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In memoria di Ernie Lobet,
e di un uomo che ho conosciuto solo come Hans.
Prefazione
Questo è un libro di capitale importanza, perché ci riporta subito alla
mente i pericoli che incombono sulla società quando intolleranza e
razzismo riescono a mettere radici. Denis Avey, oggi novantatreenne, ci
avverte che fascismo e genocidio non sono scomparsi; anzi, come ha
precisato, «potrebbero verificarsi anche qui». E ciò potrebbe davvero
succedere ovunque, e ogni volta che permettiamo alla civiltà di
corrompersi, o di farsi rovinare dalla malvagità e dal desiderio di
distruzione.
È un bene che Denis Avey possa finalmente raccontare la sua storia.
Come lui, molti di quelli che vissero il trauma della guerra, compresi gli
ebrei sopravvissuti all'Olocausto, scoprirono nel 1945 che «nessuno li
voleva stare a sentire». Sessantacinque anni dopo, il primo ministro
inglese Gordon Brown ha invitato Denis Avey al numero 10 di Downing
Street per ascoltare la sua storia, lodare il suo coraggio, e insignirlo di
una medaglia per i "servigi resi all'umanità".
Ci vuole fegato per portare una simile testimonianza. A tutt'oggi, Denis
Avey si ricorda con orrore, tra le molte altre atrocità, di un ragazzino
ebreo «sull'attenti, grondante di sangue, che veniva bastonato sulla testa».
Consiglio questo libro a tutti coloro che vogliano ascoltare il racconto
in prima persona dell'incubo che fu Buna-Monowitz, il campo di lavoro
confinante con Auschwitz dove i prigionieri di religione ebraica furono
brutalmente schiavizzati, e uccisi non appena mancavano loro le forze per
faticare per i loro carnefici delle SS.
Il resoconto di Denis Avey sui maltrattamenti subiti dagli ebrei per mano
nazista è sconvolgente, come è giusto che sia, perché la mente arretra di
fronte a un mondo dominato dalla crudeltà, dove un gesto di umanità,
come quello compiuto dall'autore verso un ebreo olandese, rappresenta un
raro spiraglio di luce e di pietà. Avey ci racconta anche la sua vita da
soldato prima della prigionia, quando combatté nel Deserto Occidentale.
Pure in questo caso riporta le sue impressionanti storie di guerra senza
mai distogliere lo sguardo dagli orrori, compresa la morte di un amico
«saltato in aria» proprio accanto a lui: «Les aveva gli occhi che gli
brillavano. Eravamo partiti insieme da Liverpoool, e io avevo ballato con
sua sorella Marjorie, mi ero seduto a tavola con i suoi genitori, avevo riso
alle loro battute e diviso con loro il cibo». La prima reazione di Avey,
quando si ritrovò «addosso mezzo corpo del povero vecchio Les», fu di
pensare: "Grazie a Dio, non è capitato a me". Ma il senso di colpa per
quella reazione istintiva lo tormenta ancora oggi.
L'onestà di questo libro rende ancora più forte il suo effetto. La
descrizione di Buna-Monowitz è brutale e autentica. Scambiando la sua
uniforme da soldato inglese con gli stracci a righe di un prigioniero ebreo
ed entrando nella sezione riservata a essi in quell'enorme campo di
sterminio, Denis Avey è diventato un testimone. «Dovevo vedere con i miei
occhi ciò che stava accadendo», scrive. Il suo gesto ci permette di gettare
una luce inedita su uno degli angoli più oscuri del regno delle SS. Questo
libro è un tributo a Denis Avey e a quelli le cui storie egli ha voluto a ogni
costo raccontare, a rischio della propria vita.
SIR MARTIN GILBERT
8 febbraio 2011
Prologo
22 gennaio 2010
Scendendo dal taxi davanti al cancello sorvegliato di Downing Street, mi
ritrovai con un microfono sotto il naso. Cosa potevo dire? Ero stato
convocato per una cosa che avevo fatto durante la guerra, non durante il
combattimento nel Deserto Occidentale, né quando fui fatto prigioniero, ma
per ciò che era successo ad Auschwitz.
Nel 1945 nessuno aveva voluto ascoltarmi, così non ne avevo parlato per
quasi sessant'anni. Toccò alla mia prima moglie sopportare gli effetti
collaterali di quella situazione. Mi svegliavo madido di sudore, con le
lenzuola zuppe, tormentato sempre dallo stesso incubo. Lo rivedo ancora
adesso, quel povero ragazzino sull'attenti, grondante di sangue, mentre
viene bastonato sulla testa. Rivivo quell'esperienza ogni giorno, pure oggi,
a quasi settant'anni di distanza. Quando incontrai Audrey, la mia seconda
moglie, lei si rese subito conto che qualcosa in me non andava, e intuì che
ciò avesse a che fare con Auschwitz, ma dovettero passare decenni prima
che fossi in grado di parlarne. Adesso non riesco più a smettere, lei teme
che sia rimasto prigioniero del passato e pensa che dovrei lasciarmi tutto
alle spalle, per guardare avanti. Ma alla mia età, non è facile.
Mi si aprì davanti la porta lucida al numero 10 di Downing che avevo
visto tante volte al telegiornale incorniciare i capi di stato mondiali, e io
entrai. In anticamera mi presero il cappotto e mi accompagnarono sulle
scale, dove superai i ritratti incorniciati dei precedenti primi ministri. A un
certo punto mi ritrovai davanti alla foto di Churchill, e pensai tra me e me
che era un ritratto davvero piccolo per un leader così grande. Mi fermai a
riprendere fiato, appoggiandomi al mio bastone di metallo, prima di
superare i premier del dopoguerra, fino alla Thatcher, a Major e Blair in
fondo alla scalinata.
Mi lasciai cadere su una poltrona: avevo novantun anni, mi serviva un
momento per riprendermi dalla salita. Mi guardai intorno, intimidito dalla
magnificenza della Sala della Terracotta, con il suo soffitto altissimo e i
suoi candelieri. Quella mattina il primo ministro Gordon Brown doveva
presentarsi davanti alla commissione di inchiesta Chilcot per rispondere
della guerra in Iraq, e temevo che non avesse tempo per ricevermi
nell'imminenza delle elezioni.
Di colpo l'atmosfera cambiò. Il premier entrò nella stanza, mi raggiunse
e mi strinse la mano. Parlava con una voce molto pacata, quasi un sussurro.
La sala si era riempita di gente, e tuttavia il nostro colloquio sembrava
privato. «Siamo davvero orgogliosi di lei. Averla qui è un onore per tutti
noi», mi disse. Ne fui commosso.
Sua moglie Sarah venne a presentarsi. Non sapevo come comportarmi,
così le feci il baciamano, e le confidai che di persona appariva più bella che
in televisione. Era vero, ma non avrei dovuto dirlo. Per fortuna sono gaffe
che a un novantenne si perdonano. Cercai subito di recuperare,
aggiungendo: «Mi è molto piaciuto il suo discorso dell'altro giorno». Lei
sorrise, e mi ringraziò.
I fotografi della stampa e le troupe televisive volevano ritrarci insieme.
Rammentai che il primo ministro stava attraversando un periodo difficile
dal punto di vista politico, e gli dissi che non mi piaceva il modo in cui i
suoi colleghi lo stavano pugnalando alle spalle e che, se mai avesse avuto
bisogno di un difensore, io ero pronto. Lui sorrise, e rispose che lo avrebbe
tenuto presente. «Non farei il suo mestiere nemmeno per un orologio
d'oro», dissi. Non avevo votato per lui, ma lo consideravo comunque una
brava persona, e la sua sincerità mi colpì molto.
Gordon Brown mi prestava tutta la sua attenzione, con una tale
concentrazione da farmi sentire come se fossimo rimasti da soli nella
stanza. Io ho un occhio di vetro un'altra eredità di Auschwitz e faticavo a
mettere a fuoco con quello buono. Anche il premier Brown ha problemi di
vista, così per parlare ci sedemmo molto vicini, fino a sfiorarci quasi con la
fronte.
Lui parlò di «coraggio» e di «valore», e io cominciai a raccontargli di
Auschwitz, della IG Farben, delle SS, di tutto quanto: i dettagli si
affastellavano senza un ordine particolare. A un certo punto, mi mancò una
parola, e quella che pronunciai fu "Häftling", il termine che usavano i
tedeschi per indicare i prigionieri. «Succede anche a me quando ricordo
quei tempi», disse un altro superstite dei campi presente in sala.
Poco dopo ebbi l'onore di venire incluso tra i ventisette inglesi "eroi
dell'Olocausto", un'esperienza che mi diede da pensare: nella maggior parte
dei casi si trattava di un riconoscimento postumo. Siamo rimasti in vita solo
in due, io e Sir Nicholas Winton, che salvò più di seicento bambini dalla
Cecoslovacchia. Mi appuntarono una medaglia d'argento con su scritto:
"Per i servigi resi all'umanità". Mentre uscivo, dichiarai a un giornalista che
adesso potevo morire felice. Mi ci sono voluti quasi settant'anni per riuscire
a dirlo.
Ora che posso parlare di quei tempi terribili, mi sembra di liberarmi
lentamente di un peso enorme. Riesco a ricordare con chiarezza l'evento
centrale: il momento dello scambio.
A metà del 1944
Sapevo di dovermi sbrigare. Restai in attesa, nascosto nella piccola
baracca. Non ero nemmeno sicuro che sarebbe venuto, ma lo fece, e
quando si chinò per entrare io mi sfilai la casacca. Lui chiuse la porta,
lasciando fuori il frastuono di quel cantiere infernale, e si spogliò della sua
lurida uniforme a righe. Mi lanciò quei panni logori, e io me li infilai senza
esitazione. Poi rimasi a fissarlo mentre si metteva faticosamente la mia
mimetica color cachi da soldato inglese, guardandosi alle spalle di tanto in
tanto.
Era un ebreo olandese, io lo conoscevo solo con il nome di Hans. Con
quel semplice scambio tra noi, avevo rinuciato alla protezione che mi
garantiva la Convenzione di Ginevra: avevo ceduto a un altro la mia divisa,
la mia àncora di salvezza, una maggiore probabilità di sopravvivere a quel
luogo tremendo. Da allora in poi, una volta indossati i suoi abiti, sarei stato
trattato come lui. Se mi avessero colto sul fatto, le guardie mi avrebbero
fucilato seduta stante perché impostore. Su questo non c'erano dubbi.
Era la metà del 1944 quando, di mia spontanea volontà, entrai ad
Auschwitz III1.
1
Come si vedrà più avanti nel libro, Auschwitz comprendeva anche il campo di sterminio di Birkenau
e il campo di lavoro di Monowitz, vicino alla fabbrica che il gruppo industriale IG Farben stava
costruendo per produrre gomma sintetica. Per questo motivo Auschwitz III è stato chiamato anche BunaWerke, dalle sillabe iniziali dei componenti chimici, il butadiene e il sodio (natrium), necessari alla
fabbricazione della gomma (n.d.t.). Capitolo 1
Non partii soldato per difendere il re e il mio Paese, per quanto fossi un
patriota abbastanza convinto. No, mi arruolai per il gusto di farlo, per
l'avventura. Non avevo idea dell'inferno al quale stavo andando incontro.
Quando partimmo per la guerra non fummo salutati come eroi.
Lasciammo Liverpool a bordo dell'incrociatore Otranto in una luminosa
mattina di ottobre del 1940, senza la più pallida idea della nostra
destinazione.
Rimasi a guardare il Royal Liver Building, al di là della distesa sempre
più ampia d'acqua torbida del Mersey, chiedendomi se avrei mai più rivisto
gli enormi uccelli di metallo verdastro sulla sommità dell'edificio. A quel
tempo Liverpool non aveva ancora subìto gravi bombardamenti. Avrebbe
avuto la sua parte un mese dopo la mia partenza, ma per il momento era
ancora una città relativamente tranquilla. Io avevo ventun anni, e mi
sentivo invulnerabile. Se perdo un arto promisi a me stesso a casa non ci
torno. Ero un soldato con i capelli rossi e un temperamento combattivo che
mi avrebbe cacciato in un mucchio di guai, ma ero fatto così.
Firmai nell'esercito perché avevo troppa fretta per presentare domanda
alla RAF. La burocrazia in quel caso avrebbe richiesto più tempo. Fu il mio
primo colpo di fortuna. Guardare le acrobazie degli Spitfire tra le nuvole mi
metteva ancora voglia di volare, ma arruolarmi in aviazione a quei tempi
avrebbe significato una morte certa. I piloti della RAF erano cavalieri
dell'aria, ma con la battaglia d'Inghilterra quei poveretti cominciarono a
morire come mosche, e io fui fortunato a scamparla.
Mi presentai all'ufficio reclutamento il 16 ottobre 1939. Ero un ottimo
tiratore, così diventai il fuciliere Denis George Avey, n. 6914761, fui
incorporato al Secondo Battaglione della Brigata Rifle e spedito al campo
di addestramento di Winchester.
L'addestramento era severo, da ogni punto di vista. Noi reclute eravamo
un mucchio di gente senza arte né parte, e fummo sottoposti a un
trattamento particolarmente rigido. Ci imponevano un regime durissimo di
esercitazioni, con infiniti percorsi a ostacoli, tanto che a sera crollavamo
sfiniti sulle nostre brande. Ci insegnarono a usare tutte le armi in dotazione
all'esercito britannico, ma io ero abituato alle pistole fin da bambino. Mio
padre mi regalò il mio primo fucile, un calibro .410, quando avevo otto
anni. Aveva un calcio particolarmente corto, perché riuscissi a
imbracciarlo. Lo tengo appeso alla parete ancora oggi.
Quando si trattava di armi, mio padre esigeva una disciplina inflessibile.
La vita in campagna non contemplava sfumature: era tutto bianco o nero. Io
sono cresciuto in un mondo di saldi valori morali, e mi hanno educato a
difendere ciò che è giusto. Mia madre mi insegnò a rispettare gli esseri
umani e gli animali. Agli uccelli si sparava per mangiare, non per sport. Mi
esercitavo a tirare con il piattello, e in breve tempo imparai a lanciarlo in
aria con una mano, a imbracciare il fucile e a centrarlo in volo prima che
ricadesse a terra.
Sparare con i fucili dell'esercito era tutt'altro paio di maniche, ma presto
ci feci l'abitudine, senza mai sbagliare mira in tutti i poligoni di tiro, fino a
550 metri di distanza.
Alla fine di un giorno di addestramento particolarmente faticoso, ci
trovammo sul poligono di Winchester. Premetti il grilletto del mio LeeEnfield .303, sentii il rinculo, e feci centro senza sforzo.
I compagni che si occupavano dei bersagli stavano nascosti dietro un
cumulo di terra. Indicavano il foro di ingresso dei proiettili usando una
lunga asta che terminava con un dischetto bianco di trenta centimetri.
Quando il commilitone alzò timidamente la sua asta per segnalare che
avevo fatto centro, io ricaricai e gli feci saltare il dischetto bianco di mano.
Lui non aveva corso alcun rischio ma, con un certo imbarazzo, devo
ammettere che mi stavo pavoneggiando. Quella trovata mi costò un severo
richiamo dai superiori, però mi rese anche molto popolare tra i miei
compagni d'armi. Grazie alla mia mira, diventai un "tiratore scelto", con
tanto di distintivo sull'uniforme.
L'addestramento all'uso della baionetta era piuttosto macabro. Nella
Brigata Rifle, si chiamava ancora "spada", e noi venivamo addestrati a
uccidere un uomo a una distanza talmente ravvicinata da riuscire a sentirne
il fiato, e a vedere se quella mattina si era fatto la barba. Ci ordinavano di
scagliarci contro un fantoccio prendendo la rincorsa da trenta metri,
urlando come forsennati mentre davamo la carica. Dovevamo conficcargli
la baionetta nella pancia, tirarla fuori e colpirlo al cranio con il calcio del
fucile, con una tale potenza da staccargli la testa.
Tutto questo avveniva sotto lo sguardo arcigno del sergente Bendle. Era
un uomo tarchiato, basso e burbero. «Gridate più forte, più forte», sbraitava
fino a diventare paonazzo. E non era soddisfatto finché non urlavamo
quanto lui.
Era una questione psicologica: gridare aiutava a combattere, ma
bisognava ripetere l'esercizio un numero infinito di volte, finché non
diventava naturale. Io sapevo che la posta in palio era stabilire chi ne
sarebbe uscito vivo io o l'uomo che mi sarei trovato davanti e non ero
disposto a essere quello a cui sarebbe toccato stramazzare a terra a
contorcersi di dolore.
Il corpo a corpo con la baionetta aveva qualcosa di più nobile, perché
ricordava lo sport della scherma. I nostri fucili erano dotati di lame con lo
scatto a molla, protette in punta da una palletta di plastica. Quando
riuscivamo a centrare l'avversario, la lama si ritraeva. Ma naturalmente gli
istruttori caricavano l'affondo oltre la tacca, assestandoci un colpo
lancinante nella pancia. Serviva a rammentare cosa ci fosse in gioco se si
abbassava la guardia.
Dopo Winchester fummo trasferiti a Tidworth, nella piana di Salisbury.
Là c'era un ufficiale particolarmente benvoluto dai soldati. Era un tizio
dall'aria elegante, azzimatissimo, con sottili baffi neri e la chioma sempre
in ordine. A quel tempo era secondo luogotenente, mi pare, ed era un
ottimo superiore, ma tra noi era meglio noto con il nome di Raffles, il ladro
gentiluomo. Il film era uscito poco prima dello scoppio della guerra, e in
giro se ne vedevano ancora le locandine. Quell'ufficiale era il compassato e
sofisticato protagonista della pellicola: David Niven.
Una volta, dopo un'esercitazione, ci radunammo intorno a lui per
discutere dei nostri progressi, ma in realtà volevamo solo sentirgli
raccontare le sue avventure a Hollywood. Lui era a suo agio con i fan, ma
prima della guerra aveva studiato all'accademia di Sandhurst, e adesso si
stava riadattando alla vita militare. In Raffles recitava al fianco di Olivia de
Havilland, ma parlava soprattutto di «Ginger», la sua coprotagonista in
Situazione imbarazzante. La chiamava solo con il nome di battesimo, ma
sapevamo tutti a chi si riferisse. Scambiammo qualche battuta, poi uno di
noi saltò su e disse: «Scommetto che preferirebbe essere da qualunque
parte tranne che qui, vero, signore?». Seguì un breve silenzio, poi lui
rispose: «Diciamo che preferirei titillare le tette di Ginger Rogers».
Fummo costretti a confrontarci con la realtà nel maggio 1940, quando un
centinaio di noi venne spedito a passo di marcia alla stazione di Tidworth.
Ancora non sapevamo dove ci avrebbero destinati, ma ormai era di
dominio pubblico che in Francia le cose si erano messe male. Io ero
responsabile di una ventina di uomini, e venni assegnato all'allocazione dei
mortai, delle mitragliatrici Bren e dei fucili.
Dopo un'ora arrivò il treno, preannunciato da enormi volute di fumo e
vapore. Salimmo a bordo tra i civili e cominciammo il viaggio verso la
costa.
Il Corpo di spedizione britannico era nei guai fino al collo: Calais era
sotto assedio, stretta dall'accerchiamento tedesco. Il Primo Battaglione
della Brigata Rifle era rimasto bloccato sul continente, e la nostra unità del
Secondo Battaglione era in allerta operativa per andarle in aiuto.
In attesa degli ordini, restammo seduti là, sul lato opposto della Manica.
Guardando l'orizzonte alla luce intensa della costa, nella prospettiva sicura
che avevamo dall'Inghilterra, era difficile immaginare la catastrofe al di là
di quel breve tratto di mare, ma il rimbombo dei cannoni si sentiva
distintamente: un suono inquietante e lugubre.
Il Primo Battaglione era in Francia solo da due o tre giorni, spedito in
fretta e furia per tenere aperto il porto di Calais e difendere la ritirata del
nostro esercito. Oppose una strenua resistenza, sparando fino all'ultimo
proiettile. Un manipolo di superstiti venne riportato in patria dalla Marina
Reale, ma il resto cadde sul campo, o venne fatto prigioniero. In seguito
Winston Churchill li avrebbe elogiati. Disse che il loro sacrificio aveva
rallentato l'avanzata di due divisioni corazzate tedesche, mentre delle
«barchette», una vera e propria flotta di imbarcazioni di fortuna, caricavano
a bordo tanti uomini, portandoli in salvo lontano da Dunkirk.
Per noi, partire sarebbe equivalso al suicidio. Ci avrebbero sterminati
prima ancora dell'approdo. Per fortuna i pezzi grossi se ne resero conto, e il
piano fu respinto. Se avevo un angelo custode, doveva essersi appena
materializzato al mio fianco. Fu il mio secondo colpo di fortuna, dopo
quello di non essere entrato nella RAF.
In Europa continentale ci avrei messo piede solo come prigioniero.
Sfumata la spedizione, fummo mandati a nord, a Liverpool, e
acquartierati all'ippodromo Ainteree, sede della corsa del Grand National, e
ora invaso da un marea di soldati in attesa di partire per chissà dove.
Dormivamo all'aperto, e malgrado fosse l'inizio dell'estate, al mattino
avevamo il corpo intirizzito e il sacco a pelo madido di rugiada. Piantare la
mia tenda proprio sul cosiddetto Canal Turn, l'ostacolo con la celebre curva
a novanta gradi: un'emozione per un ragazzo cresciuto in campagna in
mezzo ai cavalli. Dopo tre settimane fummo trasferiti in un grande edificio
pubblico, e potemmo finalmente asciugarci le ossa dall'umidità.
Fu là che incontrati Eddie Richardson. Era un bel ragazzo, erede di una
famiglia di tradizione militare, tanto che noi tutti lo chiamavamo
Regimental Eddie, abbreviato in "Reggie". Parlava in modo forbito, anche
troppo rispetto al resto di noi, e dormiva nella mia camerata. Mesi dopo,
nel deserto, la buona sorte gli avrebbe voltato le spalle nello stesso giorno
in cui la voltò a me.
A Liverpool l'addestramento militare assunse una nuova dimensione.
Venivamo preparati alla guerriglia urbana in strade destinate alla
demolizione. Imparammo la sottile arte di preparare e scagliare bombe
Molotov, riempiendo bottiglie di vetro di una miscela di benzina. Ci
impratichimmo nella tecnica delle Mills, granate a mano con un guscio
d'acciaio irregolare, simili a un piccolo ananas. Nei mesi a seguire
sarebbero diventate entrambe molto familiari. Erano armi spietate e
rudimentali. Cambiando la lunghezza della miccia si poteva regolare a tre,
sette o nove secondi l'intervallo prima della detonazione, ma bisognava
stare attenti a calibrare i tempi. Una pausa troppo lunga esponeva al rischio
che il bersaglio afferrasse la granata inesplosa e te la rilanciasse contro. Si
staccava la sicura, si correva in avanti e si lanciava la granata tendendo il
braccio come per tirare una palla da bowling, buttandosi
contemporaneamente a terra, a pancia sotto. Se prima non ti era scoppiata
in mano, la granata andava tirata in un enorme cratere nel quale le
esplosioni risultavano relativamente contenute. Da lanciatore di cricket, a
sedici anni avevo battuto il record delle cento iarde, perciò misi a frutto
quel talento durante l'esercitazione. La guerra sembrava ancora un gioco.
Alla partenza da Liverpool a bordo della Otranto sapevamo di lasciare il
nostro Paese in una condizione precaria. A giugno la Francia si era arresa ai
tedeschi, l'Italia aveva dichiarato guerra agli Alleati, nel Sud della Gran
Bretagna si susseguivano i combattimenti tra piloti della Luftwaffe e della
RAF, e stava per avere inizio la battaglia d'Inghilterra vera e propria.
Quando salii sul ponte, sopra la mia testa due fumaioli gemelli e bordati
di nero sputavano fumo nell'aria, e tutto intorno a me la brezza mi portava
il rumore che facevano gli uomini a caccia di una branda. Alcuni, con lo
zaino in spalla, schizzavano in ogni direzione in cerca di una cabina, altri
chiamavano a gran voce il nome dei compagni, tentando di localizzarli per
orientarsi sulla nave. Nella stiva, sotto i nostri piedi, erano stati caricati i
veicoli e l'equipaggiamento pesante.
Les Jackson era già là. A quel tempo era caporale, un soldato di carriera:
un ragazzo di prim'ordine, con lo sguardo che brillava e un pungente senso
dell'umorismo. Era più grande di quasi tutti noi, essendo oltre la trentina,
ma eravamo diventati subito amici, e il nostro legame durò fino alla fine.
Diciotto mesi dopo sarei stato al suo fianco quando finimmo testa avanti
nel fuoco di sbarramento di una mitragliatrice.
A Liverpool, Les mi aveva presentato la sua famiglia, e io mi ero preso
una bella cotta per sua sorella Marjorie. Era una ragazza molto carina,
bionda, con l'inflessione tipica della zona, un'indole generosa e un vero
talento per il ballo. Le avevo chiesto di uscire un paio di volte, ma eravamo
entrambi l'innocenza fatta persona. A quei tempi, a fine serata si era
disposti a riaccompagnare a casa una ragazza percorrendo chilometri a
piedi, senza aspettarsi in cambio nient'altro che un bacio sulla guancia. Per
noi era comunque un brivido. La famiglia di Les mi aveva accolto a braccia
aperte. Al suo vecchio piaceva farsi un bicchierino di tanto in tanto, ma
sarebbero passati altri cinque anni prima che io tornassi a bussare alla sua
porta e lo invitassi a bere una birra, e non si sarebbe trattato di un'occasione
felice.
Parecchi piani sottocoperta, nella minuscola cabina soffocante che
condividevo con altri quattro soldati, tenevo la fotografia di Marjorie
appesa al muro, ma non solo la sua. Da sempre riscuotevo un certo
successo con le ragazze, e a quei tempi ne avevo una vera e propria
collezione.
Io dormivo nella cuccetta in alto, e Bill Chipperfield in quella sotto. Era
un ragazzo con la testa sulle spalle, originario di una famiglia molto povera
del Sud, sincero fino all'osso e sempre di buonumore. Con noi c'erano altri
due compagni, ma quei poveretti si erano dovuti accontentare del
pavimento. Eravamo stipati come sardine, e al buio era impossibile
muoversi senza pestare qualcuno.
Prima dell'imbarco ci avevano concesso una licenza di ventiquattr'ore,
che a me erano bastate appena per il viaggio di andata e ritorno a casa. La
mia famiglia viveva molto lontano, a sud, nel villaggio di North Weald
nell'Essex. Era contadini benestanti ai quali non era mai mancato niente, e
io avevo trascorso un'infanzia agreste, ma agiata.
Mia madre pianse molto quando mi diede il suo bacio di addio. Io posai
per qualche foto con mia sorella Winifred. Possiedo ancora uno di quei
ritratti, nei quali il volto di Winifred è incorniciato dai suoi capelli neri e
ondulati, mossi dal vento. Indossava un abito di maglia e un girocollo. Io
ero in uniforme, con i pantaloni alti in vita, la casacca corta infilata nella
cinta e il berretto con la visiera rivolta verso l'alto, con un'aria spavalda.
Nel prendere commiato non mi venne mai in mente che rischiavo di non
tornare più. Ero convinto di saper badare a me stesso. I giovani sono fatti
così. Winifred tenne per sé le sue paure. Non sapevamo che cosa avrebbe
portato la guerra, dunque perché angosciarsi?
L'unico a conoscere la verità, malgrado tenesse la bocca chiusa, era mio
padre George. Aveva combattuto nella prima guerra mondiale, e provato
sulla sua pelle ciò che mi aspettava: fango, sangue e fatica. Si limitò a
stringermi la mano e ad augurarmi buona fortuna. Era un uomo di grande
rettitudine e fierezza, con una folta chioma scura, un cristiano di rigorosi
princìpi morali e con i muscoli necessari a difenderli. Non era mai stato
particolarmente espansivo con me, ma una parte di quanto mi accadde fu
conseguenza della sua educazione, perché mi aveva istillato l'idea che i
princìpi vadano messi in pratica. Era un funzionario del municipio, e
all'epoca a quella posizione si tributava il rispetto dovuto a un
plenipotenziario locale, ma lui era molto amato nel villaggio perché era
disposto ad aiutare chiunque si trovasse in cattive acque. Solo a cose fatte,
venni a sapere che aveva saldato di tasca sua i debiti di alcuni dei
compaesani più poveri.
In casa non gli veniva spontaneo manifestare il suo affetto, e raramente
ci faceva una lode. Da bambino vinsi una gara sportiva molto ambita, ma la
sua reazione fu un semplice: «Bene, ragazzo», e poi non ne parlò mai più.
Compresi quanto temesse per la mia incolumità soltanto in seguito. Poco
dopo la mia partenza oltremare anche lui si arruolò volontario, mentendo
sulla sua età. Venni poi a sapere che, dovunque lo mandavano, chiedeva
mie notizie, cercando di scoprire dove mi trovassi. Credo avesse pensato di
potermi proteggere, ma naturalmente non ci incrociammo mai. Fu fatto
prigioniero a Creta e, malgrado la sua polmonite, venne mandato ai lavori
forzati in Germania, per la costruzione di una ferrovia di montagna.
Durante tutta la prigionia colse ogni occasione per organizzare sabotaggi,
scagliando viti e bulloni giù dalla scarpata, pur di dimostrare che non si era
arreso. Sapeva essere un ribelle, eccome. Probabilmente ho preso da lui.
Dal ponte della Otranto guardavo l'equipaggio prepararsi ai pericoli che
ci attendevano: i sottomarini e le mine di profondità, in agguato sotto le
onde e pronti ad aprire una falla nella nostra chiglia per farci colare a picco.
L'unica protezione era il paramine, un aggeggio a forma di siluro con delle
alette sottili. Sporgendomi dal parapetto, vidi l'equipaggio che lo calava
lungo la murata fin sotto la superficie.
Al contatto con l'acqua il marchingegno si rianimò come uno squalo, e le
alette lo pilotarono verso il basso, lontano dalla nave. Il cavo spesso al
quale era assicurato venne allentato per tenerlo a distanza di sicurezza dalla
nave, ma in parallelo con la sua rotta. Quello doveva servire a svellere le
mine dai loro ancoraggi, tirandole a galla, per poi mandarle in pezzi a colpi
di mitragliatrice, o farle esplodere contro il paramine, sollevando una
colonna d'acqua senza danneggiare la nave. Era un pensiero confortante.
Gli apparecchi come quello mi affascinavano. Avevo sempre trafficato
con macchine e motociclette, e da studente avevo pensato di laurearmi in
ingegneria. Ma ero incontenibile già allora, volevo essere sempre io quello
che dava gli ordini. Ero fatto così fin da piccolo. Da bambino avevo il mio
esercito di coetanei, che facevo marciare in parata con fucili veri, anche se
scarichi. A scuola mi avevano nominato capo-classe, ed ero abbastanza
forte da mettere sotto i bulli, cosa che feci spesso. Anni dopo, mia moglie
Audrey mi avrebbe preso in giro dicendomi che ero io, il bullo. Credo che
in parte lo pensasse davvero. Di sicuro non avevo paura di niente.
Mi iscrissi al Leyton Technical College di East London, cavandomela
discretamente. Nel 1933, mentre in Germania Hitler diventava cancelliere,
io salivo su un podio del municipio di Leyton per ricevere un premio
scolastico da un uomo seduto dietro una scrivania. Avevo solo quattordici
anni, ma avrei dovuto prestare più attenzione. Quell'uomo era un poeta e un
soldato della prima guerra mondiale. Si chiamava Sigfried Sassoon.
Quando lo incontrai aveva superato la quarantina, ma i suoi capelli erano
ancora scuri, pettinati all'indietro sulla fronte alta. Mi fece qualche
complimento e mi consegnò due volumi rilegati in rosso, con l'emblema di
uno scudo e una spada in rilievo dorato. Come premio, avevo scelto un
libro di Robert Louis Stevenson e uno di Edgar Allan Poe.
Visti dal ponte della Otranto, quei giorni parevano lontanissimi. La
terraferma sbiadiva nella foschia. Il mondo civilizzato nel quale ero vissuto
fino ad allora, con le sue regole e i suoi costumi, il suo senso di decoro,
stava svanendo inesorabilmente.
Capitolo 2
Les Jackson era un tipo in gamba, di quelli che sanno come superare gli
ostacoli. Poco dopo che la Otranto fu salpata, entrò nella nostra cabina
scavalcando i soldati addormentati sul pavimento, e riuscendo comunque a
svegliarli. Scrutò la serie di ritratti femminili che avevo appeso al muro,
compreso quello di sua sorella Marjorie. Mi aspettavo come minimo un
commento sarcastico, ma lui non disse nulla. Sapeva della mia predilezione
per lei, e in quel momento aveva ben altro per la testa.
«Avey, ho un lavoro per te. Ti assegno alla corvée di pulizia delle
latrine».
«Cosa? Stai scherzando, vecchio mio».
«Vedrai, ne vale la pena».
Reclutò per quel compito anche Eddie Richardson. Dovete sapere che
Eddie era un tizio da scuole private, e inorridiva anche solo a sentire la
parola "latrina", figuriamoci al pensiero di doverle pulire. Non fu affatto
contento di scoprire che la nostra arma di dotazione era uno scopino da
cesso, ma Les aveva ragione. Dopo la nostra mezz'ora quotidiana di pulizia
delle latrine venivamo premiati con un banchetto da re: una quantità
illimitata di sandwich farciti con uova e pancetta. Una meraviglia. E, cosa
ancora più importante, eravamo esonerati da qualsiasi altro compito per
tutta la durata del viaggio. Les sapeva stare al mondo. Navigava sempre
con il vento in poppa.
Quel giorno, il 5 agosto 1940, partirono diciassette navi. Una tornò al
porto per un'avaria, mentre il resto di noi puntava al Mar d'Irlanda, scortato
dalla Marina. Ancora non avevamo idea di dove fossimo diretti; erano
informazioni top secret, persino i soldati ne erano tenuti all'oscuro.
Avevamo da poco perso di vista la terraferma quando il suono stridulo di
una sirena, l'allarme di un U-boat, squarciò l'aria sovrastando il rombo
monotono dei motori. Sulla nave scoppiò un parapiglia, tutti correvano in
ogni direzione. Io mi feci largo tra la calca verso il punto di raccolta della
mia scialuppa. Uomini dal volto terreo scrutavano le onde sforzandosi di
localizzare un periscopio, o peggio, un siluro. Dal ponte della Otranto
partivano razzi di segnalazione verso le vaghe sagome grigie delle navi
della Marina all'orizzonte. Ma con il trascorrere dei minuti, e nessun
avvistamento, il panico svanì. Ci lasciarono là in piedi per ore. Poi la vita a
bordo della nave riprese la sua routine, diventando presto noiosa.
Un brusco strattone al braccio mi riscosse dal sonno. La cabina era
riempita dal vocio dei compagni, che mi tirarono giù dalla cuccetta:
«Sveglia, Avey, ti abbiamo trovato un degno avversario. È ora che cominci
a guadagnarti la paga».
Senza avere il tempo di ritrovare la lucidità, fui trascinato da una folla di
uomini in uniforme, che cantava e urlava infervorata. «Questa non me la
voglio proprio perdere», disse uno di loro. «Vedrai che faccia fa, quando
vede quel tizio».
Mi portavano di peso, come una vittima sacrificale. Procedemmo lungo
corridoi stretti, superando un numero incalcolabile di cabine, e risalimmo le
scalette ripide fino al ponte. La brezza salmastra mi sferzò le guance,
svegliandomi del tutto. Fui scortato oltre le scialuppe di salvataggio appese
alle cime e a file di giganteschi sfiatatoi bianchi e cilindrici, curvi come i
ricevitori di telefoni vecchio stile. Ci arrestammo in prossimità della poppa.
Alla mia destra, un ragazzotto brufoloso percuoteva l'aria con i pugni.
Cominciavo a farmi un'idea di cosa mi aspettasse.
Sul ponte di poppa avevano allestito un ring all'aria aperta, con tanto di
corde, e sovrastato da un enorme albero. Era girata voce dei miei trascorsi
di pugile dilettante: avevo la reputazione di uno che non si tira indietro,
pronto ad affrontare chiunque, dentro e fuori dal ring. Nella maggior parte
dei casi ne uscivo vincente, ma di solito conoscevo almeno il mio
avversario.
Avevo già i guantoni addosso prima ancora di metterlo a fuoco, ma
appena lo riconobbi capii che mi avevano incastrato. Salì sul ring. Non era
tanto alto, forse uno e settanta, ma aveva un fisico massiccio e visibilmente
muscoloso. Era il campione del Black Watch, un reggimento sceltissimo
delle Highland scozzesi, e tutti evidentemente contavano che mi facesse a
pezzi.
Si muoveva con l'agilità di un pugile di strada, forse persino di un
professionista, ma mentre mi riscaldavo ebbi modo di studiarlo più
attentamente, e ritrovai la calma. Aveva l'arco sopraccigliare solcato dalle
cicatrici, le orecchie a cavolfiore e il setto nasale appiattito. Se ne aveva
prese tante, non doveva essere molto abile, o troppo veloce. Qualcuno
aveva sbagliato i conti, e quel qualcuno non ero io.
Mi allenavo nelle palestre di pugilato da quand'ero ragazzo, ed ero
piuttosto scattante. Io ero snello e agile, mentre lui era pesante. Riuscì quasi
a mandare a segno un paio di colpi, ma io avevo un sinistro molto forte, e
mandai a bersaglio un rapido jab seguito da un fulmineo gancio sinistro.
Non cercai di colpirlo in faccia, ma a metà del secondo round lo centrai in
pieno sul plesso solare, e lui andò a tappeto, senza fiato. Era k.o.
Dopo il mio incontro restai sul ponte a vedere i contendenti successivi, e
non fu uno spettacolo piacevole. Un ufficiale del Black Watch si era
lasciato convincere ad affrontare uno dei suoi uomini. Il superiore era
evidentemente impopolare, e aveva esitato ad accettare la sfida. Non aveva
torto. Quando alla fine salì sul ring le prese di santa ragione, poveraccio.
A parte quell'occasione, i match a bordo della nave erano leali e
relativamente corretti. Spesso facevo qualche round con Charles Calistan, il
buon vecchio Charles. Ci eravamo allenati insieme, ed eravamo subito
diventati amici. Aitante e con una folta chioma nerissima e ondulata,
Charles era anglo-indiano, parlava urdu e in seguito si comportò da vero
eroe. A mio avviso, meritava la Victoria Cross2. Era anche un pugile di
talento, e mi allenai regolarmente con lui durante la traversata.
