1 Il problema metodologico è di assumere le enunciazioni dell
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1 Il problema metodologico è di assumere le enunciazioni dell
Il problema metodologico è di assumere le enunciazioni dell’artista come prove fondanti della sua estetica: senza far emergere gli aspetti conflittuali e contraddittori insiti nella proiezione di Barney verso un’opera potenziale, trasformativa da un nucleo, una transizione per divenire altro “ just a rehearsal for something else” come riporta Cosetta Saba 8 p.2). Barney sarebbe un artista che elabora dei concetti come criteri ordinatori della sua produzione Si tratta quindi di un campo performativo e di un’opera complessa con pluralità di forme espressive “transitoriamente fermate – e variabilmente riposizionate in un diverso spazio-tempo nella cornice materiale e concettuale dell’opera” p4 Ovvero la serie comprende oggetti che fanno parte di differenti cornici e materie, nello stesso tempo autonomi e dipendenti, relazionati p. 9 La documentazione fotografica e videografica1 diviene per Bareny parte del percorso costitutivo dell’azione performativa; esso non ha una valenza intrinsecamente documentale2 (videoperformance), né una funzione testimoniale rispetto alla flagranza dell’evento performativo e nemmeno consiste in un processo di sperimentazione evenemenziale del circuito telecamera, monitor, corpo. È un elemento compositivo della serie e insieme un dispositivo di trasduzione delle forme laddove la forma di partenza (la performance, il disegno ecc.) è un evento che si “traduce” e “sopravvive” in forme che non sono “secondarie”, bensì “comprimarie”. Inoltre, la serie operale è una serie aperta, come si è detto, entro un tracciato di “prove” per qualcosa d’altro (“rehearsal” for something else”), ciascuna delle quali non è che una fase di un progetto in fieri3. . p.6 Beuys si pone oltre la dimensione del finito” in una dimensione aperta, contigente, in divenire” ( SABA p.6), infatti i suoi oggetti sono rovine, resti residuali di un’azione performativa che lascai come testimonianza dell’è stato macerie o inanimato decor. In Barney gli oggetti, a differenza di quelli di Beuys non sono tracce di un evento , hanno a che fare con l’azione performativa ma sono anche autonomi… rientra il concetto di serie P, 8 I riferimenti espliciti all’“opera performativa” e agli “earthworks” paiono definire precisi ambiti di ricerca e di studio. Ciò che rimane implicito, tanto nel discorso citato di Barney quanto nella sua pratica artistica, è il modo attraverso il quale entrambi i riferimenti sono stati fatti oggetto di decostruzione4 e come sono stati riconcettualizzati per trarne dei principi operativi. p. 9 Per Barney “c’è sempre stata una relazione tra gli oggetti e le immagini in movimento […]”. Cit. Egli sostiene di essere stato interessato sin dall’inizio “a provare a rimuovere la differenza tra le immagini in movimento e gli oggetti, per togliere l’autorità del dogma del video e provare a rendere questa relazione con gli oggetti meno gerarchica”. Cit. Sostiene ancora Barney: “Quando un’opera esiste sia su un monitor sia nella realtà come oggetto, il mio desiderio è che lo spazio tra queste due entità si confonda e che la differenza si assottigli 1 Per Nat Norton l’utilizzo del video avrebbe la valenza di mediare l’azione performativa nella sua relazione con la costellazione di oggetti che ne fanno parte. Si tratterebbe di video-azioni che – “in quanto stati secondari derivanti da una condizione primaria, non disponibile, rappresentata da una performance” – non costituirebbero il fondamento quanto il completamento degli oggetti “in una catena di significato priva di significati esterni”. “Spazio rituale/tempo scultoreo” p. 141. Per Christian Scheidemann per Barney il video non è “mera documentazione, l’accompagnamento secondario del primato di una performance dal vivo, ma parte integrante di un sistema di comprimari”. “Appunti di laboratorio”, p. 135 2 È stato rilevato, come la stessa Video art sviluppi in modo diretto, quasi intrinseco, una qualità documentaria (Giaccari). 3 2010, p. 25 4 Teoria della decostruzione di Jacques Derrida, ricezione negli USA – Yale Critics; testualismo Richard Rorty. 1 Attraverso la pratica artistica di Barney ci si imbatte nella definizione di “installazione complessa” o più precisamente di “progetto” o “serie” (ad esempio la serie complessiva DRAWING RESTRAINT) e di “serie operale” (ad esempio DRAWING RESTRAINT 7) con i suoi punti o stati di immanenza “drawings, sculptures, vitrines, photographs, videos and films”. Essa rivela “immanenza plurale” in quanto, nonostante la variabilità degli elementi compositivi allografici, secondo la terminologia di Gérard Genette,5 conserva qualità autografiche giacché ogni re-stage presenta un carattere unico.6 Rispetto a tale immanenza plurale, ha gioco la permutazione tra lo spazio dell’azione performativa e lo spazio dell’installazione; questo aspetto fondamentale emerge attraverso