Il pensiero di Gottfried W. Leibniz
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Il pensiero di Gottfried W. Leibniz
Il pensiero di Gottfried W. Leibniz A) Nella filosofia di Leibniz è presente l'esigenza di una riforma complessiva del sapere e, anzitutto, degli strumenti razionali che ne costituiscono la struttura portante: di qui la rilevanza degli studi di logica, in cui viene perseguito un approfondimento della logica aristotelica e stoica, alla luce, anche, dei contributi di R. Lullo (teologo catalano del Duecento). Leibniz cerca, prima di tutto, di definire i requisiti formali del criterio di verità, e le leggi che presiedono alla combinazione delle idee: molti lo considerano il vero iniziatore della logica formale (anche se già Aristotele e gli stoici pongono le basi di tale impostazione). La logica va infatti intesa, per Leibniz, come una sorta di "matematica universale" la cui validità è indipendente da qualsiasi riferimento empirico1; e soprattutto viene così formulato il progetto rigoroso di purificare questa scienza da ogni aspetto "soggettivistico"2. L'approfondimento operato in questo campo da Leibniz porta poi anche all'introduzione, accanto al criterio di necessità di cui si era essenzialmente occupato Aristotele, dei criteri di realtà e possibilità, e successivamente all'esame delle loro relazioni reciproche. Si giunge così alla distinzione fra verità di ragione e verità di fatto: le prime sono universali e necessarie, mentre le seconde riguardano una realtà che avrebbe anche potuto essere diversa da come è 3 : per queste ultime non si può parlare di necessità assoluta (o almeno tale è la condizione in cui si trova l'intelletto umano - cfr. la "ragione problematica" della quale si tratta più avanti). Tuttavia anche per le "verità di fatto" vale sempre il Principio di ragion sufficiente, secondo cui "niente esiste senza una ragione per cui le cose stiano così e non altrimenti"4. Questo è tutto ciò che il pensiero umano può conoscere sulle cause del mondo contingente, ma applicando tale principio al contingente, si deve pervenire infine ad una Causa Necessaria, cioè a Dio (argomento, questo, già avanzato da S.Tommaso). D'altra parte Leibniz accetta anche la prova ontologica, come avevano fatto anche Cartesio e Spinoza: questa prova - come metterà in luce Kant - sta poi a fondamento dell'argomentazione precedente, dato che solo in base alla prova ontologica l'ente necessario a cui rimanda la contingenza del mondo, è assunto come perfezione necessariamente esistente. (A sua volta l'argomento ontologico è riconducibile alla dottrina platonica (v. l'Idea del Bene come principio non ipotetico del reale) e quindi, in definitiva, alla concezione parmenidea dell'essere.) 1 George Boole (n. 1815) svilupperà questa impostazione, intendendo la logica come puro calcolo combinatorio di simboli, indipendente da ogni significato che si possa attribuire ai simboli stessi. 2 Siamo qui in un ambito abbastanza diverso da quello dei Portorealisti, per i quali la logica consisteva essenzialmente nello studio di operazioni dello spirito: si tratta invece, per Leibniz, di cogliere la struttura intrinseca degli enunciati (inerenza del predicato al soggetto). Va anche aggiunto, tuttavia, che molti sono i debiti di Leibniz verso la logica di Port-Royal, non ultima la fondamentale classificazione di "verità di ragione" e "verità di fatto" di cui si parla qui di seguito. 3 Anche Hobbes distingueva tra "verità a-priori" (il cui contrario è impossibile) e "verità a-posteriori" (che possono essere negate senza contraddizione). 4 Questo principio era già stato formulato da Spinoza (v. Ethica, parte I, prop. XI : "Per ogni cosa esiste una ragione del perché essa esista e del perché essa non esista"). B) Da quanto detto finora, risulta che solo la causa ultima del mondo appare necessaria, mentre i suoi effetti sono - almeno dal punto di vista umano - contingenti: tuttavia è anche chiaro che per Dio non possono esistere verità "a-posteriori" (= non originarie), in quanto egli conosce eternamente la totalità delle cose. Ma dire che di fronte a Dio anche le "verità di fatto" sono "verità di ragione" significherebbe accettare la tesi di Spinoza, secondo cui la "contingenza" del mondo in cui viviamo è solo il prodotto illusorio dei limiti della conoscenza umana: Leibniz cerca accuratamente di evitare questa conclusione (ed il suo sforzo, a tratti, non è esente da contraddizioni) ammettendo che in qualche modo le verità di fatto differiscono in assoluto dalle verità di