Dopo undici giorni di navigazione, gettammo l'àncora al largo di
Freetown, in Sierra Leone, la prima terra avvistata dopo la partenza dalla
Gran Bretagna. Ormai era evidente che la nostra rotta ci avrebbe condotti a
circumnavigare Cape Town per poi risalire verso l'Egitto. Due giorni dopo,
senza mai sbarcare, ripartimmo in direzione sud e attraccammo a Cape
Town dove, alla vista del profilo piatto della Table Mountain, così
familiare dalle lezioni di geografia a scuola, per un istante osai pensare che
il paradiso esistesse davvero.
Era bello rimettere piede sulla terraferma, ed era la prima volta che mi
trovavo in un Paese straniero, se non contiamo una trasferta di cricket a
Sheffield. In quella stagione dell'anno, il clima di Cape Town era piuttosto
freddo, ma il posto era incredibile. Sul molo venimmo divisi in gruppi.
Insieme a Eddie e ad altri due, io fui affidato a un signore benestante di
mezza età, un sudafricano bianco che indossava un completo chiaro e
guidava una macchina scura. Si era offerto di portarci a visitare la città.
Per me tutto era una novità. Non avevo mai visto un uomo di colore in
vita mia, e il primo che incontrai stava davanti a una bancarella nel mercato
di Epping. Aveva un vero talento come imbonitore. Sosteneva di riuscire a
fissare il sole senza farsi male agli occhi.
Come primo assaggio del mondo, Cape Town era perfetta e, dopo essere
rimasti tutti e quattro tanto a lungo chiusi dentro una cabina fatta per due
persone, eravamo al settimo cielo. L'uomo con l'abito chiaro ci ospitò in
una casa in stile coloniale, con una tenuta enorme, e ci invitò a usare le
docce all'aperto, sul bordo della piscina. Evidentemente, dedusse Eddie,
non emanavamo un buon odore. Da settimane ci lavavamo solo di tanto in
tanto con secchiate d'acqua di mare, e sotto il getto di acqua dolce e fresca
della doccia sentii scivolare via tutto il sale e il sudore che mi si erano
incrostati addosso. Avrei voluto che durasse per sempre.
Più tardi, quel giorno, la nostra guida ci accompagnò in uno dei ristoranti
più eleganti che avessi mai visto, proprio nel cuore della città. Sul soffitto
2
È la massima onorificenza militare attribuita nei Paesi del Commonwealth (n.d.t.). veniva proiettato un cielo artificiale, nuvole comprese. Restammo a bocca
aperta, e poi concludemmo degnamente la giornata con un'ottima cena.
Dopo quattro giorni dicemmo addio a Cape Town. La Table Mountain
tornò a sbiadire all'orizzonte e il convoglio riprese la rotta, con la Otranto
in testa alle dieci navi che doppiarono il Capo per risalire la costa orientale
dell'Africa. Il 14 settembre raggiungemmo l'isola vulcanica di Perim,
all'imbocco del Mar Rosso. Da là ripartimmo per l'ultima parte del viaggio
con il favore delle tenebre, sempre scortati da quattro navi da guerra. Presto
ci saremmo trovati a tiro degli aeroplani e delle forze navali italiane delle
basi di Massawa, in Eritrea. La Otranto viaggiava a luci spente, e
l'equipaggio a bordo si muoveva a tentoni. Il black-out era totale, ma il
cielo notturno brillava di stelle, e nelle acque luccicanti del Golfo di Aden
intravidi la sagoma minacciosa di una manta gigante.
Eravamo una spedizione di rinforzo, e i compagni a terra avevano un
disperato bisogno di noi. Gettata l'àncora davanti a Port Taufiq,
all'imboccatura del Canale di Suez, circondati da imbarcazioni della
Marina, navi da carico, rimorchiatori arrugginiti che sputavano fumo nero
fianco a fianco ai minuscoli sambuchi e ai pescherecci arabi, fummo
condotti a Genefa, un enorme accampamento nei pressi dei Grandi laghi
salati. La battaglia con la sete era già cominciata, ma tutt'intorno al campo
erano disposte grandi giare di terracotta, abbastanza capienti da annegarci
un sergente, e traboccanti di acqua fresca. Questa era la buona notizia.
Quella cattiva fu l'ordine di metterci in marcia già il giorno seguente, per
un cammino di quaranta chilometri nel deserto, intorno a un brullo rilievo
roccioso, soprannominato "la Pulce". Evidentemente temevano che ci
annoiassimo.
Mentro io mi trovavo ancora in Inghilterra ad assalire manichini
imbottiti di paglia a colpi di baionetta, il 2RB, la sigla del Secondo
Battaglione, era stato inviato nel deserto.
Benito Mussolini non aveva ancora dichiarato guerra, ma la discesa in
campo dell'Italia era attesa da un momento all'altro. Per sei settimane il
duce si era speso in discorsi bellicosi, e il battaglione mordeva il freno.
Ricordo di avere visto su un giornale la foto di alcuni soldati scelti che si
esibivano saltando teorie di baionette affilate come rasoi, come in una corsa
a ostacoli, e di aver pensato: "Tra il dire e il fare...".
Il giorno dopo la dichiarazione di guerra, la 7ª Divisione corazzata, che
comprendeva il 2RB, raggiunse il confine libico. Non era la forza più
avanzata al mondo. Alcuni dei mezzi blindati erano ancora i vecchi Silver
Ghost della Rolls Royce, gli stessi impiegati da Lawrence d'Arabia durante
la prima guerra mondiale, ciò nonostante conquistarono in breve tutti i
presidi di frontiera.
Mussolini fece la sua prima mossa mentre il nostro convoglio si
preparava ad attravesare il Mar Rosso. Il duce aveva assistito ai trionfi
tedeschi in Europa, e non voleva rischiare di restare escluso dalla
spartizione del bottino. Aveva già messo gli occhi sul Nilo, sul Canale di
Suez e sulle rotte commerciali inglesi verso e oltre l'India. Ordinò al
maresciallo Graziani, soprannominato "il macellaio del deserto" per la
brutalità con la quale aveva soffocato nel sangue la rivolta araba, di
attaccare l'Egitto e gli inglesi. Il 13 settembre 1940, 85.000 soldati italiani
si riversarono in Egitto dalla Libia, e le forze britanniche, in netta
minoranza, furono costrette a ripiegare. Le truppe di Graziani continuarono
l'avanzata fino a Sidi Barrani, un insediamento sulla costa cento chilometri
oltre il confine egiziano. Nei proclami della propaganda fascista, il duce
dichiarò che presto i tram italiani avrebbero attraversato l'abitato. Tram?
Laggiù non sapevano nemmeno scrivere. Sidi Barrani non era che un
mucchio di edifici, circondato da casupole di fango. Non avevano neanche
una strada, figuriamoci i binari del tram.
Gli italiani costruirono un'elaborata catena di postazioni fortificate che, a
partire dalla costa, penetrava in profondità nel deserto in direzione
sudovest. I loro accampamenti avevano nomi romantici, aromatici
Tummar, Rabia e Sofafi , quasi fossero le tappe di una via delle spezie. A
quel punto le truppe italiane erano salite a 250.000 unità, e noi eravamo
stati mandati a rimpinguare le forze alleate, numericamente surclassate sia
in aria sia a terra: eravamo 100.000 in tutto.
Il Cairo fu il nostro preludio alla guerra vera e propria, l'ultima occasione
di rilassarci in previsione delle fatiche del deserto, un apprendistato che mi
avrebbe ben preparato alla prigionia e a tutto ciò che ne seguì. In tre io,
Charles Calistan e Cecil Plumber partimmo all'avanscoperta dei piaceri
equivoci della città, accompagnati da un paio di soldati più grandi che
sapevano come muoversi. Cecil era un ragazzo riflessivo, con la fronte
spaziosa e lo sguardo attento. Io lo avevo conosciuto nell'Essex, come
brillante ricevitore della nostra squadra di cricket. Quei giorni spensierati
sul green del villaggio parevano già un ricordo lontano. Invece dei tordi e
delle allodole, il cielo di quella città misteriosa ed esotica era solcato da
grandi nibbi scuri, e le sue strade brulicavano di soldati alleati:
neozelandesi, indiani e australiani, oltre agli inglesi.
Fummo superati da un gharrie trainato da un cavallo e pieno di giovani
in divisa color cachi, tutti esaltati in previsione della notte brava. Provai
una fitta al cuore vedendo la fatica dell'animale intrappolato tra le stanghe.
I soldati scesero davanti a noi, urlando: «Tre urrà per il conducente del
gharrie», poi se la filarono senza pagare.
C'erano cammelli carichi fino all'inverosimile, muli presi a bastonate da
cavalieri che strusciavano i piedi a terra, e tutt'intorno monelli che
gridavano: «Baksheesh, baksheesh!». Sui marciapiedi, ragazzini vendevano
cianfrusaglie senza valore, altri cercavano di farci comprare succhi di frutta
dall'aria sospetta e fichi di seconda scelta. Un tram polveroso passò
sferragliando, lanciando scintille dalle rotaie. L'aria era densa di una
foschia giallastra, una miscela di fumi di scarico e granelli di sabbia in
sospensione, ma tutto veniva sovrastato dal tanfo delle fogne a cielo aperto.
Sbucando da una strada rumorosa, dove i veicoli trainati dai cavalli si
contendevano lo spazio con i camion, ci infilammo nel Melody Club,
meglio noto come "il Dolce Melody". Bel senso dell'umorismo. L'ingresso
era chiuso da puzzolenti tende da cui non passava un filo di luce, malgrado
fuori ci fossero lampioni azzurri e finestre e androni fossero illuminati.
Superata la prima tenda, inciampai in qualcosa che stava sul pavimento.
Nella penombra riuscii a distinguere il corpo inerte di un soldato
australiano, ubriaco fradicio e buttato a terra come un sacco.
La seconda tenda si apriva su una bettola lurida. Sopra un minuscolo
palco, un'orchestrina suonava al riparo di una protezione di filo spinato.
Quella precauzione era necessaria. I musicisti stentavano a farsi sentire nel
frastuono generale. Il locale era gremito di soldati in licenza dal deserto e
in cerca di uno sfogo. Il soffitto era crivellato di colpi, e il pavimento
rivestito di una patina di Dio solo sa cosa. La clientela dei militari era
incline alle intemperanze, soprattutto gli australiani. Nel deserto erano
soldati di prim'ordine, ma quando rientravano al Cairo e si sbronzavano,
perdevano ogni remora.
Un senso di distruzione aleggiava nell'aria. Non era il luogo adatto a
rilassarsi. Avevamo appena ordinato da bere quando da un tavolo d'angolo
si levarono delle urla. Il ragazzo nel bel mezzo del trambusto afferrò una
sedia e se la tirò all'indietro sopra la sua testa senza voltarsi, centrando un
altro tavolo di soldati in piena bisboccia. Uno dei suoi compagni lo stese
con un gancio destro, forse per concludere quella schermaglia, o forse per
prevenire una rissa generale. Comunque questo riportò la calma, e il
lanciatore di sedie, ancora privo di sensi, venne trasportato a braccia e
scaricato accanto al soldato che bloccava l'ingresso. Il resto del gruppetto
ritirò su le sedie, si sistemò le uniformi, e il vociare riprese con il volume
assordante di prima.
Gli ufficiali si tenevano alla larga da posti come il Dolce Melody,
preferendogli i locali del famoso Shepherd's Hotel, luogo d'incontro
dell'alta società del Cairo. I soldati semplici come noi dovevano mettersi in
ghingheri per entrare. Nel bar all'aperto, sulla terrazza, pareva di essere
finiti in un altro mondo. Un uomo in smoking suonava un pianoforte
verticale; sedie di vimini erano disposte sul pavimento piastrellato;
camerieri egiziani in lunghe tuniche bianche servivano i drink che
portavano su vassoi lucidi tenuti in equilibrio su una mano. Quella sì che
era vita. All'epoca io ero caporale, e con una predisposizione più al
comando che all'obbedienza. Ero deciso a guadagnarmi i gradi sul campo, e
lo Shepherd's mi pareva più adatto a me.
Più tardi quella stessa sera, nel viaviai che si avvicendava nella frescura
delle strade, superammo il ponte degli inglesi sul Nilo, su cui stavano di
guardia quattro mastodontici leoni di bronzo. «Li vedete quelli?», gridò
uno dei ragazzi. «Ruggiscono ogni volta che un vergine attraversa il ponte.
Siete avvisati». Nascondemmo il disagio dietro una risatina. Con
l'incombere della partenza per il deserto, non parlavamo che di ragazze. Ci
attanagliava la consapevolezza che presto avremmo affrontato il battesimo
del fuoco, dunque non c'era da meravigliarsi che il tema del sesso andasse
così forte. Finimmo quasi tutti per confessare di essere vergini. Io avevo
già ventun anni, ma a quel tempo non c'era l'abitudine di fare sesso prima
del matrimonio. Oggi si stenta a crederlo. Molti di quei ragazzi erano nella
mia stessa situazione. Eravamo abbastanza grandi da rischiare la vita, ma
dal punto di vista sessuale eravamo ancora dei ragazzini. Io ero nel pieno
delle forze, e mi gettavo anima e corpo nelle esercitazioni di
addestramento, arrivando sfinito alla sera. Forse per questo non ci pensavo
troppo. Per altri, invece, diventò un'ossessione.
I soldati avevano spesso sulle labbra il nome di una strada, la Berka, che
al Cairo era il centro della pratica del mestiere più antico. Era proibito a
tutti i gradi dell'esercito, circondato da grandi cartelli bianchi e croci nere,
nonché spesso bersaglio di retate della polizia militare. Non che questo
scoraggiasse i miei compagni, ma personalmente il loro comportamento mi
scandalizzava. Capivo che dei giovani destinati alla battaglia volessero
prima passare di là, e tuttavia lo trovavo sconcertante, e non seguii mai il
loro esempio. Ero alla vigilia della partenza per il deserto, e una parte di me
era già diventata più cinica. La minima distrazione poteva renderti un
bersaglio, e io ero determinato a sopravvivere a qualunque cosa il nemico
volesse scagliarmi addosso. Per riuscirci dovevo restare concentrato.
«Raccattate pappagalli e scimmie, si parte».
L'ordine sembrava uno scherzo, ma sapevamo cosa significava: eravamo
in partenza per il deserto. Dicevano che stavamo andando nel "blu", perché
somigliava a un mare esotico e asciutto, un luogo impressionante per un
ragazzo cresciuto in un Paese umido e ricco di vegetazione. Ci avevano
incorporati alla 7ª Divisione corazzata, gli instancabili ed erranti Topi del
Deserto.
Lentamente, il nostro treno superò stazioni con nomi assurdi e buffi,
come Zagazig, poi si diresse verso ovest, su dune di abbacinante sabbia
bianca affiancate dallo specchio blu del mare, superando una postazione
ancora priva di risonanza El Alamein e un'altra il cui nome Fuka3 ci strappò
invece qualche risatina.
Gli inglesi avevano piantato le tende a Mersa Matruh, costruendo un
fortino in cui vivevano un'esistenza da trogloditi, in attesa dell'ulteriore
avanzata italiana. Il nostro compito era creare un'azione di disturbo in
campo nemico, così ci addentrammo oltre, nel deserto. La mulattiera
sconnessa che portava a sud si allargò presto sotto le ruote dei convogli di
camion che scartavano per evitare le buche.
Rispetto al deserto che avevo immaginato tutto dune ondulate e scolpite
dal vento la realtà mostrò un volto ben più scabro: un paesaggio roccioso,
arido e inospitale, punteggiato da qualche arbusto e zone opache di sabbia
portata là dal vento. Lo chiamavano "porridge country", e sarebbe stato il
nostro teatro di guerra.
Un'impressionante dorsale di grande importanza strategica dominava la
vista. Haggag el-Aqaba, un rilievo di quasi duecento metri, sorge parallelo
al mare e si estende verso est fino a Sollum, dove le sue scogliere rocciose
si sporgono sul Mediterraneo disegnando le curve a gomito del valico di
Halfaya. Le forze britanniche ci avevano già combattuto, strette
dall'avanzata degli italiani. Noi lo ribattezzammo "passaggio per l'inferno".
Il battaglione metteva alla prova le postazioni nemiche inviando
pattuglie notturne. Io ero nella Compagnia B, e alla fine di ottobre
cominciammo a tagliare i fili del telegrafo e a minare le strade per impedire
ai rinforzi avversari di accorrere in aiuto degli accampamenti più isolati.
Cominciavamo a capire meglio il deserto, a percepire l'immensità
dell'Africa sotto quel cielo a 180 gradi, con temperature torride durante il
giorno che crollavano quasi a zero quando a sera ci coricavamo sotto il
firmamento. Chi si lasciava sorprendere allo scoperto da una tempesta di
sabbia era spacciato. Il muro gonfio di sabbia del khamsin si ergeva alto
come una montagna in movimento, oscurando il sole e raschiando via la
vernice dai veicoli come un mucchio di chiodi arroventati. Scagliati dal
vento, i grani di sabbia ferivano la pelle malgrado i vestiti. L'unico scampo
era trovare un riparo. Potevamo bere solo l'acqua dei bir, antichi pozzi e
cisterne, alcuni risalenti ad epoca romana, che nella migliore delle ipotesi
contenevano un fondo di liquido fangoso e nella peggiore, come ci capitò
una volta, la carcassa di un mulo. La sua vista ci fece passare la sete, anche
se per poco.
All'imbrunire facevamo quadrato, parcheggiando in un grande perimetro
difensivo tutti i veicoli, in gran parte camion e piccoli cingolati con sopra le
mitragliatrici Bren. All'esterno venivano messe sentinelle di guardia, con
turni di due ore, mentre il resto di noi cercava di prendere sonno prima che
la frescura della sera si trasformasse nel gelo della notte. Per evitare di
segnalare la nostra posizione ci era tassativamente vietato accendere falò, e
3
Il nome della località ricorda il verbo inglese fuck, "fottere" (n.d.t.). per scaldarci non avevamo che i cappotti, almeno per i più fortunati che ne
avevano uno.
Nei mesi seguenti avrei familiarizzato molto bene con i carri Bren. Era
un veicolo agile, scoperto, corazzato e cingolato, dotato di un potente
motore Ford V-8 proprio al centro. Poteva trasportare uno e talvolta due
fucilieri sul retro, addetti alla mitragliatrice, e due davanti, il conducente e
il comandante, armato di un fucile anticarro.
Conoscevo particolarmente bene il ventre della bestia, perché di notte mi
scavavo una buca nella sabbia, ci portavo sopra il veicolo e mi infilavo in
mezzo ai cingoli per proteggermi dalle granate, dalle bombe o dai proiettili.
Stendevo il sacco a pelo in realtà niente più di una coperta pesante rivestita
di un telo di plastica , controllavo che il revolver .38 fosse carico, le granate
a portata di mano, e poi mi addormentavo.
Il grido delle sentinelle ci svegliava molto prima che facesse luce, e di
solito la mia giornata cominciava con una testata contro la coppa dell'olio.
Poco alla volta l'accampamento riprendeva vita, e si accendevano i motori,
non sempre al primo tentativo. La formazione difensiva si apriva e, ancora
assonnati e intirizziti dal freddo, ci avventuravamo a prendere posizione nel
deserto, dove aspettavamo un attacco all'alba tenendoci a intervalli di un
centinaio di metri di distanza l'uno dall'altro. Nessuno voleva offrire un
facile bersaglio al volo radente dei bombardieri Savoia. A quel punto
cominciava la lunga attesa, e restavamo a gelare scrutando l'orizzonte. Solo
quando faceva giorno pieno, e il contorno del deserto diventava nitido,
potevamo rilassarci e pensare alla colazione.
Io mi mettevo a preparare il primo tè del mattino come fosse questione di
vita o di morte. Pativo il freddo e la fame, avevo un urgente bisogno di
qualcosa di caldo, quindi il tè lo facevo alla maniera del deserto: segavo in
due una vecchia tanica da benzina, la riempivo di sabbia, ci versavo del
petrolio da carburante e ci mettevo sopra in bilico la gavetta piena d'acqua.
Dopodiché, da distanza di sicurezza, lanciavo nella tanica un fiammifero
acceso. Bum! Una nube di fumo nero si alzava in cielo. Quello scoppio
spettacolare era il primo refolo d'aria calda della giornata, e portava l'acqua
a ebollizione nel giro di un secondo.
Da principio avevamo accolto di buon grado il clima più fresco del
cambio di stagione, ma con il passare dei giorni il freddo durante la notte si
fece più intenso, e per niente piacevole. Poi, come se non bastasse, di notte
cominciò anche a piovere. In quel periodo la nostra era ancora una "guerra
fittizia", e ci tenevano occupati con un sacco di esercitazioni:
addestramento fisico, lettura delle mappe, prove di tiro e simulazioni di
incursioni notturne. Tutto ciò in seguito si sarebbe rivelato molto utile.
Capitolo 3
Entrammo in azione. Una sera ci fu ordinato di far saltare un deposito di
carburante italiano. Eravamo in dodici, sotto il comando del sergente
maggiore di plotone Endean, più tre esperti di esplosivi. Di notte, quando
gli italiani si ritiravano, il deserto era tutto nostro. Era fondamentale sapersi
orientare, e intuire quando spegnere il motore dei camion prima che il
rumore tradisse la nostra posizione, ma non a una distanza tale da non
essere percorribile a piedi in un tempo ragionevole. Prima di metterci in
marcia, ci schierammo l'uno di fronte all'altro per un controllo di visibilità:
bisognava eliminare dall'uniforme qualsiasi cosa chiara che potesse essere
un facile bersaglio e che ci avrebbe esposto a una pioggia di pallottole. Poi,
in coppie, ci scuotevamo a vicenda, per individuare il tintinnio di chiavi o
monete. Di notte, nel silenzio del deserto, i suoni si propagano molto
lontano, e il minimo rumore poteva trasformarci in un bersaglio.
Verificate per l'ultima volta le armi, i nostri camion si avviarono
nell'oscurità sul terreno roccioso. A sedici chilometri dall'obiettivo
scendemmo dagli automezzi e, guidati da Endean e dalla sua fida bussola,
percorremmo l'ultimo tratto di strada a piedi, senza fiatare. All'arrivo
eravamo sfiniti, ma l'effetto sorpresa era di importanza vitale.
Quando la sagoma del deposito comparve alla vista, Endean diede il
segnale, e noi strisciammo carponi fino a prendere posizione sulla ghiaia.
Comunicando a gesti, ci disponemmo in semicerchio. Così era più sicuro:
se fosse scoppiata una sparatoria, c'era minor rischio di colpirci tra noi.
Rimasi prono, nel buio, con il mio Lee-Enfield puntato sul deposito.
Cercai di mettermi comodo. L'attesa poteva essere lunga.
Alla mia destra intravidi gli artificieri che avanzavano, chini e a testa
bassa, ombre subito inghiottite dall'oscurità. Passarono alcuni minuti. Quel
prolungato silenzio era un buon segno. Ancora si aspettava. D'un tratto
rieccoli, tutti e tre, che tornavano correndo come forsennati, ancora a capo
chino. Puntammo il deposito, in attesa che cominciassero le esplosioni. I
primi due scoppi sembrarono minimi, ma lanciarono lampi come razzi nel
cielo notturno. Seguì una pausa innaturale, forse non più di una manciata di
secondi, seguita da un boato spropositato, e una palla di fuoco colorò
d'arancione la notte. Io cercai di appiattirmi nella sabbia, vedendo di colpo
illuminate a giorno le facce dei miei compagni.
Era il momento della verità. Di solito, gli italiani rispondevano a un
attacco sparando a tappeto, e all'impazzata. Quella volta, invece, ci andò di
lusso, e ci dileguammo di nuovo nel deserto. Se in campo avversario era
sopravvissuto qualcuno, comunque non si prese la briga di lanciarsi al
nostro inseguimento.
Ci radunammo nel punto convenuto, a una buona distanza dall'obiettivo
colpito, verificammo di essere tutti illesi e riprendemmo la lunga marcia di
ritorno ai camion. Prima che sorgesse l'alba eravamo di nuovo al sicuro al
campo, e non desideravamo altro che dormire.
Se mi guardo indietro, riesco a individuare quali esperienze mi
trasformarono e mi prepararono mentalmente alle privazioni di Auschwitz.
Vivere nel deserto significava sopportare il freddo e la fame, senza altra
consolazione se non carne in scatola, e gallette secche: poco più che
biscotti per cani. E poi c'era lo stufato di carne Maconochie, la stessa
sbobba che veniva data nelle trincee della prima guerra mondiale. Di tanto
in tanto riuscivamo ad abbattere una gazzella, e quello era un banchetto che
durava giorni e giorni. Alcuni compagni tentavano di colpirle dai veicoli in
movimento, ma il terreno del deserto era troppo accidentato. Le buche e i
dossi che chiamavamo "gobbe di cammello" impedivano di prendere la
mira. Io, cresciuto in campagna, sapevo che a caccia si va a piedi, ed era
così che facevo le mie battute.
A volte tentavamo un baratto con i beduini, ma capitava di rado, e non
era facile capirsi. Per salutare loro agitavano le mani con il palmo rivolto
verso di sé, aprendo e chiudendo le dita in quello che a noi sembrava un
invito ad avvicinarsi. Ma quando lo facevamo restavano interdetti, non
comprendendone il motivo. Certo, valeva la pena di rischiare qualche
malinteso se la posta in gioco era un uovo o due, ma ciò di cui avevamo
davvero bisogno frutta e verdura era introvabile. A volte intercettavamo un
convoglio di vettovagliamento italiano, impadronendoci di qualche
confezione di tonno in scatola o di riso, ma più di frequente era passata di
pomodoro. Non sembravano mangiare altro.
La nostra era una dieta da fame, eravamo tutti tremendamente denutriti,
ed esposti alle malattie. Un graffio si tramutava subito in una ferita
purulenta che non voleva saperne di rimarginarsi e poteva portare a
un'infezione del sangue. Le chiamavamo "piaghe del deserto", e ci
tormentarono per tutta la durata della campagna. Gli infermieri di campo
erano pochissimi, e l'unica cura che ci offrivano era togliere la crosta e
sperare per il meglio. A distanza di settant'anni ho ancora quelle cicatrici
sugli avambracci.
L'igiene era scarsa, come potete immaginare, vista la quantità di mosche.
Gli attacchi di diarrea erano costanti, e la dissenteria nel deserto non è uno
scherzo. Le funzioni fisiologiche erano già complicate in condizioni
normali. Si scavava una fossa, e ci si accucciava. Nel giro di un secondo gli
stercorari volanti scendevano in picchiata sul sedere. In media erano più
accurati dei bombardieri Stuka: mentre questi si levavano di torno appena
sgangiate le bombe, quelle bestie ti piombavano dritte sulle chiappe. Era la
loro pista di atterraggio preferita. Dopodiché si lasciavano cadere sulla
sabbia e cominciavano a formare palline con quel poco che un momento
prima avevi nella pancia, per poi battersela a ritroso, portandole Dio solo sa
dove.
Quando restavamo accampati nello stesso posto un po' più a lungo, ci
costruivamo un gabinetto facendo un buco nella parte superiore delle casse
di legno in cui ci consegnavano le taniche di benzina. Erano alte almeno un
metro, e seduti su quel trono, a contemplare la sabbia sollevata dal vento, ci
si sentiva davvero un re.
Le razioni d'acqua erano di cinque litri a testa, ma doveva bastare per
riempire i radiatori e per tutto il resto, quindi da bere ne rimaneva ben poca.
Arrivava in contenitori di metallo sottile con un rivestimento interno di
cera, che puntualmente si scrostava durante il trasporto. Così sapeva di
ruggine o di candela. Lavarsi era un lusso che non ci potevamo permettere.
Quando non eravamo sotto attacco, ci sciacquavamo mani e faccia alla
meno peggio, e quanto al resto del corpo usavamo un pennello da barba
appena intinto nell'acqua, che di solito finiva molto prima delle abluzioni.
Troppo di frequente dipendevamo dall'uomo dell'autocisterna. Il suo
nome non l'ho mai saputo, lo chiamavamo tutti solo e sempre così: l'uomo
dell'autocisterna. Vagava per il deserto al volante di un'autobotte
sequestrata agli italiani, passando quasi indisturbato da un bir all'altro, in
cerca d'acqua. Spariva per giorni, sempre da solo. Era un ometto piccolo e
misterioso, capace di decifrare il linguaggio del deserto e di conversare
correntemente in arabo con i beduini. La vita nel "blu" gli aveva dato alla
testa. Quando tornava, se sorprendeva qualcuno seduto su uno dei gabinetti
improvvisati con le casse del carburante, dava in escandescenze, estraeva la
.38 e cominciava a girargli intorno con l'autocisterna, sparando dal
finestrino al legno tra le sue gambe. Nessuno ne seppe mai il motivo. Ma a
parte l'umiliazione di farti esplodere il gabinetto da sotto il sedere, non ferì
mai nessuno, e per quanto svitato, tutti lo accettavano per quello che era.
Venne il momento dell'operazione più importante fino ad allora. Il
generale Wavell decise di sferrare un attacco a sorpresa contro le
fortificazioni italiane nel deserto. I dettagli naturalmente erano segreti.
Ciascuno era informato solo dello stretto necessario, e i soldati semplici
erano all'oscuro di tutto. Era così che funzionava nell'esercito. Noi
avevamo il compito di perlustrare il deserto per individuare i terreni minati
dagli italiani e il resto della cerchia difensiva intorno ai loro accampamenti,
in modo che i carri armati in testa all'assalto potessero sfondare la linea
difensiva nei suoi punti deboli.
Il 7 dicembre, con il favore delle tenebre, lunghe colonne di uomini e
veicoli iniziarono a prendere posizione, ma nel deserto l'inverno
cominciava a farsi sentire, e i soldati in attesa della battaglia tremavano per
il freddo almeno quanto per la paura. Due giorni dopo, di primissimo
mattino, carri armati, mitragliatrici e fanteria furono condotti sulla linea di
partenza. L'itinerario per i veicoli era segnalato da lampade antivento
nascoste alla vista del nemico sotto taniche di benzina tagliate a metà.
Eravamo talmente vicini all'accampamento italiano che nell'aria si sentiva
il profumo del caffè e gli altri odori della colazione. Alle 7 in punto la
nostra artiglieria aprì un massiccio fuoco di sbarramento, e poi partì
l'attacco. I carri armati italiani avevano una copertura di metallo
sottilissima, e assolutamente inadeguata. Ne eliminammo ventitré nel giro
di quindici minuti, poi ne catturammo altri trentacinque e prendemmo
duemila prigionieri perdendo cinquantasei dei nostri. Secondo la lugubre
matematica di guerra fu un trionfo.
Le informazioni raccolte dalle nostre pattuglie notturne avevano
contribuito al successo della spedizione. Alcuni dei nostri ufficiali
cominciavano a calcolare il numero di prigionieri in termini di ettari di
superficie occupata, più che di uomini. A giudicare dalla documentazione
storica che ho studiato in seguito, le alte sfere si scambiarono diversi
messaggi per congratularsi. Quanto ai soldati, non ricordo di averli mai
visti ricevere un ringraziamento da nessuno in tutta la mia permanenza nel
deserto. Evidentemente, nelle alte sfere non lo si riteneva necessario.
Il 2RB trovò un ottimo cuoco tra i prigionieri italiani. Se lo presero
subito gli ufficiali, che lo misero ai fornelli della loro mensa sotto la falsa
identità del "fuciliere Antonio". Malgrado durante un bombardamento
aereo egli si fosse ritrovato a rifugiarsi in una grotta insieme a un
colonnello, passarono quattro settimane prima che un superiore si
accorgesse dell'inganno.
Conquistammo Sid Barrani, quel forte sferzato dal vento con le mura
scalcinate e una manciata di casupole al quale il duce aveva promesso
l'arrivo dei tram. Era il 10 dicembre, ed entro ventiquattr'ore il deserto
accolse la notizia con una memorabile tempesta di sabbia.
Non sempre, però, le cose erano dalla nostra. L'aviazione italiana aveva
la brutta abitudine di guastarci la festa, quindi ogni volta che si intravedeva
il minimo indizio di un aereo di ricognizione ci veniva ordinata un'azione
di depistaggio: lasciavamo al sicuro il grosso delle forze e cominciavamo a
guidare i camion all'impazzata, lasciando a terra tracce che portavano in
ogni direzione e sollevando un polverone che desse l'impressione di un
dispiegamento molto più vasto. Poi battevamo in ritirata con le facce
incrostate, la bocca piena di sabbia, e aspettavamo che arrivassero i
bombardieri a sganciare i loro esplosivi nella distesa deserta. Di solito
esaudivano il nostro desiderio.
Ma il trucco non era infallibile. Eravamo tornati nelle retrovie quando
sentimmo sopra le nostre teste il rombo di un primo aereo da
combattimento italiano, poi un altro. Non ci fu tempo per scappare. Io mi
gettai a terra, con in bocca una manciata di sabbia e sperando che il pilota
avesse bevuto troppo caffè. Contai in tutto una dozzina circa di CR42,
biplani sgraziati con la fusioliera tozza, ma quelli che temevo erano i grossi
bombardieri Savoia. Non impiegarono molto ad arrivare: una formazione di
tre bestie enormi, ciascuna con tre motori esagerati. I primi boati scossero
la terra, ma le bombe non centrarono il bersaglio. Prima che potessero
riprovarci, arrivarono i rinforzi. Il nemico disponeva di molti più aerei di
noi, ma alcuni dei vecchi biplani Gladiator erano stati rimpiazzati dagli
Hurricane, e furono questi a fare la loro comparsa. Si lanciarono
all'inseguimento ad altissima quota, e presto fummo di nuovo da soli nel
deserto.
Tre giorni dopo i Savoia tornarono in forze, alle undici di sera. Questa
volta erano dieci, e degli Hurricane nemmeno l'ombra. Ci buttammo tutti a
terra, e una delle bombe cadde a venti metri da me, in una piccola
depressione tra le dune. Quando il cielo tornò sgombro e potemmo
rialzarci, intuii dall'agitazione poco lontano che qualcuno ci aveva lasciato
la pelle. Era un ragazzo adorabile di nome Jumbo Meads, un sergente
molto amato dai soldati, altissimo, biondo e bello, niente a che vedere con
le solite carogne di ufficiali. La sua perdita fu un duro colpo, ma non
potemmo permetterci di piangerla a lungo. Semplicemente non ce n'era il
tempo.
I Savoia erano una scocciatura, soprattutto di notte, quando si davano il
cambio, sganciando una bomba a testa per disturbarci il sonno. Fu a causa
loro che presi l'abitudine di dormire sotto il cingolato.
Poco tempo dopo passai una giornata a fare da autista al terzo
luogotenente Merlin Montagu Douglas Scott. Era il nipote del duca di
Buccleuch, imparentato con la famiglia reale, e un ufficiale di prim'ordine,
preciso fino alla pedanteria. Ci dirigemmo al valico di Halfaya e a Sollum,
in cerca di tracce della presenza nemica. Montagu Douglas Scott aveva il
vizio di avvicinarsi un po' troppo alle linee avversarie. Pochi giorni prima
aveva fatto lo stesso tratto di strada sfidando una tempesta di sabbia
khamsin, con la visibilità a zero, per verificare se esisteva ancora un vasto
accampamento italiano a Halway House, in cima alla dorsale montuosa. Lo
trovò, mimetizzato tra i mulinelli di sabbia. Il campo era circondato da un
muretto di pietra e sembrava abbandonato, attraversato da trincee poco
profonde coperte da teli e protette da rocce ammucchiate. Gli italiani
dovevano essersene andati in fretta e furia. Quelle piccole trincee erano
ancora piene di bottiglie, brande da campo, lettere, fotografie, un intero
assortimento di effetti personali. Le due torrette di guardia oscillavano al
vento. Non si sentiva altro che il cigolare del legno e lo sbattere dei teli
sotto lo sferzare della tempesta.
Poi Montagu Scott ricevette un allerta dalla radio. Gli italiani in ritirata
dall'accampamento erano stati avvistati a pochi chilometri di distanza. Con
quattro cingolati al suo comando, il luogotenente si gettò all'inseguimento,
catturando tutti i ritardatari che poteva portare con sé, dopodiché dovette
rassegnarsi a disarmarli e lasciarli dov'erano. Procedendo lungo la strada,
cominciò a imbattersi in camion abbandonati, con il serbatoio a secco o le
gomme a terra. Il khamsin continuava a crescere d'intensità, e l'aria era
densa di sabbia rossastra. Dopo una quindicina di chilometri intravide nella
foschia qualche sagoma più scura: un paio di grossi camion italiani che
trasportavano mitragliatrici, accompagnati da una trentina di uomini a
piedi. Montagu Scott li fece prigionieri in blocco, ma proprio in
quell'istante il khamsin si placò, aprendo alla vista l'ultima cosa che
avrebbe voluto trovarsi davanti: si era imbattuto nell'intera guarnigione
italiana, una colonna di centinaia di uomini, a perdita d'occhio.
Cominciarono tutti a sparare da distanza ravvicinata, e Montagu Scott
dovette sbrigarsi a battere in ritirata.
Anche la volta in cui gli feci da autista ci avvicinammo troppo, fino
trovarci proprio sotto il naso i camion e le motociclette del nemico, che
comparivano e scomparivano nei vicoli del porticciolo di Sollum. In cima
alla dorsale si distingueva chiaramente l'artiglieria italiana. Quando
tentammo di accostarci ai camion l'artiglieria aprì il fuoco, costringendoci a
ripiegare a tutta velocità.
Montagu Douglas Scott era uno strano personaggio. Non gli sfuggiva
mai niente. Nel bel mezzo di quel caos ci disse quanto fosse rimasto colpito
dalle strade costruite dagli italiani nel deserto. Comunque quella volta ci
trasse d'impaccio, e fu un enorme sollievo quando, riparando tra le dune,
riuscimmo a metterci in salvo e a fare quadrato per la notte.
Io ero ancora deciso a guadagnarmi i gradi, non tanto per l'onore, ma
perché sapevo di potermela cavare meglio di alcuni dei militari di carriera.
Avevo già visto promuovere capitano un tizio che giudicavo un incapace.
A quei tempi gli avvicendamenti erano costanti, vista la necessità di
rimpiazzare gli ufficiali caduti, e ciò nonostante i figli del popolo venivano
regolarmente superati dagli altri. Non era giusto. Io ero stato promosso
caporale per le mie doti di tiratore, e così andava fatto: in base al merito.
A quel punto, il sergente maggiore di plotone Endean si era già rivelato
il tormento della mia vita. Non aveva tempo da perdere con le reclute come
noi. Era un militare di carriera, e ci trattava come se fossimo tutti novellini,
da poco arrivati dalla vita in borghese. Per alcuni era vero, eppure per la
gran parte di noi si trattava di puro e semplice pregiudizio. Quelli come il
sergente maggiore erano ciechi di fronte al valore dei propri uomini.