le pratiche installative delle serie videografica, fotografica e scultorea degli oggetti. p.9 Il video , scrive Cosetta Saba è una componente autoriflessiva della sua pratica performativa )7 Barney introduce la videodocumentazione quale componente autoriflessiva della pratica performativa che fissa in un circuito rituale - il cui nucleo nondimeno sarà sempre differente l’avvio e la conclusione delle azioni performative di volta in volta poste in gioco attraverso la “prova”, nel “drawing restraint”: l’avvio, entrata in campo e l’esplorazione visiva dello spazio dell’azione; la presa in carico dei restraint devices predeterminati in relazione ai luoghi – (dimensione site specific); la salita e il drawing restraint; la discesa - che spesso porta con sé la traccia del disegno -, lo scioglimento del legame (costrittivo) e l’uscita di campo (campo vuoto). p. 9 Per Nat Norton l’utilizzo del video avrebbe la valenza di mediare l’azione performativa nella sua relazione con la costellazione di oggetti che ne fanno parte. Si tratterebbe di video-azioni che – “in quanto stati secondari derivanti da una condizione primaria, non disponibile, rappresentata da una performance” – non costituirebbero il fondamento quanto il completamento degli oggetti “in una catena di significato priva di significati esterni”. “Spazio rituale/tempo scultoreo” p. 141. Per Christian Scheidemann per Barney il video non è “mera documentazione, l’accompagnamento secondario del primato di una performance dal vivo, ma parte integrante di un sistema di comprimari”. “Appunti di laboratorio”, p. 135 1 È stato rilevato, come la stessa Video art sviluppi in modo diretto, quasi intrinseco, una qualità documentaria - (Giaccari). 5 Gérard Genette, L'oeuvre de l'art. Immanence et transcendance, Éditions du Seuil, Paris 1994 (tr. it. L'opera dell'arte. I. Immanenza e trascendenza, CLUEB, Bologna 1999) e L'Oeuvre de l'art. La relation esthétique, Éditions du Seuil, Paris 1997 (tr. it. L'opera dell'arte. II. La relazione estetica, CLUEB, Bologna 1998).. 6 Françoise Parfait, “L’oeuvre de l’art. Immanence et trascendence” in L’installation en collection, Collection Noveaux Medias Installations, Centre POMPIDOU, Seuil, Paris 1987, p. 36. 7 DRAWING RESTRAINT 2 consiste in una significativa variazione dell’assetto topologico di DRAWING RESTRAINT 1 rispetto al quale proprio per questo si pone in relazione. Lo spazio è denso di oggetti, di pedane posizionate obliquamente a consentire accumulo di forza e slancio per l’estensione del movimento; tra gli oggetti riferiti all’ “immaginario” dell’universo atletico, un materassino con quello che diverrà il field emblem, polisemico emblema dell’opus di Barney. 2 performing media di Valentina Valentini Partiamo dal rituale epistemologico: quale attitudine critica e metodologico per analizzare e comprendere il CREMASTER CYCLE, ipotizzando che la dimensione performativa dell’opera di Matthew Barney funzioni come dispositivo codificatore intermedio fra la produzione plastica-visuale e audio visuale (disegni, sculture, installazioni, film, video) dell’artista e i resti documentali, ovvero l’archivio che tale attività produce8. Il CREMASTER CYCLE non è un video, non è un film, è un serial, (come Heimat di Reisz, Perfect Lives di Robert Ashley, Twin Peaks di David Lynch), né televisivo né cinematografico, anche se condivide tratti sia dell’uno che dell’altro. Riferirsi all’opera d’arte totale, alla saga , alla tragedia greca contribuisce a rafforzare doxe devianti perché sovrappongono categorie elaborate in contesti storici differenti. Il suo definirsi in negativo ci mette di fronte a una condizione di indecidibilità condivisa con altre opere e autori della contemporaneità. Del cinema intende sfruttare l’apparato, il circuito di distribuzione del prodotto, lo star system, l’aura proveniente dal supporto materico della pellicola. Raggiungere lo status di icona popolare, per l’artista Barney, passando attraverso il cinema come veicolo, asseconda l’esigenza affermata dai “visual studies” di eliminare le distinzioni fra sfera dell’arte, dell’intrattenimento, dei mass media. “ Lavorare con una forma espressiva come il film significa in qualche modo superare la barriera del mondo dell’arte, proprio come ha fatto Andy Warhol. Sicuramente lui può essere un esempio per me in questo senso” (Barney in Zapperi, 2003, p.312).9 Guardare il CREMASTER dalla prospettiva del cinema significa scoprire che rilevante è la parte relativa al profilmico, all’organizzazione del set: le locations, il cast, gli oggetti di scena, il che significa che l’organizzazione degli spazi diventa procedimento costruttivo del CREMASTER, per cui il montaggio del film si spazializza, diventa per lo spettatore- visitatore come passare fisicamente da uno spazio all’altro. Lo sguardo che Barney regista imprime alla telecamera digitale HD, è quello di un visitatore che percorre lo spazio di un museo : “ […] per cui il montaggio si conforma a un tipo di mobilità delimitata : un disporsi attorno della telecamera , dove l’assenza del fuoricampo è del tutto conseguente. […]la regia del CREMASTER CYCLE viene metalinguisticamente 8 Cfr Jurij Lotman, Tipologia della cultura, Milano, Bombiani 1975 pp. 135-141 , cit. in Valentina Valentini, Teatro in immagine. Eventi performativi e nuovi media, Bulzoni, Roma, 1987 p. 17. 