Agosto 2001 - Ordine dei Giornalisti
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Agosto 2001 - Ordine dei Giornalisti
Anno XXXII n. 7, luglio-agosto 2001 Ordine Direzione e redazione Via Appiani, 2-20121 Milano Telefono: 02 63 61 171 Telefax: 02 65 54 307 dei Giornalisti della Lombardia http://www.odg.mi.it e-mail:[email protected] Spedizione in a.p. (45%) Comma 20 (lettera b) dell’art. 2 della legge n. 662/96 Filiale di Milano Associazione “Walter Tobagi” per la Formazione al Giornalismo Istituto “Carlo De Martino” per la Formazione al Giornalismo I ministri dell’Economia e del Lavoro hanno anticipato le iniziative sui sistemi previdenziali anche privatizzati Tremonti e Maroni: libertà di cumulo Inpgi nel panico: per noi sarà il crack di Franco Abruzzo Frattanto l’Istituto porta a 15 milioni la somma esente cumulabile a favore di chi ha la pensione di vecchiaia anticipata o la pensione di anzianità Nei programmi del ministero Berlusconi rientra l’abolizione integrale del divieto di cumulo tra pensione e redditi di lavoro (autonomo e dipendente). È un evento, questo, vissuto con panico nell’Inpgi: un recentissimo studio attuariale paventa il crack dell’Istituto. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ascoltato il 4 luglio dalle commissioni Finanze di Camera e Senato, ha spiegato che “quest’operazione si può in qualche modo connettere con i progetti complessivi di emersione contenuti nella manovra dei cento giorni”. La legge n. 388/2001 (Finanziaria 2001) ha introdotto una nuova modifica al divieto di cumulo, portando al 70% la cumulabilità tra pensioni di anzianità e redditi di lavoro autonomo o dipendenti, mentre le pensioni di vecchiaia e quelle liquidate con anzianità contributiva pari o superiore a 40 anni sono interamente cumulabili con i redditi di lavoro sia autonomo che dipendente. Con il prossimo intervento, verrebbe meno anche l’ultimo divieto; e le regole sono estese automaticamente anche alle case privatizzate, che svolgono funzxioni sostitutivi (come l’Inpgi) nei riguardi dell’Inps. Il 5 luglio, a margine dell’assemblea annuale di Confcommercio, il ministro del Lavoro, Roberto Maroni, ha confermato che “il Governo abolirà il divieto di cumulo”. Il cerchio si chiude. Nelle stesse ore la libertà di cumulo tra pensione redditi da lavoro dipendente e autonomo è sbarcata anche nel pianeta Inpgi, ma riguarda solo i titolari di pensione di vecchiaia (con 40 anni di contributi). La novità è contenuta nella delibera approvata il 4 luglio dal Consiglio generale dell’Istituto, che ha modificato l’articolo 15 del suo Regolamento. Il 15 è l’articolo sulla disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente e autonomo. Il Consiglio ha stabilito, inoltre, che “il trattamento pensionistico di vecchiaia anticipata è cumulabile con i redditi da lavoro autonomo e dipendente fino al limite massimo di 15 milioni” (rivalutati ogni anno in base agli indici Istat). Chi ha una pensione di anzianità può cumulare fino a 15 milioni a patto che siano soltanto redditi di lavoro autonomo. La somma dei 15 milioni, a differenza del passato (quando il tetto cumulabile era di 9,6 milioni), è esente. Queste le novità (in vigore dal 1° gennaio 2001 una volta ratificati dai ministeri vigilanti del Tesoro e del Lavoro): • Le pensioni di vecchiaia sono cumulabili con i redditi da lavoro autonomo e dipendente nella loro interezza. • Il trattamento pensionistico di vecchiaia anticipata è cumulabile con i redditi da lavoro autonomo e dipendente fino al limite massimo di 15 milioni. La quota di reddito eccedente tale limite è incumulabile fino a concorrenza del 50% del predetto trattamento pensionistico, al netto della quota cumulabile. • Le pensioni di anzianità non sono cumulabili con i redditi da lavoro dipendente nella Il tribunale annulla le dimissioni forzate Annullamento delle dimissioni presentate da una giornalista ingiustamente minacciata di licenziamento per incapacità professionale – Vizio della volontà (Tribunale di Roma, Sezione Lavoro 25 maggio 2001, Giudice Taraborrelli). La giornalista Carola R., dipendente dell’Ansa come “collaboratrice fissa”, ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare, per vizio della volontà, le dimissioni da lei presentate dopo alcuni anni di lavoro. Ella ha sostenuto di essere stata costretta a dimettersi per evitare un ingiusto licenziamento per incapacità professionale, minacciatole da un rappresentante dell’azienda. L’Ansa si è difesa sostenendo che alla giornalista erano state rappresentanti gli inconvenienti derivati da alcuni errori da lei commessi e che in seguito a ciò la lavoratrice si era spontaneamente dimessa. Il Giudice ha sentito alcuni testimoni al fine di accertare se effettivamente la giornalista si fosse resa inadempiente e se fosse stata minacciata di un ingiusto licenziamento, motivato in modo tale da ledere la sua immagine professionale. Completata l’istruttoria, il Giudice, con sentenza del 25 maggio 2001 (Est. Taraborrelli), ha annullato le dimissioni, ha dichiarato conseguentemente la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed ha condannato l’azienda al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni. (da “www.legge-e-giustizia.it) SOMMARIO Diritto di cronaca / Privacy e giornalismo. Le regole da rispettare pag. 4 Abolizione dell’Ordine? / Botta e risposta tra Abruzzo e il ministro del Lavoro pag. 6 Guerra e mass media pag. 8 Permessi ai consiglieri e ai commissari / Intervengano Castelli e Maroni pag. 14 Uffici stampa / Il parere del Consiglio di Stato sul regolamento pag. 15 Memoria / Ricordando Gianni Brera pag. 22 Elezioni dell’Ordine / Votare in un solo giorno pag. 24 Elenco speciale / Illecita l’autocertificazione pag. 24 Segue a pagina 2 Promosso e organizzato dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Via al 4° Concorso tesi di laurea sul giornalismo ORDINE 7 2001 Milano, 5 luglio 2001. Promosso dal Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, prende il via la quarta edizione del Concorso destinato a valorizzare le tesi di laurea dedicate al giornalismo e alle istituzioni della professione. Giudice insindacabile del premio è lo stesso Consiglio dell’Ordine. Le tesi (in duplice copia e anche su dischetto in programma word oppure rtf) dovranno pervenire alla segreteria dell’Ordine (via Appiani 2 - 20121 Milano) entro il 31 dicembre 2001. Potranno concorrere le tesi discusse nelle Università italiane (pubbliche e private) nel periodo gennaio-dicembre 2001. Le sezioni del premio sono sei e ogni vincitore di sezione riceverà 5 milioni di lire. L’impegno finanziario dell’Ordine è, pertanto, di 30 milioni complessivi. La cerimonia della consegna avverrà in occasione dell’assemblea degli iscritti all’Albo dell’Ordine della Lombardia. La cerimonia, quindi, è prevista per il marzo 2002 al Circolo della Stampa. Estratti (di 400 righe) delle tesi premiate (e segnalate) verranno pubblicati su Tabloid, organo mensile dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Per la valutazione delle tesi il Consiglio si avvarrà, come lo scorso anno, dell’opera di consulenti (giornalisti e professori universitari). A ogni vincitore 5 milioni. I candidati dovranno consegnare le tesi entro dicembre Queste le sezioni: 1) Storia del giornalismo italiano (testate e personaggi). 2) Storia del giornalismo europeo e nordamericano (testate, deontologia e personaggi). 3) Istituzioni della professione giornalistica. La deontologia e l’inquadramento contrattuale dei giornalisti in Italia, Europa e Nord America. 4) Professione giornalistica e sue specializzazioni anche telematiche e radiotelevisive. 5) Giornalismo economico e finanziario. 6) Giornalismo culturale, sociale, scientifico. 1 Inpgi Tremonti e Maroni: libertà di cumulo Istituto nel panico: per noi sarà il crack segue dalla pagina prima loro ínterezza. Sono, invece, cumulabili con quelli da lavoro autonomo fino al limite massimo dei quindici milioni. La quota di reddito eccedente tale limite è incumulabile fino a concorrenza del 50% del predetto trattamento pensionistico, al netto della quota cumulabile. • II limite di quindici milioni è rivalutato ogni anno secondo i coefficienti Istat. • Le pensioni di anzianità sono equiparate, agli effetti del cumulo, alle pensioni di vecchiaia quando i titolari compiono l’età prevista per le pensioni di vecchiaia ovvero quando sono state liquidate con almeno 40 anni di contribuzione. • La disciplina vigente per le pensioni di vecchiaia anticipata si applica anche nel casi di cumulo della pensione di invalidità con i redditi di lavoro autonomo e con i redditi di lavoro dipendente di natura non giornalistica. • Ai trattamenti pensionistici liquidati ai sensi dell’articolo 37 (prepensionamenti, ndr) della legge 416/1981, agli effetti del cumulo, si applicano le precedenti disposizioni vigenti per le pensioni di anzianità. Le preoccupazioni per l’Inpgi nascono, però, dalla relazione di Roberto Ercole (consulente attuariale e previdenziale) al quale è stato “chiesto di valutare cosa accadrebbe se le norme sul cumulo (di cui alla legge 388/2000, ndr) fossero recepite nell’ambito del trattamento previdenziale garantito dall’Inpgi”. Ercole scrive che “appare imprudente introdurre nell’Ordinamento norme che possano indurre una accelerazione della propensione al pensionamento le quali hanno rilevanza notevole sull’equilibrio tecnico gestionale”. Il ragionamento di Ercole non ammette aperture. Nella ipotesi di aumento della “propensione a richiedere la pensione di anzianità” dall’attuale 15% annuo degli aventi diritto al 50%, si avrebbe una perdita contributiva nel quindicennio complessivamente stimabile in 208 miliardi di lire nonché maggiori oneri per 458 miliardi di lire; una perdita patrimoniale a fine periodo, comprensiva cioè anche dei mancati interessi, di 920 miliardi di lire; un dimezzamento circa dell’avanzo previsto a fine periodo che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 1.223 miliardi. Nella ipotesi, invece, di aumento della propensione alla pensione di anzianità al 70%, si avrebbe una perdita contributiva nel quindicennio complessivamente stimabile in 258 miliardi di lire nonché maggiori oneri per 595 miliardi di lire; una perdita patrimoniale a fine periodo, comprensiva cioè anche dei mancati interessi, di 1.182 miliardi di lire; un dimezzamento circa dell’avanzo previsto a fine periodo che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 959 miliardi. In sostanza sarebbe il crack per l’Istituto. L’Inpgi, però, non è paragonabile alle altre Casse, le quali non hanno disoccupati, prepensionati, cassaintegrati. È il momento di ripensare la scelta del 1995 e di dare all’Inpgi di nuovo una veste pubblica come l’Inpdai, che ha operato un dietrofront clamoroso nel 1995-96, quando 7 suoi iscritti erano membri del Governo Dini. Franco Abruzzo Casagit: Andrea Leone nuovo presidente Roma, 6 luglio. Andrea Leone, 55 anni, milanese, è il nuovo presidente della Casagit per il quadriennio 2001-2005. Vice presidente vicario dell’ente è Laura Delli Colli. Alla seconda vicepresidenza è stato eletto Giancarlo Domenichini, che avrà anche il coordinamento della commissione permanente. Segretario del consiglio è Marcello Zeri. Lo annuncia una nota della Cassa autonoma di assistenza integrativa dei giornalisti italiani. Il nuovo consiglio di amministrazione, eletto dall’assemblea nazionale dei delegati, è composto da: Andrea Leone, Paola Rubbi, Laura Delli Colli, Giorgio Lombardi, Gino Zasso, Marcello Zeri, Sergio Borsi, Giancarlo Domenichini, Pierpaolo Dobrilla, Gianclaudio Bianchi, Pietro Stramba Badiale. L’ assemblea dei delegati ha eletto inoltre il nuovo collegio dei sindaci che risulta composto da: Vincenzo Lucrezi, Giuseppe Falcucci, Rita Fatiguso (membri effettivi). Franco Chieco e Aldo Sgroj (membri supplenti). Il collegio dei sindaci ha eletto alla propria presidenza Vincenzo Lucrezi. (ANSA) 2 Articolo 15 del Regolamento dell’Inpgi sulla disciplina del cumulo tra pensioni e redditi da lavoro dipendente e autonomo 1. Le pensioni di vecchiaia sono cumulabili con i redditi da lavoro autonomo e dipendente nella loro interezza. 2. Il trattamento pensionistico di vecchiaia anticipata di cui al comma 2 dell’articolo 4 è cumulabile con i redditi da lavoro autonomo e dipendente fino al limite massimo di 15 milioni. La quota di reddito eccedente tale limite è incumulabile fino a concorrenza del 50% del predetto trattamento pensionistico, al netto della quota cumulabile. 3. Le pensioni di anzianità non sono cumulabili con i redditi da lavoro dipendente nella loro ínterezza. Sono, invece, cumulabili con quelli da lavoro autonomo fino al limite massimo dei quindici milioni. La quota di reddito eccedente tale limite è incumulabile fino a concorrenza del 50% del predetto trattamento pensionistico, al netto della quota cumulabile. 4. II limite di quindici milioni di cui ai precedente commi 2 e 3 è rivalutato ogni anno secondo i coefficienti Istat. 5. Le pensioni di anzianità sono equiparate, agli effetti del cumulo, alle pensioni di vecchiaia quando i titolari compiono l’età prevista per le pensioni di vecchiaia ovvero quando sono state liquidate con almeno 40 anni di contribuzione. 6. La disciplina vigente per le pensioni di vecchiaia anticipata si applica anche nel casi di cumulo della pensione di invalidità di cui all’articolo 8 con i redditi di lavoro autonomo e con i redditi di lavoro dipendente di natura non giornalistica. 7. I trattamenti pensionistici sono totalmente cumulabili con i redditi derivanti da attività svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani in attività socialmente utili, promosse da enti locali ed altre istituzioni pubbliche e private. I predetti redditi non sono soggetti alle contribuzioni previdenziali né danno luogo al diritto alle relative prestazioni. 8. Agli iscritti, che alla data del 31 dicembre 1994 risultano già pensionati, ovvero, hanno maturato il diritto a pensionamento di vecchiaia o di anzianità, continuano ad applicarsi, se più favorevoli, le seguenti disposizioni: - per i titolari di pensione di vecchiaia, che prestino lavoro subordinato alle dipendenze altrui con una retribuzione non inferiore a un terzo di quella minima di redattore stabilita per l’anno precedente dal contratto di lavoro giornalistico, opera una riduzione del trattamento di pensione pari al 50% dell’importo complessivo, fatto comunque salvo il trattamento minimo; - per i titolari di pensione di anzianità il trattamento stesso è totalmente incumulabile con retribuzioni di qualsiasi importo derivanti da rapporti di lavoro a carattere subordinato. 9. Ai trattamenti pensionistici liquidati ai sensi dell’articolo 37 della legge 416/81 e successive integrazioni e modificazioni, agli effetti del cumulo si applicano le precedenti disposizioni vigenti per le pensioni di anzianità. 10. Nei casi di cumulo con redditi di lavoro autonomo, i pensionati sono tenuti a produrre all’Istituto una dichiarazione dei redditi da lavoro riferiti all’anno precedente, entro lo stesso termine previsto per la dichiarazione ai fini Irpef. Nei casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente, i pensionati devono produrre all’Istituto la certificazione del datore di lavoro attestante la retribuzione corrisposta. 11. Nei casi di cumulo con redditi da lavoro dipendente o autonomo la trattenuta è effettuata dall’Istituto. 12. Ai titolari di pensione che omettano di produrre la dichiarazione di cui al comma 10 si applicano le sanzioni previste dalla legge 23 dicembre 1996 n. 662. 13. Le disposizioni contenute nei commi 1, 2, 3, 4, 5 e 8 del presente articolo si applicano a decorrere dal 1 ° gennaio 2001. ---------------*I commi in grassetto sono quelli effettivamente modificati rispetto alla versione attualmente in vigore. Bilancio tecnico Inpgi: 1 Premessa II bilancio tecnico dell’Inpgi riferito al 1° gennaio 2001 ha messo in evidenza una situazione di sostanziale equilibrio tecnico-finanziario per il prossimo quindicennio. In sede, poi, di estensione delle valutazioni al prossimo quarantennio, è risultato che tale condizione si dovrebbe protrarre anche nel prossimo trentennio anche se, dall’anno 2020, si cominciano ad evidenziare dìsavanzi annuali di gestione e, dal 2033, deficit tecnico-finanziari. È però da ricordare che le valutazioni effettuate nel citato bilancio tecnico contengono, tra l’altro, una ipotesi di “propensione” al pensionamento di anzianità pari al 15% degli aventi diritto in quanto fondata sulla esperienza di questi ultimi anni e, quindi, connessa alle penalizzazioni cui tale prestazione è attualmente soggetta. Penalizzazioni del tutto identiche a quelle in vigore nell’assicurazione generale obbligatoria prìma delle modifiche apportate dalla “finanziaria 2000”. Come noto, infatti, la legge n.338/2000 (finanziaria) ha modificato le norme in materia di trattenute ai pensionati che proseguono l’attività lavorativa e, di conseguenza, anche le penalizzazioni sulle pensioni di “anzianità”. È stato,quindi, chiesto di valutare cosa accadrebbe se tali norme fossero recepite nell’ambito del trattamento previdenziale garantito dall’Inpgi. È chiaro che in questo caso, è da attendersi un aumento della tendenza a richiedere, alla maturazione dei requisiti minimi (57 anni di età ed almeno 35 di contribuzione), la prestazione di “anzianità” oggi limitata dalle norme che la inibiscono. Pur non essendo possibile prevedere esattamente l’entità del fenomeno, è stato chiesto di valutarne le conseguenze sull’equilibrio gestionale in alcune ipotesi che appaiono le più ragionevoli da prendere in considerazione al fine di poter formulare un giudizio sulla possibilità ovvero opportunità di recepire nell’Ordinamento dell’ Inpgi le norme di cui trattasi. In particolare è stato chiesto di valutare l’impatto sulle condizioni di equilibrio tecnico-finanziario di un aumento della “propensione al pensionamento di anzianità” dal 15% al 50% ovvero al 70%. 2 Risultati delle valutazioni Per rispondere al quesito posto, le valutazioni effettuate in sede di bilancio tecnico sono state ripetute nelle nuove condizioni ipotizzate. È chiaro che un aumento del numero ORDINE 7 2001 Gli altri fronti caldi dell’Inpgi L’Inpgi attacca la cessione dei diritti d’autore Chi cede i propri diritti sulle opere dell’ingegno (articoli, servizi giornalistici o fotografici, progetti grafici) non paga il 12% all’Inpgi-2 e subisce (da parte dell’editore) una trattenuta del 20% sul 75% del compenso. È un principio vecchio e consolidato. L’Inpgi-2, però, prende di mira i giornalisti-autori, sostenendo che tali prestazioni professionali non possono essere inquadrate come “cessione dei diritti” in base alla legge n. 633/1941; pertanto i giornalisti-autori sarebbero tenuti a versare (sempre e comunque) il 12% alla gestione separata, perché, in sostanza, il ricorso alla “cessione dei diritti” sarebbe una elusione previdenziale e un’attività professionale “mascherata”. Il ricorso alla cessione di diritti d’autore (redditi dichiarati nel modello unico, quadro E, sezione II) è, invece, legittimo, quando i giornalisti siano autori di articoli o servizi secondo le definizioni che ne dà l’Ordine nazionale dei giornalisti nel Tariffario: a) Articolo: è un testo in chiave di resoconto o di analisi su fatti o temi diversi, fino a due cartelle da 25 righe di 60 battute l’una (esempio: fatti o temi politici, economici, sociali, morali, religiosi, culturali, sportivi, etc.). b) Servizio: è un elaborato oltre le due cartelle più complesso e articolato che presuppone un approfondito lavoro di indagine o di ricerca. Appare evidente che articoli e servizi giornalistici vadano rapportati al medium (giornale, periodico, radio, tv, testata online) secondo le specificità del medium stesso. Si può, pertanto, ritenere che si possa configurare la cessione dei diritti d’autore tutte le volte in cui oggetto della cessione sia un’opera originale e creativa (articoli, servizi giornalistici, progetti grafici, servizi fotografici). L’argomento è stato affrontato nel gennaio 1996 dall’Ordine della Lombardia. Allora il rischio era quello di dover versare il 10% all’Inps. La legge sul diritto d’autore (n. 633/1941) apparve l’ancora di salvezza. L’Ordine raccomandò: “La cessione dei diritti d’autore (articolo, servizio giornalistico o fotografico, progetto grafico) deve risultare da una contrattazione scritta tra le parti (articolo 2581 del Codice civile e articolo 110 della legge sul diritto d’autore n. 633/1941)”. I problemi odierni discendono dall’articolo 2 (comma 25) della legge n. 335/1995 (riforma Dini delle pensioni) che intendeva assicurare la “tutela previdenziale in favore dei soggetti che svolgono attività autonoma di libera professione, senza vincolo di subordinazione, il cui esercizio è subordinato all’iscrizione ad appositi albi o elenchi”. Quella legge istituiva una gestione separata presso l’Inps e disponeva un contributo previdenziale del 10 per cento. Con il successivo Decreto legislativo n. 103/1996, - in attuazione dei commi 25 e 26 dell’articolo 2 della legge n. 335/1995-, è stato attribuito alle casse professionali erogatori di pensioni obbligatorie (com’è l’Inpgi) il potere di istituire gestioni separate per provvedere alle necessità previdenziali dei propri “autonomi” iscritti negli albi professionali tenuti dai rispettivi Ordini e Collegi. Ordine nazionale: Del Boca presidente e Roidi segretario Roma, 21 giugno. Lorenzo Del Boca è stato eletto presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Lo ha deciso al secondo scrutinio (con 60 voti su 109 votanti) il Consiglio nazionale dell’Ordine. Mario Petrina ha ritirato la sua candidatura dopo il primo scrutinio (al termine del quale aveva raccolto 46 voti contro i 55 dell’avversario). Inviato speciale della Stampa, 50 anni, novarese, Lorenzo Del Boca è presidente della Federazione nazionale della stampa: “Per la categoria - ha dichiarato, dopo la sua elezione a presidente dell’Ordine - non è un momento facile, ma sono convinto che ci sono ampi margini di recupero. I giornalisti possono essere un interlocutore credibile della società civile e del mondo politico se si presentano non come amici o nemici, ma come rappresentanti autorevoli e indipendenti di una categoria professionale che merita rispetto”. “L’Ordine è un insostituibile organo di autogoverno - ha proseguito - può essere riformato, ma rimane uno strumento a salvaguardia dell’ autonomia e della libertà della professione. Auspico, inoltre, che i quattro istituti della categoria, Ordine, Fnsi, Inpgi, Casagit lavorino insieme e non attuino politiche divergenti”. Vicepresidente dell’Ordine è stato eletto Domenico Falco, pubblicista. Segretario è, invece, Vittorio Roidi; tesoriere è Michele Urbano. Del Comitato esecutivo, con Del Boca, Falco, Roidi e Urbano, fanno parte Michelangelo Bellinetti, Francesco De Vito, Alberto Fumi, Stefano Gallizzi e Gianfranco Ricci. (ANSA) Una forzatura contro la delega ai danni dei “dipendenti” Il Dlgs n. 103/1996 compie una forzatura, quando stabilisce l’obbligo di iscrizione per i soggetti “che esercitano attività libero-professionale, ancorché contemporaneamente svolgono attività di lavoro dipendente”. Il Dlgs, quindi, va al di là della originaria finalità della legge n. 335/1996. Il Governo può essere accusato di aver violato la delega. Questa esten- sione è sicuramente illegittima. La ratio del legislatore era totalmente condivisibile: l’obiettivo era quello di assicurare, con la legge n. 335/1995, una tutela previdenziale solo ai lavoratori autonomi privi di copertura previdenziale. Bisogna provocare a questo punto un giudizio della Corte costituzionale. Una circolare sbagliata contro gli “occasionali” Tutte le collaborazioni giornalistiche, anche se “sporadiche e produttive di modesto reddito”, comportano, dice erroneamente una circolare del ministro del Lavoro, l’obbligo di iscrizione (dell’articolista-autore) alla gestione separata dell’Inpgi e al pagamento dei relativi contributi previdenziali. L’assunto del ministro, illegittimo, va disatteso con determinazione, perché contrasta con l’articolo 2 (comma 26) della legge n. 335/1995. Il comma 26 dell’articolo 2 della legge n. 335/1996 afferma che, a decorrere dal 1° gennaio 1996, sono tenuti all’iscrizione presso la Gestione separata “i soggetti che esercitano per professione abituale, ancorché non esclusiva, attività di lavoro autonomo” di cui al comma 1 dell’articolo 49 del Tuir (Dpr n. 917/1986), nonché ‘i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa’, di cui al comma 2 (lettera a) dell’articolo 49 del Tuir (Testo unico imposte sui redditi)”. Questa norma, quindi, esclude che debbano iscriversi all’Inpgi-2 coloro che svolgano attività giornalistica occasionale, saltuaria e sporadica (redditi dichiarati nel modello unico, quadro L). In sostanza chi produce occasionalmente degli articoli non è tenuto parimenti a iscriversi all’Inpgi-2, perché non ha il requisito della “abitualità professionale”. Anche in questo caso si può affermare che la circolare del ministro del Lavoro è carta straccia. Il controllore che controlla se stesso Michele Daddi, direttore generale per la previdenza del Ministero del Lavoro (un eccellente professionista) riveste il ruolo (retribuito) di presidente del Collegio sindacale dell’Inpgi. È un caso clamoroso di controllore che controlla se stesso. Questa anomalia è da attribuire esclusivamente all’articolo 3 (comma 1) del Dlgs n. 509/1994 secondo il quale “nei collegi dei sindaci (delle Fondazioni, ndr) deve essere assicurata la presenza di rappresentanti delle Amministrazioni dei ministeri del Lavoro e del Tesoro”. nota aggiuntiva al 1° gennaio 2001 con la valutazione degli effetti delle pensioni di anzianità dei pensionamenti di “anzianità”, cioè di coloro che maturano i 57 anni di età ed i 35 di contribuzione, comporta oltre ad un aumento degli oneri anche una, seppure modesta, riduzione dei gettiti contributivi. Infatti anche se nei nuovi calcoli è stata mantenuta inalterata la condizione di costanza della collettività iscritta, nelle nuove ipotesi considerate escono individui ad elevata retribuzione che vengono sostituiti da soggetti (nuovi ingressi) a retribuzione modesta con conseguente decremento dei monti reributivi previsti nelle attuali condizioni. I risultati ottenuti dalle nuove valutazioni effettuate, trovano la loro sintesi nelle due tavole allegate che evidenziano le nuove situazioni gestionali ipotizzabili nelle due eventualità prospettate. Nella ipotesi di aumento della “propensione a richiedere la pensione di anzianità” dall’attuale 15% annuo degli aventi diritto al 50%, si avrebbe: - una perdita contributiva nel quindicennio complessivamente stimabile in 208 miliardi di lire nonché maggiori oneri per 458 miliardi di lire; - una perdita patrimoniale a fine periodo, comprensiva cioè anche dei mancati interessi, di 920 miliardi di lire; - un dimezzamento circa dell’avanzo previsto a fine periodo che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 1.223 miliardi. ORDINE 7 2001 Nella ipotesi di aumento della propensione alla pensione di anzianità al 70%, si avrebbe: • una perdita contributiva nel quindicennio complessivamente stimabile in 258 miliardi di lire nonché maggiori oneri per 595 miliardi di lire; • una perdita patrimoniale a fine periodo, comprensiva cioè anche dei mancati interessi, di 1.182 miliardi di lire; • un dimezzamento circa dell’avanzo previsto a fine periodo che passerebbe da 2.141 miliardi di lire a 959 miliardi. È doveroso, inoltre, ricordare che le valutazioni contenute nel bilancio tecnico sono basate su alcune ipotesi, quali il tasso inflattivo (1,2% dal 2002) ed il tasso di rendimento delle giacenze patrimoniali (3% per gli immobili e 4,5% per le altre attività), che potrebbero non verificarsi con chiare conseguenze negative sulle risultanze previste. Appare, pertanto, imprudente introdurre nell’Ordinamento norme che possano indurre una accellerazione della propensione al pensionamento le quali, come in precedenza esposto, hanno rilevanza notevole sull’equilibrio tecnico gestionale. Serventi Longhi “soddisfatto” Roma,22 giugno. Il segretario della Fnsi, Paolo Serventi Longhi, ha espresso “grande soddisfazione per l’elezione di Lorenzo Del Boca alla presidenza del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti”. “Si tratta di una scelta - è detto in una nota - che va nel segno di un profondo rinnovamento dell’istituzione professionale e che consente alla categoria di guardare con maggior fiducia al futuro. Tanto più che Lorenzo Del Boca è affiancato da una squadra di assoluto prestigio nella quale spicca la figura di Vittorio Roidi, eletto segretario dell’Ordine, collega che rappresenta un punto di riferimento per tantissimi giornalisti. Complimenti ed auguri di buon lavoro vanno quindi a Del Boca, a Roidi, al tesoriere Michele Urbano e al vicepresidente Mimmo Falco, ai componenti dell’esecutivo e del Consiglio nazionale”. “I giornalisti continuano a chiedere la riforma della legge sulla professione e sanno di poter contare su una istituzione ordinistica capace di guardare al nuovo con intelligenza e senza timori. Il giornalismo vive un momento delicato, sia dal punto di vista professionale sia sindacale, e per questo ha bisogno di regole definite, di autonomia e di grande senso di responsabilità, civile ed etico”, ha detto Serventi Longhi. “Chiederò una riunione urgente del coordinamento degli istituti della categoria, Ordine, Fnsi, Inpgi e Casagit, dei quali occorre rilanciare una forte linea unitaria, non appena l’assemblea nazionale dei delegati della Casagit avrà eletto il proprio gruppo dirigente. Un appuntamento anche questo di grande rilievo per la categoria”, ha concluso Serventi Longhi. (ANSA) Autonomia e Solidarietà: “Per l’Ordine gestione unitaria” Bologna, 23 giugno. Una gestione unitaria per l’Ordine dei giornalisti: il coordinamento nazionale di Autonomia e solidarietà, componente degli organismi di categoria dei giornalisti italiani, interviene con una nota sul voto del Consiglio nazionale dell’ Ordine, con il quale inizia una nuova gestione di questo organismo. “Si è “insediato” un governo unitario - afferma Giovanni Rossi a nome del coordinamento nazionale - i cui primi obiettivi dovranno essere il rilancio del ruolo dell’Ordine che si è progressivamente appannato negli ultimi tempi, l’ impegno per l’adeguamento della legge istitutiva alla nuova realtà professionale, la ricostruzione di un positivo rapporto di dialogo con gli altri enti della categoria con i quali, nel corso di questi anni, si era creata una contrapposizione sempre più profonda”. Autonomia e solidarietà - conclude la nota - “augura ai nuovi dirigenti dell’ Ordine nazionale buon lavoro nell’interesse di tutti i giornalisti italiani”. (ANSA) Roberto Ercole Studi attuariali e Consulenze previdenziali Roma giugno 2001 3 di Caterina Malavenda e Carlo Melzi d’Eril D I R I T T O D I C R O N A C A Privacy e giornalismo le regole da rispettare Essenzialità della notizia PRIMO CRITERIO CUI DEVE RISPONDERE UNA INFORMAZIONE PER ESSERE PUBBLICATA È QUELLO DELL’ESSENZIALITÀ DELLA NOTIZIA; IN ALTRE PAROLE, UNA VICENDA (COMPRESI I PARTICOLARI DI CUI VIENE ARRICCHITA) PER ESSERE RIPORTATA SULLA STAMPA DEVE POSSEDERE, IN RELAZIONE AL GRUPPO SOCIALE DI RIFERIMENTO, UN INTERESSE TALE - IN SÉ, O COME FATTO EMBLEMATICO - DA RICONDURRE L’EPISODIO AL DIRITTO DI CRONACA. L’ESSENZIALITÀ DELLA NOTIZIA COSTITUISCE UN PARAMETRO CHE DEVE INFORMARE DI SÉ SIA LA SCELTA DEI FATTI DA RIPORTARE, SIA IL MODO ED IL TONO CON CUI TALI FATTI VENGONO DESCRITTI. UNA VOLTA ISOLATO IL FATTO CHE “REALMENTE” E “SOLAMENTE” COSTITUISCE LA NOTIZIA IN SENSO STRETTO SOCCORRONO ALTRI CRITERI ED ALTRE REGOLE COME QUELLE SOTTO ELENCATE. a) Non sono pubblicabili dettagli e particolari che nulla hanno a che vedere con la descrizione dell’evento oggetto dell’articolo di cronaca. b) Anche in presenza di un fatto di interesse pubblico le cronache non si devono soffermare eccessivamente su dati sanitari, vicende intime, atti e corrispondenze di natura personale, convinzioni religiose e di determinate abitudini personali della vittima di un reato e di altre persone, con scarsa attenzione per i diritti degli interessati diffondendo anche dettagli non essenziali per la necessaria informazione dell’opinione pubblica. c) Non sono pubblicabili dati, a maggior ragione sensibili, come l’indicazione di una precisa patologia, relativi a congiunti di persone pur coinvolte in fatti d’interesse pubblico, in quanto non essenziali al diritto d’informazione. d) L’informazione relativa all’indirizzo di un soggetto, che aveva convissuto in passato con una donna vittima di un omicidio ma che nell’ambito di tale vicenda delittuosa aveva avuto il ruolo secondario di chi aveva segnalato la scomparsa della donna, realizza un’interferenza nella sfera privata non giustificata dall’esercizio del diritto di cronaca, non risultando essenziale rispetto al fatto di interesse pubblico (anche la diffusione del nome dell’immagine e della professione della persona può ritenersi giustificata solo quando la loro conoscenza sia essenziale in ragione dell’eventuale, ulteriore sviluppo dei fatti e del loro accertamento giudiziario). e) Sono pubblicabili le generalità di vigili urbani vittime di atti di lesione o di resistenza, o coinvolti in procedimenti amministrativi o giudiziari relativi ad un’infrazione contestata, oppure imputati per reati riconducibili al servizio prestato, essendo tutte riconducibili alle informazioni indispensabili per illustrare una o più vicende di pubblico interesse per la comunità locale. Dati provenienti da enti pubblici SONO PUBBLICABILI TUTTI I DATI PROVENIENTI DA ENTI PUBBLICI QUANDO LA COMUNICAZIONE E LA DIFFUSIONE SONO PREVISTE DA NORME DI LEGGE O DA REGOLAMENTI E SECONDO LE MODALITÀ IVI DISCIPLINATE. a) Sono pubblicabili i risultati degli scrutini scolastici, delle commissioni d’esame. b) Sono pubblicabili i dati relativi ai laureati qualora i regolamenti delle università di provenienza prevedano la comunicazione e diffusione dei medesimi. c) Sono pubblicabili i dati dei dipendenti delle università contenuti nell’apposito annuario essendo questa prevista da un’apposita disposizione normativa. d) Sono pubblicabili i dati anagrafici in possesso del Comune se rilasciati in base alle norme ed ai regolamenti vigenti in materia; è invece illegittima la prassi di fornire elenchi e dati a terzi senza alcuna formalità. 