Kurosawa
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Kurosawa
Ordine degli Architetti Verona e Cineclub Verona presentano OMAGGIO ALL’IMPERATORE Akira Kurosawa (黒澤 明) (Ōta, 23 marzo 1910 – Setagaya, 6 settembre 1998) Lo chiamavano “Tenno” Kurosawa, “Tenno” vuol dire Imperatore, e del cinema, come pochi altri è stato il vero “Imperatore”, non solo per la lunga carriera, per i tanti film, per i premi, ma, per l’idea che ha innalzato il cinema a arte suprema. Ogni suo film, infatti, esalta la commistione delle arti, dalla pittura alla musica, dall’architettura alla coreografia, dal teatro alla narrativa, fino alla poesia, alla grande poesia del suo cinema. Il breve cammino che proponiamo cerca di darne un’immagine varia nel centenario della sua nascita, un breve gioco per invitare il pubblico a affrontare lo spettacolare corpo della sua Arte. L’Ordine degli Architetti di Verona e il Cineclub Verona hanno pensato a questo omaggio in nome di una cultura, quella della scenografia cinematografica, che fin dalle origini ha portato l’Architettura nell’immagine cinematografica. Una cultura di cui Akira Kurasawa era sicuramente l’Imperatore. I film Lunedì 22 novembre ore 21 L'angelo ubriaco (Yoidore Tenshi, 1948, 98’) Regia : Soggetto: Sceneggiatura: Fotografia: Musiche: Montaggio: Scenografia: Interpreti: Produzione: Akira Kurosawa Akira Kurosawa, Keinosuke Uegusa Akira Kurosawa, Keinosuke Uegusa Takeo Ito Fumio Hayasaka Akira Kurosawa So Matsuyama Choko Iida (vecchio servitore), Michiyo Kogure (Nanae), Toshiro Mifune (Matsunaga, gangster), Chieko Nakakita (Miyo, infermiera), Noriko Sengoku (Gin, ragazza del bar), Takashi Shimura (Sanada il medico), Eitaro Shindo (Takahama), Reisaburo Yamamoto (Okada, il boss) Sojiro Motoki per Toho Nei bassifondi di Tokio nasce una strana amicizia fra un giovane capomafia malato di Tbc ed un medico alcolizzato che tenta di salvarlo. Giudicato dai critici giapponesi il miglior film del 1948, Kurosawa traccia a partire dall'immondo acquitrino dove s'affaccia la "clinica" del medico umanista e ubriacone un memorabile ritratto del disordine postbellico attraverso un rapporto di amore-odio tra due falliti. Angosciante, stridente, implacabile, eppure soffuso di una luce di speranza, e di riscatto, è sostenuto da due interpreti eccezionali, Shimura e l'esordiente Mifune, che saranno negli anni '50 e '60 i suoi interpreti favoriti. "... è il primo film totalmente libero da impedimenti esterni che abbia diretto" (A. Kurosawa). Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli Lunedì 29 novembre ore 21 Rashomon (Rashōmon, 1950, 84') Regia: Soggetto: Sceneggiatura: Fotografia: Musiche: Montaggio: Scenografia: Interpreti: Produzione: Akira Kurosawa Da due racconti di Ryunosuke Akutagawa Shinobu Hashimoto, Akira Kurosawa Kazuo Miyagawa Fumio Hayasaka Akira Kurosawa So Matsuyama Toshiro Mifune Tajomaru, Il bandito, Machiko Kyo Masago, Masayuki Mori Takehiro, Il samurai, Takashi Shimura Il boscaiolo, Minoru Chiaki Il bonzo, Fumiko Homma La maga, Daisuke Kato Il servo, Kichijiro Ueda Il passante, Kigigiro Vedo La guardia Jingo Minoru per Diadei Sotto il portico del tempio del dio Rasho a Kyoto nel XV secolo un boscaiolo, un bonzo e un servo rievocano un tragico fatto di sangue, giudicato in un tribunale davanti al quale hanno deposto come testimoni: un bandito aveva aggredito un samurai che, in compagnia della moglie, attraversava una foresta, uccidendo l'uomo e violentando la donna. Alla prima versione dei fatti data dal bandito segue quella della donna: entrambe sono raccontate dal boscaiolo. Il bonzo riferisce una terza versione, fatta dallo spirito del defunto samurai, evocato da una maga. Allora, riprendendo la parola, il boscaiolo confessa di avere assistito al delitto e racconta ai compagni una quarta versione, prima di raccogliere un bambino abbandonato e portarselo a casa. Tratto da 2 racconti di Ryumosuke Akutagawa (1892-1927), il dodicesimo film di A. Kurosawa vinse a sorpresa il Leone d'oro a Venezia nel 1951, facendo da battistrada nei festival e sui mercati europei al cinema giapponese. Scandito dal ritmo ossessivo di un bolero, è un film in cui le diverse componenti letterarie, psicologiche (persino psicanalitiche) e drammatiche si fondono in una superiore unità filmica che rimanda al cinema muto e, insieme, anticipa la tecnica televisiva con un linguaggio febbrilmente barocco nel suo virtuosistico dinamismo. L'incrociarsi delle versioni contraddittorie serve "meno a sottolineare la vanità o la debolezza umana... che a far sentire l'abisso che separa le parole e le cose, la soggettività e la realtà... A questo proposito Rashomon è più vicino a Faulkner che a Pirandello" (J. Lourcelles). Premio speciale agli Academy Awards 1951: l'Oscar per il miglior film straniero fu istituito nel 1956. Rifatto a Hollywood come L'oltraggio (1964) con la regia di M. Ritt e Paul Newman nella parte di T. Mifune. Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli Lunedì 6 dicembre orario speciale ore 20.30 I Sette Samurai (Shichinin no Samurai,1954, 200') Regia: Soggetto: Sceneggiatura: Fotografia: Musiche: Montaggio: Scenografia: Akira Kurosawa Shinobu Hashimoto, Akira Kurosawa, Hideo Oguni Shinobu Hashimoto, Akira Kurosawa, Hideo Oguni Asaichi Nakai FumioHayasaka Akira Kurosawa; Kohei Ezaki, Seiton Maeda, So Matsuyama Interpreti: Yu Akitsu (marito), Minoru Chiaki (Heihachji), Ichiro Chiba (prete), Tono Eijiro (ladro), Kamatari Fujiwara (Manzo), Bokuzen Hidari (Yohei), Fumiko Homma (paesano), Yoshio Inaba (Gorobel), Sojin Kamiyama (prete), Tsuneo Katagiri (paesano), Ko Kimura (Katsushiro), Kuninori Kodo (Gisaku), Yoshio Kosugi (Mosuke), Toshiro Mifune (Kikuchiyo), Seiji Miyaguchi (Kyuzo), Haruo Nakajima (bandito), Takashi Narita (bandito), Toranosuke Ogawa (vecchio capo villaggio), Masanobu Okubo (bandito), Senkichi Omura (bandito), Shin Otomo (bandito), Keiji Sakakida (Gosaku), Noriko Sengoku (moglie di Rikichi presa dai banditi), Yukiko Shimazaki (moglie di Risichi),Takashi Shimura (Kambei Shimada, caposamurai), Shimpei Takagi (capo dei banditi), Shuno Takahara (bandito), Akira Tani (bandito), Yoshio Tsuchiya (Risichi), Keiko Tsushima (Shino, figlia di Manzo); Produzione: Shojiro Motoki per la Toho Nel Giappone del XVI secolo in cui orde di soldati sbandati e dediti al brigantaggio saccheggiano le campagne, la popolazione di un povero villaggio decide di ricorrere ai samurai, nobile casta di soldati di ventura, nella speranza di trovare qualcuno disposto a impegnarsi in un'impresa così umile e così poco remunerata. Li trovano. Selezionati dal saggio e disincantato Kambei (Shimura), cinque rispondono all'appello. Il settimo è il contadino Kikuchiyo (Mifune), miles gloriosus che vuole conquistarsi sul campo l'onore di essere promosso samurai. Nella strenua difesa del villaggio quattro dei sette e molti contadini muoiono da prodi. Molti fattori contribuiscono a fare la grandezza del 14° film di A. Kurosawa: la sapienza della costruzione narrativa (1 prologo, 1 epilogo e 4 capitoli: la ricerca dei contadini, il reclutamento dei samurai, l'organizzazione della difesa, la battaglia che dura tre giorni e tre notti); l'ariostesca varietà degli episodi e dei registri narrativi unita alla bellezza figurativa di questo affresco corale; la straordinaria galleria dei sette, ciascuno dei quali rappresenta un diverso aspetto della moralità e del comportamento dei samurai; la ricchezza dialettica nel confronto tra due culture; l'equilibrio tra la toccante elegia dei sentimenti e l'epica turbinosa dell'azione. L'epilogo è su una nota di virile malinconia: noi samurai, dice Kambei, siamo come il vento che passa veloce sulla terra, ma la terra rimane e appartiene ai contadini. Anche questa volta siamo stati noi i vinti; i veri vincitori sono loro. Scritta dal regista con Shinobu Hashimoto e Hideo Oguni l'edizione originale di 200 min – ridotta subito a 160 per il Giappone e a 130 per l'esportazione – fu ripristinata nel 1980. Rifatto a Hollywood in forma di western con I magnifici sette (1960) e come film di SF: I magnifici sette dello spazio (1980). Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli Lunedì 10 gennaio ore 21 La fortezza nascosta (Kakushi-toride no san-akunin, 1958, 139') Regia: Akira Kurosawa Soggetto: Ryûzô Kikushima, Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto, Akira Kurosawa Sceneggiatura: Ryûzô Kikushima, Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto, Akira Kurosawa Fotografia: Kazuo Yamasaki (con il nome: Ichio Yamazeki) Musiche: Masaru Satô Montaggio: Akira Kurosawa Scenografia: Yoshirô Muraki Interpreti: Minoru Chiaki Tahei, Kamatari Fujiwara Matakishi, Toshirô Mifune generale Rokurota Makabe, Misa Uehara Principessa Yuki, Susumu Fujita generale Tadokoro, Takashi Shimura generale Nagakura, Toshiko Higuchi ragazza Produzione: Sanezumi Fujimoto, Akira Kurosawa Due astuti contadini sono assunti da un generale che vuole far passare una principessa e un carico d'oro attraverso il territorio nemico. Peripezie e pericoli a catena. Divertimento di alta classe sotto il segno di una libera e leggera fantasia ariostesca. E l'avventura allo stato puro con episodi di straordinario fascino. Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli Lunedì 17 gennaio ore 21 Rapsodia in agosto (Hachigatsu no rapusodī, 1991, 98') Regia: Akira Kurosawa Soggetto: Akira Kurosawa dal romanzo Nabe no naka di Kiyoko Murata Sceneggiatura: Akira Kurosawa Fotografia: Takao Saito, Shoji Ueda Musiche: Shinichiro Ikebe (da Schubert e Vivaldi) Montaggio: Akira Kurosawa Scenografia: Yoshiro Muraki Interpreti: Sachiko Murase (Kane), Hisashi Igawa (Tadao), Narumi Kayashima (Machiko), Richard Gere (Clark), Hidetaka Yoshioka (Tateo), Tomoko Otakara (Tami), Mie Suzuki (Minako), Mitsunori Isaki (Shinjiro), Toshie Negishi (Yoshie), Choichiro Kawarasaki (Noboru) Produzione: Hisao Kusosawa per Produzioni Kurosawa In una casa di campagna vicino a Nagasaki quattro ragazzi passano le vacanze con la nonna, sopravvissuta all'attacco atomico del 1945. Dalle Hawaii arriva un loro cugino nippo-americano. Piccolo film, forse, ma non film minore: un po' verboso e didattico, ma di una semplicità così tersa e franca nell'esporre grandi temi (la strage atomica, la memoria del dolore, il lutto) da non poter essere scambiata per semplicismo. Magici intervalli descrittivi e, nell'epilogo, un grande momento di cinema. Kurosawa aveva già affrontato il tema atomico in Se gli uccelli lo sapessero (1955) e in 2 episodi di Sogni (1990), ma, più che sulla tragedia di Nagasaki, è un film sulla vecchiaia. Da un romanzo di Kikoyo Murata. Infelice doppiaggio italiano. Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli Tokyo, fine della II guerra mondiale. Il gangster Matsunaga (Toshiro Mifune), ferito durante il "lavoro" va a farsi curare dal Dr. Sanada (Takashi Shimura). Scopre così di avere la TBC ma, troppo orgoglioso per ammetterlo, resiste al dottore che vuole curarlo. Il dottore però non si dà per vinto e, nonostante le reazioni dell'uomo, riesce finalmente a convincerlo a curarsi. Nel frattempo, l'assistente del dottore cerca di nascondersi da Okada, il marito appena uscito di prigione (anch'egli facente parte dalla gang di Matsunaga), che la rivorrebbe con sé. Il boss yakuza, saputo della malattia di Matsunaga decide di liquidarlo e sostituirlo con Okada, appena liberato. Matsunaga, deluso e arrabbiato dal benservito del boss, si scontra con il clan. Al centro della storia l'ostinazione del dottore nel voler curare il prossimo. L'idea è quella di quattro serate in cui saranno presentati: Rashomon (1950, 84') Mario Gromo La Stampa In questo singolare e potente film giapponese siamo intorno al millecento, l'epoca è remota ma potrebbe esserlo anche di più. Siamo, in realtà, nel tempo degli istinti primordiali, in una foresta, dove, più che del Fujihama, ci si ricorda delle selve nibelungiche. Un taglialegna trova un cadavere, corre a farne denuncia; e poco dopo, dinanzi ai giudici che non si vedono (al posto dei giudici ci sono gli spettatori, imputati e testimoni a essi si rivolgono), dinanzi al tribunale invisibile, sta in ceppi l'assassino, Accanto a lui sono la vedova della vittima, il taglialegna che scoprì il cadavere, e la guardia che arrestò il brigante. Fu colpa di una lieve brezza che si levò improvvisa, dice il truce brigante Tagiomaru. Se ne stava assopito nel bosco, era stanco, non aveva bisogno di nulla, non avrebbe mai certo pensato di aggredire il samurai Tachehiro che passava nei pressi, con la bella moglie Masago, avvolta in un fitto velo, pendente dalla cavalcatura. Ma un po' di brezza risveglia il brigante assopito, e gli offre lo schiudersi di quel velo. Basta quella rapida visione, Tagiomaru raggiunge i due, con uno strattagemma s'apparta con il marito, lo aggredisce, lo vince, lo lega a un albero; e usa violenza alla donna. Si allontanerebbe, poi; ma quella, che non ha subito la violenza soltanto con orrore, incita i due a decidere con le armi a chi dovrà per sempre appartenere. Gran duello, il samurai cade colpito a morte, la donna fugge inorridita. È questa la «versione» del brigante. Nel suo animo primordiale la giustificazione della brezza improvvisa, che di tanto malfamate; l'essere poi riuscito a legare come un fagotto il samurai, e avergli quindi combinato, secondo