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Che significato ha un’espressione facciale?
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Capitolo primo
Che significato
ha un’espressione facciale?
James A. Russell e José Miguel Fernández-Dols
Il volto umano — a riposo e in movimento, in punto di morte così
come in vita, in silenzio e nel parlare, visto o sentito dall’interno, nella
realtà o rappresentato in forma artistica o ripreso da una telecamera — è
una fonte di informazioni complicata che si impone e a volte confonde.
(Ekman, Friesen e Ellsworth, 1972, p. 1)
La tradizione, il senso comune e la scienza considerano concordemente
il volto come una finestra con una vista che si apre sulle nostre emozioni.
Nella Bibbia si attribuisce a Dio la frase: «La mia furia salirà sul mio volto»
(Ezechiele, 39-18). Aristotele (s.d./1913, p. 808) scrisse: «Ci sono espressioni facciali caratteristiche che, secondo quanto osserviamo, si accompagnano
alla collera, alla paura, all’eccitamento erotico e a tutte le altre passioni».
Quando volgiamo i nostri occhi al viso di un altro essere umano, spesso
cerchiamo, e generalmente troviamo, un significato per tutto ciò che fa o
manca di fare. I larghi sorrisi, i sogghigni beffardi, le smorfie e i visi arcigni,
i sorrisi fugaci e gli sguardi fissi e indugianti, i volti animati e quelli impassibili non rappresentano solo contrazioni e rilassamenti muscolari funzionali, bensì scorci sull’animo altrui — o così pare.
Tali idee contengono una verità evidente a tutti o non sono che
l’ennesimo mito, che prima o poi crollerà di fronte all’analisi scientifica? Già
in passato il senso comune ha sbagliato. E Aristotele credeva che lo spessore
dei capelli rivelasse il coraggio di una persona.
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Psicologia delle espressioni facciali
Negli anni Ottanta, all’interno della psicologia la risposta era quasi
unanime: il volto è la chiave per la comprensione delle emozioni e le
emozioni sono la chiave per la comprensione del volto. Nel corso degli ultimi
trent’anni, psicologi così diversi fra loro come Maurice Merleau-Ponty e
Carroll Izard hanno stabilito uno stretto legame fra volti1 ed emozioni:
«Collera, vergogna, odio e amore non sono fatti psichici nascosti nel fondo
della coscienza di un’altra persona: […] esistono su questo viso o in quei
gesti, non sono celati dietro di essi» (Merleau-Ponty, 1961/1964, pp. 5253). Izard ha catturato il concetto con un aforisma: «L’emozione, a un livello
di analisi, è l’attività neuromuscolare del volto» (1971, p. 188).
L’idea del legame fra volti ed emozioni può appartenere al senso
comune, ma si è rivelata l’idea più importante nell’ambito della psicologia
delle emozioni. Attorno a essa ruota un programma di ricerca che vuole
Darwin come suo iniziatore, Tomkins come suo teorico moderno e Izard,
Ekman e dozzine di altri scienziati come suoi praticanti. L’espressione
facciale viene considerata un segnale compreso universalmente, l’affiorare
alla vista di un evento altrimenti nascosto, l’innesco di un’emozione «di base»
distinta e categorica. Attraverso il volto, il Programma Espressione Facciale
si è proposto di rendere l’emozione qualcosa di misurabile e comprensibile
all’interno di una cornice evoluzionistica, con implicazioni per la medicina,
il sistema giudiziario, l’educazione, gli affari e la psicoterapia (Ekman e
Friesen, 1975).
Il Programma Espressione Facciale è dato come presupposto in gran
parte del lavoro svolto in materia di movimenti facciali, ma non in tutto.
Gli etologi (per esempio, Smith, 1977) hanno di solito assunto un punto di
vista diverso riguardo ai segnali facciali e, più in generale, al comportamento comunicativo. Gli psicologi Mandler (1975) e Zajonc, Murphy e Inglehart (1989) hanno sollevato alcuni interrogativi fondamentali circa il
legame fra emozione e comportamento facciale. Negli anni Novanta, le
nuove scoperte e la riflessione teorica hanno messo sempre più in dubbio la
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Qui, come in molte altre parti della traduzione, il termine «volto» indica un viso dotato di
espressione. Si è preferito parlare semplicemente di «volto», invece che di «espressione del
volto» o «volto espressivo», per evitare di utilizzare il termine «espressione», considerato
problematico nel contesto di quest’opera, in frasi in cui gli autori non l’hanno impiegato.
[ndt]
Che significato ha un’espressione facciale?