4 e) Sono pubblicabili notizie riguardanti annunci di matrimonio anche senza il consenso degli interessati, in quanto la loro diffusione deriva da un obbligo di legge e, per di più, possono essere visionati da chiunque, ma i nominativi debbono essere tratti dalle pubblicazioni affisse nell’albo pretorio. È da considerarsi illegittima la prassi seguita dagli uffici comunali di fornire direttamente a terzi dati o elenchi dello stato civile con modalità diverse da quelle espressamente previste dalle leggi o dai regolamenti. f) Sono pubblicabili i dati personali contenuti negli albi professionali secondo le norme che regolano già il trattamento di tali specifici dati. g) Sono pubblicabili notizie relative a provvedimenti disciplinari nei confronti di avvocati in quanto la legge già prevede un regime di conoscibilità nei confronti di altri professionisti e di terzi basato su rilevanti motivi di interesse pubblico connesso anche a ragioni di giustizia ed al regolare svolgimento dei processi. h) Non viola la privacy pubblicare nel bollettino ufficiale dei ministeri i provvedimenti disciplinari instaurati nei confronti dei dipendenti pubblici. Tale pubblicazione si configura, anzi, come doverosa in base al D.P.R. 686/57 (nell’occasione il Garante ha anche precisato che i dati contenuti nel provvedimento disciplinare in esame non rientrano fra quelli a carattere giudiziario). i) Sono pubblicabili i dati relativi agli stipendi dei dipendenti pubblici (l. 241/90 sull’accesso ai documenti pubblici) o concessionari di pubblici servizi, mentre restano riservate vicende estranee alle retribuzione-tipo e relative a circostanze personali o familiari. j) In base ai principi della l. 675/96 si ritiene lecita, in relazione alla situazione patrimoniale dei soggetti di cui all’art. 12 l. 441 del 1982, la conoscibilità e la pubblicità dei dati contenuti nelle dichiarazioni e negli atti da essi presentati, attraverso un bollettino edito a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri. k) Sono pubblicabili i nominativi dei contribuenti che hanno dichiarato redditi superiori ad un determinata soglia, anche senza il consenso degli interessati, in quanto le amministrazioni pubbliche possono divulgare questo genere di informazioni quando la diffusione sia prevista da una norma di legge o di regolamento (nel caso di specie l’Autorità garante ha richiamato l’art. 69 del d.P.R. n. 600 del 1973). l) Sono pubblicabili i dati relativi ai firmatari di petizioni, istanze, proposte all’autorità locale, in quanto, tra l’altro disciplinata dalla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi. Atti del processo penale e persone coinvolte SONO PUBBLICABILI SECONDO LE REGOLE DETTATE DAL CODICE DI PROCEDURA PENALE (ARTT. 114 E 329 C.P.P.) SECONDO LE QUALI, AD ESEMPIO, NON SONO MAI PUBBLICABILI NOTIZIE DI ATTI DELLE INDAGINI PRIMA CHE L’INDAGATO NE ABBIA NOTIZIA, NÉ LE FOTO DI PERSONE AMMANETTATE, SE NON PER ESIGENZE DI SICUREZZA PUBBLICA E DI GIUSTIZIA O NEL CASO LO PERMETTANO ESPRESSAMENTE GLI INTERESSATI. IN QUEST’AMBITO, PARTICOLARI LIMITI SONO PREVISTI PER I MINORI (VEDI INFRA) SANCITI, TRA L’ALTRO, DALL’ART. 13 D.P.R. 22.9.1988, N. 448, APPROVAZIONE DELLE DISPOSIZIONI SUL PROCESSO PENALE A CARICO DI IMPUTATI MINORENNI. SI RICORDA CHE I MINORI “PROTAGONISTI” DI FATTI DI CRONACA GIUDIZIARIA NON POSSONO MAI ESSERE RESI RICONOSCIBILI NÉ MEDIANTE FOTOGRAFIE, NÉ RICORRENDO A INEQUIVOCABILI DATI TESTUALI (NOME DEI GENITORI, SCUOLA E CLASSE FREQUENTATI, ABITUDINI, AMICIZIE, ECC.). IN TALI EVENTUALITÀ È SEMPRE CONSIGLIABILE USARE NOMI DI FANTASIA. a) Sono pubblicabili gli inviti a comparire solo una volta portati a conoscenza dell’interessato. b) Sono pubblicabili le notizie relative alla richiesta di rinvio a giudizio in quanto tale atto non risulta essere un atto d’indagine che richiederebbe l’applicazione degli artt. 329 e 114 del c.p.p. c) È pubblicabile la notizia di una sentenza di condanna emessa a carico dell’interessato, in quanto questa non viola alcuna norma del c.p.p. relative alla pubblicazione di atti processuali né altre specifiche norme, purché, come ovvio, siano rispettati i limiti del diritto di cronaca e quelli dell’essenzialità della notizia (si tengano presente, peraltro, i limiti più ristretti previsti in altri punti dell’ordinamento nel caso di minori parti o “oggetto” del processo penale). d) Non sono pubblicabili le trascrizioni delle intercettazioni telefoniche compiute nell’ambito di un’indagine penale, nella parte in cui attengono a comportamenti strettamente personali non connessi alla vicenda giudiziaria o che possono riguardare la sfera intima del soggetto. e) Anche l’autorità giudiziaria è sottoposta all’art. 9 della l. 675/96, che sancisce tra l’altro che i dati trattati siano pertinenti e non eccedenti gli scopi per i quali sono raccolti e successivamente trattati. In base a questo principio i dati il materiale da acquisire nel procedimento penale va selezionato in base alla necessità di assumere dati, informazioni e notizie indispensabili per la prevenzione, l’accertamento e la repressione dei reati. Nel caso non può ritenersi giustificato il mantenimento della documentazione d’indagine del p.m. di circostanze relative all’interessato e ai suoi familiari che, in base alle risultanze dell’indagine stessa, risultavano esclusi da ogni coinvolgimento nell’azione penale. f) Il calendario dei processi, le udienze e le sentenze sono pubblici e conoscibili da chiunque vi abbia interesse. g) Non sono pubblicabili al di fuori delle finalità predette le fotografie di persone ammanettate ovvero quelle scattate dalla polizia per i rituali rilievi segnaletici. Notizie riguardanti la salute PUR ESSENDO DIVULGABILE SIA LO STATO DI MALATTIA DI UNA PERSONA, SIA LA SUA PRESENZA IN OSPEDALE, NON SI POSSONO PUBBLICARE PARTICOLARI ANALITICI RIGUARDO LE PATOLOGIE CONTRATTE, A MAGGIOR RAGIONE QUANDO QUESTE ULTIME SIANO GRAVI ED IN TAL MODO SI SUPERI LA ESSENZIALITÀ DELLA NOTIZIA. È SEMPRE INDISPENSABILE CHE L’INFERMITÀ E LA DEGENZA SIANO IN QUALCHE MODO DI PUBBLICO INTERESSE; SOLTANTO QUANDO SIA STRETTAMENTE LEGATA AL FATTO OGGETTO DI CRONACA SI PUÒ ACCENNARE ALLA PATOLOGIA CHE ALTRIMENTI DEVE RIMANERE RISERVATA. a) Sono pubblicabili le notizie sulla presenza di degenti in ospedale. b) Non sono pubblicabili diagnosi precise di patologie, tranne che in casi limite, ad es. il Presidente della Repubblica (in particolare non è divulgabile la diagnosi di AIDS). c) Non sono pubblicabili, nemmeno da parte di riviste medico-scientifiche dati che rendano riconoscibile i soggetti cui determinate patologie, diagnosi o dati clinici sono riferiti. d) La sfera privata delle persone note o che esercitino funzioni pubbliche deve venire rispettata se le notizie o i dati non sono essenziali. La pubblicazione di particolari riguardanti lo stato di salute di una persona identificata o identificabile, corredati dalla indicazione della specifica malattia e da dati analitici di interesse strettamente clinico, specie nel caso di malattie gravi, viola il rispetto della dignità della persona, il suo diritto alla riservatezza ed il suo decoro personale. e) La diffusione di dati idonei a rivelare lo stato di salute è vietata; pertanto la divulgazione di dati personali ad organi di stampa, in ordine allo stato di salute di una persona, in assenza di un consenso dell’interessato o dei suoi legittimi rappresentanti, è illegittima a prescindere dalla loro esattezza. A maggior ragione se si tratta di persona minore, il cui diritto alla riservatezza è posto come primario rispetto al diritto di cronaca dal nostro ordinamento che in ogni caso impone di non pubblicare i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca, né di fornire particolari in grado di condurre alla loro identificazione, a meno che la diffusione di notizie sia stata autorizzata dai genitori o dal giudice e sia fatta nell’esclusivo interesse del minore (nel caso, alcuni organi di stampa avevano pubblicato la notizia di un malore che aveva colpito una ragazzina mentre passeggiava nel centro della propria ORDINE 7 2001 CASISTICA QUESTIONARI a) Anche i questionari che richiedono dati allegati a periodici debbono rispettare le norme a tutela della privacy, in particolare fornire un’informativa comprendente la richiesta di consenso all’utilizzo dei dati di tutti gli interessati, le finalità e le modalità di trattamento dei dati stessi nonché il loro ambito di diffusione. Per i dati sensibili è poi richiesto espressamente un consenso scritto e la preventiva autorizzazione del Garante. verifica della loro esattezza e provenienza (nel caso preso in esame tali dati erano ricevuti telefonica- mente dalla persona che richiedeva l’inserzione senza verificarne l’identità). ELENCHI DI ISCRITTI AD ASSOCIAZIONI INSERZIONI PUBBLICITARIE a) I giornali che pubblicano inserzioni pubblicitarie e annunci di lavoro devono verificare l’esatta provenienza dei dati. L’autorità Garante ha ritenuto le inserzioni relative ad un’attività commerciale e non all’attività giornalistica ed ha deciso di avviare un procedimento autonomo per verificare alcuni aspetti di carattere generale del trattamento relativo alla pubblicazione di tali inserzioni, in particolare per quanto concerne le modalità di raccolta dei dati e la città, malore che, in conseguenza di alcune affermazioni rilasciate da personale appartenente alla locale U.S.L., sarebbe stato associato impropriamente dai giornali ai contraccolpi psicologici determinati dalla cessazione del funzionamento di un “pulcino elettronico”). f) Un articolo che riporta la prassi dei vigili urbani di elevare multe ai veicoli parcheggiati fuori dagli spazi consentiti all’interno di un ospedale cittadino, pur riferendosi ad una questione che può essere di interesse pubblico, riguardando la correttezza e l’uniformità del comportamento di un ufficio di polizia, non era caratterizzato da comportamenti in pubblico che rendessero necessario il riferimento a particolari dati sanitari delle persone coinvolte (cioè oggetto delle sanzioni). Il principio di essenzialità dell’informazione deve imporre di evitare la pubblicazione di dettagli superflui in grado di rivelare le malattie (a maggior ragione se gravi) dei predetti. g) Anche per finalità di “salute pubblica” la diffusione di dati relativi alla salute di una prostituta affetta da AIDS deve essere effettuata con tutte le cautele necessarie, affinché vengano allertate le persone che abbiano avuto contatti con la medesima senza per questo che essa sia da chiunque identificabile e quindi esposta all’attenzione di tutti i mezzi d’informazione. h) I dati relativi allo stato di salute contenuti in una perizia dell’assicurazione sono dati personali e come tali debbono essere comunicati all’interessato che ne faccia richiesta, a meno che non siano raccolti al fine di indagini difensive o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria. In tal caso il diritto di accesso è sospeso solo fino a che esso potrebbe causare un pregiudizio allo svolgimento delle indagini o all’esercizio di un diritto. Notizie riguardanti lo svolgimento di attività economiche SONO PUBBLICABILI NOTIZIE E DATI RIGUARDANTI GLI OPERATORI ECONOMICI DI UN DETERMINATO SETTORE COMMERCIALE QUANDO TALI DATI SONO CONNESSI ALLO SVOLGIMENTO DI UN’ATTIVITÀ CHE FA PARTE DEL PUBBLICO MERCATO O CHE COMUNQUE RICALCA PROFILI DI PUBBLICO INTERESSE (FATTO SALVO IL RISPETTO DEL SEGRETO AZIENDALE ED INDUSTRIALE). a) La legge sulla privacy, pur applicandosi sia alle persone fisiche che alle persone giuridiche, non impedisce la divulgazione delle informazioni sulle attività economiche, comprese quelle relative agli azionisti delle società, anzi, fatto salvo il rispetto del segreto aziendale ed industriale, tale legge tende a favorire la trasparenza e la circolazione di questo genere di informazioni. b) Le informazioni relative alla solvibilità o allo stato d’insolvenza di un’impresa, al pari di quelle riguardanti i crediti e i debiti, rientrano tra i dati attinenti allo svolgimento di attività economiche, possono essere utilizzati e divulgati anche senza il consenso delle società ed il loro trattamento non è soggetto a notifica (come del resto tutti i dati riguardanti le persone giuridiche). Tutela dei luoghi di domicilio NON SONO PUBBLICABILI IMMAGINI RIPRESE O SCATTATE IN LUOGHI DI DOMICILIO, DI DEGENZA O DI CURA, DETENZIONE O RIABILITAZIONE SENZA IL CONSENSO DEGLI INTERESSATI. a) Non sono pubblicabili immagini riprese o scattate in luoghi di domicilio, di degenza o di cura, detenzione o riabiliazione. NON SONO PUBBLICABILI DATI RIGUARDANTI I MINORI A MENO CHE LA PUBBLICAZIONE, FERMI I DIVIETI DI LEGGE, NON SIA NELL’OGGETTIVO INTERESSE DEL MINORE STESSO. ORDINE 7 2001 a) L’uso a fini di propaganda elettorale dei dati personali degli iscritti ad associazioni di vario tipo incontra alcuni limiti. È necessario infatti che tale uso sia previsto espressamente nello statuto o in una chiara informativa agli interessati, i quali devono essere messi in condizione di acconsentire a tale uso, in riferimento a quanto contenuto nello statuto o nell’informativa. b) Un’associazione non può opporsi alla pubblicazione dei nomi dei propri iscritti, a meno che non vi sia stata un espressa delega da parte degli interessati, essendo i diritti di cui all’art. 13 l. 675/96 strettamente personali. NON SONO PUBBLICABILI DATI RIGUARDANTI MINORI A MENO CHE LA PUBBLICAZIONE, FERMI I DIVIETI DI LEGGE, NON SIA NELL’OGGETTIVO INTERESSE DEL MINORE STESSO. ANCHE NEL CASO IN CUI VI SIA L’ACCORDO PER LA PUBBLICAZIONE DEI GENITORI; AL GIORNALISTA È RICHIESTA UN’ATTENTA OPERA DI CONTROLLO AFFINCHÉ NELL’ADEMPIMENTO DELLA PROPRIA PROFESSIONE NON FINISCA PER NUOCERE AL MINORE. GIÀ LA CARTA DI TREVISO (1990) CON IL RELATIVO VADEMECUM (1995) AVEVANO STABILITO NON SOLO LA PREVALENZA DELL’INTERESSE DEL MINORE SUL DIRITTO DI CRONACA (IMPONENDO TRA L’ALTRO IL PIÙ STRETTO ANONIMATO NEL CASO DI MINORI COINVOLTI A QUALUNQUE TITOLO IN FATTI DI REATO), MA ANCHE LA NECESSITÀ PER IL GIORNALISTA, NEL CASO MANCHI UNA UNIVOCA DISCIPLINA GIURIDICA DI INTERROGARSI SE QUANTO STA COMPIENDO SIA NELL’EFFETTIVO INTERESSE DEL MINORE STESSO, ANCHE A PRESCINDERE DA UN EVENTUALE CONSENSO DEI GENITORI. UN CASO “LIMITE” È QUELLO DEL MINORE UCCISO O, COMUNQUE, DECEDUTO. DATO CHE LA NON IDENTIFICABILITÀ TENDE A PROTEGGERE L’INTERESSE DEL MINORE, NELL’IPOTESI PRESA IN CONSIDERAZIONE NON VI È ALCUN INTERESSE DA PROTEGGERE, SE NON QUELLO DEI GENITORI CHE POTREBBERO ESSERE TITOLARI DI UN DIRITTO ALL’IMMAGINE DEL FIGLIO, QUINDI IN QUESTI FRANGENTI È SEMPRE CONSIGLIABILE PUBBLICARE FOTO O DATI IN ACCORDO CON I GENITORI. a) Nel caso di suicidio del minore, in assenza del consenso dei genitori costituisce grave violazione del diritto alla riservatezza la pubblicazione di dati che rendano riconoscibile la persona che abbia compiuto il gesto autolesivo. b) Non sono pubblicabili i dati personali del minore coinvolto in un incidente stradale, in quanto la loro divulgazione non risulta essenziale rispetto al fatto di interesse pubblico verificatosi e certamente non essenziale ai fini del diritto di cronaca, considerata la particolare protezione che l’ordinamento prevede a tutela dei soggetti minorenni. c) Nel caso i genitori forniscano personalmente il nome della figlia minore tale nome, a rigore è pubblicabile, anche se il garante ha ricordato come spetterebbe al giornalista effettuare un autonomo giudizio sui rischi della pubblicazione di un dato, pur reso noto dai rappresentanti legali della minore. d) L’utilizzo di nomi di fantasia quando si debba riferire una notizia che riguarda un minore nulla toglie alla completezza e all’interesse della notizia stessa. e) Non viola il proprio codice deontologico il giornalista che, rispettando i canoni di una corretta cronaca giornalistica, mostra in un servizio televisivo la foto di una minorenne (al centro di un’intricata vicenda giudiziaria) e ne cita spesso il nome, nel caso la foto sia fornita da uno dei genitori nell’ambito di un’intervista televisiva che ripercorre le tappe “di una complessa vicenda familiare che ha destato più volte il pubblico interesse”. f) Il principio dell’essenzialità dell’informazione quando la notizia riguarda un minore subisce un’ulteriore restrizione, infatti la tutela del minore si estende anche fuori dei casi di un suo coinvolgimento in fatti di cronaca nera. La notorietà della persona non fa venir meno l’esigenza di tutelare la sua personalità e di valutare se una determinata pubblicazione risponda ad un suo interesse oggettivo. g) Il diritto dei minori alla riservatezza deve essere sempre considerato primario rispetto al diritto di cronaca, anche quando si tratta di figli di personaggi noti. La notorietà di determinate persone o l’esercizio di funzioni pubbliche non può comportare un affievolimento della tutela riconosciuta a familiari e, in particolare, a minori. Più in generale, la notorietà del personaggio può giustificare la raccolta di notizie e dati che hanno rilievo sul ruolo o sulla vita pubblica dell’interessato, ma non consente di raccogliere o diffondere informazioni riguardanti la sua vita privata, specialmente quando queste informazioni non hanno alcun rilievo sul suo ruolo pubblico. h) Quando si tratta di minori è auspicabile il massimo rigore deontologico da parte del sistema dell’informazione, anche al di là del consenso formale espresso dagli interessati. i) Non sono pubblicabili circostanze relative a molestie che sarebbero state perpetrate nei confronti di un minore, molestie suscettibili di uno specifico rilievo sul piano penale quali possibili atti di violenza sessuale, e questo indipendentemente dalla possibile violazione dell’art. 734 bis c.p. (nel caso specifico il Garante, oltre a disporre il blocco dei dati pubblicati ha deciso che i quotidiani avrebbero potuto unicamente conservarli astenendosi da ogni altro utilizzo). Diritto all’oblio LA CATEGORIA È DI COSTRUZIONE ESSENZIALMENTE DOTTRINARIA E GIURISPRUDENZIALE, E SI CARATTERIZZA COME LO STRUMENTO DI DIFESA PER CHI È STATO PROTAGONISTA DI UN FATTO CHE ALL’EPOCA IN CUI SI ERA VERIFICATO POTEVA ESSERE RICOMPRESO NEL DIRITTO DI CRONACA, MA CHE NON PUÒ ASSURGERE A FATTO EMBLEMATICO (ED ESSERE QUINDI CONTINUAMENTE RIPROPOSTO) DI TUTTI GLI EPISODI SUCCESSIVI DEL MEDESIMO TENORE. a) Viola il diritto all’oblio di tutte le persone interessate rispetto a fatti risalenti nel tempo (per non parlare dei possibili danni agli stessi minori indirettamente identificabili) la pubblicazione di liste di condannati per pedofilia. Lealtà e correttezza nei rapporti con i titolari dei dati IL GIORNALISTA NON PUÒ CERCARE, MANIPOLARE, ED INFINE PUBBLICARE DATI RACCOLTI IN MODO MEN CHE CORRETTO E TRASPARENTE, QUINDI SONO EVIDENTEMENTE OBBLIGATORIE UNA PRECISA INFORMAZIONE NEI CONFRONTI DELLA PERSONA INTERESSATA DI COME E IN CHE SEDE VERRANNO TRATTATE LE SUE DICHIARAZIONI O I SUOI DATI, UNA PUNTUALE RETTIFICA DEI MEDESIMI, MENTRE È VIETATO OTTENERE DATI DA PERSONE NON CONSENZIENTI O COMUNQUE NON COSCIENTI DEL LORO UTILIZZO. a) Non sono pubblicabili le dichiarazioni “carpite” senza che il soggetto cui poi vengono riferite non sia cosciente del loro utilizzo e della loro pubblicazione. b) L’interessato ha diritto di ottenere, a cura del gestore della banca dati, la comunicazione dell’esistenza e dell’origine dei dati che lo riguardano e alla sua richiesta deve essere dato riscontro senza ritardo ed in maniera adeguata. La possibilità da parte dei giornalisti di opporre segreto professionale sulle fonti quando ne ricorrono i presupposti non esime il periodico dal dover fornire riscontro all’interessato, comunicandogli l’esistenza e l’origine dei dati, oppure la circostanza che la fonte della notizia è coperta da segreto professionale a causa del carattere fiduciario del rapporto con il soggetto che l’ha fornita. c) I colloqui tra avvocati non possono essere registrati a loro insaputa da uno dei presenti. Qualora uno di essi, in casi eccezionali, effettui una registrazione a fini di difesa in sede giudiziaria, questa non può essere comunque diffusa per scopi di tipo politico o giornalistico. d) La legge 675/96 protegge la dignità delle persone anche sotto il profilo della loro identità; nel caso in cui la pubblicazione dei dati di una persona possa ingenerare confusione fra due diversi soggetti il periodico ha l’obbligo di rettifica. e) Sono pubblicabili dati contenuti in lettere aperte spedite dall’interessato ad una pluralità indeterminata di soggetti. Norme particolari di trattamento delle fotografie SONO PUBBLICABILI LE IMMAGINI SCATTATE IN LUOGHI PUBBLICI O APERTI AL PUBBLICO OVE CHIUNQUE AVREBBE POTUTO VEDERE QUANTO VIENE RIPRESO (SOPRATTUTTO LADDOVE TRATTASI DI PERSONAGGI DI UNA CERTA NOTORIETÀ), ED IL FOTOGRAFO PUÒ TRATTENERE I NEGATIVI. NEL CASO DI FOTO “EMBLEMATICHE”, (UNA QUALUNQUE SCOLARESCA, GIARDINI PUBBLICI, COMPETIZIONI SPORTIVE, LOCALI, RISTORANTI ECC.) ANCHE SE SI TRATTA DI MINORI, A CONDIZIONE CHE SIANO RIPRESI IN LUOGHI PUBBLICI O APERTI AL PUBBLICO, SE LA NOTIZIA È “NEUTRA” O EDIFICANTE LA FOTO È PUBBLICABILE, ALTRIMENTI MEGLIO USARE LA “PECETTA” AL FINE DI RENDERE ANONIMI ALMENO I MINORI. a) Non viola la privacy il fotografo che non restituisce i negativi delle fotografie. Tale facoltà gli è attribuita dalla legge sul diritto d’autore (artt. 87, 88, 89 della l. 22.4.41, n. 633) che non è stata abrogata dalla legge sulla privacy; ciò non toglie che, da una parte l’interessato può comunque avere accesso ai dati che lo riguardano, dall’altra il fotografo deve utilizzare i negativi in conformità alle prescrizioni di legge e non farne un uso improprio. b) Il fotografo (anche non professionista) che realizza riproduzioni ed ingrandimenti da originali fotografici viola la legge sulla privacy se al momento di effettuare gli scatti non dichiara la propria identità e l’effettivo utilizzo delle immagini che debbono quindi essere raccolte, come previsto dai principi generali, in modo corretto e, appunto, fornendo obbligatoriamente la predetta informativa. c) Sono pubblicabili immagini raccolte presso un luogo aperto al pubblico dove chiunque avrebbe potuto facilmente filmare o fotografare persone di pacifica notorietà. 5 “ Risposta di Franco Abruzzo a Roberto Maroni, titolare del Lavoro senza l’Ordine dei giornalisti rimarrebbero soltanto gli ordini degli editori-padroni Milano, 7 luglio 2001. “Caro ministro, senza l’Ordine dei giornalisti rimarrebbero soltanto gli ordini degli editoripadroni”: questo è il succo della risposta di Franco Abruzzo (presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e vicepresidente del Cup di Milano) a Roberto Maroni. Il ministro del Lavoro ieri ha dichiarato a Bruxelles che “l’Ordine dei giornalisti è da abolire subito”. Franco Abruzzo ha replicato con una lettera al ministro trasmessa anche a Umberto Bossi (giornalista pubblicista), ministro per le Riforme; Roberto Castelli, ministro della Giustizia e Alberto Brambilla, sottosegretario al ministero del Lavoro. La lettera è centrata sul “ruolo moderno dell’Ordine dei giornalisti a tutela del diritto dei cittadini a un’informazione corretta e completa”. Questo il testo completo della lettera: Signor Ministro, il 6 e il 7 luglio, l’Ansa e il Corriere della Sera Le hanno attribuito queste dichiarazioni pronunciate a Bruxelles al termine dell’incontro con il commissario Ue alla concorrenza Mario Monti: “Non abbiamo una posizione di difesa totale e preventiva dell’esistente: siamo disponibili a discutere apertamente su tutto”: lo ha sottolineato il ministro a proposito della necessità o meno di abolire gli ordini professionali. Maroni, che ha detto di esprimere un’opinione personale, è stato interpellato al termine di un incontro con il commissario Ue alla concorrenza Mario Monti che ha in corso un’indagine contro gli ordini professionali (anche italiani). “Pur svolgendo alcune funzioni importanti, è vero che in sé non sempre l’ordine è garanzia di professionalità”, ha detto Maroni. “Se servono a garantire posizioni di rendita, gli ordini hanno un ruolo negativo, se invece al contrario servono a garantire il cittadino sul livello di professionalità di chi esercita un mestiere, hanno un ruolo positivo”. Maroni, censurando gli ordini che frenano l’accesso alle professioni, ha fatto l’esempio di quello degli avvocati. Riterrebbe invece validi altri organismi simili (come quello dei medici), quando garantiscono l’affidabilità professionale degli iscritti. Per Maroni, negli ultimi anni c’è stata una proliferazione di ordini “che a mio avviso non hanno ragione di essere”. È un terreno difficile e complicato, su cui siamo disposti a discutere, non avendo lobby da difendere”, ha aggiunto Maroni, rilevando che un ordine “che andrebbe abolito subito è quello dei giornalisti”. Sugli ordini professionali esprimo, però, un’opinione personale perché non è scritto nel programma di governo. Dentro la Casa delle libertà, del resto, c’è anche chi vorrebbe la fine della funzione legale per i titoli di studio: questo comporterebbe una revisione totale degli ordini”. 6 1 Premessa Mi ha colpito in particolare una frase delle sue dichiarazioni: “Un Ordine che andrebbe abolito subito è quello dei giornalisti”. Mi permetto sommessamente di ricordare che la parola Ordine significa riconoscimento giuridico di una professione, nel caso particolare della professione giornalistica. L’Ordine, inoltre, è la deontologia. Nel caso specifico le “regole” fissate dal legislatore sono il perno, come afferma il nostro contratto di lavoro, dell’autonomia dei giornalisti. I Consigli degli Ordini sono per legge i giudici disciplinari. Fanno la loro parte, certamente con alti e bassi. Gli enti e gli apparati statali camminano sulle gambe delle donne e degli uomini che se ne occupano. Probabilmente sono da mettere sott’accusa donne e uomini per le loro insufficienze e incapacità. In Italia è di moda, al contrario, ribaltare le situazioni e sparare solo sugli enti e sugli apparati...che funzionano!. Sottolineo l’importanza strategica per una società democratica del nuovo diritto fondamentale dei cittadini all’informazione (“corretta e completa”), costruito dalla Corte costituzionale sulla base dell’articolo 21 della Costituzione e dell’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questo nuovo diritto fondamentale presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione. I consiglieri dell’Ordine della Lombardia hanno condiviso sin dal 1999 quella parte del decreto legislativo sul riordino dei ministeri che affida l’accesso alle professioni - e quindi anche della professione giornalistica - all’Università. È augurabile che le scuole di giornalismo, oggi riconosciute, siano collocate nel nuovo assetto organizzativo degli Atenei italiani, potendo costituire il ciclo conclusivo biennale di diversi corsi di laurea (Scienze politiche, Giurisprudenza, Scienze economiche, Lettere, Scienze della comunicazione, etc.). “ Caro ministro, Le considerazioni e i fatti raccontati consentono di risalire alle ragioni che hanno spinto il Parlamento nel 1963 a tutelare la professione giornalistica. L’eventuale abrogazione della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica comporterà questi rischi: ■ ■ quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge. risulterà abolita l’etica professionale fissata oggi nell’articolo 2 della legge professionale (“È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale di fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori”). Senza etica, regnerà, nel mondo dell’informazione, la legge della giungla!!! ■ senza la legge n. 69/1963, cadrà per i giornalisti la norma che impone il rispetto del “segreto professionale sulla fonte delle notizie”. Nessuno in futuro darà una notizia ai giornalisti privati dello scudo del segreto professionale. ■ Senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da due articoli (2104 e 2105) del Codice civile che riguardano gli obblighi di diligenza e fedeltà. Dice l’articolo 2104 Cc: “Diligenza del prestatore di lavoro. Il prestatore di lavoro deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende”. Dice l’articolo 2105: “Obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Gli accordi tra editore e direttore responsabile (su linea politica, organizzazione e sviluppo della testata) non devono, dice oggi l’articolo 6 del Cnlg, “risultare in contrasto con le norme sull’ordinamento della professione giornalistica”. In sostanza l’editore oggi sa che ha di fronte giornalisti professionisti vincolati per legge al rispetto di determinate regole etiche e, quindi, non può impartire disposizioni al direttore in rotta di collisione con quelle regole. In futuro, quando le norme sull’ordinamento della professione giornalistica non ci saranno, l’imprenditore (o chi per lui) potrà scavalcare l’impiegato-direttore e impartire direttamente disposizioni agli impiegati-redattori sui contenuti del giornale. L’articolo 2104 Cc, senza la barriera della legge professionale, conferisce all’editore un potere totale che prima non aveva. Il direttore responsabile, non più giornalista professionista, diventerà, comunque, un dirigente dell’azienda editoriale alle dipendenze operative dell’amministratore delegato e del suo braccio destro (il direttore editoriale). Senza la deontologia calata nella legge professionale, e quindi vincolante per tutti (editori compresi), il direttore non potrebbe più garantire l’autonomia della sua redazione e i redattori dovrebbero solo piegare la testa di fronte agli interessi dell’editore. La professione non ci sarebbe più. Sarebbe un ritorno al passato e quindi al mestiere. ORDINE 7 2001 Il ministro Maroni risponde via e-mail “La mia dichiarazione sull’Ordine era soltanto una battuta scherzosa” Milano, 9 luglio. “Un ordine che andrebbe abolito subito è quello dei giornalisti”. Questa frase, pronunciata venerdì scorso dal ministro del Welfare, Roberto Maroni, a Bruxelles, era una battuta. Lo ha spiegato lo stesso ministro al presidente dell’Ordine dei giornalisti lombardi, Franco Abruzzo, che gli aveva scritto a questo proposito. Abruzzo ha reso noto che Maroni gli ha inviato una e-mail per precisare il suo pensiero. “Caro Abruzzo, La ringrazio - scrive il ministro al rappresentante dei giornalisti - per il lungo e interessante documento che mi ha inviato sulle ragioni alla base della necessità di mantenere l’Ordine dei giornalisti. Lo leggerò con attenzione, per farmi un’opinione fondata. Se La può rassicurare, la mia dichiarazione sulla necessità di eliminare l’Ordine dei giornalisti era una battuta scherzosa che ha fatto - appunto - ridere i giornalisti presenti, come Le potranno confermare i Suoi colleghi presenti alla chiacchierata a Bruxelles. Cordialmente, Roberto Maroni”. “Gentilissimo ministro - ha replicato Abruzzo - La ringrazio per la risposta. È accaduto che mi sono fidato di quanto Le hanno attribuito le agenzie di stampa. Il documento, comunque, può essere una base di discussione in vista della riforma complessiva degli Ordini professionali. Colgo l’occasione per richiamare la Sua attenzione sui problemi che Le ho segnalato a proposito del Contratto nazionale del lavoro giornalistico (rinnovato il 24 febbraio 2001): l’esame di Stato dei giornalisti è a rischio, perché il Cnlg non prevede più che i permessi per i giornalisti commissari siano retribuiti. È urgente richiamare le parti al tavolo delle trattative. L’articolo 23 del Cnlg, così come è stato scritto, viola due articoli della Costituzione e la nostra legge professionale”. “La ringrazio - ha concluso Abruzzo - per la tempestiva risposta. È la prima volta che un ministro risponde a stretto giro di... e-mail. Cordiali saluti, Franco Abruzzo”. (ANSA) Sono convinto che la distruzione degli Ordini e dei Collegi costituisca una minaccia per l’autonomia dei professionisti italiani. Governo e Parlamento devono preoccuparsi di riformare le leggi sugli ordini e i collegi e di tutelare i saperi dei professionisti stessi, saperi che sono una ricchezza senza confini e una inesauribile fonte di progresso. Gli esami per l’accesso devono, invece, essere delegati a un altro soggetto (l’Università) anche per garantire il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i giornalisti a giudicare chi debba entrare nella cittadella della professione. Lo stesso discorso vale per gli avvocati e per le altre professioni regolamentate. Il titolo della mia relazione all’assemblea dei giornalisti lombardi del marzo 2001 (“La deontologia della professione giornalistica attraverso le pronunce dell’Ordine di Milano nel corso del 2000. Un impegno al servizio dei cittadini e volto alla tutela della dignità della persona, norma costituzionale e valore costituzionale, che animano l’ordinamento della Repubblica)” suona come una assunzione di responsabilità precisa e incontrovertibile. E si collega all’impegno del Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia di difesa e sviluppo della professione giornalistica. Abbiamo cercato in questi anni di far prevalere la legge, vista come il momento più alto della politica, e di alimentate le virtù civili dei giornalisti. Virtù civili che ciascuno di noi deve far crescere con una condotta personale improntata all’imparzialità, all’equidistanza dai fatti, recuperando la cultura della responsabilità e mai abdicando alla libertà di informazione e di critica, libertà che, con la deontologia, è il cuore della professione giornalistica. Questa impostazione ci ha sorretto: quando, all’inizio del 2000, abbiamo bollato su Tabloid la contropiattaforma della Fieg come fatto umiliante della professione giornalistica; quando abbiamo discusso di vicende disciplinari o di praticantato d’ufficio; quando abbiamo chiesto (primi in Italia) e poi ottenu- to il ripristino dell’appello nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa; quando abbiamo difeso contro una potente lobby la presenza dei giornalisti negli uffici stampa della Pubblica amministrazione; quando ci siamo battuti per la riforma della legge sulla stampa e per la registrazione delle testate on-line (misura approvata dalla legge n. 338/2000-Finanziaria per il 2001 e dalla legge n. 62/2001 sull’editoria); quando abbiamo difeso il ricorso alla cessione dei diritti d’autore da parte dei giornalisti liberi professionisti o la libertà del cumulo tra pensione e redditi da lavoro autonomo o dipendente (nel rispetto dell’articolo 72 della legge n. 338/2000); quando, con il Cup, abbiamo chiesto una legge moderna di riforma delle professioni regolamentate; quando abbiamo chiesto al Governo Amato parità di trattamento tra la nostra professione e le altre professioni intellettuali, tutte ancorate all’Università, attraverso una riforma dell’esame di Stato che tenga conto della laurea specialistica in giornalismo e che così sancisca il principio ineludibile dell’accesso collegato in futuro soltanto alla via universitaria. ORDINE 7 2001 Bisogna cogliere i suggerimenti offerti dalle sentenze della Corte costituzionale per inquadrare la professione giornalistica con una nuova legge al fine: 1) di dare regole innovative sul piano etico-disciplinare e della formazione all’attività giornalistica professionale; 2) di offrire garanzie ai cittadini lesi, nei loro diritti fondamentali, dagli articoli pubblicati su quotidiani e periodici nonché dalle notizie radioteletrasmesse oppure trasmesse da reti telematiche. Deputati e senatori devono sciogliere in via prioritaria un nodo e in sintesi dire se quella dei giornalisti sia una professione intellettuale collegata a funzioni costituzionali come quella dei medici e degli avvocati. La Corte di Cassazione sottolinea da decenni che quella dei giornalisti è una professione intellettuale. La Corte costituzionale, con le sentenze n. 11/1968 e n. 71/1991, “ha affermato che non osta al principio della libera manifestazione del pensiero il fatto che i giornalisti siano così organizzati, anche perché tale Ordine ha il compito di salvaguardare, erga omnes e nell’interesse della collettività, la dignità professionale e la libertà di informazione e di critica dei propri iscritti”. E con le sentenze n. 11 e 98/1968 e n. 2/1977 ha sottolineato, inoltre, “la rilevanza pubblica o di pubblico interesse della funzione svolta da chi professionalmente sia chiamato a esercitare un’attività d’informazione giornalistica”. 