lui, quel bellissimo scherzo, che ancora gli desta acutissime risate; ma sopratutto l'aver risolto la lotta decisiva con un regolarissimo duello all'ultimo sangue: tutto ciò colora e giustifica per lui il fatto, anche se sa che lo porterà alla forca. Tocca ora al racconto-deposizione della donna. Quando il brigante, bestialmente soddisfatto, se n'era andato, lasciandola con il marito, aveva creduto, subito dopo averlo liberato, di scorgere in lui furore, orrore, pietà, disperazione. E invece: un freddo, gelido sguardo, di tagliente, silente ironia. Dapprima incredula, poi come smarrita, infine fremente, l'aveva scongiurato di non guardarla così, di non farle quell'affronto forse peggiore di quello che aveva subito. Ma perdurando quel silenzio che la giudica e la condanna, e per sempre la scosta da quella che sarebbe stata la loro vita; facendosi sempre più sottile e crudele quell'impercettibile risolino d'ironia, che si è annidato nel fondo di quelle gelide pupille; la donna sempre più se ne ossessiona, se ne esaspera, fino a immergere un pugnale nel cuore del marito. Ora è dinanzi ai giudici, disperata; proprio non saprebbe come tutto ciò sia potuto accadere, si sente soltanto la sciagurata vittima ed eroina del più tremendo dramma che mai donna abbia dovuto subire. E tocca ora alla versione del... morto. Siamo nel millecento, il tribunale fa evocare, da una maga-medium fattucchiera, lo spirito del poveraccio. Il quale racconta come abbia raggiunto gli inferi. È laggiù, nella tetra landa dei suicidi. Quando il brigante, bestialmente soddisfatto, stava per abbandonare la donna, questa l'aveva supplicato di portarla con sé, non solo, ma l'aveva incitato a uccidere il marito. Ci sono dei limiti, anche per un brigante giapponese del millecento. Tagiomaru, a quella proposta; aveva subito sentito una mascolina e nobile colleganza per il disgraziato marito, odio e disprezzo per la donna. L'aveva minacciata di morte, quella era fuggita. Anche Tagiomaru se n'era andato; e il povero samurai, rimasto solo e disperato, si era ucciso, il meno che un nobile samurai, in simili circostanze, potesse fare. E infine ci sarebbe ancora una quarta versione, quella del taglialegna, più o meno plausibile, come le altre. Relatività delle percezioni e delle interpretazioni umane, lo sapevamo. Il brigante vede ogni cosa da bel brigante, e ci tiene, e ci tiene che gli altri vi credano; la donna idem; il samurai idem. Sono questi i significati più innegabili del film; che avvince perché la regia è ottima, ogni pagina di per sé non potrebbe forse essere meglio scandita, e la recitazione è quasi superba (Toshiro Mifune, il più popolare attore giapponese, Machico Chiyo, Masayuki Mori e Takasci Scimura). Ma il film desta qualche dubbio per il non sempre dissimulato stridore fra la sottigliezza, tutta. contemporanea, di voler indagare, dello stesso fatto, le più diverse e inconsce interpretazioni di quanti l'hanno vissuto, e il fatto in sé, primitivo, acre, selvaggio, bestiale. Ciò che dovrebbe primeggiare, interessando e convincendo, è la diversità di quelle interpretazioni, di volta in volta; la travolge invece il silvestre Grand Guignol che ogni volta belluino irrompe con la sua nuova variazione; mentre la finale moraluccia edificante è piuttosto posticcia,non risolve ciò che dovrebbe risolvere. Tuttavia, pur essendo in qualche sua giuntura pirandelliana qua e là predisposto e persino artificioso, il film è di quelli che non si dimenticano, ha accenti genuini, pagine superbe: come la lunga carrellata nella foresta, il primo mortale duello, il racconto della donna, l'evocazione della maga, e molti toni di un'atmosfera nella quale vibrano echi secolari e vorrebbe vibrare una sottile inquietudine dei nostri giorni che a quelle secolari tradizioni sapesse inchinarsi. Bello, inaspettato ritorno del cinema giapponese, con un'opera che è di uno dei più significativi ed esperti fra i suoi registi. (1951) Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957 I Sette Samurai ( 1954, 200') Mario Gromo La Stampa Il film è di Akira Kurosawa, il regista di Rashomon, ed è un'ultra rievocazione del Giappone feudale. Con minori raffinatezze dei precedenti film del genere, ma con un suo nerbo e un suo carattere, alle volte francamente sbrigliati e popolari, inseriti in quell'epoca lontana con cadenze di un vasto dramma e con accenti di un rusticano poema eroicomico. Vale la pena di tentarne un succinto racconto, almeno