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natura dell’espressione facciale, il suo preciso nesso con l’emozione e perfino il fatto che il termine «espressione» sia concettualmente corretto (Zajonc,
1994). La ricerca sul volto ha recentemente presentato nuove concettualizzazioni, nuove scoperte e nuovi metodi. Assunzioni finora accettate vengono oggi messe in discussione. Sono allo studio spiegazioni alternative, e
alcune fra quelle più vecchie sono oggetto di un rinnovato interesse. All’interno del Programma Espressione Facciale, i teorici stanno modificando
alcune ipotesi specifiche e ne stanno difendendo altre in un clima di grande
fervore.
I capitoli del libro che ci apprestiamo a presentarvi seguono questo
dibattito. La nostra introduzione è necessariamente personale, piuttosto che
distaccata, e parziale, piuttosto che completa. Ciascun capitolo è a sé stante,
ma forse può meglio essere apprezzato dopo una discussione del contesto
storico che li accomuna. Qui forniamo una descrizione sommaria di questa
storia, presentiamo in modo più dettagliato una versione del Programma
Espressione Facciale, mettiamo in luce le domande fondamentali che hanno
guidato la ricerca recente e suggeriamo alcune linee guida per la ricerca
futura.
Una breve storia
La storia completa dello studio delle espressioni facciali deve ancora
essere scritta. Lavorando alla preparazione di questo breve excursus, abbiamo prestato attenzione non solo a eroi non celebrati (per esempio, Hjortsjö,
1969) ma anche a dati trascurati (per esempio, Kraut e Johnston, 1979) e a
idee dimenticate (per esempio, Landis, 1934). La nostra immagine della
storia di quest’area di studio è così in qualche modo diversa da quella che
viene presentata generalmente. Non è neppure chiaro da dove tale storia
debba cominciare. Osservazioni circa l’apparire di emozioni nel volto possono essere trovate in vari scrittori, antichi e medievali, d’Oriente e d’Occidente (vedi Shweder, 1992, per un’affascinante discussione della letteratura
indiana sull’espressione facciale dell’emozione). Cominceremo con Charles
Darwin, lo scrittore più remoto il cui lavoro stia ancora esercitando un’influenza importante nell’ambito scientifico.
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Psicologia delle espressioni facciali
Darwin
È noto che Darwin scrisse un trattato sulle espressioni facciali, ma non
tutti concordano riguardo a cosa in esso egli abbia inteso affermare. Una
valutazione schietta del contributo di Darwin allo studio delle espressioni
facciali è resa difficile dal suo status di scienziato fra i maggiori di tutti i tempi
e dall’influenza che egli ha esercitato indirettamente attraverso ciò che oggi
sappiamo dell’evoluzione filogenetica. La vaghezza della sua concettualizzazione delle emozioni e delle espressioni del volto fa sì che la sua opera del
1872/1965 sia passibile di diverse letture. Il nome di Darwin ha indubbiamente conferito prestigio allo studio del volto, ma l’aggettivo darwiniano è
stato usato in riferimento a specifiche teorie che non sono esattamente di
Darwin, a concetti che non ebbero origine dallo scienziato e, in qualche
occasione, a idee che egli sembrava negare. Altre teorie ugualmente legittime
sono state denominate antidarwiniane — la qual cosa potrebbe involontariamente sembrare come accomunarle alla scienza della creazione e alla
società della terra piatta.
Non siamo ancora riusciti a capire come si possano utilizzare i grandi
principi darwiniani — quelli di evoluzione, selezione naturale e adattamento
— in rapporto alla psicologia umana; così, non sorprende che il tentativo
personale di Darwin in questo senso non rappresenti la parola finale. Se
pensaste che la spiegazione dei volti fornita da Darwin (1872/1965) fosse
centrata sui concetti di selezione naturale e adattamento, non sareste gli
unici, ma vi sbagliereste ugualmente. Né Darwin, come affermò esplicitamente egli stesso, fu il primo a considerare universali le espressioni facciali:
tale tesi, scrisse, «è stata affermata spesso» (p. 15). E neppure propose che le
espressioni si fossero evolute allo scopo di comunicare: «non c’è motivo, per
quanto mi è possibile capire, per credere che dei muscoli si siano sviluppati,
o anche modificati, esclusivamente per l’espressione» (p. 354).
Per comprendere l’opera di Darwin, è necessario leggerla tenendo
conto di ciò che egli intese realizzare e mettendola in contrasto con le
assunzioni dell’epoca, quando si considerava l’espressione facciale come un
linguaggio universale dato da Dio e creato per l’espressione dell’emozione
(Mell, 1806; Duchenne, 1862/1990).
L’obiettivo di Darwin non fu quello di creare una teoria psicologica,
bensì quello di minare le concezioni creazioniste dell’uomo in generale, e
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delle espressioni emozionali in particolare (Fridlund, 1992). Il meccanismo
specifico di ereditarietà da lui indicato (la trasmissione lamarckiana dei
caratteri acquisiti) e il suo primo principio di espressione facciale (inutili
vestigia di abitudini ancestrali) non svolgono alcun ruolo in nessuna spiegazione attuale del comportamento facciale.