ragione: le prime sono infatti determinate da una libera scelta da parte di Dio, che appare pertanto come il libero creatore dell'universo (in armonia con la dottrina cristiana, e in contrapposizione allo spinozismo). In seguito5 a tale scelta divina, ogni essere del mondo è del tutto determinato secondo il pensiero del Creatore, che quindi conosce (come sosteneva S.Agostino) il destino di ciascun uomo: anche questa "soluzione", tuttavia non è mai definitivamente adottata da Leibniz, la cui posizione in proposito appare spesso ambigua, anche perché, pur scegliendo liberamente il mondo da creare, Dio - in quanto essere perfetto - non può non scegliere "il migliore dei mondi possibili", così che ogni altra alternativa dovrebbe essere eternamente esclusa. Come accadeva per Cartesio, anche Leibniz si propone di arrivare alla conoscenza della "realtà in sé" a partire da ciò che immediatamente e indubitabilmente appare: il mondo si manifesta anzitutto articolandosi in una estrema varietà di enti diversi, a cominciare dall'infinità delle posizioni occupate dai punti nello spazio: i corpi estesi, essendo per definizione indefinitamente divisibili, rimandano necessariamente ad una infinità di sostanze semplici (il che segue dal principio di ragion sufficiente: se infatti due enti qualsiasi differiscono tra di loro anche solo per la posizione nello spazio - essi non potranno essere costituiti o prodotti da un'unica sostanza semplice : la differenza manifesta del mondo implica cioè la molteplicità della realtà ultima). Sempre in base a queste considerazioni Leibniz respinge anche la concezione spinoziana della Sostanza Unica. Le sostanze che stanno alla base del mondo, poi, non potranno a loro volta essere composte di parti, perché in tal caso esse rimanderebbero ad ulteriori elementi semplici (che sarebbero allora le vere "sostanze"): dunque esse non hanno estensione spazio-temporale, e vanno intese come puri "punti metafisici”, entità di tipo spirituale. Risultano così risolti anche gli antichi paradossi di Zenone sulla divisibilità e sul movimento: dividendo all'infinito la materia non si arriva infatti al puro "zero" matematico, ma ad una infinità di enti incorporei che producono il mondo materiale. Questa "produzione", poi, è vista (v. anche più avanti) come attività rappresentativa, per cui ogni divisione [attuale] della materia è il risultato di una articolata varietà di percezioni in atto nei "punti metafisici". A differenza di quanto accadeva per Cartesio, dunque, Leibniz ritiene che la "res extensa" non abbia una realtà esterna rispetto alla sfera spirituale, ma sia una semplice forma fenomenica: tuttavia questo non significa negare l'esistenza di una "realtà in sé", ma solo negare che essa sia di natura materiale (cfr. Berkeley). Spazio e tempo sono fenomeni, ma, dice Leibniz, si tratta di "fenomeni ben fondati” 6 , nel senso che essi sono l'espressione diretta della realtà assoluta costituita dalle infinite sostanze semplici: le Monadi. 5 Ma ciò, come vedremo meglio più avanti, non va inteso in senso cronologico: infatti spazio e tempo sono solo forme fenomeniche rispetto a cui l'autentica realtà (di natura spirituale) è del tutto indipendente. 6 Cfr. Kant, che distinguendo il fenomeno dalla cosa in sé considera quest'ultima come il fondamento di ogni apparire spazio-temporale. Ma, a differenza di Leibniz, Kant ritiene la cosa in sé del tutto inconoscibile da parte del pensiero umano. 2 C) La Monade è concepita come forza viva (cfr. enérgheia, entelechia nella filosofia aristotelica), ossia come energia base della realtà dell'universo: si tratta, come si è detto, di un'energia di natura incorporea, spirituale. La materia prodotta dalla Monade è, per certi aspetti, il manifestarsi di una forza passiva, che è lo stesso limite, l'imperfezione delle Monadi che frena la loro attività (cfr. Aristotele: materia/forma, potenza/atto). La Monade che è immediatamente nota è la stessa [mia] coscienza attuale: essa appare come un' unità indivisibile, in quanto è distinta dai suoi contenuti, di cui costituisce il principio unificatore: essa è dunque il semplice che sta dietro il molteplice (cfr. Campanella: "sensus inditus"). Tuttavia questa unità, pur restando identica a sé, appare, nel tempo, come continuo mutamento: anche in questo senso essa è dunque l'unità di un molteplice, che si mantiene identica attraverso il variare dei propri contenuti, cioè attraverso un processo a cui Leibniz dà il nome di "appetizione" (vedi figura a lato). In altri termini: la coscienza non