della prima parte. Nel vecchio Giappone dei samurai, dei «Signori della guerra», imperversano le lotte intestine. Siccità, carestie e predoni accrescono quelle sciagure. Con molti altri un povero villaggio di contadini è già stato vittima di saccheggi e di razzie. Ora una pattuglia di banditi a cavallo appare sull'alto della collina, il capo dice che adesso non vale la pena di scendere a predare, meglio attendere la mietitura. Un contadino ha tutto udito, corre a dare l'annuncio di quella nuova sventura; e terrori, e pianti, e lamentazioni, destano fra le povere case un coro di una pena antica, il dolore dei deboli, degli oppressi. Qualcuno propone di prepararsi a resistere ai predoni, ma altri gli dà del pazzo, un tentativo di resistenza significherebbe per tutti la morte. Decidono allora di recarsi per consiglio dai «nonno», il decano del villaggio; e quel volto ormai al di là del tempo ha poche, lente parole. L'unica salvezza è nell'assoldare, per difesa, qualche samurai; gli si potrà offrire del buon riso ogni giorno, per nutrire i samurai il villaggio potrà anche nutrirsi di miglio. Quattro contadini partono allora alla ricerca di chi; a quelle condizioni, li vorrà difendere. Timidi, incerti, persino atterriti, di paese in paese non osano affrontare quei bravacci dalle armi forbite, dallo sguardo duro e dal passo sciolto, i «signori» che «sanno fare» la guerra. Raggiungono un altro villaggio, in subbuglio perché un ladro si è asserragliato in una capanna, dopo aver rapito un bambino: lo ucciderà se tenteranno di arrestarlo. Appare allora Kambei, un robusto, calmo samurai sulla cinquantina. Non. parla. Si siede sulla proda di un fosso, cava di tasca un suo piccolo rasoio, si fa fondere il cranio, come un bonzo. Poi si fa portare una tunica da bonzo, la indossa; e con fra le mani un po' di riso si avvicina alla capanna, esorta il ladro a cibarsi, a nutrire anche il bambino. L'altro lo crede un bonzo, un sacerdote, lo lascia entrare; fulmineo il bonzo-samurai lo colpisce a morte; poi prende il bambino, lo restituisce alla madre; e se ne va, senza una parola, così come era venuto. I quattro contadini esultano. Quello, farebbe al caso loro. Per bravo, è bravissimo; e per di più non ha chiesto nessun compenso. Ma da Kambei hanno un lento rifiuto. È quasi vecchio, è stanco di guerre, di sangue. Poi, a poco a poco, la pena di quei poveracci lo persuade, lo commuove. Si fa spiegare la situazione del villaggio. Per difenderlo occorreranno sei, no sette, almeno sette samurai. I contadini si guardano. Il «nonno» aveva loro tanto raccomandato di ingaggiarne non più di tre, sarebbe già stato un grosso sacrificio nutrirne tre; ma poi si rassegnano; e Kambei, che si è sempre più convinto della bontà di quella causa, vuole essere allora sicuro degli altri sei compagni, li sceglierà lui, a uno a uno. Ma se ne trovano soltanto cinque. Invano si offre Kikuchio, un po' gradasso, un po' mentecatto, un po' sbruffone. Kambei lo ha subito fiutato, che non è samurai: È infatti figlio di contadini, il suo villaggio era stato più volte saccheggiato e infine distrutto dai. predoni; e, rubate alcune armi, Kikuchio si era messo a vivere alla ventura, vuole anche ora farsi credere un nobile guerriero. Come un cane seguirà il gruppo dei samurai e dei contadini; invano ne sarà dileggiato, respinto; alla fine la spunterà, sarà accolto. Lo spazio manca per minutamente seguire le vicende del film, che consisteranno nell'apprestare a difesa il villaggio, nell'addestrare gli uomini con rozze lance, poi in una fortunosa sortita fino al covo dei briganti, ormai apparsi nei pressi, e nella decisiva battaglia. I banditi saranno sconfitti, a gruppi successivi; e infine, dopo lotte, morti e lutti, si potrà iniziare la piantagione del riso, preludio a un nuovo raccolto. Anche Shino, il più giovane dei samurai, lavorerà di lena; e rimarrà nel villaggio, per i begli occhi della bella Katsuhiro. Sono parecchie le insistite ridondanze nelle foltissime e convulse sequenze della battaglia, ma non si possono formulare altre notevoli riserve a questo bel film. Tutto vi è inquadrato e animato con molta sapienza, ma specialmente i vari tipi sono disegnati con robusta finezza. Il saldo Kambei è davvero un capo, guerriero di una giusta causa, solitario e onnipresente, severo e paterno; il giovane Shino è all'opposto il giovanissimo, il cadetto, quale avrebbe potuto tratteggiarlo un piccolo Stendhal di Kioto; Kyuzo, agile