ML - Update n. 72
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MUSICLETTER .IT © ML 2010 - FREE Musica & altri percorsi | La prima non-rivista che “sceglie il meglio” - www.musicletter.it - Anno VI - Update N. 72 INTERVISTA BUD SPENCER BLUES EXPLOSION MUSICA DIRTMUSIC, DANZIG, SERENA-MANEESH, SUN KIL MOON, BIG BOI, MOTORAMA, PERTURBAZIONE, LOUIS PRIMA, JACKSON BROWNE & DAVID LINDLEY, LOKUA KANZA, TAPE FIVE, THE DEAD WEATHER, SAKEE SED, IL GENIO, IL TRICERATOPO, VERLAINE, BADLY DRAWN BOY, THE SUMNER BROTHERS, THE ELECTRIC PRUNES, THE PRIMEVALS, RAGE AGAINST THE MACHINE, SOUNDGARDEN, JOY DIVISION, SEAL, BLACK SABBATH, THE PRETTY THINGS, DIRTMUSIC & TAMIKREST, IGGY POP, THE CULT SPECIALE PROGRESSIVE ITALIANO RUBRICA PRESI NELLA RETE LIBRI ASCANIO CELESTINI FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO DODICESIMA PARTE musicletter.it chi siamo Luca D’Ambrosio Domenico De Gasperis Nicola Guerra Jori Cherubini Massimo Bernardi Marco Archilletti Manuel Fiorelli Pier Angelo Cantù “Eravamo stati via solo due giorni, eppure la città sembrava diversa. Più piccola.” Stand by Me - Ricordo di un'estate Pasquale Boffoli Franco Dimauro Gianluca Lamberti Nicola Pice Gianluigi Palamone Stefano Bon Giorgia Mastropasqua Costanza Savio Rossella Spadi Marco Tudisco Alessio Zago Alessandro Busi Claudia De Luca Laura Carrozza Antonio Anigello Valerio Granieri Matteo Ghilardi Luigi Lozzi Gaia Menchicchi Ilario La Rosa musicletter.it webmaster / progetto grafico Luca D’Ambrosio musicletter.it informazioni e contatti www.musicletter.it [email protected] musicletter.it copertina update n. 72 / 2010-08-04 BSBE | photo by Ilaria Maglioccetti Lombi ML 02 musicletter.it update n. 72 sommario MUSICA | SPECIALE INTERVISTA 04 BUD SPENCER BLUES EXPLOSION by Laura Carrozza MUSICA | RECENSIONI 09 DIRTMUSIC BKO (2010) by Luigi Lozzi 10 DANZIG Deth Red Sabaoth (2010) by Manuel Fiorelli 11 SERENA-MANEESH No. 2 - Abyss in B Minor (2010) by Valerio Granieri 12 SUN KIL MOON Admiral Fell Promises (2010) by Valerio Granieri 13 BIG BOI Sir Lucious Left Foot: The Son of Chico Dusty (2010) by Domenico De Gasperis 14 MOTORAMA Alps (2010) by Luca D’Ambrosio 15 PERTURBAZIONE Del Nostro Tempo Rubato (2010) by Jori Cherubini 16 LOUIS PRIMA The King Of Jumpin’ Swing - Greatest Hits (2010) by Luigi Lozzi 17 JACKSON BROWNE & DAVID LINDLEY Love Is Strange / En Vivo Con Tino (2010) by Luigi Lozzi 18 LOKUA KANZA Nkolo (2010) by Luigi Lozzi 19 TAPE FIVE Tonight Josephine! (2010) by Luigi Lozzi 20 THE DEAD WEATHER Sea Of Cowards (2010) by Matteo Ghilardi 21 SAKEE SED Alle Basi della Roncola (2010 ) by Nicola Guerra 22 IL GENIO Vivere Negli Anni X (2010) by Nicola Pice 24 IL TRICERATOPO Volume I (2010) by Nicola Pice 25 VERLAINE Rivoluzioni a Pochissimi Passi dal Centro (2010) by Nicola Pice 26 BADLY DRAWN BOY Is There Nothing We Could Do? (2010) by Nicola Pice 27 THE SUMNER BROTHERS Sumner Brothers (2008) by Luca D’Ambrosio 28 THE ELECTRIC PRUNES Too Much To Dream (2007) by Franco Dimauro 29 THE PRIMEVALS On The Red Eye (2005) by Franco Dimauro 31 RAGE AGAINST THE MACHINE S.T. (1993) by Franco Dimauro 33 SOUNDGARDEN Badmotorfinger (1981) by Franco Dimauro 35 JOY DIVISION S.T. (1980) by Franco Dimauro 36 BLACK SABBATH Sabbath Bloody Sabbath (1973) by Franco Dimauro 37 THE ROLLING STONES Exile On Main Street (1972) by Franco Dimauro 38 THE PRETTY THINGS Get The Picture? (1965) by Franco Dimauro MUSICA | SPECIALE PROGRESSIVE ITALIANO 39 TRACCE DI PROGRESSIVE ITALIANO by Luigi Lozzi MUSICA | LIVE REVIEW 42 IGGY POP Azzano Decimo (PN), Fiera della Musica (16.07.2010) by Matteo Ghilardi 43 SEAL Lucca, Piazza Napoleone (16.07.2010) by Manuel Fiorelli 44 DIRTMUSIC & TAMIKREST Faenza, Piazza Nenni (17.07.2010) by Nicola Guerra 45 THE CULT Roma, Ippodromo Capannelle (26.07.2010) by Manuel Fiorelli RUBRICA | PRESI NELLA RETE 46 STONED MACHINE, ORANGE BEACH… by Stefano Bon ALTRI PERCORSI | LIBRI 48 LOTTA DI CLASSE Ascanio Celestini (2009) by Alessandro Busi FRAMMENTI DI CINEMA RIMOSSO | DODICESIMA PARTE 49 SOTTO I RAGGI DEL SOLE Scampoli di cinema “in stile balneare” al tempo d’estate by Nicola Pice © ML 2005-2010 BY L UCA D’AMBROSIO ML non ha scopi di lucro, il suo unico obiettivo è la diffusione della buona musica www.musicletter.it non contiene informazioni aggiornate con cadenza periodica regolare, non può quindi essere considerato "giornale" o "periodico" ai sensi della legge 68/01. 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Nel 2007 comincia il loro percorso artistico come formazione a due: finalisti al contest dell’Heineken Jammin Festival, decine e decine di serate, il primo EP e on stage per il concerto del Primo Maggio per due anni consecutivi (2009-2010). Il loro primo vero album è omonimo e contiene dodici tracce più due bonus tracks (le versioni live di “Hey boy hey girl” e “Fanno meglio”, feat. Valentina Lupi). Abbiamo provato a capire cosa c’è dietro la loro incredibile ascesa. Ho provato a cercare una definizione adeguata per descrivere in modo efficace la vostra musica ma senza esito: è un mix & match incredibilmente efficace di blues, grunge, rock, elettronica e molto altro. Mi date una mano? (Cesare) In realtà siamo noi a cercare sempre un aiuto dalle persone che ascoltano la nostra musica per provare a definirla. Entrambi ascoltiamo generi molto vari e differenti tra loro, possiamo acquistare un disco di musica leggera italiana così come un album hardcore; inevitabilmente il background musicale viene fuori con le varie sfumature quando ti ritrovi in sala di incisione a comporre. Naturalmente, la matrice blues è quella che si avverte di più perché è si tratta di un genere che è stato fondamentale per la nostra crescita artistica. La musica che facciamo è un insieme di tutti i generi che hai citato ma crediamo non sia possibile individuare una singola etichetta, ci sentiamo molto liberi nel comporre e cerchiamo di non ci porci troppi limiti. Se si ascolta il nostro primo lavoro, questi aspetti emergono con forza, si tratta di un album molto vario e ricco di influenze diverse. ML 04 musicletter.it update n. 72 speciale intervista: bsbe Com’è nato l’amore per la musica blues? Siete stati influenzati da circostanze esterne oppure tutto è cominciato senza una ragione precisa? (Cesare) Entrambi amiamo molto questo genere musicale, anche se con preferenze diverse. Adriano è molto legato al vecchio blues, quello riconducibile al delta del Mississippi, grazie anche a un disco di Ry Cooder regalatogli dal padre; le mie preferenze si orientano, invece, più verso l’hard blues anni ’70, da Jimi Hendrix ai Led Zeppelin. Ci accomuna il fatto di essere molto più vicini musicalmente alla prima tipologia di blues (che per noi è l’anima vera del genere) e non alla scuola di Chicago. Il blues è un genere molto particolare, che non consente vie di mezzo: lo ami oppure lo detesti, non può esserti indifferente. Pur essendo a inizio carriera come band, avete raggiunto traguardi eccellenti apparentemente facendo quello che realmente avete voglia di fare, senza compromessi e imposizioni. Quanto conta avere la possibilità di restare fedeli al proprio percorso e di non doversi piegare a regole di mercato più o meno restrittive? (Cesare) È assolutamente fondamentale, per noi conta al 100%. Se cominci a sottostare ai compromessi, diventi schiavo di quello che ti propongono e che sei costretto a fare per andare avanti. Così non riesci più a capire qual è la tua strada, quella che vuoi davvero seguire, sei sempre meno te stesso. L’aspetto triste di tutta la questione è che oggi fare musica libera è l’eccezione e non la normalità, come invece dovrebbe essere e come la storia della musica insegna: i capolavori sono frutto dell’arte e della genialità dei musicisti. Il primo disco dei BSBE era un’autoproduzione, per il secondo vi siete affidati a un’etichetta indipendente. Come definireste il vostro rapporto con il mondo discografico? Mi riferisco soprattutto alla possibilità di lavorare con una major e ai relativi vantaggi/svantaggi che ne deriverebbero. (Cesare) Per il nostro primo album ci siamo affidati per la produzione a Yorpikus e per la distribuzione ad Audioglobe, entrambe indipendenti, cosa che ci ha permesso di non avere imposizioni e di strutturare il disco seguendo i nostri desideri e le nostre peculiarità. Crediamo comunque che oggi la linea di demarcazione esistente tra una major e un’etichetta indipendente sia molto meno marcata rispetto al passato: noi facciamo moltissimi concerti, il disco è disponibile in tutti i negozi, abbiamo realizzato dei videoclip, insomma, ci permettono di fare tutto quello che faremmo con un’etichetta importante. Quello che accadeva negli anni ’90, quando una major ti stipendiava anche se non realizzavi un album, oggi non accade più. Personalmente non avvertiamo l’esigenza di passare a un’altra etichetta, naturalmente se dovessero esserci delle proposte interessanti, le valuteremo con attenzione ma in questo periodo di transizione, in cui il mondo della discografia è in crisi, la cosa fondamentale resta la possibilità di fare quello che ti passa per la testa e non permettere al marketing di intaccare l’immagine che vuoi trasmettere al tuo pubblico. ML 05 musicletter.it update n. 72 speciale intervista: bsbe A quale pezzo dell’album siete più legati e per quale motivo? (Cesare) Essendo il nostro primo vero disco siamo molto legati a ogni singolo brano, anche se tra tutti spiccano “Hey Girl Hey Boy”, la cover dei Chemical Brothers che ci ha portato molta fortuna ed è stata l’inizio di tutto quello che è venuto dopo e “Mi sento come se”, perché è un pezzo dalle potenzialità live davvero elevate e che ci consente spesso di improvvisare on stage tutta la parte centrale. “Blues di merda”, un brano del primo album, è diventato per i vostri fan storici una sorta di inno generazionale; è un pezzo che sprigiona ironia già dal titolo, considerando il vostro amore sconfinato per la musica blues. prendersi Quanto troppo sul conta serio la per capacità di sopravvivere non nel contesto musicale italiano? (Cesare) È indispensabile! Quando cominci a fare musica e carichi i tuoi pezzi su una piattaforma come Myspace ti metti in gioco e, se prendi le cose troppo sul serio, rischi di rimanere scottato e di non riuscire a gestire la situazione e le conseguenze che ne derivano. In fondo noi abbiamo la possibilità di seguire i nostri desideri facendo il lavoro che abbiamo sempre sognato ed è un privilegio non da poco. Per i BSBE tutto è iniziato come un gioco e continua ad esserlo, vogliamo conservare la leggerezza e l’ironia pur senza perdere la nostra professionalità. Come nascono le vostre canzoni? Seguite dei rituali precisi oppure ogni volta è differente? (Cesare) Non abbiamo una particolare “procedura creativa”, di solito nasce tutto da un riff che crea Adriano e che io seguo a ruota con la batteria. Ci capita di unire vari pezzi creati magari in momenti differenti e di trovare poi un filo conduttore che possa far sviluppare efficacemente il brano. Per il resto, inizialmente usiamo testi fittizi e in un secondo momento Adriano crea quelli che sono poi i testi reali e definitivi. Seguiamo molto lo stile della musica grunge in questo, anche perché in Italia il testo è molto importante a causa della tradizione del grande cantautorato ma negli altri paesi, negli Stati Uniti in primis, il testo non è poi così rilevante. Mi viene in mente “Io sono le mie parole”, celebre aforisma di Bob Dylan utilizzato spesso per spiegare il modo di vivere e interpretare le proprie canzoni: secondo voi quindi qual è il peso di un buon testo, soprattutto quando si sceglie di fare un certo tipo di musica in cui la parte strumentale invade la scena, sia dal vivo sia in studio, in modo così imponente? ML 06 musicletter.it update n. 72 speciale intervista: bsbe (Cesare) Ha certamente il suo peso perché il vero messaggio si trasmette con il testo di un brano; anche da qui deriva la nostra scelta di cantare in italiano e non in inglese, proprio per creare un canale comunicativo efficace con il nostro pubblico. Nella scena musicale italiana ci sono molti artisti che riescono perfettamente i a due coniugare aspetti, ad esempio Il Teatro degli Orrori, la cui musica è potente e presenta una struttura particolare e molto riuscita sia dei testi sia degli arrangiamenti. Per tutte queste ragioni abbiamo già in mente di lavorare con maggiore impegno a livello testuale, così come vogliamo far emergere in modo più evidente l’aspetto live. Del resto i ragazzi che ci seguono hanno cominciato a conoscerci ai concerti e vogliamo provare a ricreare quell’atmosfera che si avverte in tour anche nell’album. Quanto contano le affinità elettive e l’armonia a livello caratteriale quando si suona in un gruppo di due elementi, al cui interno una rottura dell’equilibrio può causare anche lo scioglimento della band? (Cesare) È fondamentale, anche alla luce del fatto che passiamo gran parte del tempo in tour, dal mese di ottobre a oggi abbiamo fatto quasi 50 concerti e per l’estate sono previste ancora diverse decine di date. Fortunatamente noi due andiamo molto d’accordo, condividiamo anche la stessa casa quindi tutto diventa più semplice. Abbiamo iniziato a suonare insieme circa tre anni e mezzo fa, cominciando sin dai primi mesi a girare l’Italia e avendo modo di conoscerci subito molto a fondo. Può capitare di avere non tanto dei litigi quanto delle discussioni ma ciò che conta è il rispetto: se ci si rispetta, tutto il resto si può gestire. Il fenomeno BSBE è esploso anche grazie alla Rete e alle diverse piattaforme web che consentono immediata visibilità. Che cosa avrebbero fatto Adriano e Cesare negli anni ’70 per promuovere la loro musica? (Cesare) Bisogna sottolineare che il mondo della musica è cambiato molto negli ultimi anni; oggi per promuovere un disco si è tornati a suonare live, esattamente come si faceva negli anni ‘70. C’è stato un periodo, nei due decenni successivi, in cui i musicisti giravano solo con grosse produzioni, i tour erano imponenti e la promozione era assegnata ai videoclip ma adesso quello che conta è dare un impatto live in grado di lasciare il segno. In linea di massima quindi avremmo fatto le stesse cose! Avete avuto l’occasione di suonare negli States, in città simbolo come Seattle e New York. Quali aspetti dell’esperienza a stelle e strisce vi hanno fatto desiderare di restare lì e quali, invece, vi hanno fatto pensare alla fortuna di essere nati in Italia? ML 07 musicletter.it update n. 72 speciale intervista: bsbe (Cesare) Siamo pro Stati uniti al 99%! Culturalmente è diverso, si studia tecnicamente e alla perfezione ogni strumento e c’è molta attenzione e rispetto da parte delle persone che ti ascoltano mentre suoni. C’è una cultura musicale diffusa, a prescindere dalle preferenze di genere, che i musicisti possono toccare con mano. In realtà avevamo voglia di tornare in Italia solo perché la nostra partenza era coincisa con il post del concerto del primo maggio 2009 che per noi è stata davvero una svolta radicale. Le notizie che ci arrivavano dai nostri amici e dai nostri supporters erano incredibili, piene di entusiasmo e di buoni feedback e noi avevamo voglia di vivere tutto live, in prima persona. Qual è la differenza emozionale nel suonare on stage una cover (penso a Vodoo Child di Jimi Hendrix) rispetto a un pezzo scritto da voi? (Cesare) Si tratta certamente di due emozioni diverse: le cover riusciamo sempre a renderle molto personali e le improvvisiamo ogni volta in modo diverso, mentre la struttura dei nostri pezzi non cambia e resta sempre a grandi linee la stessa. E’ chiaro che sentire le persone cantare insieme a te sulle note di Jimi Hendrix è molto emozionante ma quando le senti intonare un tuo pezzo le sensazioni sono diverse, molto più amplificate. L’aspetto live per un “power duo” come il vostro è fondamentale: preferite le decine di migliaia di persone del Concerto del Primo Maggio oppure qualche centinaio di fedelissimi in un piccolo club? (Cesare) Può sembrare strano ma noi ci mettiamo sempre il 100%. Quello che cambia forse è la tensione con la quale saliamo sul palco ma, quando si inizia a suonare, si chiudono gli occhi e ci si lascia andare. Ci sono dei gruppi emergenti della scena indipendente italiana che apprezzate in modo particolare e con cui vorreste collaborare? (Cesare) Assolutamente! Per noi le collaborazioni sono molto importanti e cerchiamo sempre di coinvolgere artisti che stimiamo, sperando che la cosa sia ricambiata. Siamo poi più invogliati magari a collaborare con chi fa un genere diverso dal nostro, curiosi di vedere che tipo di risultato possiamo raggiungere. In Italia comunque ci sono tanti gruppi che stimiamo! “Non so se voglio ma vorrei”: possiamo riferire quest’affermazione a un vostro desiderio realizzabile nel prossimo futuro? (Cesare) I nostri desideri si stanno decisamente realizzando! In futuro, forse, fare un disco perfetto, almeno per noi. (Adriano) È una frase legata alla paura di osare, che inibisce molti musicisti giovani qui in Italia. Quando con i Bud abbiamo suonato negli Stati Uniti, abbiamo avuto la possibilità di essere a contatto con realtà indipendenti di gruppi giovanissimi "superpreparati" sotto qualsiasi punto di vista. In Italia ho sempre percepito l'incombente sensazione del giudizio e non del confronto. Solo quando ho cominciato a chiudere gli occhi su un palco, sono nati i Bud Spencer Blues Explosion. BUD SPENCER BLUES EXPLOSION: www.myspace.com/budspencerbluesexplosion Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi Intervista di Laura Carrozza | www.musicletter.it ML 08 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: DIRTMUSIC TITLE: BKO LABEL: Glitterhouse | Venus [CD + DVD] RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/dirtmusicband MLVOTE: 9/10 Due anni fa un esordio all’insegna dello sperimentalismo e della contaminazione, ma così positivo (seppur passato quasi inosservato) e ricco di auspici da suggerire al trio formato da Chris Eckman (Walkabouts), Hugo Race (True Spirit, e ex-membro degli originari Bad Seeds) e Chris Brokaw (ex Codeine, ha lavorato con i Lemonheads e con Liz Phair) di bissare l’esperienza. Con un album, se volete, ancora più pregno di buone vibrazioni nel quale trova magistrale sintesi l’incrocio tra il rock blues, che da sempre guida le mossa di Eckman & Co., e la musica maliana che, tra quelle della Madre Africa, è la più ambita dai musicisti occidentali per instaurare una proficua collaborazione. Il Mali – come saprete – negli ultimi tre lustri ha dispensato una serie di materiali e di musicisti sublimi che hanno stimolato numerosi artisti stranieri a recarsi in quei posti per abbeverarsi alla sorgente della loro cultura ancestrale e far scoccare la scintilla dell’ispirazione. Il primario motivo che ha spinto tanti