9 Per le relazioni fra il cinema e il CREMASTER, cfr. ivi, il saggio di Nicola Dusi: "Cremaster Cycle tra cinema e danza", pp.. Dello stesso autore cfr. anche, Nicola Dusi, "Lo spettatore incompetente e la flagranza della performance: Cremaster 3 di Matthew Barney, tra cinema e videoarte", E/C, E-journal AISS (Associazione Italiana di Studi Semiotici), www.ecaiss.it 200??? 3 inscenata all’interno di uno spazio espositivo, nello sguardo di una visitatrice che l’attraversa”, concordando con quanto scrive Antonio Fasolo nel capitolo “La Galleria e la sala” ( 2009, p.105). Abbiamo ipotizzato che Il CREMASTER si possa situare mobilmente fra due vettori messi in moto dall’azione performativa, la produzione di opere e la funzione di tracce che queste opere assumono ( la mostra al Guggenheim Museum per la presentazione del CREMASTER che doppiava il set allestito nello stesso luogo per girare il film) per cui è possibile guardarlo come archivio della memoria-immaginario dell’artista. Il film come costruzione di un’auto mitologia che è personale ma non intima, di natura “wikipedica,” in cui pubblicità, televisione e cinema, musica punk hardcore, serial tv e b-movies , si mescolano indifferentemente, perché sottocultura e cultura hanno lo stesso peso10. Il ciclo, e questo è un altro aspetto correlato alla dimensione dell’archivio, nasce da una pratica intermediale per cui il set , gli oggetti/ sculture, le installazioni, le opere video si attraversano, reciprocamente disponibili a assumere diversi formati e forme discorsive. Antonio Fasolo ha analizzato questa stratificazione in opera nel CREMASTER (e si riferisce al terzo episodio, The Order, riassuntivo dell’intero ciclo) che mostra i cinque episodi allestiti , senza pubblico nei cinque piani del Guggenheim, nel senso che “ performance, video, sculture, disegni, story board, musica, vivono in un rapporto di reciprocità e discendenza” (Fasolo, 2009, p.106) .“ Il visitatore è quindi immerso in un luogo a metà fra set cinematografico e allestimento museale” “[…] Lo spazio funzionale quindi arriva a coincidere con lo spazio espositivo della galleria (Guggenheim), mentre il tempo della performance videoregistrata rimane indefinito, anche se sicuramente anteriore a quello vissuto dallo spettatore” ( ibidem, p. 107). In questo senso CREMASTER appartiene a quelle opere della contemporaneità che mettono a fuoco procedimenti costruttivi e istanze estetiche proprie di un contesto in trasformazione in cui gli apparati e i confini disciplinari sono stati scavalcati e l’ibridazione produce nuove forme, da vagliare e comprendere. Il tentativo di annetterlo a forme note è fallimentare perché la sua dimensione è come, giustamente sostiene Nancy Spector, la commistione dei linguaggi senza che nessuno di essi predomini.11 Le questioni che il CREMASTER solleva non riguarda, dunque, solo la natura dell’ immagine, ma come le reciproche interferenze fra le arti e i dispositivi tecnologici abbiano trasformato le specifiche 10 Come scrive Andrea Lissoni,: “L’inclusione di prelievi, di immagini e immaginari dalle sottoculture- quelle di cui Barney si è probabilmente anche nutrito – penso in particolare alle due band hardcore al Guggenheim, al batterista dei Melvins coperto di api - si integrano, in un sistema, in cui il peso specifico, la densità della “cultura”, è più leggero, fatto di veloci agganci”. Lettera a Valentina Valentini del 20-6-2008. 11 Per Nancy Spector,” Barney’s visual language is protean : drawing and film unite to engender photography and sculpture, which, in turn, produce more drawing and film, in an incestuous intermingling of materials that defies any hierarchy of artistic mediums” ( Spector, 2002, p. 4). 4 pratiche artistiche, i modi di produzione e i formati delle opere. Nell’installazione di Bill Viola Going Forth by Day (2003), per esempio, le cinque scene di cui si compone (“Fire Birth”, “The Path”, “The Deluge”, “The Voyage”, “The First Light”) sono proiettate in simultanea sulle pareti di un'ampia stanza. Il processo produttivo è cinematografico e l’artista assume il ruolo del regista di cinema che costruisce un set e vi dispone le interpretazioni degli attori, ma l’opera non si dà come film. Aldilà delle definizioni con cui si cerca di identificare queste pratiche che rimandano a qualcosa che è scomparso e che ritorna (il precinema) e a qualcosa che è venuto dopo una data forma assestata e stabilizzata (il postcinema), l’aspetto affascinante di queste nuove forme, è che inducono a ripensare il paradigma disciplinare sia del film che dell’installazione che della pittura. Per cui si tratta di prendere in carico queste opere che producono