e asciutto, talvolta dagli atteggiamenti quasi femminei, schivo, taciturno, è c il diavolo della spada», sa scattare in incredibili gesta di un preciso ardimento, per poi rimettersi a sedere, come annoiato, come se non avesse fatto un bel nulla. Ma la figura più vistosa, pittoresca e difficile era quella di Kikuchio, il contadino sbruffone che infine morirà da guerriero, da samurai. Un po' ricorda certe figure di saghe popolari slave, un po' lo spaccone, uri po' un rustico semifolle; ed è modulato con una penetrazione rara che culmina in un suo grido quando, alla prima minaccia dei banditi, riesce a salvare un bimbo da un mulino in fiamme. Guarda quel bambino che gli si dibatte fra le manacce, lo fissa costernato, atterrito, e urla: «Sono io, ero io, così!». Un commento sonoro efficacissimo, per lo più affidato a metallici clangori di trombe, o a cupi ritmi di tamburo, o a immanenti cori a labbra chiuse; la solita fotografia im peccabile dei giapponesi; e un folto gruppo d'attori che dovremmo citare a uno a uno, basterà ricordare Takashi Shimura (Kambei), Seiji Miyaguchi (Kyuzo), Keiko Tsushima (Shino), e infine Toshiro Mifune (Kikuchio), il bandito di Rashomon. (1954) Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957 La fortezza nascosta (1958, 139')Due astuti contadini sono assunti da un generale che vuole far passare una principessa e un carico d'oro attraverso il territorio nemico. Peripezie e pericoli a catena. Divertimento di alta classe sotto il segno di una libera e leggera fantasia ariostesca. E l'avventura allo stato puro con episodi di straordinario fascino.Morandini Guerre Stellari viene da qui. Questo film è in bianco e nero, ma più magico di un movie in 3D con effetto surround e FX digitali. È un piccolo gioiello giapponese, che reca la firma del ‘gigante’ Akira Kuraswa. Per i critici è il suo film più libero, disimpegnato, brillante e divertente. Si diverte Kurosawa a sbizzarrirsi con le possibilità offerte dal cinemascope, si diverte a raccontare una storia a briglia sciolta. La trama in breve, è questa: due astuti contadini sono assunti da un generale che vuole far passare una principessa e un carico d'oro...». In un Giappone feudale, dilaniato da conflitti intestini, il generale Rokurota Makabe (Toshiro Mifune), a seguito della sconfitta e della morte del suo signore, deve portare in salvo, in territorio neutrale, la sedicenne principessa erede al trono (Yuki) e il tesoro dello stato - sbarre d'oro camuffate dentro rami secchi - necessario a finanziare la riscossa.Mettendo a buon partito l'avidità, nonché la furbizia e il buon senso di Matakishi e Tahei, uomini del popolo alla ricerca di un riparo dall'inferno che infuria tutt'intorno, e tenendoli all'oscuro dell'identità sua e della principessa, riesce ad attraversare, tra mille insidie, il territorio nemico e a portare a termine la missione RAPSODIA IN AGOSTO (1991, 98')Estate 1990, quattro cugini trascorrono le vacanze dall’anziana nonna, Kane, in una casa vicino a Nagasaki: i loro genitori sono andati nelle Hawaii per rispondere all’appello di un vecchio zio, Suzujiro, emigrato laggiù negli anni Venti. Ormai vecchio e malato, desidera rivedere la sorella prima di morire. Kane esita: non si ricorda bene di questo fratello. I ragazzi invece si entusiasmano all’idea del viaggio. La nonna racconta ai nipoti i ricordi di un’altra estate, quella del 1945, l’ estate della bomba. I cugini vanno in città e visitano la scuola dove è morto il nonno che vi insegnava. C’è un monumento nel cortile e una lapide che ricorda il giorno e l’ora della tragedia. La nonna racconta quel 9 agosto. Era rimasta a casa mentre il marito era nella scuola dove anche lei insegnava. Ci fu un bagliore, il cielo si oscurò, e da casa, guardando verso la città, vide in cielo un occhio gigantesco. Dalle Hawaii giunge una lettera per Kane. È del figlio di Suzujiro, Clark, che insiste perché venga a far visita al vecchio fratello. La donna si convince: partiranno subito dopo le cerimonie commemorative del 9 agosto. Ritornano dalle Hawaii i figli di Kane e scoprono con disappunto che la donna nel giustificare la data del viaggio aveva scritto ciò che loro per opportunismo avevano accuratamente taciuto: che il marito di Kane era stato ucciso dalla bomba. Un telegramma annuncia l’arrivo di Clark. Disagio in famiglia: tutti credono che il cugino americano, offeso dalla rivelazione, voglia troncare ogni rapporto, ma Kane