Il “terzo occhio” della vecchiaia: tempo e antenne per l`età libera

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Il “terzo occhio” della vecchiaia: tempo e antenne per l`età libera
5° Corso per Psicologi
Il “terzo occhio” della vecchiaia:
tempo e antenne per l’età libera
G Gerontol 2009;57:369-376
Giovedì, 3 dicembre 2009
Prima sessione
Il Tempo
Moderatore: A. Tognetti (Roma)
Passato e presente: il genogramma
fotografico
L. Merli
Psicologa Psicoterapeuta Familiare e Relazionale, Specialista in Psicologia Clinica, Firenze
“Manteneva intatta la sua bellezza nonostante i suoi 45 anni”
da “Il Conte di Monte-Cristo” di A. Dumas
In un’ottica fenomenologica, la temporalità non viene intesa come
passato, presente e futuro, ma come capacità di darsi un passato,
un presente ed un futuro. Quando si destruttura questa capacità abbiamo i fenomeni patologici della depressione che si raccoglie tutta
nel passato, oppure al contrario, della mania che si esprime in un
presente senza passato e senza futuro (Biswanger).
È l’individuo-nel-mondo che si dà specifiche modalità di spazializzarsi, temporalizzarsi e coesistere ad esempio appunto privilegiando
il futuro, quando è persona realizzata, o rimanendo attaccato al
passato in un assoluto rimpianto senza alternative o rimanendo
immobile in un presente che non ha radici né progettualità come
nella personalità maniacale.
Nel passato, anche più prossimo, gli anziani erano considerati rigidi,
con difese ormai fossilizzate, con “troppo materiale”, le esperienze
di una vita intera su cui lavorare, ma i più recenti apporti della
psicogeriatria hanno evidenziato invece quanto fruttuoso può essere il lavoro psicoterapico con gli anziani che si trovano in una
fase incerta, in cui spesso le difficoltà del corpo che invecchia si
aggiungono quelle della psiche: persone che fanno fatica a superare
la perdita del coniuge o la conclusione della carriera lavorativa o,
ancora, che non riescono più a tenere saldi i legami familiari per le
più variabili cause.
Perché il genogramma, ed in particolare il genogramma fotografico,
possono essere di aiuto?
Il genogramma, la continuità di una stirpe nel tempo è stata rappresentata con l’immagine dell’albero genealogico, che simboleggia
appunto, il legame tra il passato (radici, avi) e l’avvenire (germogli,
discendenti) pasando per il presente (il fusto, i rami). Quest’immagine dell’albero genealogico è stata riutilizzata da alcuni terapisti
familiari (partendo da Bowen) per elaborare quello che è stato
definito genogramma: da un punto di vista grafico, esso mantiene
le caratteristiche tipiche dell’albero, mettendo l’accento sull’aspetto
strutturale, funzionale e relazionale dei legami esistenti tra i membri
della famiglia. Esso è stato usato in vari contesti e con vari obiettivi
(terapia, supervisione, formazione), da semplice tecnica a strumento
terapeutico a sé stante. Ciò che è da sottolineare è che privilegia la
ricerca di senso e dà spazio all’immaginazione.
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In ambito clinico il genogramma consente di tracciare una rappresentazione visiva della struttura familiare (diadi, triangoli), della
storia (accadimenti particolari, nascite, morti) e dei rapporti intergenerazionali (trasmissione dei valori, dei modelli di realzione, dei
sintomi) e le prospettive multigenerazionali dei debiti e dei crediti
(Boszormenyi-Nagy).
Ha inoltre il vantaggio che questa tecnica può anche essere applicata
in gruppi terapeutici, contesto a cui la mente gruppale apporta un
notevole vantaggio sia sul piano cognitivo che affettivo.
Perché fotografico dunque? Perché le foto sono un mezzo per rivedere il passato e per tornare in contatto con esso: sono un mezzo
attraverso il quale possiamo scoprire molte più cose di quelle che ci
sono state raccontate. Si possono vedere nel “là ed allora” le relazioni spaziali tra le persone, lo stile di vita, l’apertura o la chiusura del
sistema famiglia, i periodi critici ed i periodi felici, e naturalmente,
narrare con la persona una nuova storia, trovare insieme a chi si
rivolge a noi un nuovo racconto di vita, costruito attraverso un’altra
prospettiva, in una nuova relazione. È importante infatti sottolineare
che nell’ottica sistemica chi osserva va a mutare chi è osservato,
nella relazione e che da ciò scaturisce un’informazione nuova, una
nuova narrazione appunto.
Il linguaggio del corpo è più istintuale: le rappresentazioni nascono
da questo linguaggio, sono insiemi di microeventi di pochi secondi
che il bambino ha appresei dall’essere-con, e dall’essere-di (D.
Stern), dalle percezioni muscolari che avvengono nello scambio.
Chiudendo il cerchio, è proprio anche dalla postura e dalla prossemica che si può evincere il cambiamento delle rappresentazioni.
Inoltre la ricerca delle foto della propria famiglia è comunque una
sorta di “viaggio a casa di Bowen”, un modo per riconnettersi con
quanto ci ha generato ed abbiamo esperito nel tempo.
Consegna: portare circa trenta foto che illustrino la sua storia.
Cosa si osserva?
1. Il ciclo vitale della famiglia.
2. Lo spazio individuale e di gruppo.
3. I confini (individuali, di coppia, famigliari, generazionali).
4. Aree carenti.
5. Periodi di crisi.
6. Individuazione attraverso la famiglia o l’esterno.
7. Prossemica.
Cosa si domanda?
1. Equilibri dinamici/modalità di rapporto verticali.
2. Qualità delle comunicazioni.
3. Gestione dell’aggressività.
4. Confini tra ruoli.
5. Regole familiari.
6. I valori e le aspettative.
7. I vincoli: ogni legame familiare ha in sé i vincoli di lealtà e di debito; il senso di colpa è il segnale di dove sta il legame più forte.