scompiglio nei saperi e nelle pratiche assestate e indagare sul loro processo costruttivo e sul ruolo dell’autore, aldilà della tendenza di includerle in una enciclopedia già nota12. Video /performance La doxa assestata di annettere i video di Matthew Barney alle videoperformance di Acconci e Nauman, come lo stesso artista convalida, va in qualche modo rivista criticamente. Giovanna Zapperi, nell’introduzione all’intervista a Matthew Barney del 1998, scrive : “ Al pari di molti artisti della sua generazione, Matthew Barney si ispira ad artisti come Vito Acconci o Bruce Nauman che tra gli anni Sessanta e Settanta , associavano la ricerca sul dispositivo video ad un uso performativo del proprio corpo. La loro influenza è particolarmente evidente nei suoi primi lavori, quando Barney realizzava delle performance senza pubblico che venivano riprese e ritrasmesse successivamente nello stesso spazio dove era avvenuta la performance. Lo spettatore era così confrontato con le immagini di un rituale consumato in privato, in uno spazio espositivo segnato dalle tracce di quegli accadimenti” ( Zapperi, 2003, 309). Nat Trotman avalla l’accostamento della produzione video di Matthew Barney a quella di artisti inscritti nel contesto della Performance Art :“ La scelta di Barney di utilizzare il video per mediare le azioni è legata al lavoro di questi artisti (Acconci, Burden, Nauman” (Trotman, 2007, p.141). Barney, nel rivendicare la sua ascendenza da Acconci, Burden, Nauman, se mai intende riproporre il mito delle performance di body-art delle origini che enfatizzavano la dimensione 12 Cfr. Valentina Valentini, “On the dramaturgical aspects of Bill Viola’s multi-media installations” Performance Research, Karoline Gritzner, Patrick Primavesi and Heike Roms , 14.3 On Dramaturgy, 2009, pp.52-62 5 eroica, di sfida e di rischio personale dell’artista, sfiancante, votata alla produzione e al consumo di energia. Per gli artisti di Body Art, negare il sistema dei rapporti commerciali, materiali, sociali, significava affermare una nuova arte, fare il vuoto intorno a sé per reinventare il mondo, come nelle performance di Joseph Beuys che manifestavano il progetto utopico di cambiare la società attraverso l’arte. BArney, scrive giustamente Cosetta Saba disattiva la radicalità politica che il corpo ha nell’arte degli anni settanta” […] nella tradizione delle opere performative realizzate nei tardi anni ‘60 e nei primi anni ’70. Per me appartengono a una tradizione; nello stesso modo sento che le opere di più ampio respiro narrativo, come i film di CREMASTER, si inseriscano in qualche modo nella tradizione degli Earthworks ( cit da Saba.p.8 Olga GAmbara, a cura di, Matthew BArney.Mitologie contemporanee, contemporanee Fondazione Merz, ERRE ENN – CDM Torino 2009, p. 134. Nelle video-performance degli anni Settanta, sono gli artisti che di fronte a una telecamera fissa, in uno spazio vuoto, in cui non c'è limite fra sfondo e figura, si mettono in azione sperimentando il meccanismo del feed-back simultaneo, ovvero la capacità di vedere se stessi fare qualcosa nell’esatto momento in cui si sta facendo. In Open Book (1974) Acconci spalanca la bocca fino ad occupare l'intera inquadratura, costringendosi a mantenerla aperta, come prova della sua disponibilità ad accogliere in sé l'altro (sbranandolo) e nello stesso tempo a lasciarsi penetrare dall'altro, istituendo un dialogo con un tu fuori dalla cornice del monitor. La telecamera viene usata come specchio che restituisce l'immagine di sé e quasi ne comprova, di fronte a se stesso e all’altro riflesso, presenza e consistenza, in un elementare esercizio percettivo teso a sacralizzare il corpo dell’artista in quanto opera e nel contempo a ironizzare sul sistema dell’arte che ha bisogno di tali feticci: “I Am Making Art”, ripete, non senza ironia, John Baldessari toccandosi le diverse parti del suo corpo come se fossero impregnate d'arte e scomponendolo in modo che vengano inquadrate solo le gambe o le braccia. Nei video di Bruce Nauman, Robert Morris, Vito Acconci, John Baldessari, il soggetto ha una presenza attiva perché il suo consistere davanti all'occhio della telecamera, pur in assenza di contesto, non è solipsistico, c'è un tu virtuale (a volte anche reale) cui l'artista si rivolge, l’altro da sé istituito come spettatore. Il soggetto è privo di connotazioni spaziali, vive un presente assoluto da cui il mondo è soltanto evocato come un è stato.13 13 Ho trattato questo tema in “La figura umana nel paesaggio elettronico”, in Le storie del video, Bulzoni, Roma 2003, da cui ho tratto questo brano, p.83 6 I video prodotti con la serie di azioni performative dal titolo Drawing Restraint, più che con le performance degli anni settanta, condividono, invece, dei tratti con le performance video degli artisti degli anni novanta. In queste il dispositivo digitale non funziona come dispositivo costruttivo e modellizzante l’azione dell’artista, ma è strumento di registrazione (come in Head,1993 e Sets,1997 