Nota dei curatori Matteo Belfiore e Salvator John
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Nota dei curatori Matteo Belfiore e Salvator John
Copyright © 2010 CLEAN via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati E’ vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-120-3 Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Grafica Costanzo Marciano Referenze fotografiche Le immagini sono di Toyo Ito & Associates, Architects Nacàsa & Partners Inc., pp. 22-23, 35, 44-45 Ishiguro Photographic Institute, p. 11 HORM s.r.l., p. 15 in copertina e retrocopertina: Sendai Mediatheque, 2000-2008 (foto di Nacàsa & Partners Inc.) Nota dei curatori Matteo Belfiore e Salvator John Liotta A fine intervista Toyo Ito ci invita a posare con lui mentre solleva il Leone d’Oro vinto alla Biennale di Venezia, come se anche noi fossimo stati in qualche modo coinvolti nella sua vittoria. Questa è forse l’immagine che meglio rappresenta la forza di questo maestro dell’architettura moderna: giocare in team, rendere partecipi gli altri dei processi progettuali, pensare che l’architettura sia una disciplina fondamentale nel definire le sorti di una società. In lui traspirano una continua tensione verso soluzioni avanguardiste e un’ottima qualità dell’immaginazione. Questa stessa qualità ritroviamo nella sua predisposizione a vivere una vita che è anche un progetto di vita. Ringraziamo Miki Uono, Takumi Kimura, Keiko Sasahara Abe, Shiori Ito, Taketo Ohta per il prezioso aiuto e la consulenza tecnica prestataci. Matteo Belfiore (1979) è dottore di ricerca in Progettazione Architettonica e Urbana e dal 2010 Postdoc Researcher presso il laboratorio di Kengo Kuma all’Università di Tokyo. Alla pratica professionale affianca una costante attività di ricerca sui temi dell’architettura contemporanea. Salvator-John A. Liotta (1976) è ricercatore presso il laboratorio di Kengo Kuma all’Università di Tokyo. Ha collaborato con Domus, Compasses e Area. Suoi progetti sono stati esposti alla Biennale di Architettura di Venezia, alla Biennale d’Arte di Berlino, al Museo di Arte Moderna di Varsavia. 5 Una sua grande passione è il baseball. In che modo lo sport ha formato e influenzato il suo carattere? Il baseball mi piace moltissimo, l’ho praticato fino al completamento delle scuole superiori ma adesso lo guardo solamente perché non ho più il tempo di praticarlo. È uno sport formativo perché si gioca in team e questo impone uno spirito di collaborazione a chi lo pratica. Mi ha aiutato molto a confrontarmi con gli altri, ha avuto un’influenza positiva sul mio carattere. Come ha iniziato il mestiere dell’architetto e quali sono state le sue prime esperienze professionali? Ho aperto il mio studio quando avevo 29 anni. 7 Di solito, i primi incarichi professionali riguardano case private, architetture piccole di vario genere, bar, arredamenti di negozi. Personalmente, ho progettato le case di alcuni amici miei e dei miei genitori e qualche edificio commerciale di piccole dimensioni. Per lungo tempo ho fatto questo tipo di lavori. Ho costruito il mio primo edificio pubblico nel 1988, quando avevo 47 anni. Toyo Ito (1941) e Tadao Ando (1941) rappresentano le due punte di diamante della attuale scena architettonica giapponese. Il primo sembra incarnare lo spirito della contemporaneità, il secondo quello della tradizione… Potrei dire che io sono ciò che dico e ciò che penso, io sono le mie parole e i miei pensieri. Nei miei pensieri e nelle mie parole c’è la mia modernità, ma si annida anche in modo inconsapevole lo spirito tradizionale del Giappone. Proprio perché è dentro di me in modo involontario, questo spirito della tradizione lotta per venire fuori anche quando tendo a ricacciarlo indietro, dentro di me. Gli stili di vita contemporanei tendono a presentare dei tratti comuni a livello mondiale. È ciò che si definisce omologazione. Per quanto mi riguarda sono nato e cresciuto in Giappone e quindi, anche inconsape8 volmente, la cultura tradizionale giapponese in me si manifesta spontaneamente, senza che io possa oppormi. Eppure io la posso filtrare, interpretare con la mia contemporaneità. Qual è il rapporto tra teoria e pratica nel nostro mestiere? Sono convinto che una teoria che non sia fondata sulla pratica non abbia un vero significato. Per quanto mi riguarda, ogni volta che metto in pratica una teoria, mi rendo conto della differenza enorme che vi è rispetto all’idea originaria che avevo avuto e alla sua realizzazione. La struttura teorica della mia attività è basata sulla messa in pratica della teoria, cioè sulla realizzazione di un pensiero teorico. Una volta realizzato, rifletto intensamente