a recarsi nel Mali (nelle zone del delta del Niger o in altri stati africani di grande tradizione) è quello del ricercare le radici più autentiche del blues, almeno da quando Ry Cooder (per il magnifico Talking Timbuktu con il mitico Ali Farka Touré) e Martin Scorsese (con la serie di documentari sul Blues) hanno messo in rilievo un dato di fatto che in America hanno fatto fatica a metabolizzare, ovvero che il Blues – così com’è universalmente noto - è nato sì nei campi di cotone del Sud degli States ma che è nel cuore dell’Africa che si sono ritrovate tracce del tipico suono in levare. Con queste premesse, e consapevoli del lavoro accurato e meticoloso di cui sono capaci Eckman, Race e Brokaw, il disco snocciola una dietro l’altra alcune perle musicali d’incantevole fluidità, ricche di suggestioni e magie sonore, restando un esemplare lavoro collettivo proprio laddove si conta la presenza di numerosi musicisti di estrazione diversa. Le registrazioni sono state effettuate ai Bogolan Studios voluti da Ali Farka Touré nella capitale Bamako. I Tamikrest, la giovane band tuareg di desert blues guidata dal chitarrista Ousmane Ag Mossa, di cui è recente la pubblicazione (sempre per la Glitterhouse) dell’eccellente Adagh, fanno da backing band in questo disco, ma oltre ai Tamikrest troviamo anche il vocalist Fadimata Walet Oumar (dei Tartit) in un paio di brani (Ready For the Sign e Desert Wind), Lassana Diabaté e Issa Kone della Symmetric Orchestra di Toumani Diabaté, il bassista Cheikhe Ag Tigly, Lobi Traoré, figliastro di Ali Farka Touré. Insomma una collaborazione multiculturale ad ampio spettro. Un autentico capolavoro è la strumentale Niger Sundown, malinconica e crepuscolare in cui si intrecciano deliziosamente banjo, slide guitar, ngoni e balofon; Black Gravity in apertura ha un groove ipnotico, Unknowable è caratterizzato dal banjo di Chris Brokaw, Desert Wind è tra le cose migliori del disco. In più, incredibile la rilettura del classico dei Velvet Underground All Tomorrow’s Parties. Illuminante poi il DVD allegato al disco che ci aiuta meglio (per immagini) a imprimere nella nostra memoria una collaborazione così intensa e foriera di “good vibration” grazie a un bel documentario e a videoclip inediti. Per saperne ancora di più imperdibile è il booklet interno ricco di immagini e informazioni sui musicisti e sulla realizzazione di questo superlativo disco. Luigi Lozzi ML 09 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: DANZIG TITLE: Deth Red Sabaoth LABEL: Evilive | The End Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.danzig-verotik.com MLVOTE: 8/10 C’è un limite a tutto e a questa sacrosanta verità dovrà pur essere giunto il vecchio Glenn prima di cominciare a comporre il nuovo studio album. Dopo aver indelebilmente caratterizzato le sorti di band leggendarie come Misfits e Samhain e realizzato quattro dischi dei Danzig spettacolari (diciamo pure tre e mezzo eccedendo forse in pignoleria), se non ne azzecchi più una per almeno tre lustri, gettando nello sconforto anche i fan più fedeli, c’è poco da stare allegri. Il Blackest Of The Black Tour aveva riacceso qualche flebile fiammella di speranza, resta il fatto però che nessuno avrebbe scommesso più un solo cent su una rinascita di questa band se non ad ascolto compiuto. Lo stato d’animo con cui mi sono avvicinato a Deth Red Sabaoth non era di conseguenza dei migliori, una sensazione di preventiva rassegnazione che, non senza sorpresa, mi ha fortunatamente abbandonato istantaneamente! Questione di un attimo, il tempo di premere “play” e venire investiti dal massiccio riff di Hammer of the Gods che sembra rivendicare un vincolo di sangue con gli episodi più azzeccati del primo album. Danzig ha tirato a lucido la vecchia scorza e per meglio rappresentare il suo status si è avvalso di una line-up extralusso comprendente Tommy Victor, chitarrista dei grandi e mai troppo apprezzati Prong e la batteria dell’ex Type O Negative Johnny Kelly. In questo susseguirsi di numeri ben riusciti anche la voce di Glenn, libera da filtri ed esperimenti che per troppo tempo l’avevano orrendamente violentata, sembra giovarsi di un rinnovato vigore, tornando ad apporre la giusta firma in calce a ogni composizione. I tempi di Rick Rubin in regia sono lontani (ma la registrazione praticamente in analogico rende che è una meraviglia) e sarebbe ingeneroso intavolare qualsivoglia parallelo con titoli storici che appartengono ormai a un’altra epoca, tuttavia i sei anni trascorsi dal deludentissimo Circle of Snakes hanno ricaricato positivamente le batterie del buon Danzig che si è dato un gran daffare anche in fase di incisione dove non si è occupato solo delle parti vocali ma anche di gran parte delle tracce di basso e perfino della batteria in Black Candy. Una carezza dalla stessa mano che ti aveva percosso è tanto inaspettata quanto sorprendentemente gradita; per quanto poco valga, ti giunga integro e convinto il mio bentornato, vecchio demonio, con l’augurio di una nuova e splendente sporca estate nera! Manuel Fiorelli ML 10 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: SERENA-MANEESH TITLE: No. 2 - Abyss in B Minor LABEL: 4AD RELEASE: 2010 WEBSITE: www.serena-maneesh.com MLVOTE: 9/10 A cinque anni dallo strepitoso esordio, che aggiornava in salsa shoegaze la dolce violenza e il terrore degli Stooges, tornano i Serena Maneesh, forti di un nuovo prestigioso deal con la mitica 4AD, e tornano con un disco tentacolare, che calca la mano e carica gli estremi del suono, un disco dirompente, esplosivo e delicato, un proiettile che compie il suo volo con ali di farfalla. Magnifico, diciamolo subito. Un disco completo. Compiuto in ogni sua parte. Un affresco iridescente ma ribelle, tossico ma spirituale. Magnifico, di nuovo. Un viaggio tra rock’n’roll dirompenti che evaporano in tintinnanti visioni psichedeliche, grooves krautrock che diventano psichedelia pura, ed elegie shoegaze da rigare il volto di lacrime. Un’alchimia quasi impossibile a descriversi. Un approccio multiforme, che sfoggia come tratto comune uno sguardo alla materia musicale stupito e frastornato nonché molto retrò, che però, ed è questa la forza unica dei Serena-Maneesh, è spesso contrappuntato da un cinismo e da una violenza concettuale che ci riportano all’istante ai nostri anni. Violenza che si dà forma a grooves inquieti e psicotici, violenza rock’n’roll depravata e slabbrata; e, improvvisi, brani fatti di puro sogno che irrompono nella tracklist senza preavviso, a far vibrare d’estasi, a redimerci, in cui l’influenza degli Slowdive è più di una suggestione. Non si resiste al groove kraut di Ayisha abyss né alla sua inquietudine. Non si scende a patti con la violenza sonica di Blow yr brains in the morning rain. Non c’è scampo al lento incedere di Reprobate! Non si può non farsi contagiare dalla melodia pop di D.I.W.S.W.T.T.D. Non si trattengono lacrime di sogni infranti ma maledettamente reali ascoltando Melody for Jaana e Magdalena (Symphony #8). Un disco splendido, compiutissimo, furioso e sognante, che segna morte e rinascita e che restituisce fiducia a quello che genericamente chiamiamo rock’n’roll, e che, nonostante si faccia a gara a scriverne l’epitaffio, non vuol saperne di morire. Valerio Granieri ML 11 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: SUN KIL MOON TITLE: Admiral fell promises LABEL: Caldo Verde RELEASE: 2010 WEBSITE: www.sunkilmoon.com MLVOTE: 10/10 Ubi maior, minor cessat. Deponete le chitarre, smettete di mettere a nudo i vostri sentimenti, così cheap e scontati. Torna il signore della malinconia, uno dei pochi che abbia saputo prenderla sottobraccio, dialogare con essa da pari, senza soccombere, cedere, cadere. Gli anni non scalfiscono il signor Kozelek, uno dei pochi a poter dire, senza timor di smentita, di non aver mai, e dico mai, sbagliato un disco. Uno che usa sempre gli stessi ingredienti, ma con sapienza e abilità tali da farli apparire sempre nuovi o, quantomeno, per farci pensare che sì, vale la pena, anche stavolta, l’ennesima. Uno che indubitabilmente ha già toccato il suo apice compositivo, espressivo, comunicativo con i Red House Painters, ma a cui capita sovente di lambirne l’intensità, anche a distanza di molti anni, di molti dischi, di molte storie. Quanti possono dirlo? Pochi. Uno la cui credibilità e il cui peso sono ancora lì, mastodontici, perché supportati da una qualità con pochi eguali. La strada, dopo lo splendido April, che poneva l’accento sul lato “elettrico” à la Neil Young/Crazy Horse dei Sun Kil Moon, con lunghi excursus strumentali, che rispolveravano le immortali cavalcate di zio Neil, diverge: il consueto spleen del Nostro si esprime in ballate acustiche gentili, in punta di dita, arpeggiate e lievi. Sì, stavolta il nostro eroe è solo. Non c’è una band, non altro supporto strumentale eccetto la sua chitarra, in questo disco. Kozelek è solo, come forse è sempre stato, e finalmente questo suo stato d’animo ha trovato compiuta rappresentazione in una solitudine fattiva, reale: abbiamo solo una voce (sempre emozionante) e una chitarra che stavolta, nuda, sola, ombrosa, assume quasi toni esotici, flamencati, nella pletora di arpeggi cui dà vita. Una vita sommessa, fatta di emozioni violente ma soffocate, narrate con delicata consapevolezza da un cantastorie perfettamente padrone dei propri mezzi espressivi, che sembra non invecchiare mai e che ancora una volta incanta, in queste vesti scarne e minimali che lo avvicinano al live Little Drummer Boy in cui rileggeva il suo repertorio con l’unico aiuto di una seconda chitarra; e così Alesund, Third and Seneca, You are my sun e gli altri gioielli contenuti in questo Admiral Fell Promises, baciate da un’ispirazione che sembra senza fine, sono nuove perle del rosario di Kozelek, un rosario da snocciolare nella semioscurità di una sera in cui si è deciso che il mondo che non esiste, se non nelle parole tenui e lucide di un cantastorie immarcescibile. Pura poesia. Valerio Granieri ML 12 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: BIG BOI TITLE: Sir Lucious Left Foot: The Son of Chico Dusty LABEL: Def Jam RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/bigboi MLVOTE: 9/10 Big Boi, l’altra metà del duo più famoso e stravagante di Atlanta, incide il suo primo album solista (non volendo considerare il celeberrimo Speakerboxxx targato Outkast e confezionato insieme a The Love Below di Andrè 3000 nell’anno 2003) per la gloriosa Def Jam. Più di tre anni di gestazione non sono passati invano giacchè Sir Lucious Left Foot: The Son of Chico Dusty è una vera bomba: ogni canzone presenta trovate geniali e l’opera suona come se si avvertisse una fottuta esigenza di ascoltare questa musica. Hip hop grondante di funk, rhythm and blues, pop, elettronica anni Ottanta, cori perfetti e orchestrazioni sontuose e talvolta ridondanti che comunque non rovinano affatto la festa. In quasi tutte le composizioni sono presenti ospiti più o meno illustri: Cutty (Shutterbugg), Sleepy Brown & Joi (Turns Me On), Big Rube (General Patton), Vonnegutt (Follow Us), Jamie Foxx (Hustle Blood), George Clinton, Too short & Sam Chris (Fo Yo Sorrows), Janella Monàe (Be Still), Gucci Mane (Shine Blockas) e B. o. B & Joi (Night Night). Big Boi (alias Antwan Andrè Patton ovvero il vero figlio di Chico Dusty) con Sir Lucious Left Foot…The son of Chico Dusty ha realizzato un classico della Black Music e non mi meraviglierei se per questi anni diventasse quello che Thriller e Purple Rain hanno rappresentato per gli anni Ottanta, Prince & The New Power Generation per gli anni Novanta e Stankonia per gli anni Zero. Domenico De Gasperis ML 13 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: MOTORAMA TITLE: Alps LABEL: Autoprodotto RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/motoramapage MLVOTE: 7,5/10 A scanso di equivoci la prima cosa che va detta è che i Motorama di cui mi appresto a parlare non hanno nulla che vedere con la band italiana e tanto meno con quella argentina. I Motorama in questione sono russi, anche se la formazione di Rostov sul Don con questo primo album autiprodotto attinge a piene mani da quella cultura anglofona di fine anni ’70 e inizio anni ’80; potere della musica, ma soprattutto forza della globalizzazione che, con la caduta del muro di Berlino, ha prodotto (nel bene e nel male) dei profondi cambiamenti culturali (e non solo). Alps è, difatti, un piacevolissimo disco dalle sonorità new wave che ripercorre quelle traiettorie già tracciate da formazioni come Joy Divison, Echo & the Bunnymen, Interpol, National, Pains Being Pure at Heart e che potrebbe essere collocato in quel movimento cosiddetto post-punk revival molto in voga negli anni zero. Ciò che infatti colpisce di Vladislav Parshin (voce e chitarre), Irina Marchenko (basso), Roman Belenkiy (batteria), Alexander Norets (tastiere) e Maxim Polivanov (chitarre) non è tanto l’originalità della musica realizzata quanto, invece, la naturalezza con cui suonano ciascun pezzo del disco (tutti cantati in inglese da Parshin alla maniera di Paul Banks) che li rende, almeno per chi scrive, di gran lunga superiori a gruppi come, per esempio, gli Editors. Questione di gusti personali, ovvio, tuttavia i Motorama con questo primo lavoro sulla lunga distanza hanno dimostrato di avere talento e personalità, e per capirlo basta ascoltare Northern Seaside, Warm Eyelids oppure ancora la splendida Ghost che riecheggia, addirittura, qualcosa dei Magnetic Fields. Brani che hanno saputo conquistarmi fin dalle prime battute e che vanno oltre il puro e semplice esercizio di stile. È evidente però che non sono qui a gridare al capolavoro, lungi da me, quantunque Alps mi abbia in qualche modo stregato. Luca D’Ambrosio ML 14 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: PERTURBAZIONE TITLE: Del Nostro Tempo Rubato LABEL: Santeria | Iceberg | Audioglobe RELEASE: 2010 WEBSITE: www.perturbazione.com MLVOTE: 8/10 Ognuno sceglie il proprio disco dell'estate. Possibilmente leggero e sbarazzino, adatto alla stagione calda e alle gite in macchina, ma per questo uso l’album dei Record’s: De Fauna Et Flora. Del Nostro Tempo Rubato, quinto lavoro della band piemontese, invece lo scelgo per quei pomeriggi di luglio quando fuori dalla finestra persistono i 40 gradi e in casa le tapparelle abbassate, un ventilatore e tu, sdraiato nel letto, immobile. È un bellissimo album, probabilmente il miglior lavoro dei Perturbazione, dove si possono percepire racconti, desideri, ricordi e nostalgie di un tempo che fu. Nello sfondo un'Italia dove "Per arrivare in fondo non basta avere i numeri". Pop surreale, evocativo, ben raccontato, liquidamente melodico e quasi miracoloso. Gli autori non hanno lesinato o tagliato, e nemmeno passato un minimo di pialla per ridurre la durata del disco: che continua per più di un'ora in virtù di ben 24 tracce che possono essere scambiate per ipertrofia dell'io ma in realtà scorrono bene dall'inizio alla fine, senza un'increspatura o un bip. Come che sia, per non rubare tempo al tempo, i nostri hanno avuto l'idea originale di inserire, all'interno della confezione - scarna, minimale ma artistica e in odor di vinile - un cd "vergine" per dar modo all'ascoltatore di ricostruire la scaletta secondo la preferenza di ordine e traccia. Per quadrare il cerchio avrebbero dovuto ridurre l'album a una quindicina di tracce, allora sarebbe stato meno dispersivo. Questo in una logica moderna, dove tutto diventa a uso e consumo dell'avventore occasionale, radiofonico. No. Il giusto approccio richiede un po' d'attesa, durante la quale sarà d'uopo prestare attenzione alle mille sfaccettature del disco, fino a riconoscerlo e apprezzarlo pienamente. Jori Cherubini ML 15 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: LOUIS PRIMA TITLE: The King Of Jumpin’ Swing - Greatest Hits LABEL: Rattle & Roll | Egea RELEASE: 2010 WEBSITE: www.louisprima.com MLVOTE: 8/10 “Quando metti su un bel disco di Louis Prima / senti il cuor battere al ritmo dello swing / che ti sale su dai piedi e arriva in cima / e anche Roma può sembrarti New Orleans / E ogni clackson che riecheggia per la strada /assomiglia ad una tromba o ad un vecchio sax (…)” recita una canzone che sintetizza alla perfezione lo stile del cantante, trombettista e band leader, nato a New Orleans, al crocevia dove si fondono il jazz e lo swing, nel 1910 (nipote di un emigrato siciliano). È stato sempre orgoglioso e fiero delle sue origini italiane e siciliane, Louis Prima, ed è stato la punta più avanzata di certo swing italo-americano, interpretato in modo bizzarro e giocoso, in voga nel periodo a cavallo tra i ’50 e i ’60. Nel suo modo di cantare (nello scat, tipico dello swing, e per la voce roca) erano palesi molte influenze comuni a Louis Armstrong, suo illustre concittadino. Louis moriva nel 1978, tre anni dopo essere entrato in coma a seguito di un intervento chirurgico per l'asportazione di un tumore al cervello. Per chi frequenta i territori cinematografici è indimenticabile la scena di Lo sbirro, il boss e la bionda (‘93, di John McNaughton) con il grigio poliziotto De Niro che, galvanizzato dall’aver trascorso una notte di sesso con la splendida Uma Thurman, procede ai rilievi di routine in un locale dove si è compiuto un truce delitto di mafia canticchiando la Just A Gigolo che si diffonde da un juke box, ma non è solo questo brano a fare bella figura nel repertorio del “re dello jumping swing”, ci sono anche Buona sera (signorina) (ripresa dal nostro Buscaglione che a Prima deve certamente molto al pari di Renato Carosone), Sing, Sing, Sing (un grande successo nel ’36 e standard per chiunque si cimentasse all’epoca con lo swing), Angelina e Oh Marie, cover della canzone napoletana Maria Marì. Possiamo definire questa compilation (27 brani per un totale di 79’) “apocrifa” perché non si tratta delle registrazioni discografiche originali bensì di quelle effettuate tra il ’56 e il ’59, nel periodo in cui Prima si esibiva tra Hollywood, Lake Tahoe e Las Vegas assieme alla giovane cantante (la sua quarta moglie) Keely Smith e alla formazione del sassofonista Sam Bufera, e hanno non minore pregio. Sulla sua tomba l’epitaffio recita: «When the end comes / I know / They'll say / Just a gigolo / As life goes on / without me» («Quando arriverà la fine, / Lo so, / Diranno è solo un gigolò, / Mentre la vita va avanti / Senza di me»), citazione tratta dal testo di Just a Gigolo, una delle sue canzoni più celebri. Luigi Lozzi ML 16 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: JACKSON BROWNE & DAVID LINDLEY TITLE: Love Is Strange / En Vivo Con Tino [2 CD] LABEL: Inside Recordings | Audioglobe RELEASE: 2010 WEBSITE: www.insiderecordings.com MLVOTE: 9/10 Da qualche tempo – e anche in qualche occasione precedente attraverso recensioni su Musicletter – ho iniziato a