8. Rapporto con gli anziani: in una famiglia normale il figlio prende di più di quello che può dare: atto riparativo nella vecchiaia
dei genitori.
9. Eredità emotiva: viene passato tutto ciò che non è risolto nelle
generazioni successive (es. lutto non elaborato/negato).
10.I periodi di crisi, le risposte adattive o meno ad essi.
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Le osservazioni e le domande sono ulteriori modi, oltre a quello visivo, di elaborare la nuova narrazione della propria storia.
Verrà anche chiesto di scegliere la foto che più piace e quella che
piace meno tra le 30 portate, tecnica simile a quella delle preferenzeidentificazioni presa a prestito dai metodi proiettivi.
La conclusione, anche dopo più sedute, del genogramma consiste
in una restituzione che dovrà essere ascoltata dalla persona senza
possibilità di replica in quella seduta, per evitarne l’immediata
rielaborazione. Ovviamente si tornerà su quanto ricostruito insieme
nelle sedute successive.
Presentazione del quadro di Velasquez “Las Meninas” : in ultima
analisi si ricorda che chi osserva diventa parte del sistema osservato
ed è pertanto utile che sappia, per quanto possibile ed in coscienza,
discernere gli aspetti che gli appartengono da quelli che va ad osservare.
Venerdì, 4 dicembre 2009
Seconda sessione
L’ambiente
Moderatore: L. Bartorelli (Roma)
“Altro tempo e altri luoghi”:
residenzialità e benessere psichico
M.F. Turno
Scienze psichiatriche e riabilitative dell’anziano, Scienze della Formazione, LUMSA, Roma
L’environmental assessment, ovvero gli studi che si occupano direttamente dell’accertamento delle qualità ambientali e dei giudizi che
su di esse si formulano le persone, e l’environmental appraisal, ovvero gli studi che riguardano i sistemi di preferenze personali rispetto
all’ambiente sono entrati direttamente nella procedura multifasica
di valutazione dell’ambiente applicata a strutture residenziali per
anziani. Tale procedura, Multiphasic Environmental Assessment
Procedure (MEAP), ideata per prima da Moos e Lemke (1984) presso
il laboratorio di Ecologia sociale dell’Università di Stanford a Palo
Alto, e utilizzata per la stima degli ambienti ospedalieri, è stata in
seguito adoperata anche per altre tipologie di ambienti, giacché è
risultata idonea a rilevare, misurare e descrivere le qualità delle
caratteristiche ambientali intese come caratteristiche fisiche, sociali
e allo stesso tempo in che modalità interagiscono fra loro.
Considerando i quattro domini concettuali fondamentali che costituiscono la MEAP, ovvero
1) le caratteristiche del gruppo dei residenti e degli operatori di una
struttura;
2) le caratteristiche strutturali e architettoniche;
3) la politica ambientale, atta a incoraggiare e sostenere la socializzazione dei residenti;
4) il clima sociale valutato attraverso la percezione degli utenti e degli operatori, si è ipotizzato un centro diurno “ideale” per anziani
focalizzando l’attenzione sugli aspetti sociali e sui bisogni degli
utenti.
5° Corso per psicologi
Una ulteriore ricerca condotta con alcuni studenti della LUMSA,
frequentanti il corso di Scienze psichiatriche e riabilitative dell’anziano, ed effettuato su un gruppo di persone che frequentano un
centro diurno e su un altro gruppo (con medesime caratteristiche
concernenti l’età e alcune patologie) che conduce però una vita con
scarsi contatti con propri coetanei, ci ha permesso di identificare nel
secondo gruppo disturbi dell’umore in percentuale maggiore rispetto
a coloro i quali frequentano un centro diurno.
L’isolamento e la depressione si rivelano essere quindi caratteristiche che
si legano fra loro e generano l’aspetto peculiare di una vita socialmente
povera e priva di stimoli che mette costantemente in pericolo la sopravvivenza, lo stato di salute e il benessere generale della persona anziana.
Vivir con vitalitad
F. Migliara
Psicologo e Psicoterapeuta, Bergamo
Vivir con Vitalitad è un programma psicosociale multimediale realizzato in Spagna, finalizzato alla promozione di un invecchiamento
attivo, che vale la pena di sfogliare, sia pure sommariamente, al fine
di gettare uno sguardo su ciò che in Europa gli Stati stanno portando
avanti a tal fine. Ciò, conformemente ad un più recente paradigma
gereontologico internazionale, che sollecita linee d’intervento in tal
senso, tenuto conto che l’invecchiamento della popolazione è un risultato notevole al quale concorrono le variabili in gran parte conosciute. Tuttavia, molto spesso, alla speranza di vita non corrisponde
la speranza di vita libera da disabilità, ma, soprattutto libera da una
cappa grigia che incombe su un segmento del percorso umano fra i
più creativi, carico di storia, di scoperte, di saggezza.
L’obiettivo del mio intervento è di accertare, alla luce delle risultanze
scientifiche odierne, se quella di “vecchiaia” sia una categoria che
possa essere ancora oggi utilizzabile al fine della ricerca scientifica e
della conoscenza; se “vecchiaia” sia un sintagma al quale competano
corrispondenti predicati euristici o, per converso, sia il significante di
una condizione dell’esistere che non può essere ascritta che ad una
condizione estrema della vita. Difatti, sempre più dilatata nel tempo, la
vecchiaia nulla ha a che vedere con la popolazione tardo-adulta che vive
e partecipa attivamente alla vita. La nuova razza, la definisce Valeria
Palermi, quella delle donne che “si portano gli ottant’anni con la nonchalance dei 40, l’entusiasmo dei venti, e la passione di chi sa che ha più
vita alle spalle che davanti…” (l’Espresso, 27 agosto 2009).