esiste nel tempo, ma piuttosto lo contiene come sua forma rappresentativa, il tempo non è tanto "distensione della coscienza" come voleva S.Agostino, quanto "distensione del contenuto" della coscienza stessa (ed ha, appunto, realtà solo fenomenica). Questa unità dinamica del molteplice consiste proprio nella capacità rappresentativa della Monade: le Monadi sono tutte dotate di percezione 7, anche se solo alcune di esse (di grado superiore, come nel caso della mente umana) possiedono una vera e propria autocoscienza, o consapevolezza di se stesse, che Leibniz chiama appercezione. Nonostante l'apparente distanza di questa dottrina dal pensiero di Spinoza, c'è un'indubbia affinità tra la concezione di Leibniz, per cui esistono infiniti punti di vista sulla totalità dell'essere (le attività rappresentative di ciascuna Monade), e la concezione spinoziana per cui Dio si attua secondo infiniti attributi, ciascuno dei quali è dunque un aspetto particolare della Sostanza Unica. Ogni Monade rispecchia infatti l'intero universo (= l'insieme di tutte le Monadi), così come può accadere - dice Leibniz - che una città si mostri secondo le infinite prospettive possibili, pur restando unica e identica a sé stessa: questi infiniti punti di vista sono ordinati, senza soluzione di continuità, in una catena di cui fanno parte tutte le sostanze semplici: "la natura non fa salti", e dunque la gerarchia delle Monadi è una serie infinita e ininterrotta. Le Monadi "superiori" hanno una rappresentazione chiara e distinta dell'universo, ma, al pari delle Monadi inferiori, esse pure hanno anche rappresentazioni di tipo più oscuro (il che deriva dalla loro imperfezione - v."forza passiva"): queste molteplici rappresentazioni, giova ripeterlo, non sono in nessun modo parti della Monade, ma esprimono il modo più o meno chiaro in cui l'intera realtà le è presente. 7 Cfr. Telesio e Campanella, che però attribuivano la sensibilità a tutte le cose materiali. 3 D) Leibniz, molto più di Cartesio, dedica grande attenzione alle "rappresentazioni oscure", cioè a quella parte del contenuto del pensiero che non si può definire a pieno titolo "coscienza": per questo viene spesso considerato un anticipatore delle teorie psicologiche (v. psicoanalisi) che si dedicheranno allo studio dei processi "inconsci". Il campo dello scibile non coincide quindi con quello della pura "razionalità": anche per questo si può parlare, per Leibniz, di "ragione problematica", termine che esprime la consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza del reale. Poiché la Monade non è costituita da parti, la percezione che questa ha del mondo non va concepita come costituita da una serie di elementi che "entrano" nella Monade stessa provenendo dall'esterno: la Monade, dice Leibniz, "non ha né porte né finestre", il suo sviluppo non dipende assolutamente dalle altre Monadi secondo un rapporto di causalità. Ne segue che tutte le conoscenze della Monade (in particolare quelle dell'uomo) sono innate, il che va contro quanto sosteneva Locke (e l'empirismo in genere), anche se Leibniz riconosce, come Locke, che tali conoscenze sono in costante sviluppo e si modellano sull'esperienza: ma per Leibniz l'esperienza non è prodotta da una realtà esterna (e tanto meno da una realtà materiale), ma semplicemente le corrisponde. Le infinite Monadi appaiono dunque come entità fra loro autonome, ma in qualche modo sincronizzate le une con le altre, secondo quanto già sostenevano gli occasionalisti: la loro connessione e la loro unità si attuano, in definitiva, solo nel pensiero divino, cioè nella Monade Suprema, che tutte le produce e le governa: in Dio trova dunque fondamento l'essenza e l'esistenza di tutti gli esseri, conclusione questa non distante dalle tesi di Spinoza, oltre che da quelle di Platone ed Aristotele. Dio, Monade perfetta e perciò priva di limiti, non ha appetizione, perché conosce eternamente e compiutamente la totalità delle cose: egli stabilisce, anche, eternamente, la loro armonia, come un "supremo orologiaio", che, a differenza di quanto riteneva Geulincx, non ha bisogno di intervenire di volta in volta a coordinare gli eventi del mondo. Nella sua eterna perfezione, la Monade Suprema "attrae" tutte le altre verso di sé (v. il Motore Immobile di Aristotele), secondo un processo che appare dunque di tipo finalistico e che, secondo Leibniz, si accorda molto meglio della visione anti-finalistica di Spinoza, con la tesi della libera creazione dell'universo. 4
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