cavalcare quello che in questo momento può essere solo un mio pallino o forse anche il mio cavallo di battaglia, ovvero quella sorta di crociata avviata – così per gioco - per individuare chi tra i giurassici eroi del rock invecchi meglio di altri. Alla stregua, direi, del vecchio adagio di Celentano, “questo è Rock, questo no!”, ma con un significato leggermente diverso. Ora, il ritrovare Jackson Browne sulla scena (negli ultimi 7 anni ha pubblicato un solo disco di inediti, e due album live, acustici) si presta a qualche distinguo. È vero che l’artista ha dato il meglio di sé sul finire dei ’70, pur tuttavia ha continuato a “esistere” musicalmente e a profondere l’impegno politico ponendosi come un punto di riferimento per gli appassionati del rock californiano. È vero che si è smarrita presto memoria del miglior Jackson Browne, ingenerosamente costretto all’oblio (anche) da una sua naturale riservatezza, da un suo pudore esistenziale che convivevano con l’uomo e l’artista. Le sue canzoni, con tratti malinconici e crepuscolari, parlano sì di utopie andate deluse ma trattano soprattutto della condizione umana, che resta fragile ed esposta alle intemperie della vita anche ai nostri giorni. Tanti anni sono oramai passati da quel suo primo album inciso a 23 anni con un songwriting di grande sensibilità, quintessenza della scuola (cosiddetta) di Laurel Canyon. Nel 2006 Jackson ha ritrovato sul suo cammino l’amico David Lindley e ha provato a ricreare (ma solo per amor proprio) la magica atmosfera che c’era intorno alla tournée del 1978, l’anno della realizzazione di Running On Empty, frutto della loro simbiotica partnership. Quell’anno, il ’78, il sottoscritto era in viaggio attraverso gli States a bordo dei mitici Greyhound, e ricordo con particolare piacere d’aver pianificato le mie tappe nel tragitto da San Francisco a New York per poter assistere a un loro concerto (in un ben determinato giorno) in Virginia. Un momento per me indimenticabile, ma torniano ai nostri. Lindley è un magnifico outsider, un polistrumentista raffinato e preparato, per Browne è stato un po’ quello che Mauro Pagani ha rappresentato per De Andrè; sicuramente un gradino al di sotto di Ry Cooder ma animato dallo stesso spirito di ricerca delle roots. Il doppio disco è stato registrato durante le date spagnole nel marzo 2006, con il contributo di una serie di musicisti locali, tra i quali il percussionista flamenco (e produttore) Tino di Geraldo, Carlos Núñez, virtuoso della gaita, la cornamusa spagnola o la nostra zampogna (d’origine molisana), i cantanti Kiko Veneno e Luz Casal, e il principe della banduria, Javier Mas, oltre ad altri. I brani del repertorio dell’artista californiano assumono una nuova veste soprattutto grazie all’accurato lavoro di David; in ognuno dei pezzi (tra questi Running On Empity, Late For The Sky e For Everyman; alcuni fanno parte del repertorio di Lindley) si respira una magnifica atmosfera strumentale, impreziosita da strumenti locali e da incantevoli armonie vocali. Una delizia per le orecchie che ci porta ad affermare senza esitazioni, alla luce della premessa dell’inizio, che Jackson invecchia bene. Luigi Lozzi ML 17 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: LOKUA KANZA TITLE: Nkolo LABEL: World Village | Ducale RELEASE: 2010 WEBSITE: www.worldvillagemusic.com/lokuakanza MLVOTE: 8/10 Un piede in avanti verso le moderne contaminazioni, mantenendo però l’altro saldamente conficcato nella tradizione musicale della sua terra d’origine, il Congo, tra istanze tribali e retaggi religiosi. Parliamo di Lokua Kanza (classe 1958), autentico cittadino del mondo, che ha scelto questo come il modo migliore per divulgare e far conoscere fuori dai confini nazionali la musica di cui vuol farsi ambasciatore. Forte di un vocalismo dalla timbrica suggestiva Lokua ha messo a punto uno stile personalissimo e sofisticato che gli ha consentito di raggiungere consensi considerevoli presso le platee occidentali. Non dei colori fantasmagorici e variopinti della cultura d’Africa si articola la musica di Lokua, bensì di un raffinato cerebralismo, d’un sospeso tocco ancestrale che ne fanno una personalità unica. Questa duttilità artistica gli deriva dalla varietà di esperienze vissute fin dalla più giovane età, quando i suoi genitori (e lui aveva solo 6 anni) si trasferirono nella capitale Kinshasa e, da adulto, per le continue frequentazioni degli ambienti della musica world parigina e del Brasile soprattutto (importante è stata una recente collaborazione con Gal Costa, figura di riferimento in patria), quasi a voler gettare un ideale (e per nulla peregrino) ponte tra la madre Africa e le sponde dell’America verso le quali vennero tradotti in regime di schiavitù i suoi avi. E numerose sono state in questi anni le collaborazioni di spessore che ha inanellato; ne citiamo solo alcune: Youssou N’Dour, Geoffre Oryema, Bisso Na Bisso, Enzo Enzo, Al Jarreau, Miriam Makeba, Sara Tavares, Papa Wemba. Il suo primo disco (inciso per la Universal), dal titolo che recava semplicemente il suo nome, risale al 1993 e a questo sono seguito altri 4 album (Wapi Yo e 3, il secondo e il terzo, tra il ’95 e il ’98, per la BMG, gli altri ancora per la Universal) e poi questo nuovo che segna il passaggio all’indipendente World Village (dell’Harmonia Mundi). Il nuovo album è stato registrato proprio tra Kinshasa, Parigi e Rio de Janeiro; e la globalizzazione delle tante sfumature che l’hanno ispirato si percepisce bene all’ascolto. Nel solco delle roots africane prendono il sopravvento – nonostante l’utilizzo di strumentazioni elettriche (tastiere e chitarre) - i toni gentili, pacati ed evocativi del soul spirituale messo a punto dall’artista. In apertura Elanga Ya Muinda è una delicate kalimba, Dipano è sostenuta da uno splendido giro chitarristico, Loyenge poggia su un accattivante vocalismo, Yalo è un’autentica gemma mentre Vou Ver si anima di saudate e non sfigurerebbe nei dischi dei cantautori brasiliani che vanno per la maggiore. Luigi Lozzi ML 18 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: TAPE FIVE TITLE: Tonight Josephine! LABEL: Chinchin | Audioglobe RELEASE: 2010 WEBSITE: www.tapefive.com MLVOTE: 8/10 Non vogliono avere l’ambizione di incidere sui destini della musica i Tape Five – e noi (criticamente) ci sottraiamo dar fargli da sponda per una simile eventualità -, vogliono solo divertire e divertirsi, cavalcare l’onda propizia del divertissment sofisticato che impera nei club e negli ambienti più “alla moda”. Quello che oggi viene definito il loro lounge nu jazz (o modern retro-swing), un tempo, negli anni ‘80, sarebbe potuto essere patrimonio dei Kid Creole & the Coconuts, Working Week o Matt Bianco. Un sound brioso, elettrizzante, pronunciatamene vintage, che curiosamente si rifà principalmente agli anni Venti, agli anni della nascita del Jazz, ma non vi sono precluse nemmeno certe atmosfere anni sessanta riaffiorate prepotentemente nell’immaginario di moda negli ultimi tempi. Una formula carica di ritmo e istintività, infarcita degli stili più svariati (oltre al jazz degli albori, il vaudeville, una spruzzata umori latini), probabilmente pronta ad essere riciclata nel tempo (magari con altri nomi) ma destinata ad esaurire la sua spinta propulsiva nel breve volgere delle stagioni (della musica), ma che al momento ben si concilia con la frammentarietà della vita moderna. È questo il terzo album per il gruppo creato dal produttore tedesco Martin Strathausen. Clarinetto e tromba in bella evidenza (Bad Boy Good Man, Pantaloons, Dixie Biscuit), Pousse l’amour è pieno di quel “french touch” che in passato abbiamo imparato ad apprezzare con Saint Germani e Llorca, The Smurf (rivisitazione del classico brano break beat di Tyrone Brunson) ha un groove che non dispiacerebbe agli eponimi del Philadelphia Sound, The Sky is Not The Limit (la voce è quella di Iain Mackenzie) fa il verso a provvidi crooner odierni, Alcazar è brano di echi dub noir; ogni brano è insomma un’ideale spot pubblicitario buono per ogni stagione e ogni uso. Luigi Lozzi ML 19 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: THE DEAD WEATHER TITLE: Sea Of Cowards LABEL: Third Man Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/thedeadweather MLVOTE: 7/10 Prima di tutto spero voi abbiate dimestichezza con i progetti paralleli di Jack White, nella fattispecie Raconteurs e Dead Weather. Benissimo: avete notato per caso alcune analogie tra i due gruppi? Ok, d’accordo, fanno due generi abbastanza diversi. A nessuno viene in mente altro? La prima cosa, abbastanza lampante, è il fatto che abbiano pubblicato il loro secondo disco in tempi relativamente brevi; secondo: Jack White durante il parto sembra un ascoltatore che collabora alla stesura dei pezzi, mentre durante la crescita del pargolo la sua presenza diventa centrale, aggiungendo il suo classico tocco schizoide; terzo, il secondo disco di entrambi i gruppi si presenta legato a una sfida: se i Raconteurs se la presero con i giornalisti pubblicando Consolers Of The Lonely senza rilasciare interviste, preavviso d’uscita o interviste, con Sea Of Cowards lo scherzo consiste nell’aver registrato tutti i pezzi dal vivo e a distanza di pochi mesi dall’esordio. Quest’ultimo punto è centrale durante l’ascolto: se da un lato si può notare una maggiore varietà musicale, di contro è innegabile come l’insieme risulti incompiuto, grezzo, non lavorato. Mentre il primo disco poteva essere una dolce buonanotte ai sognatori, Sea Of Cowards è l’improvviso risveglio durante il sonno. Durante il primo e distratto ascolto avevo dei dubbi sul fatto di aver inserito il disco giusto e non Icky Thump: chitarre seventies sorrette da sintetizzatori (strumento conduttore di tutta l’opera), la voce di Jack White in primo piano, il pezzo inconfondibilmente White Stripes. Proseguendo, il discorso si farà più articolato, la furia hard garage si confronta con suadenti linee dub e la Mosshart prende le redini del progetto. Subito dopo The Difference Between Us, che suona come una versione riveduta di Sweet Dreams, ci imbattiamo in I’m mad, vero apice e primo pezzo in cui la carismatica cantante e il famoso batterista giocano a carte scoperte. Il risultato è un pezzo che suona come se gli ultimi Kills e i White Stripes venissero remixati dai Prodigy. Degne di nota pure Gasoline, collocabile indicativamente nel periodo in cui i Deep Purple si facevano le ossa distillando divagazioni dal sentore psichedelico e No horse, un furioso pezzo rock deliziosamente sfilacciato. Notevole il fatto che, spesso e volentieri, non si riesca a riconoscere da cosa siano prodotti alcuni suoni, in quanto basso, chitarra e sintetizzatori sposano sonorità tanto care alle pedaliere, creando un effetto sottovuoto che può essere visto sia come pregio che come difetto. Sea Of Cowards sembra un buon disco di transizione, anche se non saprei proprio verso quali direzioni. Domandatelo pure a Jack! Matteo Ghilardi ML 20 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: SAKEE SED TITLE: Alle Basi della Roncola LABEL: Mousemen RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/sakeesedfamily MLVOTE: 6,5/10 “Alle Basi della Roncola” è un piccolo prodotto artigianale delle mie zone che richiede attenzione e dedizione che però rilascia la sua rustica essenza dopo pochi assaggi ripetuti. Come una bottiglia di vino senza etichetta da cui un tappo di sughero profumato fa capolino, come un’ampolla di acquavite con data annessa e la scritta “grappa” scolorita dal tempo oppure come un rustico salume affettato troppo largo per sentirne meglio pregi e difetti, l’esordio dei Sakee Sed è un disco maturo e acerbo allo stesso tempo, è la necessità di mettere in musica umori e tremori di chi vive la provincia ma ha lo sguardo lucido e bizzarro di chi vorrebbe evadere da essa. È folk sghembo e surreale (testi in italiano davvero originali quali Cenami il Cefalo), è ubriaco ritratto di passione verso la musica italiana che non si siede su allori e cliché ma attraverso un suono ipnotico e minimale condito da vibrafoni, ukulele, pianoforte, batteria e percussioni, dimostra che l’artigianato è ancora sinonimo di qualità. Non ci saranno appariscenti veline a far mostra di prosperosi seni ai loro concerti, non ci sarà pubblicità tritura palle nelle radio e non ci saranno faraonici tour conditi da monotone rappresentazioni carta carbone; solo walzer di provincia che la famiglia della coppia Ghezzi/Perucchini (responsabili del progetto) alterneranno fra un bicchiere di whisky, una ballata dolce e un R'n'B proteso all’infinito. Facendo un inchino agli amici, all’analogico e alla psichedelia. Nicola Guerra ML 21 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: IL GENIO TITLE: Vivere Negli Anni X LABEL: Disastro Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/ilgenio MLVOTE: 9/10 Le critiche dal tono insolitamente duro che hanno accompagnato due anni fa l'omonimo esordio de Il Genio (moniker dietro il quale si cela il duo salentino Gianluca De Rubertis e Alessandra Contini) sono state paradossalmente causate - ad avviso di chi scrive – soprattutto dall'inaspettato successo che lo ha caratterizzato. Intendiamoci: ogni rilievo è legittimo. Meno giustificate sono l'acredine, l'acidità nei giudizi (dispensata a piene mani particolarmente dal mondo musicale indie italiano), la fretta con cui l'anthem catchy Pop Porno (diventato persino lo stacchetto di una nota trasmissione televisiva) è stato considerato non più che una sciocchezza insignificante. “In Italia si perdona tutto, tranne il successo”, diceva Ennio Flaiano, aforisma di cui ha fatto tesoro la scena indie italica (purtroppo storicamente affamata di risorse economiche e di visibilità) e la stampa specializzata (spiazzata da un fenomeno che – come al solito – non è stata in grado di prevedere) a cui non è parso vero sbertucciare le pose della Contini e l'apparente snobismo di De Rubertis, contestare una scarsa originalità musicale, una fin troppo marcata leggerezza nello stile ed il presappochismo nei temi affrontati. La popolarità raggiunta (con un solo brano per giunta) è sembrata al provincialismo “indie e non...” come il risultato di un compromesso con il mainstream, la realizzazione di logiche mercantili in luogo d'una purezza artistica possibile (secondo alcuni) solo in caso di assoluta mancanza di riscontro commerciale presso il grande pubblico. Troppo severe, dunque, le critiche mosse a Il Genio, per non sembrar viziate da antichi pregiudizi sebbene sia abbastanza inevitabile che nell’analisi di un musicista influisca parecchio la visione che ciascuno ha del mondo, della vita, delle persone e della musica stessa. A molti (lodevoli eccezioni ci sono, comunque) sfuggono l'ironia con la quale il duo stempera l'allure sciattamente decadente con cui si mostra all'esterno, l'incosciente grazia leggera con cui vengono ammorbidite le mossette estetizzanti espressione d'una visione del mondo romanticamente aristocratica che esclude le miserie d'una morale perbenista per comportarsi secondo una scala di valori in cui al primo posto v'è solo il microcosmo sentimentale – languido e morboso – della coppia, baluardo per difendersi dall'assurdità del mondo esterno e della vita. Il nuovo lavoro de Il Genio Vivere Negli Anni X - si muove ancora sui binari della levità stilistica con cui i conflitti erotico-emotivi (e l'esistenza stessa) sono assorbiti in un processo di rarefatte e maliziose schermaglie dialettiche scevre da qualsiasi enfasi intellettuale ma ricche, al contrario, sia d'elegante verve che di malinconica dolcezza che s'interrompe con il fragore della risata di chi non si prende troppo sul serio. Sorretto dalla sontuosa produzione di Amerigo Verardi, il disco dispiega sull'ascoltatore un ventaglio sonoro vastissimo e accattivante, pieno di infiniti rimandi musicali che comprendono eleganti orchestrazioni (la struggente Si, per sempre, mai), assortiti ammiccamenti vintage, la disco italiana dei primi anni '80 (come non pensare in Del lei all'indimenticabile Diana Est?), la canzone d'autore francese dei sessanta (il ping pong vocale del duo è puro Gainsbourg-Birkin, veri numi tutelari dell'operazione Il Genio), l'electro (Amore chiama terra) e, persino, il rock (nella surreale Overdrive che mette in mostra taglienti distorsioni chitarristiche giocando sul senso stesso del titolo del brano). Stupisce, pertanto, la capacità di costruire melodie poppeggianti di grande fruibilità senza offrire, in ogni caso, un punto di riferimento sonoro certo e di immediata identificazione. ML 22 musicletter.it update n. 72 musica Un approccio che potremmo definire “psichedelico” cioè ondivago, come emerge, d'altra parte, nell'apertura del disco (“Il genio”) che cita spudoratamente i Beatles più “psychy” di Sgt. Pepper's, nei deliziosi esotismi gainsbourgiani alla Couleur Café di Tahiti, Tahiti che, però, vibrano d'una sintetica ruvidezza kraut assimilabile alla storica Trans Europe Express oppure nel duetto cinematico da b-noir sincopato di Cosa dubiti. Nell'epoca del post-moderno in cui ogni prodotto artistico (e dell'intelletto umano) appare “derivativo”, privo di una sua propria originalità rispetto a un ipotetico modello di riferimento classico, e in cui gran parte dell'arte stessa sembra paccottiglia senza alcun valore (come teorizzato anche da Wharol) perfettamente riproducibile, l'opera de Il Genio è la migliore (più sincera e più genuina) replicazione possibile di nobili modelli imitativi in una specie di gioco sonoro… In un'ideale (in)verosimile congiunzione tra la salace “commedia all'italiana” e la sentimentale “commedia francese”, tra “La voglia matta” e “La bella scontrosa”. Giocate anche voi, allora, ascoltando il disco senza ulteriori artificiosi pregiudizi. Non ve ne pentirete. Nicola Pice ML 23 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: IL TRICERATOPO TITLE: Volume I LABEL: Autoprodotto RELEASE: 2010 WEBSITE: MLVOTE: 9/10 Quattro brani completamente acustici, dedicati (!?) nella titolazione a celebri film degli anni '80 (Guerre Stellari, Karate Kid, Ritorno al futuro e Ghostbusters nell'ordine). Una chitarra elettrica, una acustica, un basso: nessun altro tipo di percussione. Una voce disperata che s'impenna rabbiosa nella declamazione di amori giovanili passati - ormai abbandonati nelle pieghe della memoria - tra lo spirito Jedi, una Delorian, spade laser e molari rotti, kimono improvvisati con asciugamani, Darth Vader, frigoriferi rumorosi infestati da fantasmi e porte cigolanti in un desolante ambito di incertezza esistenziale a (non) definire un orizzonte privo di prospettive di senso che pietrifica i gesti e le emozioni rendendo(ci) quasi immobili, lenti come quel Triceratopo che è anche il nome del trio autore di questo (piccolo) progetto. Ovunque nel disco si respira aria di dolorosa