Anche i concetti di «espressione» ed «emozione», nel modo in cui
vennero utilizzati da lui, erano piuttosto distanti da ogni approccio attuale
a questi argomenti.
Darwin (1872/1965) intese la nozione di «espressione» in senso estremamente generico. Invece che piccoli insiemi di «segnali» facciali, le espressioni erano, secondo lo scienziato, «azioni di ogni genere, [che] se accompagnano regolarmente uno stato della mente,2 vengono riconosciute subito
come espressive. […] Anche gli insetti esprimono collera, terrore, gelosia e
amore con le loro stridulazioni» (p. 349). Che cosa esprimevano queste
«azioni di ogni genere»? Invece di riferirsi a una breve lista di emozioni di
base, Darwin lavorò con una serie di «stati della mente» vaga e priva di
confini definiti. Egli descrisse questi «stati della mente» non solo in termini
di emozioni (come la collera, il terrore, la gelosia e l’amore), ma anche di
tratti motivazionali, comportamentali o di personalità (per esempio, determinazione, sfida, ambizione, debolezza, impotenza, modestia, timidezza,
pp. 233, 247, 261, 263, 325, 333), di sensazioni (per esempio, dolore
somatico, fame, p. 69) e di processi cognitivi (per esempio, astrazione,
meditazione, p. 226).
Secondo Darwin, fra le espressioni che vengono riconosciute meglio
figurano quelle di «morale basso» (p. 176) e di «morale alto» (p. 196). Le
nozioni alquanto vaghe di «stati della mente» e di morale «alto» o «basso» di
Darwin potrebbero prefigurare un approccio dimensionale alle emozioni o,
altrettanto adeguatamente, un approccio categoriale. In realtà, sia il suo
secondo principio — «antitesi» (stati della mente opposti vengono espressi
attraverso comportamenti di aspetto opposto) — che il terzo — «azione
diretta del sistema nervoso» (gli effetti dell’iper e ipoattivazione del sistema
2
L’espressione «state of mind», che si è preferito tradurre letteralmente come «stato della
mente», indica generalmente il concetto, privo di una precisa definizione scientifica, di stato
o disposizione d’animo. [ndt]
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Psicologia delle espressioni facciali
nervoso) — sembrerebbero richiedere una concezione dimensionale degli
«stati della mente».
Il concetto di «stato della mente» è sufficientemente vago da adattarsi
a qualsiasi modello di emozione, anche a quegli approcci che negano il valore
scientifico del concetto stesso, traducendolo in termini cognitivi (Mandler,
1975) o comportamentali (Duffy, 1957; Fridlund, 1994). William James
(1890/1950) trasse da Darwin una lezione completamente diversa rispetto
a Tomkins, Izard o Ekman.
Per la biologia in generale, una delle grandi conquiste di Darwin
consistette nel considerare le specie non come categorie fisse e immutabili,
ma come gruppi entro i quali vi è una notevole diversità. Ripercorrendo i
periodi geologici, non troviamo specie eterne, bensì correnti che si amalgamano. Mostreremo brevemente che James suggerì una concezione delle
emozioni altrettanto flessibile.
Una delle influenze meno fortunate esercitate da Darwin è di carattere
metodologico. I suoi metodi erano puramente esplorativi. Per esempio,
quando Darwin scrisse che una persona sorridente (o un cane scodinzolante)
è felice, egli non propose alcun modo sistematico per verificare tale felicità.
Al massimo, egli fece assegnamento sul giudizio informale, e basato sul
buonsenso, che la situazione della persona (o del cane) era felice, e, in qualche
occasione, egli non addusse altra prova al di fuori dell’espressione stessa
(sorriso o coda scodinzolante).
Per esempio, Darwin mostrò ad alcuni osservatori delle fotografie di
espressioni facciali in posa «senza una parola di spiegazione», chiedendo loro
quale potesse essere l’emozione che stava «animando» il modello. Quelle
espressioni sulle quali le persone concordavano vennero considerate «vere».
I metodi di ricerca transculturali di Darwin presentavano lo stesso problema.
Il suo metodo divenne il metodo d’elezione all’interno del Programma
Espressione Facciale, in cui l’attribuzione consensuale di una specifica emozione «di base» a una particolare espressione facciale bastava a stabilire che
quell’emozione era effettivamente la causa dell’espressione facciale. Tuttavia, disgraziatamente, anche quando gli osservatori umani concordano fra
loro, non è detto che abbiano ragione — come è successo in passato, quando
tutti concordavano sul fatto che la Terra fosse piatta, e come accade tuttora,
dal momento che la maggioranza dei profani crede che l’uccello che canta
stia esprimendo gioia o il lupo che ulula, malinconia.