di Cheryl Donegan, Egg Yang, 1995 di Alix Pearlstein, ad esempio); né si ripropone il procedimento ”minimalista” della scomposizione del corposuperficie-volume-massa plastica che concentrava sui singoli pezzi una intensità capace di gettare una luce nuova sul tutto di cui è parte. Anche il sentimento ironico nei confronti del sistema e del mondo dell’arte, comune a molte performance video delle origini, è in gran parte scomparso. Nei video di body art degli anni Settanta l’artista performer nasconde il volto ( il soggetto è inquadrato di spalle) o, viceversa, è ripreso in un primo piano così ravvicinato da renderlo irriconoscibile, in entrambi i casi, l’effetto è la depersonalizzazione. In essi si manifesta un narcisismo dell’io diviso che non comunica con il mondo, piuttosto che un vitalismo dell’artista onnipotente. Anche se in The Order è lo stesso Matthew Barney, artista-performer che assume contemporaneamente diverse figure attanziali : è colui che agisce, lotta, attacca ed è colui che è oggetto dello sguardo da parte degli spettatori e da parte dello sguardo meccanico della telecamera, questo doppio ruolo non si dà come scissione fra operator e spectator, come atto del guardarsi mentre sta guardando la propria immagine riflessa sul monitor-specchio14. Ci sembra dunque improprio, per la produzione video di Matthew Barney, costruire una genealogia che fa capo alle video-performance degli anni settanta. Performance/ reenactment Una vera e propria tendenza al reenactment (ripetere , agire di nuovo un evento) di performance degli anni Sessanta e Settanta caratterizza le performance di artisti contemporanei. Facciamo solo un esempo: Francesco Vezzoli, con The Return of Bruce Nauman Bouncing Balls (2008), ripropone Bouncing Balls,una performance video di Bruce Nauman del 1969, nella quale Nauman riprendeva se stesso mentre faceva rimbalzare con una mano i suoi testicoli (così come in una precedente, Bouncing Two Balls between the Floor and Ceiling with Changing Rhythms 1967-68, faceva rimbalzare fino al soffitto delle palline di gomma). Vezzoli sostituisce Nauman col corpo nudo e perfettamente levigato di 14 Scrive Rosalind Krauss a proposito della riflessività delle video-performance: “ Si potrebbe dire che la riflessività dell’arte moderna è un dédoublement o raddoppiamento, per localizzare l’oggetto ( le condizioni oggettive della propria esperienza), il riflesso speculare, risultato di un totale feedback, è un processo che mette tra parentesi l’oggetto” ( Krauss, 2003, p. 251). 7 un porno-divo ripreso in slow-motion; lo spazio chiuso dello studio (luogo significativo in cui Nauman aveva pensato ed eseguito la sua performance) viene sostituito con un paesaggio naturale, il tutto con il commento di una colonna sonora di musica classica. Il video di Vezzoli ha un’evidente ascendenza cinematografica, nella definizione dell’immagine, nel registro sonoro, nella plasticità del rapporto fra figura e sfondo. Il suo compiacimento ci porta lontani dall’umorismo e dall’autoironia della di body art, così come dalla messa in questione del ruolo dell’artista, che interessavano Bruce Nauman. Più che un confronto con la tradizione viene operata qui, una riduzione sia della sperimentazione linguistica legata all’esplorazione del sé, che del dato politico.15 Nel CREMASTER si trova un’azione performativa di Richard Serra rieseguita dall’artista stesso. Matthew BArney ripropone la figura di Richard Serra in più forme. Come quella di Norman Mailer rappresenta la potenza americana, allegorizzata, nel CREMASTER 3 nel personaggio dell’architetto Abiff che costruisce il Chrysler Building, «prototipo di manhattismo e grandezza», espressione della «cultura della congestione e spazio delirante» (Foster, 2003, p.43 ). Rappresenta anche la discendenza maestro-allievo e, insieme a Joseph Beuys la genealogia che Matthew Barney ha costruito nel CREMASTER16. In The Order (C 3) l'azione si sposta nello spazio circolare del Guggenheim Museum di New York, un edificio di cinque piani progettato da Franck Lloyd Wright, ciascuno spazialmente rappresentativo di uno dei cinque episodi del ciclo. All’ultimo piano troviamo Richard Serra che riesegue Casting e Splashing : prende da un pentolone una materia densa che bolle e con un mestolo la lancia contro una parete angolare di piombo. Rispetto alla sua azione originaria le differenze sono che le lastre , anziché di metallo, sono di materiale plastico e la materia che viene riscaldata non è piombo, ma vaselina, una materia pastosa che viene collocata su un binario che corre per tutti i cinque piani del museo, così che forma un rivolo che, scorrendo, la trasporta dall'alto fino a terra collegando l’intero spazio del CREMASTER CYCLE 17.Ad ogni livello l'apprendista supera 15 .” Recent years have brought many reenactments of historic performances from the 1960s and 1970s, works which otherwise would exist only in photos, videos, and text descriptions. But what exactly is being reenacted, and what is the effect of the representation? What meaning is resurrected out of this "doubling"? Cfr , a cura di Sven Lütticken. Life, Once More: Forms Of Reenactment In Contemporary Art (Performance Art), Witte de With, 2005. 