nostalgia per ciò che non è più (se mai lo è stato) e non potrà essere com'era: la perdita ma anche la mancanza – come direbbe il filoso e scrittore Sergio Moravia - di ciò che abbiamo passato a rincorrere tutta la giovinezza o la vita - l'amore ma anche un ideale o una passione... Qualsiasi cosa insomma che ci potesse regalare anche un solo istante di felicità – per poi rimpiangerne l'assenza nei giorni successivi alla sua immancabile scomparsa. Il passare degli anni scandisce un rimpianto nostalgico rivolto soprattutto alla giovinezza stessa sepolta dalle macerie dell'incombente età adulta nella consapevolezza che il tempo andato sia finito e non c'appartenga più per goderne gli eventuali benefici e nella consapevolezza dell'impossibilità di ritornare indietro per correggere gli errori commessi (Ritorno al futuro). Alla nostalgia del passato non fa il paio, però, ne Il Triceratopo la speranza nel futuro, la capacità, cioè, di trasformare tutto questo vagheggiare in un progetto solido quasi che la furente malinconia (mi si perdoni l'ossimoro) che pervade il disco impedisca anche la possibilità stessa di immaginarlo e pianificarlo precipitando l'esistenza in una sorta di limbo nebuloso popolato dai fantasmi dei propri ricordi (“...mi guardano, ricordano e mi dicono che tu non sei più qui...e non mi fanno dormire neanche stanotte, il frigo fa rumori strani, cigolano le porte...” da Ghostbusters). In un certo senso, pertanto, questo Volume I de Il Triceratopo - pur nutrendosi di un immaginario cinematografico suggestivo ma ormai datato nel tempo e quindi quasi sconosciuto ai più giovani – veicola universalmente la condizione di totale disillusione esistenziale che è peculiare della generazione contemporanea a questi anni terribili e indefiniti, sospesa anch'essa in uno stato di anaffettività vaga e inconcludente, compressa in un “hic et nunc” ostile tra la labile memoria d'un (grande) passato che non può essere presente e l'incertezza d'un futuro che non è ancora (con tutto il suo carico di incognite). Qualunque siano gli sviluppi, comunque, di questo progetto (per comunicare i componenti del gruppo Gilbe, Moris e Simone – seppur non alla prima esperienza musicale – hanno solo una pagina facebook, non ancora un sito proprio), al di là delle possibili imperfezioni stilistiche e della scarna veste sonora (un folk cantautorale di pochi accordi, essenziale ma diretto al viso come un fendente ben assestato) non riesco a pensare in questo periodo a nulla che sia più struggente e poeticamente naïf di questi brani. “Da piccolo il mio dinosauro preferito era il Triceratopo”. Beh, da oggi anche il nostro... Nicola Pice ML 24 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: VERLAINE TITLE: Rivoluzioni a Pochissimi Passi dal Centro LABEL: 70 Horses Records RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/verlaineindie MLVOTE: 9/10 Le Rivoluzioni a Pochissimi Passi dal Centro sono quelle di là a venire, vagheggiate passando le giornate al bar tra patetici tentativi d'abbordaggio, risate insensate e spacconate tra amici, storie vissute o, per lo più, inventate e solenni bevute. Nell'attesa (improbabile) di cambiare la propria vita è più facile e consolatorio immaginare di essere altrove, magari nella Francia dei film visti al cinema di Godard o di Truffaut, fascinosa e a portata di mano appena poco più sù, dopo le Alpi, lontana dalle brume sabaude. Il disco d'esordio dei torinesi Verlaine, prodotto da Giancursi e Lo Mele dei Perturbazione, dopo una manciata di EP, è una sorta di manuale di sopravvivenza per maniaci sentimentali dai cuori infranti, in perenne “empasse” esistenziale, che distilla sapientemente nell'apparente brevità - otto brani appena - gocce di spleen romantico con raffinatissime sonorità retrò da “orchestrina scalcinata ad assetto variabile” (come amano definirsi). Melodie delicate di tastierine “Bontempi” si impastano alla dolcezza di una viola tra riverberi di chitarra, loops elettronici, rumori di strada, voci su nastri pre-registrati e sincopi malinconiche in un'atmosfera che attraversa la musica d'autore italiana (il Lucio Battisti della prima ora ma anche i Non voglio che Clara) e il folk rock d'oltreoceano, il catalogo "Morr Music" e la profusissima ironia amarognola pierociampiana percepita qui come autentico antidoto al male di vivere. Senza quest'ultima, infatti, il quadro offerto dai Verlaine sarebbe desolante. Dai testi (scritti peraltro con fine eleganza) emerge l'assoluta gratuità di quella vita che si vorrebbe ingannare (per impedire di esserne fottuti) con mille inutili gingilli: una coazione a ripetere (cocktail ingollati uno dietro l'altro), un flusso di esperienze - il più delle volte – insensate nell'attesa dell'arrivo di un improbabile Godot travestito da “femme fatale”, sfibrati dall'immane tentativo di trovare e dare un senso ad una realtà che non ha un significato in sè. In un orizzonte apparentemente privo di fini, il problema è proprio quale vita scegliere di vivere nell'accettazione difficilissima del ruolo che si vuole interpretare nella consapevolezza dell'antinomia tra vita e forma (in quanto espressione di bisogni e di valori l'uomo è forma, in quanto creatore di tali esigenze è al tempo stesso produttore di vita) della coscienza, pertanto, che l’esistenza in alcun modo può essere ricondotta alle sue forme, sempre inadeguate. L'eros (presunto taumaturgico rimedio) non farebbe eccezione – per i Verlaine - rispetto alle altre passioni, non potrebbe cambiare definitivamente il mondo ma potrebbe renderlo meno ostile e - in quello strano melànge di gioia, nostalgia, sogni, speranze, delusioni, rimpianto, addii, sofferenza, ritorno, pulsioni che gli è proprio - fornirci, comunque, uno slancio pieno di contraddizioni, sì, ma di vitali contraddizioni. I Verlaine, avrete capito, confezionano un'opera dal cui ascolto non ci si può esimere, irrinunciabile per la grazia musicale che emana e per la profondità che la sottende. Direttamente proporzionale all'understatment che li contraddistingue e che non può non entrare nell'olimpo delle “cose sonore” più care. Una sola controindicazione: genera forte dipendenza. Nicola Pice ML 25 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: BADLY DRAWN BOY TITLE: Is There Nothing We Could Do? LABEL: 101 Distribution RELEASE: 2010 WEBSITE: www.myspace.com/badlydrawnboy MLVOTE: 8/10 Dopo una pausa durata quasi quattro anni è uscito - nell'indifferenza generale, Regno Unito esluso - Is There Nothing We Could Do?, il nuovo lavoro di Damon Gough, meglio conosciuto come Badly Drawn Boy. Sebbene colonna sonora del film tv “The fattest man in Britain”, andato in onda in Inghilterra e che vi consiglio di procurarvi, il disco può considerarsi a tutti gli effetti come il "ritorno" musicale di uno fra gli autori più sensibili e raffinati della sua generazione. Un lavoro completamente anomalo anche rispetto alla media dei prodotti assimilabili a un certo cantautorato folk pop di cui il nostro fa (o ha fatto) parte. Predominano, infatti, gli stacchi strumentali (e questo è persino ovvio trattandosi di una colonna sonora) e nelle ballate di cui è disseminato il disco è davvero esigua la presenza di incisi vocali: quando ci sono, le parole sono sussurate e calibrate. Is There Nothing We Could Do? è dunque, tutto caratterizzato da un intimismo sincero quanto agrodolce, privo di fronzoli barocchi, da cui traspare una rassegnazione pacificata e serena di fronte alle sconfitte dell'esistenza. Le melodie cristalline - il ragazzo sarà pure disegnato male ma è sempre stato un compositore eccelso - sono impreziosite dalla presenza di un quartetto d'archi che fornisce ai brani il sapore d'un vagito malinconico. I toni non si distaccano quasi mai, pertanto, da questo clima soffuso e lieve, fanno eccezione le ondulazioni da banda paesana di Welcome me to your world e la marcetta increspata di Wider than a smile che s'interseca efficacemente alla fine con il tema sonoro della bellissima title track (Is there nothing we could do?). Damon Gough è per sua stessa ammissione ormai lontano dai meccanismi spietati del mercato discografico: la sua assenza dalle scene musicali - i proventi dei pochi concerti fatti negli scorsi anni, ultimo tour compreso, sono regolarmente devoluti ad associazioni benefiche - è la dimostrazione d'un rifiuto radicale delle logiche mercantili che governano lo showbiz, corente con dichiarazioni inequivocabili fatte a suo tempo. Il lirismo di questo disco e la sua austera integrità sonora testimoniano, però, che le qualità dell'autore sono ancora vive, auspici - e chi vi scrive lo spera ardentemente - di future prove musicali altrettanto valide e non troppo distanti nel tempo. Se c'è qualcosa a cui questo mondo non può rinunciare è la bellezza sonora di cui questo delicato musicista è espressione, unica che possa tentare (forse) di cambiarlo in meglio. “... e un poeta disse: parlaci della bellezza. E lui rispose: dove cercherete e come scoprirete la bellezza, se essa stessa non vi è di sentiero e di guida? E come potrete parlarne, se non è la tessitrice del vostro discorso?... E la bellezza non è un bisogno, ma un'estasi. Non è una bocca assetata, né una mano vuota protesa, ma piuttosto un cuore bruciante e un’anima incantata...” come il cuore e l'anima di Damon. A presto, allora, caro ragazzo mal disegnato... Nicola Guerra ML 26 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: THE SUMNER BROTHERS TITLE: Sumner Brothers LABEL: In The Garage RELEASE: 2008 WEBSITE: www.myspace.com/thesumnerbrothers MLVOTE: 7,5/10 Certi dischi sono talmente densi che potresti tagliarli a fette. Fette di una passione autentica, quella per la musica delle radici, quali il country e il blues, che in questo secondo e omonimo lavoro dei canadesi Sumner Brothers si assapora appieno. Musica folk, insomma, che i fratelli Brain e Bob Sumner realizzano in maniera del tutto originale, con un taglio certamente passatista ma mai stucchevole. La sensazione che si ha ascoltando questo nuovo lavoro dei Fratelli Sumner, che segue di appena due anni In The Garage del 2006, è quella di avere a che fare con quel Bruce Springsteen malinconico e solitario che noi tutti conosciamo, ma anche con quell’attitudine intima, alienata e allo stesso tempo fuori dalle regole di personaggi come Bob Dylan e Lou Reed. Tuttavia ciò che cattura l’attenzione di questo album è la capacità di saper scavare in profondità nonostante le strutture compositive di ciascuna traccia, così come gli arrangiamenti, siano estremamente semplici e sempre in bilico tra Johnny Cash ed Elvis; ma sappiamo benissimo, come questi ultimi ci hanno insegnato, che per scrivere delle belle canzoni non occorrono grandi mezzi, bisogna avere semplicemente un’anima in continua agitazione. Chissà, forse è proprio il fantasma de “L’uomo in nero” che scuote l’animo della formazione di Vancouver, facendoli suonare come dei moderni cantastorie alla maniera di Micah P. Hinson e Felice Brothers. Tutti i brani del disco, da quelli acustici (la gran parte) a quelli più ritmati, sono di una bellezza disarmante e mai così eccessivamente alt. country come potrebbero essere invece quelli di Bonnie Prince Billy. Quelle dei Sumner Brothers sono canzoni che vanno dritte al cuore. Canzoni da tirar fuori nei momenti di solitudine; di quella solitudine sospirata, di cui ogni tanto non possiamo fare a meno. Luca D’Ambrosio ML 27 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: THE ELECTRIC PRUNES TITLE: Too Much To Dream LABEL: Rhino (Reprise 1966-1967) RELEASE: 2007 WEBSITE: www.electricprunes.com MLVOTE: 7/10 Se metti sul piatto le Nuggets, la prima cosa in cui ti imbatti è un ronzio. Un ronzio che ha fatto la storia della musica contemporanea tanto quanto il fuzz di (I can ‘t get no) Satisfaction degli Stones. È l’unico pezzo delle Nuggets ad avere avuto una visibilità oltre i confini dell’ underground. Lenny Kaye lo usa per aprire la sua raccolta, e ha ragione di farlo. L’intro di I had too much to dream (last night) schiude un mondo. Un mondo bellissimo. È il mondo della musica psichedelica. Della musica che sperimenta con l’elettronica, che crea universi paralleli, che “apre” le porte. La musica delle Prunes è, allora, una giostra di eccentricità. È come stare seduti su un cavalluccio volante, e a volte pare di perdere l’equilibrio. Altre volte, quando l’ effetto delle pasticche diventa blando, ti viene il dubbio che sia tutta una messinscena. Perché pezzi come The king is in the counting house, About a quarter to nine o Onie sono di un orrore che si perdona a fatica, ma poi arrivano a soccorrerti pillole come Train for Tomorrow, Are you lovin’ me more, Sold to the highest bidder, Bangles, Get me to the world on time e il mondo ti pare nuovamente fatato. La musica delle Prunes è figlia del suo tempo, passato il quale è finita per risultare inutile, comunque mediocre. È figlia dei pedali e dell’effettistica che l’industria musicale sta mettendo a disposizione delle giovani leve del rock underground. Come lo sono Hendrix e i Pink Floyd. Gente che se fosse nata quaranta anni dopo probabilmente avrebbe fatto del glitch pop o del dubstep, e il mondo sarebbe salvo dall’ incubo perenne di un The Wall suonato per intero e senza variazione di una sola nota ogni tre anni, per dire. Il meglio di quanto hanno fatto è circoscritto al biennio ‘66/’67, che è quello trattato per intero in questa antologia della Rhino. Che, si sa, quando mette le mani su qualcosa, lo fa sempre mettendole nel posto giusto, come me quando faccio la mano morta sui pullman. C’è dentro tutto quanto inciso per la Reprise prima della svolta mistica della Messa in Fa Minore, compreso il primissimo folgorante singolo Ain ‘t it hard/Little Olive uscito prima di entrare nelle officine di Annette Tucker e Nancie Mantz e che all’ epoca non si cagherà nessuno e c’è il solito corredo di belle foto e copertine d’epoca più una bella intervista che nessuno leggerà (visto che verrà omessa dai torrent che tutti usano per scaricare la musica, anche quella necessaria, NdLYS) e in cui la band spiega anche perché venne costretta a incidere le lordure di cui parlo all’inizio del pezzo e di come i Prunes non fossero niente più che un marchio registrato già all’indomani dell’uscita di Underground. Qui dentro ci sono pepite e bigiotteria, e tante, troppe cose da sognare. Franco Dimauro ML 28 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: THE PRIMEVALS TITLE: On The Red Eye LABEL: Last Call RELEASE: 2005 WEBSITE: www.myspace.com/primevals MLVOTE: 7/10 Mi piace parlare di band delle quali nessuno conserva memoria. Ho sempre la tentazione di dire delle solenni minchiate. Così, per il gusto di farlo. Del resto, mi dico, sono in pochi a leggermi, e di quei pochi i tre/quarti non sanno di che sto parlando. Così potrei dire, che so, che i Primevals suonavano come gli Smiths. Anzi no, che erano i Depeche Mode sotto falso nome. O ancora, che era un progetto che vedeva Nick Cave duettare con Penelope Houston degli Avengers. Minchiate così. Poi però, non per un’etica professionale che sconosco (l’etica professionale è quella cosa che giustifica recensioni strepitose per dischi che sono merda pressata, NdLYS) ma per un’onestà intellettuale e una questione di rispetto proprio per quei pochi che si ostinano a leggere i deliri di questa protuberanza alla china della storia del rock ‘n’ roll che si chiama Franco “Lys” Dimauro, mi freno e torno sui binari della correttezza storica. Così torno sui miei passi e vi dico che no, i Primevals non suonavano affatto come gli Smiths, che con i Depeche Mode avevano proprio nulla a che spartire e che non c’ è nessun duetto vocale, men che meno tra Cave e la Houston. Però i Primevals erano (sono) una grande band, questo ve lo assicuro. Detto in due parole, facevano suonare gli Hoodoo Gurus come fossero i Gun Club. Che per me è già sulla carta la cosa più bella del mondo. scozzesi di nascita ma apolidi per scelta, avendo trovato radici musicali in mondi lontanissimi come quelle che vi ho descritto, i Primevals nascono nel 1983 a Glasgow. L’anno successivo, dopo un 7” su Raucous Records, si accasano alla corte della miglior etichetta di quegli anni: la New Rose. Il risultato esce nel Gennaio del 1985 ed è un mini LP intitolato Eternal Hotfire. Un dischetto contraddittorio che, se da un lato (My emancipation, Blues at my door, Lucky I‘m leaving) mostra già la caratteristica del loro suono, dall’altro contiene anche un mostro come See the tears fall che, nonostante l’uso delle chitarre slide, mostra un pesante debito verso gli eroi locali, ovvero Jim Kerr e i Simple Minds. La band intanto affina il proprio stile dividendo il palco con Gun Club, Alex Chilton e David Johansen. La svolta decisiva avviene durante l’anno grazie alle attenzioni e alle cure di Richard Mazda, il produttore dei seminali primi due album dei Fleshtones ma anche di Wall of Voodoo, Birthday Party, Scientists. È lui a sedersi in consolle per le registrazioni di Sound Hole e per Live a little. Richard è totalmente affascinato dal gruppo inglese tanto da diventare il sesto Primeval, finendo per suonare qui e là l’organo Hammond, qualche traccia di percussioni, diventando corista, arrangiatore, fotografo, grafico. Sono i due dischi che definiscono definitivamente il suono dei Primevals, con questo suono scivoloso di chitarre e la voce di Michael Rooney che, lontano dalle sofferenze di un Jeffrey Lee Pierce o di un Tex Perkins, canta con la solarità di un Dave Faulkner in crociera e sì, ogni tanto, torna a fare il Jim Kerr in pausa dal lavoro (Cotton Head). ML 29 musicletter.it update n. 72 musica: Però è questo contrasto con musiche che altrove sono segnale di un logorante demone interiore (Scientists, Gun Club, Beasts of Bourbon, Tex and the Horseheads) che rende i Primevals una band unica, privandoli del contesto delirante che eleva le altre band allo status di culto adolescenziale ma facendone un fenomeno buono per tutte le stagioni per i pochi che hanno avuto la fortuna di avvicinarsi ai loro dischi. Questa doppia raccolta curata dalla Last Call, l’etichetta che raccolse il testimone dalla New Rose, allinea un bel gruzzoletto di materiale d’epoca: gli album di cui vi ho detto per intero, i singoli del periodo (compresa la cover di Diamonds, Furcoat, Champagne dei Suicide che il gruppo regalò alla compilation Play New Rose for me, NdLYS) e un pugno di nuove incisioni datate 27 Febbraio 2000. Ce n’ è abbastanza per innamorarvi. O per lasciare che qualcuno con meno onestà intellettuale della mia vi dica che suonavano come i China Crisis. Fate voi. Franco Dimauro ML 30 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: RAGE AGAINST THE MACHINE TITLE: S.T. LABEL: Epic RELEASE: 1993 WEBSITE: www.ratm.com MLVOTE: 10/10 Avere la lingua lunga non serve solo a letto. Però, sia