Riflettere oggi su un segmento della vita che va dai sessanta ai 95
anni, ma sempre più frequentemente ai cento anni, denominato genericamente e impropriamente “vecchiaia” o, con eufemismi young
old, old, old old, etc. è dovuto, per uscire dalla strettoia semantica
paralizzante che solo una civiltà imbarbarita, culla del dominio,
del profitto e del disprezzo verso ciò o chi non è fonte di guadagni
materiali può sostenere.
“Vecchiaia”, una categoria obsoleta, fissata ad una rappresentazione
sociale che condanna ad una sorta di con-clusione, di pre-morienza,
prima sociale che biologica, chi non è sufficientemente attrezzato
sul piano culturale ed economico. Non esiste in ambito scientifico
concetto che abbia nociuto così pesantemente allo studio di un ciclo
5° Corso per psicologi dell’esistenza sempre più rilevante, prodotto di un’ideologia medicalizzante: vecchiaia = malattia. Non si tratta di una disputa terminologica, non si vuole ignorare una variabile attiva, condizionante:
l’eterogeneità delle classi sociali; evidenziare, semmai, l’esistenza
delle “vecchiaie”, molte delle quali segnate da un’insopportabile soglia di povertà. Urge demedicalizzare la “vecchiaia”, per una lettura
della realtà di problematicità e complessità dei contesti, in cui una
parte cospicua della popolazione vive, nel momento in cui il proprio
potere contrattuale è pressoché inesistente.
Nella prefazione ad uno dei lavori più intelligenti e preziosi che Alice
Miller abbia scritto – Il dramma del bambino dotato –, l’analisi di
una delle piaghe più profonde, che incide sulla vita di un bambino,
rassegnandolo ad un’esistenza che oscillerà fra la “grandiosità” e
la depressione severa, cita un proverbio: “ Se uno stolto getta un
sasso nell’acqua neppure cento savi riusciranno a ripescarlo. Perché
mai – continua Miller – i cento savi, devono darsi tanto da fare per
pescare proprio quel sasso, quando di sassi è pieno il mondo? Perché
piuttosto non si guardano un po’ attorno? Forse troverebbero altri
tesori che ora nel loro affannoso quanto vano ricercare nell’acqua si
lasciano sfuggire. Qualcosa di simile – rileva A. Miller – è accaduto
con la parola “narcisismo”. È difficile trovare un altro termine d’uso
scientifico che abbia avuto tanta presa nel linguaggio comune e che
ora sia così arduo restituire alla scienza.”. Ebbene, nello stesso destino ritengo sia incorso il termine “vecchiaia”. Comprendiamo come
possa essere difficoltoso aderire alla proposta che A. Miller fa ai cento
savi, trovare i “tesori” che da qualche millennio, a fasi alterne, ci si
è lasciati sfuggire, presenti in questo “stadio di sviluppo” del corso
della vita, pregiudicato da investimenti semantici, credenze, pregiudizi e stereotipi, che nulla hanno a che vedere con la vitalità di un
corpo sano, che ha settanta, ottanta o cento anni di vita: “Senectus
ipsa morbus est”.
Il concetto di vecchiaia, la risonanza semantica evocatrice di disastri
biologici, che essa ingenera, è il luogo geometrico di pregiudizi e
stereotipi che hanno segnato in negativo la vita di tanta gente, che
finisce, suo malgrado, con l’auto avverare la profezia: la vecchiaia
stessa è una malattia. Ma, pregiudizi e stereotipi sono la manifestazione del fallimento della razionalità e della dialettica; non sempre
allo sviluppo scientifico e tecnologico corrisponde l’invalidazione
degli stessi, i quali, rileva B.M. Mazzara (1997):
… si sono semplicemente adattati a convivere con i nuovi valori
di razionalità e di tolleranza, e si sono trasformati da espliciti
e arroganti in impliciti, nascosti o apparentemente ragionevoli;
osteggiati dalle dichiarazioni di principio, vengono poi di fatto
utilizzati molto più di quanto si pensi nell’agire quotidiano.
La ricerca filosofico-scientifica sin dalle origini è stata caratterizzata
da un attento esame della presenza di pregiudizi che avrebbero
potuto inficiare la ricerca stessa. Dal mito della caverna di Platone
nella Repubblica, a Galileo, Spinoza e in Bacone con la teoria degli
idola, solo per citare coloro che hanno rischiato personalmente
la propria vita, i filosofi hanno ingaggiato una battaglia, che si
preannuncia ancora oggi quanto mai indecisa, per smantellare le
barriere che intralciano una conoscenza la più possibile adeguata
dei fenomeni, libera da intralci pregiudiziali e stereotipici. Mentre
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i pregiudizi precedono l’esperienza e ad essi non fanno riscontro i
dati empirici, gli stereotipi sono immagini mentali, secondo Walter
Lippmann, che mediano la relazione fra soggetto conoscente e oggetto da conoscere, una sorta di pseudo-ambiente, il cui esito è una
rappresentazione della realtà semplificata, ma, proprio per questo,
impoverita e rozza. Tale operazione è determinata e sostenuta da
rigide determinanti culturali; sarebbe ingenuo pensare che il singolo
possa autonomamente elaborare stereotipi non sostenuti dalla cultura d’appartenenza. Gli stereotipi, inoltre, conseguono l’obiettivo di
strutturare difensivamente una cultura che, in tal modo, perpetua
gli assetti socioeconomici in atto. Ultimo, ma non meno importante,
gli stereotipi hanno un ruolo decisivo nel sostegno delle politiche
della ricerca scientifica e conseguente interpretazione dei dati.
La vecchiaia, anche se oggi meno che in passato, ingenera reazioni
difensive. I sinonimi che sono stati coniati nel tempo, pur con il massimo impegno nel tentativo di attenuare i fantasmi che essa evoca,
sono risultati vani e presumibilmente ciò non poteva essere evitato.