Una notte ricevemmo un ordine di avanzata. Io ero al comando e, prima
che il camion si avviasse sul terreno accidentato del deserto, presi posto
accanto all'autista mentre i sei soldati salivano sul cassone. Stavo scrutando
nel buio e temevo il peggio: il conducente si stava sforzando di evitare una
pietraia, tenendosi in coda a un altro veicolo, quando un tonfo sinistro da
sotto il camion lo costrinse a frenare. Io scesi a vedere, scoprendo che
avevamo bucato la coppa dell'olio. Saremmo rimasti bloccati per un bel po'.
Soli e allo scoperto eravamo piuttosto vulnerabili, ma la compagnia ci
piantò comunque in asso e proseguì.
Io organizzai i turni di guardia, perché almeno a intervalli i soldati
potessero riposare. La mattina ordinai ai ragazzi di aprire le razioni
d'emergenza di tè per riscaldarsi un po'. Quando fece giorno e il sole fu un
po' più caldo riuscimmo a rimettere in moto il camion, ma avevamo
percorso solo un breve tratto quando sentii il rombo minaccioso degli aerei
sopra di noi. Un drappello di Savoia scese in picchiata. Non avevamo
copertura contraerea, dovevamo cavarcela da soli. Riuscii ad afferrare una
mitraglietta che mi era stata data, e sparai quasi tutto il caricatore. Anche a
quella distanza ravvicinata non sortì il minimo effetto. Era un'arma molto
imprecisa. Ci buttammo a terra, ma le bombe esplosero molto più lontano.
Dopo un unico passaggio gli aerei se ne andarono, e io ripresi fiato. Quel
giorno avevano bersagli migliori.
Ci rimettemmo in cammino, e riuscimmo a ritrovare il grosso della
compagnia. Io raggiunsi subito il sergente Endean, e gli chiesi
l'autorizzazione a rifornire il mio drappello di nuove razioni d'emergenza.
Avrebbe dovuto trattarsi di una formalità: i ragazzi erano rimasti esposti al
gelo del deserto, avevano bisogno di scaldarsi le ossa. La decisione di usare
le razioni in caso di necessità spettava a me, ed era stata la scelta giusta.
Endean si rifiutò di reintegrarle.
Reagì aggressivamente, come di fronte a una violazione del regolamento.
Io ero per natura una testa calda, ma certe meschinità proprio non le
tolleravo. Non intendevo subire passivamente. Lui dovette accorgersene,
perché prese le distanze, sistemandosi dietro una rete mimetica. Sapeva che
sarei stato capacissimo di prenderlo a pugni, infischiandomene del suo
rango di superiore. Io persi le staffe, ma mi limitai a fare riferimento alla
sua nascita illegittima. Avevo dato un ordine per il bene dei miei uomini. E,
dannazione, in fondo si era trattato solo di una tazza di tè, non di un
banchetto.
Comunque lui se la legò al dito, e non ci mise molto a farmela pagare.
Prevedevamo ancora di finire sotto attacco all'alba, così fummo pronti
prima del solito. Io soffrivo da giorni di dissenteria, ma mi imposi di
alzarmi e organizzai la guardia come sempre. Ero in uno stato pietoso e,
appena finito, crollai nuovamente sul sacco a pelo, dilaniato dai dolori.
Quando Endean ricomparve, mi sorprese seduto là. Mi diede dello
scansafatiche, e mi deferì ai superiori. Che io avessi obbedito agli ordini e
disposto la guardia in modo impeccabile non sembrò fare alcuna differenza.
Malato o no, mi teneva in pugno.
L'udienza disciplinare si celebrò poco dopo, ma io ero talmente
furibondo che mi rifiutai di chiedere le attenuanti. Non potevo negare di
aver fatto ciò di cui mi si incolpava, ma sapevo anche che quell'accusa era
stata gonfiata per secondi fini. Mi ero seduto sul sacco a pelo perché stavo
male, tutto qui. Non mi sarei abbassato a implorare clemenza, ed ero pronto
a pagarne lo scotto. Mi tolsero le mostrine e mi stroncarono la carriera. Io
accettai la punizione, eppure mi brucia ancora adesso, dopo tanti anni.
Credo nella giustizia, e non sarei sceso a compromessi nemmeno per un
superiore. Sapevo di aver fatto la scelta giusta: il deserto non perdona i
malumori, e io dovevo potermi fidare dei ragazzi che mi coprivano le
spalle, come loro di me. Andai avanti, malgrado il solo ricordo di quella
vicenda mi faccia ancora ribollire il sangue.
Nei giorni seguenti riuscimmo a cacciare gli italiani dall'Egitto. Loro
ripiegarono a occidente, verso l'interno della Libia, concentrandosi in due
porti fortificati. Il primo era Bardia, poco lontano dal valico di Halfaya. Il
nome del secondo, centoventi chilometri più a ovest, a quel tempo ancora
non ci diceva niente: si chiamava Tobruk.
Mussolini incaricò della difesa di Bardia il pittoresco generale
Bergonzoli, noto agli italiani come "barba elettrica" per la vistosa barba
rossa a due punte. Noi, meno in soggezione, lo chiamavamo "baffetti
elettrici". L'ordine del duce era di tenere la postazione fino all'ultimo uomo.
Bergonzoli non obbedì.
Bardia si trovava in una piccola baia sovrastata da scogliere scoscese, e
la guarnigione italiana era disposta lungo un arco di trenta chilometri. Per
due giorni essa subì il bombardamento della Marina e della RAF, e poi, il 3
gennaio 1941, noi scagliammo l'attacco da terra. Il nostro compito era di
aggirarli fino all'estremo opposto, per fingere che fosse quella la direzione
dell'assalto principale, e sbarrare il passo a un'ulteriore ritirata.
Stavamo perlustrando i resti di una postazione di artiglieria italiana
appena conquistata quando, accanto al corpo di un soldato nemico caduto
faccia avanti, notai sul terreno delle profonde impronte a forma di artiglio.
Mentre le ultime forze lo abbandonavano, il soldato aveva fatto degli strani
movimenti con le mani, come per nascondere o seppellire qualcosa nella
sabbia. L'oggetto luccicava, ma non riuscivo a distinguere che cosa fosse:
un'arma, o una mina? Avanzai con cautela, scrutando a terra in cerca di
indizi. Da vicino, vidi che i riflessi non venivano da una superficie di
metallo: il sole brillava sul cuoio lucidato, così spazzai via la sabbia,
dissotterrando una custodia sottile, lunga un metro e mezzo circa. Al suo
interno c'era una magnifica bandiera di seta dorata, con l'asta ripiegata per
riporla. Era decorata da spillette d'oro, e culminava in un'aquila. Nei suoi
ultimi istanti di vita, l'artigliere italiano aveva fatto tutto il possibile per
evitare che la bandiera cadesse in mano nemica. La lasciai dov'era, sepolta
sotto la sabbia del deserto.
Mesi dopo mi imbattei in una vecchia fotografia del papa, in pompa
magna durante una cerimonia a Roma. Stava benedicendo qualcosa. Era
quello stesso vessillo dorato con l'aquila in cima.
Bardia cadde. Quasi tutti gli italiani si arresero. Si dice che gli inglesi
fecero centomila prigionieri. "L'ultimo uomo" della consegna di Mussolini
rimase "baffetti elettrici", che sfuggì alla cattura.
Procedemmo verso Tobruk, per ripetere l'operazione. Stavolta eravamo
stati incaricati di compiere un'operazione d'intelligence sul quadro generale
delle difese italiane intorno al porto, e questo significava incursioni
continue, che si concludevano spesso con sparatorie nel buio.
Fu allora che per la prima volta mi infiltrai nel cuore delle linee nemiche.
A notte fonda ci avvicinammo a una postazione italiana. Sospettavamo che
l'accampamento contenesse artiglieria pesante, ma non avevamo un'idea
esatta dell'entità delle loro difese. Bisognava scoprirlo, per non esporre a
una risposta letale i ragazzi che avrebbero condotto l'assalto. La
ricognizione cominciò come sempre con il reciproco controllo tra soldati,
per spogliarci di tutto ciò che poteva fare rumore.
Quando fummo tutti accucciati nel buio, il comandante decise che
avremmo proseguito solo io e lui, lasciando gli altri di guardia all'esterno, a
coprirci per quanto possibile le spalle in caso di una frettolosa ritirata. Nelle
azioni come quelle c'era un altissimo rischio di inciampare l'uno nell'altro, e
di spararci addosso. Come segno di riconoscimento avevamo soltanto i
cicalini, minuscoli pezzetti di metallo ripiegato che, una volta premuti,
emettevano un caratteristico "clic", permettendoci di riconoscerci come
amici.
Le difese esterne degli italiani consistevano in due o tre nidi di
mitragliatrici su entrambi i lati, protetti da semplici muretti di pietra. Quei
soldati erano soli ed esposti nel bel mezzo del deserto, ma i loro compagni
erano a un tiro di schioppo. Sarebbe bastato un loro grido per farci piovere
addosso tutta la loro potenza di fuoco, e in quel caso senz'altro avremmo
saltato la colazione.
Comunicando a gesti il comandante mi fece segno di avanzare, e ci
mettemmo a strisciare con cautela, sentendo nel buio i bisbiglii degli
italiani. Non era raro sorprendere le sentinelle mentre dormivano, ma
quella notte stavano chiacchierando. Erano distratte, tuttavia sarebbe
bastato un colpo di tosse o una pietra smossa per richiamare subito la loro
attenzione. La brezza del deserto ci portava la musica di un grammofono
dall'accampamento principale. Dopo una quarantina di metri cominciai a
distinguere altri sangar, gli anelli di pietra a protezione delle mitragliatrici
più grosse, che avevano il compito di dilaniare una carica di fanteria.
Quelli al sangar più vicino d'un tratto si rianimarono. Avevano sentito
qualcosa? Ci arrestammo di colpo, con la faccia sprofondata nella sabbia.
Trattenni il fiato, il cuore stretto in una morsa. Poi tornò la calma, e noi
riprendemmo lentamente ad avanzare, memorizzando la disposizione della
base a mano a mano che procedevamo. Sempre carponi, ci avvicinammo
alla parte centrale dell'accampamento. Cercammo un punto più basso dove
scavalcare il muretto, individuammo un arco a metà tra le mitragliatrici più
vicine, e sgusciammo all'interno.
Davanti a noi incombeva la sagoma oscura di un cannone imponente,
uno dei pezzi di artiglieria dotati di un rivelatore capace di individuare la
fonte di un segnale radio e mandarti la cena di traverso con una bella
bomba. Detta così sembra una tecnologia letale, ma a quei tempi non
c'erano computer, e i sistemi erano ancora rudimentali.
Nell'accampamento centrale vedemmo altri due nidi di mitragliatrici,
eppure ora che avevamo superato le linee difensiva la cosa mi preoccupava
meno. Ero tagliato per quel tipo di operazione. Tutti i miei sensi erano in
allerta; il cuore mi batteva all'impazzata, ma i miei nervi erano saldi. Era la
lezione del deserto. Mi rifiutavo di permettere alla paura di offuscarmi la
mente, però ero consapevole del fatto che, se fosse scattato l'allarme,
avremmo dovuto farci largo sparando.
I soldati andavano e venivano tra le tende. Si sentivano al sicuro. Dagli
alloggiamenti degli ufficiali filtrava un odore di sigaro, quello d'aglio dalla
zona delle cucine, e mi parve persino di avvertire un sentore di acqua di
colonia. Adesso le voci erano meno sommesse, e si levavano sopra il
campo. Nell'esercito italiano era sempre facile distinguere graduati e soldati
semplici. Quelli intorno a noi erano chiaramente ufficiali, e si stavano
dando alla bella vita. Ma c'era anche un suono che non sentivo da parecchio
tempo. Sullo sfondo delle voci maschili spiccava il timbro più acuto di
risate femminili. Non so se fossero prostitute o civili, ma erano donne, non
c'era ombra di dubbio. Sembrava si stessero divertendo.
Probabilmente sarebbe stato meglio fare subito dietrofront.
Nell'accampamento c'era troppa vita per i miei gusti, e continuando a
procedere ci mettevamo in una posizione sempre più pericolosa. Poi, a
pochi metri di distanza, il telo di una tenda si spalancò, proiettando un
fascio di luce. Noi eravamo ancora nell'ombra, ma a quel punto non
avevamo più scelta. Capimmo all'istante che bisognava andare avanti. Nel
deserto le uniformi di entrambi gli schieramenti erano logore e scolorite, e
nel buio non era facile capire che eravamo nemici, malgrado i nostri
cappelli di lana scura. Gli italiani invece portavano di tutto: in uno degli
accampamenti conquistati trovammo persino delle retine per capelli. A
Roma dovevano essere l'ultimo grido, ma tra di noi furono oggetto di
scherno.
Non avevamo che una possibilità. Ci alzammo in piedi e senza guardare
né a destra né a sinistra cominciammo a camminare, con tutta la flemma e
la disinvoltura di cui eravamo capaci, fino a uscire dall'accampamento
all'estremità opposta, dove il buio ci inghiottì di nuovo. L'intera base
ospitava almeno duecento persone, e noi l'avevamo attraversata
indisturbati. Solo allora mi resi conto che il comandante si era dimenticato
di spegnere la torcia che teneva in tasca. Attraverso il tessuto il fascio di
luce si intravedeva distintamente.
Questa, dunque, era la nostra routine: la notte passata in ricognizione, e
poi il ritorno alla base cercando di recuperare un po' di sonno, perché molto
probabilmente ce ne sarebbe toccata un'altra al calare della sera. Non
sempre quelle spedizioni andavano lisce, e ben presto mi capitò di rischiare
grosso. Avevo riportato una piccola ferita sull'avambraccio. Il taglio era
fasciato, ma la sabbia si infilava dappertutto, e l'aveva infettato. La benda
era bianca e chiaramente visibile, ma avendo cura di tenerla coperta con la
manica dell'uniforme, e in assenza di luna, potevo comunque uscire in
ricognizione.
Una notte fummo inviati a fare prigionieri in una postazione isolata. Se li
avessimo convinti a cantare avremmo potuto ottenerne informazioni di
valore inestimabile in vista dell'attacco. Il nostro schieramento era disposto
in un ampio ventaglio, quindi ciascuno di noi si trovava sostanzialmente da
solo. A una certa distanza, sentii un "clic" metallico, segno che uno dei
nostri cominciava a essere nervoso.
Mi accucciai in un wadi profondo circa un metro e mezzo, e cercai di
individuare un buon punto di osservazione oltre il bordo. Nelle ricognizioni
notturne conoscere i luoghi significa avere un potere, e bisognava fare un
quadro preciso della situazione prima di procedere con una mossa.
Ispezionato attentamente il circondario, cominciai lentamente a risalire dal
mio nascondiglio, evitando per quanto possibile di far rotolare i sassi. Un
suono mi fece arrestare, schiacciandomi contro il lato della fossa. Era il
rumore degli anfibi su un terreno pietroso. C'era qualcuno là sopra. Lo
sentii avanzare di un altro passo verso il bordo del wadi. Poi lo vidi: una
sentinella italiana che scrutava nel buio, ma per quanto guardasse proprio
verso di me, non mi vide, o almeno così speravo. Ero a pochi metri sotto i
suoi piedi, con il revolver in mano e il dito già pronto sul grilletto. Lo
tenevo di mira, e a quella distanza non potevo sbagliare, ma sapevo che uno
sparo avrebbe risvegliato l'intero accampamento, e non avrebbero
impiegato molto a ridurre anche noi a una passata di pomodoro.
Ogni alternativa, tra quante mi si affollavano nella mente, avrebbe
scatenato il finimondo. Potevo arrampicarmi in fretta e sfoderare il coltello,
ma lui non se ne sarebbe rimasto tranquillo ad aspettare che sbucassi dal
wadi. Per quanto ne sapevo, lassù poteva esserci un intero plotone,
radunato in silenzio a fumarsi una sigaretta in santa pace. Io ero pronto a
far fuoco al minimo rumore, ma avrei causato un corpo a corpo.
Ancora nascosto sul fondo della fossa, spostai il braccio di un
millimetro, e vidi il soldato irrigidirsi. Mi resi immediatamente conto che il
profilo della benda bianca appena sopra il polso era spuntato dalla manica.
"Dannazione", pensai tra me. Meglio sparare per primo e tentare la fuga?
Nel buio non distinguevo il volto del soldato, ma entrambi eravamo in
pericolo mortale, e lo sapevamo. Lui portava il fucile lungo il fianco.
Avrebbe impiegato almeno un secondo per imbracciarlo, mentre a me
bastava premere il grilletto per svignarmela a ritroso nel wadi prima ancora
che lui stramazzasse a terra. Lui non lo sollevò, rimase immobile sul posto,
senza quasi respirare. Eravamo tutti e due in trappola.
Fino ad allora, ogni volta che nel deserto mi trovavo in una situazione
difficile mi ripetevo che riflettere troppo era controproducente, dava solo al
nemico il tempo di sparare. Non bisognava pensare, bisognava agire. Era
quello il mio mantra per la sopravvivenza. L'istinto mi diceva che la scelta
giusta era restare dov'ero senza muovere un dito. Attesi. I secondi
passavano, e ancora la sentinella non lanciava l'allarme. Poi guardò a destra
e a sinistra, e cominciò lentamente ad arretrare dal bordo del wadi, finché
infine girò sui tacchi e si allontanò, scomparendo alla vista. Io mi lasciai
cadere sul fondo del fosso e tornai rapidamente sui miei passi fino a
raggiungere il resto del plotone. Sapevo di essere stato avvistato, e che
prima o poi la sentinella avrebbe dato l'allarme. Ormai l'operazione era
compromessa, e scappammo nella notte.
Durante quella ricognizione avevamo catturato quattro prigionieri. Uno
di loro l'avevo sorpreso io, ed era stato un gioco da ragazzi prenderlo. Si
aggirava a piedi, solo e ignaro di ciò che lo aspettava. Era più alto della
media e, nonostante il buio, si vedeva che non aveva ancora la barba e
portava un berretto blu-grigio con la visiera. Per coglierlo alla sprovvista
dovetti pedinarlo fino a raggiungere un punto favorevole per l'agguato.
Passai il revolver nella mano sinistra e lo assaltai alle spalle, bloccandogli il
braccio dietro la schiena, piantandogli la pistola nel fianco e ritirandola
subito nel caso si fosse voltato per impadronirsene. Dal terrore nei suoi
occhi era evidente che aveva capito l'antifona.
Non si ribellò, e io non dovetti nemmeno aprire bocca. Sapeva di avere
avuto la peggio, e si lasciò condurre via docilmente. Ma è a quel punto che
la situazione si fa delicata: quando il prigioniero supera lo shock iniziale, e
capisce che non intendi ucciderlo, se è un vero soldato cercherà la sua
occasione per ribaltare la situazione. Io fui fortunato. Il mio prigioniero era
paralizzato dalla paura, e tale restò finché, rientrati alla base, non lo
consegnammo a chi di dovere e finalmente ci mettemmo a dormire.
Ogni sortita si stava tramutando in una lotta per la sopravvivenza. Non
tutti gli italiani erano dei fifoni, malgrado la loro reputazione, e a ogni
incontro con il nemico si trattava di uccidere o essere uccisi. Io mi
impegnai con tutte le forze per non perdere la concentrazione. Di tanto in
tanto arrivavano lettere da casa, passate di mano in mano lungo le trincee,
tanto che alla consegna erano tutte stropicciate e coperte di polvere.
Quando arrivavano, i ragazzi si precipitavano a ritirarle, e poi altrettanto in
fretta andavano a sedersi con la schiena appoggiata alla ruota di un camion,
o dove capitava, per leggerle in santa pace mentre sui loro volti il ricordo di
casa accendeva un sorriso.
Io non ci riuscivo. La "casa" era un luogo di calore e civiltà, e quello in
cui mi trovavo era l'esatto opposto. Lanciavo appena un'occhiata alla
calligrafia di mia madre sulla busta, e la rimettevo via senza aprirla. Per
parlare una lingua straniera, devi pensare in quella lingua. Mia madre, che
Dio la benedica, parlava la lingua di casa, un idioma che non apparteneva
al deserto, dove l'unico obiettivo era l'autoconservazione, per questo mi
rifiutavo di leggere le sue lettere. Mi avrebbero distratto dal mio scopo, e
reso più difficile riuscire a sopravvivere. Poteva trattarsi di una frazione di
secondo, ma bastava a lasciarci la pelle. Così mi chiusi sempre più in me
stesso. In un modo o nell'altro, stava succedendo a tutti. Tenni con me quel
voluminoso fascio di lettere, e non le aprii mai finché non feci ritorno al
Cairo.
Mi sono rimasti particolarmente impressi gli eventi di una pattuglia.
Malgrado, a distanza di settant'anni, non ricordi più esattamente né la loro
posizione, né la loro missione, i sentimenti che provai non mi hanno mai
abbandonato. Mi sembra di rivivere tutto, ancora adesso. Le pattuglie
stavano diventando una routine, cominciavano sempre nello stesso modo e
finivano quando crollavamo sul sacco a pelo poco prima che la luce
dell'alba offuscasse le stelle. So che avevamo un ordine di ricognizione a
una postazione italiana, da qualche parte alla periferia di Tobruk.
L'accampamento era piuttosto grande, con una difesa agguerrita, e temevo
che ci saremmo imbattuti in qualche brutta sorpresa.
Avevo preso l'abitudine di portarmi un coltello durante le sortite. Non
era un'arma regolamentare, ma aveva una certa utilità. Me ne ero
impadronito per tempo, insieme a una Beretta automatica calibro .9
sottratta a un ufficiale italiano che si era arreso. Tenevo la pistola in una
minuscola fondina sotto il braccio, e il coltello in una guaina che avevo
cucito io stesso. Era lungo appena quindici centimetri, però la lama era a
doppio taglio, e affilata come un rasoio. Gli avevo tolto l'impugnatura per
renderlo meno ingombrante, e sapevo usarlo. Con un pugnale non si
colpisce mai dall'alto come si vede fare ai killer nei film hollywoodiani. Se
alzi il braccio, sei morto: prima di avere il tempo di abbassarlo,
probabilmente ti sei già preso una coltellata nella pancia. Per combattere
all'arma bianca bisogna tenere sempre la lama in basso, con il fondo
premuto contro il palmo e il pollice appoggiato all'acciaio.
Il plotone si era aperto a raggiera davanti al campo, e ciascuno di noi
aveva una diversa consegna. Io detestavo le pattuglie in formazione così
dispersiva. Ti ritrovavi davvero isolato. Sapevo che, se mi fossi imbattuto
in guai seri, avrei dovuto cavarmela da solo, rapidamente e senza il minimo
rumore. Sparare ci avrebbe attirato addosso l'intero accampamento nemico,
e io non avevo affatto intenzione di finire in una fossa, con la faccia coperta
di sabbia.
Stavo accucciato da qualche parte davanti alle difese esterne quando lo
vidi, in piedi nell'ombra a pochi passi da me. Io non avevo altro riparo, a
parte il buio, ma lui ancora non mi aveva avvistato. Capii che si metteva
male, molto male. Da un momento all'altro mi avrebbe sorpreso, e sarebbe
cominciata la sparatoria. Un solo errore, ed ero spacciato. Impugnai il
coltello. Sentii un rumore. Lui si era mosso: mi aveva visto. Gli saltai
addosso, sbucando fuori dall'oscurità, e gli conficcai la lama nella pancia,
appena sotto le costole. Si accasciò senza un grido, afflosciandosi per un
istante sul mio braccio e poi a terra, inerte.
Provai un enorme sollievo. Avevo rischiato di morire, ma l'avevo
scampata. Tutte quelle esercitazioni alla baionetta in patria non mi avevano
preparato a uno scontro del genere. Durante l'addestramento, le urla, le
grida di battaglia e l'aggressività avevano lo scopo di insegnarti a reagire in
modo automatico, senza fermarti a riflettere. Eppure, nel mio caso, era
andata in tutt'altro modo: un colpo sferrato alla cieca nel silenzio più
assoluto, e in quella tenebra avevo sentito il peso di un corpo che perdeva
le forze. Si era trattato di lui o di me. È questa la regola nella dannata
guerra. Tutto il resto non sono altro che scuse.
A quel tempo, il mio unico pensiero fu: "Ne sono uscito sano e salvo,
sono vivo". Volevo solo riprendere il cammino nel deserto e riunirmi ai
miei compagni. Avevo evitato che l'operazione venisse scoperta, e feci
rapporto dell'accaduto. Non mi dissero nemmeno un grazie.
Fu l'unica volta in cui uccisi un uomo a mani nude ma, per quanto sia
stata un'eccezione, mi segnò, eccome. Una cosa del genere non si dimentica
mai più. Il ricordo mi si è impresso nella mente, tuttavia rivivo con tutto il
corpo la sensazione che provai. E l'emozione di quella notte lo porto con
me da settant'anni.
Capitolo 4
Ci stavamo preparando ad attaccare Tobruk. Di notte perseguitavamo il
nemico sparando con le mitragliatrici Bren, ed era previsto un pesante
bombardamento dalla Marina per indebolire le difese italiane. C'era ancora
un po' di luce quando sostammo con i cingolati. Da un lato del sentiero si
levava una scogliera, alta una trentina di metri. Sull'altro si apriva il
Mediterraneo.
L'istinto è utile in guerra, e di norma è saggio dargli retta. Io avevo uno
strano presentimento, e suggerii che spostassimo i cingolati un po' più
avanti. Nel giro di pochi minuti un boato assordante scosse come un sisma i
veicoli e tutti i loro equipaggi. Il suono riverberò tutto intorno, rimbalzando
sulle rocce e lasciandoci nelle orecchie quel fischio acuto che resta dopo
un'esplosione. Sbottammo in imprecazioni irripetibili. La Marina Reale
aveva una potenza di fuoco devastante, e quando sparava una cannonata era
meglio tenersi alla larga. Il loro colpo iniziale era caduto poco lontano dal
punto che avevamo occupato poco prima.
In circostanze normali mi sarei detto: "Di riffa o di raffa, l'importante è
portare a casa la pelle", ma quello era solo l'inizio, e un bombardamento
navale non è uno spettacolo al quale assistere da distanza ravvicinata.
Prima ancora che il polverone si riabbassasse, ingranai la marcia del
cingolato e ci mettemmo in moto. Appena in tempo, perché un'altra bomba
di fuoco amico colpì la parete rocciosa appena dietro di noi. Non ci
fermammo a verificare i danni.
L'attacco era cominciato la mattina presto con l'assalto degli australiani
contro le difese da sud. Dalla nostra postazione vedevamo il denso fumo
nero salire dai moli dove gli italiani avevano dato fuoco ai depositi di
carburante. Dopo un pesante bombardamento della RAF, il loro
incrociatore San Giorgio aveva riparato nel porto. Lo tirarono in secca e
incendiarono anche quello.
Uno dei nostri ufficiali, Tom Bird, sfondò la linea difensiva con i
cingolati della Compagnia S, catturando dozzine di mitragliatrici, duemila
prigionieri e, cosa ancora più importante, tutte le scorte della mensa
ufficiali. Dietro la S arrivarono i carri armati, e da ogni parte si videro
sventolare le bandiere bianche. A Tobruk gli Alleati fecero più di
venticinquemila prigionieri, eppure "baffetti elettrici" non era tra questi.
Era di nuovo sfuggito tra le maglie della rete.
Gli italiani avevano quasi distrutto il porto, ma almeno restava acqua in
abbondanza per placare la nostra sete.
Ora che Tobruk era caduta, potevamo tornare alle nostre abitudini da
nomadi, e più o meno in quel periodo ebbi l'occasione di conoscere uno dei
nostri ufficiali migliori, il secondo luogotenente Mike Mosley. Non
partimmo subito con il piede giusto. Io ero al volante di un camion e lui
stava seduto al mio fianco quando finimmo in una zona di sabbie mobili e
le ruote cominciarono a girare a vuoto. In un secondo il veicolo sprofondò
fino al semiasse, restando completamente insabbiato. Mosley non la prese
troppo bene.
«Non l'avevi visto?», mi domandò. «Che razza di autista sei, Avey?
Quando guidi, devi guardare dove vai».
Ero infastidito. Stoccate del genere non le accettavo da nessuno,
nemmeno da un ufficiale. Mi consideravo un buon autista, e venire
rimproverato da un superiore che stimavo mi offendeva ancora di più. Mi
morsi la lingua, cosa rara in quei giorni. Mentre Mosley stava a guardare,
noi cominciammo a scavare per liberare le ruote del camion, disponendo
passerelle di metallo punzonato per dare trazione agli pneumatici, e presto
fummo di nuovo in viaggio.
Comunque generalmente non guidavo i camion. Qualcuno si era accorto
che avevo un talento per la meccanica, e spesso mi affidavano la guida dei
cingolati. I carri delle mitragliatrici Bren erano più agili: potevo tirarli fino
a quasi settanta chilometri orari e, malgrado l'ingombro dei cingoli e la
carrozzeria blindata, erano facili da manovrare. Bastava un minimo
spostamento del volante: girandolo a sinistra, si bloccava il cingolo sinistro,
che faceva da perno di rotazione, girandolo a destra, avveniva il contrario.
Qualche tempo dopo ci ritrovammo sul fianco di una collina sabbiosa.
Una lunga colonna di camion era ferma sul bordo ripido di un sentiero che
risaliva la scarpata, con i veicoli aggrappati lungo un lato del pendio.
Sull'altro si apriva uno strapiombo da far venire le vertigini.
Mike Mosley mi avvistò, seduto al volante del mio cingolato. «Fammi
passare in rassegna tutta la colonna, avanti e indietro», disse, salendo a
bordo e restando dritto in piedi al posto di comando. Evidentemente voleva
farsi vedere dalle truppe: forse si aspettava che scattassero tutti sull'attenti a
fargli il saluto militare. Era la mia occasione di dimostrargli che razza di
autista ero. Girai la chiavetta, e premetti il pulsante dell'accensione. Il
motore V-8 si mise in moto. Ingranai la marcia e mi avviai. Presi velocità,
costringendo Mosley a reggersi al bordo della carrozzeria per non perdere
l'equilibrio e vomitare la colazione, con lo sguardo fisso nel baratro.
Premetti a tavoletta l'acceleratore, tenendo gli occhi incollati alla stretta
mulattiera, con poco più di una spanna di margine ai due lati, mentre
Mosley sbiancava. La minima rotazione del volante avrebbe bloccato uno
dei cingoli, facendoci volare nel vuoto. Gli misi in corpo una bella fifa.
Alla fine della colonna feci manovra e, prima ancora che il polverone
dell'andata si fosse abbassato, ripetei l'operazione al ritorno. Quando scese,
riuscì appena a tirare fuori un «grazie» soffocato. "Così impari", pensai tra
me e me. Gli avevo impartito una lezione. Da quella volta non mi mancò
più di rispetto.
La Compagnia B era sotto il comando del visconte Hugo Garmoyle, e
fummo mandati avanti con il resto del battaglione. Preceduti dai blindati,
attraversammo il deserto verso Bengasi, il principale bersaglio
dell'offensiva. A mano a mano che ci allontanavamo dal mare, il paesaggio
diventava più brullo. A un'ottantina di chilometri nell'entroterra la
vegetazione era rada, il terreno arido e sassoso, con tratti di sabbie mobili
rossastre e qualche collinetta alternata a profonde depressioni dette nullah.
Era un piacere ritrovarmi al fianco di Les per la prima volta da quando
eravamo stati inviati nel "blu". In qualità di sergente, aveva il controllo del
cingolato. Era un comandante capace, e io godevo della sua fiducia.
Nemmeno le piaghe del deserto, la sbobba disgustosa e le notti insonni
avevano attenuato il suo buonumore. La sua mente era ancora
perfettamente vigile.
La sera del 23 gennaio, sulla strada per Mechili, i corazzati davanti a noi
furono coinvolti in un grosso scontro con gli italiani. Il nemico aveva
settanta carri armati, ma i nostri gli dettero del filo da torcere. Misero fuori
uso nove tank dei loro, ma il prezzo da pagare fu alto. Al nostro arrivo era
già tutto finito. Il deserto era costellato di blindati italiani esplosi, con pezzi
disseminati a destra e a manca. "Che Dio assista chi è rimasto là dentro",
pensai guardando i resti carbonizzati di un M13 italiano. La carrozzeria
blindata si era sciolta come burro. I passeggeri erano stati arrostiti.
Uno dei miei compagni si arrampicò su un M13 che a prima vista pareva
meno danneggiato. «O mio Dio, venite a vedere. Qui ce n'è uno vivo»,
gridò. Il nostro commilitone era in piedi al lato della torretta, si reggeva con
una mano al fusto tozzo, e fissava con occhi sgranati all'interno della
botola.
Mi issai appendendomi al cannone per dare un'occhiata. Nell'abitacolo
c'era il comandante del carro, ancora seduto. Gli intestini neri e cremisi gli
erano usciti dal ventre e gli si erano sparpagliati in grembo. Lui si muoveva
appena. Cercare di tirarlo fuori era impossibile. Avrebbe sofferto le pene
dell'inferno, e sarebbe morto comunque.
In un istante mi sentii riportato ai miei diciassette anni, nell'Essex. Ero a
caccia di fagiani con mio padre e i suoi amici. Camminavamo circondati
dai cani, che si lanciavano avanti e indietro nel sottobosco. Io ero contento
per quel clima tiepido e per la compagnia degli adulti. A un centinaio di
metri da noi intravidi un frullare di ali: un cane aveva fatto alzare in volo
un fagiano. Sollevai il fucile e sparai senza quasi prendere la mira,
accusando il rinculo sulla spalla. Vidi l'uccello ripiombare a terra, e
compresi di averlo ucciso. I cani mi riportarono la preda, e facendomi largo
tra l'erba alta io mi riunii al gruppo, reggendo il fagiano per la coda e
tenendolo alto in aria, con un sorriso orgoglioso stampato sulla faccia. Ma
bastò un'occhiata all'espressione di mio padre per capire che qualcosa non
andava.
«Ti credi bravo, vero?», mi chiese.
«Proprio così», risposi.
«Be', ti sbagli, te lo dico io. A quella distanza è stata solo questione di
fortuna».
Sapevo che non era il caso di contraddirlo.
«Sparando da così lontano avresti potuto ferirlo, ti sarebbe sfuggito e
avrebbe agonizzato per giorni e giorni. Adesso fuori dalla battuta».
Mio padre mi aveva sempre insegnato a rispettare le persone e gli
animali, ma la lezione impartita davanti a tutti quegli uomini mi aveva
umiliato. Naturalmente aveva ragione lui, ma fu un supplizio comunque.
Girai sui tacchi e me ne andai, pieno di vergogna.
Ora, tanti anni dopo, mi trovavo in piedi su un carro armato italiano a
guardare un soldato nemico, ridotto a un essere inerme e condannato alla
morte.
Grazie al cielo non lo vidi in volto, ma alzai la pistola e feci ciò che
ritenevo giusto. Il mio gesto fu riferito, e più tardi quello stesso giorno
dovetti presentarmi a rapporto da un ufficiale anziano. Seduto su una
catasta di cassette di legno, mi ordinò di raccontargli tutto per filo e per
segno. Ma era un veterano, e immagino che abbia capito. Non ci furono
conseguenze.
Quella notte decisi di non dormire sotto il cingolato, e scavai la solita
fossa per il sacco a pelo a una certa distanza dai veicoli, se pure ancora
all'interno del quadrato difensivo. Controllai le mie armi e mi coricai
insieme a tutti gli altri. Non eravamo un gruppo di commilitoni
cordialmente riuniti intorno al falò sotto il cielo del deserto, ma solo uomini
stanchi morti buttati sulla sabbia.
Nel deserto dormivo sempre con le orecchie tese. Al minimo fruscio
sospetto aprivo gli occhi, perfettamente sveglio e lucido. Le ripetute sortite
in campo nemico mi avevano reso vigile. Ormai sapevo per esperienza
quanto, di notte, fosse facile introdursi furtivamente nell'accampamento
altrui, aggirarsi nell'ombra, fiutare gli odori della cucina, persino sentire gli
uomini che, ignari del pericolo, intonavano 'O sole mio. Sapevo anche che
un soldato che si intrufola nottetempo nel campo nemico è nervoso, pronto
a uccidere per aprirsi una via di fuga. Disposto a fare ciò che avevo fatto a
mia volta.
Mi riscosse il suono desolante della pioggia. Tastai alla cieca la sabbia
umida e scura finché non sentii sotto le dita il metallo freddo e irregolare
delle granate, e mi tranquillizzai. Tenevo ancora la Beretta nella fondina
sotto il braccio, e la .38 a portata di mano. Pronto a ogni evenienza, scivolai
in uno stato di dormiveglia, ascoltando il ticchettio della pioggia e il russare
lontano dei compagni. Dopo un po' mi svegliai di nuovo, tremando,
sentendo addosso un peso sconosciuto. Il sacco a pelo era rigido, riuscivo a
muovermi a stento. Si era ghiacciato.
L'obiettivo successivo era Fort Mechili. Il nostro compito era introdurci
a cuneo nella linea di difesa, ma gli italiani ci sfuggirono. Le nostre mappe
erano approssimative, e i nemici se n'erano andati imboccando un tracciato
a noi sconosciuto. Dalla sera alla mattina avevano abbandonato l'intera
postazione, lasciandosi alle spalle mezzi e scorte. Ancora una volta
battevano in ritirata.
Quei lunghi tragitti a bordo di un cingolato non erano il massimo della
comodità. Erano privi di copertura, e l'equipaggio si trovava esposto alle
intemperie. In caso di scontro si poteva abbassare il sedile di guida per
ripararsi dietro la carrozzeria blindata, ma mentre si era alla guida eravamo
completamente allo scoperto, e lo spostamento d'aria sollevava la sabbia in
mulinelli, depositandola dappertutto. Eravamo nei pressi di Fort Mechili
quando, di punto in bianco, si levò un violento khamsin. A cena avremmo
mangiato carne e terra, come al solito.
Il convoglio fece una sosta e, prima ancora di girarmi sul sedile, mi
ritrovai accanto Eddie Richardson.
«Non ti lasceranno entrare allo Shepherd's conciato così, ragazzo mio»,
mi disse.
Sorrisi, aprendo crepe nella maschera di sabbia secca che mi copriva la
faccia. Scesi dal carro, scrollai con le mani la sabbia che mi irrigidiva i
capelli, bevvi un sorso di acqua aromatizzata alla cera e mi misi al lavoro. I
carri richiedevano una manutenzione continua, soprattutto su un terreno
roccioso. Cominciai controllando i perni di raccordo che collegavano
ciascun segmento dei cingoli. Un carro senza cingoli è un bersaglio facile,
quindi al minimo dubbio di tenuta li sostituivo. Con un grosso martello
inchiodavo il perno di ricambio spingendo fuori simultaneamente quello
danneggiato. La riparazione avrebbe retto per qualche altro chilometro.