15 Cfr. Valentina Valentini, “ New Media. Imparare a ridere e restare perfettamente pessimisti”, in Enciclopedia delle Arti contemporanee (a cura di A. Bonito Oliva), Electa; Milano, 2010 dove sono riportati altri esempi di performance reenacted, come Coyoteria di Yoshua Okon, 2003, nel quale figura un coyote umano al posto del vero coyote col quale s’era rinchiuso Joseph Beuys, per una settimana, nel 1974, pp.256-289 16 Cfr. Valentina Valentini, “CREMASTER, un monumento alla forma merce”, in Antonio Fasolo, Matthew Barney, CREMASTER CYCLE, Bulzoni, Roma, 2009, pp.l1-26 17 Nel livello 3 il protagonista, anche lui ex atleta e ex modello, dovrà affrontare la sua alter-ego, atleta e modella , Aimée Mullins; nel livello 4 la prova è ricostruire Five points of fellowship, una 8 una prova (lotta con la donna-ghepardo Aimée Mullins, che tenta di sbranarlo), in un tempo scandito dalla discesa della vaselina nel binario. Assistiamo dunque a due azioni, quella di Serra e quelle di Matthew Barney, l’apprendista, nel doppio ruolo di chi agisce e di chi guarda la performance di Richard Serra . Che senso ha in questo caso il reenactment di una performance nota come simbolo dell’arte processuale nel contesto altro del CREMASTER ?18 Rosalind Krauss sottolinea di queste due opere performative di Richard Serra, oltre alla filiazione dall’action painting di Pollock, i tratti di orizzontalità ( propria del minimalismo) e il carattere di evento che lascia una traccia oggettuale. In questo senso non sono rappresentazione o metafora di un evento, ma “accadimento concreto e letterale, in quanto la Verb List elaborata da Richard Serra per delimitare il campo della scultura, inscrive il gesto nella logica della serie ( non industriale e ripetitiva di oggetti identici), ma gerundiva, processuale, una serie di azioni: riscaldare, scagliare, raffreddare “[..] in un presente progressivo, capace di collegare attivamente il passato al presente e aprire quest’ultimo al futuro “(Krauss 2005, p. 32). Per Richard Serra realizzare una scultura era un’azione per l’artista e un’esperienza che lo spettatore viveva impegnando corpo e mente, camminando e guardando, segnando topologicamente uno spazio, assistendo al processo di produzione dell’opera, come in Splashing e Casting in cui lo spettatore era testimone di un processo che arrivava a una forma definita, la scultura, passando attraverso una azione . La scultura di Richard Serra è determinata dalla relazione fra il soggetto e lo spazio, si inscrive nelle contigenze particolari del luogo dove si colloca e delle risposte sensomotorie dello spettatore che può attraversarle, essendo lastre di metallo a forma di spirale, di arco e di ellissi. Nel caso di Richard Serra che riesegue, variandola rispetto al contesto, la sua opera performativa, non siamo di fronte a un ‘operazione metatestuale e neanche scultura in plastica o gesso, composta di parti ammucchiate, come colonne, da innestare in forme base cave 18 In Casting, 1969 Richard Serra lancia piombo fuso su delle lastre poggiate nell’angolo di una stanza e dopo che il metallo si è solidificato, le lastre sono disposte in sequenza a terra, creando un'istallazione al Whitney Museum of American Art , New York ( l'opera è andata distrutta). In Splashing,1969 il piombo fuso viene lanciato su una lastra di ghisa. (210 kg!) in una performance pubblica alla Castelli Warehouse di New York . “Così quando Serra estende il gesto di Pollock di lanciare la pittura sulla tela stesa a terra a quello di lanciare del piombo fuso contro la piega tra pavimento e parete ( Casting,1969), ripete le condizioni materiali del medium: l’orizzontalità del campo, con la sua attrazione gravitazionale; il fatto letterale della materia posta in quel campo come residuo di un evento; il residuo stesso che prende forma di indice o di traccia, di impronta fisica di ciò che è accaduto” ( Krauss, 2003, p. 30) “ […] Piuttosto, perché l’orizzontale rimanga tale, e perché la gravità mantenga la sua presa sull’indice, perché continui a operare come segno di un evento invece che sua rappresentazione, l’opera deve trovare la sua sintassi all’interno dell’evento stesso, sintassi che poi verrà formalizzata” (ibidem, p. 32). 