2 Ripensare l’organizzazione delle professioni intellettuali L’organizzazione delle professioni va, quindi, ripensata. E va ripensata soprattutto quella dei giornalisti, che trattano una materia - il diritto di manifestazione del pensiero - che è un diritto di tutti i cittadini e non un privilegio dei giornalisti stessi. Basti dire che l’attuale legge quadro delle professioni è un decreto luogotenenziale (n. 382) del 1944. Sono passati 57 anni e l’Italia solo oggi si accorge che c’è un problema “professioni” da regolamentare. Quando si parla dei ritardi nazionali, questa vicenda appare esemplare e istruttiva! Oggi il problema si pone in termini diversi. Nessuno può negare che, in considerazione del ruolo e della rilevante responsabilità sociale dell’informazione, l’esercizio dell’attività giornalistica vada regolato e tutelato dalla legge. L’informazione ha senz’altro carattere di preminente interesse generale (concetto mutuato dall’articolo 43 della Costituzione e ripreso dall’articolo 1 della legge 223 del 6 agosto 1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato). Altri studiosi configurano l’informazione anche come servizio pubblico essenziale (concetto mutuato sempre dall’articolo 43 della Costituzione). La liberalizzazione nel campo delle professioni non può comportare il trionfo del Far West nel mondo dell’informazione, perché tutto ciò si scontrerebbe con passaggi essenziali della Costituzione. Una riforma non può prescindere dalla tutela di valori primari. C’è bisogno, quindi, di una nuova legge per garantire la libertà e l’autonomia dei giornalisti nonché il diritto dei cittadini a una informazione “qualificata e caratterizzata (secondo la sentenza n. 112/1993 della Corte costituzionale, ndr) da obiettività, imparzialità, completezza e correttezza; dal rispetto della dignità umana, dell’ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori nonché dal pluralismo delle fonti cui (i giornalisti, ndr) attingono conoscenze e notizie in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti”. La libertà di informazione in Italia, affermata dalla Costituzione e sostenuta dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal Patto internazionale di New York sui diritti civili e politici, appare un albero robusto, che sostiene tutta l’impalcatura dei diritti inviolabili dell’uomo. Il discorso diventa problematico quando si affronta il diritto di cronaca e il tema della libertà dei giornalisti di informare. 3 Le aperture dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Signor ministro, tenga conto che l’Ordine dei giornalisti non è corporativo e chiuso alle istanze dei giovani sul tema dell’accesso alla professione. Nella seduta di insediamento (18 giugno 2001), il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha approvato un documento programmatico sull’accesso diretto a garantire a tutti i cittadini il godimento degli articoli 2 (tutela della dignità della persona: essere di diritto quello che si è di fatto) e 4 della Costituzione (diritto al lavoro). In sostanza i praticanti giornalisti si dividono secondo queste linee: a) quelli normalmente assunti (quotidiani, periodici, tg, radiogiornali, testate web); b) i pubblicisti assunti ex articolo 36 del vigente Cnlg (trattati economicamente come redattori professionisti e con il diritto contrattuale di sostenere l’esame di Stato); c) quelli che hanno superato il concorso presso l’Ifg e la Scuola della Università Cattolica; d) i redattori “di fatto” (cioè coloro che lavorano normalmente, senza essere assunti, presso quotidiani, periodici, tg, radiogiornali, testate web); e) i “redattori staccati” o “corrispondenti” con incarichi di lavoro su pagine di cronaca elaborate con le tecniche delle cronache cittadine (pubblicisti anche assunti ex articolo 12 del vigente Cnlg); f) “pubblicisti free lance”, che abbiano compensi complessivi pari al costo di un redattore praticante normale (cioè dai 35 milioni lordi annui in su). Il praticantato può essere svolto anche nelle testate estere (quotidiani e periodici, agenzie di stampa, tg, radiogiornali, web) che abbiano le caratteristiche di quelle italiane. L’esame di Stato può essere sostenuto in una lingua della Ue. I dipendenti delle Pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale possono chiedere l’iscrizione negli albi dei giornalisti e nel Registro (articolo 1, commi 56 e 56bis, della legge n. 662/1996; sentenza 11 giugno 2001 n. 189 della Corte costituzionale). 4 La disciplina degli Ordini non è in contrasto con la Ue. La disciplina comunitaria è sostanzialmente neutra rispetto all’esistenza o meno degli Ordini professionali Con le leggi comunitarie del 1990 (n. 428/1990) e del 1994 (n. 52/1996) - in base alle quali i cittadini comunitari possono iscriversi agli elenchi dei pubblicisti e dei professionisti dell’Albo e al Registro dei praticanti nonché possono essere editori e direttori di quotidiani e periodici nel nostro Paese - l’Italia ha imboccato la via della compatibilità dell’Ordine dei giornalisti con la Ue attraverso il riconoscimento dell’organizzazione in essere della professione e della reciprocità. Alla Ue interessa che ai cittadini comunitari siano accordati gli stessi “diritti” dei cittadini italiani, che esercitano la professione giornalistica. I cittadini comunitari, inoltre, possono sostenere nella loro lingua l’esame di Stato per diventare giornalisti professionisti in Italia. Il Consiglio d’Europa, nella risoluzione 1° luglio 1993 (n. 1003) relativa all’etica del giornalismo, scrive che “per la vigilanza sul rispetto dei principi deontologici, è necessario creare organismi o meccanismi di autocontrollo, che elaborino risoluzioni sul rispetto dei precetti deontologici da parte dei giornalisti, che i mezzi di comunicazione si impegneranno a rendere pubblici”. L’Italia, con l’Ordine dei Giornalisti, ha già creato “l’organismo di autocontrollo” dal 1963. L’Europa in sostanza, fatti salvi i principi della concorrenza e della libera circolazione dei professionisti, non ci impone un modello preciso. Con la direttiva sul commercio elettronico (approvata il 4 maggio 2000 dal Consiglio europeo), la Ue ha dato una serie di regole che riguardano le libere professioni e ha chiamato gli Ordini italiani a vigilare su Internet (Il Sole 24 Ore del 13 giugno 2000). La direttiva affida un ruolo particolare agli Ordini professionali nazionali che sono chiamati, oltre che a vigilare sul comportamento dei propri iscritti, a redigere a livello comunitario dei veri e propri codici di condotta. In particolare l’articolo 8 della direttiva, che tratta proprio dell’attività professionale, richiede agli Ordini (e alle associazioni professionali) di predisporre regole comuni circa le informazioni che possono essere fornite ai fini della prestazione di servizio, in modo da garantire i principi propri della professione, quali: indipendenza; dignità; onore; segreto professionale; lealtà verso clienti e colleghi. 5 Il ruolo moderno dell’Ordine posto a tutela degli interessi della collettività Gli Ordini, enti pubblici, hanno la specifica competenza della tenuta dell’Albo, dei giudizi disciplinari, della proposta della tariffa professionale nonché della liquidazione dell’onorario. Tali funzioni sono assegnate a tutela non degli interessi della categoria professionale ma della collettività nei confronti dei professionisti: tale principio è fissato nella sentenza n. 254/1999 del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (magistratura equiparata al Consiglio di Stato). Molti sostengono, invece, che “gli Ordini hanno la finalità di tutelare (solo) gli interessi della categoria”. Ma non è così. Secondo il Consiglio della Giustizia amministrativa della regione siciliana, invece, gli Ordini, devono tutelare gli interessi dei clienti dei professionisti. “Le specifiche competenze della tenuta dell’albo, dei giudizi disciplinari, della redazione e della proposta della tariffa professionale nonché della liquidazione dei compensi — scrive il Cgars – sono assegnate dalla legge agli Ordini essenzialmente per la tutela della collettività nei confronti degli esercenti la professione, la quale solo giustifica l’obbligo dell’appartenenza all’Ordine, e non già per una tutela degli interessi della categoria professionale che farebbe degli Ordini un’abnorme figura d’associazione obbligatoria, munita di potestà pubblica, per la difesa di interessi privati settoriali”. Un concetto, questo, che prefigura un ruolo moderno degli Ordini non più intesi come corporazione ma come enti pubblici che concorrono ad attuare valori e finalità propri della Costituzione repubblicana. In conclusione, senza l’Ordine dei giornalisti rimarrebbero soltanto gli ordini degli editori-padroni. Con stima, dott. Franco Abruzzo Presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e vicepresidente del Cup di Milano 7 T E S I D I L A U R E L’informazione A nel conflitto Il ruolo della stampa italiana nel conflitto dell’ex Jugoslavia / di Emiliano Bos Guerra e mass media Pubblichiamo un estratto della tesi di laurea in Storia del giornalismo di Emiliano Bos, pubblicista di Renate (Milano), dal titolo “Guerra e mass media - Il ruolo della stampa italiana nel conflitto dell’ex Jugoslavia”. Bos, che ha partecipato al Premio tesi di laurea dell’Ordine dei giornalisti della Lombradia, si è laureato nel 1998 in Lettere moderne, indirizzo Comunicazioni sociali, all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Relatrice la professoressa Anna Lisa Carlotti, correlatore il professor Massimo Ferrari. Votazione 110 e lode. Ventotto anni, vicedirettore della rivista Brianze, Emiliano Bos ha realizzato reportages da Bosnia, Kosovo e Rwanda per diverse testate (tra le quali Avvenimenti, Il Diario, Il Corriere di Como, La Prealpina, Jesus). Attualmente vive e lavora come freelance a Belgrado. Collabora con Avvenire, Radio Vaticana, Rediotelevisione della Svizzera italiana e con la Cattedra di Storia del giornalismo dell’Università Cattolica di Milano. Per oltre quattro anni, dal giugno del 1991 all’ottobre del 1995, i Balcani sono stati dilaniati da un conflitto feroce, consumatosi a poca distanza dal nostro Paese. L’indagine ruota intorno allo stretto rapporto tra guerra e mass-media: i mezzi di informazione hanno svolto un ruolo fondamentale sia nella fase di incubazione di questo scontro che nel suo svolgimento. Il periodo che precede lo scontro armato rappresenta con evidenza il tentativo dell’élite jugoslava di impossessarsi dei media, per esercitare una pressione e un controllo fondamentali per esasperare il sentimento nazionalistico, tanto in Serbia quanto in Croazia. La centralità di stampa e televisione in questo scenario è tale da poter affermare che “la guerra è scoppiata prima nelle redazioni” che sul terreno di battaglia. La guerra civile che dalla Slovenia e dalla Croazia si è estesa alla Bosnia è andata di pari passo con un’intensa battaglia mediatica fatta di “propaganda astiosa e di informazione tendenziosa e menzognera”. Per tutte le parti in causa, alcuni organi di informazione si sono messi al servizio della guerra. Una guerra contro la gente indifesa, prima vittima della “pulizia etnica”, dei martellanti bombardamenti, dei cecchini, degli stupri di massa, delle deportazioni e delle altre tragiche pratiche messe in atto in un conflitto di inaudita ferocia, che ha provocato circa duecentomila morti, mezzo milione di feriti e oltre tre milioni di profughi. Al di là dell’Adriatico si è consumato il primo conflitto armato nel cuore dell’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale: come si è comportato il sistema mediatico italiano? E, in particolare, quale atteggiamento e quale ruolo ha avuto la stampa italiana? In che modo i giornali italiani hanno “raccontato” questo tragico fatto? Il breve arco temporale non ha ancora consegnato del tutto ai libri di storia le drammatiche pagine del crollo della Jugoslavia. I documenti più attendibili, le fonti primarie di una storiografia ancora tutta da scrivere sono stati proprio i giornali. La nostra osservazione si sofferma su alcuni quotidiani italiani: comprende i più diffusi (il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa), alcuni che presentano una più marcata caratterizzazione ideologico-culturale e politica (l’Unità, il manifesto, Avvenire, Il Giornale) e altri regionali (Il Giorno e Il Piccolo di Trieste). Il loro confronto si è protratto per tutta la durata della guerra, a partire dal 26 giugno 1991. Il giorno precedente Slovenia e Croazia dichiarano la propria indipendenza dal governo di Belgrado, dando il via alla dissoluzione dello stato jugoslavo. La fine “ufficiale” del conflitto viene sancita negli Stati Uniti, con la firma degli accordi di Dayton (21 novembre 1995), poi ratificata dal trattato di pace di Parigi (14 dicembre ‘95) sottoscritto dai presidenti di Bosnia, Croazia e Serbia. Mass-media strumenti di guerra nei Balcani Il pianto di un bambino croato (da Panorama del 1° dicembre 1991). 8 Pochi mesi prima che si incendi il focolaio balcanico, i riflettori della ribalta mediatica internazionale si accendono tutti sul conflitto nel Golfo Persico. Un evento che rappresenta, per la storia del giornalismo moderno, un’incredibile battuta d’arresto, un esempio di manipolazione delle informazioni che non ha eguali nella nostra storia recente. La guerra, scoppiata in seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, ha catalizzato l’attenzione del mondo intero: tutti i quotidiani se ne sono occupati con una copertura eccezionale mai vista prima e che mai si è ripetuta finora, neppure per la guerra nell’ex Jugoslavia. Nel primo caso infatti i media hanno facilmente individuato oppressori ed oppressi mettendoli in scena nei modi tipici del giornalismospettacolo, mentre nel secondo caso la situazione storica molto più complessa richiedeva precise conoscenze per decifrarla in maniera corretta. Inoltre il primo avvenimento si è svolto in un lasso di tempo abbastanza circoscritto, il secondo invece si è prolungato negli anni. Molti degli inviati che si trovano a “coprire” gli eventi bellici della guerra nei Balcani sono reduci dall’esperienza del conflitto nel Golfo. Gioverà ricordare che ai giornalisti internazionali giunti in Arabia fu imposta, pena l’espulsione, la sottoscrizione e l’osservanza di un decalogo che escludeva, da parte loro, qualsiasi contributo all’informazione: divieto di dare notizie sugli equipaggiamenti, sulle operazioni militari, sulle località, sull’esito delle eventuali battaglie. Esiste dunque un rapporto diretto tra il ruolo svolto dall’informazione nella guerra nel Golfo e nel conflitto che ha insanguinato i ORDINE 7 2001 Un mezzo corazzato dell’esercito jugoslavo colpito ed incendiato durante la guerra del 1991, che ha portato alla “secessione” di Slovenia e Crozia dalla Federazione jugoslava. Un alpino dell’Afor in Albania monta la guardia a protezione del convoglio destinato ai profughi del Kosovo. Un soldato del 1° bgt del Reggimento Genio ferrovieri di guardia presso la stazione di Kosovo Polje/Teretna a Pristina. Riesumazione dei cadaveri delle vittime dei massacri compiuti prima del ritiro dei reparti militari e paramilitari di Belgrado. Foto tratte dal libro Kosovo e informazione. ORDINE 7 2001 Balcani dal 1991 al 1995? Probabilmente si è verificato un “effetto-rivincita” su alcuni giornalisti inviati a seguire le vicende dell’ex Jugoslavia, dove, dopo il 1991 “non vi sarebbe stata mai più un’ecatombe così a portata di telecamera, mai più la stampa avrebbe potuto entrare in una città subito dopo la sua distruzione totale”, come afferma Paolo Rumiz, inviato de Il Piccolo di Trieste riferendosi a Vukovar, città-martire della Slavonia assediata ed espugnata dall’esercito serbo e dalle bande paramilitari. Nella ex Jugoslavia la centralità del ruolo svolto dai mass-media non si riferisce solo agli eventi bellici, ma anche alla fase di incubazione della guerra. Il ruolo dei “media”, il loro uso da parte dei regimi di Belgrado e Zagabria, le epurazioni all’interno di giornali e televisioni, le manipolazioni delle informazioni hanno costituito un’opera di “pulizia informativa” condotta dalle autorità che ha di fatto cancellato i mezzi di comunicazione indipendenti. I mass-media hanno avuto un ruolo fondamentale nell’organizzare il consenso collettivo attorno ai nuovi leader, lo sloveno Kucan, il croato Tudjman e il serbo Miloševic (in particolare a questi ultimi due) che, non a caso, si erano assicurati preventivamente il controllo delle fonti di informazione. Le vicende politiche che hanno anticipato l’esplosione del conflitto dimostrano l’attenzione dei leader politici ai mezzi di informazione. Il primo passo per attuare la strategia della fomentazione dello sciovinismo nella popolazione e di crescita del consenso, è stato stabilire il controllo sulle stazioni radiotelevisive e sui giornali, operando drastici interventi per eliminare le voci libere e alternative al potere e massicce epurazioni di giornalisti sgraditi al regime. Grazie ad un sapiente uso della propaganda ed un’interruzione delle comunicazioni interregionali tra le diversi componenti del Paese, la gente ha ceduto infine “all’ubriacatura nazionalista”: l’elemento etnico, entrando nelle case attraverso il linguaggio televisivo, ha demonizzato i “nemici”, risvegliando i fantasmi del passato (i massacri della seconda guerra mondiale). L’aumento delle tensioni etniche, il conflitto e infine la guerra compongono un processo che non può avvenire senza l’apporto dei media e soprattutto della televisione. Prima del conflitto vero e proprio, nella ex Jugoslavia è iniziato, orchestrato dai partiti di governo, lo scontro per il controllo dei mezzi di comunicazione. Prima che sul campo di battaglia, la guerra è scoppiata nei programmi televisivi. È stato creato soprattutto da parte dei serbi, dal momento che in Serbia è iniziato nel 1987 e in Croazia nel 1990. Secondo Nenad Pejic, direttore responsabile di TeleSarajevo “dobbiamo parlare delle responsabilità della televisione per la guerra nell’ex Jugoslavia: non sono grandi quanto quelle dei partiti politici dei loro leader, ma sono comunque una parte della responsabilità complessiva”. Dopo l’opera di “pulizia informativa” condotta dalle autorità, che pure hanno riconosciuto formalmente il principio della libertà di stampa, “è difficile trovare in Croazia - ha scritto Catherine Humblot su Le Monde - mezzi di comunicazione che siano rimasti indipendenti”. In Serbia il governo di Miloševic, oltre ad aver cacciato dalla Tv giornalisti e tecnici, ha fatto vere e proprie epurazioni all’interno di Politika e Nin. Ci sono state pressioni e minacce nei confronti dei giornalisti non asserviti. Paradossalmente, è stato l’ex-organo della Lega dei comunisti, Borba, tra i pochi a conservare autonomia critica. l ruolo dei giornalisti In una guerra costruita sull’intossicazione dei mass-media, il giornalista era visto “come un killer su commissione o un pericoloso rompiscatole. Prima della Bosnia, dirsi giornalista in guerra equivaleva a esibire un salvacondotto. In Bosnia, invece, scrivere Press sull’automobile significava farsi impallinare”. Questa testimonianza di un inviato italiano rende perfettamente l’idea di quale sia stato il “ruolo” dei giornalisti nell’ex Jugoslavia. Anche loro nel mirino, non solo metaforico, delle forze schierate in campo. Le parti in lotta non hanno infatti risparmiato giornalisti, cameramen, tecnici e fotografi. Anzi, nel perseguimento di quelle strategie politiche che volevano impedire al mondo di conoscere ciò che stava effettivamente accadendo nei Balcani, gli “osservatori” della stampa e della televisione erano particolarmente sgraditi. Nel corso del conflitto dell’ex Jugoslavia il numero di giornalisti uccisi supera enormemente quello dei reporter caduti nella guerra in Vietnam o nel Libano. Durante la guerra hanno perso la vita oltre ottanta operatori dell’informazione, il più alto numero dell’epoca moderna, che cercavano di documentare la guerra e le sue atrocità. Questo dipende non solo dal fatto che giornalisti e inviati abbiano frequentato luoghi pericolosi, dove c’era un rischio elevato di rimanere coinvolti negli eventi bellici, ma dalla constatazione che, essendo i media uno strumento di conflitto, i giornalisti erano automaticamente visti come un’arma. E quindi come un pericoloso obiettivo da colpire. La stampa italiana: nel segno della discontinuità Come si è comportata dunque la stampa italiana in occasione del conflitto nel “castello di sangue dei Balcani”? Renzo Cianfanelli del Corriere della Sera, ha parlato di un paese “chiuso per restauri”, con una felice definizione che sintetizza un quadro abbastanza desolante: un paese percorso da una crisi politico-istituzionale profonda come è accaduto in Italia a partire da primi anni Novanta, quando l’esplosione di una serie di inchieste (denominate “Mani Pulite”) ha portato allo scoperto meccanismi di corruzione capillarmente diffusi in tutti i livelli della società, si è innanzitutto rilevata una tendenza a non concedere molto spazio alle notizie provenienti dalla Bosnia. Di ritorno dall’ex Jugoslavia, un inviato ha così descritto ha parlato della “sostanziale ignoranza circa le cause degli eventi che si andavano consumando, l’errata interpretazione ideologica delle motivazioni, il chiaro disinteresse” che hanno creato “un gravissimo ritardo culturale e di comprensione”. Per arginare, con risultati solo parziali, questa carenza, la modalità utilizzata maggiormente risulta il ricorso alle tematizzazioni. Oltre al dato di cronaca, il conflitto provoca conseguenze sociali di rilievo, ripercussioni culturali significative e conseguenze che trascendono la circostanza. Si è notato, in modo sporadico ma a volte pregevole, il tentativo di presentare al lettore approfondimenti tematici sulla situazione umanitaria delle popolazioni in guerra, dei disagi vissuti dai civili, delle drammatiche condizioni di centinaia di migliaia di profughi. Non sono mancate, benché troppo occasionali, interviste a esponenti del mondo culturale jugoslavo, che hanno contribuito con i loro interventi, ad andare in profondità delle questioni. In questo andamento altalenante del flusso informativo proveniente dalla ex Jugoslavia, è possibile individuare periodi in cui la stampa ha fatto sentire la propria voce, talvolta chiedendo l’intervento armato dell’Occidente, in altre occasioni denunciando la gravità della situazione della popolazione civile. Ma si è trattato sempre di interventi tardivi, post eventum in un certo senso, quando ormai le violazioni dei diritti umani erano state abbondantemente perpetrate da parte soprattutto dei serbo-bosniaci (che hanno fatto di Sarajevo “il più grande lager del mondo”, secondo una definizione di Guido Rampoldi), ma anche da parte di croati e musulmani. La stampa ha dato l’impressione di una svolta una prima volta intorno alla fine di aprile del 1993, quando la caduta di Srebrenica (due anni dopo ancora protagonista delle cronache di guerra per essere stata teatro di orrendi massacri di massa) ha trovato spazio sulle prime pagine dei quotidiani. Pochi mesi dopo, nell’agosto dello stesso anno, il volto di una bambina, Irma Hadzimuratovic, cinque anni, di Sarajevo, viene usato dai mass-media come simbolo della tragedia della capitale, tanto da far parlare di un “Irma show”. Infatti in quei giorni a Sarajevo si è visto il più alto numero di inviati, non solo italiani ma anche stranieri. La bambina fu trasformata in un simbolo: il volto sofferente di Irma fu utilizzato dai mezzi di comunicazione occidentali (non solo italiani) per colpire l’opinione pubblica e far crescere il consenso sull’intervento armato. La fotografia ad effetto di un primo piano della bambina, in coma in un ospedale di Londra con due schegge di granata, venne pubblicata in prima pagina da numerosi quotidiani italiani (il Corriere della Sera titolò : “Sì ai raid su Sarajevo”, e la Repubblica: “Salviamo i bambini di Sarajevo / E la Nato approva i piani di attacco”). Nel febbraio del 1994, la strage del mercato di Sarajevo con i suoi 68 morti scuote la coscienza del mondo: la stampa accende i riflettori sullo “scannatoio balcanico”, e il dramma dei suoi abitanti ritorna di bruciante attualità. Almeno in altre due occasioni la tragedia bosniaca occupa con insistenza intere pagine di giornale: quando il Papa rinuncia alla visita a Sarajevo (settembre del 1994) e quando, nell’estate del ‘95, si consumano le tragedie di Srebrenica e Zepa. In quell’occasione si assiste a uno dei più gravi 9 black-out informativi della stampa italiana sulla Bosnia. Quando se ne parla, gli uomini del generale Mladic ormai hanno prelevato e massacrato migliaia di uomini di età compresa tra i 14 e i 65 anni (le stime variano da 8 a 12 mila). Del tutto inesistente, sui giornali, è stata la cosiddetta “classe intellettuale” del nostro paese. Sui giornali hanno trovato voce e spazio numerosi commentatori, ma raramente abbiamo assistito a prese di posizione nette, con denunce o azioni clamorose da parte di intellettuali italiani. Piuttosto i giornali ospitavano abbastanza frequentemente i contributi di scrittori o filosofi stranieri. La difficoltà di capire e il bisogno di approfondire La complessità del conflitto balcanico ha reso spesso difficile la comprensione degli eventi. Quando scoppia la guerra, le direzioni dei giornali italiani si trovano di fronte non ad un semplice fatto di cronaca, ma ad un evento di politica estera assai complesso e articolato. I direttori sono così costretti ad affidarsi ai reportage dei propri inviati, cui spesso, in occasione di episodi particolarmente significativi o di impatto sull’opinione pubblica (stragi o massacri) si affiancano i commenti politici nei fondi o negli editoriali. In questi spazi, spesso, oltre agli editorialisti “politici” si trovano i commenti di esperti di questioni balcaniche. La Stampa, per esempio, si affida spesso alle dissertazioni di Enzo Bettiza, scrittore dalmata; Il Giornale (più vicino a una linea di centrodestra o comunque moderata), affida alcune analisi allo storico ungherese Francois Fejto, sostenitore dell’indipendenza croata. L’Unità, invece, pubblica in diverse occasioni interventi di Stefano Bianchini, uno dei massimi esperti delle questioni balcaniche in Italia, mentre sul manifesto si trovano con frequenza commenti di Nicole Janigro, scrittrice e traduttrice di origine jugoslava, che negli anni precedenti ha seguito le vicende dell’Europa Orientale per il quotidiano di sinistra. Il Piccolo di Trieste si affida invece ai commenti di Paolo Rumiz, inviato e profondo conoscitore di questioni balcaniche. T E S I D I L A U R E A Gli inviati di guerra e la distanza dalle redazioni 10 La complessa realtà storico-politica di cui gli inviati sono testimoni, oltre ad essere articolata e di non facile comprensione, risulta ancora più complicata da trasmettere alle redazioni. Al tavolo dei desk, dove inizia il percorso di selezione delle notizie che poi vengono sottoposte alla valutazione delle direzione per le scelte editoriali complessive, giungono i numerosi dispacci di agenzia che riportano, nel flusso quotidiano, anche informazioni provenienti dai Balcani. La scelta delle redazioni appare quella di non trascurare nulla di quanto provenga dai circuiti informativi internazionali, per evitare di “bucare la notizia” come si dice in gergo. C’è poi un secondo genere di problema per gli inviati, di tipo “culturale”. Il muro di disinteresse che spesso ha accompagnato gli eventi sull’altra sponda dell’Adriatico ha avuto un andamento altalenante: l’opinione pubblica ha oscillato tra fiammate d’indignazione in occasione dei massacri più efferati e lunghi periodi di oblio. Proprio in questi prolungati “black-out informativi” il carico degli inviati si è fatto particolarmente pesante. Come richiamare l’attenzione dei lettori sui fatti dell’ex Jugoslavia quando, negli stessi mesi, in Italia scoppiava il caso clamoroso di Tangentopoli? Nei giornali abbiamo assistito a una fortissima predisposizione ad accettare i luoghi comuni, (oppure dividendo i belligeranti in “cattivi e pessimi”, come fece Paolo Garimberti su la Repubblica riprendendo una distinzione già proposta dall’Economist) specialmente quello della guerra dei “tutti colpevoli”, un argomento eccellente per giustificare l’assenteismo diplomatico e militare. La rivista di geopolitica Limes ha individuato inclinazioni politiche o geopolitiche di alcune testate: “I giornali del gruppo Fiat erano all’inizio forti partigiani di parte croata, perché la nostra principale industria aveva aspettative con il regime di Zagabria”. Si è inoltre imposta una divisione sempre più netta tra chi è stato sul campo, gli inviati e i corrispondenti di guerra, e chi si è limitato ai commenti da scrivania. Quando una granata uccide tre giornalisti della Rai di Trieste a Mostar (28 gennaio 1994), per la prima volta dall’inizio delle ostilità la stampa italiana si trova improvvisamente di fronte alla necessità di riflettere sul proprio ruolo, su quello degli inviati e sulle condizioni in cui questi ultimi operano. Tutti i quotidiani sono “moralmente obbligati” a parlare dei giornalisti di guerra e dei pericoli che devono affrontare ogni giorno nei territori dilaniati dallo scontro armato. Ma non capiterà più, durante la guerra nella ex Jugoslavia, che i giornali italiani affrontino una riflessione approfondita sul proprio ruolo e su quello dei giornalisti. Il problema delle fonti Il problema della valutazione delle fonti e dell’accertamento delle notizie provenienti dalle diverse parti in conflitto si colloca nel complesso quadro di “dezinformacija” in cui sono costretti a operare i giornalisti nell’ex Jugoslavia. Può accadere che il “virus della disinformazione” sia contenuto in una sola immagine. Un esempio indicativo può essere la foto, diffusa ad arte, che ritraeva un mujhaiddin, presunto mercenario arabo, schierato dalla parte dei bosniaci, che mostrava trionfante la testa mozzata di un soldato serbo (1 ottobre 1992). L’immagine fu esaminata dai consigli di redazione delle principali testate e “giudicata pubblicabile o non pubblicabile soltanto sulla base di criteri di criteri di tollerabilità dello stomaco dei lettori”. La valutazione venne fatta non sulla base del criterio della veridicità o meno della notizia. Grazie alle misurazioni eseguite successivamente si scoprì che in effetti questa testa in proporzione all’uomo sarebbe appartenuta ad una persona di circa tre metri. Era chiaramente un fotomontaggio. I quotidiani in analisi si dividono di fronte alla scelta se pubblicare oppure no questa immagine: su Avvenire, il manifesto, Il Giornale, Il Piccolo e l’Unità non si trova riscontro, mentre gli altri operano scelte diverse. Il Corriere della Sera pubblica la foto in prima pagina, nel taglio basso (titolando: “Orrore dalla Jugoslavia: nemici decapitati”); La Stampa, colloca l’immagine in una foto in prima pagina, con al seguente didascalia: “Orrore in Bosnia / Teste mozzate ai serbi”. La stessa immagine trova spazio invece nelle pagine di “esteri” su la Repubblica (che parla di “macabro trofeo”), mentre Il Giorno pubblica l’immagine (in prima pagina) con un titolo provocatorio: “Ricordate la Bosnia?”