Il 28 gennaio ci disponemmo a tenere la posizione e a verificare le
condizioni dei veicoli, e il resto della 2RB ci raggiunse qualche giorno
dopo. Si erano imbattuti in una certa resistenza da parte dell'aviazione
italiana; individuati i velivoli da ricognizione, erano scampati per un soffio
ai bombardieri. L'avanzata non era prevista per altre due settimane, e il
comando concesse una pausa alla brigata.
La realtà della guerra mandò all'aria questi piani. La pausa non sarebbe
durata più di due ore.
I camion avevano i cofani aperti, i ragazzi erano impegnati a lavarsi e a
radersi. Alcuni degli ufficiali erano partiti in licenza, o si preparavano a
farlo. Fu allora che uno dei pezzi grossi, il generale "Jumbo" Wilson, fece
la sua comparsa. La voce del suo arrivo si diffuse in un lampo. Doveva
esserci in ballo qualcosa di grosso. La RAF aveva avvistato lunghe colonne
nemiche che lasciavano Bengasi, e gli alti ufficiali ne avevano dedotto
correttamente che gli italiani stessero abbandonando tutta la zona,
rinunciando alla Cirenaica. Noi ci trovavamo distanti, nell'entroterra, al
centro di una lingua di terra che si estendeva verso nord nel Mediterraneo.
Gli italiani erano in marcia lungo la costa sinistra di quella propaggine. Tra
noi e loro c'erano 240 chilometri di deserto. Un'offensiva in forze avrebbe
sferrato un colpo decisivo ma, ci dissero in seguito, nemmeno una carovana
di cammelli si sarebbe azzardata ad affrontare quel tratto. Cercammo di
approfittare delle poche ore che avevamo prima della partenza per dormire
un po'.
Fu una corsa contro il tempo. Alle prime luci dell'alba i motori si
accesero borbottando e la colonna si mise in viaggio: una lunga fila di tank,
autoblindo, camion e carri da mitragliatrice, e grandi distanze tra loro per
evitare di venire spazzati via da un eventuale attacco aereo. Se l'intera
armata italiana si era davvero messa in marcia, ci saremmo comunque
trovati in netta minoranza anche riuscendo ad acciuffarli per bloccarne la
ritirata. Quei primi 130 chilometri furono un purgatorio. Il terreno era
accidentato, pieno di lastroni di roccia, crivellato di wadi e di sabbie mobili
nascoste. Se ci finivi dentro, rischiavi di restarci fino a Natale. I carri
armati come il mio superavano sobbalzando massi, fossati e dune,
minacciando costantemente di perdere un cingolo. Solo in quella parte di
tragitto dovetti rimpiazzare non meno di una dozzina di perni per far
avanzare il carro. La manutenzione era di importanza vitale. Senza gli
zoccoli il cavallo non cammina, punto e basta. Tutti i nostri veicoli avevano
un disperato bisogno di riparazioni. I blindati leggeri andavano
continuamente in avaria, e bisognava abbandonarli dov'erano insieme al
loro equipaggio, e pregare che qualcuno arrivasse a soccorrerli.
Ci si era messo anche il clima. I continui mulinelli di sabbia e polvere
azzeravano la visibilità, e ci imbattevamo di continuo in tempeste di
ghiaccio. I comandanti ne subivano le maggiori conseguenze, dato che
viaggiavano in piedi sul cassone dei camion come marinai nel deserto,
intirizziti fino al midollo. In breve le scorte di carburante scesero al livello
di guardia. Già in condizioni ideali i cingolati facevano otto chilometri con
cinque litri. Su un terreno simile arrivavano al massimo a due o tre, e tutti
quei sobbalzi aprivano falle nelle taniche di scorta. Quando i serbatoi dei
tank erano semivuoti, c'era il rischio che il residuo di sabbia sul fondo
venisse risucchiato nel carburatore e mandasse in blocco il motore.
Eravamo anche a corto di acqua: le razioni quotidiane si erano ridotte a un
bicchiere a testa.
Nei pressi di Msus, a un centinaio di chilometri dalla costa, la colonna
serrò le fila. L'appoggio aereo non aveva più apparecchi di scorta, ma un
unico Hurricane funzionante aveva avvistato un vasto dispiegamento di
veicoli italiani diretto a sud da Bengasi.
Arrivò un contrordine. I cingolati erano troppo lenti. In fretta e furia
venne organizzata una forza speciale di mezzi più veloci per spostarsi a
sudovest e tagliare la strada agli italiani. Duemila di noi vennero reclutati
nella Combe Force, sotto il comando del tenente colonnello John Combe
dell'11° Ussari. I carri restarono indietro, con l'ordine di raggiungerci
successivamente.
Afferrai le cartucciere e il mio sacco a pelo e salii sul cassone del camion
più vicino, lasciando tutto il resto sul carro. Alle 13 eravamo di nuovo in
marcia, e stavolta a una velocità più sostenuta.
Quando scese la notte fummo costretti a fermarci, perché gli italiani
avevano disseminato il nostro cammino delle cosiddette "bombe a
thermos". Erano cilindretti apparentemente innocui, e prendevano il nome
dalla somiglianza con i contenitori termici di bevande, ma a parte questo
avevano ben poco da spartire con un pic-nic. All'alba ci rimettemmo in
moto, procedendo secondo i piani per tagliare la strada al nemico a Sidi
Saleh, e a una velocità tale da mandare i motori in ebollizione. Il paesaggio
si faceva meno arido, con qualche macchia di vegetazione e lembi di terra
coltivata. Stavamo lasciando il deserto per inoltrarci in quello che ai tempi
dei romani era stato il granaio dell'Impero.
Durante una breve pausa, dal cielo sbucarono tre aerei da combattimento
italiani che aprirono il fuoco. Noi ci buttammo a terra, ma presto il rombo
dei loro motori si ridusse a un ronzio lontano. Non avevamo subìto danni,
ma la nostra posizione ormai era scoperta. Il piano di cogliere gli italiani in
contropiede era appena cominciato, e già ci eravamo bruciati l'effetto
sorpresa.
Nel primo pomeriggio, alle 14 circa, raggiungemmo il tracciato che
portava al villaggio diroccato di Beda Fomm. In un giorno e mezzo
avevamo coperto circa 250 chilometri, superando gli ostacoli peggiori che
il deserto potesse mettere sulla nostra strada. E da nord non si vedeva
ancora anima viva. Eravamo arrivati all'appuntamento prima degli italiani
ma, come scoprimmo presto, il nostro anticipo era minimo.
La strada si snodava attraverso un terreno roccioso, con basse dorsali che
si estendevano da nord a sud. A un paio di chilometri da noi si vedevano il
mare e le dune della costa. Cominciammo a disporre l'artiglieria lungo i due
lati della strada. Il capitano Tom Pearson era al comando, e diede l'ordine
di preparare un campo minato. Avemmo appena il tempo di prendere
posizione prima di avvistare il pieno dispiegamento delle forze nemiche.
Una brutta sorpresa aspettava gli italiani che sbucarono all'orizzonte.
Convinti che la prima postazione alleata si trovasse ad almeno 160
chilometri di distanza, credettero che quelli davanti a loro fossero veicoli
amici finché i nostri non aprirono il fuoco. Dev'essere stato uno shock.
Uscirono di strada, cercando di levarsi dalla linea di tiro, poi iniziò lo
scontro vero e proprio. La loro superiorità numerica era schiacciante, ma
fortunatamente noi non lo sapevamo. Lanciarono una serie di attacchi
forsennati, e noi rispondemmo colpo su colpo, ma alle loro spalle lo
schieramento continuava a infittirsi.
Nel tardo pomeriggio fummo raggiunti dalla nostra divisione corazzata,
che partì verso nord all'attacco della nostra posizione, centrando la colonna
italiana proprio nel mezzo. Al crepuscolo si vedevano dappertutto i veicoli
nemici che bruciavano, e noi avevamo già fatto migliaia di prigionieri,
eppure non smettevano di arrivare. Ciò che non sapevamo era che "baffetti
elettrici" si trovava nella colonna, e aveva dato ordine di sfondare il blocco.
Avrebbe dovuto riuscirci, visto che il terreno piatto e completamente
sgombro ai due lati del nostro sbarramento favoriva le forze più numerose.
Ma le nostre consegne parlavano chiaro: bisognava impedire a ogni costo
che gli italiani coprissero la distanza tra la strada e il mare.
Tom Pearson era uno dei nostri ufficiali migliori, e capì che bisognava
giocare d'astuzia: c'era un solo modo per evitare che gli italiani ci
aggirassero, ed era dar loro l'impressione che le forze alleate fossero ben
più numerose di quanto erano in realtà. Quando calò il buio, ordinò di
lanciare un'azione di disturbo lungo la colonna nemica.
Per la missione Mike Mosley scelse due plotoni, compreso il mio, e un
piccolo reparto di artiglieria. Fu un sollievo sapere che andavo in battaglia
sotto il suo comando. Mosley era un uomo enigmatico, figlio unico di un
vescovo e, prima della guerra, destinato a sua volta al sacerdozio. Era
dotato di una curiosità innata, di un autentico intuito strategico, e di un
coraggio assoluto in battaglia. Da quando gli avevo impartito la mia lezione
guidando quel carro, avevamo pareggiato i conti, e ora mi fidavo più di lui
che di qualsiasi altro superiore. Quella notte si sarebbe guadagnato la croce
militare al valore.
Bloccai l'alzo della mitragliatrice fissando la manopola laterale,
controllai che il caricatore ricurvo fosse in posizione, e mi issai sul cassone
del primo camion. Mosley salì al mio fianco, sfoderò il revolver, batté il
calcio sul tetto della cabina e ci avviammo nell'oscurità.
Doveva essere mezzanotte circa quando un rumore di motori ci avvertì
che un'altra colonna si stava avvicinando da nord. I miei occhi
cominciavano ad abituarsi al buio, e riuscivo a intravedere la sagoma dei
camion, dei tank e dell'artiglieria pesante a circa trecento metri. Ci saranno
stati più di duecento veicoli, una lunga fila che si perdeva nelle tenebre. Il
nostro numero era troppo ridotto per impedire la loro fuga, così adottammo
uno stratagemma.
Io ridussi l'alzo della mitragliatrice, calibrando il rinculo per evitare che
sollevasse la canna, guastandomi la mira. Per tirare dritto, bisognava
reggersi saldamente alla manopola laterale. Mosley indicò il bersaglio con
il revolver, e diede l'ordine: «Raffiche di cinque, al mio via».
La mitragliatrice Bren era abbastanza precisa a distanza ravvicinata. Le
fiamme inghiottirono il primo camion, e quelli alle sue spalle furono
illuminati dal bagliore arancione, facilitandoci il compito. In una manciata
di secondi vedemmo sagome scure allontanarsi a tutta velocità sulla sabbia.
La nostra artiglieria pesante cominciò a vomitare bombe sul nemico
mentre noi ci spostavamo lungo la colonna, fermandoci di tanto in tanto per
prendere la mira, più di frequente sparando in movimento. Alcuni dei miei
compagni avevano la tendenza a fare fuoco all'impazzata. Io non superavo
mai i cinque colpi in successione: uno preciso ne vale mille a vuoto. A
intervalli lanciavamo un razzo di segnalazione che rischiarava il campo
attraversando le tenebre con il suo arco luminoso.
La colonna nemica si estendeva per quasi cinque chilometri, eppure la
costringemmo ad arrestarsi. Giunti in fondo facemmo dietrofront, pronti a
portare altro scompiglio lungo la via del ritorno. Loro rispondevano al
fuoco, naturalmente, ma senza combinare granché.
Continuammo così per tre ore, facendo la spola avanti e indietro, finché
alcuni dei nostri mezzi cominciarono a dar segni di avaria, e fummo
costretti a rientrare alla postazione per ripararli. Scorte e munizioni erano
agli sgoccioli, e la visibilità era impedita da improvvise raffiche di vento
miste a scrosci di pioggia. L'artiglieria non poteva spostarsi perché tutto il
carburante rimasto era riservato ai blindati, e ad alcune mitragliatrici non
restava che una trentina di cartucciere.
Gli italiani resistevano. Lo stallo proseguì per tutto il giorno successivo,
con attacchi sporadici, reciproche sparatorie e da entrambi i fronti veicoli
distrutti, e gli equipaggi nascosti all'interno per cercare riparo. Durante un
raro momento di quiete, dal quartier generale arrivò un ufficiale della
nostra compagnia. Si era messo in testa che l'esigenza più impellente fosse
una mensa da campo, così fece alzare un grosso tendone bianco proprio
accanto a noi. Che imbecille. Era un bersaglio perfetto, e subito le bombe
italiane cominciarono a pioverci addosso. Ora il cuore della battaglia si era
spostato cinque miglia a nord, dove i nostri tank attaccavano i nemici lungo
la pista ai piedi della collina che noi chiamavamo il "brufolo". Noi
facevamo da tappo, eravamo il collo di bottiglia, e loro cercavano di far
saltare il sughero.
Le nostre forze erano sempre più disperse. Un gruppo di blindati italiani
puntò dritto contro il quartier generale del battaglione, e riuscimmo a
bloccarlo solo a poche centinaia di metri dall'obiettivo. Cominciarono a
sventolare le bandiere bianche, e a fine della giornata avevamo fatto
diecimila prigionieri, ma gli altri continuavano ad attaccare.
Da qualche parte sulle dune in prossimità del mare uno dei nostri
ufficiali di plotone, il sergente maggiore Jarvis, e il fuciliere Gillan
montavano da soli la guardia a cinquecento prigionieri. Videro due grossi
tank italiani in avvicinamento, e decisero di partire all'attacco: due uomini a
piedi contro i carri armati. I prigionieri, intravista una possibilità di fuga, si
unirono alla carica, e l'ufficiale italiano al comando della coppia di blindati,
perplesso, aprì la botola della torretta per cercare di vederci più chiaro.
Jarvis lo stese colpendolo alla testa con il calcio del fucile, poi sparò dalle
bocchette, e l'equipaggio si arrese. Gillan usò più o meno la stessa tecnica
contro l'altro carro, e riuscirono a catturarli entrambi. Per quell'azione,
furono insigniti entrambi di un'onorificenza al valore, ma quando un
ufficiale si congratulò con lui, Jarvis si limitò a rispondere: «Sì, l'azione è
andata bene, signore. Almeno per una volta io e il fuciliere Gillan ci siamo
conquistati un posto caldo dove passare la notte».
Nel buio sentivamo crescere il rombo del motore dei mezzi pesanti.
Qualcosa bolliva in pentola. Poco prima dell'alba li avvistammo. Un grosso
dispiegamento di forze guidato da trenta tank si stava avvicinando allo
sbarramento, dove si aprì a ventaglio come per circondarlo. Fu il loro
ultimo tentativo, e quando si scagliarono all'attacco delle nostre prime
postazioni, per un momento sembrarono avere la meglio. I nostri compagni
non poterono fare altro che arretrare. Ci restavano undici mitragliatrici
anticarro, e quando aprirono il fuoco i cingolati le presero di mira. Dicono
che alla fine ne rimase in funzione una sola, che con gli ultimi cinque
caricatori mise fuori combattimento altrettanti blindati. Forse è
un'esagerazione, ma io ero testimone, e vidi con i miei occhi l'ultimo
blindato italiano arrivare a venti metri dal nostro quartier generale prima
che riuscissimo a fermarlo.
Dopo i corazzati fu il turno della fanteria, e a quel punto si sentivano
distintamente i nostri tank in arrivo da nord. Lungo tutto il tracciato si
levarono le bandiere bianche, e i soldati italiani cominciarono a fare
capolino, molti di sicuro felici che fosse finita. Io tenni il dito sul grilletto.
La situazione poteva ancora riservare qualche brutta sorpresa. In seguito
venimmo a sapere che un soldato nemico si era arreso, ma poi aveva
aggredito un ufficiale con un'accetta. La prudenza non era mai troppa.
D'un tratto avvistammo un uomo che procedeva a piedi lungo la colonna,
tra camion carbonizzati e tank orrendamente sventrati. Al suo passaggio,
sempre più italiani alzavano bandiera bianca. Girano molte versioni diverse
dell'accaduto, ma io lo rivedo ancora adessso, con il lungo mantello
svolazzante, aperto sul davanti. Di tanto in tanto il sole accendeva dei
bagliori dorati sulle mostrine e medaglie che gli coprivano il petto. Il
generale Annibale Bergonzoli, "baffetti elettrici" in persona, si stava
consegnando al nemico. Era riuscito a sfuggirci a Bardia e a Tobruk, ma
adesso era nelle nostre mani, insieme a un drappello di altri generali.
Mentre il suo mantello svolazzava, notai che teneva ancora infilata nella
cinta una piccola automatica con il calcio in avorio. Avanzai di un passo, e
con un cenno indicai la pistola. Lui mi fissò spavaldo; aveva capito
benissimo cosa volevo. Senza esitare, batté il palmo destro su quell'arma
minuscola, e poi fece segno di no con un dito. Il messaggio era chiaro. Non
avrebbe consegnato né la pistola, né se stesso, se non a un ufficiale di grado
superiore. Io mi feci da parte e gli indicai dove andare. Credo che alla fine
sia stato il capitano Tom Pearson a disarmarlo.
E quella fu la battaglia di Beda Fomm. In appena un paio di mesi
avevamo fatto centotrentamila prigionieri. La nostra corsa a perdifiato nel
deserto ci aveva permesso di mettere fuori combattimento l'intera 10ª
Armata italiana, ma nel nostro campo nessuno esultava. Provammo solo
sollievo.
Due giorni dopo il cessate il fuoco mi avventurai tra le lamiere contorte e
le carcasse sventrate dei veicoli. Quel pericolo che mi aveva tenuto vigile e
concentrato durante gli scontri era svanito. La sabbia era disseminata di
corpi sfigurati sui quali cominciavano già ad addensarsi nugoli di mosche.
Arti mutilati erano sparpagliati per un ampio raggio, dilaniati dagli
esplosivi o persino dalle raffiche concentrate delle mitragliatrici. Alcuni
italiani feriti stavano appoggiati su strane formazioni rocciose, simili alle
assi di una staccionata. In tutta la zona c'era un solo albero. Gran parte dei
feriti era già stata portata via, ma qualcuno rimaneva ancora a terra, troppo
debole per lamentarsi. Era uno spettacolo agghiacciante.
Immagino che ciascuno reagisca a suo modo di fronte a situazioni del
genere. Mi imbattei di nuovo in Mike Mosley. Il grande eroe di guerra
camminava a capo chino tra le dune di sabbia, fissando il terreno.
Raddrizzò la schiena e mi raggiunse.
«Indovina un po', Avey», disse. «Ho trovato non meno di dodici specie
di fiori selvatici solo in questo minuscolo fazzoletto di sabbia.
Straordinario!».
Capitolo 5
Malgrado il bombardamento subìto dagli italiani durante lo scontro,
avevamo preso parecchie armi e veicoli intatti. Venni incaricato di stilare
un rapporto di tutti gli equipaggiamenti nemici ancora recuperabili. In
quell'ultima colonna in fuga c'erano alcune automobili private, con le
carrozzerie rese opache da un fitto strato di polvere. Trovammo persino
delle corriere, adibite al trasporto di prostitute dai bordelli italiani di
Bengasi. Le donne furono rispedite da dove erano venute insieme al resto
dei civili, con gran disappunto di alcuni dei nostri ragazzi.
In seguito, Bergonzoli avrebbe sostenuto che parte della sua sconfitta era
da attribuirsi all'intralcio di quella massa di civili, composta da oltre mille
individui. Una scusa ridicola. Almeno ebbe la decenza di ammettere il
contributo di quella che definì «l'ottima capacità di tiro della Brigata
Rifle».
È sorprendente quello che si recupera su un campo di battaglia. Mi
imbattei in una splendida serie di cappelli con coccarda, ciascuno con la
sua guarnizione di piume. Ai generali non servivano più, e ne tenni uno per
me. Rinvenni anche un set di strumenti chirurgici di ottima fattura, con i
bisturi ancora incrostati di sangue essiccato, e conservati in una valigetta di
cuoio cucita a mano. Ma ciò che mi interessava davvero era l'acqua. Le
nostre razioni erano ancora insufficienti, e io ero terribilmente assetato.
Mi cadde lo sguardo su un gruppo di camion ancora quasi intatti. Erano
carichi di centinaia di casse di legno, alte circa settanta centimetri e larghe
venti. Il pensiero che potessero contenere qualcosa da mangiare o da bere
rianimò di colpo sia me sia il ragazzo che mi accompagnava. Saltammo sul
primo camion. «Forza, datti da fare», dissi. «Sfodera la "spada"».
Bucammo con le baionette le assi di legno, restando subito delusi. Niente
bottiglie, né scatolette, solo carta stampata. Il mio compagno sollevò del
tutto il coperchio. «Santo cielo, guarda che roba», esclamai io. La cassa era
stipata di migliaia e migliaia di banconote italiane nuove di zecca.
Stessa solfa per la seconda, la terza, e così via, all'infinito. I camion
appartenevano al reparto amministrativo e contenevano la paga di un
esercito intero, ma per noi quei milioni non avevano alcun valore. Scoprii
in seguito che al Cairo il cambio era di 600 lire per sterlina, ma io avrei
volentieri barattato tutto il carico per un paio di bottiglie di acqua potabile e
un po' di sbobba decente.
Feci rapporto, e me ne lavai le mani. Gettammo un paio di casse sul retro
di un furgone, e non ci pensammo più. Di tanto in tanto, alcuni dei ragazzi
usavano le banconote per accendere le sigarette, o se ne portavano una
manciata dietro una duna, da usare come carta igienica, ridendo sotto i baffi
mentre si accucciavano. Trattate in quel modo, forse nemmeno al Cairo le
avrebbero più volute. Fummo più felici per la passata di pomodoro e purè
in scatola che recuperammo in seguito. Quelli almeno erano commestibili.
Per giorni aspettammo l'arrivo da nord di una colonna che ci desse il
cambio, poi finalmente giunse l'autorizzazione a procedere verso Bengasi,
nella speranza di incontrarla a metà strada. Quando partimmo, le due casse
di banconote erano ancora sul furgone.
Viaggiammo per oltre centodieci chilometri, intravedendo di tanto in
tanto il luccichio del mare, l'unico indizio che non tutto il mondo era fatto
di sabbia e polvere. Alla periferia di Bengasi restammo bloccati in un
ingorgo stradale. D'un tratto sopra il baccano di motori e clacson risuonò
uno sparo, subito seguito da un altro e dal rumore metallico dei proiettili
che rimbalzavano. C'era un cecchino appostato da qualche parte. Feci
subito inversione, battendo in ritirata, e continuai a guidare fino a trovarmi
fuori tiro, proprio davanti a un elegante bar.
A quel tempo non avevo una grande predilezione per l'alcol, ma con la
gola riarsa c'era poco da fare gli schizzinosi. Eravamo in cinque, e
portavamo con noi una cassa piena di lire.
Non vedevo un posto tanto bello dai giorni passati al Cairo, un salone
fresco e arieggiato lungo almeno trenta metri e largo dieci. Pareti e soffitto
erano rivestiti di specchi istoriati in modo elaborato. Su tutto un lato si
estendeva un imponente bancone di marmo, gremito di avventori.
Al nostro ingresso una donna emise un grido soffocato, e il resto della
clientela restò pietrificata. Ci fissavano tutti, terrorizzati. Bastò un'occhiata
alla parete di specchi per capirne il motivo. Il deserto e la battaglia avevano
ridotto le nostre uniformi a un ammasso di stracci luridi; sembravamo
predoni pronti a rapinare il locale.
Non ci lasciammo scoraggiare, e due compagni andarono di filato a
controllare che nelle cucine e nel retrobottega non si celasse nulla di
sospetto. Non più di dieci minuti prima eravamo finiti nel mirino di un
cecchino, e non intendevamo correre altri rischi. Dato il via libera, ci
dirigemmo a un tavolo che gli occupanti si affrettarono a sgomberare.
Sedemmo sulle poltroncine di metallo lucidato, tenendo d'occhio l'ingresso.
Un tizio basso si avvicinò con cautela, e disse in italiano qualcosa che
non compresi. Dimostrava una quarantina d'anni, portava baffi neri
curatissimi e una giacca bianca. Doveva trattarsi del padrone.
«Da bere per tutti», dissi, indicando un bicchiere e poi facendo un ampio
cenno verso la sala. Lui capì al volo, e rispose con uno schiocco di dita e
qualche parola in italiano. Servirono bevande a tutti i tavoli, comprese le
birre al nostro, e tra gli avventori la tensione si allentò, almeno nei limiti
del possibile, considerata la presenza di un manipolo di soldati nemici,
reduci dalla battaglia, e allegramente seduti a bere dentro il locale.
Gran parte della clientela era composta da civili italiani, e il loro era un
nervosismo giustificato. Erano reduci dell'evacuazione di Bengasi, e molti
avevano assistito allo scontro con il quale la nostra offensiva li aveva
rispediti al mittente.
«Sapete una cosa?», dissi ai ragazzi, dondolandomi sulla sedia. «Con
quello che abbiamo nella cassa potremmo comprarci tutto il bar».
Sui loro volti si fece largo un sorriso. Stavamo ritrovando il senso
dell'umorismo, dopo tanti mesi di privazioni. Piazzammo la cassa sul
bancone, e chiamammo il titolare.
«Quanto costa?», domandai con un sogghigno, indicando la sala. Lui mi
guardò, perplesso. Ritentai parlando più lentamente, e gesticolando in
modo esagerato.
«Vogliamo comprare il suo locale, in blocco: tavoli, sedie, tutto quanto.
In lire. Quanto?». Ancora non capiva.
Sfoderai la baionetta, e lui trasalì. Con la punta feci saltare il coperchio
della cassa, e gli indicai il contenuto. «Guarda: banconote, la vostra valuta.
Lire, un mucchio di lire».
Lui sgranò gli occhi: la cosa si faceva interessante. Per noi era solo carta
straccia, ma l'uomo con i baffi cominciava a intravedere un'opportunità.
Bastò una mezz'ora perché la voce girasse e, non volendo rischiare guai,
decidemmo di levare le tende. Il padrone e la sua famiglia se l'erano filata
prima ancora di noi, portandosi appresso la cassa piena di lire. Non ho
dubbi che ci avesse fatto un prezzo vantaggioso, e mi dà ancora una certa
soddisfazione sapere di essere proprietario di un immobile in Libia.
Tornammo al caos ordinato del battaglione. I ragazzi erano convinti che
avremmo dovuto sfruttare il vantaggio per avanzare fino a Tripoli, ma i
vertici la vedevano diversamente, e cominciarono a organizzarci per la
ritirata. Non avevano torto, considerate le condizioni pietose di gran parte
dei nostri veicoli. L'intera 7ª Divisione corazzata aveva un bisogno
disperato di una revisione meccanica.
Dormivamo ancora sugli allori di quella clamorosa vittoria quando in
cielo apparve un presagio. Il 12 febbraio, alle 6:30 del mattino, una
pattuglia di ricognizione avvistò un bombardiere che volava ad appena
venti metri da terra. Scaricò parecchie bombe per poi sparire all'orizzonte.
Non si era trattato di uno di quei goffi Savoia. Era un Junkers Ju 88, con la
croce uncinata sulle ali. Era arrivata la Luftwaffe. Quello stesso giorno
Rommel atterrò a Tripoli per assumere il comando della guerra nel deserto,
e i tedeschi cominciarono a radunare una nuova forza d'attacco, l'Afrika
Korps. Non avremmo più avuto vita tanto facile.
La mattina del 21 febbraio, con un preavviso di meno di ventiquattr'ore,
fummo rispediti al Cairo via Tobruk. Io ero con Charles Calistan.
Sembrava passata un'eternità da quanto ci eravamo avventurati insieme nei
vicoli del Cairo, e adesso avevamo entrambi le mani sporche di sangue. Si
procedeva lentamente. Ci avevano ordinato di guidare in formazione,
tenendo gli automezzi a intervalli di cento metri, e senza mai superare i
quaranta chilometri orari, che scendevano a venti nei punti più accidentati.
Tom "Dicky" Bird era il fidato navigatore del battaglione. A bordo
disponevamo di razioni di cibo e acqua per due giorni, ma il tragitto fu
molto, molto lungo. Quando lungo la strada incontravamo veicoli in panne
non li lasciavamo sul posto. Era un lusso che non potevamo permetterci.
Tutto l'equipaggiamento doveva arrivare a destinazione, anche a costo di
trainarlo.
Al secondo giorno di viaggio sentimmo un boato spaventoso. Uno dei
cingolati si era imbattuto in qualcosa. Avvicinandoci alle lamiere contorte
distinguemmo un soldato dell'equipaggio, ma pareva già morto. Un altro si
dimenava a terra in preda al dolore, lanciando grida altissime. Era George
Sherlock, un compagno di battaglione un po' più grande di me, e a sua volta
un pugile dilettante. D'istinto avremmo voluto accorrere in suo aiuto, ma se
il carro era finito su un campo minato si rischiava una strage. Per giunta,
concentrarci tutti nello stesso punto faceva di noi un facile bersaglio. Per
non mettere in pericolo altre vite, prima di soccorrere i feriti bisognava
accertare esattamente la causa dell'esplosione. Ci avvicinammo con cautela,
gridandogli di tenere duro, ma le sue urla si facevano sempre più disperate.
Avevamo temuto che fosse saltato su una mina, o incappato in una
trappola, ma alla resa dei conti l'ordigno si rivelò un "thermos" piazzato là
quindici giorni prima. Malgrado perdesse molto sangue, George aveva
ancora la forza di gridare, e questo era un buon segno. Una gamba era
maciullata, e un braccio quasi nelle stesse condizioni. Non avrebbe tirato di
boxe per un bel pezzo. Quando però io feci per raggiungerlo, cominciò a
dimenarsi come un forsennato.
«No! No! Tenetemi lontano Avey», strillava, così mi arrestai. Ero
sconcertato. Per quale motivo rifiutava il mio aiuto?
«Non fatelo avvicinare, quello mi spara, ne sono sicuro, mi spara!».
Evidentemente aveva saputo del comandante del carro armato italiano.
Era in preda al panico, e sanguinava molto, ma la sua paura mi aveva
legato le mani. Per non peggiorare le cose, lasciai che fossero gli altri a
occuparsi di lui, ma quelle parole mi rimasero impresse.
A Tobruk, dove consegnammo i mezzi nemici che avevamo preso, lo
trasportammo in un ospedale. Poi scambiammo i nostri camion con altri
dieci per l'ultimo tratto di strada che ci separava dal Cairo. Quella sera,
Tobruk subì un pesante bombardamento; la presenza dei tedeschi si faceva
sentire, eccome. Ebbero la gentilezza di includere anche noi nel loro
itinerario, e sulla via di casa ci lasciarono cadere addosso qualche ordigno.
Io ho sempre amato la velocità, e fui felice di scoprire che su un
rettilineo i nostri camion riuscivano a raggiungere punte di trenta
chilometri orari, ma al tempo stesso mi sentivo debole. I mesi di tensione,
fatica e scontri che mi pesavano sulle spalle avevano abbassato le mie
difese, e mi ero ammalato.
Il pomeriggio del 28 febbraio arrivammo sani e salvi a Mena, alla
periferia del Cairo, dove la nostra avanguardia stava già allestendo un
campo. Il riparo di tende e baracche di legno era un lusso, ma io non ne
godetti a lungo: una malattia misteriosa mi costrinse al ricovero in
ospedale. Mentre mi rigiravo nel letto, febbricitante e madido di sudore, gli
altri battezzavano le nuove uniformi sotto i colpi di una violenta tempesta
di sabbia.
Poco lontano, l'aviazione tedesca bombardava il Canale di Suez. Il 2RB
doveva presidiare i margini del canale, e individuare i punti di caduta delle
mine. Una sera il comando fece tendere una rete sul pelo dell'acqua, così
che al mattino si potessero localizzare le mine in base agli squarci che essa
presentava. Per dimostrare tale principio alla luce del giorno, un aereo
decollò, e scaricò alcuni ordigni a salve. Ma, per lo sconcerto generale, d'un
tratto gli apparecchi in volo diventarono due. I soldati a terra impiegarono
un po' a capire che il secondo era tedesco, e che la sua era una mina vera e
propria.
Io non vidi accadere niente di tutto questo. Gli agi del nuovo
accampamento si erano rivelati un'arma a doppio taglio. Non sapevamo che
i muri di fango e mattoni eretti per proteggere le tende dalle schegge delle
esplosioni fossero un vivaio ideale per i flebotomi. Appena scendeva la
notte, si radunavano in sciami per darci il tormento. Io ero già debilitato,
così mi beccai la cosiddetta febbre da pappataci: temperatura altissima, mal
di testa, crampi dappertutto, bruciore agli occhi... una sintomatologia da
manuale, aggravata, secondo il medico, da un'infiammazione di fegato e
milza. Ci sarebbe voluto del tempo per rimettermi in piedi. Quell'estate la
febbre fu endemica, e si riuscì a debellarla solo quando il comando si
decise a disinfestare il campo spruzzando DDT a tappeto.
Rimasi ricoverato a lungo. Il battaglione sostò nella zona del Cairo fino
alla fine di aprile, ma a quel punto la guerra del deserto aveva preso un'altra
piega. Gli australiani e i neozelandesi vennero distaccati per combattere in
Grecia, e le forze rimaste, con il loro equipaggiamento male in arnese,
furono costrette a ripiegare. In breve l'Afrika Korps di Rommel si era
impadronito del deserto, e noi ci ritrovammo al punto di partenza. In aprile
Rommel diede l'assedio a Tobruk, poi attraversò il confine egiziano al
valico di Halfaya e il 2RB venne inviato di nuovo nel deserto ad affrontare
i panzer.
Cominciò malissimo. Rommel resistette all'offensiva, respingendo gli
Alleati fino a Buq Buq. Fu là che, raggiunti i miei compagni, venni a sapere
che Montagu Douglas Scott, l'ufficiale che stimavo tanto, era morto ad
Halfaya, lo stesso posto dove lo avevo accompagnato appena pochi mesi
prima. Si era di nuovo imbattuto in un khamsin che gli aveva impedito di
vedere quanto si fosse avvicinato al nemico, e questa volta non ce l'aveva
fatta. Fu il primo ufficiale del mio battaglione a cadere nel deserto.
Buq Buq sorgeva sul mare e, quando in quattro o cinque ottenemmo il
permesso di farci un bagno, non ce lo facemmo ripetere due volte. La
spiaggia era magnifica, una baia intera di sabbia bianca e finissima, cotta e
consumata dal sole, a perdita d'occhio. L'acqua era di un profondo color
turchese, e agitata da cavalloni enormi che si sollevavano spumeggiando
per poi infrangersi con una potenza brutale.
Ci stavamo asciugando, scherzando tra di noi, quando sentimmo delle
grida di aiuto. Impiegammo un po' a individuarne la fonte: un uomo in
evidente difficoltà si dibatteva disperatamente tra le onde, a più di cento
metri dalla riva. La corrente lo trascinava in mare aperto.
Dopo essermi goduto il tuffo in acqua salata, io mi ero già rivestito. Mi
levai di nuovo gli abiti di dosso e corsi lungo la battigia, per cercare di
localizzarlo meglio. Strizzai gli occhi nel riverbero di cielo e mare. Lo
schianto dei cavalloni era assordante.
Quell'uomo non era solo, là fuori. A una quindicina di metri alle sue
spalle, un'altra sagoma spuntava sulla cresta delle onde per poi sparire di
nuovo, rischiando ogni volta di non riaffiorare più. Mi precipitai in acqua,
superando a balzi le onde più basse e facendomi coraggio per proseguire.
Quando il fondale si abbassò di colpo cominciai a nuotare controcorrente.
Raggiunsi il primo uomo, e riuscii a trascinarlo verso terra. Arrivati a un
punto dove si toccava, alcuni dei miei compagni mi aiutarono a portarlo a
riva.
Non ero nemmeno sicuro di averlo salvato; il suo corpo inerte non dava
segni di vita. Dalla stanchezza avrei voluto gettarmi anch'io a terra al suo
fianco, ma mi resi subito conto che nessun altro sapeva come intervenire.
Per coincidenza, durante la lunga traversata da Liverpool avevo occupato il
tempo prendendo lezioni di primo soccorso. Mi costrinsi a reagire e
cominciai a fargli la respirazione, sentendomi i polmoni scoppiare per lo
sforzo. In breve dalla sua bocca uscì un fiotto d'acqua.
Rivolsi la mia attenzione al secondo sconosciuto rimasto in mare, ma lui
era sparito. Quello che avevo salvato era un ufficiale della Royal Artillery.
Ora aveva ripreso coscienza, e respirava. Fu Eddie Richardson a fare
rapporto. Credo che ci tenesse a informare gli alti ranghi della mia impresa.
Era fatto così.
Il comandante venne a cercarmi proprio mentre un khamsin si abbatteva
sul battaglione. La nostra unità fu spazzata da un muro enorme di sabbia
rovente che si insinuava dappertutto. Non si vedeva a un palmo di naso, e
molti di noi si era avvolti una coperta intorno alla testa. Per ripararmi
dall'aria incandescente, io mi ero bendato anche naso e bocca, risultando
talmente irriconoscibile che all'arrivo del comandante, a sua volta con il
volto protetto da una sciarpa, un compagno dovette additarmi.
«Dicono che ti sei reso utile sulla spiaggia, Avey. È così?»
«Sì», risposi, abbassando per un secondo la benda.
«E hai salvato un pezzo grosso, per giunta».
«A quanto pare».
«Ovviamente di riconoscimenti ufficiali non se ne parla nemmeno»,
proseguì lui, ormai costretto a urlare. «Questo lo capisci, vero?»
«Certo».
«Però una cosa posso farla. Serve qualche uomo in più per scortare i
prigionieri in Sud Africa, quindi fai fagotto: sei in partenza».
«Come, adesso?»
«Sì, adesso. Comportati come si deve e potresti vedere la fine della
guerra. Mi sono spiegato?».
Non ricordo cosa risposi, e lui sparì subito, svanendo con le altre ombre
nella tempesta. A me non sarebbe affatto dispiaciuto rivedere il Sud Africa,
ma il destino mi giocò un brutto tiro. Mi ero ammalato di nuovo. La testa
mi pulsava, mi dolevano tutti i muscoli.
Mentre il khamsin imperversava ancora, partii per il Cairo a bordo del
primo convoglio di camion di rifornimento, con un'emicrania che mi
spaccava la testa e la faccia ancora bendata per proteggere naso e occhi
dalla sabbia. Con me c'erano altri due ragazzi, e in breve mi ritrovai
accasciato sul cassone del camion, sballottato dalla tempesta che ci
aggrediva da fuori, e da quella che mi martellava dentro il cranio. Ero
febbricitante: questa volta era malaria.