lì che altrove, è necessario saperla usare. Zack De La Rocha impara a usarla giovanissimo. Come tanti “rapper” della prima ondata (anche italiana), anche lui viene dal punk. Ha girato in qualche band portando a compimento la sua devozione per Bad Brains, Black Flag, Minor Threat, Bad Religion, Clash prima di restare folgorato dall’ impatto con i denti d’oro di Flavor Flag, e capisce che spesso la parola può far male più di un ceffone. Quando Tom Morello lo “scopre” per puro caso in uno dei club di Los Angeles, ha imparato a farla schioccare come una frusta alternandone l’uso con quello massivo dell’ugola. Roba che riesce difficile anche a Linda Lovelace. Sembra un cane rabbioso cui hanno appena tolto l’osso da sotto il naso. Tom, dal canto suo, ha affinato lo stile funk metal che ha sfoggiato sul disco dei Lock Up, una band che suonava come una versione povera dei Living Colour. Ha lavorato sul suo strumento cercando uno stile innovativo, secco e potente come una raffica a ventaglio di una sega di Hitler (Bombtrack, Killing in the name, Freedom) ma allo stesso tempo capace di simulare le ruote d’acciaio di Terminator X e della Bomb Squad (Know your enemy, Bullet in the head, Fistful of steel, Township Rebellion). Rage Against The Machine, l’album e la band, non concedono sconti. Né sull’ immagine né sulle parole, tantomeno sulla musica. Thich Quang Duc, il sessantaseienne monaco buddista che si da fuoco al centro di Saigon introduce al clima barricadero del disco che è la riformulazione del combat rock guerrigliero dei Clash in un contesto metropolitano di scontro culturale, sociale, religioso, politico, musicale. Bombtrack ne definisce la formula sin da subito. È come la benzina che lambisce la carne di Thich Quang Duc e che, dopo aver riempito ogni millimetro di epidermide, prende improvvisamente fuoco con una furia cannibale. Burn! Burn! Yes, ya gonna burn!!! Il suono è un funky da trincea che non ha nessuna voglia di far ballare nessuno. Sembra muoversi dentro un parallelepipedo e rimbalzare come una palla da biliardo. Poi ti avvicini e scopri che è una palla sì, ma da cannone. La sensazione è identica per Killing in the name, feroce proclama antimilitarista per il quale Zack sfodera una forza persuasiva fomentata dall’uso marziale di strofe di disobbedienza che si susseguono con reiterata e crescente, incessante veemenza, come fossero urlate dentro una caserma da marines americani. Take the power back ha un passo più morbido anche se non meno implacabile. Merito soprattutto dell’uso funky del basso che tra l’altro riproduce chissà quanto inconsapevolmente quello di Peacekeeper, dal disco dei Lock Up. Settle for nothing avvicina il suono della band a quello dei gruppi emo della Dischord, forse proprio ai Fugazi. I migliori dell’intero lotto. Anzi, come i Fugazi con Henry Rollins alla voce. ML 31 musicletter.it update n. 72 musica Tanto che quando Rollins uscirà con quella cosa incredibile che è Liar su The Weight, sembrerà di rivivere la stessa sensazione di dolore che parte dallo stomaco e finisce per gonfiarti le vene del collo come un eroe del wrestling. Wake up è una sorta di Kashmir del crossover con questo mammuth zeppeliniano che si perde prima in un gonfio giro alla Urban Dance Squad, poi in un piccolo anfratto di vibrazioni elettriche che ricordano il giro armonico di 24 Hours dei Joy Division e infine in un’intricata giungla di rumori, voci, urla su cui gli At the Drive-In costruiranno qualche anno dopo il loro suono. RATM è disco dalla forza d’urto impressionante, lesiva, ignea, furiosa. È l’album che servì a definire i canoni di un suono e a identificare un’estetica stilistica con la nitidezza e la profondità d’ ombra di uno scatto in bianco e nero e di cui loro stessi rimarranno prigionieri, incapaci di violarne la cornice ridipingendo per i dischi successivi la stessa identica tela. È un manifesto attitudinale che ha urgenza di essere letto, mandato giù a memoria, somatizzato. Pensateci, ogni volta che vi capiterà di vederlo appassire sugli scaffali di un negozio di dischi. Franco Dimauro ML 32 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: SOUNDGARDEN TITLE: Badmotorfinger LABEL: A&M RELEASE: 1991 WEBSITE: www.soundgardenworld.com MLVOTE: 9/10 Il 1991 è l’anno in cui il grunge capitalizza, diventando l’affare musicale del decennio e, col senno di poi, l’ultimo investimento non strutturale delle multinazionali del disco. Tutto ciò cui le major si dedicheranno negli anni successivi, di fronte alla crisi del mercato del disco e allo sviluppo del junkismo illegale, sarà solo il reinvestimento con poco capitale sul “catalogo” e sulla iTunizzazione del proprio materiale d’archivio e una lunga ristrutturazione aziendale fatta di fusioni, incorporazioni, abbattimenti, cessioni, licenziamenti e quant’altro. Sono gli ultimi anni in cui gli A&R delle case discografiche vengono pagati per battere il territorio come cani da tartufo in cerca di galline dalle uova d’oro da far diventare i nuovi beniamini della popolazione indie rock, da allora in poi resteranno comodamente seduti davanti al loro desk scandagliando la rete. Insomma, il grunge fu l’ultimo bagno di sudore della storia del rock. L’ultima esperienza totalizzante condivisa dalle folle “alternative” e confortata dai dati di vendita. Dopo torneranno le nicchie. Non a caso, si comincerà anche a parlare di “post”, com’era stato per il dopo-punk. Una stagione di riflusso, stavolta più lunga del previsto, ma è in quest’anno palindromo che si gioca la scommessa sul grunge, con i dischi che marcheranno a fuoco l’intero decennio ma di cui molti, anche tra i profeti, ancora ignorano la portata. Il 16 Aprile è proprio la A&M a celebrare l’intera scena e il primo martire che ogni fenomeno rock che si rispetti deve esibire con la pubblicazione dell’ album dei Temple of The Dog. Il martire era Andrew Wood, leader dei Mother Love Bone. Il 28 Maggio è la volta del grunge fluorescente di Gish degli Smashing Pumpkins, da Chicago. Il 27 Agosto esce Ten dei Pearl Jam, destinati a diventare l’ultima rock band del millennio anche se nessuno lo sa ancora. Il 24 Settembre arriva Nevermind dei Nirvana. Rockerilla, la rivista che aveva odorato il culo alla scena di Seattle quando il grunge era ancora una belva famelica e aveva “adottato” il movimento in Italia, gli dedica una striminzita recensione indicandolo come un’ottima scopiazzatura dei Replacements e sacrificando ben due pagine della rubrica al doppio color nero dei Metallica e al quadruplo odor di cacca dei Guns‘n’Roses. Credo si siano morsi le mani per i dieci anni successivi. L‘8 Ottobre viene pubblicato Badmotofinger dei Soundgarden. I cloni sono già alle porte, educati agli esercizi di copiato. Si chiamano Everclear, Bush, Stone Temple Pilots, Stiltskin, Creed, Silverchair. Il plurale è quasi bandito dall’iconografia della vera giunge band. Chissà perché. I Soundgarden sono, tra tutti, quelli con una propensione più marcata verso il metal spacca timpani. Vuoi per l’uso di riff elaborati e vorticosi, vuoi per l’ugola di Chris Cornell, capace all’epoca di eguagliare la forza di un Robert Plant e o di un Dave Tice, ma in loro vive questo innovativo taglio cerebrale e concentrico che fa ancora storcere la bocca a tanti, non solo ai metallari. ML 33 musicletter.it update n. 72 musica È qualcosa di strutturalmente complesso, cervellotico, spiazzante, e loro lo sanno, ne sono consapevoli. Come il riff contorto di Jesus Christ Pose, tutto incurvato e rappreso. Saranno loro stessi a definirlo simile al rumore delle pale di un elicottero. Una roba con cui ora abbiamo fatto pace ma che allora suonava del tutto aliena. Io ci misi qualche mese per aprirgli la porta di casa. Rusty Cage non gli è da meno. È meno spiritato ma è il riff chiave dell’hard rock moderno come quello di Whole Lotta Love lo era stato per quello storico. Sesta corda abbassata in sì e un rapidissimo raddoppio di legati che, filtrati attraverso un effetto a pedale, sembrano fare andare il riff a rovescio. Il nuovo bassista (dapprima “bocciato” e poi recuperato tra i ranghi proprio prima di entrare in studio, NdLYS) Ben Shepherd porta con sé un ottimo gusto creativo. È sua l’idea del giro torcibudella di Jesus Christ Pose così come sono in parte farina del suo sacco gli scatti propulsivi e la furia hardcore che violentano Face Pollution e totalmente sua è la dolcezza di Somewhere che diventerà il canovaccio estetico per i Soundgarden melodrammatici di Fell on black days e Black Hole Sun su Superunknown. La scrittura dei ‘garden trova su Badmotorfinger la giusta pista di asfalto per lanciare il proprio velivolo in fuga dal loro aeroporto privato e pronto a solcare i cieli del mainstream rock di fine secolo, muovendosi tra gli archi torti di Mind Riot, le montagne russe del tour de force di New Damage, e i trampolini di Drawing Flies o Room a Thousand Years Wide con tanto di fiati fusi assieme alla colata di zolfo dei riff di Kim Thayil. È con questo disco che si consegnano alla storia del rock come gli Zeppelin della stagione del grunge. Una folgore infuocata che squarciò il cielo plumbeo del rock ficcandosi nella pietra come un’Excalibur che ancora nessuno è riuscito a tirare fuori dalla roccia. Franco Dimauro ML 34 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: JOY DIVISION TITLE: Closer LABEL: Factory RELEASE: 1980 WEBSITE: www.neworderonline.com MLVOTE: 8/10 I dieci anni sono la soglia oltre cui cominci a conoscere la morte. Prima di allora, se non è inevitabile, te la tengono nascosta, te ne edulcorano la percezione. Non ci sono morti, nei tuoi primi anni di vita ma soltanto gente che è andata lontano. Solo dopo scoprirai quanto lontano. Io a dieci anni ebbi il mio incontro con la morte che passò portandosi via mia zia. Era il 1980, e i Joy Division uscivano col loro secondo album. Un disco su cui, più che sul primo, aleggia l' alito della morte. Ci sono tante interpretazioni del dolore. I Joy Division diedero la loro. Che era quella di una claustrofobia lancinante. Non c'erano coltelli nella musica dei Joy Division, ma uncini. Non era una musica nata per ferire, ma per scavare nel proprio dolore. Quando si chiudono con Martin Hannett nei Britannia Row Studios non lavorano su delle canzoni ma su un'idea di suono. Un suono che Martin ha dapprima reso classico e che ora intende far diventare statuario, marmoreo. Closer è un disco che ti impedisce di essere felice. È un tempio dove il sorriso è bandito, ma sono bandite pure le lacrime. Qui nessuno ti verrà in soccorso. C'è una solitudine immensa dentro questi solchi, dentro queste sagome di marmo. Non c'è traccia di pietà, né di struggimento. C'è la desolazione che mette a disagio, un deserto interiore estetizzato nei suoni di tastiera che incombono lungo i sei minuti conclusivi di Decades con questo ticchettio che schiocca sui vetri. Una pioggia che non bagna, che si rifiuta di essere acqua, di poter in qualche modo placare una qualche sofferenza ma che pare adagiarsi su tutto, senza scalfire, senza sporcare. Una presenza ingombrante, barocca, eccessiva che torna a cucirsi addosso alle ruote meccaniche di Isolation cercando di bloccarne gli ingranaggi. Closer è un disco nauseante, da qualsiasi prospettiva lo si guardi. Ha un fascino sgraziato e soffre delle stesse malattie di Curtis, dei suoi scatti epilettici (Colony), del suo amore disadorno (The Eternal), della sua claustrofobica fascinazione per la mutilazione (24 Hours). La voce di Ian Curtis incalza senza trasporto. Inflessibile. Atona. Scivola immobile come un iceberg tra questi prismi diafani. Ian morirà prima di poterlo toccare, prima di poter inumidire di lacrime la sua confezione. Che rimarrà uguale nonostante la tragedia: una scultura funeraria di Bernard Pierre Wolff installata nella tomba della Famiglia Appiani nel Cimitero Monumentale di Staglieno, in Liguria. Un mese prima un' altra opera di Wolff aveva dato un volto all' ultimo canto disperato di Ian Curtis, sulla copertina di Love will tear us apart. Una scelta che qualcuno riterrà inopportuna e oltraggiosa, una commemorazione funeraria che suona spudorata e di cattivo gusto e che getterà un' ombra scura sui primi anni dei New Order, sospettati di sfruttare il fenomeno Curtis per inaugurare la loro carriera. Oppure una scelta di coerenza, di stile, di etica, di celebrazione mortuaria della bellezza. Del resto la morte cantata dai Joy Division non è mai truculenta, mai torva. Come nelle statue di Wolff ha un suo romanticismo, una devozione muta ed elegante. Un suo statuario, solenne, raggelante sepolcro. Franco Dimauro ML 35 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: BLACK SABBATH TITLE: Sabbath Bloody Sabbath LABEL: WWA RELEASE: 1973 WEBSITE: www.blacksabbath.com MLVOTE: 8/10 Per tutti gli anni Settanta i Black Sabbath incarnarono il suono del Male. Un Helter Skelter che dalle selve britanniche portava in rovinosa e vorticosa caduta fin dentro la pancia dell’inferno. Una voce folle e luciferina, un suono intarsiato nelle pareti rocciose dell’Inferno. I Black Sabbath agli inizi del decennio ridefiniscono i canoni estetici e stilistici dell’hard rock ripulendolo dalle scorie blues e levigandolo come una scultura di pietra lavica, raffreddandone l’anima fino a renderlo gelido, esanime. Rimodulano distorsioni e accordature e disegnano la sagoma del metal scolpendolo con tratti perfidi e diabolici. È il primo inquietante e minaccioso ritratto della musica ossianica che poi verrà elaborata, partendo da inquadrature diverse ma speculari, dai Banshees di Join Hands e che i Sabbath mettono a fuoco nella tetralogia classica degli esordi, dopo di che Ozzy e Tony decidono di agganciare il loro suono alla montante scena progressive sfruttando l’ amicizia con Rick Wakeman. Rick diventa il membro aggiunto e i suoi sintetizzatori diventano la cosa nuova dentro il suono della band. A loro affidano il sipario di Who are you? imbastito da Osbourne proprio attorno elle evoluzioni di synth del tastierista degli Yes, creando un esperimento inedito nelle solide architetture del progetto Black Sabbath. Altrove (il requiem elettrico di Sabbra Cadabbra e la sognante Spiral Architect ispirata proprio da un sogno del bassista Geezer Butler, NdLYS) il tocco di Wakeman è più misurato, bilanciato dalle solite colate dei riff di Iommi. Tuttavia l’introduzione all’opera è puro Sabbath style con quel giro di chitarra monolitico, pressante come un infarto e all’apparenza impenetrabile e che invece dopo appena 40 secondi si squarcia lasciando passare fasci di luce, per poi richiudersi come un sepolcro. A National acrobat è anche lei sgombra del peso delle tastiere ed è una minisuite in tre movimenti dalla quale pescheranno a piene mani schiere di metal bands a venire, dai Metallica ai Fu Manchu. Finale mozzafiato ed eccoci dentro le bellissime trame liquide di Fluff che, come già successo con Orchid o Laguna Sunrise, asseconda il vezzo di Tony Iommi di riservare per sè piccoli angoli bucolici, piccoli rifugi antiatomici nascosti tra foglie di platano. Gli altri due classici di Sabbath Bloody Sabbath si intitolano Killing yourself to live e Looking for today. La prima è una canzone robusta che finisce in una vera galoppata hard. Non come quelle di Rocco Siffredi ma poco ci manca. Allo scadere dei primi due minuti la chitarra di Iommi si infuoca e si intreccia attorno a se stessa, con un ottimo lavoro di overdubbing che ne accresce il tono drammatico. Succede la stessa cosa tre minuti dopo, ma a questo punto il pezzo è già diventato una corsa di formula uno, e lo schianto è vicino. Looking for today è uno dei pezzi più eleganti della storia dei Sabbath. Rivestita di apparente ottimismo e colorata dagli accenti di un flauto, è una delle perle nascoste del repertorio del Sabba Nero, a torto ritenuto uno dei pezzi minori per questa sua natura ambigua e formalmente distante dalle gravi atmosfere catacombali che li distinguono, e invece chiude in maniera straordinaria l’ultimo grande disco dei Signori del Male. Poi verranno storie di pipistrelli, estasi tecnologiche, morti in autostrada, fiction televisive e fiction da palcoscenico e poi ancora altre morti. Franco Dimauro ML 36 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: THE ROLLING STONES TITLE: Exile On Main Street LABEL: Polydor RELEASE: 1972 WEBSITE: www.rollingstones.com MLVOTE: 10/10 Nel ‘72 gli Stones scappano, letteralmente, dall’Inghilterra. Dietro di loro uno stuolo di agenti del fisco. In auto, in motovedetta, in fila indiana, in gruppi organizzati. Si rifugiano in Francia, sulla Costa Azzurra dove Keith Richards ha rilevato un vecchio rifugio nazista e ne ha fatto il suo quartier generale. Qui dentro gli Stones tirano fuori le lamette e si tagliano le vene. Tutto quello che ne esce è emoglobina infettata dall’eroina. È la consumazione dell’ultimo atto. Quando torneranno con Goats Head Soup, avranno un pallore che con fatica riusciranno a placare. È da quel momento che nascono gli Stones con la linguaccia, gli Stones iconizzati dell’immaginario rock fatto di stadi assiepati, tour galattici e fazzoletti bagnati dentro gli slip. Dentro Exile gli Stones vomitano tutto il loro amore per la musica nera gozzovigliando col bluegrass, la soul music, il blues, il gospel. Senza ambizione, mettono mano al loro disco più ambizioso. Un doppio dove regna il disordine e dove tutto sembra stare nel posto giusto solo per puro caso, per istinto, per fatalità. Una lunghissima sequenza di smorfie rollingstoniane deformate dall’eroina. Con loro ci sono un mucchio di complici: Gram Parsons, Dr. John, Nicky Hopkins, Billy Preston, Jimmy Miller, Ian Stewart, Richard Washington, Lisa Fisher, Tami Lynn, Jim Price, Bobby Keys. Alcuni di loro entrano ed escono dalla villa di Villefranche col proprio carico di blues e se ne tornano a casa col fegato in panne. Hanno messo le mani dentro questa merda e ora si ritrovano in qualche vicolo a vomitare, a qualche isolato dagli yacht ormeggiati nel porto di Nizza. Hanno preso del corpo degli Stones e hanno bevuto del loro sangue, in questa eucarestia luciferina da ultima cena. Altri sono stati agganciati da Mick Jagger a Los Angeles, dove ha deciso di portare i nastri per avvicinarli all’ umore spirituale del gospel. A rimettere mano in quella latrina in cui gli Stones abitano dai tempi di Beggars Banquet è, trenta anni dopo, Mr. Don Was, e non per pulirla, grazie a Dio: Exile on Main Street resta quella cosa sporca che era, quella sputacchiera di catarro e fiele che ognuno dovrebbe avere attaccata ai muri del proprio bagno, ma si sa, le esigenze delle agenzie immobiliari di oggi sono diverse. Ti chiedono un adeguamento dell’immobile, e così ecco che Don chiama un po’ di manovalanza e allestisce un doppio servizio. Non sporco come quell’altro ma nemmeno confortevole come quei B&B dove