. Il problema delle fonti non riguarda solo le redazioni, ma coinvolge anche e soprattutto il lavoro degli inviati e dei corrispondenti di guerra. Alla luce di quanto sopra esposto, sembra opportuno chiedersi che possibilità essi abbiano di verificare le fonti e quale atteggiamento mantengano verso le versioni ufficiali. L’analisi dei quotidiani italiani Il Corriere della Sera ha preferito i fatti di politica interna: ha inviato alcuni giornalisti (tra i quali Eros Bicic, un collaboratore che non sempre si è dimostrato affidabile) e dedicato ampio spazio. Le tematizzazioni sono state di buona qualità ma risultano isolate e senza continuità. La Repubblica è la testata che ha speso più energie per mandare “sul posto” gli inviati, i quali hanno cercato di far capire cosa stesse succedendo. Grandi reportage, accanto ai quali non sono mancati interventi di commento da parte della redazione/direzione, che in alcune occasioni contenevano idee e osservazioni in netto contrasto con lo sforzo degli inviati di cogliere i motivi profondi del conflitto, al di là del dato di cronaca. In occasione di episodi clamorosi, il quotidiano di Scalfari non ha esitato a “sparare” titoli a tutta pagina (si ricordi “La strage degli innocenti”), ma l’interesse per la ex Jugoslavia scemava piuttosto facilmente. Si potrebbe riassumere così l’atteggiamento del tabloid romano: alta qualità, quando c’è stata, ma labile continuità. Diversa invece la scelta de La Stampa che per tutta la durata del conflitto ha fatto affidamento praticamente sullo stesso inviato e sulla medesima corrispondente. Con uno schema abbastanza consolidato l’uno ha battuto le zone di guerra, l’altra ha seguito l’andamento della guerra da Zagabria. Il giornale torinese ha ospitato occasionalmente reportage di giornalisti stranieri, grandi firme della stampa europea e anche americana, che hanno arricchito indubbiamente l’offerta della Stampa. I quotidiani che hanno una matrice ideologico-culturale e politica più marcata hanno avuto il pregio di mantenere viva l’attenzione sulla Bosnia anche quando la maggior parte dei media non ne parlava. In alcune occasioni i giornali con meno risorse hanno garantito più continuità nella copertura informativa. Per esempio Avvenire e il manifesto sono stati vigili sulla tragedia che si consumava nella ex Jugoslavia, anche se con evidenti divergenze di impostazione. In particolare il quotidiano comunista, soprattutto nella prima fase, ma comunque in numerose occasioni, si è dimostrato cristallizzato sui propri preconcetti politico-culturali, (occasionalmente degenerati in aperta faziosità) che gli hanno impedito di distinguere tra aggressore e aggredito arrivando a cercare una “compensazione della colpa”. Comunque insieme al giornale dei vescovi ha avuto la costanza di insistere su questi argomenti con copertine e titoli gridati, denunciando crimini in corso. Il Piccolo di Trieste è uno dei pochi che ha assolto con dignità la funzione di informare il lettore. Soprattutto per merito di Paolo Rumiz e delle sue lucide analisi, che hanno permesso ai lettori della testata friulana di aprirsi gli occhi e avere gli strumenti per cercare di leggere gli eventi che si consumavano a poche centinaia di chilometri. Titoli e foto: la strage fa sempre notizia Soffermandoci nell’analisi dettagliata di titoli, linguaggio, fotografie e grafica, si rileva che l’evento tragico riesce quasi sempre a catturare l’attenzione dei giornali. Il rischio è quello di un’assuefazione alle notizie di eccidi e atrocità, tuttavia è proprio in occasione di questi episodi che si è osservato l’alto grado di interesse della stampa. La granata che uccide quasi settanta persone a Sarajevo richiama più attenzione del macabro stillicidio quotidiano operato dai cecchini, né riesce ad attirare l’attenzione la dozzina di morti al giorno in circostanze che, soprattutto nella capitale assediata, venivano definiti di “normalità” da parte degli osservatori internazionali. Linguaggio espressivo, titoli gridati, immagini di bimbi sofferenti: sembra essere questa la chiave di interpretazione preferita dalla stampa, che spesso proprio di fronte a episodi di particolare gravità e ferocia “scende in campo” per far sentire che l’opinione pubblica non si è dimenticata della Bosnia e della sua guerra. L’esempio più evidente di questo tipo è legato alla città di Sarajevo che, a partire dall’inizio dell’assedio da parte dei serbo-bosniaci (5 marzo 1992), diviene simbolo della distruzione e della tragedia dei suoi cittadini, di luogo dove si consuma un dramma di immense proporzioni: l’intera città è vittima di un’aggressione che dura come mai non era accaduto nella storia di questo secolo. Tra metafore e allegorie presenti sui giornali, prevale di gran lunga l’immagine dell’inferno, che ricorre nei titoli dei giornali analizzati circa settanta volte e spesso si trova associato alla città di Sarajevo. Ecco alcuni esempi: si va dal “Viaggio nell’inferno di Sarajevo” (Corriere della Sera, dicembre 1992), a “Un giorno nell’inferno di Sarajevo” (la Repubblica, 23/08/1995). Si trova ancora Avvenire: “A Sarajevo è tornato l’inferno” (20 settembre 1994), l’Unità, che parla di un viaggio “da Firenze verso l’inferno” o lo speciale del manifesto dedicato alla ex Jugoslavia, nel settembre del 1993, intitolato: “L’Europa all’inferno”. Si riscontra l’atteggiamento comune a tutti i quotidiani di una titolazione fortemente espressiva e dura in occasione di episodi cruenti. Due di questi, la strage del mercato di Sarajevo e l’assedio di Srebrenica, mostrano efficacemente questa tendenza. Il 6 febbraio 1994 (strage del mercato), Avvenire apre la prima pagina titolando: “A Sarajevo scempio d’umanità”; lo stesso termine è usato da il manifesto, che scrive invece: “Lo scempio di Sarajevo”, mentre Il Giorno sceglie “Macelleria Bosnia” e in modo simile l’Unità titola a tutta pagina: “Mattatoio Sarajevo”. Si può notare che vocaboli come “macelleria”, “scannatoio”, “mattatoio” ricorrono spesso nella titolazione dei quotidiani in queste tragiche circostanze. I titoli delle prime pagine, se si considera che la prima pagina costituisce il “manifesto ideologico” del quotidiano, permette di cogliere la rilevanza che essa occupa nell’economia complessiva delle scelte editoriali. L’uso di titoli strillati sulla “copertina” del giornale nel corso della guerra avviene soprattutto in concomitanza di ORDINE 7 2001 Kosovo e informazione. La guerra vista da vicino eventi di grande rilievo, tali da richiedere l’apertura della prima pagina. In queste circostanze i quotidiani non esitano a “gridare” titoli a nove colonne: efficace, per esempio, la Repubblica del 6 febbraio 1994, che strilla in prima pagina: “Fermate la strage: bombe serbe sul mercato di Sarajevo, 66 morti”, lanciando un appello dallo spazio più visto del giornale. Pochi giorni prima tutti i quotidiani (con l’eccezione de Il Giornale) “aprono” sulla morte di tre giornalisti italiani uccisi a Mostar da una granata sparata dai croati: titoli urlati e linguaggio duro caratterizzano questa giornata nera del giornalismo italiano: “Una strage nella strage” per il manifesto, “Bosnia, tre croci italiane” l’apertura del Giorno, solo per citare due esempi. Da questo punto di vista la Repubblica può essere considerata il giornale che, insieme a quelli che in questa ricerca abbiamo definito schierati come Avvenire o il manifesto, richiama più frequentemente l’attenzione del lettore con una titolistica d’impatto e ad alto contenuto emotivo. Gli inviati: il parere degli “addetti ai lavori” voluto incontrare gli inviati La guerra e l’informazione, dei media che avevano un tema sempre d’attualità seguito le operazioni in nel mondo giornalistico. Albania, in Macedonia e Anche oggi, in un momennel Kosovo stesso. In quelto di crisi della figura dell’inl’occasione in primo luogo viato di guerra. Dai primi li ho ringraziati, a nome di dispacci trasmessi con il tutto l’Esercito, per l’attività telegrafo ai mezzi di comue il servizio altamente nicazione del villaggio professionale svolti per globale si sono succeduti informare la pubblica infiniti dibattiti sull’importanopinione esponendosi za, sui limiti, sulla continua anche a rischi notevoli; ho evoluzione dell’informaziopoi ascoltato con molto ne di guerra, nella quale si interesse le loro esperiencontrappongono esigenze ze e il loro giudizio sulla e interessi diversi. Da una preparazione e sull’efficienparte i reporter impegnati za operativa delle nostre nel loro ruolo di “testimoni” unità, in relazione a quella per conto della collettività, degli altri Paesi compartedall’altra il potere politicocipi della missione”. militare che conduce una Da quell’incontro e da una doppia guerra: quella reale successiva tavola rotonda, sul campo e quella virtuale svoltasi il 19 novembre (ma non troppo) attraverso 1999, è nato il volume che, i media. spiega il generale Cervoni, È significativo che, accanto ai numerosi Kosovo e informazione. libri sull’arLa guerra vista da vicino, gomento a cura di Andrea Nativi, p u bbl i c a t i Stato Maggiore Esercito negli ultimi Agenzia pubblica informazione anni ad Editore Video Immagine, pp. 200, s.i.p. opera di giornalisti, si rivela una sorta di ne esca ora uno promosso “manuale pratico di estredall’Agenzia pubblica informa valenza sociologica e mazione dello Stato professionale”. Maggiore dell’Esercito, Tra i numerosi capitoli “Kosovo e informazione. La suddivisi in quattro parti si guerra vista da vicino”. Per segnalano quelli della la verità si tratta di un voluterza, riguardanti le probleme contenente testimomatiche specifiche di guernianze di giornalisti che ra e informazione. Intervenhanno seguito da vicino i gono Ennio Remondino conflitti nell’ex Jugoslavia, e (controllo delle notizie, fonti in particolare l’intervento d’informazione, rapporti italiano nel Kosovo. con le autorità), Maurizio Ma il filo conduttore di Molinari (l’informazione sul queste testimonianze è conflitto negli altri Paesi originale, poiché dalla Nato), Marco Nese (Accescontrapposizione di esigenso alle informazioni, reporze e interessi si passa al ting indipendente), Vincendialogo e al confronto tra zo Nigro (Ricerca, verifica forze armate e giornalisti. e gestione delle informazioAnche perché, in questo ni), Angela Virdò (fonti ufficaso, l’Esercito italiano è ciali e Nato), Renato Capristato impegnato come le (l’inviato di guerra in forza di pace. Spiega FranKosovo nell’era dell’inforcesco Cervoni, capo di mazione globale). Stato Maggiore dell’EserciCompleta il volume una to: “Dopo l’ingresso del ricca documentazione fotocontingente Kfor nel Kosografica. vo e il rientro dei profughi (gi.ba.) kosovari nella loro terra, ho ORDINE 7 2001 Sebbene la professione di “inviato speciale” sia sempre più minacciata dal ridimensionamento del suo ruolo, per l’invadenza di una comunicazione tecnica priva di controlli e di testimoni e per la rapidità con cui le immagini televisive e i comunicati delle agenzie propongono realtà sintetiche da tutto il mondo, il giornalismo degli inviati ha conservato la sua insostituibilità anche nel conflitto dei Balcani. Nella ex Jugoslavia i giornalisti hanno svolto un ruolo difficilmente sostituibile: sono stati testimoni personali di una tragedia umana di immense proporzioni. Gli inviati italiani hanno cercato l’approfondimento, l’analisi storica, l’osservazione diretta. Non si sono fermati alle “veline” di regime, propugnate all’inizio dal governo sloveno e croato, poi dalle dichiarazioni dei serbo-bosniaci e a un certo punto anche dai Caschi Blu delle Nazioni Unite, che sul terreno della Bosnia hanno palesato la loro totale incapacità a fermare il massacro. Alcuni di questi professionisti hanno fatto entrare nei giornali il dubbio “che la guerra non fosse etnica, che non si trattava di odio atavico, che non c’era nessuna barbarie congenita” (Guido Rampoldi, inviato della Repubblica). Tra questi “pericolosi rompiscatole” c’è chi ha scritto apertamente che in Bosnia “non era in corso un conflitto etnico balcanico, ma un’offensiva della barbarie contro la civiltà, una sistematica violazione dei diritti umani” (Paolo Rumiz de Il Piccolo di Trieste). Le interviste raccolgono le dichiarazioni di un giornalista per ciascun quotidiano esaminato: Paolo Rumiz del Piccolo di Trieste, Guido Rampoldi della Repubblica, Renzo Cianfanelli del Corriere della Sera, Giuseppe Zaccaria della Stampa, Marco Ventura del Giornale, Gigi Riva del Giorno, Mauro Montali dell’Unità, Maurizio Blondet dell’Avvenire e Nicole Janigro del manifesto. Il loro giudizio sulla stampa italiana appare, in sintesi, decisamente negativo. Viene sottolineata una “distanza” dalle redazioni, una “frattura” tra chi seguiva gli eventi dal desk e chi invece si trovava sotto le bombe: spesso l’inviato si trova in difficoltà a comunicare con la redazione e le notizie che invia, se non trovano il riscontro oggettivante delle agenzie o della televisione, spesso vengono accettate con riserva. Vi è sostanziale unanimità nel riconoscere che i giornali, nel loro complesso, non hanno posto sufficiente attenzione a un conflitto che si combatteva alle porte di casa nostra. In particolare la stampa quotidiana, posta sotto analisi dai suoi stessi professionisti, viene giudicata negativamente in quanto superficiale e poco approfondita (Rumiz, Rampoldi, Zaccaria, Ventura, Blondet), attenta soprattutto agli eventi tragici come stragi e massacri, che vengono tuttavia eccessivamente spettacolarizzati: “ho visto una stampa prigioniera della spettacolarizzazione, sui giornali abbiamo letto decine di storie ‘strappalacrime’” (Rampoldi); “quello che ‘faceva notizia’ era il dato di cronaca: la strage, i morti, le granate” (Ventura). C’è chi rileva anche la mancanza di continuità nella copertura informativa degli eventi: “a pochi giorni di distanza da episodi gravi i giornali tendevano ad occuparsi di altri argomenti” (Zaccaria), e il tentativo di minimizzare: “abbiamo visto dei giornali che hanno clamorosamente minimizzato quanto stava accadendo” (Janigro). Quasi tutti riconoscono che la ex Jugoslavia ha ricevuto poca attenzione da parte della stampa, che invece in quegli anni ha dedicato molto più spazio ad altre vicende, per esempio, la serie di inchieste condotte dalla magistratura milanese denominata “Mani Pulite”: “ il direttore […] avrebbe voluto concedere maggior spazio alle vicende interne del nostro paese”; (Cianfanelli). Da più inviati viene inoltre osservata un’eccessiva tendenza a semplificare (“indicare responsabilità generiche e diffuse, come generico è stato, sulla nostra stampa, il concetto di colpa”, Rumiz) e la mancata distinzione tra aggressore e aggredito: “tutti descritti come ‘cattivi’, protagonisti di uno scontro tribale in una specie di grande scannatoio dove tutti erano contro tutti: è questa l’immagine che la nostra stampa quotidiana ha fatto passare sui giornali” (Ventura). Emerge con evidenza la consapevolezza che i giornali si trovino ad affrontare una realtà complessa e difficile, che tuttavia viene spiegata ai lettori semplicemente come una guerra “etnica”, senza approfondire la vera natura e le cause reali del conflitto: “abbiamo assistito a una diffusissima tendenza a usare termini come ‘scontro tribale’ e ‘odio irrazionale’, ai quali poi ci si è abituati” (Rumiz); “c’è stata la mistificazione dell’idea etnica” (Rampoldi). Questo quadro a tinte fosche si stempera quando i giornalisti esprimono una valutazione del lavoro dei singoli reporter. Il loro operato viene valutato meno drasticamente di quanto appare nel giudizio sulla stampa: riconoscono l’impegno e la volontà profusi da alcuni colleghi. Di fronte a un discorso piuttosto negativo Di fronte a un discorso piuttosto negativo sui mass-media del nostro Paese, in alcuni casi vengono espressi dei “distinguo” sull’operato dei singoli giornalisti: “gli inviati hanno coperto egregiamente la guerra e i servizi sono stati di ottima qualità” (Rumiz); “ci sono stati colleghi e giornali che hanno compiuto un grosso sforzo, cercando di andare a fondo e scavare sotto gli eventi” (Ventura); “l’impegno di una certa parte di giornalisti della nostra carta stampata” (Rampoldi). Il ruolo degli inviati, in certi casi, ha assunto una valenza civile: la loro testimonianza è servita a far conoscere al mondo quanto stava accadendo: “in un certo senso è stata una specie di missione” (Riva); “era talmente forte il senso di dover rendere una testimonianza civile” (Montali); “a Sarajevo la battaglia l’hanno vinta i giornalisti: eravamo l’unica arma che potesse davvero aiutare la popolazione tenuta in ostaggio dai serbi” (Blondet); “alcuni giornalisti hanno vissuto questa occasione professionale come una sorta di ‘missione civile’ di cui rendere conto ai lettori” (Janigro). Infine l’ultimo dato, i pareri espressi su il manifesto. Da più parti questa testata viene indicata come la meno incisiva nel denunciare l’aggressore serbo-bosniaco. Accuse di “colpevolezza” articolate con varie sfumature: c’è chi parla dei “vecchi automatismi comunisti tipici del manifesto (Zaccaria); o del “tentativo della sinistra che ha cercato di difendere l’ultimo baluardo del comunismo: il manifesto non si è accorto di quello che stava accadendo” (Blondet); il manifesto, tra l’altro, non mandava nemmeno i suoi inviati in Bosnia, tranne qualche rara eccezione” (Montali), come osserva anche la giornalista di questa testata, che biasimare il suo giornale per non aver mandato nessuno a Sarajevo: “non va dimenticato che per due anni il manifesto non ha inviato nessun giornalista a Sarajevo, evitando il più possibile di parlarne” (Janigro). Alla luce di queste considerazioni, espresse da chi ha vissuto in presa diretta il conflitto per motivi professionali, lo scenario complessivo della stampa italiana nella guerra dell’ex Jugoslavia appare di basso profilo: un understatement che rispecchia la pressoché totale inerzia e mancanza d’iniziativa della classe politica italiana e, più in generale, di quella dell’Occidente, secondo una valutazione espressa da tutti gli inviati. Può essere utile, ancora una volta, ricorrere allo sguardo disincantato di chi ha assistito a tutto ciò che, a poco più di un anno di distanza dalla fine del conflitto così sintetizzava l’operato dei giornali: “L’atteggiamento ufficiale della stampa è lo specchio fedele di un vuoto. Quello di una diplomazia internazionale che, in nome del business, ha chiuso e chiude un occhio sulla repressione in casa d’altri” (Paolo Rumiz, Il Piccolo, 29.1.1997). Emiliano Bos 11 Si è svolto a Milano il Convegno nazionale dell’Associazione “Medicina e persona” Confronto su comunicazione e informazione nel settore sanitario all’incontro “Medico, cura te stesso” Giornalista, informa te stesso di Ivo Spagnoli * “Medico cura te stesso”. Con questo intrigante titolo si è tenuto a Milano il primo Congresso nazionale dell’Associazione “Medicina e Persona” a cui hanno preso parte dal 7 al 9 giugno scorso oltre 800 persone tra medici, infermieri, dirigenti e operatori della sanità pubblica e privata. Il titolo del Convegno è d’altra parte in linea con gli scopi di questa Associazione che riunisce a livello nazionale più di 2000 iscritti tra tutti gli operatori del pianeta sanità siano essi diretti protagonisti della prestazione oppure amministratori o figure istituzionali. Essa è stata fondata da poco più di due anni e tra i suoi principali fini vi è la difesa del carattere professionale dell’esperienza di lavoro in sanità fondato sul rapporto fiduciario tra operatore e paziente; la conferma di una reale collaborazione e di un confronto tra le diverse professionalità e la riaffermazione del diritto-dovere, anche a soggetti diversi dallo Stato, di costituire risposte efficaci al bisogno di salute del Paese, nel rispetto del principio autentico di sussidiarietà. La persona come valore epicentrico dell’atto sanitario La persona come valore epicentrico dell’atto sanitario. Questo è stato il motivo conduttore N O delle tre giornate di lavori che hanno visto la partecipazione del Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, e quella degli assessori regionali alla Sanità e all’Assistenza. Oltre 60 relatori hanno animato numerose sessioni tematiche; di particolare rilevanza la lezione magistrale di mons. Scola, rettore della Pontificia università lateranense, sul significato etimologico e antropologico di “Carità e Cura” nonché la sessione “Una scienza senza politica?” nella quale l’ex-ministro della Sanità Elio Guzzanti ha dato prova della sua ben nota vivida e arguta intelligenza nel delineare i possibili e realistici rapporti tra la medicina basata sull’evidenza e il servizio sanitario e Piero Micossi, assessore alla Sanità della regione Liguria, ha esposto una lucida analisi critica del sistema sanitario nazionale tra statalismo e devoluzione. Intervenendo al termine del Congresso, Felice Achilli, presidente di Medicina e Persona, ha dichiarato che “l’originalità del convegno sta nell’aver posto, giudicando gli aspetti più scottanti della medicina e della sanità, una riflessione sulla natura e sullo scopo del lavoro del medico e delle professioni sanitarie. Riflessione di estrema attualità come evidenzia un recentissimo editoriale della prestigiosa rivista British Medical Journal intitolato “Perché i medici sono così insoddisfatti?”. Achilli così prosegue: “In un momento di notevole difficoltà di tutti i sistemi sanitari e di urgenza di cambiamenti legislativi, legati alle mutate condizioni del welfare, il convegno ha ribadito la necessità di un riconoscimento decisivo del carattere professionale del lavoro in medicina, riappropriandosi del suo carattere umanitario di accoglienza integrale del bisogno della persona”. T Giornalisti precari Rai: la direttiva Ue sul lavoro a termine “ci dà ragione” Roma, 29 giugno. Il coordinamento dei giornalisti precari Rai esprime soddisfazione per il recepimento ieri da parte del governo delle direttive comunitarie in tema di contratti a termine. E sottolinea: l’esecutivo “ha sancito pienamente il diritto garantista del diritto di precedenza sui cui il coordinamento dei giornalisti a tempo determinato delle Testate Rai si batte da mesi”. “Mai come in questo caso - scrive in una nota il coordinamento dei giornalisti a tempo determinato delle Testate Rai - ci sentiamo legittimati a dire: avevamo ragione noi”. La facoltà di esercitare il diritto di precedenza in caso di assunzione per la stessa qualifica, spiega il comitato, “ora non solo assume il carattere di principio fondante nella parte del ddl del Governo dedicata al lavoro a tempo determinato, ma diventa un meccanismo automatico”. Da questo momento, annuncia, “l’azione del coordinamento, che ha prodotto ad oggi 150 adesioni di colleghi che hanno esercitato il diritto di precedenza, si intensifica per avviare da subito sia con l’Azienda Rai sia con l’Usigrai iniziative concrete per ridiscutere tutta la materia delle assunzioni dei giornalisti”. (ANSA) 12 I Z Gli articoli e le foto devono tutelare le persone malate Dimensione etica da riaffermare Giornalista, informa te stesso: così si potrebbe sintetizzare la conclusione, a metà strada tra la garbata provocazione e la seria riflessione, con la quale si è conclusa la tavola rotonda su “Comunicazione e informazione in sanità” che ha visto il sereno confronto tra operatori della comunicazione istituzionale e giornalisti della carta stampata. Un punto ha saldato le varie esperienze: la forte, e purtroppo in tanti casi solo auspicabile, riaffermazione della dimensione etica dell’atto comunicazionale. E da questa considerazione è nata la provocatoria domanda, ed è scaturita anche una unitaria proposta rivolta alle facoltà, alle scuole e agli Ordini professionali di includere l’insegnamento dell’etica nel corso degli studi e nell’aggiornamento continuo. Forse questa è la strada affinché tutti gli operatori di due settori delicati e importantissimi come la sanità e l’informazione, in modo consapevole e condiviso, vedano nel loro “entusiasmo etico” non solo un valore aggiunto di importanza critica nella valutazione della qualità del loro atto professionale ma anche la propria soddisfazione nel quotidiano, rapportandosi ad una intierezza di professionalità ed eticità. *Vicepresidente del Comitato Unitario delle Professioni di Milano e Responsabile Area della Comunicazione dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano I Roma, 26 giugno. Il giornalista che svolge inchieste presso ospedali o case di cura deve osservare particolari cautele a tutela della dignità delle persone malate. Particolarmente delicata è la pubblicazione di fotografie di ricoverati. Lo ha stabilito l’Autorità per la protezione dei dati personali, presieduta da Stefano Rodotà e composta da Giuseppe Santaniello, Gaetano Rasi, Mauro Paissan. Il Garante, è detto nella Newsletter dell’Authority, si è espresso esaminando la segnalazione relativa ad un settimanale che aveva pubblicato un’inchiesta sull’anoressia, corredata da foto di degenti e commenti su loro vicende personali e familiari. L’Autorità ha ricordato che “la dignità del malato deve essere assolutamente garantita dell’esercizio del diritto di cronaca e che la normativa sulla privacy e il codice deontologico dei giornalisti prevedono per queste persone una tutela speciale, soprattutto quando si tratta di minori”. Le particolari cautele da adottarsi nei confronti di persone malate devono essere seguite dal giornalista anche quando, come nel caso sottoposto al Garante, “l’inchiesta sia realizzata con la collaborazione di una struttura sanitaria che, oltre ad autorizzare l’ingresso dei giornalisti nell’ospedale, si sia attivata per informare gli interessati e per raccogliere il loro consenso. Il consenso raccolto dal medico deve basarsi su una informativa adeguata e deve tener conto delle condizioni psicofisiche degli interessati e della concreta capacità di manifestare la loro volontà. Devono essere tra l’altro chiariti agli interessati gli effetti che potrebbero derivare dalla divulgazione di dati ed immagini”. Nella decisione Garante ha riconosciuto che “il servizio giornalistico pubblicato dal settimanale non ha violato le norme sulla privacy essendo state adottate le necessarie cautele. È risultato, infatti, che le degenti erano maggiorenni ed erano state tutte preventivamente informate sia dalla struttura sanitaria, sia dal giornalista ed avevano espresso il proprio consenso a figurare nel servizio fotografico. Per l’unica degente di minore età, poi, era stato utilizzato un nome di fantasia e si erano omessi riferimenti specifici per evitarne l’identificabilita”. (ANSA) E Validità della Giornalisti: da senatori Biancofiore ddl su diffamazione Roma, 18 giugno. Un disegno di legge che prevede, tra l’altro, il ripristino dell’appello per le condanne in primo grado per diffamazione a mezzo stampa è stato presentato a Palazzo Madama dai senatori del Biancofiore. Il testo, in tutto nove articoli, è a firma dei senatori Eufemi, Cutrufo, Ciccanti, Meleleo, Gaburro e Zanoletti. Nella relazione al Ddl, viene fatto notare come nell’attuale normativa nella materia della diffamazione a mezzo stampa vi sia un “evidente squilibrio che va corretto. È allora opportuno rivedere tale disposizione, ripristinando l’appello e prevedendo adeguate rettifiche per coloro che dovessero risultate diffamati”. Tra le altre novità del testo, l’allargamento delle disposizioni anche ad Internet e agli altri mezzi elettronici di diffusione, la soppressione della responsabilità colposa da omissione di controllo, con l’introduzione di una forma di responsabilità oggettiva limitata alle ipotesi in cui l’autore della pubblicazione o della diffusione sia ignoto o non imputabile. Inoltre, il Ddl dà una nuova formulazione della figura del reato a mezzo stampa (con reclusione fino a tre anni e multa fino a quattro milioni), introducendo alcune cause di non punibilità, riducendo ad un anno il termine ordinario per l’azione di risarcimento del danno. Il Ddl, uno dei primi presentati a palazzo Madama, ritorna su una materia che la precedente legislatura non è riuscita a riformare, nonostante i numerosi testi di modifica presentati, confluiti poi in un unico Ddl, che però non è poi stato approvato. (ANSA) tessera dell’Ordine: precisazione del Comune di Milano In riferimento all’articolo pubblicato su Tabloid di maggio 2001 - pagina 24 - si ritiene di dover precisare quanto segue. Il suddetto articolo riporta testualmente: “Le tessere degli Ordini professionali sono validi documenti di riconoscimento al pari delle carte di identità. L’Ufficio anagrafe del Comune di Milano ha diramato una circolare in tal senso dopo una segnalazione del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia all’ingegner Giancarlo Martella, (assessore ai Servizi civici di Palazzo Marino)” mentre, come si evince dalla lettera pubblicata dell’assessore medesimo le disposizioni in parola sono state diramate a tutti gli Uffici anagrafici in data 20.12.2000, pertanto precedentemente alla lettera del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, datata 30.01.2001. Corre, inoltre, l’obbligo di evidenziare che non è stato tenuto alcun comportamento illecito da parte del funzionario responsabile dell’Ufficio anagrafe, avv. Carmine D’Alessio, citato nella lettera, né dagli operatori della Delegazione anagrafica di via Sassetti. Invito, pertanto, ad approfondire lo svolgimento dei fatti avvenuti presso la Delegazione anagrafica di largo De Benedetti, cogliendo l’occasione per ringraziare pubblicamente tutti gli operatori comunali che hanno contribuito all’esame e soluzione della problematica in questione. Detta problematica trovava soluzione nell’art. 292 R.D. 635/40 (ora art. 35 D.P.R. 445/2000) e non nell’art. 293 R.D. citato, richiamato invece nella segnalazione pervenuta. A disposizione per ulteriori eventuali chiarimenti si coglie l’occasione per porgere distinti saluti. Il direttore del settore Anagrafe, Stato civile, Leva elettorale del Comune di Milano Dr.ssa Daria Maistri ORDINE 7 2001 Incontro al Ministero delle Comunicazioni G I U R I S P R U D E N Z A Sentenza della Corte di Cassazione sul diritto alla riservatezza È possibile diffondere le notizie su provvedimenti e atti definitivi di Arturo Bianco Gli amministratori possono diffondere, senza violare il diritto alla riservatezza, informazioni su provvedimenti assunti, anche se in tal modo si rendono note informazioni che contengono dati sensibili. È questo il principio sancito dalla sentenza 17 maggio n. 20097 della VI Sezione penale della Corte di Cassazione che ha riformato la condanna comminata a un presidente di Comunità montana dalla Corte d’appello Campobasso. In particolare, si sancisce che non è imputabile per rivelazione di segreti d’ufficio l’amministratore locale che renda note notizie su un proprio provvedimento di sospensione cautelare di un dipendente dopo che lo stesso sia stato adottato. La sentenza prende le mosse dalla definizione di ciò che oggi si deve ritenere protetto dal dovere di segretezza, cioè: «la notizia di ufficio deve rimanere segreta... tutte le volte che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia l’obbligo giuridico di non rivelarla». Ma esso si deve intendere ristretto all’ambito delle notizie «che non possono essere date alle persone che non hanno il diritto di riceverle» e che quindi sono sottratte non solo all’accesso, ma anche alla nozione di “notizie accessibili”. Siamo, come si vede, dinanzi a una rigorosa individuazione dell’ambito, da ritenere eccezionale, delle informazioni che non possono essere diffuse. Il principio della tutela del segreto d’ufficio si applica alla disciplina del rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione, ai sensi dell’articolo 15 del Dpr n. 3/57 e dell’articolo 28 della legge n. 241/90 e si applica anche agli amministratori, oltre che ai dipendenti, in virtù dell’articolo 58 della legge n. 142/90. Anche su questo versante, dunque, la pronuncia offre una nozione assai ampia del novero dei soggetti tenuti a uniformarsi alla disciplina dettata a tutela del diritto alla riservatezza. Sulla base di tali presupposti, argomenta la sentenza della Corte di Cassazione, è evidente che «nel corso dell’iter amministrativo propedeutico al provvedimento di sospensione e fino all’emanazione dello stesso, sussiste l’obbligo del mantenimento del segreto d’ufficio... Tale segretezza viene meno nel momento in cui la sospensione dal servizio ha effettiva esecuzione». Momento, questo, che viene definito come la fase in cui il provvedimento si «esteriorizza nel mondo relazionale, in quanto la stessa collettività viene posta nella condizione di conoscere il mutamento soggettivo intervenuto nell’organizzazione interna». Anzi, si deve evidenziare che si forma un interesse della pubblica amministrazione a «informare la collettività della mutata situazione soggettiva di un proprio organo». Quindi, è possibile concludere che gli effetti di un provvedimento di sospensione equivalgono, ai fini della conoscibilità da parte dei terzi, a quelli della misura dell’arresto. In altri termini, ed è questo un principio di carattere generale, l’assunzione del