Per di più non esiste semeiotica biopsicologica dalla quale risulti che
l’inizio della vecchiaia sia da datare dai 65 anni in poi (young old),
o che dai 75 agli 84 ci si trovi catapultati fra gli old old e che dagli
85 ai 100 ci si trovi fra gli oldest old. Non è sostituendo al termine
vecchiaia quello di “terza età”, “quarta età”, “persona di una certa
età”, ecc. che la condizione di chi convenzionalmente viene definito
“vecchio”, con le corrispondenti risonanze negative, possa trarre
alcun vantaggio. La periodizzazione è convenzionale, non ha alcun
fondamento scientifico. È stato giustamente osservato: “non esiste
la psicologia del novantenne e del centenario, ma ci sono tante
psicologie quanti sono i novantenni e i centenari” (Cesa-Bianchi,
C. Cristini, 2009), lo stesso concetto ritengo possa essere esteso alla
vecchiaia. Di fatto, gli stereotipi a carico della vecchiaia sono per lo
più negativi. Alla vecchiaia sono attribuiti tratti comportamentali
quali l’egoismo, la cattiveria, l’imbecillità e tanti altri.
La cultura “giovanilista” narcotizzante dei sistemi produttivi orienta
l’opinione pubblica alla dipendenza dal mercato, ed emargina, nel
contempo, la popolazione anziana, rassegnandola ad un invecchiamento passivo spesso vissuto con vergogna, lontano dalla vitalità con
cui sempre più tante vecchiaie sono vissute, ma delle quali i mass
media tacciono.
Guido Petter, nel suo ultimo lavoro, Per una verde vecchiaia, (Firenze 2009), peraltro scritto a 82 anni, nell’evidenziare quelle che
egli definisce le idee ricorrenti ma errate, descrive il contìnuum
tra vecchiaia “grigia” e “verde vecchiaia”. Su questo contìnuum
si dispongono quegli anziani che vivono una vecchiaia infelice,
desolata, grama, e coloro che, al contrario, vivono in modo attivo,
progettuale, coltivano interessi, partecipano attivamente alla vita
e agli accadimenti culturali e sociopolitici e che sono, soprattutto,
indispensabili e produttivi.
Il sillogismo terenziano è applicabile alla prima estremità del contìnuum, non alla seconda.
Non possiamo, a questo punto, eludere una domanda: cosa la società
civile e democratica dovrà fare perché la gran parte della popolazione anziana che vive in una condizione sfavorevole la terza o la
quarta età, che dir si voglia, possa condividere la “verde vecchiaia”?
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Spazi ambientali, luoghi di significato:
reciproche modificazioni nel tempo
della terza e quarta età
P. Beffa Negrini
Università Cattolica del Sacro Cuore Milano
Introduzione. Nell’Unione Europea vi sono attualmente più di 70
milioni di ultra sessantenni, il che corrisponde al 20 per cento della
intera popolazione. Tra 20-30 anni in Italia, secondo una indagine
Eurispes, avremo un anziano ogni tre cittadini.
Oltre alle modificazioni fisiologiche, in particolare endocrinometaboliche e socio-familiari-lavorative che caratterizzano la terza
età, e a quelle che contraddistinguono maggiormente la quarta
età, intervengono dei cambiamenti importanti nello stile di vita che
coinvolgono non solo la persona stessa, ma anche il suo ambiente
di riferimento.
L’obiettivo virtuoso appare allora quello di offrire sempre più concrete possibilità non solo di interpretare questi ultimi anni al meglio
delle funzioni biologiche e fisiche, ma di impreziosirli sul versante
cognitivo e relazionale, puntando ad una qualità di vita che, mentre
diventa garante del “grande vecchio”, consenta peraltro una programmazione, della sanità e della assistenza, compatibile con risorse
economiche socialmente sostenibili e rispettosa delle nuove esigenze
che si affacciano.
5° Corso per psicologi
L’assistenzialità non si esprime esclusivamente attraverso la realizzazione di strutture di accoglienza e cura, ma anche – e sempre di
più – mediante il rendere possibile la vita dell’anziano nel rispetto
delle sue abitudini, dei suoi bisogni e della continuità della sua esistenza senza eccessivi strappi.
Obiettivi. Obiettivo del presente lavoro è quello di soffermare lo sguardo
sulle diverse esperienze che comportano la modificazione del rapporto
dell’anziano con i luoghi di vita, l’organizzazione degli spazi, la gestione del proprio tempo e degli oggetti. Ciò sia rispetto a esperienze di vita
comunitarie e più strettamente assistite (RSA, alloggi protetti, case di
riposo etc.), che al mantenimento del proprio domicilio (ridefinizione
dell’ambiente domestico in base alle nuove esigenze dettate dall’età
e dallo stato di salute, esperienze nuove quali il cohousing, l’aiuto
della domotica applicata all’ambiente di vita); ma anche rispetto al
significato psicologico che qualsiasi tipo di cambiamento necessario,
di adattamento migliorativo o di scelta di vita può comportare per
l’anziano in relazione al proprio spazio ambientale.
Risultati. Nelle RSA o case di cura o di riposo si evidenzia negli ultimi
anni la tendenza non solo a garantire ambienti oggettivamente su
misura per l’anziano, ma anche in grado di corrispondere alle esigenze soggettive dell’ospite: sono in aumento gli alloggi protetti in
grado di favorire una maggior autonomia, la tendenza (seppur nel
rispetto dei criteri regolamentati) ad una maggior personalizzazione
degli ambienti, il favorire la percezione di un luogo dove vivere da
protagonisti più che da ospiti.
Al tempo stesso, d’altro canto, è sempre più riconosciuta l’importanza di poter garantire all’anziano, e soprattutto al grande anziano, il
vivere senza cambiare ambiente, quando possibile.
Per poter continuare a vivere nelle proprie case, uno dei principali
bisogni espressi dalle persone anziane consiste nel dover adattare
l’ambiente domestico alle proprie abilità e nel dover individuare
soluzioni per l’accessibilità, la fruibilità e vivibilità della propria
abitazione. Sono oggi disponibili sul mercato numerosi prodotti e soluzioni che permettono di modificare l’ambiente in modo funzionale
alle abilità residue della persona. Esistono, inoltre, leggi nazionali e
regionali che prevedono contributi ed agevolazioni per l’acquisto di
ausili, strumentazioni, arredi e per interventi finalizzati al superamento delle barriere architettoniche negli edifici privati.