puoi portarti la merendina in bagno mentre ti depili. Dentro, ci sono una decina di sozzure dell’epoca, che Was ha, stavolta sì, rimesso a nuovo coinvolgendo a volte in prima persona Jagger e Richards. Si comincia da Sophia Loren, un sincopato gospel latineggiante carico di fiati e armonica che i fanatici degli Stones conoscono già da un pezzo e si scende giù fino al boogie metallico del breve strumentale Title 5 che Don Was riveste di un suono attualissimo. Nel mezzo c’è una bella versione di Soul Survivor, una So Divine che pare aprirsi sull’arpeggio di Paint it Black e che invece diventa subito una dolcissima canzone d’amore dal suono a tratti quasi innaturale o una Following the river ai cui tocchi di pianoforte viene adesso aggiunto il testo e la voce di Jagger e altre cose meno sconce recuperate dal cassonetto dei rifiuti della Main Street. Tutt’intorno danzano gatti randagi che ridono come iene. Per l’ultima volta. Poi saranno anni affollati da magliette con le labbra e stelle filanti. Fino alla caduta di Babilonia. Franco Dimauro ML 37 musicletter.it update n. 72 musica ARTIST: THE PRETTY THINGS TITLE: Get The Picture? LABEL: Fontana RELEASE: 1965 WEBSITE: www.rollingstones.com MLVOTE: 8/10 Lasciare i Rolling Stones e metter su una band che suoni meglio degli Stones. Voi ci riuscireste? Dick Taylor ci riuscì. Dopo aver condiviso con Brian Jones, Keith Richards e Mick Jagger ore e ore di religioso ascolto dei classici del blues che arrivavano dagli Stati Uniti provano qualche abbozzo di canzone, registrano qualche provino ai Carly Clayton Sound Studios quindi Dick decide di lasciare il tavolo da gioco. Dice ai compagni che vuole concentrarsi sugli studi. Non quelli discografici, ma quelli dell’ Istituto d’Arte dove si è iscritto. Invece recluta altri quattro disadattati con meno ego dei suoi amici e si inventa una nuova band, battezzandola come un brano di quell’omaccione nero che gli appare ogni notte in sogno con una chitarra quadrata e un paio di occhiali dalla montatura improbabile. Non vuole suonare sporco e cattivo come i Rolling Stones. Vuole suonare più sporco e cattivo che i Rolling Stones, e ci riesce. I primi due album dei Pretty Things sono manuali debosciati di come si possa suonare il blues elettrico facendolo sembrare la cosa più pericolosa del mondo. A Marzo realizzano il primo, pieno degli stessi standard lerci su cui stanno lavorando gli Stones ma anche altre band con l’anima nera come gli Animals o gli Yardbirds. Poi Dick affina il tiro e quando a Dicembre dello stesso anno pubblicano il secondo album, ci infilano dentro un bel po’ di roba loro, seguendo un po’ lo stesso percorso dei vecchi cuginetti Stones. Ne tirano fuori un disco devastante e bellissimo come Get the Picture? nel quale mette mano anche Jimmy Page, all’ epoca richiestissimo session-man. Viv Prince molla la band otto giorni prima dell’ uscita del disco, anche se è già da un po’ che diserta le registrazioni, costringendo i compagni a cercare dei sostituti come Bobby Graham (che però vuole essere accreditato come autore, manco stesse scrivendo la Marcia dei Nibelunghi) e il più accomodante John C. Alder, alias Twink che diventerà il drummer ufficiale per la messinscena dell’ incredibile S. F. Sorrow. Era andato alle sessions per caso, per fumare qualche spinello col bassista dei Fairies (la sua band di allora, una splendida meteora delle Nuggets inglesi, NdLYS) chiamato a sostituire per una settimana John Stax, impegnato nella sua luna di miele. Ma Prince buca le prove, e stavolta forse non per colpa sua. Non direttamente, perlomeno: è in gattabuia. Pare che al matrimonio di Stax avesse sbeffeggiato un poliziotto facendogli volare via il cappello. Lo sgabello è vuoto, Twink si accomoda. Se il debutto li aveva consegnati alla storia come degli infuocati pischelli alle prese col Diddley-sound più selvaggio, Get The Picture? ne modera e stempera il calore ridisegnando parzialmente il profilo musicale del gruppo e proiettandolo verso le nuove congetture psichedeliche che si muovono tra i capelloni inglesi fino ad esplodere nella scena freakbeat, elaborandone e arricchendone il suono con l’ uso di ronzanti fuzzbox e la scelta di pezzi dall’ andamento “zoppicante” come Buzz the jerk o sottilmente psichedelici (Can‘t stand the pain, London Town) a contrastare le solite smorfie jaggeriane ostentate nelle cover di Cry to me e Rainin’ in my heart dove sfidano gli Stones nel loro stesso giardino di casa, pisciando sulle siepi. Ma ci sono pure i pezzi di violento garage beat come You don ‘t believe me, Get the Picture? o We ‘ll play house o di R ‘n’ B maniacale ma elegantissimo di I want your love o You ‘ll never do it baby a fare di Get the Picture? uno dei dischi fondanti del beat-punk inglese del decennio e un capolavoro a molti ancora sconosciuto con cui val la pena tormentarsi nei pomeriggi estivi, lasciandolo riverberare fuori dalle imposte spalancate. Magica fantasia freakbeat. Ricevuta la foto? Franco Dimauro ML 38 musicletter.it update n. 72 speciale SPECIALE PROGRESSIVE ITALIANO Tracce di progressive italiano © 2010 di Luigi Lozzi Il Progressive Rock è stato sempre uno dei generi più discussi della storia della musica giovane, amato appassionatamente o contestato in modo veemente. Un genere che, potete comprenderlo bene, più che figlio del disimpegno e del divertimento suggerito dal rock'n'roll e dai suoi surrogati, è diretta emanazione di una concezione musicale sofisticata e d’avanguardia, legata alla sperimentazione e allo sviluppo di tematiche di certo più impegnative; di derivazione, insomma, più classica. Il progressive (detto anche prog), così come si è sviluppato sul finire degli anni Sessanta (data virtuale della nascita il 1967, periodo di maggior visibilità quello tra il ’69 e il ’76), prendendo il via da musica elettronica, musica psichedelica e folk, ha avuto la sua migliore espressione soprattutto in Inghilterra, ma subito dopo anche in Italia, Francia, Germania (con il cosiddetto rock cosmico) e Olanda. Praticamente nullo il contributo dagli Usa; probabilmente perché in conflitto con le radici culturali americane. Nei rivoluzionari anni ’60 solo la psichedelia là ebbe spazio e il folk è stato quello giovane ereditato da Woody Guthrie, non altro. I grandi paladini del genere sono noti a tutti: gli antesignani Moody Blues, e poi King Crimson, Genesis, Pink Floyd, Yes, Jethro Tull, Emerson, Lake & Palmer, Colosseum, Brian Eno, Nice, Gentle Giant, Focus, Curved Air, Family, Reinassance, Caravan, Van Der Graaf Generator, Strawbs, Quatermass, Beggar’s Opera, Hatfield & the North, Greenslade, Audience, Magna Carta, Atomic Rooster, Camel, Magma, Soft Machine, Nucleus, e scusate se ne ho tralasciato qualcuno. Ricerca sonora e virtuosismi dal piglio epico nell’esecuzione, cura negli arrangiamenti e nelle scenografie Live, questi gli elementi trainanti di un fenomeno che ha fatto adepti dappertutto e che, anche dopo il suo tramonto, ha continuato a tenere desta la passione (spesso collezionistica) e la curiosità degli adepti più integralisti. Senza addentrarci eccessivamente nell’analisi (perché non è questa la sede più adatta), la cosa niente affatto scontata all’epoca è che l’Italia ha fornito un importante contributo allo sviluppo del Progressive in fatto di idee, dischi e personaggi, del cui valore ci si è accorti solo molto tempo dopo. I gruppi guida all’inizio dei Settanta sono stati la Premiata Forneria Marconi (con l’album “Storia di un minuto”), il Banco del Mutuo Soccorso (con il primo omonimo album) e le Orme (con “Felona e Sorona”), formazioni che sono state le nostre punte di diamante ed hanno conservato la leadership per diverso tempo; ma dietro di loro ha preso corpo un movimento di vaste proporzioni – ricordiamo per dovere di cronaca anche il Franco Battiato che cominciava a muovere i primi passi in questo contesto, i New Trolls di "Senza orario, senza bandiera", considerato il primo concept album italiano, e “Concerto Grosso N° 1”, gli Area, gli Osanna, il Rovescio della Medaglia, il Balletto di Bronzo – che è lievitato negli anni, mantenendo sempre alto l’interesse degli appassionati e suscitando la curiosità dei collezionisti fin nel lontano Giappone. ML 39 musicletter.it update n. 72 speciale progressive italiano È nato sostanzialmente come imitazione del Prog d’oltremanica (influenzato anche dal Rock Sinfonico) ma è anche vero che l’Italia è stato il paese in cui il Progressive ha attecchito meglio e più rapidamente: è sicuramente superfluo ricordare come gruppi quali Genesis, Gentle Giant, Van Der Graaf Generator hanno avuto successo prima da noi che in patria. Evidenti anche i tratti distintivi: concept album, negazione della forma canzone, brani lunghissimi a mò di suite, con lunghi intermezzi improvvisazioni, strumentali gusto per e spazio certe alle soluzioni melodiche, testi criptici ed evocativi dai ripetuti riferimenti a mitologie fantastiche, enfasi strumentale, utilizzo privilegiato di moog, tastiere e mellotron. Il Festival Pop di Villa Pamphili tenutosi a Roma dal 25 al 27 maggio 1972 sanciva l’ufficialità della nascita di un fenomeno musicale assolutamente innovativo ai tempi per l’industria del disco in Italia. La stampa specializzata sulla materia cresceva in forma esponenziale e quanti si occupavano di Pop (Renzo Arbore, Carlo Massarini, Fegiz ecc.) riuscivano persino a rinnovare gli ingessati palinsesti della RAI. È pure vero che nell’incredibile mole di album pubblicati nel periodo d’oro del Progressive, sono molti i dischi mediocri; va da sé, però, che possono essere tutti utili a tracciare una mappa nazionale del fenomeno. Oggi il recupero di questi dischi assume il sapore dolce della (ri)scoperta. La Universal, dopo un certosino lavoro di ricerca negli archivi di casa, ha proposto sul mercato una serie di sei cofanetti dedicati al meglio della (spesso oscura) produzione Progressive dei Settanta. Ogni mini box – pubblicato con il titolo di “Progressive Italia – Gli Anni ‘70” nella collana The Universal Music Collection ed in ‘Limited Edition’) contiene sei CD inseriti in copertine cartonate simil vinile e a un prezzo davvero incoraggiante (intorno ai 26,90 euro; 4,5 euro a disco). C’è poi un cofanetto con ben 11 album delle Orme, tutti quelli incisi per la Philips (etichetta del gruppo Phonogram, prima, e PolyGram dopo). Ad un prezzo ancora più ghiotto delle precedenti proposte (35 euro in tutto: lascio a voi il facile calcolo cadauno dei cd). In pratica quasi l’intera produzione del gruppo veneto composto da Aldo Tagliapietra, Tony Pagliuca e Michi Dei Rossi: manca qualcosa in testa (il debutto “Ad Gloriam” del ‘69) e qualcosa in coda all’avventura del gruppo, ma in sostanza c’è tutto il corpo discografico. Elementi barocchi in un costrutto assemblato più (è proprio il caso di dirlo) sulle orme classicheggianti dei Nice (e di rimando agli Emerson Lake & Palmer) che a inseguire lo stile dei Genesis, con un pop-melodico di elegante fattura. Il momento artisticamente migliore è scandito dalle posizioni raggiunte nella hit parade degli album: “Collage” 26° nel ’71, “Uomo di pezza” 7° nel ’72 e “Felona e Sorona” 18° nel ’73. ML 40 musicletter.it update n. 72 speciale progressive italiano Nel dettaglio i cofanetti citati contengono: “Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 1" [6 CD] • Balletto di bronzo: “YS” (1972) • De De Lind: “Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò…” (1972) • Jumbo: “Vietato ai minori di 18 anni?” (1973) • Sensations’ Fix: “Portable Madness” (1974) • Latte e Miele: “Passio Secundum Mattheum” (1972) • Mauro Pelosi: “Al Mercato degli uomini piccoli” (1973) “Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 2" [6 CD] • Locanda delle fate: “Forse le lucciole non si amano più” (1977) • Ibis: “Ibis” (1975) • Sensations’ Fix: “Finest Finger” (1976) • Roberto Cacciapaglia: “Sei note in logica” (1979) • Pasquale Minieri/Giorgio Vivaldi: “Carnascialia” (1979) • Stradaperta: “Maida Vale” (1979) “Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 3" [6 CD] • Jumbo: “Jumbo” (1972) • Billy Gray: “Feeling Gray?” (1972) • Sensations’ Fix: “Boxes Paradise” (1977) • Tritons: “Satisfaction” (1973) • Toni Esposito: “La banda del sole” (1978) • Mauro Pelosi: “Mauro Pelosi” (1977) “Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 4" [6 CD] • Ibis: “Sun Supreme” (1974) • Jumbo: “DNA” (1972) • Madrugada: “Madrugada” (1974) • Sensations’ Fix: “Fragments of Light” (1974) • Mauro Pelosi: “La stagione per morire” (1972) • Latte e Miele: “Papillon” (1973) “Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 5" [6 CD] • Claudio Pascoli: “Naifunk” (1979) • Maurizio Arcieri: “Trasparenze” (1973) • Sensations’ Fix: “Flying Tapes” (1978) • Claudio Dentes: “Pantarei” (1979) • Mauro Pelosi: “Il signore dei gatti” (1979) • Madrugada: “Incastro” (1976) “Progressive Italia - Gli anni 70 - vol. 6" [6 CD] • Franco Falsini: “Cold Nose” (1975) • Maurizio Fabrizio: “Movimenti nel cielo” (1978) • Pangea: “Invasori” (1976) • Carlo Siliotto: “Ondina” (1979) • Pueblo: “Pueblo” (1975) • Sensations’ Fix: “Sensations’ Fix” (1974) “Le Orme – The Universal Music Collection" [11 CD] • Collage (1971) • Uomo di pezza (1972) • Felona e Sorona (1973) • Contrappunti (1974) • In Concerto (1974) • Smogmagica (1975) • Verità nascoste (1977) • Storia o leggenda (1977) • Florian (1979) • Piccola rapsodia dell’ape (1980) • Orme (1990) ML 41 musicletter.it update n. 72 live review ARTIST: IGGY POP LOCATION: Azzano Decimo (PN), Fiera della Musica DATE: 16.07.2010 WEBSITE: www.iggypop.com photo by www.iggyandthestoogesmusic.com Pordenone, la città del Great Complotto, ha ospitato l’unica data italiana di Iggy & The Stooges. Il palco per l’esibizione serale è collocato all’interno del Palaverde di Azzano Decimo, adibito a fiera della musica. Non sazi di avere questa incredibile esclusiva, gli organizzatori hanno deciso di assoldare come gruppo spalla i redivivi Gang Of Four. Partiamo proprio dal quartetto di Leeds: i brani sono quasi tutti ripescati dai primi dischi, soprattutto da quell’ “Entertainment!” tanto amato sia da critica (presente nella lista dei 500 dischi di sempre di Rolling Stone), che da pubblico. Un’esibizione intensa e allo stesso tempo distaccata, dove stenta ad arrivare una vera interazione tra band e spettatori. L’esecuzione è comunque impeccabile, anche se si ha avuto spesso la sensazione che i due membri originali, Jon King e il chitarrista Andy Gill, vivessero in un mondo tutto loro, distaccati sia dal resto della band che dalle persone presenti. Degno di nota il lavoro di Andy alla chitarra: suoni freddi, note sospese, chitarra gettata nel bel mezzo dell’esecuzione, è sicuramente il fulcro musicale dei Gang Of Four. Bisognerà aspettare più di una sudatissima oretta prima dell’entrata del Circo dell’Iguana. La formazione è quella di Raw Power, ovvero James Williamson alla chitarra e l’ottimo Mike Watt al basso, al posto del mai troppo rimpianto Ron Asheton. L’impatto iniziale è devastante: un’intensa Raw Power crea il clima giusto, permettendo a Iggy di scatenare la propria carica erotica/distruttiva verso il caloroso e reattivo pubblico che ormai ha stipato il piazzale del Palaverde. La scaletta è incentrata sulla Potenza Rozza, eseguita completamente escludendo I Need Somebody. Nel mezzo anche vecchi pezzi come 1970, No fun e l’immancabile I wanna be your dog. Con molto piacere arriva pure un’inaspettata (almeno per quanto mi riguarda) e carichissima I got a right, seguita dall’inno oppiaceo Open up and bleed. Ci sono diverse domande che mi tormentano: come fanno Iggy e Scott Asheton a essere ancora vivi e a suonare questa musica dopo tutti i loro eccessi e la loro età? L’iguana sta ringiovanendo? È impressionante pensare di poter assistere all’esibizione di un gruppo che è stato leggendario dal ’69 al ’73, non solo per la loro fondamentale trilogia, ma pure per l’incredibile aurea di maledetti che giustamente gli fu attribuita in quegli anni. Un concerto caldissimo in tutti i sensi, una band molto affiatata, Iggy Pop incredibilmente vitale e intonato. Qualcuno potrà dire che sembrava tutto sin troppo perfetto, senza l’effetto imprevedibilità di anni fa, qualcun altro potrà pensare che la formazione con Ron alla chitarra fosse più sporca e malsana (il sottoscritto, pur non sottovalutando l’ottima esibizione di James), sta di fatto che questo gruppo leggendario sa ancora entusiasmare un pubblico relativamente giovane, e non è poco. Matteo Ghilardi ML 42 musicletter.it update n. 72 live review ARTIST: SEAL LOCATION: Lucca, Piazza Napoleone DATE: 16.07.2010 WEBSITE: www.seal.com photo by seal.com Avevo tanti capelli in più e nemmeno un filo di pancia quando nel 1990 scoprii “quel cantante coi dreadlocks e una voce fantastica”, passione sorprendente per chi aveva orecchie esclusivamente per chitarre e distorsori; da allora ho seguito la carriera di Seal con l’attenzione che si concede solo ai preferiti, maledicendo le vicende che mai prima d’ora mi avevano permesso di assistere a un suo concerto. C’è voluta la bellezza di due decenni affinché il sogno s’avverasse e la cornice del Lucca Summer Festival 2010 ne è stato il degno teatro. Con non più di cinque minuti di ritardo sull’orario in cartellone, come da tradizione “soul” è la band che ha preso possesso del palco e lo ha fatto con una riproposizione del superclassico Papa was a rollin’ stone sfociato nella vecchia e sempre efficace Killer sulle note della quale Seal è comparso on stage; da quel momento Piazza Napoleone sarebbe diventata creta nelle sue mani, modellata ed esaltata con la sola forza di feeling, anima e un talento infinito, sostenuto da una band di cinque eccellenti elementi e un altrettanto valido quartetto femminile di fiati. A fronte dei pochi e inevitabili richiami all’ultima pubblicazione, la raccolta di cover Soul (tra cui una It’s a man’s man’s world strappa applausi) la scaletta ha attinto prevalentemente dai primi due album e dal pluridecorato Seal IV esaltando nei passaggi più movimentati e dispensando brividi in quelli più intimi: è così che Prayer for the dying, Bring it on, Get it together hanno intrecciato il loro mood con l’euforia dance di Amazing o con il ritmo irresistibile di Waiting for you…Tutti aspettavano Crazy e Seal l’ha proposta al suo meglio anche se credo che l’apice del pathos si sia raggiunto con una sentitissima Kiss from a rose; io personalmente ho aspettato venti fottutissimi anni per poterla cantare insieme a quest’uomo che, fisicamente imponente e vocalmente in forma strepitosa, riesce con disinvoltura a farti saltare sulla sedia e a strapparti via il cuore con una delle sue insuperabili ballate con la stessa efficacia, senza dosare forze o estro, stabilendo anzi una connessione continua con un pubblico entusiasta (e composto prevalentemente