provvedimento segna una sorta di momento di cesura ai fini della sua accessibilità. Assumono un notevole rilievo, anche ai fini di una precisa definizione dell’interesse personale alla tutela della riservatezza, le considerazioni conclusive della sentenza, per le quali «tale interesse deve cedere il passo di fronte al preminente interesse pubblico dell’Ente di apparire all’esterno attraverso le persone fisiche che sono effettivamente legittimate a operare per esso». Con il che si stabilisce un ulteriore principio di carattere generale che circoscrive in modo preciso gli ambiti di applicazione della normativa di tutela della riservatezza, sancendo che essa deve cedere il passo alla tutela degli interessi più generali che sono oggetto di disciplina da parte di specifiche norme di legge. da Il Sole 24 Ore del 18 giugno 2001 Gasparri alla Fnsi sulla Rai: “Agiremo in modo equilibrato” Roma, 25 giugno. Il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri ha incontrato stamane una delegazione della Federazione nazionale della stampa italiana guidata dal segretario Paolo Serventi Longhi e composta dai vicesegretari Federico Pirro e Franco Siddi, dal Direttore Giancarlo Tartaglia e dal segretario dell’Usigrai Roberto Natale. All’incontro hanno partecipato i sottosegretari alle Comunicazioni Massimo Baldini e Giancarlo Innocenzi. “La delegazione del sindacato dei giornalisti spiega una nota - ha sottolineato l’esigenza che sia assicurato al settore dell’emittenza radiotelevisiva uno sviluppo equilibrato nell’ambito dell’applicazione delle leggi esistenti ed anche attraverso il completamento del processo riformatore del sistema. La Fnsi e l’Usigrai hanno sostenuto la necessità di salvaguardare il ruolo del servizio pubblico radiotelevisivo, assicurando certezza di risorse, in una gestione equilibrata dei gettiti da canone e da pubblicità, e la valorizzazione delle professionalità in Rai. Il sindacato dei giornalisti ha anche chiesto al ministro Gasparri che sia garantito lo sviluppo dell’emittenza nazionale privata in una dimensione pluralista e che guardi alle prospettive di cambiamento dei sistemi di comunicazione a cominciare dal digitale terrestre. La Fnsi ha inoltre nuovamente sollecitato iniziative governative di tutela del ruolo dell’emittenza locale e delle professionalità degli addetti. La Federazione nazionale della stampa italiana ha infine apprezzato la decisione del Governo di confermare il ruolo importante del ministero delle Comunicazioni ed ha auspicato una rapida approvazione del relativo decreto”. Sempre secondo quanto spiega la nota Fnsi, “il ministro Gasparri ha annunciato che nei prossimi giorni sarà definita dal ministero una agenda di lavoro che tenga conto delle priorità rispetto alle quali ha manifestato la volontà di agire in misura equilibrata. Il ministro, nel ricordare le competenze del proprio dicastero e quelle degli altri organi istituzionali e di controllo, ha sottolineato il proprio impegno ad approfondire in tempi rapidi i problemi aperti e ad avanzare le relative proposte”. (ANSA) Sentenza della Corte suprema Il freelance Usa deve autorizzare il riutilizzo degli articoli sulle testate web Washington, 25 giugno 2001. La Corte suprema americana ha stabilito che un gruppo di editori -Time Inc., editore del New York Times in testa - ha violato la normativa in materia di copyright, rendendo accessibili da banche dati elettroniche, senza autorizzazione, articoli redatti da giornalisti freelance. Di conseguenza, gli editori dovranno risarcire i sei freelance, rappresentati dalla National Writers Union, in causa dal 1993. Ed è probabile che per la stessa ragione alle parti vincitrici si aggiungeranno le richieste di moltissimi altri autori di articoli inseriti nei database. La Corte ha deliberato a larga maggioranza: 7 a 2 le opinioni favorevoli rese dinanzi al giudice Ruth Bader Ginsburg. Gli editori, oltre che risarcire i danneggiati, dovranno al più presto rimuovere dai loro archivi elettronici gli articoli contestati, a meno che i freelance non comunichino esplicitamente all’azienda la volontà che i loro articoli restino nel database. Esultanti i responsabili dell’Unione degli scrittori: la prassi degli editori di inserire nei loro database articoli di freelance, senza pagare i diritti di ripubblicazione, andava avanti da anni. Il riconoscimento della violazione del diritto d’autore, ora, costringe l’industria dei media a ripensare ai diritti di pubblicazione on line: gli editori, infatti, sono titolari del copyright, e dunque dei diritti di pubblicazione anche in archivi elettronici, del solo lavoro dei redattori dipendenti (da www.altalex.com). ORDINE 7 2001 Petizione telematica contro la nuova legge sull’editoria I giornalisti italiani hanno una diversa tutela rispetto ai colleghi americani. Dice l’articolo 38 della legge n. 633/1941 sul diritto d’autore: “Nell’opera collettiva, salvo patto in contrario, il diritto di utilizzazione economica spetta all’editore dell’opera stessa, senza pregiudizio del diritto derivante dall’applicazione dell’art. 7 (“È considerato autore dell’opera collettiva chi organizza e dirige la creazione dell’opera stessa”, cioè il direttore responsabile, ndr). Ai singoli collaboratori dell’opera collettiva è riservato il diritto di utilizzare la propria opera separatamente, con la osservanza dei patti convenuti e, in difetto, delle norme seguenti”. L’articolo 14 del Cnlg attenua il potere degli editori, prevedendo un compenso per il riutilizzo degli articoli. Questo il testo: “Nel rispetto della autonomia delle singole testate, secondo le norme degli artt. 6, 34 e 42, la cessione ad altre aziende o testate di servizi di corrispondenza di collaborazione forniti dai giornalisti dipendenti darà luogo per la durata della utilizzazione ad un maggiore compenso nella misura del 30% dello stipendio mensile. Tale maggiore compenso non sarà però computabile ad alcun effetto e nessuna indennità sarà dovuta al termine della cessione. Per la cessione di singoli articoli sarà dovuto al giornalista Sulla carta, i giornalisti italiani hanno più diritti dei loro colleghi americani. Ma i diritti devono essere difesi ogni giorno dagli uomini e dalle donne, che lavorano nei gior- Roma, 25 giugno. La petizione telematica contro la legge sull’editoria, sostenuta da più di 3 mila siti italiani, si è chiusa con la raccolta di 54 mila adesioni. Lo sostiene il quotidiano Internet Punto-Informatico.it, promotore dell’iniziativa. La legge di riforma era stata infatti contestata dal popolo di Internet che temeva di dover registrare obbligatoriamente le testate online. La petizione verrà consegnata nelle prossime settimane al Parlamento, attraverso l’ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, e al Governo, attraverso il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri. La petizione chiede al legislatore di abrogare la legge sull’editoria o almeno di modificarne il primo articolo. “Chi ha firmato la petizione - spiega in una nota Paolo De Andreis, promotore della mobilitazione e direttore editoriale di Punto-Informatico.it - intende aprire un dialogo con il Governo e il nuovo Parlamento, affinché siano garantite le libertà di espressione e di stampa”. (ANSA) un equo compenso da concordarsi in sede aziendale e comunque non inferiore a L. 15.000 per articolo. La cessione di articoli, servizi di corrispondenza e di collaborazione può avvenire soltanto previa autorizzazione del giornalista interessato. Dall’applicazione del presente articolo sono esonerate le agenzie di informazioni per la stampa. NOTE A VERBALE 1) L’obbligo del pagamento del compenso discende dalla utilizzazione economica da parte della azienda del servizio originale e dell’articolo del giornalista indipendentemente dalla qualifica che il medesimo riveste. 2) Agli effetti dell’applicazione di questo articolo, per stipendio mensile si intende: minimo tabellare, indennità di contingenza, aumenti periodici di anzianità, superminimi individuali ed eventuali maggiorazioni per lavoro notturno. 3) Qualora la cessione di articoli, servizi, corrispondenze e collaborazioni venga fatta per servizi di informazione destinati ad emittenti radiotelevisive di ambito locale, si applica il protocollo sulle “radiotelevisioni locali” annesso al presente contratto (allegato B)”. nali, nei tg, nei periodici, nei radiogiornali e nelle testate web. La parola ai Cdr, ai sindacati regionali, alla Fnsi e anche all’Ordine professionale. 13 (17) Appello di Franco Abruzzo ai ministri della Giustizia e del Lavoro Permessi ai consiglieri dell’Ordine e ai commissari d’esame Castelli e Maroni devono intervenire Milano, 3 luglio. Nella bufera sia l’attività dei Consigli dell’Ordine dei giornalisti e sia quella della Commissione per l’esame di giornalista. Il contratto nazionale di lavoro giornalistico firmato il 24 febbraio 2001 al ministero del Lavoro ha modificato l’articolo 23 del Cnlg, limitando i permessi accordati ai consiglieri dell’Ordine e ai commissari per l’esame di giornalista. Dall’articolo 23 si arguisce: a) che ai giornalisti che fanno parte degli organi direttivi degli Ordini professionali saranno concessi permessi (per il tempo strettamente necessario per lo svolgimento delle funzioni) retribuiti nei limiti di 20 giorni all’anno; b) che ai giornalisti componenti della Commissione esaminatrice per la prova d’idoneità professionale saranno concessi permessi (per il tempo strettamente necessario per lo svolgimento delle funzioni), ma gli stessi non riceveranno alcuna retribuzione nemmeno per 20 giorni all’anno. Franco Abruzzo ha chiesto ai ministri del Lavoro e della Giustizia, Roberto Maroni e Roberto Castelli, di convocare le parti sociali (Fieg e Fnsi), perché l’articolo 23 del Cnlg sia riscritto, riparando agli errori commessi dalle parti in sede di contrattazione sindacale sia sul piano del rispetto del dettato costituzionale e sia sul piano del rispetto delle norme sull’ordinamento della professione giornalistiche ritenute legittime dalla Corte costituzionale con le sentenze 11 e 98/1968; 2/1971; 71/1991; 505/1995. “Il nuovo articolo 23 del Cnlg - secondo Abruzzo - viola gli articoli 33 (quinto comma) e l’articolo 51 (terzo comma) della Costituzione nonché la legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica e l’annesso Regolamento (Dpr n. 115/1965)”. L’assunto di Abruzzo è molto semplice: i consiglieri, che sono dei giudici disciplinari e che sono anche giudici delle iscrizioni all’Albo, non possono limitare la loro attività a 20 giorni all’anno. Anche i commissari d’esame svolgono funzioni pubbliche e devono essere retribuiti, quando sono impegnati a Roma. I permessi sono una burla se sono svincolati dallo stipendio. L’esame di giornalista, quindi, è sull’orlo della paralisi per effetto di una norma contrattuale, chiaramente illegittima, che corregge un articolo della Costituzione, l’articolo di una legge e un altro articolo di un Dpr. Gli editori hanno il coltello nelle loro mani, potendo operare trattenute sugli stipendi dei giornalisti in attività chiamati alle funzioni “pubbliche” di commissari d’esame. Un esempio non guasta. È come se il ministero della Pubblica istruzione designasse i commissari della maturità, dicendo loro: “Farete i commissari, avete il diritto ai permessi ma non alla retribuzione”. “La Fieg - sottolinea Abruzzo - pretende, e lo ha scritto in un documento, che i giornalisti-commissari (e i consiglieri) rinuncino alle ferie e alle corte per svolgere funzioni pubbliche”. Il documento è una lettera (datata 13 giugno 2001) firmata dalla direzione generale della Fieg e indirizzata alla direzione del personale della Mondadori. Il nuovo contratto viola due articoli della Costituzione e la legge professionale. Nella bufera sia l’attività dei Consigli dell’Ordine dei giornalisti sia quella della Commissione per l’esame di giornalista 1 I consiglieri degli Ordini professionali sono giudici. Afferma l’articolo 51 (terzo comma della Costituzione): “Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”. L’Ordine nazionale dei giornalisti e gli Ordini regionali sono persone giuridiche di diritto pubblico (art. 1, ultimo comma, della legge n. 69/1963) ed enti pubblici non economici (Dlgs n. 29/1993). I consiglieri dell’Ordine sono, quindi pubblici ufficiali, svolgono una funzione pubblica elettiva (articolo 51, terzo comma della Costituzione) e in particolare le funzioni previste dall’articolo 2229 del Codice civile: sono giudici amministrativi disciplinari di I grado e sono giudici amministrativi di I grado delle iscrizioni negli elenchi dell’Albo. Pertanto i permessi retribuiti non possono essere limitati annualmente a venti giorni. Lo stesso discorso vale per i consiglieri dell’Ordine nazionale. L’attività giudicante non può subire limitazioni di sorta. Le limitazioni determinerebbero la paralisi dei Consigli dell’Ordine e lo svuotamento delle loro funzioni pubbliche svolte a tutela della correttezza dell’informazione e del diritto dei cittadini a un’informazione corretta (“valori costituzionali” ex sentenze n. 105/1972; n. 225/1974; n. 94/1977; n. 112/1993; n. 505/1995 della Corte costituzionale). L’esame di giornalista è sull’orlo della paralisi. La Fieg pretende che i giornalisticommissari e i consiglieri rinuncino alle ferie e alle corte per svolgere funzioni pubbliche previste dalla Costituzione, dal Codice civile e dalla legge professionale 2 I commissari dell’esame di giornalista svolgono funzioni pubbliche. Afferma l’articolo 33 (quinto comma) della Costituzione: “È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale”. L’articolo 32 della legge professionale n. 69/1963 recita: “L’esame dovrà sostenersi in Roma, innanzi a una Commissione composta di sette membri, di cui cinque dovranno essere nominati dal Consiglio nazionale dell’Ordine fra i giornalisti professionisti iscritti da non meno di 10 anni. Gli altri 2 membri saranno nominati dal presidente della Corte d’appello di Roma, scelti l’uno tra i magistrati di tribunale e l’altro tra i magistrati di appello; questo ultimo assumerà le funzioni di presidente della Commissione in esame. Le modalità di svolgimento dell’esame, da effettuarsi in almeno due sessioni annuali saranno determinate dal regolamento”. Dall’intreccio Costituzione-legge ordinaria si ricava che i commissari svolgono una funzione pubblica. Dall’articolo 45 del Regolamento, pertanto, si evince che almeno 4 dei 5 commissari giornalisti dovranno essere “attivi” ed esercitare la professione presso quotidiani, periodici, agenzie di stampa... e presso un servizio giornalistico radiotelevisivo, in ragione di uno per ciascuno di detti settori di attività. Sul rovescio si può affermare che soltanto uno dei 5 commissari potrà essere non attivo e, quindi, pensionato Inpgi. Seduta del Consiglio dell’OgL del 18 giugno 2001 Gli incarichi all’interno del Consiglio e degli uffici Linee operative 1 e di indirizzo: 9 5 10 2 6 11 7 12 1 Il presidente, in base agli articoli 4 e 5 della legge n. 241/1990 e al successivo Regolamento del Cnog (recepito dall’OgL il 10 maggio 1994), assegna a singoli consiglieri istruttori i procedimenti amministrativi inerenti alle iscrizioni e alle cancellazioni nonché ai procedimenti disciplinari, ma “ne conserva la responsabilità”. Mensile Ordine Tabloid: direttore responsabile Franco Abruzzo; condirettore Bruno Ambrosi. Le prestazioni del direttore e del condirettore sono gratuite. I collaboratori, invece, vengono retribuiti di massima in base al tariffario dell’Ordine come nel passato. Tutela legale automatica a carico dell’Ordine per il direttore responsabile di Tabloid e copertura integrale dell’Ordine per quanto riguarda richieste di risarcimento danni in sede civile e penale nonché le spese legali. Il Consiglio dell’Ordine ha, comunque, stipulato una polizza a copertura dei rischi che derivano ai consiglieri e ai revisori dall’esercizio delle loro funzioni previste dalla legge n. 69/1963 o da delibere del Consiglio. Praticanti (assunzioni normali) e all’Elenco speciale dell’Albo (si tratta di atti dovuti): Franco Abruzzo. Si tratta di pratiche semplici, che vengono esaurite in 24 ore. devono sostenere la prova di idoneità professionale: Paola Pastacaldi. Consigliere istruttore per le iscrizioni (art. 6, lett. a-b-c-e, della legge 241/1990) all’Elenco pubblicisti dell’Albo: i procedimenti vengono assegnati dal presidente a Brunello Tanzi e a Cosma Damiano Nigro. Pareri di congruità (artt. 633 e 636 Cpc): Franco Abruzzo, che agisce con i poteri del Consiglio, utilizzando come consulente l’avv. Luisa Nicosia. I casi complessi restano, comunque, di competenza del Consiglio. Consigliere istruttore per le iscrizioni d’ufficio (art. 6, lett. a-b-c-e, della legge 241/1990) al Registro dei Praticanti: i procedimenti vengono assegnati dal presidente a Letizia Gonzales. 3 Consigliere istruttore per i procedimenti disciplinari (art. 6, lett. a-b-c-e, della legge 241/1990): i procedimenti vengono assegnati dal presidente a Sergio D’Asnasch. Affari del personale: Franco Abruzzo (che, come “capo struttura”, esercita i poteri disciplinari di cui all’articolo 55 del testo unico del Pubblico impiegoDlgs n. 165/2001 limitatamente alle sanzioni del rimprovero verbale e della censura). Gli altri provvedimenti disciplinari più gravi sono di competenza del Consiglio al quale il presidente Abruzzo riferisce. In questi casi il Consiglio va integrato con un rappresentante del personale. Sono di competenza del Consiglio le assunzioni del personale e l’accettazione delle dimissioni. 4 Consiglieri istruttori per le iscrizioni (art. 6, lett. a-b-c-e, della legge 241/1990) all’Elenco professionisti, al Registro dei Organizzazione degli esami di cultura per l’ammissione al praticantato e dei corsi di viale Murillo per i praticanti che 14 (18) 8 Iniziative culturali (anche per quanto riguarda Tabloid): Paola Pastacaldi. Assistenza legale e fiscale gratuita agli iscritti. L’avv. Luisa Nicosia è incaricata del recupero crediti a favore degli iscritti liberi professionisti. L’assistenza fiscaleamministrativa viene gratuitamente agli iscritti dallo studio del dott. Roberto Marcianesi. Direzione (coordinamento, vigilanza ed attuazione delle decisioni del Consiglio, affari del personale) degli Uffici dell’Ordine: Elisabetta Graziani (posizione C4 del Cnl parastato, già 9° livello= funzionario capo). Isabella Massara (posizione C 3, già VIII livello=funzionario amministrativo) svolge funzioni vicarie rispetto a Elisabetta Graziani. 13 Urp (articolo 11 del Dlgs n. 165/2001): incarico a Letizia Gonzales, che avrà la collaborazione di Liviana Nemes Fezzi. per quanto riguarda i praticanti d’ufficio, il Consiglio opera nel rispetto della delibera 12 luglio 1991 del Consiglio nazionale (che ribadisce principi fissati già nel 1986), dell’articolo 36 del contratto di lavoro, dell’articolo 11 della legge professionale, e degli articoli 43 e 46 del Regolamento per l’esecuzione della legge professionale. Bisogna garantire a tutti i cittadini il godimento degli articoli 2 (tutela della dignità della persona: essere di diritto quello che si è di fatto) e 4 della Costituzione (diritto al lavoro). In sostanza i praticanti giornalisti si dividono secondo queste linee: ORDINE 7 2001 CONSIGLIO DI STATO Uffici stampa nella Pa: il parere del Consiglio di Stato sul regolamento Sezione Consultiva per gli atti normativi Adunanza del 21 maggio 2001 N. Sez. 137/2001 Oggetto: PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI Schema DPR - Regolamento recante norme per la determinazione dei titoli per l’accesso alle attività di informazione e di comunicazione e per l’individuazione e la disciplina degli interventi formativi, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 giugno, n.150, e comunicazione delle pubbliche amministrazioni LA SEZIONE Vista la Relazione n. 02196/UL/46.635 del 17 maggio 2001 con cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha chiesto il parere di questo Consiglio in ordine allo schema di D.P.R. suindicato. Letti gli atti e udito il relatore-estensore, Consigliere Francesco D’OTTAVI, PREMESSO: Il richiedente ministero nella richiamata relazione premette che lo schema di regolamento in esame è stato approvato in sede preliminare dal Consiglio dei Ministri in data 7 febbraio 2001, successivamente inoltrato alla Conferenza Unificata Stato-Regioni e Stato-Città ed autonomie locali, è stato da questa esaminato, dapprima, in sede tecnica, nelle riunioni del 22 marzo e del 12 aprile 2001, nel corso delle quali sono state convenute alcune modifiche proposte dalle regioni e dall’ANCI e, da ultimo, in via definitiva, nella seduta della Conferenza Unificata del 19 aprile 2001. In tale data, è stato acquisito il parere favorevole all’intesa dell’UPI, dell’UNCEM, dell’ANCI e dei Presidenti delle regioni, e del Governo, che ha raccolto le ulteriori richieste di modifica avanzate in quella sede dalle regioni e dall’ANCI, come risulta dal verbale che qui si allega. La Presidenza rappresenta poi che lo svolgimento, da parte delle pubbliche amministrazioni, di attività di informazione e comunicazione è stato normativizzato, in via generale, con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, il cui articolo 12 ha istituito gli URP - Uffici per le Relazioni con il Pubbico. Rileva peraltro la Presidenza che lo svolgimento di tale tipo di attività, necessita di talune, specifiche, professionalità che non sempre sono attualmente presenti nelle pubbliche amministrazioni. Sulla base di tale avvertita circostanza il legislatore è quindi intervenuto, con la legge 7 giugno 2000 n.150 - recante “Disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni” - per porre delle regole, sia di principio che operative, cui la Pubblica amministrazione deve attenersi nella predisposizione e nella comunicazione delle informazioni. La legge (art.5), dovendo altresì affrontare la disciplina dei requisiti di cui il personale pubblico deve essere in possesso per poter svolgere le funzioni di informazione e comunicazione, ha demandato tale compito ad una fonte regolamentare. Nel presente schema regolamentare, evidenzia la Presidenza, si è cercato di far sì che il personale addetto agli uffici cui sono affidate le funzioni istituzionali di comunicazione sia adeguatamente formato ed addestrato, in modo tale da garantire un elevato livello minimo di professionalità, che possa rendere più agevoli e produttivi i rapporti della cittadinanza con la pubblica amministrazione e che possa consentire a quest’ultima di disporre, al proprio interno, delle risorse umane adeguate ai compiti di comunicazione - diversi dalle tradizionali funzioni amministrative - che assumono sempre maggior impor- tanza correlativamente allo sviluppo delle I.C.T (Information & Communication Technology). L’impianto del regolamento è sostanzialmente ripartito lungo le due direttrici della disciplina a regime, che riguarda i titoli che consentono al personale pubblico di essere utilizzato per le attività di informazione e comunicazione, e di quella transitoria, che concerne le attività formative prescritte per coloro che, pur se già addetti agli uffici che svolgono attività di comunicazione e informazione istituzionale, e quindi dotati di una certa esperienza nel settore, tuttavia non possiedono quegli strumenti conoscitivi, adeguatamente aggiornati, che consentono di adempiere al proprio ufficio in modo da tenere il passo con le crescenti innovazioni tecnologiche e con la messa a punto di sempre nuove tecniche comunicative. CONSIDERATO: Come rilevato nelle premesse e come più diffusamente illustrato dalla richiedente Presidenza nella richiamata relazione, con lo schema di D.P.R. in esame viene data attuazione alla previsione di cui all’art.5 della L. 7 giugno 2000, n.150, recante la disciplina delle attività di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni. Lo schema di regolamento, in linea con le previsioni e le finalità fissate dalla richiamata norma primaria, prevede in dettaglio i requisiti di professionalità specifica che devono possedere i dipendenti addetti ai servizi di informazione e comunicazione. Il provvedimento e suddiviso in due previsioni, quella futura, e quella temporale-transitoria relativa alla situazione attuale. Sul contenuto del provvedimento, che appare conforme agli scopi previsti dalla normativa, la Sezione esprime parere favorevole. Ritiene tuttavia opportuno che il provvedimento sia confrontato con il contenuto del recente D.Lgs 30 marzo 2001, n.165 (pubblicato sulla G.U. n.106 del 9 maggio 2001) i cui estremi (cfr. artt.10 e 11) dovranno essere citati nel testo. Alcune integrazioni formali sono evidenziate nello schema allegato. P.Q.M. Nelle suesposte considerazioni é contenuto il parere favorevole espresso dalla Sezione. Visto: Per estratto dal verbale: Il Presidente della Sezione Il Segretario della Sezione Tommaso Alibrandi Maria Barbagallo dell’OgL (approvata all’unanimità) a) quelli normalmente assunti (quotidiani, periodici, tg, radiogiornali, testate web); b) i pubblicisti assunti ex articolo 36 del vigente Cnlg (trattati economicamente come redattori professionisti e con il diritto contrattuale di sostenere l’esame di Stato); c) quelli che hanno superato il concorso presso l’Ifg e la Scuola della Università Cattolica; d) i redattori “di fatto” (cioè coloro che lavorano normalmente, senza essere assunti, presso quotidiani, periodici, tg, radiogiornali, testate web); e) i “redattori staccati” o “corrispondenti” con incarichi di lavoro su pagine di cronaca elaborate con le tecniche delle cronache cittadine (pubblicisti anche assunti ex articolo 12 del vigente Cnlg); f) “pubblicisti free lance”, che abbiano compensi complessivi pari al costo di un redattore praticante normale (cioè dai 35 milioni lordi annui in su). I dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale possono chiedere l’iscrizione negli albi professionali (articolo 1, commi 56 e 56-bis, della legge n. 662/1996; sentenza 11 giugno 2001 n. 189 della Corte costituzionale). 2 3 Retrodatazioni nel Registro e nell’elenco professionisti dell’Albo: sono sollecitate spesso dall’Inpgi per permet- ORDINE 7 2001 tere il recupero di contributi che, invece, andrebbero restituiti agli interessati e alle aziende. In passato gli Ordini iscrivevano i praticanti assunti dalla data della seduta del Consiglio, che non coincideva con quella dell’assunzione. Ciò era in contrasto con l’articolo 38 della Costituzione. Una testata con redattori professionisti, pubblicisti e praticanti non può essere diretta da un iscritto all’Elenco speciale. Così una testata precedentemente diretta da un professionista o da un pubblicista non può essere diretta da un iscritto all’Elenco speciale, a meno che non rispecchi le caratteristiche dell’articolo 28 della legge professionale (pubblicazioni anche on-line a carattere professionale, scientifico o tecnico). 4 Iscrizioni all’Elenco Pubblicisti. Gli aspiranti pubblicisti dovranno dimostrare di aver versato il 12% alla gestione separata dell’Inps a meno che non abbiano accordi scritti di data certa (e con anticipo rispetto all’inizio delle collaborazioni) con gli editori, che prevedano la cessione dei diritti d’autore (legge n. 633/1941). Va anche ribadito che i compensi dovranno avvenire con periodicità e che il Consiglio non accetta pagamenti unici al termine del biennio delle collaborazioni giornalistiche. 5 Iscrizioni all’Elenco speciale. Il Consiglio ha sempre concepito e concepisce l’Elenco speciale come «elenco della libertà» con il pieno sostegno del tribunale di Milano, nel senso che i cittadini, i quali vogliono assumere la direzione 6 di una testata con le qualità fissate dall’articolo 28 della legge professionale, possono liberamente farlo senza particolare formalità. In questo elenco vengono iscritti anche i direttori di periodici religiosi, dei periodici delle amministrazioni locali, dei sindacati, dei movimenti del volontariato. Bisogna garantire a tutti i cittadini il godimento pieno dell’articolo 21 della Costituzione. Dopo due anni, i direttori hanno facoltà di presentare domanda per l’iscrizione all’elenco pubblicisti dell’Albo, qualora il loro giornale non sia pubblicitario o commerciale. La quinta sezione del Tribunale civile di Milano (sentenza 11 gennaio 2000 Zanardi contro Cnog, depositata il 12.2.2001) ha accolto l’impostazione dell’Ordine di Milano: “...le motivazioni del Consiglio nazionale non sono condivisibili nella parte in cui escludono che l’iscritto all’elenco speciale di cui all’articolo 28 della legge 3.2.1963 n. 69 possa chiedere l’iscrizione nell’elenco dei pubblicisti, e questo a prescindere da una valutazione di merito circa l’attività svolta in concreto dall’interessato... Ad avviso del Tribunale, non sussiste un’incompatibilità assoluta tra iscrizione agli elenchi speciali e iscrizione all’elenco dei pubblicisti, che deve invece ritenersi possibile qualora ne sussistano i presupposti di fatto (svolgimento di attività pubblicistica regolarmente retribuita per almeno due anni)”. Acquisti. L’Ufficio acquisti dell’OgL è impegnato a chiedere tre preventivi ad esclusone delle piccole spese di economato e di quelle di routine. 7 “Il Premiolino” di metà 2001 a Colin, La Licata, De Gregorio, Fiori, Franco, Frandino e Rossi Milano, 5 luglio. Il premio “Il Giornalista del Mese” (Premiolino) sponsorizzato dalla Parmalat premia quei giornalisti che dal gennaio al giugno 2001 si sono distinti per l’originalità dei loro servizi o per pregi professionali. Un riconoscimento ambito che da oltre quaranta anni è stato assegnato a oltre 400 giornalisti. Questo premio - nato nel 1960 - dopo diverse alternanze di sponsor e un interregno di due anni, finalmente dal 1985 ha acquisito una consolidata continuità sostenuta da Parmalat, l’attuale mecenate. Costituito dal diploma con il tradizionale disegno del Pittore Manzi e da un assegno di tre milioni, per quest’edizione il Premiolino è stato assegnato a: Gianluigi Colin (Corriere della Sera, gennaio 2001) Tra i maggiori artefici della rivoluzione grafica che ha trasformato i nostri quotidiani, ha mutato l’immagine del Corriere con innovazioni che gli hanno valso l’Award of Excellence 2001 della “Society for New Design” e hanno portato le pagine del quotidiano milanese alla “Uma Gallery” di New York. Francesco La Licata (La Stampa, febbraio 2001) Giornalista appassionato ma di raro equilibrio, grande esperto di immigrazione e di criminalità organizzata, nell’articolo di fondo del 23 febbraio, subito dopo il terribile delitto di Novi Ligure, è stato il primo a mettere in guardia contro la tendenza ad attribuire qualsiasi crimine agli immigrati. Antonella Fiori e Barbara Frandino (Candide-Rai Radio 3, marzo 2001) Autrici, con Marco Drago, del programma radiofonico “Candide” che ha il grande pregio di dare risposte chiare, semplici, esaurienti a domande difficili e a problemi complessi. Felice esempio di giornalismo colto a servizio del pubblico. Concita De Gregorio (La Repubblica, aprile 2001) Per la vivacità e l’ironia delle sue cronache politiche sempre graffianti ma contrassegnate da sottile distacco. In specie per quelle, particolarmente brillanti, apparse durante la campagna per le elezioni del 13 maggio. Massimo Franco (Panorama, maggio 2001) Per l’acume, la precisione, la vivacità con cui affronta problemi e descrive personaggi nei suoi servizi di inviato speciale di Panorama, nonché per la chiarezza e l’obiettività dei suoi editoriali su Avvenire. Guido Rossi (L’Espresso, giugno 2001) Grande avvocato, protagonista della vita economica italiana, nella rubrica che firma con lo pseudonimo di “Devil” prosegue la sua battaglia per legalità, trasparenza, cultura delle regole. In particolare per la puntata “Robin alla rovescia” sulla politica economica USA. “Il Giornalista del Mese” è il più caratteristico e forse anche il più “storico” premio giornalistico. Nato nel 1960 con il nome di “Premiolino”, il premio è andato nel tempo a oltre 400 giornalisti, selezionati mese per mese da una giuria di colleghi che critica, commenta e sceglie gli articoli ai quali attribuire il riconoscimento. Il premio “Il Giornalista del Mese” viene assegnato due volte all’anno, in gennaio e in luglio, e viene attribuito ai sei giornalisti selezionati dalla giuria per il semestre. È costituito dal diploma ispirato al tradizionale disegno del pittore Riccardo Manzi e da un assegno di tre milioni messo a disposizione dalla Parmalat, sponsor del Premio. LA GIURIA. I componenti della giuria de “Il Giornalista del Mese” sono: Gaetano Tumiati (presidente), Giancarlo Galli (vicepresidente), Bruno Ambrosi, Giulio Anselmi, Chiara Beria di Argentine, Pier Boselli, Francesco Conforti, Genesio Fornari, Enrico Gramigna, Elio Maraone, Morando Morandini, Donata Righetti, Bruno Rossi, Valeria Sacchi, Guido Vergani, Demetrio Volcic. 