Grazie al cielo la febbre mi levò le forze. Di quello che accadde in
seguito non ricordo niente: fu uno dei miei compagni a raccontarmelo.
Avevo già fatto esperienze terribili in guerra, e non so quale di queste tornò
a tormentarmi sul rigido giaciglio offerto da quel cassone, fatto sta che nel
delirio venni colto d'un tratto da un attacco di panico. Mi avventai su uno
dei miei compagni, cercando di strappargli il revolver, convinto che da ciò
dipendesse la sopravvivenza di tutti noi. Per fortuna riuscirono a
immobilizzarmi.
Mi trasportarono d'urgenza a un ospedale da campo. Persi la cognizione
del tempo, e credo di essere rimasto ricoverato più di due settimane. Le
infermiere erano fantastiche, il chinino disgustosamente amaro. Non
ricordo altro, a parte i bombardamenti, naturalmente. Ce ne furono in
abbondanza durante la mia convalescenza e, quando si ha come unico
riparo il telo di una tenda, fanno davvero paura.
Comunque me la cavai, e feci ritorno alla brigata. Non molto tempo
dopo la mia guarigione, ero seduto sotto la tenda della mensa a fare
colazione quando venni riconosciuto da un ufficiale d'ordinanza: «Che
diavolo ci fai qui, Avey? Dovresti essere in Sud Africa».
Io avevo dato per scontato che il mio attacco di malaria avesse mandato
all'aria quel piccolo progetto di evasione ma, prima che avessi il tempo di
fornire spiegazioni, l'ufficiale si dileguò. Tornò un paio d'ore dopo. «Ok, è
tutto risolto. Ti ho trovato un posto su una nave, prendi la tua roba e fila
subito al porto. Servono due uomini, quindi puoi sceglierti un compagno,
però sbrigati».
Scrutai gli uomini seduti ai tavoli di legno, e mi cadde lo sguardo su Bill
Chipperfield, uno dei miei compagni di cabina a bordo dell'Otranto. Bill
era buono come il pane, e mi sembrò il candidato ideale.
Ci accompagnarono al porto con un furgone. Io avevo la barba lunga,
l'uniforme lurida e macchiata d'olio del motore, e quando vidi su quale
nave avremmo viaggiato mi sentii davvero fuori posto. Era la celebre Île de
France, una delle navi di punta della flotta da crociera francese, requisita
dall'ammiragliato inglese dopo la caduta di Parigi. I suoi tre fumaioli
svettavano alti, fiancheggiati da ampi ponti di passeggiata, ma la livrea
bianca e nera che un tempo ne metteva in risalto le linee eleganti era sparita
sotto una patina di vernice grigia da incrociatore.
La nave era stata famosa per il suo arredo art déco, con tanto di quadri,
sculture, bar in stile parigino, piscine e palestre. Adesso era addetta al
trasporto delle truppe, e tuttavia conservava ancora tracce della raffinatezza
e grandiosità di un tempo.
«Vi hanno assegnato una suite in prima classe», annunciò il marinaio che
ci fece strada. Non stava scherzando: il nostro era un appartamento di lusso
galleggiante.
Nell'aria sembrava di sentire il profumo delle parigine dell'alta società;
pareva quasi di vederle cambiarsi d'abito per cenare in una delle sale
ristorante più esclusive, e poi uscire a passeggiare sul ponte nelle loro mise
impeccabili.
In quell'ambiente, sentivo prudere ancora di più la sabbia che incrostava
e induriva la mia uniforme. Giunto in cabina, sfiorai con le mani callose le
lenzuola morbide del letto. Sembrava un sogno a occhi aperti. Le piaghe
del deserto che mi coprivano le braccia ora parevano più una fonte di
imbarazzo in società che una medaglia al valore.
Sentii un colpo di tosse. Alzai lo sguardo, trovandomi davanti non uno,
ma due camerieri indiani.
«È tutto di suo gradimento, signore?»
«Sì, tutto perfetto», riuscii a balbettare a stento. Da mesi ormai ricevevo
solo ordini, con ben poca possibilità di scelta e nessuna comodità. Adesso
avrei avuto di che compensare quella mancanza.
«Ha tutto ciò che le serve?»
«Ciò che mi serve? Sì, tutto».
«Ottimo». Ma ancora non sembrava convinto. «A che temperatura
gradisce l'acqua della vasca?».
Le labbra mi si allargarono in un sorriso amaro.
A bordo c'erano centinaia di prigionieri italiani, e il nostro compito era
fare la ronda nei corridoi del loro settore, per evitare che scoppiassero risse,
o peggio, ammutinamenti. Rimasi scandalizzato quando mi dotarono di un
fucile italiano. "Possibile che non abbiano di meglio?", pensai, "i nostri
Lee-Enfield erano i migliori fucili in circolazione". Ma gli italiani erano
felici di trovarsi fuori della mischia, e non avevano un atteggiamento ostile.
Dopo il deserto, mi sembrava tutto perfetto. A volte mangiavamo al
tavolo del capitano. Erano secoli che non vedevo pane bianco. Per la verità,
nel deserto di pane non ce n'era proprio.
A Durban altri addetti si incaricarono dello sbarco dei prigionieri, e noi
andammo a fare rapporto alla vicina base di Clarewood. La prima parte del
nostro lavoro era finita.
A quel tempo in Sud Africa si respirava un'aria irreale. Io ero deciso a
guardarmi un po' in giro, e puntai sul Navy League Club, un bell'edificio in
stile coloniale con un lungo bar al fresco. La sala era piena di musica e
gremita di gente normale, persone che non vedevano la morte in faccia ogni
giorno. In molti ci si accalcarono intorno, chiedendoci del deserto.
Trattavano me e Bill come piccole celebrità. La cosa cominciò presto a
darmi sui nervi, ma almeno si poteva bere una buona tazza di tè e mangiare
del pane decente.
Incontrai una ragazza adorabile. Si chiamava Joyce e lavorava come
direttrice della Stinkwood Furniture Company, una fabbrica di mobili in un
legno pregiato che prendeva il nome dal suo pessimo odore quando veniva
tagliato4. Joyce volle presentarmi ai genitori, e dopo un paio di visite la
famiglia mi invitò a soggiornare in casa invece che nell'acquartieramento
militare. Non era un fatto insolito: anche altri compagni erano riusciti a
farsi ospitare dalle famiglie sudafricane, e la gran parte di loro, compreso
Bill, se la passava alla grande. I Merrit abitavano in un appartamento
spazioso, affacciato sul viale costeggiato di palme che portava
all'Esplanade.
Era una bella vita, e la guerra mi sembrava lontana mille chilometri.
Joyce mi piaceva, e oggi credo che l'avrei potuta definire la mia ragazza. Di
certo passavamo molto tempo insieme. Da velista provetta, mi portava in
barca al largo della costa, dove si tuffava a nuotare come un pesce,
talmente sicura in acqua da non fare una piega nemmeno quando
suonavano le sirene di allarme antisquali. Aveva grinta da vendere.
Il mio lavoro mi teneva occupato al massimo mezz'ora al giorno. Non
dovevo fare altro che ritirare un registro con i numeri dei prigionieri a
Clarewood e consegnarlo al quartier generale di Durban. Era bello vivere
con la famiglia di Joyce. Andavamo al cinema accompagnati da una
macchina con autista, e guardavamo il film su poltrone in stile Lloyd
Loom, con un cocktail in mano e una cameriera al nostro servizio.
Joyce aveva qualche giorno di ferie arretrate e, sapendo quant'ero stufo
di rispondere a tutte quelle domande sulle mie esperienze in battaglia, mi
suggerì di fare una gita. I superiori mi avevano evidentemente concesso
una licenza e, con mia sorpresa, accettarono di buon grado persino la
richiesta di assentarmi dall'incarico nella base di Clarewood. Così
partimmo, esplorando il Sud Africa in lungo e in largo. A nord superammo
il confine con la Rhodesia, come si chiamava allora. Il paesaggio era da
sogno, e c'erano domestici che si occupavano di tutto. Mi sentivo quasi in
imbarazzo a muovere un dito. Eravamo nell'estate del 1941, nel bel mezzo
della guerra, e io mi godevo l'Africa.
4
Stinkwood vuol dire letteralmente "legno puzzolente" (n.d.t.). Pensai di avere trovato il mio posto nel mondo, magari il luogo adatto a
sistemarmi, in futuro. Ma al ritorno a Durban cominciai a sentirmi
irrequieto. Dovunque andassi, vedevo uomini scendere dalle navi e
prepararsi a partire per il "blu". Mi rimordeva la coscienza. Finché un
giorno, per strada, mi imbattei in George Sherlock, e presi la mia decisione.
Ero con Joyce quando lo incrociai. Si mise a urlare il mio nome, e
attraversò la strada zoppicando sulle stampelle prima ancora che riuscissi a
capire chi stesse strillando così. L'ultima volta che l'avevo visto era
dilaniato dal dolore della ferita e in preda al panico, e fu magnifico
ritrovarlo tanto in forma, malgrado avesse perso un piede nell'esplosione.
Fummo entrambi felici di rivederci.
Quell'incontro fu decisivo: dovevo tornare al mio battaglione. Venni a
sapere che il Mauretania stava salpando per Suez, così mi imbarcai,
confondendomi in mezzo alla mischia dei soldati. Avrei fatto rapporto
appena levata l'àncora.
Alla famiglia di Joyce dissi solo che dovevo assentarmi per un po'. Non
stetti a farla tanto lunga. Per la verità, non le raccontai mai chiaro e tondo
ciò che intendevo fare: partire per il "blu" senza garanzie di ritorno. In
guerra non puoi legarti a nessuno, e forse l'avevo illusa. Ora rinunciavo al
suo mondo per tornare al mio, e il passaggio doveva essere netto, come
azionare un interruttore, altrimenti me ne sarebbe mancato il coraggio. In
seguito cercai di spiegarle la situazione scrivendole una lettera dall'Egitto, a
cose fatte. Cinque anni dopo la fine della guerra lei capitò di passaggio in
Inghilterra, e mi scrisse per chiedermi come stavo. Ero sposato, ecco come
stavo. Non la rividi mai più.
Mi avevano offerto una via di fuga in Sud Africa, e io l'avevo sprecata.
Tornavo sui campi di battaglia. Lo sentivo come un dovere, ma mi costò
rinunciare a Joyce. Chissà che vita avrei potuto avere, se fossi rimasto con
lei. Sono errori che si commettono, a volte.
La nave era piena di sudafricani un po' sbruffoni, e a bordo intonavano
canzoni marziali, spesso in afrikaans. È una lingua che non ho mai
padroneggiato, eppure le melodie che di notte si levavano sui ponti bui le
ricordo ancora adesso.
Io non potevo condividere l'ottimismo dei miei compagni di viaggio,
sapendo fin troppo bene che cosa li aspettasse. Comunque tenni la bocca
chiusa, per non guastar loro la festa. Nel "blu" i sudafricani avrebbero
avuto vita dura, e in parte ne sarei stato testimone. Non sarebbe stato facile
per nessuno di noi.
Quando perdemmo di vista la costa, andai a fare rapporto all'ufficiale
britannico di bordo. La sua reazione fu prevedibilmente sbrigativa. «Bella
trovata da imbecille», commentò, senza aggiungere altro. Ma si vedeva che
era perplesso. Mi rimediarono una cuccetta, ma sottocoperta l'afa era tale
che dormivamo quasi tutti sul ponte.
Arrivato nel "blu", la mia insubordinazione causò ancora più sconcerto.
Lasciando Durban avevo disobbedito agli ordini, ma essere presente
ingiustificato era un'accusa troppo insolita perché ci fossero conseguenze,
se non per una lavata di capo. La necessità di soldati era ben più pressante
della disciplina. I tedeschi erano oramai alle porte. E le nostre vittorie erano
acqua passata, come se appartenessero a un'altra guerra. Il nome di Erwin
Rommel, la Volpe del deserto, era sulla bocca di tutti. I tedeschi erano
arrivati come un fulmine fino alla frontiera egiziana, e la guarnigione di
Tobruk era sotto assedio.
Capitolo 6
Riforniti di carri Bren a Mersa Matruh, partimmo per unirci al
battaglione. Avevo ritrovato alcuni vecchi compagni, e a completare il
gruppo si presentò Les Jackson. Fu bello riunirci, ma non ci dicemmo
molto. Lui non mi chiese dov'ero stato e io apprezzai la sua discrezione.
Mentre di giorno io imparavo ad andare in barca con una giovane e bella
velista, e mi godevo ogni sera una festa, Les e gli altri erano andati avanti a
carne in scatola e sbobba nelle trincee controllate da Wavell. Che adesso
erano passate ad Auchinleck: dopo le batoste subite in un paio di
operazioni, di cui con orrore venni a conoscenza, Wavell era stato destituito
da comandante in capo per il Medio Oriente.
Les era in gamba. Non gli piaceva comandare a bacchetta, ma faceva
funzionare le cose a puntino, e con lui che controllava l'automezzo ero più
che pronto a rimettermi alla guida. Non c'era nemmeno da discuterne. Lui
si fidava di me e lasciò che fossi io a istruire il nostro nuovo fuciliere.
Caricammo le munizioni sul retro e ci preparammo alla partenza, diretti
verso la nostra ultima azione congiunta.
L'offensiva per portare rinforzi a Tobruk sarebbe passata alla storia come
"operazione Crusader". Al solito, ci tennero all'oscuro, ma a quel punto
eravamo in grado di indovinare con buona approssimazione cosa ci
aspettava. L'obiettivo era forzare l'assedio e costringere Rommel a
ripiegare, per riconquistare il territorio perduto. L'azione principale si
sarebbe concentrata sul Trigh Capuzzo, un lungo tracciato nel deserto che
attraversava Sidi Rezegh, a sud di Tobruk. L'intenzione era spingere il
nemico a un violento scontro tra blindati su un terreno scelto da noi. La
guarnigione asserragliata a Tobruk avrebbe dovuto a sua volta superare
l'accerchiamento e unirsi alle nostre forze.
Quando per la prima volta sentii quel nome Sidi Rezegh non avevo idea
di ciò che avrebbe significato per me.
Ero stato nuovamente incorporato alla Compagnia B, comandata da
Tony Franklyn, la quale a sua volta faceva parte della Colonna Hugo, dal
nome del maggiore che ci avrebbe guidati, il visconte Hugo Garmoyle. Il
nostro compito era intercettare il nemico a ovest della colonna principale.
Quella zona del deserto era piena di profonde depressioni, talmente
numerose e con caratteristiche così infinitamente diverse tra loro che le
mappe le definivano con dieci nomi distinti. Un affossamento nel terreno
poteva essere un aheiret, o un agheret, oppure ancora un ghot, un giof, un
gof o un got. Poteva trattarsi di un hatiet, di un rugbet o persino di uno
sghifet, da non confondersi con un deir, un tipo di depressione abbastanza
grande da ospitare un accampamento. Quelle più ampie offrivano un utile
riparo, quelle più piccole rischiavano di far saltare i cingoli.
Ci radunammo in forze sulla frontiera libanese, sessantacinque
chilometri a sud del mare, in un paesaggio impervio, ma ormai familiare, di
sabbia e pietre con svariate minuscole saline che un tempo ospitavano il
bacino di un lago. Il 18 novembre, alle sei del mattino, tagliammo il filo
spinato e ci mettemmo in marcia. All'alba si fece luce, ma la temperatura
restava rigida. Non c'erano miraggi, e tutto intorno una moltitudine di carri
armati e altri veicoli attraversava il deserto diretta a Tobruk.
Prima di noi, in molti erano passati di là. Il terreno arido era costellato di
tombe musulmane grandi e piccole, solitamente segnalate da tumuli di
pietre; c'erano cisterne romane e, all'interno dei rilievi rocciosi, persino
grotte preistoriche. Molti erano passati di là, ma pochi si erano fermati, e
bastava guardarsi intorno per capirne il motivo.
Anche in condizioni ideali, i carri bevevano quanto i fucilieri australiani
al Dolce Melody, e procedendo come in quel caso, con marce minime e
continue deviazioni per aggirare le zone sabbiose più pericolose, la quantità
di carburante che veniva consumata era enorme. Come sempre, io ero
concentrato a non perdere i cingoli, a tenere il motore in funzione e a non
farmi entrare la sabbia negli occhi.
Il comando del battaglione ci seguiva a tre ore di distanza.
Successivamente avrebbero descritto «l'atmosfera di eccitazione
controllata» che pervadeva la colonna. Io non ricordo di essermi sentito
particolarmente felice. Les e io agivamo in perfetta sincronia, e non
pensavamo ad altro che ad avanzare, mentre i pezzi grossi trovavano anche
il tempo per fermarsi e darsi una ripulita, radersi e fare colazione.
La RAF stava facendo un ottimo lavoro. Per tutto il giorno neanche
l'ombra di aerei nemici, salvo, a terra, i resti di due Stukas abbattuti e
carbonizzati: una visione incoraggiante. Il nostro primo vero contatto con il
nemico ebbe luogo nel tardo pomeriggio, quando restammo coinvolti in un
breve scontro con cinque blindati italiani. Al comando il morale era alle
stelle. Parlavano già di «bere birra a Tripoli». Per come andarono le cose,
solo pochi fortunati sopravvissero per farsene una al Cairo. Quanto alla
nostra unità, l'euforia era più contenuta. Passammo la notte addossati a una
serie di collinette tra vaste depressioni, dormendo sul terreno pietroso in
uno scenario costellato di tombe.
Ripartimmo la mattina presto, per evitare di esseri colti alla sprovvista
durante il sonno. Era una mattinata tersa e fredda, e la inaugurammo con il
genere di azione al quale ormai avevamo fatto il callo: una piccola mischia
con un altro manipolo di tank italiani. Li spingemmo a nord, verso il pozzo
di Bir Gubi, con il rinforzo dei nuovi blindati Crusader della 22ª Brigata
corazzati. Intorno a Gubi stazionava un assembramento di camion nemici,
una preda allettante, ma ciò che accadde là fu allo stesso modo
emozionante e orribile.
Ci aggiudicammo un posto in prima fila per quella che, di tutta la guerra,
viene considerata la cosa più vicina a un attacco di cavalleria, ma quei
camion nemici non erano ciò che sembravano. Mimetizzati come fossero
camion, erano in realtà una formazione ben piazzata di artiglieria anticarro.
In un istante fummo inghiottiti da una nube di polvere e fumo. I nostri tank
avanzarono dritti al centro della postazione nemica, superandone di slancio
le trincee, però la loro artiglieria era di gran lunga superiore, e i nostri
vennero decimati.
Via radio arrivò l'ordine di passare le linee e radunare i prigionieri. Il
comando era convinto che Gubi fosse stata conquistata ma, non appena il
polverone si abbassò, ci accorgemmo che ancora opponeva una vivace
resistenza, sputando sia colpi di artiglieria sia anticarro, e per nostra fortuna
il capitano Franklyn contestò gli ordini. Nel tardo pomeriggio, la 22ª
Corazzati aveva messo fuori combattimento sessanta tank italiani, ma
aveva perso venticinque nuovi Crusader. Non prometteva bene, in vista
dello scontro con i panzer.
All'imbrunire andammo a verificare se tra i blindati colpiti ne fosse
rimasto qualcuno utilizzabile. Alcuni fumavano ancora, e tutto il campo di
battaglia era disseminato di morti e feriti di entrambi gli schieramenti.
Almeno due dei nostri tank avevano perso i cingoli. Da Gubi si levava un
frastuono di motori e urla. Noi sentimmo un uomo che si avvicinava, e
riuscimmo a catturarlo.
Il giorno dopo, il 20 novembre, seppellimmo il mio amico Bill Manley.
Caro vecchio Bill. Il proiettile doveva averlo centrato in un organo vitale,
perché era già morto quando lo raggiunsi e, a quanto ricordo, il suo corpo
appariva integro. Toccò a noi occuparcene. Lo seppellimmo alle prime luci
dell'alba. Non ci fu alcuna funzione, né rituali. Io mi inginocchiai, cercando
di togliere quello strato di sabbia leggera che continuava a scivolare nella
fossa. Staccammo metà della piastrina di riconoscimento che Bill portava
intorno al collo e deponemmo il suo corpo in quella tomba scavata nel
deserto. Cercai di non guardarlo in faccia mentre la ricoprivamo di sabbia.
Bill parlava sempre volentieri della sua vita in patria, della famiglia, delle
cose che contano: un comportamento insolito in quel luogo. Nessuno di noi
voleva stringere amicizie troppo profonde, e in momenti come quello, in
ginocchio per terra, a ricoprire di sabbia il volto di un uomo, il motivo di
tanta riservatezza era fin troppo evidente. Disponemmo sulla fossa un
cumulo di pietre per impedire ai cani selvatici di scavare la terra, e ci
alzammo senza nemmeno recitare una preghiera. Io tolsi il caricatore dal
suo fucile, fissai la baionetta in punta, e conficcai il calcio nella sabbia ai
suoi piedi. Poi voltai le spalle e lo lasciai solo nel deserto.
Molto tempo dopo la fine del conflitto, quei campi di battaglia vennero
bonificati. I corpi furono esumati e traslati ai cimiteri militari, ma molti
risultavano dispersi, e i nomi di quei soldati furono riportati nel
monumento funebre di El Alamein. C'è anche quello di Bill, dunque il suo
corpo giace ancora dove l'ho lasciato, da qualche parte tra le sabbie in
perenne movimento a sud di Sidi Rezegh.
Ci fu ordinato di riprendere l'avanzata per verificare se Gubi fosse
ancora occupata. Ne avemmo la dimostrazione trovandoci sotto il fuoco
dell'artiglieria pesante e delle armi anticarro. La brigata sudafricana arrivò
poco dopo, e cercammo di metterli in guardia, ma la loro compagnia di
punta proseguì dritta per la sua strada, e quei poveretti finirono massacrati.
Tra loro c'erano senza dubbio alcuni dei ragazzi che ci avevano sollevato il
morale con i loro canti mentre la Mauretania risaliva la costa africana.
Fortunatamente, uno dei nostri ufficiali riuscì a raggiungere il grosso dei
loro mezzi di trasporto delle truppe prima che finisse nella linea di fuoco, e
i soldati poterono disporsi in posizione difensiva. In cielo comparvero
ventisette bombardieri Stuka, scortati da aerei da combattimento. Di solito i
loro piloti erano degli assi, ma in quel caso sbagliarono mira, sganciando le
bombe lontano dalla concentrazione di uomini e mezzi. Uno solo riuscì a
compiere la solita manovra in picchiata, ma rovinò tutto non facendocela a
riprendere quota per tempo, e seguì la traiettoria della sua bomba
precipitando a terra. Il fiasco di quell'incursione ci fece maliziosamente
pensare che i piloti fossero italiani, ma personalmente non credo che i
tedeschi avrebbero permesso loro di guidare i propri aerei. Forse erano solo
alle prime armi.
Ci stavamo avvicinando all'obiettivo. Ventiquattro chilometri a nord si
estendeva la dorsale che sovrastava il tracciato di Trigh Capuzzo. In cima
sorgeva la moschea di Sidi Rezegh, un edificio bianco sormontato da una
cupola, accanto a un grande deposito e a un aeroporto. La 7ª Brigata
corazzati vi aveva già fatto irruzione, distruggendo Messerschmitt e Stuka,
sfondandone le fusoliere con i tank, ma aveva pagato un caro prezzo in
termini di caduti. I miei amici nella Compagnia A del maggiore Sinclair
erano stati duramente colpiti dall'artiglieria anticarro, perdendo diversi
mezzi. Ho scoperto in seguito che quell'operazione è stata definita «una
delle imprese più straordinarie della guerra nel deserto».
La conquista del rilievo permise al nostro schieramento di dominare la
cosiddetta "via dell'Asse" verso Tobruk, ma l'offensiva procedeva a rilento,
troppo perché la guarnigione asserragliata là dentro sbaragliasse
l'accerchiamento per riuscire a raggiungerci.
Ho letto i rapporti militari, e ora so cosa andò storto. I tedeschi non
avevano la nostra stessa predilezione per le cariche di blindati studiate a
tavolino. Sceglievano il momento giusto e sfruttavano la superiorità del
loro armamento per sferrare attacchi diversi e puntuali, con alti costi in
termini umani per noi. In questo erano imbattibili. La mattina del 21
novembre stavo guidando il mio cingolato fuori da un nullah quando,
giunto sul bordo, vidi un tank tedesco a meno di un chilometro. In un
lampo ruotò la torretta e aprì il fuoco. Feci appena in tempo a fare manovra
per tornare al riparo nell'avvallamento.
La Compagnia A del maggiore Sinclair si imbatté nei tedeschi nel primo
pomeriggio: settantacinque panzer che puntavano dritti contro di loro, in
una confusione di polvere, esplosioni e mezzi dati alle fiamme. I nostri
uomini erano in netta minoranza, e la loro artiglieria anticarro finì
neutralizzata. I superstiti cercarono rifugio nei wadi, e a sera si trovarono
tra l'incudine dei blindati a sud e il martello della fanteria a nord. Sinclair e
i suoi uomini erano in trappola.
Les e io avevamo vagato per buona parte della notte con il resto della
colonna di Hugo Garmoyle. La mattina ci eravamo accampati nella valle a
sud dell'aeroporto, quando ricevemmo un disperato SOS dal comando,
rimasto in trappola. I vertici del battaglione viaggiavano su tre piccoli pickup dotati di antenne radio, completamente scoperti sul terreno brullo e, se
colpiti, non avrebbero potuto fare altro che nascondersi dietro i veicoli.
Seguimmo tutto in diretta, dalla radio.
Cinque Crusader vennero inviati a soccorrerli, ma finirono subito in
fiamme. Due dei pick-up andavano già a fuoco, e il comando comunicò di
essersi nascosto. Delle poche armi ancora funzionanti, avevano un Bofors
antiaereo, ma contro i blindati tedeschi i suoi proiettili si limitavano a
rimbalzare. L'equipaggio di una mitragliatrice anticarro, montata su un
camion, venne abbattuto. Uno dei nostri ufficiali, il tenente Ward Gunn,
corse per duecento metri sotto il fuoco di sbarramento per riprendere
possesso della mitragliatrice. Riuscì a centrare due blindati nemici prima di
venire ucciso, un gesto che gli valse la Victoria Cross alla memoria. Mentre
i tedeschi si impadronivano del campo, alcuni degli ufficiali del comando
riuscirono a strisciare via e a mettersi in salvo.
Nell'istante in cui il maggiore Sinclair e i suoi uomini venivano fatti
prigionieri, una raffica di proiettili atterrò proprio in mezzo a loro e, tra la
polvere e lo scompiglio, lui riuscì a scappare. Trovò un sangar e rimase
nascosto sotto un telo mimetico fino a sera, mentre a dieci metri di distanza
i tedeschi razziavano un camion. Trascorse una notte intera all'addiaccio
prima di riuscire a fuggire. Al termine dello scontro mancavano all'appello
due ufficiali della Compagnia A e quaranta soldati: solo in venti erano
riusciti a mettersi in salvo. La Compagnia A non esisteva più.
L'operazione Crusader era allo sbando. Stavamo esaurendo mezzi e
munizioni. L'aerodromo di Sidi Rezegh era stato riconquistato dal nemico,
una contromossa che ebbe conseguenze devastanti per gli uomini della mia
brigata. Avevamo assistito da lontano a quella fase dello scontro, vedendo
le bombe esplodere sulla pista dov'era rimasta inchiodata la Compagnia A,
ma adesso eravamo nel bel mezzo della battaglia.
Ritirandosi, la 4ª Brigata corazzati intercettò la nostra postazione, e
anche i carri da mitragliatrice disposti in difesa dell'aerodromo furono
lentamente costretti a ripiegare.
A quel punto, un gruppo di tank nemici comparve sulla dorsale a sud
della pista di atterraggio, a non più di un chilometro da noi. I panzer
passarono a trenta metri da uno dei nostri plotoni, ma persino a quella
distanza ravvicinata nessuna delle nostri armi le mitragliatrici Bren e gli
inutili fucili Boys anticarro riusciva a scalfirli. La disparità di forze tra i
nostri fucili da undici chili e quei mezzi corazzati era evidente, ma
Garmoyle non si diede per vinto, correndo da una mitragliatrice all'altra,
spronando i tiratori e dando loro ordini. Io non lo vidi, ma si racconta che
una bomba gli atterrò proprio accanto, e lui la aggirò senza scomporsi. Un
fuciliere disse al suo compagno: «Ehi, guarda, una bomba è cascata ai piedi
del maggiore».
«E lui cos'ha fatto?», domandò l'altro.
«L'ha scavalcata».
Con l'incoraggiamento di Garmoyle, quei soldati bloccarono l'avanzata
tedesca fino a sera, ma molti dei nostri mezzi furono catturati prima di
uscire dalla linea di fuoco.
Quell'ultima notte di libertà fu relativamente tranquilla, considerato il
pandemonio che imperversava tutt'intorno. Ci ritirammo a una buona
distanza dalla dorsale. A quel punto, altre unità si erano unite alla nostra.
Per tutta la notte, alla spicciolata, continuarono ad arrivare piccoli gruppi di
blindati della 22ª Brigata corazzati. Io cambiai i miei stivali da deserto con
un paio di pesanti anfibi di cuoio e infilai il mio giubbotto di pelle. Avevo
un brutto presentimento.
Alle prime luci, la mattina del 22 novembre, ripresero gli scontri.
Cinquanta dei nostri tank superstiti contennero un attacco di panzer nemici.
Poi l'arrivo precipitoso dei cingolati leggeri della 4ª Brigata corazzati, che
si era aperta a forza un varco da nordovest, sembrò risollevare le nostre
sorti. Il generale di brigata Jock Campbell li guidò in battaglia, procedendo
in testa a tutta velocità su un pick-up, con la sciarpa che svolazzava alle sue
spalle come un vessillo. Si buttarono nella mischia, ma la loro carica fu più
valorosa che efficace. Arrivavano in formazioni troppo ridotte, e a uno a
uno vennero presi di mira e abbattuti.
La nostra postazione ai margini dell'aerodromo di Sidi Rezegh si era
fatta ancora più precaria. Le comunicazioni via radio erano confuse, perché
i nomi con i quali noi indicavamo le posizioni non corrispondevano a quelli
forniti all'11° Ussari. Non era un buon segno. Come miglior linea d'attacco,
ci ordinarono di seguire un orientamento di 22 gradi su una vasta distesa di
terreno priva di punti di riferimento. Aggiunsero di stare attenti ai blindati
nemici, che si aggiravano in cerca di prede.
Reggendo in aria due bandiere blu, il comandante di plotone segnalò di
avanzare in orizzontale. Io mi aggiustai il giubbotto di pelle mentre i motori
dei carri ruggivano tutt'intorno a me. C'era afa, e tenevo un fazzoletto
bianco legato al volante per asciugarmi il sudore dalla faccia. Ingranai la
marcia e ci lanciammo in avanti, accelerando e sobbalzando sulle rocce
fino a superare di una spanna gli altri quattro veicoli. Non potevamo
prevedere l'esito che avrebbe avuto quell'ordine.
Il terreno davanti a noi sprofondò di colpo e io dovetti sterzare verso est
per aggirare il ciglio di una scarpata. Poi, dal nulla, si aprì un fuoco di
mitragliatrici, e la carrozzeria blindata cominciò a risuonare come
un'incudine sotto i colpi di un martello. Eravamo proprio nei guai.
Les non aprì bocca. «Spara, per l'amor di Dio!», gridai al fuciliere alle
mie spalle. Sentii gli scatti metallici della mitragliatrice che da dietro
esplodeva colpi sopra la mia testa. Il suono era assordante. Avvertivo sulla
schiena il calore della canna. I bossoli vuoti mi piovevano sul collo,
rimbalzando ai miei piedi.
Seguirono una pausa e un suono metallico: il fuciliere cambiava il
caricatore. Eravamo ancora sotto tiro, e le vibrazioni dei proiettili
scuotevano il carro come un martello pneumatico.
Al mio fianco, Les era impegnato a sparare con il fucile anticarro Boys.
Io guidavo all'impazzata con il sedile abbassato in posizione di
combattimento, e per vedere la strada dovevo guardare da una minuscola
fessura nel parabrezza. Ero chinato verso destra, lontano da Les, tenendomi
di sbieco nel caso un proiettile fosse passato dalla fessura.
Il rinculo di ogni sparo faceva sobbalzare Les all'indietro, e l'eco dello
scoppio si perdeva nel frastuono delle raffiche di mitragliatrice che ci
grandinavano addosso. Ci fu un'altra pausa, poi il rumore del fuciliere che
di nuovo cambiava freneticamente il caricatore. I proiettili facevano
risuonare la carrozzeria come una campana. Mentre mi sforzavo di non
perdere il controllo del mezzo, da dietro i bossoli ripresero a piovere, poi
smisero di colpo. Tutt'intorno il chiasso proseguiva, ma la nostra Bren si
era zittita. Malgrado mi fischiassero le orecchie, il silenzio del nostro
fuciliere era ancora più assordante. Capii subito che l'avevano centrato. Poi
cominciarono a colpirci da entrambi i lati.
Procedevamo lungo un passaggio sempre più stretto tra due nidi di
mitragliatrici tedesche, una alla nostra sinistra, nascosta oltre il ciglio della
scarpata, l'altra sulla destra, al nostro livello sul terreno. Les, che aveva
continuato incessamente a sparare e ricaricare, decise di prendere di mira
una delle postazioni.
«Frena!», gridò.
«Neanche morto! Saremmo un bersaglio facile».
Stavano già sparando ai cingoli e ai giunti delle ruote. Se li avessero
colpiti non avremmo avuto scampo.
Ci avvicinammo a uno dei nidi di mitragliatrici in una tempesta di fuoco
incrociato. Con il fuciliere fuori combattimento e Les che faceva del suo
meglio con un Boys, le uniche armi a mia disposizione erano un mucchio
di granate accanto al sedile e il carro stesso, che aveva di per sé una certa
forza d'impatto.
«Li stendo io, quei bastardi», gridai a Les, più per sfida che sperandoci
davvero, mentre puntavamo a tutta velocità contro la postazione della
mitragliatrice. Il carro sobbalzò quando passammo sopra il nido, sentendo
sotto i cingoli lo schianto del metallo che cedeva sotto il nostro peso. Ero
sicuro che i soldati appostati là fossero morti sul colpo, ma ci trovammo
comunque circondati. Ormai non faceva alcuna differenza.
Afferrai una granata, staccai la sicura con i denti e la scagliai tendendo il
braccio sopra il bordo della carrozzeria blindata. Impossibile sapere se
fosse andata a segno. Non vedevo nulla. L'aria era piena di schegge di
metallo. Ne lanciai un'altra, e un'altra ancora, sperando contro ogni
evidenza che a una di quelle esplosioni seguisse il silenzio. Non arrivò mai.
Quando fui colpito, non compresi che era un proiettile. Avevo sollevato
il braccio per scagliare la mia ultima granata, e sentii solo un forte
contraccolpo all'altezza del busto: mi avevano sparato.
Mi accorsi a stento della Stielhandgranate, una granata a manico che
piombò rimbalzando all'interno del nostro abitacolo.
Stordito dal contraccolpo, mi ero accasciato ai piedi del sedile di guida.
L'urto dell'esplosione fu squassante, come se mi avessero ficcato due
punteruoli d'acciaio nei timpani. Per effetto dello spostamento d'aria, la mia
testa sembrò espandersi e contrarsi al rallentatore.
Se la granata fosse rimbalzata sul mio lato del sedile sarei stato
spacciato, ma il blocco del cambio tra me e Les mi salvò, deviando verso
l'alto le schegge di metallo incandescente e facendole schizzare all'esterno.
Lo scoppio mi aveva fatto perdere i sensi, e il carro cadde per dieci metri
nella scarpata.
Quando ripresi conoscenza, l'abitacolo era tutto rosso e io ero
completamente sporco di un liquido caldo e appiccoso. Mezzo corpo del
povero vecchio Les mi era caduto addosso, inzuppandomi di sangue e Dio
solo sa cos'altro.
Non era finita. Un soldato tedesco mi sovrastava, una sagoma nera in
controluce. Se avesse deciso di spararmi non avrei potuto difendermi.
Invece mi trascinò fuori del carro. Era fuori di sé dalla rabbia, ma del resto
io non mi aspettavo un trattamento di riguardo, non in quelle circostanze, e
dopo ciò che avevo fatto. Avevo appena schiacciato i suoi compagni sotto i
cingoli. Ormai non mi importava cosa sarebbe stato di me. Il mio amico
Les era ancora là, ridotto a un ammasso irriconoscibile. La granata gli era
scoppiata in grembo.
Il soldato non sparò. Vidi che muoveva le labbra. Stava rovistando nel
nostro veicolo in cerca di munizioni. Sopra il fischio acuto che mi
risuonava nelle orecchie riuscivo ancora a distinguere i colpi di arma da
fuoco in lontananza. Gli altri carri erano nei guai. Poi vidi il mio fuciliere,
accasciato a terra. Non si muoveva, e aveva un braccio maciullato. Arrivò
un altro giovane tedesco. Scrutò le ammaccature più lucide sui lati della
carrozzeria, crivellata da centinaia di colpi. Le sfiorò con la punta delle
dita, sorridendo, come se fosse soddisfatto per la precisione della sua mira.
Abbassando lo sguardo sul mio giubbotto di pelle, ancora grondante dei
resti di Les, compresi perché nei primi istanti della mia cattura mi avessero
risparmiato. Tutto quel sangue sembrava mio. Mi avevano dato per morto.
Il mio primo pensiero alla vista di Les che saltava in aria era stato:
"Grazie a Dio non è toccato a me". In seguito, molto tempo dopo, mi
avrebbero detto che tutti vogliamo sopravvivere, e che quella reazione era
perfettamente normale, ma era davvero così? Non lo so ancora adesso.
Come ho detto, in guerra una giustificazione si trova sempre.
Les aveva gli occhi che gli brillavano. Eravamo partiti insieme da
Liverpoool, e io avevo ballato con sua sorella Marjorie, mi ero seduto a
tavola con i suoi genitori, avevo riso alle loro battute e diviso con loro il
cibo. Non mi sembrava giusto che lui fosse morto e io no. Quest'ingiustizia
mi tormenta oggi con la stessa intensità di settant'anni fa. Ma ciascuno fa
quello che deve, per tirare avanti. La mente è uno strumento molto potente,
ben più forte della materia.
Sidi Rezegh è diventata una delle battaglie dimenticate, e noi una nota a
pie' di pagina di quell'episodio.
Capitolo 7
Il fuciliere era in condizioni terribili. I proiettili gli avevano quasi reciso
il braccio, e lui perdeva molto sangue. Temevo che non ce l'avrebbe fatta.