da ultratrentenni). Dall’imminente Seal VICommitment sono stati estratti un paio di convincenti brani, il secondo dei quali, The way I love, è stato furbescamente ripescato durante il bis, dilatato e riarrangiato a dovere per presentare i suoi compagni di palco e permettere alla piazza gremita di cantare ancora una volta col suo beniamino. Dispiace non aver ascoltato classici come Future love paradise o Don’t cry (Human Being poi è stato sacrificato del tutto) ma la consapevolezza che i brani omessi dalla scaletta avrebbero potuto costituire un greatest hits avvalora ulteriormente la tesi che quell’uomo sul palco attraversa una condizione sovrannaturale. Lui si chiama Seal Samuel, canta da Dio, parla d’amore e io lo adoro. Manuel Fiorelli P.S. – Alice, ovunque tu sia, grazie di cuore per la dritta! ML 43 musicletter.it update n. 72 live review ARTIST: DIRTMUSIC & TAMIKREST LOCATION: Faenza, Piazza Nenni (ex della Molinella) DATE: 17.07.2010 WEBSITE: www.willienile.com photo by Last.fm Vivere di musica significa anche fare pazzie per essa; e la pazzia, se gestita con dovizia, può anche regalare momenti indimenticabili. Dopo aver prenotato un biglietto aereo a/r per Roma, dove vive la mia dolce metà, scopro che la domenica stessa nella mia città (cioè Bergamo) avrebbero suonato i Dirtmusic assieme ai Tamikrest. Occasione più unica che rara per ascoltare dal vivo il progetto di Hugo Race (True Spirits, Bad Seeds, Wrenckery), Chris Eckman (Walkabouts) e Chris Brokaw (Codeine, Come) che hanno, con BKO, scritto uno dei dischi più interessanti di questo ottimo 2010 (a settembre intervista a Hugo Race su queste pagine). Due date in Italia, dicevo, una a Bergamo e una a Faenza, che da Roma dista “solo” 400 Km invece dei 600 abbondanti che separano la capitale dalla mia città natale. Così prenoto in un bellissimo agriturismo immerso nel verde e nel giallo dei girasoli, e all’alba, io e colei che un po’ pazza lo sta diventando a forza di stare con lo zoppo, ci mettiamo in viaggio evitando un terribile incidente sul grande raccordo anulare. Spavento passato, la nostra mente è ora pronta a gettarsi nell’ozio prima di respirare il profumo del deserto. Così dopo un bagno in piscina, una passeggiata per Faenza e una deliziosa cenetta di pesce, ci troviamo in Piazza Nenni (ex della Molinella) per assistere a questo strano connubio fra America e Africa, fra il blues e la musica tuareg, fra le chitarre elettriche e le percussioni che alimentano incessantemente il fuoco sacro del rock. The Other Side dall’omonimo Dirtmusic apre in acustica con i tre musicisti accompagnati dal solo percussionista Aghaly Ag Mohamadine, poi i Tamikrest salgono uno a uno sul palco e l’alchimia si crea; i brani di Adagh sono pura magia, sono canti lontani che raffigurano una cultura a noi misteriosa, sono litanie che ampliano gli spazi e tutti (compreso un bambino di pochi anni) vengono rapiti e catapultati in questo mondo meraviglioso. Quando poi il nostro mondo entra in collisione con quello africano, ecco i pezzi di BKO (Glitterhouse Records, 2010) esplodere in tutto il loro splendore; dal groove di Black Gravity e Lives we did not live, alla notturna Unknowable fino alla cover velvettiana All Tomorrow’s Parties che si espande a macchia d’olio nella provincia emiliana, oramai diventata per noi ascoltatori estasiati, il nuovo centro del mondo. Si ritorna a casa seguendo il volo irregolare dei pipistrelli, con la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico e con uno strascico di mal d’Africa. Nicola Guerra ML 44 musicletter.it update n. 72 live review ARTIST: THE CULT LOCATION: Roma, Ippodromo Capannelle DATE: 26.07.2010 WEBSITE: www.thecult.us photo by seal.com L’unica data italiana del “Love Live tour 2010” ha rinnovato ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno, il patto d’amore tra i fan della capitale e The Cult. Da queste parti non venivano dal giugno 2007 e il colpo d’occhio sotto il palco dell’ippodromo Capannelle è più che lusinghiero. Un intollerabile ritardo di oltre 45 minuti rischia di far perdere la pazienza un po’ a tutti ma poi, come al solito, il demone del rock fa da paciere e amici come prima alle prime note di un’ottima Lil’ devil. La prima mezz’ora dello show è incentrata su vecchi cavalli di battaglia come Phoenix e una Rain insospettabilmente eseguita dopo soli tre brani. I capelli di Ian Astbury sono ricresciuti ma con essi anche un girovita ingombrante che ha francamente fatto coppia con le condizioni non proprio ottimali della sua ugola; le canzoni le ha accennate, accompagnate in qualche modo ma non è apparso certamente nel miglior stato di forma per cui ha fatto spesso e volentieri ricorso all’aiuto di un pubblico comunque ben disposto. Il precedente concerto romano era stato caratterizzato da molteplici problemi tecnici patiti dalla chitarra di Billy Duffy e lascia alquanto interdetti appurare che i tre anni trascorsi da allora non abbiano impartito lezione alcuna; il biondo chitarrista trascorre infatti buona parte del tempo a “smadonnare” contro il tecnico di palco poiché evidentemente scontento di quanto fuoriesce dalle casse spia e finisce col suonare la parte centrale della tracklist con l’entusiasmo tipico del 2 novembre. All’improvviso però qualcuno da sotto il palco recapita alla band un vassoio di birre e come per magia una splendida Nirvana inaugura una seconda parte ben più convincente; il volume non è quello assassino dei Motorhead dell’anno scorso, l’impianto restituisce l’audio con buona qualità ed è un piacere cantare con loro Fire Woman, Revolution o una ripescata Sun King. Non c’è dubbio alcuno che si stia assistendo al concerto di una band che da molto tempo ha abbracciato definitivamente l’hard rock, ne risente il ripescaggio più vecchio, Spiritwalker che, con le sue atmosfere wave, finisce col sembrare un pesce fuor d’acqua in un acquario popolato di riffoni pesanti e tempi marcati. Wild flower è assolutamente incendiaria e non potrebbe chiudere meglio il set ufficiale; ci sono tuttavia un paio di numeri rigorosamente immancabili in una scaletta dei Cult ragion per cui non è una sorpresa quando incentrano i bis sull’immarcescibile She sells sanctuary e Love removal machine il cui break finale fa segnalare il livello più alto di movimento sotto il palco. Qualche ombra in più rispetto allo show di tre anni fa ma a tratti le luci sono riuscite ancora ad abbagliare. Manuel Fiorelli ML 45 musicletter.it update n. 72 rubrica PRESI NELLA RETE Stoned Machine, Orange Beach, My Morning Needle, Manthra Dei e Gengis Khan Voodoo Racket © 2010 di Stefano Bon Uno strano caso. Tempo addietro dovendomi occupare di “stoner” italiano, mi trovai a parlare di due band che oggi, più o meno negli stessi tempi, affrontano l’ardua prova discografica. Parliamo di Stoned Machine e Orange Beach e, se vogliamo, la parola “stoner” (come poi tutte le etichette) va strettina. In progressive, Italia c’è però, stato un come fiorire ai di tempi del band che recuperando l’hard rock degli anni Settanta, hanno dato vita se non ad un vero movimento ad un insieme di artisti che presto non avevano nulla da invidiare ai maestri di oltreoceano. Non ci troviamo di fronte degli esordienti sia chiaro, ma gente profondamente innamorata della musica (la “loro” musica) e affatto disposta a cedere di un solo millimetro alla “tendenza” del momento. Gli Stoned Machine per esempio (www.myspace.com/stonedmachine) sono i più vicini, anche grazie al nome, allo stoner classico, quel macinare di saturazione chitarristica impiantato su una potente base ritmica che ha fatto la fortuna di tante band. Oggi esordiscono su CD, dopo anni di intensa attività live. Il che è meno bizzarro di quanto possa sembrare, perché è proprio il concerto la dimensione ideale per loro. Show che li ha visti dividere il palco con formazioni assai blasonate. Ora raccolgono tutta questa sapienza (sebbene il titolo sia Human regression) e la trasferiscono su disco senza perdere un solo milligrammo dell’originaria potenza. Tanto per fare i soliti discorsi: se non ve lo vengono a dire li prendereste per “americani” e dei migliori poi, tra suggestioni desertiche e un sound che richiama fra l’altro i primissimi Soundgarden. Da qualche tempo invece è uscito il lavoro degli Orange Beach (www.myspace.com/theorangebeach) intitolato in modo geniale Fuzz you! alla cui produzione c’è Kramer, non proprio il due di briscola. Se vogliamo è l’ironia il marchio di fabbrica degli OB e lo si vede anche dai titoli delle canzoni; sia chiaro, un’ironia non da ciarlatani, ma da professionisti, da gente che intende il suono psichedelico come una forte ventata destinata a ribaltare gli ombrelli grigi della convenzione. Le composizioni del terzetto sono cavalcate elettriche tenute saldamente da una linea melodica sempre presente e mai banale a cui non è certo estranea la matrice mediterranea dei componenti degli OB. Un esperimento affascinante in cui, come in un vortice, una volta entrati è quasi impossibile uscirne. Tornando in nord Italia, Brescia per la precisione, troviamo i My Morning Needle (www.myspace.com/mymorningneedle) dove è diverso l’approccio, ma non certo la passione o la qualità. Qui siamo più vicini alla psichedelia intesa in senso classico dove il crescendo della trame chitarristiche convoglia l’ascoltatore in un territorio a metà fra il sogno e la realtà, dove lo zucchero si fonde con il metallo. ML 46 musicletter.it update n. 72 rubrica: presi nella rete Qualcuno lo potrebbe chiamare post-rock, non io che non ho mai amato questa inutile definizione e non riferita ai MMN perché ascriverli a questo movimento solo perché i loro brani sono ipnotici non rende loro giustizia, dato che le frecce nel loro arco sono molte di più. Sempre da Brescia arrivano i Manthra Dei (www.myspace.com/manthradei) che presentano due lunghi brani registrati in modo amatoriale e piuttosto acerbi, soprattutto dal punto di vista ritmico, ma che lasciano intravedere un’interessante capacità nello sviluppare le loro idee musicali, scorrazzando senza timori e senza cadute di stile dal blues ad approcci più progressive (un solo appunto ragazzi: se nella vostra pagina ci fosse qualche notiziola in più…). Ci spostiamo di poco e arriviamo a Milano dove troviamo un ensemble dal nome bizzarro, Gengis Khan Voodoo Racket (www.myspace.com/voodoojacket), ma dalle idee chiarissime che si possono tradurre in due parole: musica pesante. Nella loro pagina parlano di doom per bambini, ma come infanti possono riferirsi solo alle gemelline di “Shining” perché il loro sound è puro inferno, senza orpelli e senza attimi di tregua. Pure nei momenti dilatati la tensione emotiva non scende mai, anche grazie ad una capacità strumentale non comune e se saranno in grado di mantenere questo stato di grazia (sebbene “grazia” non sia il termine più adatto per loro) si parlerà molto di loro in futuro. ML 47 musicletter.it update n. 72 altri percorsi: libri ASCANIO CELESTINI Lotta di classe Einaudi, 2009 di Alessandro Busi La trama non c'è, o quantomeno è secondaria. In Lotta di classe di Ascanio Celestini, l'idea della grande narrazione che metta assieme e giustifichi i vari momenti del romanzo è svanita e ha lasciato il posto al resto, alle persone. Ci sono molti psicologi che sostengono che, anche nelle nostre vite, noi ci costruiamo a posteriori quel senso di continuità che ci fa sembrare tutto con una logica più ampia, più alta, mentre, in fin dei conti, il nostro procedere è un susseguirsi di incontri, anche casuali, che vanno a costruire il nostro romanzo. È una specie di teoria che appiccichiamo sugli eventi, collegandoli tra di loro, per tentare di spiegare ciò che è stato e provare a prevedere ciò che sarà. Insomma, per fare ordine. Ecco, Celestini questo non lo fa. Ciò che accomuna i vari personaggi, talmente centrali da essere i titoli e i narratori in prima persona dei capitoli del testo, sono i luoghi, le vicende e gli incontri. Tutti lavorano, hanno lavorato, o sono toccati dal call center e dai suoi contratti a progetto, che sono come bombe a orologeria in tasca ai lavoratori, ai quali resta solo da aspettare lo scoppio. Tutti vivono nella periferia romana, praticamente nella stessa palazzina, dove avvengono gli incontri, immaginati e reali, assieme agli eventi, piacevoli e drammatici, e perfino le morti. E poi tutti hanno le proprie storie da raccontare. Chi quelle vecchie dei tempi della guerra, chi quelle della propria quotidianità, comunque, sempre storie con punti di vista diversi e specifici, attraverso i quali, chi legge riesce a ricostruire ciò che accade. La realtà è una costruzione sociale, una costruzione dell'interazione, direbbero Berger e Luckmann. Celestini questo principio riesce a farlo intuire, a non spiegarlo, ma a renderlo evidente attraverso il racconto. Anche lo stile, così frammentato e orticante nell'ironia amara tipica dell'attore-scrittore romano, aiuta nel sentire Salvatore, Marinella, Nicola e Patrizia come dei conoscenti che parlano del proprio mondo, talvolta con rabbia, talvolta con sarcasmo, anche per mascherare un dolore troppo grande. Insomma, in Lotta di classe, Celestini conferma il proprio stile e la propria immensa capacità di capire le persone. Si avvicina, entra nelle storie e le ripropone, come solo i migliori narratori sanno fare. E poi, riesce sempre a strappare un sorriso, quantomai pesante, perché, come dice Patrizia: “Il mondo deve essere la parodia di qualche altro mondo”. ML 48 musicletter.it update n. 70 frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte SOTTO I RAGGI DEL SOLE Scampoli di cinema “in stile balneare” al tempo d’estate © 2010 di Nicola Pice Dimensione temporale o nonluogo psicologico? Che cosa è o rappresenta l’estate? Una cesura (sempre più breve) dell’io da un continuum produttivo – che invero non si ferma mai - o lo spazio della ricomposizione del sé tra ricordi, rievocazioni, pratiche ritualistiche, momenti di libertà individuale e di spensieratezza e il consumo del fantomatico feticcio che va sotto il nome di “vacanza”? Per un popolo circondato dal mare, compresso per più di due terzi tra risicate pianure e le coste, la stagione estiva non può che essere “balneare” (anche semanticamente) e il teatro in cui si mette in scena la sua stessa celebrazione è ovviamente “la spiaggia” e le sue estensioni: i lidi, i bagni, microcosmi umani esaustivi, metafore sempre più evidenti della “scatola sociale”, di un’omologazione dei comportamenti e dei gusti inesorabile nonostante la frammentazione classista e le differenze economiche. L’estate come “tempo di vacanza”, l’estate al mare su spiagge assolate, l’estate come rituale collettivo fu un fenomeno pressoché ignorato dal cinema italiano almeno fino agli anni ’50. Il nostro popolo - si badi bene - continuava ad andare al mare: i luoghi della vacanza, però, erano semplici sfondi alla rappresentazione, incidentali, non necessari (all’economia del racconto) e non ancora, pertanto, soggetto/oggetto capace di evocare l’immaginario di un’intera nazione e di catalizzare l’interesse degli autori. Il cinema del ventennio fascista, ad esempio, fortemente dirigista, perbenista e propagandista, lungi dal poter considerare un qualsiasi luogo balneare soggetto cinematografico “moralmente decente”, evitò con cura l’argomento vacanziero impegnato tra rivisitazioni storiche in costume e celebrazione conformista di ideali piccolo-borghesi (il cosiddetto cinema dei telefoni bianchi). Pertanto, le sequenze balneari de “La canzone dell’amore” (primo film sonoro italiano del 1930) di Gennaro Righelli o del popolare “La famiglia Brambilla in vacanza” (1942) di Carl Boese con Massimo Girotti sono casuali nel primo esempio o puramente decorative nel secondo. La caduta del regime, però, e gli anni immediatamente successivi sono l’inizio di una fase nuova per il nostro paese che determinerà cambiamenti profondi di cui il cinema saprà essere degno rappresentante. La guerra ha azzerato tutto (convinzioni e ideologie comprese): gli sceneggiatori e i registi di una stagione culturale irripetibile per l’Italia sapranno descrivere le modificazioni di un popolo cogliendo le contraddizioni e la sofferenza nella rincorsa verso un benessere non privo di costi in termini sociali ed identitari. L’occhio della macchina da presa sarà il fondo in cui confluiranno centinaia di personaggi corrispondenti ad altrettante categorie umane e sociali: volti, corpi, gesti che comunicheranno forza, dolore, capacità di reazione e sconfitte. ML 49 musicletter.it update n. 70 frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte È evidente, in tutto ciò, l’importanza che assumono i luoghi (le strade, le piazze, le chiese ed anche le spiagge) non più soltanto come oggetti d’uso e sfondi complementari alla narrazione ma soprattutto come segni, sintomi anche minimi, di una condizione antropologica più generale. È, dunque, “Domenica d’agosto” (1950) di Luciano Emmer, nel mutato clima, a inaugurare - capostipite - una lunga serie di film balneari i cui esiti estetici, però, non saranno sempre convincenti. Quest’opera ha il merito di comporre quadretti graziosi (con storie che s’intersecano) nello stile leggero del cosiddetto “neorealismo rosa” (proprio di Emmer) esplorando i cambiamenti delle abitudini all’interno della famiglia, la perdita del senso dell’autorità paterna, l’emancipazione delle donne, il desiderio di una vita migliore scevra da pregiudizi e tabù. Lo spostamento verso il luogo di vacanza dei protagonisti anticipa le migrazioni oceaniche degli anni ‘60 e la condivisione di uno spazio comune balneare – la spiaggia – diventa elemento fondante di un processo di identificazione linguistica e culturale (L’Italia era un arcipelago di dialetti e di abitudini differenti): in questo senso il cinema sarà il motore principale (con la successiva televisione) di un lungo percorso di alfabetizzazione di massa in una simbiosi speculare tra schermo e platea. Alla fine degli anni ’50 nasce, però, la commedia all’italiana, fenomeno epocale nella storia del cinema, che si nutre della disfunzionalità antropologica dell’Homo italicus (pensiamo alla straordinario “I mostri”). È al contempo satira di costume, non sempre esplicitamente politica, dal forte impianto realistico con qualche incursione nei territori della storia oscura del nostro paese che, grazie al registro leggero, prevalentemente comico, sebbene puntellato d’amarezza, raggiunse quel gran pubblico che al neorealismo aveva quasi sempre voltato le spalle. Tra il ’59 e i ’61 un nucleo di sette film interpretato da Alberto Sordi (tra cui “Il vigile”, “La grande guerra”, “Tutti a casa”, “Una vita difficile”) codificherà tutti gli elementi principali della commedia made in pizzaland ma va notato, però, che già nel 1954 con “La spiaggia” di Alberto Lattuada s’erano intravisti i