sull’esperienza che ho fatto e da qui nasce un nuovo pensiero teorico. È un processo continuo di feedback e analisi incrociate. Se questo non avviene, allora è come se ci fosse qualcosa che non sta andando nella direzione giusta. Secondo lei le teorie di Deleuze e Guattari sulla nomadologia hanno influenzato in suo lavoro? Non ritengo che il concetto di nomadologia di Deleuze e Guattari mi abbia influenzato in modo diretto. A ogni modo, riconosco che la vita degli 9 abitanti nelle nostre città è caratterizzata da ritmi che non conoscono soste, è scandita da un movimento continuo che si può paragonare forse a quello dei nomadi. I legami familiari sono diventati più labili, la consapevolezza dell’identità regionale o nazionale si è assottigliata, lasciando spazio all’emergere di relazioni individuali. Per di più, queste relazioni si intrattengono dentro un sistema dinamico che non smette mai di muoversi. Penso che questo tipo di flusso continuo che coinvolge così tante persone sia un fenomeno nuovo, di indubbio interesse, del quale ancora non comprendiamo gli effetti. E ciò rappresenta per me fonte di continuo stimolo. Mi spinge a riflettere su quale tipo di spazio, su quale tipo di architettura possa aver bisogno gente profondamente immersa nel flusso continuo della vita moderna. Ed è per questo che, facendo salva l’importanza che devono avere i sentimenti della famiglia, non ho molto interesse per un’architettura fondata esclusivamente sulla coscienza e sulla conoscenza del passato. Ciò mi porta quasi naturalmente a pensare architetture che guardano alle nuove forme di relazione che le persone intrattengono. Perciò progetto spazi dove siano la leggerezza e la fluidità a rappresentare il con10 Tama Art University Library, 2002-2007 11 tinuo movimento nel quale sono immerse le nostre vite. Le Lezioni americane di Italo Calvino possono averla influenzata sulla definizione di temi quali la leggerezza e la trasparenza che caratterizzano la sua produzione architettonica? Non ho letto Lezioni Americane di Calvino, però ho un ricordo molto vivo de Le città invisibili, e il modo fantastico con il quale in quel libro si entra da posti reali e si esce da luoghi immaginari. È un libro che fa sognare, con una concentrazione e una densità incredibili di fantasia. Non so rispondere con esattezza alla domanda che lei mi pone. Posso però dire che è un libro che mi ha sicuramente molto divertito. Quali sono i caratteri della sua proposta per un’architettura dell’era elettronica? Si dice che il XX secolo sia stato il secolo dell’elettricità e che adesso invece siamo entrati in quella dell’elettronica. Noi sappiamo che le macchine esistono e rappresentano l’astrazione all’interno del complesso sistema della natura. Sono elementi solo apparentemente non-naturali e ci aiutano a rendere efficiente il nostro sistema di produzione. In altri termini, sto parlando del frequente dibattito tra natura e artifi12 cio, tra anima e tecnologia. La tecnologia è secondo me un’astrazione naturale che negli ultimi tempi ha avuto uno straordinario sviluppo. La differenza sostanziale esistente tra il sistema delle macchine e il sistema elettronico consiste, a mio parere, nel fatto che l’era delle macchine era definita da un sistema basato sull’uso di singole parti assemblate assieme. Queste singole parti rendevano efficiente la produzione, ma tutto il sistema si basava sulla autonomia degli elementi che erano scissi dal sistema superiore al quale davano vita. Nell’era dell’elettronica assistiamo invece al nascere del concetto di network: quell’elemento che prima era scisso, adesso viene messo a sistema, fa parte di qualcosa di più grande, e ha anche cominciato a emettere segnali. E questo in qualche modo lo fa rassomigliare e lo avvicina al funzionamento complesso della natura. In buona sostanza, mi sembra che la tecnologia dell’era elettronica si stia, e ci stia, avvicinando al mondo della natura dal quale si era temporaneamente allontanata quando mostrava il suo carattere meramente meccanico. Nella sua visione del futuro, natura e tecnologia saranno una cosa sola. Ci chiarisce questo suo pensiero? 