Un soldato tedesco gli legò un laccio emostatico, poi mi disse qualcosa,
facendo con le mani dei gesti per indicare una torsione. Io colsi le parole:
«Jede fünfzehn Minuten». Voleva che allentassi il laccio a intervalli
regolari, ma non ne ebbi la possibilità. Fui caricato su una barella e
trasportato via, e mi lasciai alle spalle il fuciliere ferito, e Les.
Non seppi mai cosa ne fu del suo corpo. Quando mi portarono via, lui
era ancora al suo posto, accasciato in avanti sul sedile. Anche il suo nome è
inciso nel monumento di El Alamein. Spero che qualcuno gli abbia dato
degna sepoltura.
Altro che battaglia dimenticata. Fu un massacro. Solo in quell'azione
perdemmo quattro carri. Io riportai ferite superficiali alla gamba e alla
testa, e una più grave al bicipite. Ci sarebbe voluto del tempo prima di
venire a sapere che Eddie "Regimental" Richardson l'aveva scampata. Il
suo mezzo era piombato giù dalla scarpata a tutta velocità, facendo un
atterraggio di fortuna su una gigantesca catasta di taniche. Reggie
sopravvisse sia all'imboscata sia a quel volo, e fu fatto prigioniero. Mesi
dopo mi parve di vederlo, da lontano, in un campo di transito, ma non ebbi
la possibilità di avvicinarmi.
Bill Chipperfield, che aveva diviso con me la cabina sull'Otranto e mi
aveva accompagnato in Sud Africa, morì insieme a venti ragazzi del 2RB,
caduti nei primi due giorni della battaglia di Sidi Rezegh. Nelle restanti
unità ne perirono molti altri; avevo visto i loro corpi disseminati su tutto il
campo. Il secondo tenente Jimmy McGrigor fu ucciso da una bomba caduta
sul comando della Colonna Hugo. Era un tipo a posto, Jimmy. Ci trattava
da uomini, non come scansafatiche.
Tobruk fu liberata dall'assedio, ma questo non arrestò l'avanzata di
Rommel, che riprese l'offensiva, penetrò in profondità nel territorio
egiziano e non si fermò fino all'estate successiva, quando raggiunse El
Alamein in appena due giorni di marcia da Alessandria. Là, la 8ª Armata,
sotto il comando di Montgomery, ribaltò definitivamente le sorti,
scacciando Rommel dall'Egitto una volta per tutte, e sconfinando in Libia e
in Tunisia. Charles Calistan si comportò da eroe a El Alamein,
sbaragliando una dozzina di tank tedeschi quasi da solo, ma a quel punto io
appartenevo già a un altro mondo.
I barellieri tedeschi mi portarono in un ospedale di campo dove venni
messo su un lettino di metallo. Mi sfilarono il giubbotto insanguinato.
Arrivò uno Stabsarzt, un chirurgo con il grado di maggiore. Sentii che mi
palpava in tutto il corpo, in cerca di altre ferite. Io rimasi a fissare il soffitto
di tela pesante del tendone. La visita del chirurgo fu interrotta dall'arrivo di
un ufficiale italiano che aveva perso un piede. Rimasi sbigottito sentendogli
ordinare bruscamente ai barellieri di riportarlo fuori della tenda, per
permettergli di concentrarsi su di me. Era una strana sensazione, sapermi
un prigioniero inerme nelle mani di un medico dello schieramento nemico.
Mi ispezionò le ferite per ripulirle dalla polvere e dalle schegge, e le fasciò.
Fortunatamente il proiettile non aveva colpito l'osso. Provai un sollievo
enorme.
Non ero spaventato. Ricordo che mi rimproverai di essermi fatto
catturare, e di avere pensato che a quel punto non sarei mai più diventato
ufficiale. Mi trasferirono in una tenda più grande, con scatole di
rifornimenti ammucchiate in un angolo. Era strano trovarsi di nuovo al
riparo. Nel deserto non capitava spesso di dormire in una tenda; le notti le
passavamo sempre sotto le stelle.
«Te la senti di mangiare qualcosa?». La domanda mi colse di sorpresa.
L'aveva pronunciata un ragazzo con i capelli biondissimi, schiariti dal sole.
Negli Afrika Korps militavano molti giovani istruiti, e parecchi di loro
parlavano inglese. Io non facevo un pasto decente da giorni. La risposta era
ovvia. Il ragazzo tornò con un piatto con sopra pane e marmellata, o
Marmelade, come disse lui in tedesco. Rimasi sbalordito. Non vedevo una
fetta di pane dalla licenza in Sud Africa.
Solo allora mi convinsi che non mi avrebbero fucilato. Ricevetti
un'assistenza scrupolosa, per quanto fredda. Evidentemente prestare cure
mediche adeguate rientrava nelle loro consegne. In seguito, quando mi
imbattei in soldati tedeschi di tutt'altra risma, compresi che gli Afrika
Korps erano una categoria a sé stante.
Mi dissero che per me la guerra era finita, ma io sapevo che non era così.
Ero ancora un soldato, ed ero deciso a restare un combattente fino alla fine.
Me lo ripromisi allora, e fu una promessa che pagai cara. Comunque, mi
avevano ricucito e probabilmente salvato la vita, e quello fu un intermezzo
stranamente tranquillo. Di notte nella tenda non c'erano sentinelle; il
personale medico non mi temeva affatto, ben consapevole che non ero in
condizioni di fuggire. Non so quanto tempo passò prima che le mie ferite
consentissero di spostarmi, ma a un certo punto mi caricarono, sempre su
una barella, sul retro di un piccolo veicolo. Con me c'era un altro soldato
ferito, ma non aprì quasi bocca.
Il viaggio fu una tortura. Le strade erano dissestate, e chiusi nel retro
riuscivamo appena a respirare. Mi sforzai di ricordare quel poco di tedesco
appreso a scuola. Dopo un po' riuscii a mettermi seduto e a battere un
pugno sul divisorio della cabina di guida. Non ottenni risposta. Avevamo
bisogno di aria. «Luft, luft»5, gridai, picchiando di nuovo sul pannello di
metallo.
Il camion frenò. Sentii l'autista che scendeva e faceva il giro del veicolo.
Spalancò il portellone e gridò qualcosa che non compresi. Il motore si
avviò e ripartimmo con lo sportello socchiuso. C'era molta polvere, ma
sempre meglio che soffocare. Percorremmo più di 480 chilometri, con
qualche brevissima sosta; se pernottammo da qualche parte non lo ricordo.
A Bengasi mi portarono in un grande ospedale e mi assegnarono una
branda di metallo sul fondo di un lungo reparto pulito con alte finestre. Ero
l'unico soldato alleato di tutta l'ala, e mi tenevano separato dagli altri feriti
italiani e tedeschi, all'estremità opposta.
Anche le infermiere erano di quelle nazionalità, e mi rivolgevano la
parola solo per lo stretto indispensabile. Arrivavano con un carrello di
garze pulite, mi dicevano di girarmi da una parte e dall'altra, mi
medicavano e poi se ne andavano. Io dormivo molto. Lentamente
riprendevo le forze, anche con l'aiuto dei primi pasti caldi dopo secoli.
Avevo ancora il mio giubbotto di pelle. L'esplosione l'aveva strappato in
più punti, ma almeno ero riuscito a togliervi le incrostazioni peggiori, e a
lasciare che il resto si seccasse in macchie permanenti. Ogni volta che me
lo mettevo, mi ricordavo di Les.
Poi, di punto in bianco e senza spiegazioni, fui trasferito. Le forze
britanniche stavano avanzando su Bengasi, e i tedeschi non volevano
restituire i prigionieri, feriti o illesi che fossero. Un camion mi condusse al
porto. Una folla di prigionieri alleati, forse più di cento, aspettava di salire
a bordo di una scalcinata nave merci. Non so dire quanti ce ne fossero già
sottocoperta. I ponti erano pieni di casse di legno. Eravamo diretti in Italia,
non c'era modo di evitarlo. Da una passerella ci portarono a poppa e poi in
stiva. Dal momento della mia cattura non avevo avuto alcun contatto con
altri prigionieri alleati, e ciò nonostante ripiegai il mio giubbotto a mo' di
cuscino, mi sdraiai contro la paratia e mi tenni in disparte. Eravamo stipati,
faceva caldo e l'aria era pregna di odori. Levati gli ormeggi, ci portarono le
nostre razioni: una grossa galletta, un rettangolo di venti centimetri,
talmente dura che non si riusciva a romperla con i denti. Da mangiare non
c'era altro.
Dopo qualche tempo capii dal rimbombo monotono dei motori e dal
beccheggio che la nave era salpata, ma a quel punto l'aria fetida era
praticamente irrespirabile. Ci mettemmo a urlare «Luft! Luft! Luft!», con le
mani a coppa intorno alla bocca. Quelle grida ritmiche diventarono un
gioco disperato, e tutti si unirono al coro. Eravamo senza voce quando alla
fine aprirono un po' il boccaporto. Prendemmo grandi boccate di fresca aria
di mare, riempiendoci i polmoni come se ci avessero razionato anche
5
«Aria, aria!» (n.d.t.). l'ossigeno, e poi ci preparammo a sopportare il resto del viaggio, sempre
seduti o sdraiati al nostro posto, sul metallo rigido.
Passarono la notte e buona parte del giorno successivo. Ci diedero
un'altra galletta immangiabile. Alzai lo sguardo sulla copertura di paglia e
intravidi che si faceva sera. La luce del tramonto sopra di noi era più nitida
e intensa.
Non ricordo alcun allarme. Di colpo, dalla sezione di prua, provenne uno
schianto tremendo. La nave si inclinò bruscamente, come travolta da
un'ondata. Seguì un'altra esplosione. La faccenda era seria.
Il panico scoppiò quasi subito. Gli uomini scattarono in piedi cercando di
guadagnare la stretta scaletta di metallo che conduceva sul ponte. Li vidi
lottare con le guardie che sbarravano loro il passo. Fu una scena terribile.
Non c'erano ordine, né disciplina; nessuno aiutava gli altri, ciascuno
pensava solo a salvarsi la pelle. Era brutto a vedersi, ma io avrei fatto lo
stesso.
Riuscivo ancora a intravedere il cielo. La fune sottile che assicurava un
angolo del telone sopra il boccaporto ora pendeva all'interno della stiva. La
afferrai, verificando che fosse fissata abbastanza saldamente da reggermi.
Poi, malgrado la ferita al braccio, cominciai ad arrampicarmi, tenendomi
appeso con le mani e bloccando la fune con i piedi per alleviare la
pressione, come avevo fatto innumerevoli volte da bambino. Raggiunta la
cima, afferrai l'angolo del telone, fino a issarmi sul bordo del boccaporto e
sbucare all'esterno. La nave faceva acqua, e la prua sprofondava. Non mi
fermai nemmeno un secondo a riflettere. Il mare non sembrava troppo
agitato, così mi levai gli stivali e mi tuffai. Con le orecchie ovattate
dall'acqua e dal fischio della pressione, per un momento il tempo sembrò
rallentare. Sapevo che molti uomini erano rimasti bloccati nella stiva, e
quelli che si trovavano più vicini al punto dell'esplosione erano sicuramente
già morti.
Tornai a galla in una densa macchia di petrolio che mi si appiccicò sulla
faccia e sui capelli. Dovevo evitare che quella porcheria mi finisse nei
polmoni. Era un liquido scuro e pesante, tanto da minacciare di trascinarmi
sul fondo. Era solo questione di tempo prima che la nave colasse a picco
con tutto il suo carico di uomini intrappolati dentro. Dovevo allontanarmi il
più possibile a nuoto per non venir risucchiato nel vortice, così sbattendo
gambe e braccia riuscii a uscire dalla macchia di petrolio.
Ma i miei guai non erano finiti. In acqua adesso c'erano altri naufraghi,
che si dibattevano disperatamente. Fummo raggiunti quasi subito da
un'imbarcazione veloce, una piccola corvetta. Era un cacciatorpediniere
italiano, e non era venuto in nostro soccorso. Compresi allora che
all'origine dell'esplosione c'era un pesce di metallo, non una mina: si era
trattato di un siluro, e il sottomarino alleato che l'aveva sparato doveva
trovarsi ancora là, proprio sotto le mie gambe. Il cacciatorpediniere
zigazagava avanti e indietro, disegnando ampi archi in superficie per
localizzare il sommergibile, e falciando i superstiti. Svettava sopra di noi
come una scogliera di acciaio grigio, seminando il terrore.
Sentii grida d'aiuto in italiano e in tedesco, ma chiunque si trovasse sulla
sua strada finì maciullato dalle eliche o travolto dalla scia. Poi la nave
cominciò a sganciare delle bombe di profondità. Scese il silenzio, e poi, dal
fondale, sentimmo un tonfo ovattato, la cui onda d'urto ci colpì come una
martellata sul torace. Quando arrivò in superficie sollevò un'immensa
colonna d'acqua, e il mare tutt'intorno diventò bianco di spuma. Io mi
trovavo a un centinaio di metri dal punto dell'esplosione, e venni squassato
in tutto il corpo. Ci fu un secondo scoppio, seguito da molti altri, sulla scia
del cacciatorpediniere che finalmente si allontanò all'orizzonte.
Restammo soli. Il buio scese rapidamente. In superficie la nave colpita
non si vedeva più. Prima che mi tuffassi imbarcava già acqua, e una parte
del carico sul ponte era scivolata in mare. Pensai che si fosse inabissata.
Poi vidi galleggiare sull'acqua una grossa cassa di legno, così la
raggiunsi a nuoto avanzando a bracciate tra le macchie di petrolio. Mi
sembrò di impiegarci un secolo, ma quando arrivai vi si erano già
aggrappati parecchi italiani. Da un foro sul lato vidi che la cassa era vuota.
Ripresi fiato. Quell'arnese cigolante era la nostra unica zattera. Se non
volevo annegare nelle acque invernali del Mediterraneo dovevo fare
qualcosa. Mi sforzai di trovare un appiglio sul legno scivoloso, e dopo
parecchi tentativi falliti riuscii a issarmi sulla cassa, mettendomi
all'asciutto. Nessuno cercò di impedirmelo ma, se ci avessero provato, non
mi sarei fatto scrupoli. Spinto dal bisogno, ero riuscito a superare
l'ostacolo, però poi la fatica ebbe la meglio. Crollai disteso sulla pancia.
Da quella posizione mi resi conto che la cassa era fragile, minacciava di
andare in pezzi sotto l'urto delle onde che stavano montando. Gli altri erano
troppo deboli per seguire il mio esempio. Non mi venne nemmeno in mente
di aiutarli. Tendendo una mano rischiavo di finire trascinato in acqua a mia
volta. Dovevo pensare alla pelle. Se fossi morto sarebbe finito tutto. Il mare
era in burrasca, e uno alla volta gli altri scivolarono via. Prima c'erano, e un
istante dopo non c'erano più. Non potevo farci niente.
Al tramonto le onde si placarono. Non c'era terra in vista e il mio corpo
disperdeva rapidamente le ultime riserve di calore. Presto scese la notte, e
io la passai per l'ennesima volta sotto le stelle, tra onde, vento e legno
scricchiolante.
Restai aggrappato alla cassa per tutte quelle ore interminabili, scrutando
l'orizzonte nella speranza di soccorsi, ma il mare era deserto. Perdevo e
riprendevo i sensi, sdraiato sulla pancia. All'alba avvistai la terra: una città
dorata sulla sommità di una collina. Poteva trattarsi del riflesso del sole su
edifici di pietra, oppure di un'allucinazione. Il tempo passava, io svenni e
poi ripresi brevemente coscienza, e questa volta ero davvero in vista della
costa, sorprendentemente vicina. Le onde si infrangevano sugli scogli alla
base di un promontorio di roccia chiara. Il sollievo durò lo spazio di un
secondo. Per quanto la distanza fosse breve, non sarei mai riuscito a
coprirla a nuoto.
Quando rinvenni di nuovo mi trovai intrappolato tra due spuntoni di
roccia, appena fuori dell'acqua. Ero vivo, e l'abbraccio della solida pietra fu
un conforto dopo il beccheggiare sulle onde della mia misera zattera. Ero
ancora completamente cosparso di petrolio.
Sentivo il dolce suono della risacca, e avevo l'impressione che il terreno
sotto di me si alzasse e si abbassasse insieme al movimento delle onde.
Avevo la gola riarsa, le labbra screpolate e la bocca piena di sale, di
petrolio e di sporcizia. Impiegai del tempo per racimolare le forze e tentare
di alzarmi.
Mi trovavo all'estremità di una piccola baia sassosa. Mi sollevai sulle
ginocchia e poi cercai di rimettermi in piedi, eppure appena mi poggiavo
con il peso le gambe mi cedevano, e dovetti accasciarmi per raccogliere le
forze. Devo essere rimasto riverso su quella cassa di legno per almeno
ventiquattr'ore. Ricordo solo una notte, ma perdevo continuamente i sensi,
e la mia percezione del tempo era troppo vaga per esserne certo.
Quando finalmente lasciai la baia, mi ritrovai davanti un paesaggio di
arbusti e terra arida, oltre il quale si vedevano delle colline. I pochi alberi
potevano offrirmi un po' di riparo, ma ero debolissimo, e con il morale a
terra. Cominciavo a temere di dovermi consegnare, o sarei morto di fame.
Ero scalzo, e la lunga immersione nell'acqua salata mi aveva piagato i
piedi. Camminare sui sassi era un supplizio.
Barcollai fino a incrociare un vecchio contadino che zappava il terreno
davanti a una casetta di legno. Non stetti nemmeno a chiedermi se avesse
un'aria amichevole od ostile: andai dritto da lui e a gesti gli chiesi
dell'acqua. Non avevo altra scelta. Lui fu preso alla sprovvista, e arretrò
d'istinto. Non dovevo essere un bello spettacolo, bagnato fradicio e con la
pelle incrostata di petrolio fin dentro ai pori.
Il vecchio aveva il volto rugoso e segnato dalle intemperie, ma i suoi
capelli erano neri e folti. Non scappò, pur tenendosi a distanza di sicurezza
e guardando alle mie spalle per accertarsi che fossi solo. Non mi sembrava
parlasse italiano, e rimasi perplesso. Fosse non ero naufragato in Italia.
«Inglese, inglese», dissi, e incrociai i polsi a indicare che ero un
prigioniero in fuga. La sua espressione si distese, ma lui continuava a
tenermi gli occhi incollati addosso, e non si avvicinò mai. Indicai alle mie
spalle, verso il mare, imitando con le mani le onde e una barca, e facendo il
verso di un'esplosione. Lui restò a fissarmi, muto e impassibile, poi sembrò
prendere una decisione. Mormorò qualcosa e mi indicò la porta della
casupola. L'interno era buio, e quando fummo al riparo da sguardi indiscreti
si rilassò.
Mi fece sedere e mi offrì dell'acqua in una tazza di latta ammaccata. Era
il mio primo sorso da almeno ventiquattr'ore, e la scolai in un secondo. Me
ne portò ancora. A quel punto mi accorsi che aveva un sapore terroso, ma
la bevvi comunque. Lui continuava a fissarmi. «Cibo?», dissi portandomi
una mano alla bocca. «Mangiare?». Il vecchio si guardò intorno nella
stanza buia e poi mi allungò una manciata di uvetta. Il suo sapore forte mi
punse il palato. Dopo un po' di pane e dell'altra acqua mi raggomitolai in un
angolo e mi addormentai.
Mi svegliai stordito. Il vecchio era ancora là. Mi aveva portato delle
uova e una pasta ripiena di frutta candita. Annuii con gratitudine, mentre
lui arretrava di un passo e restava a guardami mangiare. Dopo la galletta
sulla nave, quello era un pasto da re. Gli domandai dove mi trovassi, e lui
rispose con uno sguardo interrogativo e altre frasi che non riuscii a
decifrare. Poi mi venne un'idea. Presi un bastone e disegnai sul pavimento
di terra battuta una mappa rudimentale della Grecia, sforzandomi di darle
una forma riconoscibile. Lui fissò il mio scarabocchio più sconcertato che
mai, finché sulla sinistra aggiunsi l'inequivocabile profilo a stivale
dell'Italia, e lui si rianimò, ripetendo a raffica una frase incomprensibile.
Prese il bastone e batté con decisione sulle tre dita che avevo tracciato per
indicare il Sud della Grecia. Ecco dove mi trovavo, dunque. Dalla furia
della sua reazione compresi quanto odio provasse per gli italiani che
avevano occupato il suo Paese.
Il cibo abbondante e il riposo mi rimisero in forze, e non so quanto a
lungo il vecchio mi abbia ospitato, ma non potevo restare là per sempre. Se
mi avessero sorpreso in casa sua l'avrebbero fucilato seduta stante. Non ero
sicuro fino in fondo di quanto potessi fidarmi, anche se ripensandoci ora
quella diffidenza nei suoi confronti mi pare immeritata. Comunque decisi
di andarmene.
Lui mi diede un paio di vecchi sandali di tela, che mi legai ai piedi con
un pezzetto di spago, poi tirò fuori una camicia grezza che infilai sotto la
casacca. Ero riluttante a spogliarmi della mia uniforme. Conoscevo i rischi
connessi. Vestito da civile rischiavo la pena di morte come spia. Sono
sicuro che il vecchio provò sollievo alla mia partenza.
Proseguii da solo, cercando di non dare nell'occhio: le macchie di
petrolio avrebbero suscitato troppe domande. In aggiunta, la mia
conoscenza geografica della regione era scarsa, e non riuscivo a
immaginare cos'avrei trovato lungo il tragitto. Il mio orologio era
sopravvissuto al naufragio, e lo usai per individuare il nord. Mi tenni alla
larga dalle strade, inerpicandomi sulle colline e attraversando boschetti di
ulivi. Evitai accuratamente le zone abitate, accontentandomi di bere da
minuscoli ruscelli, quando ne trovavo. Ero debole e fiacco, ma mi costrinsi
a procedere. Avevo superato la soglia in cui si avvertono i morsi della
fame, e sapevo che per mangiare avrei dovuto rubare. Chiunque avessi
incontrato avrebbe potuto tradirmi. Chiunque mi avesse aiutato avrebbe
rischiato la fucilazione. Il furto era l'alternativa migliore per tutti.
Durante il giorno la gente lavorava in campagna, spesso a una certa
distanza dalle case. Era facile introdursi all'interno, e mi pareva di rivivere
le ricognizioni nel deserto: dovevo trovare un buon punto di osservazione,
acquattarmi e osservare. Quand'ero sicuro di avere via libera entravo, ma il
bottino era sempre scarso. I contadini erano poveri, e l'occupazione italiana
aveva aggravato la loro miseria. Non riuscii mai a riempirmi davvero lo
stomaco, ma in una occasione mi capitò lo stesso tipo di pasta con la frutta
candita che mi aveva dato il vecchio.
Una volta scoperto che mi trovavo in Grecia, mi ero quasi illuso di
riuscire a restare libero, però pensare di tornare a casa attraversando
l'Europa occupata era pura follia. Con il passare dei giorni la mia debolezza
andava aumentando. Ero ancora coperto da una patina di petrolio, e ora
anche di terra incrostata, quando mi imbattei in un gruppetto di uomini e
donne che lavorava in un campo. Li spaventai più di quanto loro avessero
fatto con me. Chiesi dell'acqua. Capirono, e mi porsero una borraccetta
allungata, di pelle. Bevvi quanto potevo, e mi allontanai in fretta.
Poco dopo mi accorsi di essere seguito da alcuni uomini armati.
Immaginai si trattasse di italiani. Qualcuno aveva fatto la spia. Corsi in un
boschetto di ulivi e mi rannicchiai, cercando di nascondermi, ma non avevo
speranza. Cominciarono a sparare. Non c'era via di fuga, e rischiavo di
farmi ammazzare. Circondato, uscii dal boschetto con le mani alzate. Mi
legarono i polsi e mi scortarono fino a un camion. Ero di nuovo un
prigioniero.
Fu un lungo viaggio. Mi portarono a un campo pieno di detenuti alleati,
britannici e sudafricani insieme a partigiani greci. Era un luogo terribile, un
bivacco di tende in un campo. Pioveva molto, e talvolta nevicò. Molti dei
prigionieri soffrivano di dissenteria e di altre malattie. Al mio arrivo non
c'erano latrine; gli uomini dovevano cavarsela alla bell'e meglio, ed erano
talmente deboli che si riducevano a farla dove capitava. Era uno schifo,
quel campo, e i prigionieri lo avevano ribattezzato l'"acro della dissenteria".
Con il tempo gli italiani si impietosirono, e venne scavata una trincea larga
un metro e mezzo e profonda altrettanto. Presto fu piena fino all'orlo:
cinquanta metri cubi di escrementi umani. Il tanfo era tremendo.
Comunque non c'era tempo per provare imbarazzo. Nel "blu" avevo
sofferto di dissenteria, e ne conoscevo i sintomi: la nausea, il dolore, e
l'urgenza. Ci si metteva in fila, gomito a gomito, una schiera di uomini
accucciati che sporgeva il sedere oltre il bordo del fossato. Ricordo un
ragazzo magro, chino accanto a me, che stava malissimo. Non so come,
perse l'equilibrio, scivolò e cadde nella buca. Ci finì dentro fino alla vita,
poveraccio.
«Oggi è la seconda volta che mi capita», disse.
Poi mi trasportarono a nord, e mi rinchiusero in un grande deposito nei
pressi di Patras. Mangiavamo solo pane e acqua, ma almeno la guardia ci
accompagnava fuori quando avevamo bisogno della latrina. Restava
impalata a guardarci mentre ci accovacciavamo sopra un fiumiciattolo. Le
condizioni erano leggermente migliori, però non durò a lungo.
Capitolo 8
Ci caricarono su un'altra nave. Sottocoperta faceva caldo, un
cambiamento gradito dopo il gelo del campo, e questa volta non ci toccò
viaggiare in stiva. A bordo c'erano dei soldati italiani, tornavano a casa in
licenza. Uno di loro cercò di parlarmi mentre gli sfilavo davanti,
chiedendomi nella sua lingua, e poi in francese, chi fossimo e da dove
venissimo. Non ottenne risposta.
Io temevo un altro incontro ravvicinato con i siluri, ma riguardando oggi
le cartine direi che prendemmo la rotta più sicura, tenendoci nel corridoio
tra la costa greca e il lato interno delle isole di Cefalonia e di Lefkas, prima
di imboccare lo stretto di Corfù e superare rapidamente quello di Otranto,
per arrivare al tallone della penisola italiana.
Trascorremmo il viaggio seduti per terra. Di notte un irlandese con una
voce melodiosa intonava un canto triste, e due sudafricani parlavano di
casa loro. Attraccammo a un porto brulicante di soldati, forse Bari o
Brindisi, e ci fecero marciare fino a un campo di erba rada, delimitato dagli
alberi. Ormai eravamo a centinaia, e non c'era il filo spinato, dunque
servivano più guardie per sorvegliarci. Alcuni ragazzi erano in condizioni
pietose, con il volto e le braccia gonfi per la carenza di vitamine.
Le razioni erano da fame, e quanti tra noi avevano l'energia per farlo
inscenarono una protesta. Urlammo e spintonammo le guardie, finché la
situazione ci sfuggì di mano. Per un puro caso nessuno di noi ci ha rimesso
la pelle. Alla fine le guardie ripresero il controllo del campo, e in cinque
fummo condannati a una punizione esemplare. Ci incatenarono mani e
piedi al tronco di un albero e trascorremmo la giornata in quello stato,
imprecando. Io avevo passato la vita a comandare, e adesso mi ritrovavo
alla catena come un animale. Sembravano secoli da quando ero partito da
Liverpool a bordo della Otranto, impaziente di andare all'avventura.
Restammo là per tre o quattro giorni, e poi ci trasferirono in un campo vero
e proprio.
C'erano lunghe baracche di pietra e cemento, con il soffitto basso,
ciascuna divisa in cinque settori con tavolacci per letti, e cinquanta persone
in ognuno di essi. Ci assegnarono un paio di coperte pesanti e un
pagliericcio sottile come materasso. Era il campo di concentramento per
prigionieri di guerra numero sessantacinque. Si trovava nei pressi di
Altamura, al Sud.
Uno degli ufficiali italiani, un maggiore, somigliava a Jimmy Cagney.
Con lui si poteva parlare, e quando gli dicemmo di quella somiglianza, ne
andò fierissimo. Al campo non eravamo costretti ai lavori forzati, né
sottoposti a trattamenti brutali, ma morivamo di fame.
C'era una cucina all'aperto, e gli italiani abbattevano degli alberi per
alimentare il fuoco. Uno dei ragazzi con un po' di energia residua li tagliava
in ceppi. Forse gli concedevano qualche razione extra. Sulle fiamme veniva
collocato un enorme paiolo nel quale finivano le scorte disponibili, di solito
appena una manciata di maccheroni. Quando era cotta, la zuppa veniva
portata per il campo in contenitori di alluminio da quaranta litri, e
distribuita: non più di un mestolo di sbobba a testa, al giorno. All'inizio ci
davano anche una fettina di pane, ma presto anche quella divenne la metà.
Per colazione c'era solo un sorso di succedaneo di caffè, nient'altro. Già
all'arrivo eravamo tutti debilitati, e con il passare del tempo io sentivo il
mio corpo perdere inesorabilmente le forze.
Gli unici a ingrassare erano i pidocchi che infestavano noi e i nostri
vestiti. Quando mi levavo la camicia me ne schiacciavo addosso a
centinaia, e nel giro di mezz'ora ne spuntavano altri cento. Ti facevano
ammattire.
Poco dopo il nostro arrivo, ci misero in fila e ci chiesero il nostro
mestiere nella vita civile. L'interprete parlava un inglese approssimativo, e
io ero ancora guardingo, così dissi che ero un topo d'appartamento. Lui
studiò il suo elenco, visibilmente perplesso.
«Cosa?»
«Topo d'appartamento», ribadii.
«Tipo d'appartamento?», disse lui, guardando il suo superiore con aria
interrogativa. Quello rimase impassibile, così l'interprete annotò qualcosa
sul suo foglio e passò al prigioniero successivo.
I pacchi della Croce Rossa erano una manna, anche se andavano divisi
tra parecchi prigionieri. Potevano contenere latte in polvere il "Klim", milk
scritto al contrario , un pizzico di caffè o di tè, verdura in scatola o una
confezione di formaggio industriale, a volte uova essiccate, più una barretta
di cioccolato, zucchero o uva.
La noia era devastante. Al campo non c'era alcuna disciplina militare.
Eravamo abbandonati a noi stessi. Non avevamo posate per tagliare il pane,
ma c'erano degli specchietti, e io trovai il modo di romperli in grosse
schegge da utilizzare come lame. Aggiunsi un manico di legno, e ne ricavi
dei coltelli decenti che scambiai con un po' di cibo extra. L'economia del
campo si reggeva sul baratto. Per sopravvivere dovevi avere qualcosa da
scambiare. Nel corso dei mesi mi ingegnai a costruire una specie di
valigetta con i contenitori di Klim appiattiti. Dio solo sa perché. Non avevo
nulla da metterci dentro, né stavo escogitando un audace piano di fuga.
Schiacciavo i contenitori e poi ne ripiegavo i bordi in modo da incastrarli
gli uni sugli altri per ottenere lamine più grandi da modellare in altre forme.
Era solo un passatempo per ammazzare le lunghe ore di inattività, e alla
fine ne feci una sorta di scatola di latta.
Anche quando la Croce Rossa ci riforniva di tè e caffè, bollire l'acqua
non era impresa facile. Decisi di improvvisare, e costruii un cilindro chiuso
con all'interno delle pale da ventilatore che giravano, come la ruota di un
criceto sigillata. Poi, con un tubo, collegai il cilindro a un contenitore di
metallo pieno di braci, le attizzai e attivai la ventola, ottenendo una specie
di altoforno in miniatura. Le braci diventavano incandescenti e, sistemando
una gavetta in cima al cilindro, l'acqua bolliva subito. Andavo fierissimo
della mia invenzione, e per la prima volta riuscimmo a prepararci un tè
caldo. Alcuni compagni perfezionarono il tiraggio, e il marchingegno
riscosse un enorme successo.
Oggi credo che gli italiani ci facessero patire la fame semplicemente
perché non avevano cibo da darci. I soldati semplici che facevano le
guardie non mangiavano molto più di noi. Accettavano come moneta di
scambio persino le nostre foglie di tè usate.
Io mi sentivo ancora avvilito per essermi lasciato catturare. Non mi
fidavo di nessuno, e me ne stavo quasi sempre per conto mio. Ma un paio
di prigionieri li ricordo. C'era un cockney6 di nome Partridge che faceva
favori a tutti senza chiedere niente in cambio. E un altro, un certo
Bouchard, magro come uno scheletro, che stava letteralmente morendo
d'inedia. Passava le giornate a perlustrare il campo, in cerca di avanzi da
mangiare. A volte scambiammo qualche parola, ma non parlammo mai
della nostra vita a casa. Perché torturarsi?
In seguito venni a sapere che ad alcuni prigionieri di altri campi era
capitato di essere portati fuori per la disinfestazione dai parassiti e,
vedendoli sfilare per la strada, i passanti li avevano accolti con insulti e
sputi. Quanto a noi, non mettemmo mai il naso fuori del campo. Di tanto in
tanto si presentava un prete cattolico, e celebrava la messa per i credenti.
Ma anche il rito avveniva di là dal filo spinato. Il sacerdote non si azzardò
mai a superarlo.
Ci ingegnammo in ogni modo per combattere la noia. Chiunque fosse
esperto di un argomento faceva lezione agli altri. Le materie di
insegnamento spaziavano dalla storia alla geografia all'ingegneria. Un
compagno parlava per ore del suo tornio, e di come si lavorano e si tagliano
legno e metallo.
Dopo un po' cominciarono a sorgere nuove baracche; le nostre erano già
sovraffollate, e bisognava allargare il campo. Di solito durante la prigionia
in Italia non eravamo costretti ai lavori forzati, ma quando ci offrirono 150
grammi di pane in più al giorno per partecipare alla costruzione
accettammo. La situazione dei viveri era catastrofica.
Le baracche che costruimmo si trovavano fuori del perimetro. Il piano
era di completarle e solo in seguito estendere la staccionata per includerle.
6
Sono i tipici abitanti di Londra (n.d.t.). Fare un passo oltre il filo spinato era già un'emozione. C'era sempre la
possibilità di rubare qualcosa da mangiare, o di evadere.
Insieme ad altri cinque compagni fui mandato su un tetto a fissare le
tegole con il cemento. Per la prima volta potevo vedere il territorio
circostante. C'era una sola guardia a tenerci d'occhio, ed era rimasta a terra.
La fame mi tormentava, e pensai che da evaso non poteva andarmi poi
tanto peggio. Studiai la situazione, e infine chiesi alla guardia se potevo
scendere per fare i miei bisogni. Controvoglia il soldato acconsentì,
malgrado il rischio di perdermi di vista.
Appena svoltato l'angolo scappai a gambe levate.
Mi aspettavo da un momento all'altro che scoppiasse il finimondo, ma
non accadde niente, e riuscii a mettere una certa distanza tra me e il campo
prima di fermarmi a riprendere fiato. Non ho idea del momento in cui la
guardia dette l'allarme: a quel punto io ero già lontano.
Avevo con me un tozzo di pane e un minuscolo pezzo di formaggio: non
c'era stato il tempo di prendere altro. Decisi di evitare la costa e di
dirigermi verso nord, con l'intento di raggiungere la neutrale Svizzera. Mi
sforzavo di essere ottimista. Rispetto alla Grecia ero meno lontano da casa,
ma si trattava comunque di superare centinaia di chilometri in territorio
nemico.
Fu un déjà-vu della fuga precedente. Evitavo le strade e le zone abitate, e
rubavo da mangiare nelle fattorie isolate. Non mi colsero mai con le mani
nel sacco, ma nemmeno misi sotto i denti qualcosa di sostanzioso. Il meglio
che riuscivo a trovare era un avanzo di verdura marcia e un ortaggio che
sapeva di anice, probabilmente finocchio. Da allora non posso più vederlo.
In tre o quattro giorni coprii una distanza notevole, ciò nonostante ero
sempre più debole e affamato. Mi imbattei in un campo di grano non
mietuto, però le spighe erano grigie, lasciate a marcire. L'Italia non era un
luogo felice. Cominciò a piovere a dirotto.
Cercai riparo in un piccolo edificio abbandonato, aspettando che
smettesse. Era già buio quando sentii delle grida dall'esterno. Il mio rifugio
era stato circondato, e mi stavano ordinando di uscire. Mi avevano trovato.
Uscii allo scoperto. Ero angosciato. Nell'oscurità non riuscivo a
distinguere quanti fossero i soldati, ma comunque non aveva importanza:
mi avevano preso. Mi caricarono su un camion e mi portarono via. Non si
presero la briga di legarmi le mani, né di picchiarmi. Mi riportarono in tutta
fretta al campo, e passai un giorno e una notte in cella di punizione. Poi
ripresi quel tremendo tran tran. Il tentativo di fuga era stato un gesto
istintivo, un impulso nato dalla frustrazione. Adesso ero di nuovo in
trappola, e avrei dovuto rassegnarmi.
Nel campo la dissenteria dilagava: non si trattava di un normale disturbo,
bensì di una malattia vera e propria, sfiancante e potenzialmente letale, che
ci toglieva le energie lasciandoci prostrati, apatici e doloranti. Eravamo
tutti dimagriti, e in quell'epidemia generale capitavano incidenti
imbarazzanti. Se ci si sporcava, riuscire a lavarsi era quasi impossibile, e
comunque ci si doveva accontentare dell'acqua fredda. Vidi dei compagni
piangere per l'umiliazione, uomini adulti imbrattati come neonati. Per
mancanza di cure, molti in quel campo morirono di malattie di solito non
letali. Un cadavere restò per giorni in una baracca prima di venire
seppellito. Lo ricordo perché ereditai i suoi pantaloni. I miei erano laceri e
luridi, e il resto dell'uniforme era conciato anche peggio.
Fu un sollievo avere quei pantaloni, e non mi diedi pensiero che fossero
appartenuti a un morto. Era una questione pratica. Con il passare dei giorni,
però, cominciai a soffrire di un prurito terribile, e questa volta non si
trattava dei soliti pidocchi. Sull'interno delle cosce mi spuntò un'irritazione,
con arrossamenti gonfi e a chiazze, che si diffuse come un lampo
all'inguine e Dio solo sa dove. Mi ero preso la scabbia. I minuscoli parassiti
si erano intrufolati sottopelle, dove avevano deposto le uova. Mi grattai
fino a sanguinare, malgrado sapessi che in quella sporcizia le ferite
rischiavano di infettarsi. Durante il giorno riuscivo a trattenermi, però la
notte sentivo la pelle in fiamme e brulicante di insetti.