Ambient Assisted Living (AAL) indica un nuovo approccio allo sviluppo di tecnologie e servizi, promosso dall’Unione Europea, che
risponde a tali necessità in modo innovativo, adottando appropriate
metodologie progettuali, quali la Progettazione Centrata sulla Persona, che coinvolge direttamente nel processo di design non solo la
persona anziana, ma anche i suoi familiari ed i fornitori dei principali servizi alla persona.
Il fenomeno del cohousing, da noi ancora scarsamente sviluppato,
laddove viene supportato tende a perseguire progetti in grado di
offrire la garanzia di un ambiente sicuro, con forme alte di socialità
e collaborazione, particolarmente idoneo per la crescita dei bambini
e per la sicurezza dei più anziani.
Si fa, dunque, sempre più strada il riconoscimento di quanto sia
importante garantire all’anziano la possibilità di continuare a
mantenere le proprie abitudini e le proprie relazioni interpersonali ed inoltre di poter esprimere la propria attenzione all’estetica
ambientale (che non è prerogativa solo dei più giovani). Esempi di
5° Corso per psicologi ciò li possiamo ritrovare negli aspetti quotidiani del vivere: molto
semplicemente se l’anziano non può più uscire frequentemente di
casa a causa della presenza di barriere non facilmente superabili
(le scale, ad esempio) diminuiranno drasticamente i suoi contatti
sociali. Oppure, fenomeno che sta proliferando nelle grandi città,
la ridistribuzione delle aree urbane porta sovente ad un isolamento degli anziani che, non potendo trasferirsi altrove, restano
a popolare zone dove le infrastrutture vengono meno, i luoghi
di aggregazione diminuiscono o sono occupati da altri gruppi
non compatibili (nei quartieri ad elevato insediamento di nuovi
gruppi – ad es. extracomunitari – gli anziani rimangono emarginati dalle nuove forme di vita comunitaria). O ancora, se la casa
dell’anziano non è confortevole ed accogliente verranno meno gli
stimoli a servirsene quale luogo di incontro con parenti ed amici
e, di conseguenza, i luoghi di ritrovo diventeranno forzatamente
altri, meno familiari.
Anche in relazione all’attività psicologica, l’attenzione a questi
aspetti non va sottovalutata: il trasferimento del luogo di cura o una
sua importante modificazione strutturale entrano pesantemente in
gioco nel rapporto con il paziente anziano, in termini di accessibilità, fruibilità e familiarità con l’ambiente. Tale aspetto merita di
essere riconosciuto ed affrontato, quale parte integrante dello spazio
fisico-mentale dell’incontro.
Conclusioni. Nelle richieste di sostegno psicologico da parte di persone della terza, ma soprattutto quarta età, si evince una concreta necessità di essere supportati ed accompagnati a trovare e ben accettare
soluzioni di vita diverse e più adattive rispetto la propria condizione.
Ogni cambiamento del proprio ambiente, ristretto o allargato, è vissuto come segnale di qualcosa che modificandosi spezza un equilibrio che va dunque ristabilito secondo nuovi parametri. Non sempre
ciò è vissuto come una difficoltà ineluttabile, ma talvolta – magari
dopo un iniziale senso di smarrimento – come una nuova possibilità
di miglioramento la cui sfida viene accolta con entusiasmo. In questi
casi si evidenzia come spesso le tendenze più frenanti non provengono dall’anziano, bensì dai suoi familiari: la decisione di cambiare,
trasformare, gestire diversamente i propri spazi è accolta come un
capriccio dell’età, come una temerarietà priva di buon senso, che
spesso viene con fatica condivisa. Le dinamiche in campo allora si
articolano e il sostegno psicologico che può essere offerto all’anziano va nella direzione di un guardare insieme cosa sta accadendo e
perché, di una maggior consapevolezza di sé, delle proprie relazioni
diadiche e gruppali, dei propri strumenti e obiettivi.
Bibliografia
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oggetti. Milano: Franco Angeli 2004.
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Ritorna il confronto sul piano casa: quali scenari per l’abitare degli
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Terza sessione
Gli eventi della vita
Moderatore: G. Gori (Firenze)
Il vecchio e la maschera:
rottura e trasformazione
E. Bavazzano
Firenze
Uno degli obiettivi principali della psicoterapia è quello di aiutare le persone a mantenere un costante senso di identità e a
convivere con le diverse anime della loro famiglia interiore senza
esserne possedute 1.
Il vecchio si guarda nello specchio; scorge molteplici volti, frammenti
disordinati di quella identità che è stata mantenuta stabile nel tempo;
con fatica prova a ricomporre un’immagine coerente di sé, in cui potersi riconoscere, ma questa svanisce e compaiono invece i volti che a
lungo sono stati tenuti nascosti, oppure hanno giocato a nascondino.
Dopo tanti anni, a volte una vita intera, la persona che invecchia
scopre la sua molteplicità interna, le maschere di un sé complesso;
la storia di una vita si ricostruisce attraverso la lettura di queste, ma
spesso la persona da sola non riesce a ricomporre un quadro unitario
dotato di un senso, o quantomeno di un senso accettabile per sé.
La maschera è come la pelle, a contatto con il mondo esterno; a volte
questa rappresenta la difesa, il trucco che serve a nascondere i difetti
dei quali la persona prova vergogna, imbarazzo e pudore; altre volte
invece, leggendo attraverso questa, si scorgono quei lati di sé che la
maschera valorizza, partendo dal volto che parla di sé attraverso lo
sguardo, all’interno del quale leggere la personalità custodita dentro, nelle “rughe” di una esistenza che così si auto-rappresenta.
