordata come «orba
e indisposta», le carte ufficiali tacciono, mentre il figliastro «d’ingegno ottuso», rimasto nel
Serraglio col nome di Mehmed, era destinato a diventare uno dei compagni di bevute del
sultano Murad IV.39 Ma questa è un’altra storia.40
ARCHIVIO DI STATO, VENEZIA
SUMMARY
At the end of the XVI century many Venetians, converted to Islam, lived in Constantinople and
entered political life. For instance Gazanfer, who was related to the noble family Michiel, was the
chief of the white eunuchs of the imperial palace for about thirty years; one of his ağas, called Ömer,
came from Zara, a city under Venetian rule; the chief of the sipahis in 1602 was the nobleman
Marcantonio Querini, while in the same period the kapıcıbaşı of the great vizier İbrahim paşa
belonged to the Flangini family. Many of these converts sent for their mothers and sisters who
reached them in Constantinople and usually converted to Islam. The author describes the lives of
these women, who lived at the beginning of the historical period called kadınlar saltanatı, and shows
that they were in touch with the most powerful men of the Ottoman Empire and could also freely met
the women who lived in the imperial harem.
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ASVe, SDC, filza 56, nº 27 (9 gen. 1603/II), nº 29 (19 gen. 1603), nº 30 (20 gen. 1603/II), nº
31 (20 gen. 1603/III), nº 32 (1 feb. 1603/I), nº 34 (9 feb. 1603/I), nº 35 (9 feb. 1603/II), nº 36
(22 feb. 1603); filza 57, nº 3 (7 mar. 1603).
Cfr. l’articolo di Rosella Dorigo-Ceccato in questo stesso volume.
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