Gli attacchi di dissenteria e la fame costante mi rendevano sempre più
intorpidito, e dimagrivo a vista d'occhio. Se mi alzavo troppo bruscamente,
svenivo e mi accasciavo a terra. Dopo un po' cominciai a farlo di proposito,
nascosto dietro la baracca, per perdere i sensi. Così il tempo passava più in
fretta. Quei momenti di incoscienza erano una tregua dalla fame, dai
pidocchi e dalla piaga dei parassiti. Il supplizio della scabbia durò per
settimane, forse per mesi. Non riuscii ad arginarlo finché al campo non
arrivò una saponetta a base di acido fenico. Il mio corpo era in condizioni
disastrose, ma nella mia testa non mi sentivo affatto un prigioniero. Il
nemico mi aveva fatto molte cose, però non era riuscito a catturare la mia
mente.
Quell'anno in Italia fu un inferno. Molti ragazzi morirono di malattia e
inedia. Quando arrivò la notizia che alcuni di noi sarebbero stati trasferiti
pensai che peggio di così non poteva andare. Ero troppo debole per
marciare fuori del campo. Con noi non c'erano ufficiali, né la minima
traccia di disciplina militare. Il meglio che riuscimmo a fare fu trascinare
lentamente il passo verso i camion. A uno svincolo ferroviario ci
caricarono su carri bestiame. In giorni migliori avrei tagliato subito la
corda, ma adesso faticavo a reggermi in piedi. Un cartello appeso al vagone
diceva: «Capienza: quaranta uomini o dieci cavalli». C'era un unico secchio
per tutti. Io cercai di tenermene il più alla larga possibile. Tanti compagni
soffrivano ancora di dissenteria. Mi lasciai cadere in un angolo, felice di
avere trovato un posto sotto l'unica finestra del vagone. Era uno spiraglio di
trenta centimetri, chiuso dal filo spinato. Lasciava filtrare aria e luce, e
apriva un piccolo scorcio sul mondo che ci scorreva accanto. Era anche
l'unico posto dove svuotare il secchio, che presto fu pieno fino all'orlo.
Bisognava rimediare.
Un paio di ragazzi lo sollevarono fino alla finestrella, ma rovesciare un
secchio traboccante di escrementi da un foro chiuso con il filo spinato e
posto sopra la tua testa non era impresa facile. Il vento rigettò indietro
buona parte del contenuto, che scese a rivoli lungo la parete alla quale ero
appoggiato. Seguì uno scambio piuttosto animato. Lì dentro c'era tutta la
merda del mondo, e io ci stavo seduto proprio sotto.
La razione di cibo consisteva nella solita galletta e in un contenitore
d'acqua da dividere tra tutti. Non sapevamo dove ci stessero portando.
Mentre il treno procedeva lentamente verso nord superando chilometri di
spiagge deserte, vidi un cartello con su scritto: "Rimini". Ne avevo sentito
parlare prima della guerra. Ci allontanammo dal mare, e attraversammo una
serie di paesi dove la gente usciva di casa a salutare. Forse ci credevano
italiani.
Non avevo idea che si trattasse dello stesso tragitto che avrebbero
percorso i mezzi con dentro gli ebrei italiani e altri nemici del Reich, diretti
a nord, ai campi di concentramento. Il nostro vagone era maleodorante e
lurido, ma almeno avevamo lo spazio per sdraiarci. Gli ebrei venivano
stipati uno sull'altro, e attraversavano l'Europa verso una destinazione
spaventosa, senza poter contare sulla minima protezione in base alla
Convenzione di Ginevra. Non che finora ci avesse tutelato granché.
Dopo giorni di viaggio, la pendenza dei binari si fece più ripida e
faticosa, finché superammo il passo del Brennero. Eravamo arrivati in
Austria. Vidi le Alpi per la prima volta attraverso il filo spinato. Rimasi a
bocca aperta davanti a un tale splendore, ma un dubbio mi tormentava. Mi
ero sempre sentito molto legato alla campagna della mia infanzia. Nella
mia mente, la sua bellezza rispecchiava il meglio dell'umanità, e grazie a
quei paesaggi ero diventato l'uomo che ero. Mi domandai come fosse
possibile che cose tanto terribili accadessero in mezzo a una natura così
magnifica. Eppure il peggio doveva ancora venire.
A una stazione il treno si arrestò. I cartelli dicevano "Innsbruck
Haptbanhof". A un binario laterale ci fecero scendere e ci caricarono su
camion telonati. Ora le guardie che ci accompagnavano erano tedesche.
Dopo un lungo tragitto in aperta campagna, il convoglio si fermò in una
piccola radura nella foresta dove fummo autorizzati a scendere per fare i
nostri bisogni. Io mi allarmai. Le guardie tedesche avevano sistemato una
mitragliatrice su un treppiede, puntandocela addosso. Eravamo lontani da
tutto, senza testimoni. Se avessero aperto il fuoco avrei avuto migliori
possibilità di salvezza tentando la fuga o aggredendo i soldati? Il momento
di pericolo passò. Smontarono la mitragliatrice e risalimmo sui camion.
Nei mesi seguenti sarei passato da un campo all'altro. Non sempre
sapevo con certezza dove mi trovassi, e oggi mi è difficile ricostruire il loro
ordine di successione. Dopo un lungo viaggio arrivammo in uno di essi e
fummo destinati a una zona delimitata dal filo spinato, dietro al quale si
trovavano dei prigionieri russi.
Nei giorni seguenti cercai di parlare con loro, ma non parlando la stessa
lingua le nostre conversazioni non andavano molto lontano. Loro si
sforzavano di tenere alto il morale, e ci accolsero ballando dietro il filo,
eppure erano debilitati e denutriti, si reggevano a stento. Uno spettacolo
terribile. C'era un tanfo spaventoso, e passarono giorni prima che ne
scoprissimo l'origine. La puzza di putrefazione veniva dai cadaveri in
decomposizione. Al campo i russi morivano lentamente per la fatica e la
fame. Nel tentativo disperato di sopperire alle razioni insufficienti,
aspettavano il più possibile a denunciare la morte dei compagni,
nascondendone i corpi nelle baracche così da godere per qualche giorno del
cibo che sarebbe spettato loro.
I ratti, quelli se la passavano bene. Erano grossi come gatti, e senz'altro
si nutrivano di carne umana. Gliene sentivi l'odore addosso. Loro se ne
infischiavano delle staccionate e del filo spinato. Io dormivo sul pavimento,
e svegliandomi di notte me li trovavo a zampettare sul petto, sentivo il loro
alito fetido in faccia. Secoli fa un mio antenato faceva di mestiere il
cacciatore di topi. Se fosse capitato nel ventunesimo secolo, nell'era del
miracolo industriale, e ci avesse visti infestati da ratti ingrassati a carne
umana, avrebbe temuto la fine della civiltà. E avrebbe avuto ragione. Ero
tormentato dai morsi di strani parassiti, più grossi delle pulci dei cani. Noi
li chiamavamo cimici. Non so se lo fossero davvero, ma schiacciandole
schizzava fuori il sangue che ci avevano succhiato.
Mi ritrovai presto nei guai. Un giorno, attraversando il campo, venni
fermato da un ufficiale tedesco che sbraitava. Non gli avevo fatto il saluto
militare. Cercai di spiegargli che nell'esercito britannico non si saluta un
soldato senza berretto. Niente da fare. Uno dei miei compagni mi gridò di
accontentarlo e farla finita. A malincuore eseguii, e l'ufficiale mi lasciò
andare.
Dopo un po' ci divisero in gruppi e io venni destinato alla miniera di
carbone insieme ai russi. All'ingresso della galleria salii sul montacarichi e
sprofondai nel buio, trasportato dalla fragile gabbia che cigolava e si
deformava per il peso, minacciando di precipitare da un momento all'altro.
Le guardie armate sul fondo del pozzo ci ordinarono di marciare fino alla
vena di carbone. Non parlavano russo, e per comunicare con i prigionieri si
limitavano a randellarli. Il trattamento era brutale. Io ero l'unico inglese in
quella galleria, e con me si comportavano un po' meglio. Mi spedirono a
spalare carbone dentro un carrello dalla mattina alla sera. Lavoravo con i
piedi nell'acqua. Si gelava, e la fatica era snervante. Nessuno aveva caschi
o abiti di protezione, ma le condizioni peggiori toccavano ai russi, quasi
tutti scalzi, costretti a scavare con utensili pesanti. Mi era tassativamente
vietato parlare con loro.
Ero assegnato alla miniera da appena tre giorni quando sentii urlare una
delle guardie. La furia aggressiva della sua voce superò il rumore dei
picchetti e delle vanghe che raschiavano nel buio. Stavano picchiando un
russo. Aveva cercato di proteggersi dalle rocce aguzze legandosi sottili
strisce di gomma sui piedi nudi. Avevo intravisto un nastro trasportatore
abbandonato in una galleria secondaria, e intuii subito che le aveva tagliate
da lì.
La guardia era isterica, strillava come un forsennato accusando il
prigioniero di sabotaggio. I compagni del russo vennero trascinati via dallo
scavo e tutti e dieci, con le facce annerite dal carbone, fummo disposti
lungo la parete del tunnel. Nessuno si lamentò o implorò pietà. Non ce ne
fu il tempo. Non sentii l'ordine. La guardia smise di urlare. Cinque soldati
imbracciarono il fucile e uno di loro sparò senza esitare. Uno scoppio
assordante riverberò nel labirinto di gallerie e passaggi semibui. Fu seguito
da un altro, esploso da un secondo soldato mentre il primo ricaricava.
Avevo pochi secondi per reagire. Scappare era impossibile, e se era
destino che morissi in quel pozzo dimenticato da Dio avrei portato con me
uno di loro. Almeno questo potevo farlo, tanto ero condannato comunque.
Ci furono altri spari, in rapida successione. Poi il silenzio. Cinque proiettili
e cinque russi morti, accasciati nella polvere di carbone. Io ero l'ottavo
della fila.
Avevo tenuto lo sguardo fisso sul plotone di esecuzione, e non vidi i
russi stramazzare a terra. Le orecchie mi fischiavano ancora quando ci
trascinarono via. Non era la prima volta che vedevo la morte in faccia, però
almeno in passato avevo potuto lottare. Adesso la mia sopravvivenza
dipendeva dal capriccio di un nemico spietato. Non ero mai arrivato tanto
vicino alla rassegnazione. Mi ero salvato, ma senza muovere un dito. Ciò
che accadde in quel buco infernale mi scosse più di qualunque cosa mi
fosse mai accaduta prima, e forse anche dopo.
Mi condussero in una stanza spoglia. Con un violento spintone la guardia
mi fece cadere su una sedia, e cominciò l'interrogatorio. In un inglese
stentato, l'ufficiale domandò se ero io la mente dietro il «sabotaggio».
Avevo istigato io il russo? Chi gli aveva dato l'ordine? Io non avevo nulla
da dire. Non c'era stato nessun piano, solo un poveraccio stremato che
aveva cercato di proteggersi i piedi dal gelo e dalle ferite. Se ero stato io a
escogitare il piano, dissero, mi avrebbero fucilato. Su questo non avevo
dubbi.
Le loro minacce mi fecero preoccupare davvero, eppure il mio motore
interiore funzionava ancora: non erano riusciti a piegarmi. Fui scortato a un
treno e spinto su un vagone insieme a un altro gruppo di prigionieri. Erano
ordinarie carrozze ferroviarie, con un corridoio che comunicava tra piccoli
scompartimenti spartani. La nostra destinazione ci era sconosciuta. Chiesi il
permesso di usare il gabinetto, e andandoci mi resi conto che si trovava in
fondo al vagone, vicino allo sportello. La guardia era lontana. Non
conoscevo nessuno dei miei compagni, ma avevamo pensato tutti la stessa
cosa. Quando il treno si fermò forzammo lo sportello, scavalcammo i binari
e ce la filammo nei campi. Una mezza dozzina di noi riuscì a scappare
prima che il treno si rimettesse in marcia. Non c'era alcun accordo tra noi:
correvamo all'impazzata in ogni direzione.
Ero mentalmente sfinito. La fucilazione in miniera mi aveva fiaccato.
Avrei dovuto imparare la lezione dal tentativo fatto in Italia: per
funzionare, un'evasione va pianificata accuratamente. Noi indossavamo
ancora l'uniforme, eravamo riconoscibili a chilometri di distanza. Non so
quanti furono catturati di nuovo, ma nel giro di poco io mi ritrovai la canna
di un fucile puntata addosso. Per fortuna non mi spararono, mi portarono in
una stanza dove fui interrogato e picchiato. Poi mi spedirono in un campo
che credo fosse quello di Lamsdorf. Non ebbi mai l'occasione di scoprirlo
con certezza. Ormai ero stato bollato come un sobillatore recidivo.
Fui trasferito quasi subito al campo di detenzione di Graudenz, nella
Polonia settentrionale. Mi ordinarono di spogliarmi, e un uomo mi spruzzò
una polvere bianca e dall'odore acre tra le gambe e sotto le ascelle. Mi
rasarono i capelli e mi fotografarono come fossi un delinquente, di fronte e
di lato, con una tavoletta di legno appesa al collo per l'identificazione. Ero
il prigioniero numero 220543.
Mi condussero in una baracca spoglia, già occupata da tre inglesi e uno
scozzese. Erano tipi rudi, con la testa rasata, e l'aria di meritarsi la
prigionia. Non avevamo molto in comune. Ogni giorno, per qualche minuto
ci lasciavano uscire a camminare in un cortile angusto, circondato da un
alto muro. Non si poteva fare altro che marciare in cerchio, all'infinito. Io
non parlavo granché. Non ero ancora riuscito a scrollarmi dalla mente la
fucilazione in miniera.
Per dormire non avevamo un materasso, solo tavolacci nudi. Per riuscire
a prendere sonno dovevo togliere l'asse centrale, lasciando che i miei
fianchi magri pendessero nel vuoto: mi spuntavano talmente le ossa che
appoggiarle al legno mi causava una sofferenza atroce. La coperta in fibra
di legno era così sottile da essere trasparente. La prima sera me la tirai
addosso troppo bruscamente, e la strappai.
La mattina dopo il mio arrivo mi portarono in un'altra stanza spoglia,
dove due ufficiali sedevano a una scrivania. Appena questi cominciarono
con l'interrogatorio, due guardie si misero al mio fianco. Guardai con
preoccupazione i loro anfibi pesanti e lucidi, temendo un pestaggio, ma era
tutta una messinscena. Fu un sollievo. Erano ancora convinti che avessi
architettato qualcosa insieme ai russi però, in mancanza di prove, la mia
uniforme mi tutelava.
Venni a conoscenza di cose terribili che accadevano intorno a me in altre
parti di quel campo sterminato, tuttavia io me la cavai. Mi avevano
mandato là per punizione, ma almeno non lavoravo più in quell'orrenda
miniera. Dopo circa tre settimane mi trasferirono di nuovo, questa volta
scortato in treno da un paio di guardie.
Capitolo 9
Raggiungemmo una piccola stazione. La banchina era molto bassa, e
c'era una scaletta per scendere dal treno. Mi portarono dritto a un sentiero
di terra battuta, e dopo circa tre chilometri ci trovammo in un campo
circondato da un bel paesaggio, in aperta campagna. Stentavo a credere al
cambiamento rispetto ai luoghi dov'ero stato prima. C'erano dieci baracche
di legno, ben costruite, il cortile era un prato verde, e il perimetro chiuso da
un'unica rete di filo spinato. "Qui ci sarà da divertirsi", pensai. All'interno
c'erano già alcune centinaia di prigionieri alleati. Avevamo la luce elettrica,
l'acqua corrente, latrine dove potevi sederti, e un impianto di riscaldamento.
I letti a castello erano dotati di materassi di paglia, persino le coperte erano
decenti. Girava voce che fosse stato costruito per la Gioventù hitleriana. Ne
aveva tutta l'aria.
Gli altri prigionieri mi dissero che il campo si trovava a sud di una
cittadina polacca chiamata OÅ“wie²cim.
La mattina dopo ci svegliarono alle sei e mezza e ci fecero marciare al di
là dei cancelli, attraverso campi e boschi per un paio di chilometri, finché
d'un tratto il verde sparì. Davanti a noi si apriva un enorme cantiere, a
perdita d'occhio. Dai camini e dalle gru a vapore salivano volute di fumo.
Dal fango stava sorgendo l'oscuro scheletro in ferro e cemento di una
fabbrica infernale. Al di sopra della struttura, sospesa a cavi d'acciaio, era
legata una schiera di palloni aerostatici. Entrammo all'interno.
Dovunque guardassi, vedevo muoversi lentamente strane figure:
centinaia, no, migliaia. Indossavano tutti camicie e pantaloni logori, a
righe, più simili a pigiami che ad abiti da lavoro. I loro volti erano terrei, le
teste rozzamente rasate, appena coperte da minuscoli copricapi. Si
aggiravano come ombre vaghe e indistinte, parevano destinati a dissolversi
nel nulla da un momento all'altro. Non riuscivo a capire chi, o cosa,
fossero.
I miei compagni li chiamavano "uomini a righe". Mi dissero che in
tedesco la cittadina polacca di OÅ“wie²cim aveva un altro nome: Auschwitz.
Riconobbi quei poveri sventurati come miei simili, malgrado fossero
stati privati di quasi ogni traccia di umanità. Ciò che avevano subìto lo
portavano impresso addosso, insieme alla stella di David cucita sulla
casacca. Erano ebrei.
Fummo divisi in Kommando di venti o trenta lavoratori ciascuno, agli
ordini di un capocantiere responsabile di un settore, e ci misero all'opera:
sterro, trasporto di materiale edile e di grossi tubi da un punto all'altro del
campo, installazione di cavi. Il meccanismo mi fu subito chiaro. Quando
bisognava spostare qualcosa di pesante, assegnavano il compito a quei
poveretti a righe, che si materializzavano neanche fossero sbucati dalle
profondità della terra e sciamavano in massa intorno al tubo, alla valvola o
al cavo per riuscire a sollevarlo. Ne servivano tanti perché erano
debolissimi. Alcuni camminavano chini sotto il peso di grossi sacchi di
cemento, altri spingevano a fatica le carriole.
I capicantiere gli stavano addosso, brandendo bastoni o grandi funi
annodate, che usavano come brutale incitamento. Erano i criminali reclutati
come kapò, prigionieri a loro volta che tuttavia avevano potere di vita e di
morte su tutti gli altri, e non si facevano scrupolo a esercitarlo. Li odiai a
prima vista. Quasi subito assistetti al primo pestaggio, e stentai a credere
che la vita in quel luogo valesse così poco. Persino nel deserto alla morte si
tributava un minimo di rispetto. Là essa non meritava il prezzo di una
pallottola. Per finire gli uomini a righe bastavano anfibi e bastoni.
Da principio ci tennero separati dai prigionieri ebrei. Se uno di loro ci
rivolgeva la parola rischiava di essere fucilato, o ammazzato di botte. A
sera noi tornavamo al nostro campo quasi decente e loro venivano portati
via, Dio solo sa dove.
Quella fabbrica gigantesca veniva costruita per conto di un colosso della
chimica, la IG Farben, e doveva servire alla produzione di buna, una
gomma sintetica, e di un carburante al metanolo: entrambi materiali
destinati allo sforzo bellico di Hitler. Il cantiere si estendeva per più di tre
chilometri in lunghezza e per quasi due di profondità. All'interno della
recinzione di filo spinato, disposto in una griglia enorme, c'era un numero
incalcolabile di singoli Bau, o capannoni, il tutto dominato da un
gigantesco impianto industriale con quattro altissime camini. Noi lo
chiamavamo Queen Mary, come la nave da crociera con i suoi tre fumaioli.
Non dovevamo essere molto forti in aritmetica. Edifici, torri e camini
venivano costruiti dappertutto, con impalcature e impianti di scolo su scala
ciclopica, e ogni settore era attraversato da un binario a scartamento ridotto,
per consegnare quanto serviva a edificare e rendere produttivo il
complesso. Dovunque, in ogni angolo e nicchia di quell'incubo industriale,
si vedevano accasciate povere creature nelle loro luride uniformi a righe,
troppo deboli per reggersi in piedi, figuriamoci per sollevare e trasportare
carichi. Ormai avevo capito che quello non era un normale campo di
lavoro. I prigionieri venivano deliberatamente ammazzati di fatica.
Era l'inferno in terra. Non ci sono altre parole per definirlo. Niente erba,
niente vegetazione da nessuna parte, solo fango d'inverno e polvere
d'estate. La natura per non parlare del suo Grande Architetto aveva
abbandonato a se stesso quel luogo. Per tutto il tempo che rimasi là non
vidi mai né una farfalla, né un uccello, né un'ape.
Presto fu evidente che le guardie non potevano imporre una separazione
rigorosa tra i gruppi di prigionieri. Ciò rallentava i lavori, che andavano
portati a termine prima possibile.
Così cominciammo a lavorare fianco a fianco con gli ebrei. Da quel
momento in poi condividemmo la loro fatica, ma non le frustate e le
esecuzioni arbitrarie. Noi non eravamo destinati allo sterminio, loro sì. Era
questa la differenza. Il vento da ovest portava da camini più distanti un
odore dolciastro e nauseabondo.
Per qualche giorno lavorai accanto a un poveretto, credo si chiamasse
Franz. Avevo cominciato a distinguerlo tra la folla. Poi un giorno non lo
vidi più. Approfittai di un momento di distrazione dei kapò e chiesi a uno
dei compagni del suo Kommando cosa gli fosse capitato. L'uomo sollevò le
mani verso il cielo, e disse: «È passato per il camino».
Finalmente compresi. Quelli troppo deboli per lavorare venivano uccisi e
bruciati. L'odore che ristagnava nell'aria proveniva dai camini del
crematorio poco lontano. Adesso sapevo la verità, ma sentirlo dire non mi
bastava.
Durante una marcia di ritorno al cantiere della IG Farben scoppiò un
tafferuglio tra alcuni prigionieri inglesi e le guardie della Wehrmacht, o
Posten, come venivano chiamati. I nostri ragazzi li stuzzicavano con gesti e
versi sprezzanti, e io mi ci ritrovai in mezzo. Finì in rissa, e altri Posten si
intromisero per cercare di riportare la situazione sotto controllo,
strattonandoci e prendendoci a spintoni. Il Feldwebel "sergente" urlava
degli ordini. Era un tizio alto e mi puntò gli occhi addosso appena emersi
dalla mischia. Strappò un fucile a un Posten, lo impugnò come un bastone,
con entrambe le mani, e lo sollevò in aria facendo per colpirmi con tutte le
sue forze. Io vidi arrivare il colpo e lo schivai. Ci fu uno schianto, un
rumore di ossa fratturate. La bastonata aveva centrato sul lato del cranio
uno dei tedeschi alle mie spalle. Stramazzò all'istante, con la faccia
sfigurata. Una randellata in piena tempia con il calcio di un fucile da
quattro chili non perdona. Se non era morto sul colpo, comunque non gli
restava molto da vivere. Tornammo in fila e ci preparammo alla
rappresaglia. Non accadde nulla. Quel Feldwebel non lo rividi mai più.
Gli agi della prima sistemazione non erano destinati a durare. Un giorno,
all'inizio del 1944, ci trasferirono in un altro campo, a pochi metri dal
perimetro sud del complesso della IG Farben. Gli uomini a righe erano
concentrati da qualche parte a est del luogo dove stavamo noi, abbastanza
vicini perché di notte sentissimo le urla e talvolta gli spari che provenivano
dalle loro baracche.
Il nostro nuovo luogo di detenzione era spoglio e spartano, e più affollato
del precedente. D'inverno stalattiti pendevano dal soffitto, e nei mesi più
caldi i locali si riempivano di mosche. La latrina era rudimentale, solo una
fila di buche con un'asse disposta di traverso sopra il fosso, e anche così
non era sufficiente per il numero di prigionieri.
Venimmo a sapere che il campo E715, secondo la denominazione
ufficiale, aveva ospitato prigionieri russi. Girava voce che le SS li avessero
liquidati per far spazio a noi, radunandoli nel tunnel che in seguito ci
avrebbe fatto da rudimentale rifugio antiaereo, e soffocandoli con un gas
letale. Allora non potevamo verificare se fosse vero o no, ma in un posto
del genere tutto era possibile.
Ora so che i prigionieri di guerra sovietici fecero da cavia ai primi
esperimenti di gassazione. Nel settembre del 1941 furono assassinati a
centinaia con lo Zyklon B in una cantina del campo principale di
Auschwitz. La tecnica funzionava, ma per i comandanti ancora non era
abbastanza efficiente. Così adottarono uno dei crematori per far cadere
dall'alto i cristalli di gas, attraverso bocchette ricavate nel tetto. In quella
prima sperimentazione perirono novecento persone. Gli ingranaggi della
macchina dello sterminio si erano messi in moto.
Buna-Monowitz, il complesso industriale della IG Farben, nel 1944.
Auschwitz III, Buna-Monowitz alla fine del 1944.
La voce che nel nostro campo stavano avvenendo delle gassazioni
alimentò esponenzialmente il mio senso di impotenza e il bisogno di
vederci più chiaro. I russi venivano perseguitati quasi quanto gli ebrei, e
rispetto a entrambi noi eravamo dei privilegiati. Le nostre guardie di solito
appartenevano alla Wehrmacht, l'esercito regolare tedesco, ed erano meno
brutali delle SS, ma comunque nessuno aveva l'umanità degli Afrika Korps.
L'ufficiale tedesco che vedevamo più spesso nel campo E715 era un
graduato di nome Mieser. Si presentava quando c'erano problemi da
risolvere, e ogni mattina per l'appello.
Noi sfidavamo quel rituale con tutta l'insubordinazione che osavamo
dimostrare. Non venivamo certo contati a nostro beneficio.
Mieser ci urlava di fare silenzio ruhig, in tedesco e noi gli facevamo il
verso. A ogni sua apparizione veniva subissato da un coro di «ruhig!», e il
soprannome gli restò. Erano rivalse da bambini, ma contribuivano a tenere
alto il morale. Ruhig era dispotico, e alcuni di noi lo odiavano, ma non era
certo tra i peggiori.
Più di rado vedevamo il comandante, o Hauptmann, come lo
chiamavamo noi. In una occasione me lo trovai avanti. Era sera, e stavamo
tornando dal lavoro sotto una pioggia battente. Io ero al fianco di un
cockney di nome Phil Hagen. Le guardie ci bloccarono nel piccolo spazio
recintato dal filo spinato all'ingresso del campo e cominciarono a
perquisirci. Non impiegarono molto a scoprire che Phil aveva nascosto un
uccello morto nei pantaloni, una gallina o forse un'anatra, scovata chissà
dove.
Quando uno di noi trasgrediva le regole, la punizione toccava a tutti.
Alle urla e agli ordini delle guardie i ragazzi risposero con grida di scherno,
costringendo i tedeschi a sparare alcuni colpi in aria per riprendere il
controllo della situazione.
Io mi trovavo accanto a Phil, così fummo entrambi trascinati via e chiusi
a passare la notte al gelo della cella di punizione, nella zona anteriore del
campo. Ci tennero a digiuno, e senz'acqua. Quando la mattina dopo ci
lasciarono uscire, Phil dichiarò che il volatile lo aveva aggredito, e lui lo
aveva ucciso per autodifesa. Seguì una pausa per la traduzione, poi il
comandante scoppiò a ridere, la tensione si allentò, e la faccenda finì lì.
Nel campo si parlò a lungo di due episodi di atrocità subite dai nostri
compagni. Io non mi trovavo sul posto, ma sentii raccontarlo nel dettaglio.
"Jock" Campbell era un ragazzo sveglio, e malgrado le condizioni del
campo riusciva a mantenere ancora un aspetto decente, persino elegante.
Secondo la voce che girava, una sera la sua colonna stava tornando alle
baracche quando Jock vide una prigioniera che rischiava di soccombere
sotto il peso di un grosso fusto di metallo.
A quella vista, lui si staccò dalla fila e andò ad aiutare la donna. Gli
venne ordinato di tornare al suo posto. Al suo rifiuto una guardia lo infilzò
con la baionetta, non riuscendo a ucciderlo per puro caso. Secondo alcuni
racconti il responsabile era un soldato di nome Benno Franz. Io non
assistetti all'incidente, e non posso testimoniare. Ciò che vidi con i miei
occhi, passando poco dopo con la colonna in marcia, fu Campbell steso a
terra, assistito da alcuni compagni. Era messo male, ma la ferita non
sembrava mortale, e sono quasi certo che se la sia cavata.
Il 23 febbraio 1944 un caporale della Royal Army Service Force stava
sgobbando al cantiere Buna-Werke quando gli fu ordinato di arrampicarsi
su un'impalcatura d'acciaio, alta venti metri e coperta di ghiaccio. Lui si
rifiutò di farlo, sostenendo che senza le scarpe adatte sarebbe stato un
suicidio. Fu fucilato sul posto. Il caporale si chiamava Reynolds. Alcuni
accusarono dell'omicidio un ufficiale di nome Rittler, altri dissero che si era
nuovamente trattato di Benno Franz. Ricordo che quel giorno sentii lo
sparo, ma non mi presi la briga di andare a vedere. Non era un suono poi
tanto insolito. Quegli episodi smorzarono il poco buonumore che ci era
rimasto.
Qualcuno nel campo E715 pensava che il modo migliore di resistere
fosse occupare i brevi momenti di riposo con attività creative. Per sollevare
il morale, e dimostrare che non ci avevano fiaccato, i compagni decisero di
allestire spettacoli teatrali nelle baracche. Non so quale genio ebbe la
brillante idea di mettere in scena la storia di Sweeney Todd, come se
avessimo bisogno delle gesta di quel barbiere infernale per dare una scossa
alle nostre monotone esistenze. Ne vedevamo già abbastanza, di gente
assassinata.
Forse puntavano a un'allegoria sovversiva. Ammesso che l'intento fosse
quello, personalmente non ne rimasi troppo colpito. Ricordo solo le
irruzioni di guardie e censori tedeschi venuti a verificare cosa stessimo
combinando. Furono organizzate anche altre produzioni di dubbio gusto,
ma quel modo di affrontare la situazione non mi si addiceva. Eravamo
testimoni di un'atrocità senza fine, e io non intendevo affatto distogliere lo
sguardo.
Tuttavia, come molti altri compagni, fui di tutt'altro avviso quando si
trattò di giocare a calcio. Dopotutto, eravamo esseri umani anche noi. Al
campo vennero consegnati delle maglie e qualche paio di calzoncini, e
qualcuno organizzò una sorta di campionato internazionale. Le squadre
previste erano Inghilterra, Scozia, Galles e Sud Africa, ma non c'erano
abbastanza giocatori di ciascuna nazionalità. Burt Cook era l'unico
sudafricano a giocare a calcio, per quanto io ricordi, quindi quelle erano
"nazionali" solo di nome. Io giocai due partite come ala destra della
formazione sudafricana, segnai nella finale e vincemmo il torneo.
Gli incontri si svolgevano su un campo a est dell'ingresso principale, e
presumo che le guardie avessero predisposto uno schieramento di
mitragliatrici, casomai ci fossero venuti dei grilli per la testa. Il portiere
dell'Inghilterra era Doug Bond, che ancora non conoscevo bene ma che
anni dopo sarebbe diventato mio amico. L'opportunità di giocare era troppo
allettante, e giusto o sbagliato che fosse, me la godetti fino in fondo.
Ripensandoci oggi, so che ci comportammo da ingenui. Dopo il torneo ci
mettemmo in posa per la foto, e nel ritratto ci si vede sorridenti, con i volti
giovani e arrossati. Ora credo che l'intera faccenda facesse parte di una
elaborata operazione di propaganda. A quanto ricordi, il fotografo era un
civile, e ci furono consegnate copie dello scatto. Più o meno nello stesso
periodo ci assegnarono anche delle uniformi pulite, non nuove ma
decisamente meno rovinate di quelle che avevamo addosso. Molti ragazzi
furono messi in fila per essere fotografati con la nuova tenuta.
Tutto ciò faceva gioco ai tedeschi, permettendo ai regolari della
Wehrmacht di differenziare il trattamento riservato a noi da quello che le
SS facevano subire agli ebrei. Si preparavano a rispondere del loro operato
nel dopoguerra. Sono convinto che quel tipo di espediente aiutasse anche i
comandanti del campo a levarsi di torno la Croce Rossa, la quale peraltro si
era già dimostrata piuttosto ingenua. In seguito mi capitarono sotto mano
alcuni dei loro rapporti sulle condizioni di vita nel nostro campo, e non
somigliavano nemmeno lontanamente alla realtà dei fatti.
Sostenevano che avevamo il permesso di giocare a calcio ogni volta che
ci andava, purché ci fosse un numero sufficiente di guardie a sorvegliarci.
Tutte balle. Uno dei resoconti della Croce Rossa dichiarava che il lavoro
non era faticoso, e che nessuno se ne lamentava.
Dicevano che avevamo acqua corrente calda, e un osservatore
particolarmente fantasioso sostenne di averci visto giocare a tennis.
Denunciarono, però, il numero insufficiente delle latrine rispetto alla
popolazione del campo, e il fatto che l'acqua potabile fosse infetta. Almeno
questo i tedeschi lo avevano ammesso.
L'ambiente nel nostro campo non era solidale. Non sapevi mai di chi
fidarti. Si parlava costantemente di spie nei nostri ranghi, le chiamavamo
"le faine". Ricordo, in particolare, il caso di un tale Miller, che conoscevo
di vista. Era un tipo con la parlantina facile, arrivato da solo dal campo di
Lambsdorf, e si presentò ai compagni come un soldato del Green Howards,
uno dei reggimenti più piccoli. Suscitò subito dei sospetti. A quanto pare,
certi dettagli nei suoi racconti di guerra e del reggimento non quadravano, e
alcuni compagni decisero di indagare. Conclusero che Miller era una faina:
una spia infiltrata nel campo per strapparci informazioni.
Secondo le voci che circolavano, lo trascinarono nella latrina, lo uccisero
e gettarono il suo corpo nella fossa. Io non ero presente, ma non ho mai
dubitato che sia andata proprio così. Nel campo c'erano parecchi uomini
capaci di farsi carico di un compito simile. I tedeschi non fecero mai
domande su quella scomparsa.
Capitolo 10
Sgobbavamo undici ore al giorno. Levatevi dalla testa tutto ciò che avete
visto nei film di guerra, che ritraggono i prigionieri in comodi maglioni da
cricket, impegnati in qualche lavoretto di giardinaggio o a fare ginnastica
per nascondere l'entrata dei tunnel che si erano scavati per la fuga, fumando
la pipa e prendendosi gioco dei tedeschi. Forse sarà stato così nei campi
riservati agli ufficiali, ma quanto a noi, "i bassi ranghi", eravamo costretti a
una manovalanza logorante, seppure nemmeno remotamente paragonabile
alle fatiche imposte ai prigionieri ebrei.
Sul sito della fabbrica li vedevo morire ogni giorno, alcuni ammazzati a
calci e bastonate, altri che semplicemente stramazzavano a terra, stroncati
dallo sfinimento e dalla fame. Sapevo che accadeva la stessa cosa in ogni
angolo del campo, in ogni Kommando di lavoro. Qualcuno poteva riuscire a
prolungare la propria vita di qualche giorno, ma per tutti era prevista una
fine identica. Venivano affamati di proposito. Verso mezzogiorno arrivava
l'orrenda zuppa di cavolo. Noi riuscivamo a trangugiarla a stento, malgrado
ce ne toccasse una parte un po' più nutriente, mentre agli ebrei non restava
che acqua sporca e maleodorante. Di tanto in tanto riuscivamo a gonfiare il
numero degli operai nel nostro Kommando, per ottenerne qualche mestolo
in più. Non potevamo darla direttamente agli ebrei, ma la lasciavamo da
qualche parte dove potevano trovarla. Se le guardie o i kapò li
sorprendevano a mangiare il nostro rancio, si precipitavano a rovesciare la
gavetta con un calcio, dopodiché di solito seguiva un pestaggio.
A Buna-Werke levavano a ogni prigioniero fino all'ultima goccia di vita
e di energia, e quand'era esausto lo mandavano a morire. A quel tempo il
nome della loro destinazione non era ancora noto. Venivano mandati verso
ovest, nell'originario campo in muratura, Auschwitz I, o nella vasta distesa
di nuove baracche di legno, Auschwitz-Birkenau. Là morivano anche più in
fretta, alcuni direttamente all'arrivo. Dietro l'intera organizzazione c'erano
le SS e gli stessi dirigenti della IG Farben. La mia rabbia si concentrava sui
kapò, prigionieri messi a guardia dei loro compagni. Erano uomini malvagi,
e molti portavano il triangolo verde dei criminali incalliti. La loro
sopravvivenza dipendeva dalla disciplina che riuscivano a imporre agli altri
detenuti. Se perdevano il loro status privilegiato, non avevano nessuno a
cui appellarsi, e non campavano a lungo.
Si sente spesso parlare di quanto sia disumano l'uomo verso i suoi simili,
ma là non si trattava nemmeno più di questo: era bestiale e basta. L'amore e
l'odio non avevano alcun significato. Il sentimento dominante era
l'indifferenza. A ogni omicidio gratuito al quale assistevo mi sentivo
sempre più impotente. Vivevo una vita terribile.
Per i prigionieri ebrei qualunque oggetto di scambio o commestibile
aveva un valore inestimabile. Poteva significare campare un giorno di più.
Dovevano tutti trovarsi una via di salvezza, un modo di garantirsi qualche
caloria extra ogni giorno, o erano spacciati. I rischi che correvano erano
incalcolabili.
Al confronto noi eravamo dei privilegiati, ma solo relativamente
parlando. Protestammo per ottenere una domenica di riposo ogni tanto, e i
rigori del campo si allentarono un po'. Ma non prima che io mi ritrovassi
implicato in uno scontro con uno degli appaltatori al cantiere della IG
Farben.
Una conoscenza limitata a volte è più rischiosa dell'ignoranza pura e
semplice, e ad Auschwitz un'infarinatura approssimativa delle lingue
straniere poteva risultarti letale. Io avevo litigato con uno dei dirigenti del
cantiere, accusandolo di essere uno Schwindler perché ci costringeva a
lavorare sette giorni su sette, senza interruzioni. Lui diede in
escandescenze. Compresi di avere sbagliato termine quando chiamò le
guardie per portarmi via.
Alla fine fecero intervenire un traduttore, un soldato scozzese che
conosceva il tedesco meglio di me. Il compagno prese le mie difese,
chiarendo che intendevo swindler, un termine blando che nella mia lingua
significa "imbroglione", uno che se ne approfitta. Evidentemente la parola
tedesca era un insulto ben più grave. In realtà, nemmeno Schwindler
arrivava a definire ciò che pensavo davvero di lui, ma comunque la
spiegazione dello scozzese placò gli animi e non ci furono strascichi.
Ancora una volta dovevo ringraziare la mia buona stella.