Il vecchio ha un volto dalle mille rughe scavate dal tempo, dalla
vita che talvolta è crudele, dalla lontananza di chi incide con
cattiveria il proprio segno nella carne dell’altro, ma anche da
generosità palesi o nascoste. Non sono mai graffiti da cancellare,
perché testimonianza di un senso, di un’esistenza consumata
alla quale si deve rispetto e vicinanza 2.
È noto, in Psicologia dinamica, che, quando della persona si riesce
ad individuare la sua maschera, quella che, in un momento preciso, entra in scena nel teatro della vita diurna ed anche notturna
(esempi: attraverso una messa in scena di vita quotidiana familiare
intorno ad un tavolo, oppure attraverso la lettura di un sogno), viene
facilitato l’avvicinamento al nucleo autentico di sé che costituisce il
proprio senso di identità.
E così il savio costruttore andava combinando con le figure,
ciascuna delle quali era un pezzo di me stesso, un giuoco dopo
l’altro, tutti lontanamente simili tra loro, tutti appartenenti allo
stesso mondo, legati alla stessa origine eppure sempre nuovi.
Questa si chiama arte di vivere […]
La figura che oggi diventa uno spauracchio insopportabile e vi
guasta il giuoco, domani la degraderete a figura secondaria e
innocua. La cara figurina che per un po’ vi è parsa condannata
alla disdetta e alla disgrazia, nel giuoco successivo la farete
principessa 3.
374
Andare oltre, o meglio ancora leggere attraverso, nella storia del
vecchio, significa in primo luogo riscoprire le figure, ovvero le maschere indossate nel tempo: quelle che hanno contribuito talvolta al
nascondersi del soggetto a se stesso oppure agli altri, camuffando la
propria immagine reale; quelle che invece hanno permesso la valorizzazione della personalità, enfatizzando elementi soggettivi quasi
attraverso una caricatura di sé.
Ogni età della vita può essere raffigurata nella memoria attraverso
immagini particolari che possano aiutare a ripercorrere gli eventi
trascorsi; spesso nei momenti di cambiamento significativo (passaggi attraverso crisi) è possibile avvenga una rottura rispetto al passato
e una trasformazione verso il futuro prossimo: da vecchie maschere
ormai fuori tempo, attraverso uno sgretolarsi naturale e spontaneo
di queste, si attua così una sana trasformazione di sé, riuscendo ad
introiettare il valore positivo del cambiamento, sempre, in ogni età.
Ecco comparire sulla scena alcuni interrogativi in merito al cambiamento che attraversa il vecchio:
Quali aspetti di sé restano, a dare stabilità e coerenza al senso di
identità del soggetto che invecchia?
Quali vissuti si possono accompagnare alla rottura ed alla trasformazione che ne conseguirà?
Quanto la depressione che appare spesso sullo sfondo può essere letta
come naturale e sano vissuto, strettamente correlato al cambiamento, soprattutto nella persona che a questo non era preparata?
Quali contesti di cura possono “proteggere” in modo sano (non
difensivo) la persona che invecchia, mentre, guardando oltre la
maschera, si permette di entrare in contatto con se stessa?
Affinché i luoghi di cura non divengano dei non luoghi, affinché
alla presa in carico di un corpo vi sia anche la presa in carico dell’uomo che vi abita, della sua storia, della sua vita, dei
suoi bisogni, dei suoi desideri, delle sue paure, è necessario far
emergere dallo sfondo la figura del paziente facendosi testimoni
e custodi degli aspetti individuali che lo caratterizzano in un
momento di cambiamento e di sofferenza fisica e psichica 4.
La figura del paziente – qui da leggersi come il vecchio – si viene a
stagliare dallo scenario della sua storia passata; il vecchio, quando
consapevole, attraverso un percorso di psicoterapia (soprattutto
quella di tipo psicodinamico), ha la possibilità di sentire il dolore
per le perdite subite (maschere rotte) ed al medesimo tempo, grazie
alla sofferenza inevitabile nel lavoro dentro sé, conoscersi e scoprire
i propri volti nuovi: rottura e trasformazione vengono a costituire
la trama di un percorso di maturazione che passa dalla crisi e la
supera.
In qualità di psicologi (e psicoterapeuti), ci viene chiesto di saper
lavorare con il dolore, con la crisi, che diviene risorsa e strumento;
ci viene chiesto di riuscire a muoverci dentro questa sofferenza,
comunicando all’altro, che ci siede davanti, il desiderio di vita,
nella spinta alla rinascita all’interno della relazione terapeutica,
principale strumento di un lavoro che inevitabilmente si sostanzia
sull’autenticità dell’incontro empatico tra (almeno due) persone
reali, in un “sentire insieme” dove il dolore viene espresso nei tratti
del volto o comunicato attraverso parole, e il terapeuta aiuta essendo
comunque persona distinta dall’altro, personaggio che rappresenta,
convalida, interpreta, proprio perché si pone in relazione 5.
5° Corso per psicologi
Tutti quei personaggi, quelli di cui si sente una eco sottile e quelli
di cui si ode una voce chiara, sono impegnati in un processo che
conduce verso il centro, nel riconoscimento della dimensione
autentica del Sé, sempre presente a guida e direzionalità della
crescita personale, così che ogni stadio di questo sviluppo avvicini
sempre più alla Auto-realizzazione 6.
Come per la persona giovane o adulta, così per la persona anziana,
il lavoro di cura psichica passa attraverso un interscambio continuo
tra maschera come difesa e maschera come personalità autenticamente mostrata nel gioco della vita; nessuna tecnica deve costringere
il paziente a demolire la prima (solo perché è stata tirata su, la difesa
va rispettata, almeno fintantoché il soggetto non sia realmente in
grado di proteggersi con strumenti differenti e più sani) e mostrare
solo la seconda (attenzione al rischio della vulnerabilità non sempre
sostenibile!).