difende il suo diritto a raccontare la verità. Il giorno dell’ arrivo, i ragazzi, invece di accogliere Clark, se ne vanno a Nagasaki per rivedere la scuola. Ma è proprio qui che Clark, che racconto di aver appreso con dolore la verità sulla morte dello zio, vuole essere condotto. Durante il sopralluogo giunge una comitiva di anziani. Sono i sopravvissuti di quel 9 agosto: molti sono ciechi. Rendono omaggio in silenzio al monumento. Si avvicina la partenza per le Hawaii. Ma un telegramma che annuncia la morte di Suzujiro impone a Clark di partire subito. Il giorno dopo figli e nipoti scoprono che in casa non c’è più la nonna. La cercano e la trovano che si dirige a piedi, di corsa, a Nagasaki: il cielo livido e tempestoso è lo stesso di quel giorno. Il tema dell’angoscia atomica percorre tutto il cinema giapponese dopo le esplosioni fatidiche del 6 (Hiroshima) e del 9 agosto 1945 (Nagasaki), dai Bambini di Hiroshima di Kaneto Shinto (1952) a Pioggia nera di Shohei Imamura (1989). Anche in Kurosawa il tema dell’angoscia atomica non è nuovo: ci sono due episodi del recentissimo Sogni (1990), ma soprattutto c’è Ikimono no kiroku (noto come Se gli uccelli sapessero, 1955), dove Toshiro Mifune, ossessionato dalla minaccia nucleare, cerca di espatriare con la famiglia in Brasile. Eppure il breve, recente e apprezzato romanzo della Murata «Nabe no naka» (Nella pentola), che ha ispirato Rapsodia in agosto, parla molto poco della bomba atomica, tema centrale nello svolgimento del film. Ma come la protagonista Kane, anche Kurosawa non può dimenticare quell’estate del ’45, in Giappone tuttora un duro segno di contraddizione. In Rapsodia in agosto la bomba è vista attraverso tre generazioni: tre differenti esperienze di vita, tre differenti sensibilità. La generazione più giovane ha mitizzato l’avvenimento, relegandolo nel mondo della SF televisiva, ma è disposta a conoscere e a farsi coinvolgere. Quella di mezzo, per ragioni poco pulite e per opportunismo nei confronti degli americani, vuole cancellare il ricordo della bomba, ritenuto una turbativa nella vita sociale o negli affari. I più anziani, infine, hanno cristallizzato le tragedie del 6 e del 9 agosto in un eterno presente. A confrontarsi con la bomba sono anche chiamati gli americani: gli autoctoni e quelli di origine giapponese. I primi sono solo evocati, e gli si attribuisce la pretesa non solo di voler rimuovere la bomba, ma anche di fingere che non sia mai esistita. I secondi sono presentati nella figura di Clark, dapprima attraverso il luogo comune di chi non vuole ricordare e poi attraverso un vissuto assolutorio fatto di lacrime e di accettazione/ammirazione della cultura d’origine. I giornalisti americani, che ne hanno riferito dal Giappone o da Cannes, hanno sollevato riserve su quest’ultimo film di Kurosawa: Rapsodia in agosto tacerebbe delle responsabilità giapponesi nella guerra nippo-americana. È difficile addebitare al film questo capo d’accusa: qui si parla d’altro, non della seconda guerra mondiale. La bomba è il simbolo di un’epoca, l’immagine di un martirio, la profezia dell’apocalisse e perfino la causa di morti attuali: tutte cose che l’attacco a Pearl Harbor non può cancellare. Kurosawa è generazionalmente lontano sia dai ragazzini che rovistano un po’ distrattamente nel passato, sia da quei genitori che sembrano pantomime dell’ipocrisia quotidiana. Il vecchio regista vede con gli occhi della nonna, ne condivide la requisitoria: «Che cosa c’è di male a dire la verità? Lanciano una bomba atomica e si offendono se uno glielo ricorda. Capisco che vogliano dimenticare, ma non fingano che non sia mai successo». Le parole di Kane appaiono dure, quasi beffarde, certamente sgradevoli per una certa America, ma poi, senza soluzione di continuità, cedono il passo all’espressione di una pietà sincera: «Hanno detto che la bomba l’hanno lanciata per mettere fine alla guerra. Ormai la guerra è finita da quasi cinquant’anni, ma la bomba continua a fare la sua guerra. Non passa giorno che non uccida ancora». E conclude, la vecchia nonna, con un generico appello per l’umanità: «Tutto questo è solo colpa della guerra. Gli uomini fanno di tutto per vincere la guerra. In questo modo finiranno per distruggerci tutti». Il breve discorso, così bilanciato nelle motivazioni da non apparire coerente, non sembra tale da giustificare polemiche se non in chi si sente coinvolto per senso di colpa. E polemiche non sono in grado di