prodromi di quella rivoluzione stilistica. Sarebbe riduttivo confinare quest’opera nello spazio angusto della sola balnearità perché è un prodotto d’autore doc, tuttavia nel film il luogo vacanziero e la circostanza vacanziera stessa diventano il pretesto per un “conte morale” che sferzi il bestiario umano che s’inizia a delineare nella società italica pre boom economico: i cafoni arricchiti, il perbenismo tanto maschile che femminile, la beceraggine dei gesti, tutti elementi tratteggiati con un realismo borghese ormai col fiato corto che, con le successive prove, lascerà il passo alle caratteristiche tradizionalmente fondanti della commedia all’italiana. Da questo momento in poi e per tutti gli anni ’60 il cinema vacanziero – balneare o turistico (sottogenere del primo) non importa - darà alla luce decine e decine di pellicole (e per ovvi motivi di spazio e qualità artistica in questa analisi ne dimenticheremo volontariamente moltissime). ML 50 musicletter.it update n. 70 frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte Degne d’una qualche menzione tra le tante a dispetto di un intreccio narrativo che appare esile e che li rende fin troppo datati: “Vacanze ad Ischia” (1957) di Mario Camerini – curiosamente finanziato da Angelo Rizzoli per pubblicizzare alcuni suoi investimenti immobiliari – “Brevi amori a Palma di Maiorca” di Giorgio Bianchi e “Costa Azzurra” di Vittorio Sala – entrambi del 1959 – eccellenti prove d’attore del solito Alberto Sordi così come il precedente (1958) “Racconti d’estate” di Gianni Franciolini è film a sketch non privo di ironia, straordinari come a firma Amidei, di autori Flaiano e Sonego, e caratterizzato da amarezza e disincanto malinconico. Tuttavia, questi film non riescono a trascendere il genere e rimangono, alla fine, un esempio di buon assemblaggio di scenette poco più che divertenti che non incidono affatto nella carne del corpus sociale, limitandosi a un bozzettismo che è anche clichè sui luoghi comuni del “tempo estivo”: il mito della conquista sentimentale. “Ferragosto in bikini” (1960) di Mario Girolami e “Frenesia dell’estate” (1963) di Luigi Zampa, infatti, non si discostano dalla riproposizione dell’ovvio cinematografico “balneare” anche se quest'ultimo mette in mostra il vitalismo del “mattatore” Vittorio Gassman, ormai acclamato interprete del cinema popolare, le cui qualità d'attore erano state esaltate – nello scorcio iniziale degli anni '60 - dai ruoli disegnati per lui da uno dei più grandi autori della storia del cinema italiano: Dino Risi. L'azione svolta dal regista - romano d'adozione ma milanese di nascita - nell'ambito della “commedia all'italiana” assume senza alcun dubbio un significato eversivo che avrà non poche ripercussioni anche sugli esiti del genere vacanziero. Risi, infatti, modifica profondamente la struttura della commedia ampliandone i ritmi e le tipologie, ricodificando di fatto la forma e il senso stesso di ciò che fino ad allora era stato rappresentato sullo schermo del nostro paese. Accantonato il ricorso al facile happy ending, concentrato, invece, nella costruzione dei personaggi e, dunque, impegnato nel disvelamento delle loro peculiarità psicologiche (a cui giunge non di rado con geniali ellissi narrative) il regista mette a punto uno stile essenziale (ma al contempo raffinatissimo) in cui convergono tutti gli spunti necessari per tracciare i segni d'una arguta e sarcastica analisi sociale. Le maschere grottesche de “I Mostri” ma ancor più quella del Bruno Cortona de “Il Sorpasso” – non hanno più una valenza (soltanto) caricaturale ma sono espressione (equivalente) dell'alterazione caratteriale d'un popolo inesorabilmente destinato alla mostruosità. Il boom economico per Risi ha plasmato una nuova figura d'italiano che, sotto le mentite sembianze d'un attivismo aggressivo ed ipercinetico, nasconde una dirompente carica distruttiva ed auto-distruttiva. L'autore, pertanto, diventa l'acuto osservatore della mutazione antropologica di questo paese, testimone consapevole e sprezzante delle sue devastazioni parallelamente anche ambientali ed urbanistiche. ML 51 musicletter.it update n. 70 frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte L’industria vacanziera non può rimanere immune da siffatte vorticose trasformazioni assumendo sempre più i contorni di un divertimentificio vacuo e frenetico specialmente nelle località balneari della riviera romagnola o ligure - turisticamente più attrezzate e in voga - anzi con la trasmigrazione di oceaniche folle che si muovono in un folle peregrinare da un punto all’altro dell’Italia alla disperata ricerca di un “posto al sole”, diventa essa stessa il segno del boom, della modificazione dei ritmi produttivi, della diffusione d’un benessere piccolo borghese precario e sterile. Sebbene non esente da pecche, “L’ombrellone” (1965) ha il merito di fotografare - come un’indelebile istantanea su un’epoca della nostra storia recente – il compiuto cambiamento della gens italica. D’un paese fino all’immediato dopoguerra rurale e dignitosamente povero nel film di Risi non v’è più traccia: al suo posto è comparsa un’umanità rampante, vorace, socialmente conflittuale, violenta e corrotta nei rapporti interpersonali, perbenista eppur oscena nell’esibizione dei propri modesti status-symbol. Il formicaio mostruoso della spiaggia di Riccione, insostenibile allo sguardo, è l’esemplificazione grottesca ed amarissima della mistificazione del boom, una sorta di catastrofe entropica, e lo sfilacciamento del tessuto sociale ed affettivo costituisce il duro prezzo da pagare al presunto miracolo economico. La malinconia che pervade tutto il film, nonostante la leggerezza narrativa, è l’inconscia consapevolezza per i protagonisti che la stagione dell’euforia volge al termine (non è forse l’estate, metereologicamente breve, metafora stessa della caducità?), che la crisi (nella incombente, successiva decade) spazzerà ogni illusione e velleità come inevitabile, ciclica riequilibratrice delle umane vicende. Il film di Risi, pur nella sua imperfezione, è, dunque, uno spartiacque per il genere vacanziero: da un lato si nutre degli elementi tipici del cinema balneare (l’ambientazione spazio-temporale in primis), dall’altro ne frantuma i codici ponendosi, invero, come implacabile denuncia non solo dell’insulso modernismo degli anni ‘60, ma soprattutto dell’insensatezza della ritualistica estiva stessa, cialtrona, effimera e colma di vizi, perfettamente speculare al neo-italiano che va formandosi. È probabilmente l’apice d’un (sotto)genere, la sua celebrazione ma anche il suo funerale così come l’intera produzione del Risi degli anni ’60 che per arguzia, profondità d’analisi e varietà di temi costituisce una sorta di corpus onnicomprensivo della “commedia all’italiana”, un punto di riferimento per chiunque decida di fare cinema “brillante” ma anche una montagna troppo grande (e, dunque, impossibile) da scalare. Lo stesso autore negli anni ’70, consapevole di un’ulteriore cambiamento che avrebbe visto l’agitarsi, scomposto e violento, proprio di quei mostri evocati e così ben rappresentati con la telecamera (la deriva conflittuale delle ingiustizie sociali non sanate o insanabili si transustanzia nell’orrore del terrorismo), preferì cambiare registro filmico affrontando i temi dell’irrazionale, delle pulsioni e dei dissidi dell’inconscio con la messa in scena d’un cinema non più iper-realista ma giocato tutto sulle sfumature psicologiche, crepuscolare e ben lontano da quella commedia che aveva portato ai massimi livelli espressivi. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, dunque, inizia a venir meno il rapporto di stretta complicità tra il cinema comico ed il suo pubblico e la commedia all’italiana, pur continuando ad esistere, conosce un lento ma inesorabile declino attribuibile da un lato al logoramento dei suoi illustri specialisti, dall’altro al miglioramento della qualità televisiva (la rai si pone come autentico competitor dell’intrattenimento) e, in particolare, all’altissimo tasso di violenta conflittualità sociale che sembra indirizzare gli autori cinematografici ad analisi e a commenti più in chiave drammatica che leggera. ML 52 musicletter.it update n. 70 frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte Il cinema balnear-vacanziero (disimpegnato ed effimero per definizione, piccola parte o sottoinsieme dell’enorme “insieme commedia”) non può, dunque, non declinare anch’esso, oscurato, tra l’altro, dall’esplosione commerciale di nuovi generi cinematografici: il western, metaforico veicolo di istanze rivoluzionarie, l’horror (con una galassia di geniali artigiani che diventeranno con le loro opere punto di riferimento nel mondo per intere generazioni di autori), la commedia scollacciata, infarcita di nudità femminili, boccaccesca con i cosiddetti “decamerotici” in (scarsi) costumi medievali, e il “poliziottesco” quale perfetta esemplificazione della giungla sociale, della trasformazione dell’Italia in un immaginario campo di battaglia tra la malavita e le forze dell’ordine. Finisce, quindi, per diventare una presenza marginale all’interno di un contesto filmico più generale: la vacanza non più palcoscenico di storie ma elemento di contorno per fugaci rappresentazioni, e il suo luogo “simbolo” per eccellenza – la spiaggia – il segno della devastazione ambientale, sociale e umana di ancor più evidente tragicità in quei terribili anni ’70. In “Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca” (1970) di Ettore Scola la spiaggia ostiense s’intravede come una sporca discarica, il perfetto habitat per un’umanità proletaria e infelice o, anni dopo, nel magnifico “Sinite parvulos” (episodio del film collettivo “Signore e signori, buonanotte”, 1976) un gruppo di scugnizzi gioca vicino al mare tra cumuli di rifiuti e carcasse di animali morti a veicolare un’immagine funerea di degrado e abbandono oppure in “Ecce Bombo” (1978) e “Bianca” (1983) – entrambi di Nanni Moretti – si presenta come un nonluogo alieno, caldissimo ed inospitale, allegoria del disagio psicologico, dello smarrimento d’una intera generazione, nonché testimonianza dell’impossibilità per il suo autore d’essere normali, palude espressiva in una sorta di sospensione stagnante della realtà. Un processo (teoria?), a ben vedere, di astrazione che suggerisce, rimanda, evoca, fino a diventare radicale rifiuto di rappresentazione in “Durante l’estate” (1970) di Ermanno Olmi in cui il teatro di una fiabesca storia d’amore nella canicola agostana tra personaggi socialmente marginalizzati non è più la spiaggia con le sue regole di corteggiamento ma il deserto urbano di una grande città (Milano) a misurare l’impossibilità per i protagonisti di sincronizzare i tempi della loro vita interiore con quelli dei ritmi (folli) del mondo in cui vivono. Oppure in “Casotto” (1977) di Sergio Citti, geniale “kammerspiel” borgataro, ambientato integralmente nella buia cabina di uno stabilimento balneare laddove il mare è completamente nascosto al dipanarsi bizzarro delle vicende di una grottesca fauna umana sottolineandone l’esclusione (l’espulsione?) da un posto dignitoso nella compagine sociale e il confinamento nel recinto d’un ghetto. Il cinema balneare riprenderà fiato agli inizi degli anni ’80, paradossalmente proprio con l’inizio di un declino diverso da quello che fu successivo agli anni d’oro della “commedia all’italiana”, ma ben più grave, caratterizzato viepiù dallo sfaldarsi del sistema organizzativo e produttivo della nostra cinematografia e dalla progressiva, inesorabile scomparsa dei “generi” (fondamentali non solo al finanziamento del cinema degli “autori” ma soprattutto all’intero apparato) a causa dell’affermazione definitiva della televisione commerciale (forte dei finanziamenti pubblicitari) con un’offerta senza pari nel settore dell’intrattenimento a tal punto da modificare gli interessi e le abitudini consolidate del nostro popolo. Gli anni ’80, molto più vitali della plumbea decade precedente, conoscono un secondo “miracolo economico” (il consolidarsi dell’Italia come potenza manifatturiera e nel settore del terziario avanzato) che, però, anche in questo caso sono un’occasione persa sulla strada della renaissance socio-culturale di questo paese. ML 53 musicletter.it update n. 70 frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte Sono i fratelli Vanzina (Enrico e Carlo) a rilanciare il cinema “balneare” con “Sapore di mare” (1983) e il suo sequel sull’onda (sarebbe il caso di dire) del revival degli anni ’60 cui sono dedicati. Inoltre, con la serialità di “Vacanze di Natale” (un film all’anno a partire dal 1983 fino ad oggi in località straniere o, comunque, esotiche), rafforzano tout court il genere “vacanziero” sganciandolo dalla sua tradizionale collocazione estiva per inserirlo in un continuum temporale all’insegna d’un benessere spensierato e godereccio. I film dei Vanzina sono ripetitivi nell’intreccio narrativo, privi di qualsiasi sussulto stilistico che ne riscatti la banalità intrinseca, ma hanno il merito della messa in scena (seppur caricaturale e monodimensionale) di personaggi totemici, esemplari magnifici d’un bestiario arrivista, consumista, volgare e griffato. È la nuova Italia: simile a quella del primo boom economico nei comportamenti ma ancor più spregiudicata e completamente priva di anima perché asservita alla logica perversa dell’apparire sull’essere. I protagonisti dei film vanziniani non hanno nulla da invidiare, per dilatazione iperrealista, alla mostruosità di quelli di Risi configurando un paese artificiale, plasmato dal vaniloquio televisivo e da stupidità modaiole ma, differentemente dal regista romano che le rappresenta per esprimere tutto il suo cinico disprezzo, esse sono colte come “fenomeno in sé” senza alcuna intenzione di giudizio moralistico quasi che il processo di orrorificazione dell’Italia fosse irreversibile. Fuori dal solco tracciato dal duo, se “Rimini, Rimini” (1987) di Sergio Corbucci volge lo sguardo al cinema balneare classico, a episodi, ma appare infarcito soltanto di gags grossolane per un pubblico di bocca buona, “Abbronzatissimi” (1991) di Bruno Gaburro, a dispetto d’una irritante sciatteria stilistica e dell’imbarazzante approssimazione della messa in scena, propone (per la prima volta) ed afferma come protagonista cinematografico la centralità del corpo (brunito dall’esposizione ai raggi solari, la cui cura e plastificazione con l’avvento del body building è ormai un must negli incipienti anni ‘90) marcando, probabilmente in maniera inconsapevole, la necessità sociale di conformarsi ad uno standard estetico in un processo di omologazione inarrestabile. Con “Ferie d’agosto” del 1996, invece, il genere balneare esce (solo per un breve momento, purtroppo) dall’ambito farsesco in cui lo hanno confinato i film dei fratelli Vanzina per rientrare nell’alveo della migliore commedia d’autore per merito del livornese Paolo Virzì (dotato di notevoli qualità artistiche, erede più autentico della gloriosa tradizione del nostro cinema popolare). La vacanza, in questo caso, diventa luogo di contrapposizione di gruppi sociali differenti, costretti a condividere spazi comuni o contigui, portatori di valori e comportamenti sideralmente lontani secondo lo schema politico bipolarista destra-sinistra. Opera deliziosa, leggera nel tocco ma di grande acume, commedia chiave per interpretare la contemporaneità, come quelle di Risi o di Scola, sulla nascita del consenso di (delle) massa(e) alla nuova barbarie reazionaria (sono questi gli anni della nascita politica del berlusconismo) e, soprattutto, sul parallelo distacco dalla realtà d’una sinistra che non è più in grado di comprendere il senso degli eventi storici, lega mirabilmente lo spirito vacanziero al luogo “balneare” della narrazione nell’esemplare racconto della (mediocre) Italia di questi anni. ML 54 musicletter.it update n. 70 frammenti di cinema rimosso: dodicesima parte Non invece, altrettanto è il positivo, giudizio sugli ultimi (recenti) film con cui chiudiamo questa breve analisi: “Un’estate al mare” (2008) e “Un’estate ai Caraibi” (2009) entrambi opera dei fratelli Vanzina. Non solo per l’infima qualità di scenette sempre uguali, non solo per la modestia stilistica ed espressiva che rivela un’attrazione fatale per l’estetica del brutto, neppure riscattata da qualche sgangherato sussulto trash (anche il campionario di volgarità è ormai déjà vu), quanto, piuttosto, per l’inaccettabile compiacimento del duo per la pessima messa in scena. Nei Vanzina, ormai, è evidente la totale adesione alla materia narrata e alla sua indecente forma nel colpevole contributo alla costruzione d’un immaginario popolare ancor più qualunquista che tracci una linea di continuità con l’avanspettacolo politico berlusconiano della cui ortodossia sono diventati fedeli sacerdoti officianti. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza del sosia del suddetto (Maurizio Antonini) in “Un’estate ai Caraibi” dello scorso anno che, in pieno scandalo Noemi-Papi e “affaire” escorts, fornisce propagandisticamente un’immagine affettuosa del premier laddove la decenza o il buon gusto (visto il battage mediatico) avrebbero suggerito ben altro comportamento. L’auspicio, pertanto, alla fine di questo – spero piacevole - divertissement è che il cinema italiano, pur nelle mille difficoltà economiche, sappia trovare nei suoi autori migliori la capacità di tornare a parlare (come un tempo) senza reticenze dell’anima profonda di questo paese denunciandone i mali o con la forza del dramma oppure con il sorriso della commedia che può incrociarsi talvolta anche con la leggerezza del cinema vacanziero… Buona estate! ML 55 musicletter.it update n. 72 last updates: 72-77 FREE DOWNLOAD ON WWW.MUSICLETTER.IT/NEWSSTAND UPDATE N.77 UPDATE N.76 UPDATE N.75 UPDATE N.74 UPDATE N.73 UPDATE N.72 UPDATE N.71 UPDATE N.70 UPDATE N.69 ML 56 musicletter.it update n. 72 last updates: 60-68 FREE DOWNLOAD ON WWW.MUSICLETTER.IT/NEWSSTAND UPDATE N.68 UPDATE N.67 UPDATE N.66 UPDATE N.65 UPDATE N.64 UPDATE N.63 UPDATE N.62 UPDATE N.61 UPDATE N.60 ML 57 musicletter.it update n. 72 last updates: 51-59 FREE DOWNLOAD ON WWW.MUSICLETTER.IT/NEWSSTAND UPDATE N.59 UPDATE N.58 UPDATE N.57 UPDATE N.56 UPDATE N.55 UPDATE N.54 UPDATE N.53 UPDATE N.52 UPDATE N.51 ML 58 musicletter.it update n. 72 last updates: 42-50 FREE DOWNLOAD ON WWW.MUSICLETTER.IT/NEWSSTAND UPDATE N.50 UPDATE N.49 UPDATE N.48 UPDATE N.47 UPDATE N.46 UPDATE N.45 UPDATE N.44 UPDATE N.43 UPDATE N.42 ML 59 ML | www.musicletter.it www.last.fm/user/musicletter “SIAMO IN MISSIONE PER CONTO DI DIO” www.musicletter.it Foto di Francesco Cerino fr MAKE A FREE DONATION www.musicletter.it/freedonation ML | CHOOSES THE BEST www.musicletter.it Via Don Minzoni, 39 - Frosinone
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