9 una meta-operazione di critica dell'arte stessa come interrogativamente propone Nicola Dusi 19 Il CREMASTER CYCLE, per quanto inneggi alla potenzialità, allo stato di indeterminazione come condizione indifferenziata dell’essere vivente , tuttavia è rappresentazione, è forma chiusa in una cornice, fa appello ad armamentari simbolici e allegorici, quanto di più distante dalla process art il cui contesto è fenomenologico, orizzontale, governata dal rifiuto dell’ illusionismo prospettico. Il CREMASTER, come scrive Nancy Spector, è “a self-enclosed æsthetic system”, tutt’altro che un'opera d'arte in mutazione permanente, governata dal divenire e dall’indeterminazione, come sostiene Odin ( 200). Le mitologie di Barney si fondano narrativamente sulla figura dell’artista artefice in una dimensione estranea alla figura dell’artista, equiparata con amoreodio, a quella dello spettatore delle performance e delle opere video degli anni settanta. Il CREMASTER è lontano dalle pratiche discorsive delle neoavanguardie, nel senso che Matthew Barney chiama in causa non le strategie decostruttive che riducono il segno a “forma-merce” con l’intento di denunciare reificazione e mercificazione della cultura, quanto l’estetica della spettacolarizzazione, ossia procedimenti di manipolazione che non fanno presa criticamente contro il sistema né dell’arte né dell’economia. L’intento fondativo (miti di fondazione contro i miti di distruzione delle avanguardie) del CREMASTER si evince dalla affermazione di un (rinnovato) modo di intendere la scultura, senza alcuna intenzione di smitizzarla. E anche laddove Barney propone tecniche decostruttive, queste producono l’effetto contrario. Il ciclo si legge come la messa in scena dell’artista demiurgo, modellatore di forme, trasformatore di corpi e di spazi, compositore di coreografie, ma questo fare è esattamente l’opposto dell’opera processuale, risulta come un dispositivo in cui ogni cosa implode. Questa estraneità alla tradizione delle neoavanguardie non è un problema del CREMASTER quanto degli studiosi dell’opera di Matthew Barney che pretendendono di avallare tale filiazione e discendenza contraddittoriamente posizionandosi contemporaneamente sul versante postmoderno dei visual studies e sul versante modernista delle neo-avanguardie. Opera/Performance/ Documento “ Born out of a performative practice in which the human body – with his psychic drives and physical thresholds –symboplizes the potential of sheer creative force, the cycle explodes this body into the particles of a contemporary creation myth” (Spector, 2002 p.4). 19 Scrive Nicola Dusi :“Se in una performance viene inglobata e riletta un'altra performance, quella di Richard Serra, siamo di fronte ad una nuova performance che riflette su se stessa e sui limiti della precedente, oppure ad una meta-operazione di critica dell'arte stessa?” ( Dusi, 200, p. ) 10 Partiamo da una considerazioni di carattere generale : l’epoca delle tecnologie digitali e informatiche è caratterizzata da un’opera che tende alla performance, a essere evento, amplificando i tratti dell’oralità a scapito di quelli della scrittura. La produzione multimedia , installazioni, spettacoli (i media live) che effettuano un editing visivo e sonoro dal vivo, che usano dal vivo la motion capture e altri programmi informatici, lavorano con il tempo reale di una produzione istantanea e non ripetibile né riproducibile. Se nel CREMASTER il dispositivo dominante è l’azione performativa che codifica i differenti formati delle sue produzioni sia in direzione dell’opera oggetto ( il film) che dei suoi resti ( il documento), cerchiamo di capire la relazione fra questi due differenti e coincidenti repertori, e come tale dimensione sia allineata con l’estetica del nuovo millennio. La serie dei Drawing Restraint che precipita in alcuni cicli ( il C3 , il C4 e il C5) del CREMASTER, è significativa in tal senso. Letteralmente la serie oggettivizza l’idea di Barney della creazione artistica come un mettere alla prova i limiti del proprio corpo per superarli attraverso la disciplina, le polarita dell’ascesa e della caduta (letteralmente metaforizzate come arrampicarsi dell’artista sulle pareti del Guggenheim Museum )20. Sono azioni, disegni, fotografie, sculture, vetrine, che si danno in spazi scelti e allestiti dall’artista, senza convocazione di spettatori e con la presenza determinante della telecamera che registra l’azione eseguita da Matthew Barney I video che scaturiscono dai Drawing Restraint, sono poi proiettati in gallerie e musei su più monitor, all’interno dello stesso set allestito per la registrazione dell’azione performativa, che in questo caso si offre come installazione, al limite fra la video-performance e la documentazione di una performance. I video scaturiti dalla serie dei Drawing Restraint generalmente sono considerati come una documentazione dell’azione performativa, un oggetto secondario rispetto a uno primario, che sarebbe l’azione performativa in sé. Noi siamo dell’opinione invece che video, disegni, sculture che sono inclusi nella serie dei Drawing Restraint siano alla pari e contemporaneamente opere e documenti del processo del loro farsi. Nel senso che questo procedimento costruttivo è il modo di Barney di recuperare la processualità che era propria del modo di Richard Serra di intendere la scultura ( Splashing e Casting, per citare quelle che l’artista riesegue nel CREMASTER) ma, agendo in assenza di spettatori, al contrario di 20 Scrive Antonio Fasolo:” Analizzando questa serie, che abbraccia circa un ventennio, si assiste al passaggio da una forma d’arte puramente performativa- in cui predomina la pura azione videoregistrata – all’ibridazione sempre più decisa con l’arte cinematografica; dai primi accenni narrativi (DRAWING RESTRAINT 7) arriviamo infatti alla realizzazione di un vero e proprio film (DRAWING RESTRAINT 9), pp. 28-29. 