Due giorni fa sono stato al funerale di un amico
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Due giorni fa sono stato al funerale di un amico
Le parole sono importanti? di Beppe Bovo Due giorni fa sono stato al funerale di un amico. Come sempre, della Messa ho seguito con attenzione la prima parte quella dedicata alla Parola. Una delle due letture previste era quell’inno all’amore (Paolo, lettera ai Corinti, cap. 13) che trovo tra le cose più intense e più poetiche della Bibbia. L’ho letto un’infinità di volte, lo conosco quasi a memoria e ascolto che legge abbandonato alla sua voce. “Fratelli, se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non avessi l’amore sarei come una campana che suona a vuoto…”. Tutto risuona profondo e dolce finché al terzo versetto sento “e se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità…” . Mi irrigidisco, qualcosa non mi quadra e controllo ma è proprio così. Possibile che me ne accorga solo ora? E tra me e me partono i pensieri: passi il termine “carità” che se chiedessi cosa significa a chi sta camminando tra le bancarelle del mercato ne avrei di sicuro risposte molto colorite ma lontane da quello che intendeva l’apostolo Paolo, ma “consegnare il mio corpo per averne vanto” qualcuno sa dirmi cosa significa? E per qualcuno intendo qualsiasi persona che legge più o meno quotidianamente un giornale e che ha sul comodino un romanzo con il quale si addormenta la sera. Resto interdetto. E però questa versione non mi suona familiare, e scatta in me il mio malsano furore filologico che dovrei controllare ma non sempre ci riesco. Appena a casa prendo il “Nuovo Testamento, greco italiano” traduzione della CEI con apparato critico di A. Merk, edizione bilingue di G. Barbaglio e leggo: “e se distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato…” Corro con l’occhio all’apparato critico che mi indica tre versioni possibili: a) traduzione più conforme all’originale: e se consegnassi il mio corpo perché io sia bruciato b) variante: perché io possa menar vanto (Nestle-Alaud) (non so chi siano e non approfondisco) c) altra variante: perché esso (il corpo) sia bruciato. Vado in internet e cerco altre traduzioni. La TILC (Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente): “Se do ai poveri i miei averi, se offro il mio corpo alle fiamme.” Analoghe alla traduzione CEI sono la “Nuova Riveduta”, la “Diodati”, la “Nuova Diodati”, la “Bibbia della Gioia” (alcune con un’unica variante: il “bruciato” diventa “arso”, termine antiquato ma comprensibile). Basta, mi fermo! e cerco di pensare e non mi riesce altra considerazione che questa: se tra tutte le versioni possibili è stata scelta l’unica incomprensibile, assurda, quella più lontano dal reale e quindi più vicina al vuoto, ci deve essere un tarlo che corrode alcune menti e le rende aliene a ogni volontà di comunicazione. Poi mi accorgo che la versione che ho citato appena sopra come “traduzione della CEI” è il testo adottato nel 1974 mentre quella che ho sentito leggere al funerale del mio amico è il testo, sempre della Cei, adottato nel 2008. Ancora più stupito! Sconfortato mi tocca concludere che, dal 1974 al 2008, si è fatto un passo avanti, di un bel passo avanti verso la babele della comunicazione, verso lo svuotamento dei significati, dentro la valanga di parole che sempre più ci sommerge e che non comunica niente. Ma se una Buona Novella non comunica niente a cosa serve? Se, di fatto, per colpa di incoscienti-incompetenti-dilettanti, aggiunge confusione a confusione, vuoto di significato ai tanti altri vuoti di significato a chi serve? Ecco, ci sono ricascato: il mio furore filologico mi ha preso e ancora una volta mi ha portato lontano, forse troppo lontano. Ritorno al ragionare pacato, riparto da un’osservazione quasi banale: le parole sono importanti. Certo, sono molto importanti. Sono l’unico mezzo (o quasi) che abbiamo per penetrare la preziosa sostanza che sta sotto a quello che i nostri occhi vedono, le nostre orecchie sentono, quello per cui il nostro cuore vibra. E se ti riesce di raggiungerla, sia pure a brandelli e sempre con estrema fatica, è con la parola che riusciamo a fissarla, a dargli una fisionomia, a depositarla dentro alle nostre coscienze. Ed è con la parola che riusciamo (se e quando ci riusciamo, anche questo non senza molta fatica) a condividerla con chi ci sta vicino. Le parole sono sacre, la Parola è sacra, sono l’unica ricchezza che abbiamo. Bistrattarle fino a renderle uno straccio inutile è peccato. Di questa ricchezza e di questo peccato si parla poco, troppo poco. Certo, se ne dovrebbe parlare di più. 18.2.20016