15 (19) L I B R E R I A D I T A B L O I D Michela Dazzi L’Albania di Matilde è sempre meravigliosa di Gian Luigi Falabrino È noto, anche perché Dino Buzzati lo raccontò in Un autoritratto, pubblicato nel 1973, che l’idea di scrivere Il deserto dei Tartari gli venne quando, fra il 1933 e il ‘38, lavorava di notte al Corriere della Sera: “Accanto a me c’erano dei colleghi della mia stessa età, ma la maggior parte erano più vecchi di me. Alcuni anche erano già molto anziani”. Tutti avevano sperato di fare carriera, di avere una grande occasione, ma la loro vita si era consumata nella routine. “Questa monotonia del lavoro (….) mi ha fatto venire in mente di scrivere una storia in cui venisse riassunto il destino dell’uomo medio, dell’uomo che spera in questa grande occasione, che fa di tutto per farla venire, e questa occasione appare, sembra che stia per realizzarsi e poi scompare e se ne va via”. Ciò che colpisce in questo ricordo è anche il fatto che lo stesso Buzzati, assunto al Corriere nel 1928, vi facesse per molti anni un lavoro di routine, anche se nel ‘34 aveva già pubblicato con successo Bàrnabo delle montagne. La modestia di Buzzati, il suo lavorare a riscrivere gli articoli dei corrispondenti della provincia, il suo lavoro di cronista anche dopo aver già fatto l’inviato speciale in guerra e in pace, sono note costanti nei molti saggi e interventi al convegno internazionale “Buzzati giornalista”, del quale Mondadori e la Fondazione Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona hanno pubblicato gli atti da poche settimane. Il congresso era stato promosso dall’Associazione internazionale Dino Buzzati, presieduta da Nella Giannetto, e vi avevano partecipato studiosi, giornalisti, antichi colleghi. La modestia e la grande umanità di Buzzati sono messe bene in luce, con la consueta aneddotica fra l’affettuoso e il divertente, da Gaetano Afeltra, così come da Franco Di Bella e da Guido Vergani. Di Bella, in quel convegno del 1995, raccontò delle notti passate da Buzzati in giro con le volanti della polizia, come un cronista esordiente; ma ciò che scriveva Buzzati era degno del grande scrittore, per esempio: “Un nemico invisibile, che non ha nessun nome e ne ha mille, sta assediando la città…..”. Vergani, parlando di Buzzati inviato speciale, come del resto fa Indro Montanelli in un breve intervento, mette in rilievo due aspetti: la singolarità delle sue corrispondenze di guerra; in Buzzati non c’era “nessun trionfalismo, un basso calore di retorica, nessuna enfasi, e invece un continuo affiorare della morte”. Il secondo aspetto è, anche per Vergani, il piacere della cronaca, l’umiltà della cronaca: “Oggi – dice Vergani – per molti giornalisti fare carriera significa approdare al ruolo di editorialista, il giornalista che scrive articoli di fondo. Questo è il difetto della mia generazione e della generazione che mi ha immediatamente preceduto e che im- 16 (20) Buzzati giornalista mediatamente mi segue”. L’esatto contrario del modo di essere e di lavorare di Dino Buzzati, cronista e inviato speciale, dalla strage perpetrata da Rina Fort nel ‘47 (in un saggio di Walter Geerts) alle catastrofi (Ivo Prandin), ai viaggi a Tokio (Kyoko Masuyama) e in India (Monica Farnetti). Molto interessante, a conferma delle capacità professionali di Buzzati e della sua operosa modestia, è la comunicazione di Maria Antonietta Cruciata su Dino Buzzati e la Domenica del Corriere. Il giornalista-scrittore fu di fatto direttore del settimanale, senza mai apparire, dal 1950 al 1963. Direttore pro forma era Eligio Possenti ma, fino al ‘50, il settimanale era fatto da Carlo Manicotti. Andato questi in pensione, Afeltra consigliò di sostituirlo con lo scrittore bellunese, che “era – dice il vecchio collega – un uomo geniale e umile. Ne apprezzavo la sapienza giornalistica che egli sapeva ben conciliare con il suo mestiere di scrittore. Si rivelò un tecnico di primissimo ordine”. Racconta la Cruciata che Buzzati fece il settimanale con tre redattori e un grafico, e con due disegnatori, Walter Molino, erede di Achille Beltrame, e Achille Patitucci. Con questa piccola squadra e con le grandi firme delle quali Buzzati riuscì a circondarsi (Orio Vergani, Domenico Bartoli, Leonardo Borgese, Cesco Tomaselli, Arturo Lanocita), Buzzati riuscì a portare la diffusione della Domenica a un milione e trecentomila copie (agosto 1962). Ma il successo viene premiato soltanto nello happy end dei film americani: un anno dopo il nuovo amministratore del Corriere, Egidio Stagno, volle modificare la Domenica e avvicinarla agli altri rotocalchi, e tolse l’incarico a Buzzati. E la vecchia Domenica cominciò un’inarrestabile decadenza. Molti altri sono gli aspetti del giornalista-scrittore esaminati nel congresso: la sua scrittura del fantastico e del paranormale (Alessandro Scarsella e Felix Siddell), i molti scritti di Buzzati come “cronista d’arte” (Giorgio Soavi, Antonio Donat-Cattin, Yves Frontenac, Anna Paola Zugni-Tauro); e poi Buzzati critico teatrale e cinematografico (rispettivamente nelle relazioni di Paolo Puppa e Michele Amato) e critico letterario (Giulio Carnazzi). La montagna non poteva mancare nel giornalismo di Buzzati, bellunese e alpinista (Maurizio Trevisan). Giuliano Gramigna apre la serie dei saggi dedicati ai rapporti fra giornalismo e letteratura, indicando “con che modalità il mestiere di Buzzati sia passato in certi suoi testi narrativi, diventandone la materia”. Gramigna cita e illustra a questo proposito L’alienazione, Riservatissima al signor Direttore, e Il critico d’arte. Lo seguono Claudio Marabini (“Buzzati e l’elzeviro”), Giovanna Finocchiaro Chimirri (“Dalla ‘terza pagina’ al volume: un lavoro ‘in progress’”), Maria Altieri Biagi (“L’incipit cronistico nei testi narrativi di Buzzati”), Patrizia Zambon (“I racconti di Natale”), Ada Neiger (“Scrittori in terza pagina ai tempi di Buzzati”). Ma vorrei citare un po’ meno frettolosamente tre altre relazioni che riportano al giornalista. Buzzati, che confessò di non aver mai visto prima una corsa su strada, fu inviato speciale al Giro d’Italia del 1949, come ricorda Alberto Brambilla, che, all’analisi dello stile romanzesco dei reportages aggiunge qualche citazione, per me importante. Come Orio Vergani che più tardi si occupò dei “portatori d’acqua” assegnando una “maglia nera” all’ultimo arrivato, un certo Malabrocca, anche Buzzati, a differenza di tutti gli altri inviati attenti solo ai campioni, si occupa degli ignoti servitori dei grandi ciclisti: “Sogna il piccolo fantaccino delle strade che mai ha udito le folle urlare il proprio nome e mai è stato sollevato sulle spalle da una turba frenetica in trionfo…..”. Ma Dino Buzzati non è stato soltanto redattore e inviato del Corriere della Sera: Cesare De Michelis dedica una relazione alla sua esperienza del rotocalco d’attualità, “Fra Longanesi, Pannunzio e Benedetti”. De Michelis ricorda la collaborazione di Buzzati all’Omnibus di Longanesi, il primo rotocalco alla fine degli anni Trenta e, dieci anni dopo la collaborazione a L’Europeo. E non è un caso che Il deserto dei Tartari sia pubblicato nel 1940, come primo titolo di una nuova collana, diretta per Rizzoli proprio da Leo Longanesi. Fra il 1939 e il ‘40 Dino Buzzati passò un anno nell’Etiopia da poco conquistata, e Marie-Hélène Caspar gli dedica un saggio, straordinariamente interessante ( un tempo si sarebbe detto “istruttivo”) “per esaminare la questione di sapere come si potesse essere giornalisti durante il fascismo”. Buzzati si destreggiava fra la censura, che gli proibiva la pubblicazione di certi pezzi (“Pena provvedimenti di fortissimo rigore – diceva una nota di servizio – astenersi dalle sdolcinature e tenerezze riguardo gli abissini. Nessun episodio sentimentale, nessuna fraternizzazione. Assoluta e netta divisione fra la razza dominatrice e quella che è dominata”) e l’obbligo di esaltare la nuova realtà imperiale. Ma Buzzati sapeva occuparsene senza cadere nella retorica e nella piaggeria verso Mussolini e gli altri gerarchi. Ci riusciva perché non li nominava mai, né parlava, come tanti altri, delle opere “volute e potenziate dal regime”, ma esaltava le grandi opere pubbliche come frutto dell’ingegno e della fatica e soprattutto esaltava il lavoro degli operai: italiani, ma anche eritrei ed etiopici, nonché sudanesi e yemeniti immigrati: anche verso di loro c’è un’attenzione allora insolita e davvero “umana”. La Caspar ricorda che Buzzati, nell’articolo sulla strada della Dancalia, dedica agli indigeni un quarto del suo articolo, in contrasto con le direttive ministeriali. Un episodio poco conosciuto, ma che Buzzati stesso ricorda con nostalgia per tre volte nell’Autobiografia, è che durante un giro fatto con la cavalleria indigena, lui, civile, partecipa volontariamente ad un attacco contro i ribelli, e viene proposto per la medaglia d’argento (“Per pura passione, senza obblighi di sorta, volontariamente seguiva un reparto nelle operazioni di polizia coloniale”, ecc.). L’umano, malinconico e bene educato Buzzati scriverà molti anni dopo che quello fu l’unico momento in vita sua in cui fu veramente felice. Buzzati giornalista, a cura di Nella Giannetto, Atti del Convegno Internazionale, Mondadori, pagine 570, lire 45.000 di Emilio Pozzi Gli albanesi chiamano ‘freddo amaro’ il vento gelido che scende dai Balcani, già nei primi giorni d’autunno. Questo freddo aveva fatto ghiacciare il fiume permettendo ai ragazzini di scivolare dalle sponde, ma a Gjalika aveva impedito di lavarsi i capelli; così erano arrivati i pidocchi ed era stata necessaria la rasatura a zero. Una storia, tante storie. Sono bambini albanesi i protagonisti del nuovo libro di Michela Dazzi, e raccontano con le loro voci vicende autentiche, sullo sfondo di strade fangose e disseminate di buche, di macchie di mirto e corbezzoli rossi e di erica selvaggia in un paesaggio punteggiato, sulla costa, dai settecentomila funghi di ferro e cemento, fatti costruire dal mitomane Hoxa, più di trent’anni fa. Dopo aver raccontato, in altri libri, della droga e del manicomio, del colonialismo in Eritrea, Michela Dazzi è stata attratta da queste realtà che costituiscono, da anni, un sofferto quotidiano richiamo per le nostre coscienze. Lo stile conferma il dominio del linguaggio sul fatto, è perentorio nell’accusa, attentissimo nella descrizione, preciso nella citazione. Ecco che così resteranno indimenticabili questi albanesi ai quali la scuola raccontava delle radici, guarda un po’, illiriche o cercava di comunicare l’orgoglio di paese delle aquile, con l’eroe nazionale Skanderberg, dominatore da due monumenti: quello in pietra nella piazza principale di Tirana e quello che sgorga dalle pagine del grande scrittore Ismail Kadarè, in I tamburi della pioggia. Non spiegava però perché la testa della statua di Stalin era finita fra le macerie, mentre il regime di Hoxa aveva fatto il resto, senza contare che prima anche noi italiani con Mussolini e Galeazzo Ciano, avevamo fatto la nostra parte. Così la retorica non poteva spiegare perché questi ragazzini fossero “fagotti di stracci con la pancia in rivoluzione”, perché ambissero ad una bambola verde, di tal colore perché fabbricata con la plastica verde usata per più prosaici catini. Le bambole, quelle belle, eleganti, apparivano alla televisione italiana, strumento per certi versi nefasto, divenuto veicolo di illusioni e di richiami tentatori. E non solo per l’Albania. I bambini italiani erano tirati a lucido, vestiti di raso azzurro o rosa, i piccoli albanesi erano miserabili contadini. Alla disuguaglianza delle etnie, come più volte è stato rilevato in studi, dibattiti e inchieste, si aggiungeva l’ingiusta disuguaglianza dei sessi. Il padre di Gjalika si risposa con una maestra, tradendo la sua famiglia, cinghia la piccola Gjalika, l’apostrofa con un insulto premonitore (puttana!), l’abbandona al suo destino. È la figura del padre padrone che viene mostrata in tutta la sua crudeltà e il suo egoismo. Mentre il fratellino Zef si propone come uomo che può proteggerla, Gjalika risponde: “E io invece sono una donna, porca miseria, e mio Duilio Pallottelli Il fortino della Terza Avenue Il fortino della Terza Avenue è un palazzo nel cuore di Manhattan e il protagonista, Frank Collant, nome americanizzato di Franco Collanti, è un fotoreporter italiano arrivato a New York a metà degli anni Sessanta per un servizio sull’assassinio di John Kennedy e poi rimasto negli States. Frank lavora per la White Star, una grande agenzia d’attualità, ed è costretto a spostamenti continui, a partenze e ritorni improvvisi, spaziando dalla California al Centroamerica. Suoi compagni di ventura sono altri due italiani, lo scultore Tony Caselli, trascinato a New York dalla bellissima moglie Kay e subito dopo da lei abbandonato, e l’illustratore Remo Giannini, farfallone napoletano affascinante ma superficiale. Tre professionisti che hanno lasciato l’Italia non per fame, ma per saturazione, per mancanza di orizzonti e di speranza. Il racconto si snoda in maniera articolata nell’America di quei tempi, nel momento in cui la speranza nel Nuovo Mondo vacilla sta per crollare. Personaggi e situazioni si accavallano, si sovrappongono, si aggrovigliano. I tre passano attraverso i mutamenti di quegli anni, si imbatORDINE 7 2001 L’edizione 2001 del Premio Cenacolo “Editoria e Innovazione” potrebbe non finire in una bella passeggiata tra le nuvole di bambagia dei caroselli, però noi almeno siamo impegnati a essere una famiglia. Se poi si volesse la perfezione ci dovremmo impegnare tutti, ma proprio tutti e con molta buona volontà, a ripensare il mondo dalla creazione, come un continente unico denominato Pangea circondato dal mare Panthalassa. Si avrebbe così la certezza di essere abitanti della stessa terra”. Sogni ad occhi aperti, quelli di Zef, che scopre la speranza di non essere stranieri ma fratelli, sogni che sembrano ispirati proprio a quelli di Matilde, quando diceva “Mamma, ho conosciuto un albanese… vedessi che occhi ha… occhi così belli che io non li ho visti mai”. Era un marinaio quello, finito poi chissà dove. Ma quello sguardo l’ha poi ritrovato negli occhi di Zef, occhi color del sole. Anche se potevano sembrare quelli di un cane. Figlio o fratello, non ha importanza. Se poi c’è un atto ufficiale, che si chiama ‘affido’, meglio ancora. E Zef non è più un cane abbandonato. È diventato, e si sente, un bambino, con sogni da bambino. Anche per questo, per Matilde dagli occhi azzurri, l’Albania è sempre meravigliosa. Michela Dazzi L’Albania di Matilde è sempre meravigliosa, Editrice Berti, Piacenza, pagine 214, lire 20.000 Duilio Pallottelli, romano di nascita, è morto a Milano nel marzo 2000 a 67 anni. Ha iniziato la sua carriera come fotografo dell’Europeo, per il quale è stato corrispondente da New York per 12 anni. Ha lavorato anche alla Domenica del Corriere, al Secolo XIX come caposervizio cultura, ad Airone, a Vie del mondo, di cui è stato vicedirettore esecutivo. tono in delitti, in situazioni sconcertanti, diventano i protagonisti di una straordinaria avventura. Mentre Tony e Remo tengono in qualche modo le posizioni, barricati nella metropoli, Frank scava, scava con il suo obbiettivo. Il libro è quasi per intero un dialogo (che a volte diventa un monologo): i personaggi, sia i protagonisti che le figure minori, si materializzano e prendono forma attraverso le parole, più che con descrizioni particolareggiate. Tutti parlano, raccontano, argomentano. E vanno avanti. Fino a un finale drammatico. Rimarrà sulla scena soltanto Frank Collant photographer, al quale non resterà altro che aggrapparsi ancora di più alle sue macchine fotografiche. Forse è l’unico che, sopravvivendo, riuscirà a integrarsi nel mondo americano. Nel romanzo postumo di Duilio Pallottelli – seconda opera di narrativa dopo Voglia di famiglia, edito da Rusconi, che nel 1997 vinse il Premio Stresa – il gusto narrativo si intreccia di continuo con l’esperienza personale, dal momento che l’autore fu per dodici anni corrispondente dall’America del ORDINE 7 2001 settimanale L’Europeo. La personalità di Pallottelli si ritrova in queste pagine dense di emozioni, che restituiscono l’immagine di un uomo che non ha mai rinunciato ad essere se stesso ovunque si trovasse: in Park Avenue come in mezzo a una guerra, nella foresta amazzonica come a cena con gli amici davanti a un caminetto sulle colline toscane. FrankDuilio, pur essendo riuscito a integrarsi nel mondo americano, è sempre alla ricerca di una dimensione umana. Così, dopo il lungo periodo trascorso negli Stati Uniti, Pallottelli non poté resistere al desiderio di ritrovare la sensibilità, i sapori e gli umori della sua terra. Per questo si rifugiò in un rustico tra Toscana e Umbria, il suo secondo “fortino”, pur tornando spesso in America. Perché quel mondo lo affascinava soprattutto per un motivo: la sensazione di rimettersi continuamente in gioco, di poter ricominciare tutto daccapo in qualsiasi momento. Duilio Pallottelli Il fortino della Terza Avenue Tullio Pironti editore, pagine 262, lire 24.000 Una spinta ai prodotti lombardi e nazionali La realtà editoriale, con la decisa affermazione di Internet, è oggi in continuo fermento. I tempi del cambiamento, in passato molto lunghi, si sono ridotti in maniera impressionante. Ogni giorno, forse anche ogni ora, da qualche parte, nel mondo, esperti o principianti, sperimentano nuove forme di comunicazione. L’Assolombarda, con Il Sole 24 Ore, Mediaset, Mondadori, RCS Editori, Radio e Reti, e con la collaborazione di Baio Editore, Editoriale Elsevier e Federico Motta Editore, allo scopo di promuovere la realtà editoriale nazionale, milanese e lombarda, lancia la seconda edizione del Premio Cenacolo “Editoria e Innovazione”. di Ida Sconzo Chi può partecipare Alle selezioni per il Premio nazionale possono partecipare tutte le imprese con sede legale in Italia il cui “prodotto candidato” è stato immesso sul mercato tra giugno 2000 e giugno 2001. Sono ammesse tutte le tipologie di prodotti editoriali senza distinzione di categorie. Alle selezioni per il “Premio giovani” possono partecipare tutte le persone fisiche, nate dopo il 30/9/1966, residenti in Lombardia. I prodotti editoriali presentati dovranno essere stati immessi sul mercato nel periodo tra giugno 2000 e giugno 2001. I progetti candidati dovranno essere già in fase di avanzata definizione. Modalità di partecipazione La partecipazione al Premio è gratuita. I candidati devono compilare una scheda d’iscrizione, che si trova sul sito, che dovrà essere corredata da dati anagrafici e sintetica presentazione del prodotto/progetto. La scheda d’iscrizione dovrà pervenire via e-mail entro il 30 settembre 2001. La scheda in versione cartacea dovrà essere inviata, entro la stessa data, per posta alla segreteria del Premio Cenacolo “Editoria e Innovazione” via Pantano, 9 – 20122 Milano, unita a qualsiasi materiale documentario utile ad illustrare il prodotto. Obiettivo del Premio, che si suddivide in due sezioni, nazionale e lombarda, è quello di promuovere i prodotti e i progetti editoriali che, nel corso dell’ultimo anno, abbiano saputo cogliere meglio le opportunità dell’attuale fase di cambiamento nel comparto editoriale. Sono esclusi dall’iniziativa tutti i prodotti di mera informazione commerciale o aziendale. Il Premio, infatti, è riservato ai prodotti caratterizzati da un valore informativo e innovativo nei contenuti. Il Comitato promotore del Premio, presieduto da Benito Benedini dell’Assolombarda, è composto da Enzo Campione di Radio e Reti, Fedele Gonfalonieri di Mediaset, Maurizio Costa della Mondadori, Maurizio Galluzzo del Sole 24 Ore e Gaetano Mele della RCS Editori. L’iniziativa comprende due sezioni dedicate ai premi e una riservata alla ricerca. Il “Premio nazionale ai migliori prodotti editoriali” sarà assegnato a prodotti d’informazione innovativi che agiscono tra l’editoria tradizionale e la nuova editoria, allo scopo di evidenziare tutti gli aspetti dell’attuale momento di transizione. Possono partecipare al concorso le imprese con sede legale in Italia, il cui prodotto candidato è stato immesso sul mercato nel periodo dal 30 giugno 2000 al 30 giugno 2001. Sono ammessi a partecipare, senza distinzione in categorie, tutte le diverse tipologie di prodotti editoriali: carta stampata, radio, TV, Internet, editoria elettronica off-line. I criteri di valutazione comprendono tutti gli aspetti del prodotto dalla creazione ai contenuti, dalla modalità di produzione alla promozione e alla distribuzione. In particolare saranno considerate la potenzialità di ibridazione e di declinazione su diversi media, la novità e l’efficacia del format in relazione al medium utilizzato, la dinamicità e la funzionalità delle caratteristiche di interfaccia con l’utente, la novità, la qualità e l’efficacia comunicativa dei contenuti; la veste grafica, l’orientamento verso nuovi segmenti di mercato e l’apertura a nuovi mercati internazionali. Un Comitato tecnico composto da giornalisti, direttori editoriali ed esperti della comunicazione, procederà alla selezione delle candidature da sottoporre al giudizio finale della Giuria. Il “Premio Cenacolo” – sezione nazionale – sarà assegnato ad un primo premio assoluto PREMIO padre compra anelli di fidanzamento invece che pannolini”. L’iniziazione mestruale sottolinea l’inferiorità femminile, prelude alla sottomissione, alla prostituzione. Sembra che ci sia tutto il calvario - la fame, la sete, la poppata della capra, l’emozione di essere soli al mondo - ma non è ancora tutto. Si compie la traversata, ma nessuno fa caso all’azzurro del mare: se poi è notte, tutto è nero. Lo abbiamo imparato. Gli esuli, attratti dal grande miraggio del lavoro e di un altro futuro, trascorrono orribili notti, rinchiusi come topi nella stiva, poi affluiscono nello stadio della Vittoria di Bari, divenuto un gran deposito di merci, merce umana per tutti i mercati, da quello ‘flessibile’ del lavoro sfruttato, a quello predisposto dal destino con la bellezza delle ragazze albanesi. E qui lo squarcio sulla realtà: l’Italia e l’occidente non sono quelli strombazzati dalla pubblicità, cioè un bendiddio di lustrini, ma solo il palcoscenico delle disuguaglianze, visto dalle quinte. Il libro – anche quando nella narrazione si sovrappongono altri personaggi, reminiscenze di storie vissute nell’altrove della memoria – procede con un linguaggio fluido, quasi una trascrizione di dialoghi in diretta, talvolta di intensa efficacia come nelle ispirate conclusioni di Zef. “Lo so che è più facile assomigliare ad un albanese che a un angelo, quando non si hanno nemmeno le scarpe oppure una bambola decente o un passato credibile, e so anche che la nostra storia più tre premi speciali, nel corso di una manifestazione pubblica che si svolgerà a Milano nel novembre 2001. Al “Premio giovani” ai migliori prodotti e/o progetti editoriali a Milano e in Lombardia, possono partecipare, singolarmente o in gruppo, persone fisiche che non superano i 35 anni d’età (nati dopo il 30/9/1966) residenti in Lombardia. Sono ammessi alla selezione sia i prodotti già commercializzati sia i progetti non ancora immessi sul mercato nel periodo compreso tra giugno 2000 e giugno 2001. I progetti invece dovranno già essere in fase di avanzata definizione, al fine di poter tutelare i diritti di copyright. I criteri di valutazione sono uguali a quelle del Premio nazionale. Per quanto riguarda i progetti non ancora commercializzati, sarà valutata la fattibilità concreta: rapporto costi/benefici, tecnologia, aspetti organizzativi, skill necessari. Il Premio Cenacolo – sezione Lombardia – sarà assegnato a tre prodotti o progetti ai quali andrà un primo premio di 30 milioni, un secondo premio di 20 e un terzo di 10 milioni. I vincitori inoltre potranno usufruire di un servizio tutoring offerto dalle aziende promotrici per lo sviluppo del progetto. Per l’edizione 2001 la giuria è presieduta da Umberto Eco ed è composta da Gianfranco Bettetini (Università Cattolica di Milano), Adriano De Maio (Politecnico di Milano), Giampaolo Fabbris (IULM Milano), Giulio Giorello (Università statale Milano), Guido Martinotti (Università statale Milano Bicocca), Severino Salvemini (Università Bocconi Milano). Segretario del Premio è Paolo Pasini, direttore centrale rapporti istituzionali Assolombarda. La sezione dedicata alla ricerca, nella prima edizione, ha analizzato un rapporto sul “Sistema – Editoria” che ha evidenziato le tendenze evolutive dell’editoria in Italia e il ruolo di leadership milanese nel panorama nazionale. Lo studio ha inoltre analizzato le trasformazioni in atto nel settore con l’introduzione di nuove tecnologie. In questa seconda edizione è prevista la presentazione della ricerca “New York: capitale mondiale dell’editoria e dell’informazione” a cura di Booz Allen & Hamilton Italia. Attraverso il confronto e l’analisi di alcuni casi di straordinario successo nel campo dell’editoria cartacea, televisiva, radiofonica ed elettronica, saranno individuate le specificità del sistema milanese e i possibili ambiti d’intervento per il contesto editoriale italiano. Informazioni Per ulteriori informazioni contattare la segreteria del Premio Cenacolo “Editoria e Innovazione” telefono 02/89549382, e-mail: [email protected] sito www.editoria.milano.it CENACOLO Editoria e innovazione 17 (21) LIBRERIA DI TABLOID Dario Biagi Vita scandalosa di Giuseppe Berto di Vincenzo Ceppellini Qual è lo scandalo? Avere indossato la camicia nera e non averla ripudiata né conservata poi nel ruolo assunto di “afascista”? Oppure, prigioniero di guerra degli Alleati, non aver firmato per Badoglio dopo l’armistizio, sopportando per questo un supplemento particolarmente duro di prigionia nel Texas? Aver frequentato un anticonformista come Leo Longanesi e aver pubblicato da lui il suo primo romanzo, Il cielo è rosso? Oppure, sul piano privato, aver prediletto le ragazzine, scegliendo come pin-up l’acerbissima Shirley Temple? O l’esser stato amante e marito infedele? O, ancora, aver contaminato l’attività letteraria con quella imprenditoriale di ristoratore in Calabria? O forse l’aver travasato nelle pagine senza punteggiatura de Il male oscuro il dramma della sua depressione? O, ancora, l’aver mondanizzato la sua missione di scrittore nel più redditizio lavoro di sceneggiatore cinematografico, contribuendo persino alla love story di Anonimo veneziano? Nella vita romanzesca di Giuseppe Berto, ora rievocata, a 21 anni dalla morte, in una giografia di nuovo genere, da Dario Biagi, scrittore lui stesso e giornalista della Rai, certamente emergono irregolarità e irrazionalità, intuizioni geniali e bizzarrie di un carattere difficile, inconstanze ed eccessi, colpi di teatro e mutamenti di umore e di parola, audacie narrative e violazioni di stile. Biagi ha il merito di aver condotto una ricerca che ha la meticolosità della cronaca puntuale e la profondità dell’analisi psicologica, l’attenzione per la specificità del prodotto letterario e la navigata conoscenza del costume, pervenendo ad un risultato di grande interesse. Ma lo scandalo, allora? Lo scandalo più grande fu, a parere dell’establishment della società letteraria del tempo, proprio il successo tributato dal pubblico ad uno scrittore indipendente e non impegnato nell’ideologia egemonica, giudicato corrivo verso il gusto dei lettori, premiato dalla popolarità “cineletteraria” de Il cielo è rosso, sostenuto, lui sempre in cerca di danaro, dalle vendite dei bestsellers Il male oscuro e La cosa buffa, incoronato persino da due munitissimi premi letterari come il Viareggio e il Campiello, e, colmo dei colmi, indicato da Hemingway come uno dei tre autori italiani da lui preferiti su tutti, gli altri essendo Vittorini e Pavese. Contro questo imperdonabile successo la Cosa nostra della letteratura, i frequentatori della Terrazza per dirla con Scola, o, se si vuole, quelli di via Veneto e dei salotti buoni, cercarono di elevare il muro del silenzio, incaricarono i killer delle stroncature di calcare la mano, ordinarono di chiudere le porte in faccia a Berto in tutte le occasioni possibili e relegarlo nel “ghetto dei mediocri che piacciono al grande pubblico”. Come si vede, un caso esemplare tra i molti di cui si potrebbe scrivere per raccontare la storia del costume letterario italiano del dopoguerra oltre la facciata del conformismo ideologico o clientelare. Biagi ha costruito un vero e proprio dossier, appassionante come un romanzo e nobilitato da una scrittura controllata e al tempo stesso partecipe, portando documenti circostanziati (integrati da 30 pagine fitte di note), nei quali compaiono amici e avversari, editori e produttori, critici e attrici, giornalisti e docenti, familiari ed amanti: 800 lemmi nell’indice dei nomi, tutti con buone ragioni per esserci, compreso Alberto Moravia, con 25 rimandi ad altrettante pagine spinose. Dario Biagi, Vita scandalosa di Giuseppe Berto, Bollati Boringhieri 1999, pagine 180, lire 30.000 Vieri Poggiali 1 – Giornalismo economico 2 – Uffici stampa di Emilio Pozzi Achille, anzi Vieri, è uscito da sotto la tenda e lo fa con due utilissimi volumi che trattano argomenti specialistici della professione, nelle quali l’autore è particolarmente versato. E, visto che da tempo è diventato un instancabile giramondo musicale (non si perde una ‘prima’ di opere liriche ovunque siano) salutiamo questi libri con un fatidico “Si ridesta il leon di Castiglia”. Infatti “dottrina e tecnica dell’informazione sui ‘fatti’ dell’economia” e “dottrina e tecnica della comunicazione ‘timbrata’ di aziende enti e istituzioni” (questi i sottotitoli scelti dall’autore), rappresentano un contributo aggiornato, chiaro e perfino scanzonato (quindi di godibilissima lettura), con un pizzico di ironica autocritica, rivolto ad aspiranti giornalisti, ma anche a chi sente la necessità di stare al passo con i tempi, che bruciano in qualche mese esperienze maturate in anni di lavoro. Le basi restano, o almeno dovrebbero restare; quello che si consuma e si rinnova sono le metodologie, per dirla con parola impegnativa, gli usi e i costumi (e i malcostumi), per dirla alla spiccia. Entrambi i testi, limpide sintesi di lezioni universitarie, seguono percorsi lineari, anticipando addirittura possibili domande che possono giungere anche da un lettore non specializzato, che funge, come nel mio caso, da cavia, sulla comprensibilità. La premessa vale per entrambi i libri. E per entrambi il rammarico che siano privi di una, almeno sommaria, bibliografia. A questo punto un’avvertenza: queste note seguiranno due itinerari diversi perché gli argomenti, anche se contigui e complementari, meritano illustrazioni e analisi separate. Giornalismo economico. Articolato in nove capitoli e in un’appendice, dedicata quest’ultima a una breve (fin troppo) storia del giornalismo economico in Italia, il percorso affronta anzitutto compiti, ruoli e responsabilità di un tipo di informazione che pur rientrando nel mare magnum del giornalismo, alle principali regole del quale si deve ispirare, ha un suo identikit preciso, quasi fosse una branca autonoma. Dati alla mano, sostiene Poggiali che “in rapporto a quanto ne esiste in altre nazioni più forti, da noi oggi si produce in proporzione maggiore informazione economica”. Sono parecchi i quotidiani specialistici, con una tiratura che si avvicina al mezzo milione di copie e nei giornali d’informazione generalistica molte pagine sono ogni giorno dedicate all’economia nei suoi diversi aspetti, ivi compreso il listino delle borse. L’autore, prima ancora di addentrarsi nelle tecniche, con suggerimenti e svelamento di segreti del mestiere, si pone il problema, molto correttamente, del lettore e intitola un capitolo “Informare spiegando e spiegando informare” contro gli ermetismi, le strizzatine d’occhio e le cadute di tono. Molto acute, e illuminanti sulle connessioni fra notizia e notizia, le osservazioni contenute nel terzo capitolo dedicato alla ‘materia prima’, riconducibile a tre grandi aree: le notizie economiche in senso stretto, l’interpretazione in chiave economicistica di fatti che in sé non sembrano attinenti all’economia, e l’utilizzazione sempre in chiave economicistica di fatti ed eventi di altra natura (politica, culturale, sportiva, di cronaca bianca o nera) che danno spunti e a riflessioni in chiave economica. Da qui si può arrivare alla conclusione che l’economia è barometro della società. Alcune teorie ideologiche l’hanno sostenuto da tempo, così come abbandono e morte delle ideologie porta in politica, al feticismo del mercato. Poggiali però rimane con il suo testo nell’ambito strettamente tecnico. Un terreno minato, del quale non mi pare ci sia riscontro, nel libro, è quello dell’etica del giornalista economico. Due parole chiare , a mio avviso, ci sarebbero state bene. Anche perché qualche digressione c’è. Infatti parlando del come la materia economica è trat- *** E l’ultima parola del libro di Vittorio Emiliani è proprio ‘ancora’. A chiusura di queste frasi: “Abbiamo assistito a un autentico psicodramma per i funerali di Bettino Craxi, la cui morte è stata certamente drammatica. Ho ripetuto e scritto, anche in questa occasione, che, come non avevo partecipato alle incensazioni, così non partecipavo ai roghi, e viceversa. La politica per tanti come me, è stata passione, passione laica e socialista, certo. Per una sinistra ricca di feconde diversità. Pluralista al suo interno, capace di discutere, di elaborare, di progettare. Ancora”. Concetti chiari e precisi, espressi prima di assistere da parte di alcune figure del socialismo che sono anche state carismatiche, a tanti balletti, a sdraiamenti sulla linea dei vincitori delle elezioni del 13 maggio. A maggior ragione, si rileva il valore di taluni sentimenti che non sono cancellati ma ribollono. Guardando con speranza, avanti. Per l’analisi del dramma del socialismo italiano. Questo è un libro del quale si dovrà tener conto. Il legame, invece, che ho individuato con il libro di De Poli è forte nella prima parte. Emiliani infatti prende le mosse da altre realtà di provincia fra Urbino, Predappio, Ferrara, vissute da ragazzo e nell’adolescenza. E poi Voghera (il padre di Emiliani aveva vinto il concorso di segretario generale al Comune) e Pavia, dove ha frequentato l’Università. Emiliani ha respirato, negli anni Cinquanta, odor di socialismo nelle terre giuste dove si diceva ancora “Passa un socialista, passa un uomo onesto”. Metà del libro è dedicato agli anni fervidi di approccio alla politica. L’altra metà è dedicata, in chiave autobiografica, agli anni della vita professionale, come giornalista al Giorno (su questa importante testata Emiliani ha già scritto un’ampia testimonianza) e come direttore del Messaggero e sui rapporti, in parallelo, con le vicende