11 Serra, la testimonianza del processo creativo è affidata alla registrazione video (documento). L’azione di Barney, nei Drawing Restraint produce e include oggetti artistici, disegni, foto , continuando a seguire l’ipotesi della codificazione performativa del CREMASTER, come a suo tempo l’azione di Richard Serra di lanciare piombo fuso contro l’angolo fra muro e pavimento della galleria, produceva installazioni e sculture. La registrazione video di questa azione e dell’ ambiente dove avviene, produce anch’essa un oggetto artistico, a differenza del circuito chiuso delle installazioni di Peter Campus. A tale proposito Nat Trotmana scrive: “( il video) ridefinisce il rapporto dei suoi oggetti artistici con il momento performativo” (Trotman, 2007, p.141), il che vuol dire che non si tratta di un prima- la performance e di un poi, suo derivato, la documentazione video, quanto di due oggetti artistici che sfiorano l’una e l’altra pratica: la performance art e la documentazione video, ma che non sono né l’una, né l’altra. In questa prospettiva il CREMASTER oltrepassa la distinzione convenzionale fra opera-eventodocumento, rendendo indiscernibile i passaggi, così come nella relazione fra presente, qui e ora delle arti performative e senza tempo delle tracce che sopravvivono alla scomparsa dell’azione dell’artista. Barney lavora nello slittamento fra conservazione/ricostruzione dell’oggetto-opera, sua ricontestualizzazione e produzione dal vivo, indebolendo le marche che hanno distinto storicamente e criticamente i concetti di evento, opera, serie, documento, autentico, contesto…. Dunque si potrebbe leggere il CREMASTER come un testo intermediale flagranza delle azioni in in cui presenza e dei resti-documento interagiscono e sono compresenti nel modo produttivo di Barney: le installazioni, i video, le sculture, sono opere-documento che sopravvivono al gesto dell’artista che li ha prodotti. Ci sembra che questa tesi, elaborata dai performance studies, sia pertinente per comprendere il modo produttivo del CREMASTER di Matthew Barney nella prospettiva contraddittoria e efficace di devalorizzare e al contempo accrescere il valore dell’opera- documento21. 21 A questo proposito Rebecca Schneider osserva: “non c’è contraddizione fra performance e resti materiali, fra sparizione e resti archiviabili, in quanto anche questi – registrazioni, documenti, resti materiali “ diventano se stessi tramite la sparizione” +[…] L’archivio viene costituito - la solidificazione del valore nell’ontologia, come retroattivamente fissato in documenti, oggetti, registrazioni. 12 Non ultimo, la natura di produzione intermediale del CREMASTER, il suo declinarsi in differenti formati e media interrelati fra di loro, rinvia, ovviamente, a una dimensione intertestuale, mentre il suo naturale tratto metatestuale appare indebolito nelle sue funzioni riflessive. Infine, non è estranea al CREMASTER un’operazione di marketing , ovvero sfruttare intensivamente il prodotto e i suoi derivati. Riferimenti Bibliografici Nicola Dusi,Lo spettatore incompetente e la flagranza della performance: “CREMASTER 3” di Matthew Barney, tra cinema e videoarte. Centro Internazionale di Semiotica e Linguistica, Università degli Studi di Urbino, Documenti di lavoro (DDL), 2007 Antonio Fasolo Matthew Barney, CREMASTER CYCLE, Bulzoni, Roma,2009 Hal Foster, “Architettura e impero” in Design & Crime, Postmediabooks, Milano 2003, pp- 43-62 Rosalind Krauss, “Il video: l’estetica del narcisismo”, in ( a cura di Valentina Valentini), Le storie del video, Bulzoni, Roma 2003 Rosalind Krauss, Reinventare il medium, Bruno Mondatori, Milano 2005 Giovanna Zapperi, intervista a Matthew Barney, “Come si crea la forma” , in ( a cura di Valentina Valentini) , Le pratiche del video, Bulzoni, Roma 2003 pp.307312 (a cura di) Sven Lütticken. Life, Once More: Forms Of Reenactment In Contemporary Art (Performance Art), Witte de With, 2005 Pietro Montani, L’immaginazione intermediale, Laterza Roma-Bari 2010 Nat Trotman, “Spazio rituale/tempo scultoreo” in All in the Present May Be Transformed.Mathew BArney e Joseph Beuys, a cura di Nancy Spector, New York, The Solomon Guggenheim Foundation, 2007 pp. 140-156 Tale retroazione è nondimeno una valorizzazione della regolare, necessaria perdita dell’esposizione ( performativa) – con il documento, l’oggetto e la registrazione situati come sopravvissuti al tempo” ( Schneider, 2001,pp. 25-26).A e 13 Valentina Valentini, New Media. Imparare a ridere e restare perfettamente pessimisti, in Enciclopedia delle Arti contemporanee (a cura di A. Bonito Oliva), Electa; Milano, pp. 256-299 ISBN 9788837 062156 14
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