E come il vecchio paziente presenta la sua maschera ed è pronto a
metterla in gioco nella cura, così sono chiamate in causa le maschere dello psicoterapeuta, che non può non entrare in una dinamica
per cui le regole del setting da stabili diventano flessibili, dalla interpretazione c’è uno spostamento verso tutti i modi di attivare autentici processi di cambiamento tra rottura e trasformazione.
Ci sono molti modi, oltre all’interpretazione, in cui una persona
può agire terapeuticamente su un’altra […] Comprendere,
ascoltare, condividere, criticare, confortare, stimolare, commuovere e permettersi di essere commossi, incoraggiare, provocare,
tollerare; e forse, soprattutto, essere il più possibile autentici 7.
L’obiettivo centrale del lavoro psicoterapeutico può essere rappresentato dalla Auto-realizzazione, che passa per la ricerca del senso di
identità, che in momenti difficili la persona può avere smarrito e, per
ritrovare il quale, può chiedere aiuto; è un processo graduale quello
che deve verificarsi all’interno del setting, tanto più delicato quanto
più la persona sia dentro la dimensione della crisi e faccia fatica a
scorgere le vie di uscita da questa, andando verso un ritrovato equilibrio in sé, che necessariamente comporta rottura e trasformazione,
ma non abbandono assoluto della maschera.
L’uso creativo della maschera può essere un valido strumento di
lavoro psicologico con il vecchio, sia in chiave analitica nell’ottica
di un percorso psicoterapico che solo un professionista nel settore
potrà condurre efficacemente e senza rischio, sia nella concretezza
della messa in scena teatrale all’interno della programmazione di
attività di animazione improntate sulla soggettività relazionale in
una rete relazionale, in contesti quali centri diurni e residenze 8, ma
prima ancora nei luoghi di aggregazione in cui il vecchio incontri
altri vecchi ed in loro le maschere.
Bibliografia
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Masera G. L’empatia di Edith Stein: la giusta distanza per essere accanto all’altro. I luoghi della cura 2007;3.
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luoghi della cura 2006;2.
La rappresentazione della figura umana
nel soggetto anziano e le metafore del corpo
V. Da Pieve *, G. Melli **
Casa di Cura “Le Terrazze”, Cunardo (VA); ** Dipartimento prevenzione
e salute dell’invecchiamento, Istituto di Psicologia Clinica “Rocca – Stendoro”, Milano
* Da anni il nostro gruppo di lavoro, con diverse modalità, tenta di
approfondire le svariate e complesse sfaccettature del corpo e della
percezione della propria corporeità nell’anziano; sappiamo, infatti,
che l’invecchiamento, spesso, porta con sé una ferita narcisistica
profonda nella persona, che sente minata la propria integrità fisica
(es. malattie degenerative ed invalidanti, necessità di utilizzare un
ausilio o la perdita progressiva di alcune funzioni di base), il senso
di continuità dell’Io ed anche la propria progettualità nel mondo.
Questi cambiamenti devono, quindi, a nostro parere, essere sempre
più sostenuti da un lavoro preventivo e psico-geragogico, per garantire il cosiddetto “successfull aging”.
Anche l’ambiente in cui si è inseriti, nonché i rimandi di carattere
sociale e culturale che il contesto trasmette alla persona, influenzano, in modo più o meno forte e determinante, il processo che prima
abbiamo descritto: il processo d’invecchiamento di ognuno di noi,
infatti, è inserito e, spesso, profondamente condizionato da una serie
di stereotipi socio-culturali, che imbevono il soggetto nel Conscio e
nell’Inconscio.
Ecco che, partendo proprio da questi elementi di base, abbiamo
pensato di iniziare uno studio pilota, in parte quantitativo, in parte
qualitativo, centrato sulla rappresentazione della figura umana nel
soggetto anziano, attraverso due strumenti immediati, pregnanti
di significati molteplici, di proiezioni ed emozioni: il disegno e la
metafora.
Il disegno, nelle diverse fasce d’età dell’uomo, grazie alle sue variabili grafiche, formali e di contenuto, si rivela un prezioso strumento
diagnostico e “costituisce una via di accesso privilegiata alla conoscenza dell’inconscio” 1; la metafora (dal greco µεταϕορα, “portare oltre”) permette di veicolare qualcosa che, per qualche motivo,
non si riesce ad esprimere (a differenza della similitudine, infatti,
nella metafora manca l’elemento che introduce il paragone), portando con sé nuovi significati e nuove implicazioni (un’eccedenza di
significato). Insomma la metafora è un modo per rendere partecipe
l’altro di una nostra realtà del mondo difficile da comunicare in
altro modo, in parte cosciente, in parte inconscia.
Prima di illustrare il disegno dello studio in dettaglio, è bene fare
alcune premesse riguardo alla rappresentazione della figura umana,
375
facendo una prima importante distinzione, psicoanalitica potremmo
dire, fra “schema corporeo” ed “immagine corporea”.
Lo “schema corporeo” è una rappresentazione topografica e spaziale del corpo che permette al soggetto di orientarsi nel mondo
e rispetto all’ambiente esterno; come lo definisce Head nel 1920
“una struttura precosciente che si fonda sulla comparazione e integrazione a livello corticale delle passate esperienze cinestesiche,
posturali, tattili e visive con le sensazioni attuali” 2. Insomma, si
può dire che lo schema corporeo è piuttosto standardizzato e dato
biologicamente.
L’“immagine corporea”, invece, non è solamente una somma di
percezioni di natura biologica, bensì una struttura dinamica, in
continuo movimento ed evoluzione, prodotto dell’integrazione di
aspetti fisiologici, psichici ed il contesto socio-culturale, quindi della
storia individuale. Fenichel la definì come “la somma delle rappresentazioni psichiche del corpo e dei suoi organi, affermando che tale
somma non coincide con il corpo oggettivo” 3.