giustificare gli altri minimi riferimenti politici. Durante la visita di Nagasaki, per esempio, i ragazzi si fermano di fronte ai monumenti commemorativi regalati da Stati esteri. «Manca quello americano», osserva uno. Gli replica l’altro: «Ragiona, sono stati loro a lanciare la bomba». O ancora la sottolineatura presente nel dialogo, e peraltro smentita dallo sviluppo degli avvenimenti, secondo cui i nippoamericani non vorrebbero gli si ricordasse di essere stati in salvo negli anni di guerra nel Paese nemico. Ci sono invece bugie e omissioni di cui gli americani dovrebbero essere grati a Kurosawa. La bomba di Nagasaki non è stata lanciata, come finge di credere Kane, per porre fino alla guerra (forse quella di Hiroshima servì allo scopo, o meglio a contenere le perdite americane nel conflitto, non certo quella dì Nagasaki). Kurosawa non sostiene che il Giappone fu vittima dell’atomica perché abitato da «musi gialli» contro i quali si potevano usare gli strumenti di morte non permessi contro gli europei. Infine, non ricorda la totale disattenzione che gli americani, abituati ad inviare nei porti dell’arcipelago navi con armamento atomico, continuano ad avere per la sensibilità giapponese sul problema nucleare. Con buona pace degli americani, non c’è manicheismo in questo film, ma solo una requisitoria, forse un po’ gridata, certo un po’ sentenziosa, ma tutta diretta contro la guerra. E, come sempre in Kurosawa, c’è la scelta di affrontare il sociale come momento del dramma privato, in questo caso quello di una donna che sovrappone le considerazioni sull’angoscia planetaria al timore della propria morte. Con Rapsodia in agosto Kurosawa torna dopo vent’anni a girare un film d’ ambiente contemporaneo che rappresenta anche la sua prima produzione interamente giapponese dal 1970. Ma né quell’ormai lontano Dodès’ka-den, nella sua singolare cifra stilistica, né il più lontano Anatomia di un rapimento, ultima su opera «neorealista», possono costituire il precedente anello di quest Kurosawa d’ambiente contemporaneo. Insomma, superati gli ottanta, il maestro giapponese si contraddice e si rinnova. E crea un’opera inedita che, indipendentemente dagli esiti, occupa un posto a sé nella filmografia del maestro. Rivisitazione della storia del Giappone contemporaneo e insieme della tradizione drammatica nipponica. Ecco dunque realismo e poesia in uno strano connubio che costituisce uno degli aspetti più singolari del film. Un realismo sobrio, scarno fino allo schematismo: lontanissimo da quello di cui il Kurosawa degli esordi era stato maestro. Un realismo che, nella sua pretesa di comunicazione, giunge a dividere la società giapponese in segmenti incomunicabili, quelli generazionali. Ma ecco anche una tensione poetica che non rifugge dall’onirismo e dalla visionarietà. Kurosawa sottolinea questi mondi con differenti cifre stilistiche modellate nel solco della cultura generazionale dei personaggi. Attorno alla vecchia Kane, la nonna, tutto si svolge su un palcoscenico sapientemente costruito su tavole di legno ricoperte dal tatami: gli sfondi e le quinte, in casa come nel tempio, sono teatrali. Attorno ai genitori c’è invece l’anonimato di una produzione televisiva e un dialogo quasi sempre prevedibile o ripetitivo. Attorno ai ragazzi, ci sono il gioco, il sogno, l’avventura, il coinvolgimento (il serpente marino dagli occhi di fuoco, il folletto verde della notte). Quando queste tre culture interagiscono, Kurosawa fa scattare una dimensione mensione nuova, sospesa tra la fiaba, la poesia e la visionarietà. Si pensi alla scena in cui la vecchia evoca ai nipoti quel 9 agosto, oppure alla contemplazione muta da parte dei ragazzi e dei loro genitori del pellegrinaggio dei superstiti della bomba nella scuola, o, infine, alla grande corsa delle tre generazioni del finale. Tre risultati di diverso interesse, tipici di questo film discontinuo. Nel primo purtroppo gli effetti speciali di Hishiro Honda non rendono giustizia all’emozione. Nel secondo il regista scommette tutto sul contrasto sonoro tra il silenzio della pietà e la musica religiosa che l’ accompagna. Nel terzo la chiave espressiva è solo cinematografica: è il prodigioso montaggio di Kurosawa. Attraverso il quale emergono sentimenti fortissimi di comunione al di sopra delle generazioni e delle tragedie storiche. Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 309, 11/1991
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