13 Provo a dare una spiegazione partendo dai sistemi biologici. Se guardiamo al mondo della natura, come l’acqua che scorre, o i flussi del vento, o alla forma degli alberi, o alle forme viventi ci rendiamo conto che non vi è la presenza di angoli retti. Allora mi chiedo: perché i fiumi non scorrono in linea retta? Perché i rami degli alberi non si diramano usando angoli a novanta gradi? L’architettura invece usa quasi sempre gli angoli retti e quando non lo fa, usa le forme circolari facendo uso di una geometria elementare, di una geometria spontanea, ingenua potremmo dire. Per quanto mi riguarda, ritengo che la vita degli uomini sia stata influenzata dal mondo della natura. Più mi avvicino alla complessità del sistema naturale, più spontaneamente cerco di usare una geometria che esprima una architettura vicina al mondo della natura. Ed è per questo che l’uso del computer, con il quale si possono compiere dei calcoli complessi, ci ha dato maggiori possibilità di avvicinarci di più a un’espressione “naturale” che appartiene più al XXI secolo che a quello precedente. Trovo questo pensiero particolarmente eccitante. L’artista coreano Nam June Paik afferma che la videoarte imita la natura, non nel suo aspetto o nella sua dimensione, ma nella sua intrin14 Ripples, 2003 realizzato da HORM s.r.l. seca struttura temporale. In che modo la sua architettura imita la natura? Il primo problema riguarda il trascorrere del tempo. Ciò significa che il mondo della natura non ferma mai la sua evoluzione, pulsa sempre, in essa tutto si muove e muovendosi cambia di continuo. Quando e come l’architettura si inserisce in questa situazione? Innanzitutto, ritengo che in questo processo l’architettura non vi rientra sempre e a priori, ma acquista una sua ragione d’esistere solo quando riesce a instaurare relazioni con la natura, ogni qual volta la natura stessa pone all’architettura dei problemi. Concedetemi un esempio che permetterà di capire facilmente cosa intendo dire. Sappiamo che l’acqua di un fiume scorrendo dentro gli argini determina una corrente. Se provo a mettere dentro questa corrente un palo, si cominceranno a formare dei piccoli mulinelli in quella particolare zona del fiume. Ancor più della corrente - che rappresenta la condizione dinamica iniziale - come architetto sono interessato a questi vortici che si vengono a formare attorno al palo, a ciò che la presenza del palo è capace di produrre e mutare nella condizione originaria, nella immagine del fiume che comunque continua a scorrere. In generale, quando gli architetti costruiscono un palazzo è come se piantassero un palo all’interno del tessuto urbano che si può assimilare al grande flusso d’acqua che scorre. Certo, esso è più lento nel trasformarsi e non ha la stessa fluidità della corrente. Sicuramente, non arrivo a pensare che i palazzi che costruiamo possano muoversi. Per analogia con il palo e la corrente del fiume, voglio dire che quel palazzo inserito in un tessuto urbano determina un cambiamento in quel posto mentre tutto il resto resta immutato. Io sono interessato al cambiamento del tessuto urbano in quel punto, ai mulinelli. Sono interessato alle relazioni con il contesto, ai flussi che danno forma alla natura e alla vita. 16 17 La cultura giapponese riconosce i tratti dell’eternità in ciò che vive e perisce rapidamente. Alcuni templi vengono ciclicamente abbattuti e ricostruiti, così come molti edifici civili. Ciò che si vuole tramandare non è la sostanza fisica ma lo stile, il senso celato dietro ogni opera. Che rapporto hanno i suoi edifici con il tempo? I templi scintoisti vengono distrutti e ricostruiti più volte, ed è nella ripetizione di questo gesto che lo scintoismo rivela ai propri fedeli il rito della trasformazione della vita in morte e della mor- te in rinascita a nuova vita. La continua ricostruzione simbolizza l’esperienza di ciò che è eterno e la comprensione del senso dell’eternità è affidata alla reiterazione del gesto di ricostruzione...L’architettura tradizionale giapponese ha usato il legno come materiale di costruzione, il suo ciclo di vita è sempre stato particolarmente breve, soprattutto se lo paragoniamo alle costruzioni europee in pietra. Ma come riuscire a far vivere a lungo un’architettura? Credo che conosciate la tecnica usata nel santuario di Ise. Lì vi sono due terreni sacri contingui, su uno di essi vi si trova il santuario che ogni 15 anni viene abbattuto per essere immediatamente ricostruito nel recinto sacro contiguo. In questo modo si procede alla purificazione della casa sacra degli dei che viene ricostruita immediatamente accanto per ospitare i tesori sacri della religione scintoista. In questo modo, attraverso la sua ciclica ricostruzione, il tempio comunica un messaggio alle generazioni future. In Oriente, non è la materia che conserviamo ma la tecnica. Per quanto riguarda le mie architetture, non voglio che vivano per 100 o 200 anni. Se anche durassero molto meno, tanto quanto la vita di una persona,10, 20 o 30 anni, ciò non sarebbe per me motivo di sconforto perché non è la durata ciò che desidero per le mie opere. 18 Relaxation Park in Torrevieja, 2002 19
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