L’immagine corporea è il risultato di un complesso pool di fattori e
variabili interni ed esterni al soggetto 4:
• il contatto con se stessi;
• il contatto con gli altri;
• l’organizzazione spaziale;
• le sensazioni piacevoli e spiacevoli provenienti dagli organi interni e periferici;
• la risoluzione o la frustrazione dei bisogni;
• l’approvazione o disapprovazione dell’ambiente sociale e familiare.
In età anziana, come in tutte le età della vita umana, specialmente
nei passaggi evolutivi più complessi e radicali, si può parlare di
corpo percepito, di corpo rappresentato, di corpo vissuto, di corpo
conosciuto, di Io corporeo 5-6; in fondo, come già scriveva Freud 7 nel
1920, l’Io è primariamente un’entità corporea, un “Io-corpo”.
Attraverso il disegno della figura umana e la metafora abbiamo voluto concentrare la nostra attenzione maggiormente sull’immagine
corporea, una rappresentazione mentale interiore, ricca di emozioni,
dinamica e, spesso, in gran parte inconscia.
Il nostro studio sperimentale, per ora ancora limitato ad un piccolo
numero di soggetti anziani (N = 50) di età superiore ai 75 anni, si
pone lo scopo di stabilire se esistano:
• correlazioni di carattere quantitativo e qualitativo fra il grado di
autonomia ed autosufficienza dei soggetti studiati e la rappresentazione corporea;
• differenze statisticamente significative fra il gruppo degli anziani istituzionalizzati o ospedalizzati in struttura riabilitativa
intensiva per lunghi periodi e quelli che ancora vivono al proprio
domicilio.
Materiali e metodi. Il campione di studio è costituito da un numero
di 50 pazienti.
Criteri di inclusione:
• età superiore ai 75 anni;
• di entrambi i sessi.
Sono stati esclusi pazienti con conclamato decadimento cognitivo
(MMSE < 24), danno neurologico centrale accertato, pregressi psichiatrici o problematiche psichiatriche conclamate in essere.
376
Sono stati utilizzati:
• il test della figura umana (DFU) e colloquio orientato alla descrizione della figura rappresentata; dopo l’inchiesta il soggetto
è stato stimolato a dare un nome alla persona rappresentata,
farne una breve descrizione (età, breve storia di vita) ed a fare
una metafora sul corpo delle figure umane disegnate (“Il corpo
di … è come …”);
• questionari sullo stato di benessere (Affect Balance-Scala di equilibrio affettivo, scala di autostima di Rosemberg);
• schede Barthel (modificato) e Rivermead Motor Scale.
Come per il livello cognitivo, anche per la funzionalità ed integrità
corporea i due gruppi, quello degli anziani a domicilio e quello degli
istituzionalizzati, sono equiparabili, con un carico assistenziale leggero o nullo (Barthel > 84-100).
Durata della prova 30 minuti (in media) per ogni soggetto.
Analisi statistica:
• correlazioni tra i dati emersi dalla somministrazione del test
D.F.U., in particolare secondo gli indici di convergenza descritti dal Test 4 e con un’attenzione specifica ad alcuni elementi
frequenti nei soggetti anziani (es. cancellature, annerimenti,
accentuazione di alcune parti anatomiche – braccia, gambe,
organi genitali, naso –, ordine di comparsa delle diverse parti
della figura, immagine disegnata per prima – dello stesso sesso o
del sesso opposto, differente modo di disegnare le due figure);
• confronto delle caratteristiche prevalenti dei disegni con le scale
di autonomia personale e sullo stato di benessere;
• osservazioni qualitative sulle metafore utilizzate o sulle storie
raccontate rispetto alle figure umane disegnate ed alle vite, corporeità e personalità dei soggetti intervistati.
In generale possiamo evidenziare, in tutti gli anziani del campione,
evidenti e massicce proiezioni della propria corporeità nell’immagine disegnata, specialmente quella di sesso opposto; molti soggetti
che utilizzano un ausilio lo rappresentano in modo evidente nel
loro disegno. L’età delle persone rappresentate è, per lo più vicina
a quella del campione, ma, spesso, si evidenzia uno scostamento
con le storie raccontate rispetto ai personaggi rappresentati: storie
che, frequentemente, gli anziani traggono da esperienze realmente
vissute in prima persona, o da familiari, o dal mondo circostante, per
5° Corso per psicologi
loro affettivamente significative, relative ad un passato che ora non
c’è più, ma di cui anche solo il ricordo rende sereni e felici.
Proprio l’inchiesta sul disegno risulta essere la parte più interessante, perché crea un legame intimo e forte con l’intervistato e
gli permette di narrarsi all’interlocutore, di essere scoperto e di
riscoprirsi a sua volta: passato e presente prendono vita nella figura
umana rappresentata attraverso le parti anatomiche, il vestiario, gli
accessori. Nel disegno si evidenziano dati di realtà (ad esempio ausili, arti zoppicanti), paure inconsce, proiettate, spesso, sulla figura
di sesso opposto, ed elementi compensatori, difensivi: ad esempio
braccia lunghe per compensare sentimenti di rabbia impotente e
di frustrazione; seno pronunciato (elemento compensatorio di una
ferita narcisistica).
Il modo di procedere nel disegno, nella maggior parte dei soggetti,
va dall’alto al basso, dalla testa ai piedi; il tronco viene rimarcato
molto, mentre il collo piuttosto trascurato, se non, in taluni casi,
inesistente.
La figura, di dimensioni piuttosto piccole rispetto al foglio, viene
disegnata, da un numero consistente di soggetti, in alto a sinistra.
Le metafore utilizzate dagli anziani per parlare del corpo delle persone rappresentate sono, generalmente, molto concrete e traggono
spunto da oggetti di uso quotidiano o da avvenimenti del presente;
a volte, poi, nemmeno loro riescono a comprenderne a pieno la
portata.
Queste sono solo alcune delle riflessioni rispetto al nostro studio pilota, alle quali ci limitiamo qui per questione di necessaria brevità.
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