politiche interne ed esterne al Partito socialista. Molto puntigliosamente Emiliani annota (la sua è una memoria formidabile o deve avere tenuto, giorno per giorno, pagine di diario) fatti significativi, alcuni del tutto sconosciuti, mettendo in relazione piccoli episodi e grandi eventi. Ci sono pagine che si leggono Franco De Poli La maestra e la bandiera rossa Vittorio Emiliani Benedetti, maledetti socialisti di Emilio Pozzi Il caso ha voluto che due libri (autori Franco De Poli l’uno, Vittorio Emiliani l’altro) tra quelli in lettura, si trovassero uno accanto all’altro, nello scaffale delle “urgenze”. Diversi nella narrazione - anche se entrambi con rigore stilistico, in una lingua piana e limpida - si nutrono della linfa vitale della provincia. Ma non è il caso che mi induce a parlarne parallelamente: mi appaiono infatti come due tasselli con sfumature non contrapposte di un composito mosaico con le luci e le ombre di una società italiana vista in due differenti momenti del secolo XX, con gli occhi di chi crede nella democrazia e nell’impegno sociale. Un volume, per la verità, stazionava, su quello scaffale, da qualche mese: mi era arrivato quasi contestualmente alla notizia che l’autore, Franco De Poli, era morto. Ne ero rimasto addolorato e non me la sentivo di recensire quel libro asetticamente. Franco era stato un antico collega all’Unità di Milano dopo la Liberazione, poi amico intelligente e spiritoso (era il primo a ridere quando per via 18 (22) della ‘vocetta’, chi lo cercava al telefono diceva ‘signorina, mi passi il dottor De Poli) anche se le nostre frequentazioni erano scarse perché camminavamo su strade diverse. Lui, colto e finissimo poeta, aveva diretto riviste, negli anni Sessanta, come Il Discanto, Il Canguro, Tre Rosso; aveva tradotto poeti come Nazim Hikmet, dal grande impegno civile in Turchia, e Senghor, scrittori come Poe, Queneau, Whitman; nell’ambito della critica d’arte aveva posto la sua attenzione a Bruegel, Bosch, Duerer, Renoir, Turner; aveva scritto romanzi; si era dedicato ai viaggi non banalmente turistici, approfondendo la conoscenza di antiche civiltà; negli ultimi anni, con amore filiale si era dedicato alla riscoperta della figura della madre, maestra di scuola, segretaria a vent’anni della Camera del lavoro di Crema, fervente socialista, pubblicando nel 1997 un’antologia di suoi scritti intitolando il libro Anna Adelmi, donna in guerra. Rileggere quei testi e documenti dell’epoca, gli ispirò il romanzo biografico La maestra e la bandiera rossa, scritto con tenero amore, in una prosa fluida e nitida. Drammatico e doloroso l’approccio alla vita di Anna Adelmi, ‘figlia del brefotrofio’ e la sua adolescenza, testimone di una esperienza nel mondo delle cascine, in un Paese in trasformazione economica che si preparava, tra opposte ideologie, alla guerra mondiale. E lei che da ‘figlia di ignoti’ stava crescendo come ‘figlia del popolo’, imbevuta di pacifismo. Le sue prime battaglie le fece, puntigliosamente, con la ‘macchina dattilografica’ appena nata a Ivrea, sulla quale nacquero i comunicati dell’organizzazione sindacale per la quale lavorava. Aveva 16 anni e il suo obiettivo era diventare maestra. E la capacità di scrivere, di diffondere le sue idee, la portarono a diventare, di fatto, giornalista. E a vivere, malamente, continuando a credere nei suoi ideali, in una società più giusta. Una vita in minoranza. Erano tempi ancora immaturi per la ‘questione femminile’ da lei intimamente propugnata. Anna non ebbe molta fortuna neanche nella vita privata. Molti i lutti. Molte le sconfitte. L’Italia era diventata ‘nera’. Morì a 42 anni, nel 1939. Le fu risparmiata l’altra guer- ra mondiale, quella proclamata da Palazzo Venezia in Roma davanti a una folla ‘oceanica’ il 10 giugno 1940. Il volume si conclude con 15 paragrafi in cui il biografo, raccontate le battaglie della madre, scrive in prima persona, e in ventisei dense pagine ‘l’anziano figlio di Anna’ ripercorre tre quarti di secolo, ma rinuncia sconsolato a tentare un paragone tra i tempi passati e quelli odierni: “Dalla ‘globalizzazione’ alle ingannevoli realtà virtuali, si moltiplicano le trappole nelle quali la ragione umana sembra destinata a sprofondare”. Franco De Poli non sa più trovare una battuta di spirito. Nelle ultime righe del libro, un uomo delle pulizie, riordinando una sala di riunioni, va a slegare una bandiera rossa (che per Anna Adelmi fu un simbolo entusiasmante) dimenticata sul podio, la piega con cura e dopo una breve esitazione se la infila sotto la camicia, mormorando: “Forse potrà servire ancora”. Franco De Poli, La maestra e la bandiera rossa, Edizioni Leva-Crema, pagine 384, lire 20.000 ORDINE 7 2001 tata nei periodici, Poggiali ha ritenuto utile ampliare il discorso, delineando il contesto di questo forte settore dell’editoria. Pagine queste che si potrebbero considerare un ‘inserto’, quasi la base di un volume a se stante. Uffici stampa. In questo caso la lacuna che ho riscontrato nell’altro volume qui non c’è. Anzi, ai temi dell’etica e della deontologia nella comunicazione d’azienda un’ardua convivenza, la definisce l’autore, espertissimo in materia - è dedicato il capitolo conclusivo. E da qui partiamo, dopo aver ricordato che la delicata e annosa materia degli uffici stampa è da sempre controversa, spunto per convegni, dibattiti, oggetto di proposte di legge specifiche, di vertenze e contrattazioni sindacali. Sull’argomento si sono cimentati in molti a scrivere – la produzione di libri ad hoc occupa parecchi scaffali manuali di tecniche, istruzioni per l’uso, ricette di comportamento. Considerato per molti e per molto un ruolo professionale non gratificante, spesso ambiguo – tant’è che si è cercato di distinguerlo da quello di addetto alle pubbliche relazioni (chiamate anche relazioni esterne) si è andato configurando come figura utile all’azienda e ai colleghi, purché riuscisse ad avere autonomia e dignità, come si conviene ad un serio professionista. Anche in questo caso la lettura dell’indice dà la chiave di come Poggiali intenda funzioni e ruolo degli uffici stampa, anticipando la convinzione che chi è addetto a quella che spiritosamente definisce l’informazione col timbro, ricopra un ruolo più che mai di peso o documentazione d’origine controllata (doc). Non sono consigli in pillole: rispecchiano una seria filosofia della comunicazione, analizzata attraverso tutte le fasi del processo, dalle finalità dell’azienda all’utilità per il consumatore lettore, il tutto mediato attraverso il ruolo del giornalista che non sta (o non dovrebbe stare) acriticamente dalla parte di chi fornisce l’informazione. Chi ha una carriera alle spalle come comunicatore - e qui siamo in un caso esemplare - sente, come gli antichi maestri del sapere, il piacere di far partecipi i nuovi colleghi delle proprie esperienze, riversando su di essi consigli e ‘trucchi del mestiere’, accumulati sulla propria pelle, giorno dopo giorno. Anche in questo campo il mondo corre in fretta, quello che valeva ieri oggi non ha più importanza, le dichiarazioni di un ‘portavoce’ servono a coprire le gaffes del capo, pronto a smentire l’uomo di fiducia anche il giorno dopo (nella storia politica italiana ci sono stati esempi clamorosi). Tuttavia le pagine di questo volume servono come riepilogo di una metodologia ma lasciano aperte le porte alle tendenze in progress. Non un altro libro sugli uffici stampa quindi, ma quello da tener sottomano. Vieri Poggiali, Giornalismo economico. Dottrina e tecnica dell’informazione sui ‘fatti’ dell’economia, Centro documentazione giornalistica, pagine 126, lire 35.000 d’un fiato, perché ad alcuni consentono di rivivere momenti di una storia italiana entusiasmante, ad altri trovare le risposte ad alcuni perché, a qualche rabbioso interrogativo sul comportamento di un partito al quale erano state affidate tante speranze per un rinnovamento della società, per la vittoria delle battaglie delle classi lavoratrici e che aveva deluso le aspettative, invischiato nel confronto con l’altra sinistra, imbastardito dall’ingresso di personaggi che con i valori del socialismo proprio nulla avevano da spartire. I nomi Emiliani non li lascia nella penna. Piccoli ras di provincia e grandi cortigiani sono consegnati alle loro responsabilità. Non certamente alla storia. Anche sul piano strettamente giornalistico ci sono pagine rivelatrici di operazioni che eufemisticamente si definiscono poco pulite. Sono invece pagine appassionati quelle nelle quali Emiliani racconta la stimolante esperienza a Mondo Operaio ai tempi di Cafagna, Coen, Vasconi e dei fervidi e avvincenti dibattiti ai quali partecipavano Giuliano Amato, Gino Giugni, Giorgio Ruffolo, Paolo Sylos Labini, Massimo L. Salvatori, Luigi Spaventa, Stefano Rodotà. I nomi citati da Emiliani sono molti di più , con l’articolazione dei ruoli e delle posizioni, (“tutte intelligenze che il Psi seppe dissipare in pochi anni” annota amaramente Emiliani). *** Qualcuno troverà arbitrario l’accostamento di questi due libri. Io però credo che alcune considerazioni finali di Emiliani sarebbero state condivise da De Poli: “Se ripenso al mio debutto in politica nel 1953, o all’adesione al Psi nel 1958, mi dico che non ho nulla da rimpiangere né qualcosa di cui pentirmi. È stato giusto battersi nella sinistra per idee di libertà (tutte le libertà) di giustizia sociale, di solidarietà, di rispetto per l’ uomo, di disinteresse personale e di pulizia morale E certo, queste parole, nella loro purezza, sarebbero piaciute anche ad Anna Adelmi, la coraggiosa segretaria della Camera del lavoro di Crema, nei primi decenni del Novecento. Vittorio Emiliani, Benedetti, maledetti socialisti, Baldini e Castaldi, pagine 298, lire 28.000 ORDINE 7 2001 Vieri Poggiali, Uffici stampa. Dottrina e tecnica della comunicazione ‘timbrata’ di aziende, enti e istituzioni, Centro di documentazione giornalistica, pagine 176 , lire 35.000 G I U R I S P R U D E N Z A Si può essere redattore lavorando anche da casa di Umberto Accomanno La Corte di Cassazione ha costantemente affermato che conta, ai fini della individuazione del rapporto di lavoro giornalistico subordinato, la posizione tecnico-gerarchica del lavoratore. I supremi giudici (sentenza 9 febbraio 1996 n. 1024) sottolineano tra l’altro come la natura subordinata del rapporto di lavoro giornalistico sia compatibile con l’esecuzione della prestazione lavorativa a domicilio e con la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni. La stessa Cassazione, inoltre, nel precisare, sempre in relazione all’attività giornalistica, gli estremi della subordinazione, ha stabilito che detto requisito - anche alla luce del contratto nazionale di lavoro giornalistico del 10 gennaio 1959, reso efficace erga omnes con Dpr 16 gennaio 1961 n° 153, il quale peraltro non altera la nozione di subordinazione desumibile dall’articolo 2094 Cc - va riconosciuto in presenza della continuità della prestazione, della responsabilità di un servizio e del vincolo di dipendenza, e cioè in presenza dello svolgimento di un’attività non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze informative riguardanti uno specifico settore, della sistematica redazione di articoli su specifici argomenti e di rubriche, e della persistenza, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, dell’impegno di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro, in maniera di essere sempre disponibile per soddisfare le esigenze ed eseguirne le direttive. Il requisito della subordinazione non è di contro ravvisabile in ipotesi di prestazioni singolarmente convenute e retribuite in base a distinti contratti succedutisi nel tempo, e cioè nel caso in cui siano convenute singole, sebbene continuative, prestazioni in una sorta di incarichi professionali (vedi Corte di Cassazione, 9 febbraio 1996 n°1024; Corte di Cassazione 21 febbraio 1992 n°2166; Corte di Cassazione, 27 settembre 1991n°10086; Corte di Cassazione, 27 giugno 1990 n° 6512). La subordinazione nel lavoro giornalistico è “affievolita” - Un giornalista pubblicista lavora per 6 anni come corrispon- dente del quotidiano La Nazione senza alcun inquadramento come dipendente, fino a quando non gli viene comunicata la risoluzione del rapporto di lavoro, qualificato dall’editore di “collaborazione autonoma”. Il pubblicista lavoratore subordinato si rivolge al giudice del lavoro al fine di accertare l’esistenza della subordinazione e di far applicare il contratto di lavoro giornalistico. Chiede, altresì, l’annullamento del licenziamento. Il giudice del lavoro accoglie la domanda annullando il licenziamento e ordina la reintegrazione del giornalista pubblicista nel posto di lavoro con la qualifica di corrispondente e il trattamento previsto dall’articolo 12 del contratto giornalisti. La decisione viene confermata in grado di appello. Il giudice del secondo grado di giudizio individua come indici della subordinazione del giornalista pubblicista i contatti giornalieri con la redazione e l’esecuzione della prestazione secondo le istruzioni che gli venivano quotidianamente impartite sulle notizie da reperire e da approfondire, sui pezzi in corso di esecuzione e su quelli in preparazione, nonché il fatto che la redazione indicasse il giornalista pubblicista come persona con la quale mettersi in contatto nella località prestabilita (luogo di corrispondenza). La Corte di Cassazione (Sezione Lavoro), sentenza n°3272 del 27 marzo 1998, ha ritenuto corretta l’interpretazione dei giudici di primo e secondo grado ed ha confermato il principio ripetutamente affermato dalla giurisprudenza secondo cui il vincolo della subordinazione assume nel lavoro giornalistico un contenuto attenuato (affievolito), così da individuarsi soprattutto nell’inserimento continuativo del collaboratore nell’ambito dell’organizzazione dell’impresa, essendo sufficiente il suo impegno permanente a porre le proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro anche negli intervalli tra una prestazione e l’altra, in funzione di sue richieste verbali. Tale elemento rappresenta in simili casi l’indice più significativo del vincolo di dipendenza, la cui sussistenza può essere esclusa solo nel caso in cui siano convenute singole ,sebbene continuative, prestazioni in una sorta di successione di incarichi professionali. Pubblicare foto “shock” non è diritto di cronaca La pubblicazione di fotografie del cadavere della vittima di un omicidio può costituire reato se le immagini sono caratterizzate da particolari impressionanti e raccapriccianti, lesivi della dignità umana. Questo il senso di una sentenza della Cassazione penale. Il direttore e due redattori del settimanale Visto sono stati condannati dalla Corte d’Appello di Milano alla pena di tre mesi di reclusione e di lire trecentomila di multa per avere, in concorso tra loro e con un pubblico ufficiale non identificato, realizzato e pubblicato un servizio dedicato alla morte per omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, avvenuta nel luglio 1991, corredandolo con tre fotografie a colori raffiguranti il cadavere della vittima così come era stato rinvenuto nell’immediatezza del delitto, con particolari impressionanti e raccapriccianti delle tracce lasciate sul corpo nudo e sugli indumenti e delle modalità di esecuzione del crimine. La condanna è stata pronunciata in base all’art. 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47 che punisce con la pena della reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa non inferiore a lire duecentomila la pubblicazione di “stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari in modo da poter turbare il comune sentimento della morale o l’ordine familiare o da poter provocare il diffondersi di suicidi o delitti”. I giudici di appello hanno ritenuto che il normale esercizio del diritto di cronaca non giustificasse la pubblicazione delle immagini, considerato anche il “carattere insistito e quasi martellato dell’intero articolo, foto più testi”. La Suprema Corte (Sezione Terza Penale n. 23356 dell’8 giugno 2001, Pres. Malinconico, Rel. Postiglione) ha rigettato il ricorso degli imputati, richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2000 che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità dell’articolo 15 della legge n. 47 del 1948. L’esercizio del diritto di cronaca - ha affermato la Cassazione - pur pienamente legittimo in una società democratica ed aperta, deve salvaguardare come valori fondamentali il comune sentimento della morale e la dignità umana tutelate dall’art. 2 della Costituzione. I giudici di appello - ha osservato la Suprema Corte - hanno correttamente motivato la loro decisione rilevando che le immagini della vittima dell’omicidio “sono tali da destare impressione e raccapriccio nell’osservatore di normale emotività, improntata ad impulsi di solidarietà umana, pietà per la defunta, rispetto per la sua spoglia, repulsione istintiva verso le ferite efferatamente impresse, salvaguardia della dignità della persona già uccisa in quel modo ed ulteriormente oltraggiata dalla pubblica ostensione del suo corpo, naturale esigenza di riservatezza verso l’intimità fisica personale rinforzata dalla condizione mortale del soggetto”. 19 (23) L I B R E R I A D I T A B L O I D Sergio Romano L’Italia negli anni della guerra fredda di Gigi Speroni Quando radio e televisioni hanno bisogno a tambur battente di un opinionista, il primo che cercano di catturare è l’ambasciatore Sergio Romano per l’analitica capacità di rendere comprensibili i problemi più complicati. E non solo. Perché quell’“ambasciatore” che viene sempre legato al cognome “Romano” ci dice che l’attuale saggista è stato per 35 anni in diplomazia sino a rappresentare il nostro paese alla Nato e a Mosca. Il binomio diventa, così, un marchio di garanzia, soprattutto quando l’“ambasciatore Romano” affronta temi di politica estera, e spiega il successo delle venti “lezioni” che il commentatore Doc ha tenuto su Radio 2, nella scorsa primavera, per il programma “Alle otto della sera”. Ora quelle conversazioni sono diventate un libro: L’Italia negli anni della guerrra fredda, ovvero, Dal piano Marshall alla caduta del Muro; e oltre, visto che il racconto arriva sino alla nascita dell’euro. Racconto? Sì, perché l’arte di Romano è, per l’appunto, quella di raccontare la storia, e qui lo si sente in modo tangibile nella trasposizione scritta delle sue parole: lo leggi e ti sembra di ascoltarlo quando, con pacatezza e apparente semplicità, illustra, chiarisce i grandi eventi degli ultimi cinquant’anni. Sostiene l’autore: «In alcuni degli avvenimenti l’Italia ebbe una parte importante, per sé o per gli altri. In molti ebbe una parte marginale. In altri infine fu soltanto testimone interessata, senza alcuna possibilità d’influire sul corso delle cose». È un diplomatico, Romano, ma più di tanto non può sfumare la realtà di un’italietta sullo scacchiere internazionale. Quella, d’altronde, che emerge dal Romano divulgatore, spesso testimone in prima persona degli avvenimenti. L’“io c’ero” s’intuisce spesso a dar spessore a fatti e personaggi. Andiamo, allora, al 1985, quando Sergio Romano era ambasciatore a Mosca. In marzo Gorbaciov diventa segretario generale del partito comunista dell’Unione Sovietica e «la parola chiave del suo programma divenne nei mesi seguenti perestrojka (in russo “ristrutturazione”). Essa dimostra che Gorbaciov non pensava a cambiamenti radicali. Riteneva che tutto dovesse essere rinnovato, riformato, ristrutturato. Accanto a perestrojka, ristrutturazione, Gorbaciov cominciò a fare largo uso di glasnost, parola che significa “pubblicità” e che noi abbiamo, forse non del tutto correttamente, tradotto con “trasparenza”. Con l’uso di questa parola Gorbaciov proclamava la necessità che l’apparato politico e amministrativo sovietico fosse pubblicamente responsabile delle proprie azioni»….« Fu questa la glasnost. Chi l’ha interpretata come espressione di una deliberata politica liberale, destinata a creare le condizioni di una libera stampa e una libera opinione, ha commesso un erro- Luigi Garlando La vita è una bomba! di Antonino Padovese Il piccolo Milan ha otto anni. Si è rifugiato a Milano, scappando dalla guerra che insanguina da anni la Jugoslavia. A Sarajevo ha lasciato il padre, partito per combattere sulle montagne, la madre e una gamba, che è volata via dal corpo a causa di una bomba scoppiata al mercato cittadino nella capitale della Bosnia. Il piccolo Milan è il protagonista del libro La vita è una bomba!, scritto dal giornalista della Gazzetta dello Sport Luigi Garlando. Perché un giornalista sportivo ha deciso di scrivere un libro per bambini il cui tema dominante è la guerra? Che cosa può mai unire lo sport e la guerra? Lo spiega l’autore attraverso una domanda che sorge spontanea nella mente ancora ingenua del bambino Milan: “Come è possibile che 20 (24) una delle cose più belle del mondo, il calcio, e una delle più brutte, la guerra, parlino con le stesse parole?… Boban ‘tira una bomba’ dal limite, il portiere si tuffa e respinge una punizione del ‘cecchino’, ‘raffica di conclusioni a rete’, ‘attacco a mitraglia’, ‘palla morta’, il Milan ‘ha ucciso il campionato’, la difesa passa ‘al contrattacco’, avanza Tassotti ed ‘esplode il destro’…”. L’intreccio fra guerra e calcio è costante in tutto il racconto, che ha vinto il Premio “Battello a vapore - Città di Verbania” nel 2000. Si comincia con il nome del personaggio di fantasia cui Garlando dà vita così bene da sembrare vivo: Milan è un nome abbastanza comune nei Paesi dell’Est, ma allo stesso tempo è anche il nome della squadra di calcio dove negli anni Novanta giocano assieme il croato Zvonimir Boban e il serbo- Romano Battaglia Sulla riva dei nostri pensieri re». Gorbaciov «nel 1988 promosse una grande riforma costituzionale che avrebbe permesso le prime elezioni con una pluralità di candidati. Badate bene: pluralità di candidati, non di partiti». La precisione, innanzitutto, a fronte di tanto giornalismo strillato e deformante. E sempre per amor di precisione l’autore ripercorre la nostra storia arricchendola di particolari sconosciuti o dimenticati. Prendiamo il Patto atlantico. L’Italia «… non poteva difendersi da sola. Non ne aveva i mezzi e aveva un forte partito comunista che rendeva la sua posizione particolarmente delicata e vulnerabile. Occorreva quindi poter contare sulla protezione di paesi più forti. Fu in questo spirito che De Gasperi decise la candidatura dell’Italia al Patto atlantico…. Fu una battaglia lunga e difficile… Il dibattito in parlamento si potrasse per molte ore in una situazione di grande tensione politica. Nenni scrisse e pronunciò parole di fuoco contro quello che egli definiva il “cappio delle alleanze”. Finalmente, il Parlamento votò la ratifica del Patto e l’Italia divenne da quel momento membro dell’Alleanza. Uscì dal limbo in cui si era lungamente trovata dopo la fine della guerra e dalla condizione di paese sconfitto, considerato dagli alleati occidentali con un certo riserbo, con una certa reticenza. Divenne finalmente, a tutti gli effetti, un paese alleato. Per noi l’Alleanza atlantica fu un esame di passaggio, un esame di maturità». E sin qui siamo ai fatti, in- contestabili, e a un’opinione ormai largamente condivisa. Ma con una memoria storica come quella di Romano, ecco il qualcosa in più: quello che l’autore rivela come «l’aspetto paradossale dell’intera vicenda». Nelle trattative che precedettero l’adesione del nostro paese, proprio gli americani «cominciarono a esprimere parecchie riserve perché temevano, anche se non lo dissero esplicitamente, che l’Italia fosse una palla al piede», mentre «i francesi volevano l’Italia nel Patto perché desideravano che gli americani estendessero le loro responsabilità al Mediterraneo. Fu così che riuscimmo a ottenere l’adesione al Patto atlantico». Ci siamo diffusi su questo episodio perché bene rappresenta lo stile e il dipanarsi del libro. Ricco anche di notazioni personali. Come questa, che lasciamo alla riflessione del lettore: «Gli uomini politici, anche quando hanno le migliori e le più nobili intenzioni, non tengono conto del fatto che la storia, con i suoi disegni difficilmente decifrabili, finisce per produrrre risultati completamente diversi da quelli che essi avevano immaginato». Vogliamo riparlarne tra una decina d’anni? Sergio Romano, L’Italia negli anni della guerra fredda. Dal piano Marshall alla caduta del Muro, Ponte alle Grazie, pagine 166, lire 20.000 “I pensieri sono spiriti in movimento, come le onde del mare che fanno sentire la loro voce infrangendosi sulla riva”: così Romano Battaglia presenta il suo nuovo libro Sulla riva dei nostri pensieri, raccolta di riflessioni disincantate e malinconiche sul fluire delle cose e della vita. “Amo i pensieri”, spiega, “perché nella loro brevità riescono a trasmettere molto più di intere pagine superficiali e vuote. Sono semplici, profondi, facili da ricordare”. Tra la stesura di un libro e l’altro (ultimi volumi usciti, tra il 1997 e il 2000, Con i tuoi occhi, Il dio della foresta, Ho incontrato la vita in un filo d’erba, Serenata al mondo, Il silenzio del cielo, Cielo) Battaglia ha scoperto il gusto dei testi brevi, dei pensieri appunto, che a volte sono pungenti e ironiche osservazioni sulla quotidianità e sulla stupidità che ci circonda, a volte riflessioni sul confronto giovani-anziani (“i giovani conoscono le regole, i vecchi le eccezioni”), sui sentimenti. E anche sulla politica. A proposito della quale scrive: “Mi auguro che mio figlio sia ignorante e insensibile, così avrà una vita serena e, forse, potrà diventare anche un importante uomo politico”. Suddivisi in nove capitoli dai titoli che sono essi stessi un invito alla riflessione (La speranza, come la primavera, rinasce sempre; La vita è come una partita a carte; Amare è l’unica illusione di eternità che ci è conces- montenegrino Dejan Savicevic. I due calciatori giocano nella stessa squadra e sono grandi amici, ma se non fossero stati calciatori, invece di giocare nel Milan in Italia sarebbero saliti sulle montagne e si sarebbero sparati contro, come i cow-boy con gli indiani. Solo che, nota il piccolo Milan nel racconto, “gli indiani hanno i capelli lunghi e la faccia pitturata e non li confondi mica con i cow-boy; i nostri indiani invece erano come noi, uguali uguali, mangiavano il nostro pane”. Il bambino non capisce perché a un certo momento in una terra con tante religioni (musulmani, cattolici, ortodossi) e “sotto un cielo così pieno di dei sia scoppiato l’inferno”. Quando chiede spiegazioni gli viene detto che capirà quando sarà più grande. “Poi finisce che a uno, da grande, gli resta appena il tempo per capire le cose che non ha capito da piccolo. E allora che gusto c’è a crescere?”, s’interroga il protagonista. Il racconto, che si legge tutto d’un fiato, è stato pensato da Garlando qualche anno fa. L’autore, 38 anni, è una delle penne più brillanti della Gazzetta dello Sport; i suoi corsivi mostrano un approfondimento e una comprensione dei fatti che va oltre il semplice evento. A metà degli anni Novanta seguiva per il quotidiano diretto da Candido Cannavò il Milan. Si portava ogni giorno a Milanello, dove i rossoneri si allenano, e parlava con il tecnico e con i giocatori. In quegli anni gli capitava spesso di parlare con Zvone Boban. I colloqui erano lunghi, ma di quelle interviste restava poca traccia nel taccuino del cronista. Si parlava poco del Milan e delle altre squadre del campionato, degli arbitri e di gare-scudetto. Con Boban Garlando parlava soprattutto della guerra in Jugoslavia. Il giocatore, che per il libro La vita è una bomba! ha scritto una bellissima prefazione, ha riconosciuto che “è limitativo definire Luigi Garlando un giornalista sportivo; lui è soprattutto uno scrittore”. Alle lunghe chiacchierate con il calciatore croato vanno aggiunte come fonte di ispirazione la lettura di reportage dalle zone di guerra, come quello scritto dal collega Paolo Condò sulla squadra dello Stoccarda fra il 1996 e il 1997, dove emergeva quale grande valore di libertà assumesse lo sport in un Paese in guerra; contro questa voglia di libertà si accanivano i cecchini, che sparavano contro i ragazzi che, incuranti del pericolo, attraversavano il ponte per andare al Palazzetto a fare sport. La ricerca nel documentato archivio del Corriere della sera ha fatto il resto. Garlando è riuscito a creare un personaggio che si fa volere bene da tutti. Non gli ha creato una storia attorno. Il libro, infatti, non ha una trama vera e propria. La vita è una bomba! non è altro che il racconto dei pensieri che vengono alla mente al bambino il 13 ottobre 1995, giorno in cui è chiamato a comporre il primo tema in lingua italiana. È così che Milan capisce quanto utile sia stata la lettura della Gazzetta all’albergo Holiday Inn di Sarajevo, perché le parole che vengono utilizzate normalmente dai cronisti sportivi gli ritornano utili quando è chiamato a descrivere la guerra. Il libro La di Massimo Cobelli sa…), i pensieri di Romano Battaglia sono affiorati da un metaforico mare della memoria nei momenti più impensati e subito trascritti sul taccuino. Mentre il mare reale, tanto amato dall’autore, con i suoi paesaggi che spaziano sull’infinito, con le spiagge coperte da conchiglie, con i gabbiani in volo, fa da contrappunto allo scorrere della parola attraverso le belle fotografie in bianco e nero di Stefano Sabella intercalate nel testo. “Ho sempre passeggiato sulla riva del mare raccogliendo ogni volta conchiglie, stecchi, bambole rotte”, scrive Battaglia. “Mi è sembrato di vedere in quegli oggetti, depositati dalle onde sulla sabbia, l’intera umanità con i suoi dolori e le sue gioie”. C’è un filo conduttore che tiene insieme queste eterogenee riflessioni: la ricerca di un’antica saggezza, oggi troppo spesso calpestata in una società dominata dalla vanità e dalla ricerca spasmodica del profitto. Scrive l’autore: “Dice un proverbio cinese, un po’ eccessivo: l’uomo veramente saggio è colui che arriva alla fine della vita con i soldi contati per il suo funerale”. Romano Battaglia, Sulla riva dei nostri pensieri, Rizzoli, pagine 142, lire 16.000 vita è una bomba! ha vinto il premio dedicato alla letteratura per bambini, ma, come dice Boban, è più adatto ai grandi. Forse perché attraverso gli occhi ingenui di Milan, bambino che a otto anni ha visto cose che farebbero crollare il mondo addosso a un adulto, il lettore può capire quanto terribile sia stata la guerra nei Balcani, dove sono caduti tanti, troppi bambini. La cronaca di quegli anni era piena di bimbi ammazzati e lasciati sanguinare sulla neve, di bombe lanciate contro le scuole. La scelta di far descrivere la guerra, questa guerra, a un bambino forse può aiutare i grandi a crescere con una maggiore cultura della pace. Luigi Garlando, La vita è una bomba!, prefazione di Zvonimir Boban, illustrazioni di Marco Matis, Edizioni Piemme Junior. Premio Battello a vapore Città di Verbania 2000 ORDINE 7 2001 I Nando dalla Chiesa La partita del secolo di Gianni de Felice Per aver voglia di rivivere una fettina – naturalmente felice – della propria vita, bisogna essere in pace con se stessi, contenti di ciò che si è e di ciò che si è stati; disposti a rifare daccapo tutto ciò che si è fatto, sciocchezze comprese, ed a riconoscere senza imbarazzo di avere l’animo attraversato da una profonda vena romantica. Ma come confessarlo, se è finita da un pezzo l’età di certe debolezze, si è deputati in Parlamento, si insegna sociologia economica all’università e si ha un labbro fisionomicamente conformato a broncio? Semplice: si mette al microscopio una notte memorabile per sé e per milioni di connazionali e si rivede in riflessione reciproca, come in un gioco di specchi, se stessi e gli altri: un giovane e una città, un paese, un momento, una generazione. Notte storica, anche se la storia è poi quella – apparentemente futile – di una partita di calcio stramba, straordinaria e vinta. Uno studente della Bocconi la vede, ancora in bianconero, su una tele del pensionato universitario. La celebra scendendo subito dopo, in una notte di giugno, in piazza con migliaia di gente. E la studia dopo trent’anni, rileggendone le cronache. Spiandone mosse, gesti, reazioni e i commenti di un telecronista fervidamente presago. Passando e ripassando la videocassetta sul registratore. Parlandone con un protagonista in campo, che ora siede – come lui – in Parlamento: giusto trascurare un intervento a Montecitorio di cui nessuno dirà mai nulla, per rievocare momenti che hanno fatto invece scorrere fiumi d’inchiostro e torrenti di parole. Riparlandone con un protagonista in piazza: il poliziotto, divenuto poi questore e prefetto, che quella notte faceva servizio d’ordine e finalmente vide, a volti scoperti, i ragazzi dell’eskimo e del passamontagna. Il “sessantottino” d’allora scopre così che per gli Italiani casinisti c’è gusto doppio a battere i Tedeschi perfezionisti, che si può andare in piazza e fare corteo anche per essere non “con- tro” ma “con”, che anni di lacrimogeni e di marxismo-leninismo non tolgono il compiacimento – non dico il brivido – per un tricolore sbandierato; che il protagonista, Gianni Rivera, confessa che il ricordo suo più bello non è quella partita ma “i tornei all’oratorio, dove si amava il calcio per il calcio” ed è convinto che quella partita l’ha vinta, proprio perché l’ha giocata con lo spirito dell’oratorio. Con l’amore del calcio per il calcio. Con il coraggio. Ero all’Azteca quella notte. Evento e personaggi – fra molti dei quali, da Rivera a Schnellinger, al prefetto Lucchese, ho cari amici – sono perfettamente restituiti al lettore. Ma attenti: La partita del secolo – Storia di Italia-Germania 4-3 di Nando dalla Chiesa non è storia solo per sportivi, già informatissimi: i pignoli possono perfino eccepire che il nome di Mandelli è Walter, non Pasquale, e che Anastasi non partì neppure: restò in Italia per una perfida torsione di testicolo, non per appendicite. Questa bella rivisitazione è piuttosto storia per ignari di calcio, desiderosi di scoprire come infinito e coinvolgente sia – aldilà della tecnica – l’universo di una “semplice” partita di calcio; e di capire perché “quella” partita segnò, con l’Italia in piazza finalmente per gioire e non per lottare, uno spartiacque tra la stagione romantica della disarmata contestazione studentesca, della libertà femminista, dell’affermazione anti-razzista (il guanto nero di Carlos e Smith sul podio olimpico di Messico ‘68) e la stagione tragica – presto annunciata dal primo choc petrolifero – del terrorismo palestinese, latinoamericano, italiano. Qualcuno dice che la Grande Emozione calcistica si fermò su quel crinale. Spero che abbia torto. Ma ogni domenica che passa in tivù e ogni tuffo nel calcio che fu – come questo di cui sono grato a Nando dalla Chiesa – rendono, ahimè, la mia speranza più flebile. Nando dalla Chiesa, La partita del secolo. Storia di Italia-Germania 4-3, Rizzoli, pagine 190, lire 27.000 L’ECO DELLA STAMPA ECO STAMPA MEDIA MONITOR S.R.L. Via Compagnoni 28, 20129 Milano Tel. 02 74 81 131 - Fax. 02 76 11 03 46 ORDINE 7 2001 N O S T R I L U T T I Nicola Cattedra, il dovere e la capacità di indignarsi Morto Mario Tortello difensore dei “deboli” Torino, 12 giugno - Mario Tortello, giornalista del quotidiano La Stampa di Torino, è morto oggi pomeriggio colto da un malore improvviso subito dopo aver parcheggiato l’auto nel garage del giornale. Avrebbe compiuto 52 anni il 28 ottobre di quest’anno. Tortello, che era sposato con una docente universitaria ed aveva una figlia di 15 anni, lavorava come redattore agli interni. Si occupava, in particolare, di scuola. Impegnato sui grandi temi sociali in difesa delle fasce più deboli, Tortello aveva sempre mostrato particolare sensibilità sul tema dei diritti dell’ infanzia. Oltre ad essere direttore di un prestigioso mensile giuridico-pedagogico sull’ handicap e l’integrazione scolastica, da molti anni faceva parte del Gruppo Interprofessionale Minori-Informazione che da anni opera a Torino per difendere la privacy dei bambini. Da due anni, inoltre, aveva un incarico da insegnante presso la facoltà di Scienze della formazione. (ANSA) di Guido Vergani I ragazzi dell’Ora di Palermo hanno ricordato il suo semplice coraggio, il suo saper dirigere senza stare un palmo sopra i propri redattori. Uliano Lucas, un grande fotografo che ha lavorato con lui al settimanale Tempo, ha raccontato il suo spirito libero. Lo scrittore, l’artista Emilio Isgrò ha detto che quella sua libertà ha giovato agli altri, a noi suoi compagni di strada, non alla sua serenità di carriera. Io ricordo un amico a cui il mio temperamento, portato forse troppo al sorriso e all’accomodamento, deve una lezione di vita e di mestiere: il dovere e la capacità di indignarsi, di non cedere all’italianissimo “chi te lo fa fare?”, di credere che questa nostra professione possa almeno minimamente incidere, di andare sotto le apparenze e le verità ufficiali. Nicola Cattedra arrivò nel 1969 al Tempo, la più vecchia testata settimanale italiana, dopo essere stato un artefice del successo di Paese Sera nell’epoca del caso Montesi e il responsabile degli inserti - allora, li si chiamava “speciali” - di cui Il Giorno di Italo Pietra fu pioniere nel panorama dei quotidiani. Al giornalismo, era approdato dalla militanza politica nel Pci dopo una stagione di bohème, di darsi freneticamente alla vita che, una sera, gli aveva tolto padre, madre e sorella, uccise da un bombardamento alleato su Bari. Alle Frattocchie, la scuola di partito, s’era presentato, giovanissimo, con un bottiglione d’acqua di colonia e due valigie di cuoio grasso, troppo sfacciatamente borghesi. Lo misero a lavorare a Botteghe Oscure, sullo stesso piano di Togliatti e di Robotti, il cognato del Migliore, che - raccontava - stava al buio in un ufficio, rigido davanti a una vuota scrivania: rigido perché le torture alla Lubianka gli avevano fatto a pezzi la spina dorsale e dove- va portare un busto di ferro. Dal Pci era uscito poco dopo i fatti d’Ungheria del 1956. Al Tempo era l’ultima stagione di Arturo Tofanelli che lo dirigeva da oltre vent’anni e che perdonate un altro ricordo d’affetto mi aveva preso per mano nella professione. Cattedra gli subentrò mentre il Paese stava cominciando a vivere anni di grandi trasformazioni e già entrava nel tunnel di quella che venne definita la “strategia delle tensione”. Tempo raccontò quella stagione con grande coraggio politico e lucidità, aprendosi anche a temi che parvero di costume e che sarebbero diventati addirittura ideologici come l’ecologia. Anche in politica estera, l’attenzione si concentrò sull’Europa Nera: la Spagna ancora franchista, il Portogallo ancora per poco salazariano, la Grecia dei colonnelli. La rubrica di commenti che era stata di Malaparte fu affidata a Pier Paolo Pasolini (il Corriere di Piero Ottone e di Gaspare Barbiellini Amidei lo portò più tardi in prima pagina) e, successivamente, a Giorgio Bocca. Nel 1974, finì quell’avventura anche per la troppa indipendenza della direzione. Cinque anni dopo, Cattedra fu chiamato a dirigere L’Ora di Palermo, il quotidiano più radicalmente nella trincea della lotta antimafia. Erano tempi difficilissimi per quel giornale. Nicola lo fece bene, con passione, con rigore e con quattro lire, con una pattuglia di giornalisti, giovani, quasi ragazzi, che divennero grandi e bravi alla sua scuola di mestiere, di generosità, di slanci. Hanno scritto che assomigliava a Orson Welles. Aveva una testa da antico romano. Qualcuno al Giorno, sfottendolo, lo chiamò Tigellino, l’ombra di Nerone, ma sapendo che Nicola non aveva un Nerone e non aveva lati oscuri, ambiguità. Era un uomo diretto, leale che, pagandola, ha vissuto sempre a braccia aperte, generosamente. L E T T E R E Avanti, magari migliorando lo stile Milano, 30 giugno 2001 Caro Presidente, non conosco la risposta della gentile signora Letizia Gonzales alla lettera firmata Stefano M. (“Bravo, continua così!”, Ordine/Tabloid di giugno 2001) ma, se fosse stata rivolta al sottoscritto, gli avrei detto poche ma ferme cose: 1) scrivere oltre quattromila battute per una sola domanda finale - ma qual è il mio futuro? - mi sembra davvero eccessivo; 2) moderare l’uso delle parentesi, dal momento che ne ho contate ben tredici; 3) evitare di mettere in risalto, per ben tre volte, la propria bravura; 4) rifuggere, anche se si tratta di un giovane, dall’uso di espressioni banali o gergali alla maniera di “Whow...”; 5) rileggere sempre i propri scritti onde non lasciarsi sfuggire espressioni sconnesse tipo “a me, che oltre il confine di Magenta non mi conosce nessuno!”, oppure “Europress avrebbe potuto spiegarmi di cosa diamine si tratta essendo io a conoscenza che il periodico dell’Ordine è Tabloid, ma, magari, mi sbaglio”; 6) spiegare a cosa alludesse denunciando: “c’è gente che s’impossessa delle mie notizie per farle apparire in bella mostra nelle pagine di quotidiani appaganti”; 7) cancellare dal proprio lessico “il” Casagit, trattandosi di un’affabile Cassa e non di un grossolano Cassone; 8) infine, ringraziare Iddio per la condizione di studente-lavoratore, che gli permette di incassare già un milione e settecentomila lire al mese. Adesso pensi soltanto ad andare avanti, magari migliorando lo stile, e senza dubbio farà - con un po’ di umiltà, la grinta non manca - una splendida carriera! Giacomo de Antonellis 21 (25) M E M O R I A Voglia di Brera Un uomo e il suo mondo Una mostra a Salice Terme ha ricordato il mitico “Gioannbrerafucarlo”. Mentre per il decennale della morte, l’anno prossimo, sono in cantiere altre iniziative. Per non dimenticare “Gioannbrerafucarlo, un uomo, il suo mondo” è il titolo della mostra fotografica dedicata a Gianni Brera tenutasi a Salice Terme (Pavia) e realizzata da Evaristo e Alberto Fusar, in collaborazione con l’assessorato alla Cultura della Provincia di Pavia. La rassegna ha ripercorso tutta la vita del grande giornalista e scrittore pavese: dagli anni di studio al liceo Taramelli di Pavia e all’università, alle partite di calcio nelle squadre della periferia milanese, dal servizio militare all’esordio e al successo nel giornalismo e nella letteratura. Molte le istantanee dei felici momenti di vita privata, per esempio nella sua cantina di Pusiano o mentre falciava l’erba al suo paese natale, San Zenone Po, nella Bassa Pavese. Le fotografie che pubblichiamo in queste pagine sono tratte dalla mostra (Fusar Video, Ottobiano, Pavia). di Pilade del Buono “C’invidiano, dunque siamo”. Chi frequenta il freschissimo Palazzetto dello sport di Broni (complimenti e auguri) fatalmente s’imbatte nel detto breriano, raccolto in una piccola targa, prossima all’ingresso. Il compito di far affiorare qualche sua non marginale parola, sintesi dei milioni prodotte in oltre mezzo secolo di lavori forzati, era stato affidato a un breriano doc e compagno di mille avventure, Giulio Signori. Il tragico incidente automobilistico nel quale, oltre a Giovanni, hanno perso vita due amici fraterni, Pietrino Mauri e Vittorio Ronzoni, è avvenuto all’alba del 19 dicembre del 1992 nelle strade di casa, dunque quasi nove anni fa. Era un sabato. Due giorni prima aveva partecipato all’ultimo Giovedì, tenuto come sempre al ristorante Riccione di Giulio Metalli - e prima di lui dei fratelli Tonino e Gino -, tutti ora assenti all’appello (Giovedì che rappresentava, e rappresenta ancora, a mezzo secolo di distanza, l’appuntamento conviviale di un gruppo di amici che stavano e stanno bene assieme e che di Brera avevano fatto, per così dire, la loro ragione sociale). Nella settimana precedente Paolo Mieli gli aveva spalancato le porte del Corrierone. Il Corriere rappresentava la tappa, dolorosamente mancante, alla sua carriera di scrittore lombardo di cose sportive e non sportive (dopo aver nobilitato Gazzetta, Giorno, Giornale e Repubblica), in attesa di potersi dedicare compiutamente alla dolce fatica dei libri. Ma aveva 73 anni, festeggiati come al solito nella villa sul lago di Pusiano (per brindare Vittorio Moretti aveva portato dalla Franciacorta le sue preziose bollicine), e Repubblica non meritava un tradimento dopo dieci anni di corrisposta fedeltà, alla vigilia soprattutto del varo del numero del lunedì che lo avrebbe nuovamente spinto nell’arena, pronto a brandire il telefono e ad avventurarsi in cronache scintillanti, non importa se strimpellate sulla Olivetti d’ordinanza o improvvisate a braccio. Per questo, sicuramente commosso, respinse l’offerta del numero 1 di via Solferino. “Ora però, Pilaffio - mi disse quell’ultimo giovedì dovremo chiedere un sostanzioso conquibus a don Eugenio per il mio sacrificio...”. Sorridendomi, chiese conforto al mio senso pratico: quella richiesta non avrebbe mai raggiunto, ammesso che davvero fosse partita, la scrivania romana direttoriale di Eugenio Scalfari. Il giorno successivo infiammò un dibattito medico e s’avviò infine per la sua ultima cena. Una cosa è certa. Lo sport sporco che negli ultimi tempi emergeva, lo metteva a disagio. “Ero a un Giro di Francia, e non avveniva nulla. Facevamo una pena negra dopo gli anni gloriosi di Bartali e di Coppi. Quindi ho cercato spunti guardando l’Altro pedalare (e ricordati di mettere la maiuscola sulla a!) in certi protagonisti che poi sarebbero saltati su una mina di sicuro. Il primo dei quali era Robic, poi lo stesso Poblet che voleva fare il bullo...”. Così disse in una intervista per il Sole-24 Ore dell’87. Amava visceralmente la pratica agonistica pulita e il doping - Ben Johnson e il suo sprint drogato non avrebbero abbandonato per giorni e giorni le prime pagine di ogni rispettabile giornale un anno più tardi e niente, dopo, sarebbe stato come prima - incarnava la presenza dell’ignobile mostro che presto o tardi avrebbe dovuto affrontare. Ci si potrebbe chiedere, a nove anni, come la sua assenza abbia influenzato il dibattito sportivo. Rappresenterebbe forse un pretesto interessante - cosa avrebbe scritto e sostenuto oggi -, ma l’argomento sino a questo momento non ha trovato sponsor. Pure, la presenza di agguerritissimi “Senzabrera” (copyright di Gianni Mura, la Repubblica, domenica 19 dicembre 1993, a un anno esatto della tragedia) renderebbe corposo il tema, non solo sul versante pedatorio, e in proposito è doveroso aggiungere altri e due o tre nomi nomi di primissima fascia a quelli già affiorati di Signori e Mura: Mario Fossati, il collega più amato, Gianni Clerici, Rolly Marchi e anche Rino Tommasi, scremati da una succosa platea di fedelissimi che mi guarderò bene dal comporre per evitare inevitabili, colpevoli omissioni. In verità la voglia di Brera, alimentata soprattutto dalla sua terra, non si è mai sopita e le iniziative in cantiere per il decennale - i figli Paolo e Franco inevitabili punto di riferimento - non si contano. Se ne ebbe già percezione nella serata di Ruth Shammah al teatro Parenti, nella ripubblicazione di molteplici suoi testi ad opera della Baldini & Castoldi con la regia di Oreste del Buono come in occasione di premi letterari, tornei pedatori e gastronomici a lui intitolati; una voglia che ha portato da tempo il Gazzettino di Venezia, e ora il suo Giorno, a ripercorre il cammino breriano, esplorando un fenomeno dei nostri tempi. L’ultima domenica di aprile, domenica 29 aprile, la parrocchia breriana si è data appuntamento a Broni la mattina e a Salice Terme il pomeriggio. A Broni dove il sindaco ha voluto intestare il nuovissimo Palazzetto dello sport al Principe della zolla (in attesa Gianni Brera nel 1992, pochi mesi prima della tragica morte, con le testate con le quali ha più strettamente collaborato. che il suo omologo milanese, Gabriele Albertini, si ricordi della vecchia promessa, l’Arena), e a Salice Terme dove la premiata ditta Fusar & Fusar ha raccolto una prima, ricca, sintesi iconografica. La grande stampa, a partire dalla Gazzetta dello Sport che vide per quasi cinque anni la rivoluzionaria regia dello scrittore pave- se, ha dato sempre puntuale riscontro. Forse, chissà, un giorno di Brera si ricorderanno anche gli eroi da lui creati, legittimati e sublimati, puntualmente e rigorosamente assenti alla cerimonia di San Zenone. Ma si sa, dicembre è un mese freddo, che sconsiglia scomodi viaggi. Chi parte, dovrebbe tenerne conto. Gianni Brera paracadutista a Pisa, nel 1942, e, a destra, nel 1952 con i figli Carlo e Paolo. 22 (26) ORDINE 7 2001 Pubblichiamo l’articolo di Gianni Mura uscito in prima pagina su “la Repubblica” del 20 dicembre 1992 A centro pagina: 1946, Gianni Brera, dopo una partita di calcio a Lugano. Ti sia lieve la terra, Giovanni. Comincio come avresti concluso tu se fossi morto io, come hai concluso tante volte i coccodrilli. Sono pezzi che toccano ai più vecchi, o a quelli che hanno più memoria, e del calcio di Repubblica il più vecchio adesso sono io. E comincio a capire il peso che hanno i coccodrilli, e mi viene in mente di quando tu mi hai raccontato della morte di Consolini, il discobolo. L’ avevi saputo che stavi in America, e ti eri messo a piangere e a imprecare, da solo, nel parcheggio di un motel di Dallas, o forse era Chicago. Adesso qui a Malta è quasi uguale, solo che c’è il mare oltre il parcheggio, e molto vento, Giovanni. Ti chiamo così perché l’ ultima volta che ci siamo visti, la settimana scorsa, hai scherzato sui nostri nomi, sul Gianni piccoloborghese imposto da zie, sorelle o madri. Mi hai anche regalato due pacchetti di Super col filtro, la solita generosità, in un momento di astinenza forzata. Qui ti piangono e ti rimpiangono, li conosci tutti e tutti ti conoscevano. E molti dicono la cosa più ovvia, che se venivi qui non eri su quella strada tra Codogno e Casal Pusterlengo. Dove finisce il territorio dei gallo-liguri e inizia quello dei celti, Giovanni? Qui sappiamo così poco e ognuno si taglia coi suoi ricordi. Io ne ho tanti. Per cominciare, ti devo la scelta del lavoro, se tu non avessi scritto come scrivevi, sul Giorno, oggi sarei un insegnante di lettere o di francese, in qualche scuola lombarda. E scrivevi come vivevi, da persona piena di umori e di amori, con una cultura larga e profonda che andava dalla pesca degli storioni all’ uso del verso alessandrino. E le invenzioni, Giovanni, i neologismi. Ne hai inventate di parole. Ti avevo chiesto un appuntamento nel ’65, in Gazzetta ero il ragazzo di bottega, per capire qualcosa di questo mestiere, degli strumenti da usare. E venendo da te sentivo di non tradire Gualtiero Zanetti, il mio direttore: eravate amici, sulla stessa linea ideologica, vi univa Il tesserino di immatricolazione di Gianni Brera studente universitario. di Gianni Mura Ti sia lieve la terra... Nereo Rocco. “Venga sul lago verso le 11, poi parliamo”. Mi aveva colpito l’ uso del lei. E, poi, il fatto che appena arrivato tu mi chiedesti di aiutarti a raccogliere le uova, facendo attenzione a un’ oca feroce ribattezzata De Gaulle. Questo Brera inventa anche sulle oche, pensavo, e in verità l’ oca somigliava molto al generale, e intanto stavo attento a non scivolare sul pesticciato del pollaio. E per un pomeriggio ero stato ad ascoltarti spiegare tutto, anche cose non richieste, anche la tua nascita settembrina col fatto che nella Bassa Pavese le donne non potevano uscire a lavarsi, d’ inverno, per il freddo, post coitum. E la laurea in scienze politiche (figlio di un sarto povero, ma tutti i figli mandati all’università, perché il pezzo di carta avrebbe dato pezzi di pane), e i paracadusti, e la Resistenza senza sparare un colpo, e il pallone preso a calci con la maglia dei Boys a Milano, con Cina Bonizzoni allenatore. Lo sport. Certo sapevo che eri stato direttore della Gazzetta, a trent’ anni, e te ne eri andato sbattendo la porta per una bega amministrativa. Non sapevo, me lo avresti detto tu, che lo sport aveva due tipi di cantori: quelli che definivi i professori, gli epigoni del Vate Gabriele, digiuni di tecnica ma ben provvisti di parole alate, e gli scribi, i cronisti, quelli che seguivano lo sport da vicino, con qualche nozione ma senza lingua, senza le parole adeguate. E tu con coscienza e scrupolo artigianale (ma io non dimentico tutti i libri che hai in casa) avevi inventato una lingua viva, piena di venature, di rimandi, come uno che aveva letto Runyon ma anche Folengo. Eri nato con l’ atletica e il ciclismo, sapevi raccontare gli uomini e le strade. È sempre più dura, Giovanni, con questo pezzo spezzato dalle telefonate e dai colleghi che mi chiedono un ricordo di te. Uno della Rai mi ha presentato come tuo erede e so che ne era convinto, ma io non voglio. Mi è venuto in mente e mi sono commosso, ma con un microfono sotto il naso non si può piangere, di quando tu hai detto a tua moglie Rina, guardandomi: ma hai visto il profilo del naso di Giovannino, la barba? Potrebbe essere nostro figlio, sputato. Sì, aveva detto la Rina, che ha occhi di un azzurro incredibile. E adesso io vorrei essere vicino a lei, non qui. Mentre sta suonando una banda. Io non sarò il tuo erede, Giovanni. Siamo onesti, come te non c’ è stato nessuno e non ci sarà più nessuno. Mica solo per lo sport. Se c’è un libro di gastronomia da salvare, è La pacciada, che hai scritto tu con Luigi Veronelli. Che adesso starà bevendo in memoria tua. Se si vuol capire qualcosa di ciclismo, degli anni eroici del ciclismo, bisogna leggere Addio bicicletta, l’hai scritto tu un sacco di anni fa. E pochi letterati da Strega e da Campiello avrebbero descritto il paese di Coppi come hai fatto tu. Io non sarò il tuo erede, ma continuerò a portarti in giro, Giovanni. Lo facevo già prima, lo farò ancora. Lo facevamo in tanti. Anche venerdì sera, a tavola con gli altri di Repubblica, ci siamo chiesti se quel Cabernet Sauvignon maltese a te sarebbe piaciuto. No, ho deciso io, non ti sarebbe piaciuto. È strano, ma negli ultimi tempi ci si vedeva poco, proprio adesso che lavoravamo nello stesso giornale. Ma era normale, se tu stavi a San Siro io andavo a Torino, se tu eri a Roma io a Parma, se io ero a Malta, tu fra Codogno e Casal Pusterlengo. E adesso che sta partendo il pullman per lo stadio, in un sole assurdo. Non sappiamo nemmeno se c’era nebbia lì, a quell’ ora, ma non importa. Ricordo di quanto avessi paura, in macchina, tu, e come strillavi appena si passavano i 120 in autostrada. Conosco anche quelli che sono morti con te, ci abbiamo mangiato assieme e giocato a carte, da Giuliano. Sei morto come avresti sperato, ammesso che si possa sperare di morire, il come se non il quando. Tu che giravi pieno di pilloline contro tutto, nel tuo leggendario borsello di pelle d’ ippopotamo, hai evitato l’ orrida vecchiezza, dicevi tu, l’ infermità, il bussare insistente della signora dai denti verdi. Sei morto come auguravi ai tuoi eroi sportivi, assunti in cielo su un carro di fuoco. Non sei morto di cuore né di fegato né di polmone, Giovanni, tu che fumavi cento sigarette al giorno e non parliamo di quello che hai bevuto, oppure parliamone, e parliamo del culo che ti sei fatto sgobbando fra le stanghe della Olivetti (il computer mai, avevi ragione tu, non fa rumore, ti cambia le parole già in testa) da più di cinquant’ anni. Sei morto con gli amici, come avevi vissuto. Non è il maestro di giornalismo che ci manca, né il suscitatore di polemiche sempre affrontate a testa alta. Ci manca il compagno di strada e d’avventure, anche avventure intorno a un tavolo che era la rampa di lancio per sentirti raccontare delle storie, poteva essere Alarico o Girardengo, eri tu che le raccontavi, e chi ti poteva contestare la data della dieta di Worms? O la vera ricetta della zuppa alla pavese? Solo una volta ti ho beccato, su un vino di Giacomo Bologna, morto anche lui, fegato. Anche lui ricco d’avventure e di umanità. Passa il tempo e si fa la conta e i debiti coi morti sono i più difficili da pagare. Ne ho tanti, da oggi uno in più. Per esempio, se hai bisogno chiamami, non te lo sentirò più dire. Se mi ammalo farò come il cinghiale solengo, che si apparta e non vuole vedere più nessuno, dicevi. Ti è andata bene, è forse l’ unica consolazione, amico, maestro, pezzo di cuore che se ne va. Sei morto nella Bassa, vicino a dove sei nato. Non avrei mai voluto scriverne. Dicevi che non si deve scrivere barocco, anche se un po’ è inevitabile, nello sport: il muscolo si gonfia come il lessico. Come il cuore, Giovanni, come il cuore. Anche la morte può aprire autostrade di retorica. Ma questo oggi ti devo: la coscienza che non si può essere avari, nella vita e nel mestiere, che bisogna spendersi, meglio dieci righe in più che dieci in meno, semmai qualcuno le taglierà. Meglio un’ ora in più con gli amici che un’ ora in meno. Meglio il fiotto che la goccia. Meglio il rosso che il bianco. Meglio la sincerità, anche quando può far male, che la reticenza o la bugia. E adesso basta, tiremm innanz, come ha detto uno della tua sponda. Quel po’ di strada che c’è ancora da fare la faremo insieme, tu non ti stancherai, neanche al Tour. E io se sentirò un peso al petto o un bruciore agli occhi darò la colpa alle sigarette, al vino, ai chilometri. Sto dettando dallo stadio Ta’ Qali, gioanbrerafucarlo, siamo già partiti. 1984, Brera in compagnia di Ottavio Missoni e Andrea Cascella, e, a destra, nella cantina della sua villa a Bosisio Parini (Como), sul lago di Pusiano. ORDINE 7 2001 23 (27) Richiesta del presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia ai ministri dell’Economia e della Giustizia, Tremonti e Castelli Gli iscritti agli Ordini professionali devono votare in un solo giorno convocati con avviso per posta prioritaria Milano, 2 luglio 2001. Regole vetuste e pesanti disciplinano le elezioni degli Ordini e dei Collegi professionali. I sistemi elettorali stabiliscono addirittura due votazioni in prima (con la presenza impossibile del 50,1% degli aventi diritto al voto) e in seconda convocazione e una terza di ballottaggio. In ogni singola votazione le urne restano aperte soltanto per otto ore. Questo sistema arcaico riflette le indicazioni del Decreto legislativo luogotenenziale (Dlgslgt) 23 novembre 1944 n. 382 (firmato da Umberto di Savoia, luogotenente del Regno d’Italia), che, all’articolo 3, prevede la convocazione delle assemblee “mediante avviso spedito per posta”. Le leggi successive delle singole professioni hanno aggravato le procedure, stabilendo che la convocazione va fatta “mediante avviso per posta raccomandata”. Anche l’approvazione dei bilanci degli Ordini e dei Collegi passa attraverso la convocazione (con raccomandata agli iscritti) di un’assemblea. Nel corso del 2001, soltanto l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha speso £ 150 milioni per la convocazione delle due assemblee (bilanci e votazioni). Franco Abruzzo ha chiesto, appena rieletto, la riforma immediata di queste regole ai ministri dell’Economia e della Giustizia, Giulio Tremonti e Roberto Castelli. La convocazione delle assemblee può avvenire con lettere spedite per posta prioritaria e si può votare, come per le politiche, in un solo giorno per 16 ore di fila. L’istanza avanza la “richiesta di modifica (da introdurre nella legge finanziaria per il 2002) di norme relative agli Ordini e ai Collegi professionali, stabilendo che la convocazione delle assemblee (sia per l’approvazione dei bilanci e sia per il rinnovo delle cariche) avvenga in un’unica tornata (della durata massima di 16 ore) e mediante avviso spedito per posta prioritaria, pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica e annuncio sul più diffuso dei giornali della regione o della provincia di riferimento”. Questo il testo della lettera, che è stata trasmessa anche al sottosegretario all’editoria Paolo Bonaiuti e al presidente del Cup (e del Consiglio nazionale forense) Emilio Nicola Buccico: Premessa L’articolo 4 della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica (Elezione dei Consigli dell’Ordine) dice: “L’assemblea per l’elezione dei membri del Consiglio deve essere convocata almeno venti giorni prima della scadenza del Consiglio in carica. La convocazione si effettua mediante avviso spedito per posta raccomandata almeno quindici giorni prima a tutti gli iscritti, esclusi i sospesi dall’esercizio della professione”. L’articolo 15 afferma che le stesse regole (avviso spedito per posta raccomandata) si applicano all’assemblea (prevista dall’articolo 13) per l’approvazione del bilancio preventivo e del conto consuntivo, che ha luogo nel mese di marzo di ogni anno. Il sistema elettorale prevede addirittura due votazioni in prima (con la presenza impossibile del 50,1% degli aventi diritto al voto) e in seconda convocazione e una terza di ballottaggio. In ogni singola votazione le urne restano aperte soltanto per otto ore. Questo sistema arcaico riflette le indicazioni del Dlgslgt 23 novembre 1944 n. 382, che, all’articolo 3, prevede la convocazione delle assemblee “mediante avviso spedito per posta”. Le leggi successive delle singole professioni hanno aggravato le procedure, stabilendo che la convocazione va fatta “mediante avviso per posta raccomandata”. La convocazione delle assemblee mediante raccomandata: le spese 2001 dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia. Nel 2001 l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha affrontare le spese “per raccomandate” sia per la convocazione dell’assemblea di marzo (approvazione dei bilanci) e sia per quella delle assemblee di maggio/giugno (elezioni), spendendo complessivamente oltre 150 milioni. Gli iscritti (professionisti e pubblicisti), aventi diritto al voto, erano 15.164. Bisogna moltiplicare tale numero per £ 5mila (il costo della singola raccomandata) e per 2 (numero delle assemblee). L’utilizzazione della posta prioritaria avrebbe ridotto le spese complessive a poco più di 36 milioni (£ 1.200 per ogni singola lettera). I quattrini impiegati per la convocazione della assemblee con raccomandata mettono a dura prova gli equilibri dei bilanci dei singoli Ordini e Collegi e sottraggono risorse utilizzabili ad esempio sul fronte dell’aggiornamento professionale. Proposta operativa Chiedo all’onorevole ministro dell’Economia, operando di concerto con il ministro della Giustizia, di introdurre nella legge finanziaria per il 2002 un emendamento, che suoni grosso modo così: “Le assemblee degli Ordini e dei Collegi professionali per l’approvazione dei bilanci e per l’elezione dei membri dei Consigli devono essere convocate almeno venti giorni prima della scadenza dei Consigli in carica. La convocazione si effettua mediante avviso spedito per posta prioritaria almeno quindici giorni prima a tutti gli iscritti, esclusi i sospesi dall’esercizio della professione; mediante pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica e annuncio sul più diffuso dei quotidiani della regione o della provincia di riferimento. L’avviso deve contenere l’indicazione dell’oggetto dell’adunanza, e stabilire il luogo, il giorno e le ore (non più di 16) dell’adunanza stessa, in unica convocazione. L’assemblea è valida qualunque sia il numero degli intervenuti”. Confido che i Signori Ministri in indirizzo vogliano esaminare con attenzione le proposte formulate e promuovere l’iniziativa riformatrice del Governo ai sensi dell’articolo 71 (primo comma) della Costituzione. Restando a disposizione per un incontro e per ogni opportuno approfondimento invio cordiali saluti, Il presidente dell’OgL dott. Franco Abruzzo”. Ordine/Tabloid Elenco speciale: illecita l’autocertificazione Pubblichiamo la lettera che il 22 giugno 2001 Franco Abruzzo ha indirizzato ai presidenti dei Tribunali della Lombardia: Segnalano a quest’Ufficio che appartenenti all’Elenco speciale dei direttori responsabili di periodici o riviste a carattere tecnico, professionale o scientifico (articolo 28 della legge n. 69/1963) registrano presso i Tribunali della Lombardia nuove testate, attestando l’avvenuta iscrizione a detto Albo. Chiedo ai Signori Presidenti dei Tribunali in indirizzo di mettere in allarme le rispettive cancellerie, perché la procedura sopra riportata è illegittima e illecita. Spetta al Consiglio dell’Ordine certificare di volta in volta che le nuove testate abbiano i requisiti previsti dalla legge. In sostanza non è possibile a nessuno autocertificare l’iscrizione all’Elenco speciale, in quanto la predetta iscrizione è valevole unicamente per una determinata testata. Richiamo la cortese attenzione dei Signori Presidenti sul testo dell’articolo 28 della legge (Elenchi speciali): “All’Albo dei giornalisti sono annessi gli elenchi dei giornalisti di nazio- 24 (28) Lettera del presidente dell’Ordine ai presidenti dei tribunali della Lombardia sull’Elenco speciale dei direttori responsabili di periodici o riviste a carattere tecnico, professionale o scientifico (articolo 28 della legge n. 69/1963) In caso di registrazione di nuove testate presso i Tribunali non vale l’autocertificazione della pregressa iscrizione all’Elenco speciale per testata diversa nalità straniera, e di coloro che, pur non esercitando l’attività di giornalista, assumano la qualifica di direttori responsabili di periodici o riviste a carattere tecnico, professionale o scientifico, esclusi quelli sportivi e cinematografici. Quando si controverta sulla natura della pubblicazione, decide irrevocabilmente, su ricorso dell’interessato, il Consiglio nazionale dell’Ordine”. Dal secondo comma dell’articolo 28 si arguisce che potrebbero nascere, quindi, conflitti sulla natura delle pubblicazioni. I giudici di questi conflitti sono in prima battuta i Consigli regionali dell’Ordine, mentre in seconda (e irrevocabile) battuta si pronuncia il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti. Ne consegue logicamente che l’iscrizione ottenuta per la testata alfa non significa che automaticamente la stessa sia estensibile alla testata beta. Rimane inalterato il potere del Consiglio di valutare testata per testata se ricorrono i presupposti dell’articolo 28 della legge n. 69/1963. Ringrazio per l’attenzione e saluto cordialmente, dott. Franco Abruzzo ORDINE - TABLOID periodico ufficiale del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Mensile / Spedizione in a. p. (45%) Comma 20 (lettera B) art. 2 legge n. 662/96 Filiale di Milano - Anno XXXII Numero 7, luglio-agosto 2001 Direttore responsabile Condirettore FRANCO ABRUZZO BRUNO AMBROSI Direzione, redazione, amministrazione Via Appiani, 2 - 20121 Milano Tel. 02/ 63.61.171 - Telefax 02/ 65.54.307 Segretaria di redazione Teresa Risé Consiglio dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo, presidente; Brunello Tanzi, vicepresidente; Letizia Gonzales, consigliere segretario; Davide Colombo, consigliere tesoriere. Consiglieri: Bruno Ambrosi, Sergio D’Asnasch, Liviana Nemes Fezzi, Cosma Damiano Nigro, Paola Pastacaldi. Collegio dei revisori dei conti Alberto Comuzzi, Maurizio Michelini e Giacinto Sarubbi Coordinamento grafico di Ordine - Tabloid Franco Malaguti Marco Micci Stampa Stem Editoriale S.p.A. Via Brescia, 22 20063 Cernusco sul Naviglio (Mi) Registrazione n. 213 del 26 maggio 1970 presso il Tribunale di Milano. Iscritto al n. 983/ 1983 del Registro nazionale della Stampa Comunicazione e Pubblicità Comunicazioni giornalistiche Advercoop Via G.C.Venini, 46 - 20127 Milano Tel. 02/ 261.49.005 - Fax 02/ 289.34.08 La tiratura di questo numero è stata di 21.500 copie Chiuso in redazione il 9 luglio 2001 ORDINE 7 2001
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che purtroppo hanno tempi di distribuzione biblici, in particolare a
Milano dove il giornale è arrivato dopo due mesi! Ma parliamo di questo
numero che spero arrivi almeno prima della fine di marzo...