Lavoravamo come schiavi, e alla fatica si cumulava la rabbia di
contribuire con le nostre stesse mani allo sforzo bellico tedesco.
Protestammo che imporre i lavori forzati ai prigionieri di guerra costituiva
una violazione della Convenzione di Ginevra. Con mia sorpresa la
lamentela arrivò ai vertici, e fummo convocati in un edificio riservato agli
uffici all'interno del cantiere della IG Farben. Io fui scelto, insieme ad altri
quattro, per fare da portavoce. Ero stupito del fatto che fossero anche solo
disposti a starci a sentire, ma quando ci fecero entrare nell'ufficio e vidi che
l'incontro sarebbe stato presieduto da un alto ufficiale, capii che si metteva
male.
Lui ascoltò il nostro discorsetto, poi sfoderò la Luger dalla fondina, la
sbatté sulla scrivania, e disse: «Eccola qui, la mia Convenzione di Ginevra.
Farete quello che dico io, punto e basta». Ci rispedirono al lavoro, ma non
ci avevano dissuasi dal fare tutto il possibile per ostacolare il progetto dei
tedeschi.
Io fui incaricato delle consegne all'ufficio di un ingegnere tedesco.
Quando arrivava in cantiere portava sempre un cappello di feltro e gli
stivali alti, o le ghette, ma gli piaceva chiacchierare e, a quanto pareva, gli
stavo simpatico. Noi eravamo decisi a sabotare il lavoro che i tedeschi ci
costringevano a fare, e la presenza di quell'uomo ci spianò la strada. Fu in
quell'occasione che conobbi Paulina, una giovane ucraina che lavorava per
l'ingegnere. Dopo l'attacco tedesco all'Unione Sovietica, lei e molte altre
donne erano state deportate dall'Ucraina, e costrette a mettersi al servizio
dei nazisti in tutt'Europa. Godevano di una maggiore libertà rispetto ai
prigionieri ebrei, non indossavano la divisa a righe e non erano destinate
allo sterminio, ma conducevano comunque un'esistenza precaria. Ci voleva
fegato per aiutarci, e Paulina lo ebbe davvero. Veniva da una località del
Mar Nero, era giovane, aveva un viso ampio e i capelli biondi e ondulati.
Ci informava quando erano previste consegne di macchinari o componenti,
così da darci il tempo di organizzare qualche forma di sabotaggio.
Quando incontrarci nell'ufficio dell'ingegnere divenne troppo rischioso,
iniziammo a farlo nel piccolo vano di una caldaia. L'addetto era anche lui
un prigioniero, e io lo avvertivo in anticipo. Sapeva cosa stavamo facendo,
ma ci prendeva comunque in giro, intrecciando le dita e bisbigliando
«amour, amour» in tono allusivo.
Dalla parte dietro la caldaia aveva sfilato le viti che reggevano la parete
di lamiera, così se una SS fosse entrata nella baracca mentre stavamo
parlando, uno di noi poteva filarsela dal retro, ma non capitò mai di dover
ricorrere a quell'espediente.
Le informazioni che Paulina ci forniva erano di importanza vitale. Noi
scambiavamo i documenti di trasporto dei vagoni della ferrovia, sperando
di indirizzare il carico alla destinazione sbagliata. Riempivamo di sabbia i
cuscinetti degli assali, per farli surriscaldare fino a bloccare gli ingranaggi.
Storcevamo le pale delle ventole di raffreddamento, in modo che vibrassero
e danneggiassero le apparecchiature. Arrivammo al punto di conficcare
sassi aguzzi sul fondo degli sterri che avrebbero ospitato i cavi, nella
speranza che causassero un black-out. Quando ci mandarono a fissare degli
enormi gasometri, trovammo un sistema per martellare la testa dei bulloni
al punto di farli sembrare avvitati, mentre in realtà con il tempo si
sarebbero allentati, causando una perdita. Io mi introducevo di nascosto nei
depositi degli appaltatori, individuavo le bombole di ossigeno liquido dei
saldatori ad acetilene, e aprivo le valvole con una chiavetta che mi ero
costruito, lasciando fuoriuscire il gas. L'acetilene si riconosce dall'odore,
l'ossigeno no. Era il delitto perfetto. La mia competenza tecnica mi
risultava utile per la prima volta dalla guerra nel deserto, e mi dava
soddisfazione riuscire a fare di nuovo la mia parte.
Paulina mi dava molto più che informazioni. Un paio di volte riuscì a
portarmi da mangiare qualcosa di cucinato e, meglio ancora, me lo servì su
un piatto vero. Non sapevo dove l'avesse scovato, ma lo apprezzai davvero.
Io le piacevo, tutto qui. Non ci fu mai niente tra noi ma, quando mi diede
una sua foto, io la conservai comunque. Ce l'ho ancora oggi. Mi regalò
anche un semplice anello-sigillo, con sopra delle iniziali misteriose, FD, e
una data, 1943. In quel luogo un dono, per quanto insignificante,
rappresentava un raro gesto di umanità, così anche l'anello rimase con me
fino al mio ritorno a casa.
Molte delle nostre azioni di sabotaggio non sarebbero mai state
realizzabili senza il suo aiuto. Ci limitammo sempre ad atti di logoramento
a lungo termine. Non poteva essere altrimenti. Se avessimo tentato
qualcosa di più eclatante, qualcuno l'avrebbe pagata. Il rischio era troppo
alto.
Nell'aprile del 1941 inaugurarono gli scavi per l'impianto della buna.
Heinrich Himmler, Reichsführer delle SS, aveva promesso alla IG Farben
la fornitura di migliaia di schiavi per portare a termine la costruzione. Da
quella fabbrica non uscì mai nemmeno un lotto di gomma, e mi piace
pensare che il nostro operato possa avere contribuito a quel fiasco.
Eravamo circondati da continue atrocità. Un giorno, accanto all'edificio
della mensa nel cantiere della IG Farben, vidi un prigioniero ebreo che
frugava in un bidone dell'immondizia, in cerca di qualcosa da mangiare o
da scambiare, magari un avanzo di verdura ammuffito, un mozzicone di
sigaretta o un pezzetto di fil di ferro. Si muoveva lentamente. La fame e lo
sfinimento gli avevano offuscato i sensi, e lo guidava solo l'istinto a nutrirsi
per non morire.
Non ci fu il tempo di avvertirlo. Non si accorse della guardia, una delle
poche donne kapò sul posto, finché lei non gli arrivò alle spalle. Lo
scaraventò a terra con un pugno, e gli si mise cavalcioni. Non ci volle
molto. Afferrò una grossa pietra nelle mani guantate di cuoio, se la sollevò
sopra la testa, e gli sfondò il cranio.
Non era l'unica kapò che vidi. Qualcuno mi indicò una donna in
un'uniforme fatta su misura che attraversava il cantiere insieme a un gruppo
di persone. Era giovane, ma l'espressione dura le sfigurava i lineamenti. Mi
dissero che era Irma Grese, la famigerata guardia del campo di sterminio di
Birkenau, all'altro lato della città. Per il suo sadismo venne condannata alla
pena capitale nel dicembre 1945.
Alcune delle SS erano veterani anziani, o soldati feriti in combattimento,
ma non provavo la minima compassione per loro. Non erano gli Afrika
Korps. Vedevamo benissimo cosa stava succedendo ad Auschwitz. La
verità era sotto gli occhi di tutti.
In un caso, mentre lavoravo all'aperto, venni avvicinato da uno di loro.
Aveva gli occhi sprofondamente incavati nel cranio, e una ferita di guerra
al braccio. Si mise al mio fianco, e fissando dritto davanti a sé, come se
parlasse da solo, cominciò a raccontarmi la sua storia. Era stato mitragliere
sul fronte orientale, e mi descrisse un attacco sovietico cominciato al suono
di un fischietto. I russi sciamarono a migliaia, disse, e per quanti ne
falciasse con la sua mitragliatrice, altri arrivavano a prenderne il posto. Il
suo non era un racconto: stava rivivendo tutta l'esperienza da capo.
Surriscaldata dal fuoco incessante, la canna della mitragliatrice si era
deformata. Ormai era inservibile. E intanto la marea russa non accennava a
fermarsi. Lui era rimasto ferito, e forse non era più del tutto in sé. Io non
aprii bocca. Come si poteva provare pietà per qualcuno, in un posto del
genere?
Alla fine del suo monologo se ne andò senza salutarmi. Lo rividi tre
giorni dopo. Non diede il minimo segno di riconoscermi.
Ricordo che una volta mi incaricarono di reggere i tubi di metallo mentre
un ventenne biondo, con le guance glabre, saldava i raccordi. Era un
operaio tedesco, un civile. Quei manovali rappresentavano un mistero per
noi, e lui mi incuriosiva. Cercai di agganciarlo, come si fa tra coetanei,
chiedendogli dei suoi gusti musicali, e perché i nazisti odiassero tanto il
jazz. Pensavo che, cogliendolo alla sprovvista, sarei riuscito a farlo parlare
del suo passato, e magari a farmi svelare qualcosa di utile. Ma era già
avvelenato dall'odio. Disse che gli ebrei avevano rovinato il suo Paese. Non
c'era modo di intendersi, ma d'un tratto smise di saldare e intonò una
canzone:
Kuss mich, bitte bitte kuss mich,
Eh' die letzte Bahn kommt,
Kuss mich ohne Pause7.
Non sembrava rendersi conto del contrasto tra quelle parole ingenue e il
luogo mostruoso dove si trovava. Poi riprese il suo lavoro come se niente
fosse.
Un altro prigioniero mi è rimasto impresso nella memoria, uno dei molti
ebrei importanti e di talento vittime dei nazisti. Si chiamava Victor Perez,
era un ebreo sefardita nato nella Tunisia francese. A suo tempo era stato
campione mondiale dei pesi mosca, ma era stato arrestato nel 1943, a
Parigi. Da appassionato di boxe, io lo conoscevo come Perez "il giovane",
quando era venuto a disputare degli incontri in Inghilterra nei primi anni
Trenta. Gli parlai una sola volta, all'interno della IG Farben, e per non più
di un minuto. Quando citai il suo match contro Johnny King a Manchester,
dovette fermarsi a riflettere prima di riuscire a ricordarlo: era rimasta solo
l'ombra di quel pugile giovane e aitante che conoscevo dalle foto. Anni
dopo venni a sapere che lo avevano costretto a combattere sull'Appelplatz il
grande spiazzo di Auschwitz III dove veniva effettuato l'appello mentre le
7
"Baciami, ti prego, per favore baciami / prima che arrivi l'ultimo tram. / baciami senza smettere mai"
(n.d.t.). guardie scommettevano sul vincitore. Fu fucilato dalle SS nel gennaio del
1945.
Le nostre piccole azioni di sabotaggio non mi bastavano. La terra sulla
quale camminavamo era intrisa di sangue. Quel fetore terribile ammorbava
il campo, mescolato al lezzo della sporcizia e dei fumi di scarico. E le
domande dentro di me si accumulavano.
Ormai credevo di essermi abituato alla brutalità. Era indispensabile per
sopravvivere. Ogni vittima di Auschwitz aveva una sua storia, un passato,
ma l'entità dell'eccidio era tale da offuscare le tragedie individuali. Eppure,
quando meno me l'aspettavo, due individui si distinsero tra tanti. La
sofferenza collettiva di migliaia di persone tornò a essere il destino di due
semplici esseri umani. Si chiamavano Hans e Ernst, due prigionieri ebrei le
cui vicende, per motivi molto diversi, mi toccarono personalmente.
Incontrai Hans mentre lavoravo al primo piano di un edificio in mattoni
che andava prendendo forma nel cantiere. Mancava ancora il tetto, ma
erano già state disposte delle grosse tubature lungo un corridoio. Io mi
trovavo in un punto di passaggio ben nascosto, ma quella struttura ancora
incompiuta non mi avrebbe protetto dalle guardie, che avrebbero potuto
cogliermi in flagrante.
A fare cosa? A scarabocchiare con il gesso una formula matematica su
uno dei grossi tubi che doveva essere saldato. Ero completamente assorto.
Il mio era un gesto ozioso, ma rispondeva al bisogno di salvare qualcosa
della mia identità precedente alla guerra, una parte di quelle che un tempo
erano state le mie certezze. Stavo sforzandomi di ricordare un metodo
astruso per calcolare l'area di un triangolo, la formula di Erone:
Armato di un gessetto, in un corridoio in costruzione vicino all'epicentro
della macchina da sterminio nazista, fissavo le lettere e i simboli
scarabocchiati su un tubo.
Hans vide che ero da solo e decise di correre il rischio. Venne dritto
verso di me e mi chiese una sigaretta. Poi si accorse dei miei scarabocchi
matematici. Mi parlò in tedesco. Disse solo: «Ich weiss, was das ist» ("Io
so cosa significa"). In un istante dimenticammo la lotta quotidiana per il
cibo e la sopravvivenza. Restammo entrambi a fissare quella formula
incongrua, e per una frazione di secondo ci sentimmo di nuovo parte di una
storia secolare di sapienza e ingegnosità umana, un mondo di moralità e
cultura che era stato spazzato via.
Hans era un ebreo olandese, con gli zigomi pronunciati e il volto magro.
Era un ragazzo istruito, lo capii immediatamente. Scoprii in seguito che,
prima della guerra, la sua famiglia era proprietaria di un grande magazzino,
o qualcosa del genere, ad Amsterdam. Di lui seppi poco altro. Non sono
nemmeno sicuro che Hans fosse il suo vero nome, ma io lo chiamavo così.
Conoscersi per nome era rischioso. Se venivi interrogato, l'altro era
spacciato: prima o poi ti avrebbero costretto a identificarlo, e lui l'avrebbe
pagata con la vita. Le rare volte che mi presentavo, dicevo di chiamarmi
"Ginger".
Quando tornai in me, mi resi conto che lui era in pericolo, e lo mandai
via. Se qualcuno lo avesse sorpreso a parlare con me, per lui sarebbe stata
la fine. Se la diede subito a gambe levate, ma mi era rimasto impresso, e da
allora in poi lo cercai sempre con lo sguardo.
Quell'incontro con Hans fu l'inizio dell'iniziativa più folle in cui mi sia
mai lanciato, ma per il momento avevo altri pensieri, perché non appena
scomparve una guardia notò la mia scritta fatta con il gesso. Chiamò aiuto.
Si riunì un'intera delegazione in uniforme, che rimase impalata in un
silenzio perplesso davanti ai misteriosi simboli sul tubo. Poi accadde
l'inevitabile. Mi portarono nel minuscolo ufficio a vetri al pianterreno per
interrogarmi.
Erano presenti solo due ufficiali delle SS, entrambi convinti che il mio
scarabocchio fosse un messaggio cifrato; ma cosa significava, e qual era il
suo scopo?
«Non è un codice, è una formula», dissi. «Qualcosa di simile al teorema
di Pitagora... solo che è diverso». Non era facile da spiegare. Loro non
sembravano convinti. «Ha a che fare con i triangoli», ritentai. «Serve a
calcolare l'area di un triangolo». Figuriamoci, cercare di spiegare Erone e
Pitagora alle SS. Tra il loro inglese stentato e il mio tedesco elementare non
arrivammo molto lontano. Ai loro occhi il mio era un comportamento
insensato. La verità era che si trattava di uno di quei gesti impulsivi a cui
mi porta talvolta il mio istinto.
Faceva freddo il giorno in cui incontrai il secondo prigioniero destinato a
lasciare un'impronta indelebile sulla mia vita. Avevo la schiena dolorante a
furia di trasportare tubi da un angolo del campo all'altro, dove venivano
saldati i raccordi. I tre piani dell'impianto di filtraggio erano quasi
completati, ed era cominciato il lavoro più faticoso di installarvi i
macchinari all'interno.
A quei tempi non ero un vero fumatore, ma ad Auschwitz le sigarette
erano l'unica valuta universale. Ci si poteva quasi comprare la vita di un
uomo. Ma servivano anche ad altri scopi.
Alcuni degli ingegneri tedeschi che supervisionavano il progetto vennero
a verificare come procedevano i lavori. Si aggiravano per il cantiere,
srotolando e arrotolando le loro planimetrie e prendendo appunti, e poi si
attardavano a darsi arie, confabulando tra loro.
Come sempre, quando li vedevo in giro, iniziai le mie azioni di disturbo.
Mi avvicinai il più possibile e accesi una sigaretta, al solo scopo di
soffiargli il fumo in faccia. Era una cosa che li irritava moltissimo. Altri
compagni mi seguirono a ruota. Ci voleva astuzia. Se lo facevi in modo
troppo sfacciato od ostile potevano denunciarti, ma comunque il nostro
messaggio era chiaro.
Fumare era anche un modo per dare delle sigarette agli ebrei senza
attirare troppa attenzione. Odiavo il fatto di doverli costringere a
raccogliere il mio mozzicone dopo averlo buttato a terra, ma era meglio che
niente. Si poteva barattare anche quello con qualcos'altro.
Uscii dall'impianto di filtraggio, lasciandomi alle spalle il rumore dei
martelli e le scintille che provenivano dal cannello dei saldatori. Notai
subito che un giovane prigioniero ebreo mi seguiva con la coda dell'occhio,
probabilmente in attesa che buttassi via la sigaretta. Aveva la testa rasata
come tutti gli altri, ma in lui c'era qualcosa di particolare. Il suo viso era più
espressivo. Il suo sguardo non era spento, ma sapevo che presto anche lui
sarebbe diventato un morto che cammina. Prima o poi succedeva a tutti.
Ricordo l'arrivo dei treni di ebrei ungheresi. Tra loro c'erano dei ragazzoni
ben piantati. Nel giro di quattro mesi erano ridotti pelle ossa, e molti erano
già deceduti.
Quel prigioniero avrà avuto diciannove anni, e qualcosa di diverso. Notai
subito che la sua uniforme a righe era un po' più pesante delle altre, non
altrettanto logora, forse persino più pulita. Da principio il dettaglio mi mise
sul chi vive: poteva essere uno dei pochi privilegiati, un prominente,
persone che avevano trovato modi discutibili per dare la scalata alla
gerarchia del campo. Non mi sembrava questo il caso, ma non potevo
correre rischi.
«Come ti chiami?», gli domandai.
«Ernst», rispose. «E tu?».
Non so come, ma il suo atteggiamento dissolse ogni mia diffidenza.
Qualcosa in lui me lo rendeva istintivamente simpatico.
«Puoi chiamarmi Ginger», dissi. Gli diedi la sigaretta e ci separammo,
senza aggiungere altro.
Passarono alcuni giorni prima che lo rivedessi. Senza smettere di
camminare e senza mai guardarci in faccia, un gesto troppo rischioso
quando si era allo scoperto, cominciammo a parlare. Lui faticava a
esprimersi in inglese, ma non appena riuscii a capire ciò che stava cercando
di spiegarmi, per me cambiò tutto. Disse qualcosa come: «Mia sorella in
Inghilterra...».
Quelle semplici parole mi fecero fermare sui miei passi. Avevo capito
bene? Aveva una sorella in Inghilterra? Ero sbalordito. Lo guardai. Era
stanco, ma non aveva l'aspetto sfinito degli altri. In un misto di inglese e
tedesco mi spiegò che sua sorella era riuscita a fuggire in Gran Bretagna
nel 1939, una degli ultimi profughi a scappare dai confini tedeschi. Si
chiamava Susanne, disse, e abitava a Birmingham. Sentire il nome così
familiare di una città inglese sulle labbra di uno di quei poveri diavoli era
inquietante. Ma fu sufficiente a creare un legame tra noi, la consapevolezza
di avere qualcosa in comune. Non sono un sentimentale, eppure la mia
emozione in quel momento mise ancora più in risalto quanto ero stato
costretto a reprimere per riuscire a sopravvivere. Sua sorella era al sicuro a
Birmingham, e lui era rimasto in trappola in quell'orrendo calderone.
«Hai il suo indirizzo?», gli chiesi. Lui rispose di sì, ma aggiunse che così
su due piedi non riusciva a ricordarlo. Mi domandai se mi stesse mettendo
alla prova. Probabilmente la verità era che sapeva di avere un'unica
occasione, e non voleva commettere errori. Dovevo aspettare.
Quando lo incrociai di nuovo aveva ben chiaro in mente l'indirizzo della
sorella. Me lo disse tutto d'un fiato. Abitava al 7 di Tixall Road, a
Birmingham, e io lo memorizzai immediatamente. Lo rassicurai che avrei
cercato di scriverle. Quella semplice promessa fu l'inizio di un mistero che
si sarebbe protratto per quasi settant'anni.
Ernst aveva un volto intelligente, e lo sguardo sveglio. Nei pochi mesi in
cui lo incontrai non lo vidi mai subire un pestaggio, ma per la maggior
parte di quelli come lui era solo questione di tempo. E una ferita o le botte
avrebbero accelerato la sua fine.
Tornato al campo, riflettei a lungo e attentamente prima di formulare un
piano per entrare in contatto con sua sorella. Forse non era ancora in grado
di leggere in inglese. C'era il rischio che non si fidasse di me. Alla fine
decisi di usare mia madre come tramite, sperando che riuscisse a leggere tra
le righe.
Le mandai una lettera, dicendole di scrivere a Susanne per avvertirla che
avevo incontrato suo fratello in un campo di prigionia inglese. Diedi di
proposito l'impressione che Ernst fosse un soldato britannico,
impossibilitato a scrivere di persona per via di una ferita alla mano, ma che,
a parte questo, stava bene. Tutte balle, naturalmente. Credo persino di
averlo fatto appartenere a un reggimento immaginario. Attraverso mia
madre cercai di comunicare a Susanne, nel modo più esplicito che mi
sentivo di azzardare, che l'unico sistema possibile per aiutarlo era spedirgli
sigarette, tutte quelle che si poteva permettere, per posta. Dissi che mi sarei
incaricato io di consegnarle a lui, un po' alla volta. Sapevo che era un
tentativo disperato, ma se il mio messaggio fosse arrivato a destinazione,
almeno la sorella avrebbe saputo che Ernst era vivo. Valeva la pena di
tentare.
All'apparenza la lettera non conteneva nulla di strano. Per comunicare
con mia madre ricorrevo a un codice infantile inventato da me e da mia
sorella. La nostra corrispondenza era piena di riferimenti alle questioni
della nostra fattoria. Scrivevo del «bestiame che veniva mandato al
macello». Per indicare il numero dei prigionieri nel campo di
concentramento, parlavo della mandria, aggiungendo di elevarla alla terza,
o quello che era. Mi ingegnai persino ad adoperare la terminologia biblica,
con riferimenti a Mosè. Un codice da dilettanti, ma era tutto quello che
potevo fare.
Per sottolineare che stavo parlando di ebrei, accennavo al «primo
ministro della regina Vittoria», Disraeli, senza però citarlo per nome. In
alternativa, alludevo alla città di Epping, che come mia madre ben sapeva
ospitava una nutrita comunità ebraica. Serviva una bella immaginazione
per intendere il messaggio cifrato, ma in seguito lei mi confermò di avere
sempre interpretato correttamente i miei sottintesi.
Volevo con tutto me stesso che il mondo sapesse quanto stava
accadendo. Cercai di dirle di avvertire il ministero della Guerra, ma non
potevo farlo apertamente, così cominciai a scrivere di un conoscente dei
miei genitori, impiegato in quel dicastero prima del 1939. Abitava a Ongar
e, quand'ero studente, lo incontravo spesso sul treno per Londra. Per quanto
mi fu possibile, mi sforzai di farle capire che doveva contattarlo. Alla fine
lei adottò un approccio più immediato, e scrisse due lettere direttamente al
ministero della Guerra. Contenevano informazioni molto generiche, e non
so come le avesse formulate. Era già malata, ma fece il possibile.
Non avevo idea di ciò che, a quel tempo, il mondo esterno sapesse dei
campi di sterminio. Ero nell'esercito dal 1939. Nel deserto le notizie
arrivavano con il contagocce, e in prigionia quasi per niente. Adesso sono
convinto che già all'epoca gli Alleati fossero perfettamente al corrente dei
lager. Malgrado tutto, qualche informazione riusciva ad arrivare fino a noi.
Nel nostro campo, l'E715, c'era una radio clandestina. Io non la vidi mai,
ma mi dissero che si trattava di un rudimentale apparecchio a cristalli.
L'aveva costruita uno dei compagni, barattando e scambiando pezzi di
contrabbando con qualcuno che aveva contatti al di fuori. La tenevano ben
nascosta, probabilmente passandosela di mano in mano.
Il resto di noi veniva a sapere le notizie della radio attraverso il
passaparola di un compagno soprannominato "stimmt", da un'espressione
tedesca che ripeteva spesso: «Das stimmt», "questo è certo".
Credo che in realtà si chiamasse George O'Mara: un ragazzo cordiale che
faceva il giro delle baracche per comunicare a tutti quanto era venuto a
sapere, come uno strillone di paese, salvo che nel suo caso doveva limitarsi
a bisbigliare.
Di tanto in tanto ci capitavano in mano giornali tedeschi, soprattutto
quando usavamo le latrine all'esterno del Buna-Werke. Io mi imbattei nella
copia di un quotidiano probabilmente il «Völkischer Beobachter» che
riportava una dichiarazione delle SS, in cui si vantavano dei loro piani per
l'Inghilterra dopo la vittoria. Dicevano che si sarebbero insediati a
Whitehall, avrebbero passato per le armi i prigionieri di guerra dal primo
all'ultimo, e incoraggiato i loro valorosi soldati a ingravidare tutte le
ragazze inglesi con il loro buon sangue ariano. Era proprio una lettura da
gabinetto.
La propaganda era agghiacciante, e non faceva che alimentare la mia
rabbia. Come ho già detto, non mi ero arruolato per difendere il re e il mio
Paese; ma quella che era iniziata come un'avventura giovanile si era
tramutata in una guerra contro il male, e proprio ora in pratica non potevo
farci niente.
Tra un periodo e l'altro di lavoro riuscivo a spostarmi per il campo con
una relativa impunità. Se mi caricavo in spalla un pezzo di tubatura, potevo
attraversare tutto il cantiere senza che nessuno mi facesse domande un
trucco che usavamo tutti , e di tanto in tanto incrociavo Ernst.
Una volta mi trovavo in una baracca, nella zona riservata a un
appaltatore, con altri due ragazzi inglesi, quando lo vidi arrivare. Parlammo
per qualche minuto, poi sentimmo un rumore, e ci rendemmo conto che una
guardia si stava avvicinando. Ernst non fece in tempo a scappare, così si
nascose dietro un tavolo rovesciato. L'uomo entrò, si guardò intorno e
pretese di sapere cosa stessimo combinando. Io riuscii a distrarlo con un
mucchio di scemenze in un tedesco approssimativo, e alla fine lo portammo
fuori lasciando Ernst ancora nel suo nascondiglio. Impiegò un po' prima di
azzardarsi a uscire. A raccontarlo oggi sembra impossibile, ma i prigionieri
inglesi giocavano spesso scherzi del genere alle guardie. Credo che Ernst si
fosse spaventato parecchio, ma non lo diede mai a vedere. Quando
riuscimmo di nuovo a parlare, lontano dalle orecchie dei kapò, si
complimentò con me per la mia padronanza del tedesco. Non era vero, ma
fui comunque felice di sentirglielo dire.
Durante le nostre conversazioni furtive, Ernst non mi parlò mai della sua
famiglia. Sapevo solo di sua sorella in Inghilterra, nient'altro. Temevo che
la lettera inviata a mia madre fosse andata persa, senza contare la
possibilità che l'indirizzo di Birmingham fosse sbagliato. Non ci speravo
troppo. Tra i bombardamenti alleati, i furti e il caos generale scatenato dalla
guerra, ritenevo altamente improbabile che quelle sigarette arrivassero a
destinazione.
Capitolo 11
Al nostro incontro successivo, io e Hans stavamo entrambi trascinando
delle tubature da un punto a un altro del campo. Passavamo undici ore al
giorno piegati sotto quel carico, sollevando valvole enormi per sistemarle
sui carrelli che facevano la spola, lungo binari a scartamento ridotto, tra i
fabbricati. Una volta riempiti, li spingevamo nelle zone del cantiere in cui
servivano. La conversazione si riduceva a poche frasi scambiate tra il
carico e lo scarico di grossi tubi e valvole. In quei momenti strappati alla
fatica elaboravamo il nostro piano.
A volte ci trovavamo spalla a spalla, entrambi senza fiato, e persino a
quella distanza ravvicinata non era facile parlare tedesco senza muovere le
labbra.
Quella volta le tubature andavano trasportate per la saldatura sul retro di
un'alta struttura di mattoni scuri: l'impianto di filtraggio a tre piani che
stava lentamente prendendo forma. Lo scheletro dell'edificio era
attraversato da scale di metallo. Lo scopo per cui venivano sacrificate tante
vite umane era la produzione della buna, gomma sintetica che serviva a
tenere in moto la macchina da guerra nazista e da cui il cantiere aveva
preso il nome di Buna-Werke.
Il poeta Lovelace ha scritto che non bastano muri di pietra e sbarre per
imprigionare lo spirito umano. Avevo letto quella poesia da piccolo, e ne
avevo fatto il mio motto. Sapevo che non potevano tenere in gabbia la mia
mente. Fintanto che riuscivo a pensare, ero ancora libero. Avevo sempre
avuto un'indole ribelle, e non mi ero mai tirato indietro di fronte a una
sfida, ma adesso la situazione era diversa. A quel tempo non sapevo nulla
di religione o filosofie orientali, ma ero certo che la mente potesse superare
qualsiasi ostacolo, e da questa convinzione traevo la mia forza.
La manodopera schiavizzata del campo di concentramento di Auschwitz,
gli operai civili costretti ai lavori forzati, i prigionieri di guerra inglesi: tutti
eravamo asserviti alle mire di Hitler. Ci spaccavamo la schiena allo stesso
modo degli ebrei, ma con una differenza fondamentale: noi non
rientravamo nel programma noto come Vernichtung durch Arbeit,
"annientamento attraverso il lavoro".
A sera venivamo scortati ai rispettivi campi, gli ebrei ad Auschwitz III,
che alcuni chiamavano Monowitz e del quale non sapevamo molto, e noi
inglesi prigionieri di guerra all'E715, oltre il perimetro sud del cantiere.
Ciò che mi aspettava là ogni notte era più o meno prevedibile una
baracca spoglia e un rancio scarso ma almeno potevo in una certa misura
essere sicuro che sarei stato ancora vivo il giorno dopo. Hans e tutti gli altri
che portavano l'uniforme a righe non avevano affatto la certezza che la sera
sarebbero stati ancora vivi.
Gli ebrei erano stati privati di ogni dignità umana, e la loro possibilità di
farcela era affidata al caso. Ogni tentativo di guadagnarsi una crosta di pane
in più si riduceva a una scommessa, a un lancio di dadi.
Non c'era molto che potessi fare, ma ero tormentato dal bisogno di
sapere, di vedere per quanto possibile con i miei occhi. Con il trascorrere
delle settimane riuscii di tanto in tanto a scambiare qualche parola con
Hans, e nella mia mente prese forma l'idea di prendere il suo posto. Solo
così avrei potuto rendermi conto di persona di quanto stava accadendo.
Cominciai a preparare l'esca.
Se fossimo riusciti a organizzare un Umtausch uno scambio lui avrebbe
potuto riposare nel campo inglese. Avrebbe mangiato di più e meglio, forse
persino delle uova. Per consolidare la nostra amicizia gli offrii un pezzo di
salsiccia tedesca, che avevo vinto alla nostra riffa: quando alla nostra
baracca arrivava una razione extra, la tiravamo a sorte. Dividendo in parti
uguali una salsiccia, la quota toccata a ciascuno sarebbe stata irrilevante,
mentre mettendola in palio per intero, il vincitore avrebbe potuto placare la
fame per un po'. Noi la trovavamo indigesta ma per Hans, al quale la passai
sottobanco, era più di quanto avesse mangiato da settimane.
Lo rifornivo anche di sigarette da usare come moneta di scambio. Nel
campo erano oro, e per mia fortuna avevo uno zio che si era preso la briga
di spedirmi ogni mese qualche pacchetto di 555. Non tutti arrivavano a
destinazione, anzi, ma dopo la guerra mio padre lo risarcì comunque fino
all'ultimo centesimo. Era una bella somma. Le sigarette servivano da
bustarella e da valuta, e io ne avevo a sufficienza per le mie esigenze.
Gettato il seme, coltivai la fiducia di Hans con molta cautela, perché nel
campo non ci si poteva fidare di nessuno fino in fondo. Nemmeno di un
uomo che capiva la formula di Erone. Lentamente l'idea mise radici anche
nella sua mente, e nel corso delle settimane maturò fino a diventare simile a
un piano.
Informai delle mie intenzioni altri due compagni, Bill Hedges e Jimmy
Fleet. Mi diedero dell'idiota, ma mi aiutarono comunque. Bill dormiva nella
branda sopra la mia, nell'angolo in fondo alla baracca, e si occupò di quasi
tutto il piano segreto. Il suo compito era tenere nascosto Hans a tutti gli
altri. Nel giorno prestabilito avrebbe raccontato che mi ero ammalato e che
ero rimasto a letto.
Di Bill sapevo solo che prima della guerra lavorava in un negozio di
ferramenta, nel Nord dell'Inghilterra. Devo ammettere ancora una volta che
ho una tendenza a comandare, e per qualche motivo di solito la gente mi dà
retta. Feci giurare a entrambi i compagni di mantenere la massima
segretezza. Come ho detto, non ci si fidava di nessuno.
Lo scambio richiese settimane di scrupolosa pianificazione e
osservazione. Studiai gli spostamenti dei prigionieri ebrei, memorizzai
dove e quando si radunavano per tornare al loro campo, imparai a imitarne
l'andatura strascinata, le spalle curve, il passo incerto.
Mi abituai a usare i loro rudimentali zoccoli di legno, comprandone un
paio al prezzo di qualche sigaretta, ed esercitandomi a indossarli con degli
stracci intorno ai piedi per proteggerli dalle schegge. Al cantiere quegli
zoccoli erano uno strumento di tortura; per più di un prigioniero furono la
causa per cui ricevettero il colpo di grazia, quando i piedi gonfi gli
impedivano di marciare abbastanza in fretta. Era un imperativo imparare a
usarli bene.
Uno degli uomini a righe mi indicò un kapò più anziano che si diceva
fosse meno brutale degli altri. Era un uomo massiccio, con la pelle scura e
segnata dal tempo, e dalla barba sfatta si intuiva che in tempi migliori
aveva i capelli neri. Riuscii a portarlo dalla mia parte corrompendolo con
cinquanta sigarette: venticinque subito e le altre alla buona riuscita del
secondo scambio, quello in senso inverso. Ecco uno degli elementi di
maggior rischio. In un posto come Auschwitz ciascuno doveva pensare per
sé, e qualora quel kapò avesse subodorato che da quella situazione poteva
ricavare un minimo vantaggio, mi avrebbe tradito senza pensarci due volte.
Li avevo visti più volte ammazzare i prigionieri.
Attraverso Hans, feci avere delle sigarette a due compagni del suo
Kommando di lavoro. Avrebbero dovuto farmi da guida, mostrandomi dove
dovevo andare. Al momento giusto mi accorciai i capelli con un vecchio
paio di forbici e mi rasai il cranio con una lama spuntata.
Verso la fine del turno di lavoro mi sporcai la faccia, soprattutto le
guance e sotto gli occhi, in modo da simulare il colorito terreo di un
prigioniero sfinito. Mi sentivo come nel deserto, sul punto di partire per
una delle innumerevoli azioni di ricognizione negli accampamenti nemici.
Ero pronto.
Ma perché lo feci? Perché rinunciai volontariamente alla protezione al
mio status di prigioniero di guerra inglese per guadagnare l'accesso a un
luogo dove speranza e umanità erano state distrutte?
Ora ve lo spiego. Sapevo che ad Auschwitz i detenuti venivano trattati
peggio delle bestie, però non avevo idea di cosa fossero realmente i vari
campi in cui si trovavano gli ebrei; né che Auschwitz I, a ovest delle nostre
baracche, fosse il peggiore campo di sterminio fino alla costruzione, ancora
più a ovest, di Auschwitz-Birkenau, che ridefinì il concetto stesso di
sterminio su scala industriale. A quel tempo non sapevo che Auschwitz IIIMonowitz, il campo confinante con il nostro, era il meno letale, sempre
parlando in termini relativi. Sapevo solo che gli ebrei mi morivano davanti
agli occhi, e che quelli troppo deboli per lavorare venivano fatti fuori.
Guardando i loro volti, con le guance scavate e le orbite infossate nel
cranio, sembrava che di loro non fosse rimasto nulla. Erano stati privati di
ogni emozione e sentimento con la violenza. Dovevo vedere con i miei
occhi quale fosse la causa di tutto questo. E per farlo, dovevo andarci di
persona.
Molti di loro ci imploravano, se mai fossimo riusciti a fare ritorno a casa,
di raccontare al mondo ciò che avevamo visto. Gli uomini a righe sapevano
bene quale fosse il destino in serbo per tutti loro. La prova era nel tanfo che
usciva dai crematori. E sì, anche noi avevamo sentito le voci che giravano a
proposito delle camere a gas e delle selezioni, ma io non potevo
accontentarmi delle dicerie. Le parole "congettura" e "ipotesi" non
appartengono al mio vocabolario. Se anche non avevo cognizione delle
differenze esistenti tra un campo e l'altro, dovevo scoprire a tutti i costi
cosa stesse trasformando quegli esseri umani in ombre.
Il Buna-Werke della IG Farben, con tutta la sua manodopera
schiavizzata, era senz'altro un inferno. Ne vedevo la brutalità ogni giorno,
ma non potevo fare niente per impedirla. Quell'impotenza era un peso
insostenibile, e un pensiero ossessivo.
Anche al campo, da prigioniero di guerra, ero certo che gli Alleati
avrebbero avuto la meglio sui tedeschi, e che sarebbe venuto il giorno in
cui i responsabili dei crimini nazisti avrebbero dovuto rendere conto delle
loro azioni. Volevo i nomi dei kapò e degli ufficiali delle SS colpevoli
dell'orrore che mi circondava. Volevo vedere il più possibile. Doveva
esserci una spiegazione, e confidavo che in futuro si sarebbe fatta giustizia.
Malgrado la mia impotenza, anch'io potevo fare qualcosa, e proprio per
questo non potevo chiudere gli occhi. Non era granché, ma se fossi riuscito
a entrare, se solo avessi visto, avrei potuto portare la mia testimonianza.
Infine c'era un'altra ragione, che non aveva a che fare con le grandi cause
ma riguardava soltanto me: ero sempre stato più un leader che un gregario,
o almeno così credevo. Il mio sogno di diventare ufficiale era svanito, e la
mia guerra era finita a Sidi Rezegh, ma mi sentivo ancora un soldato, e
adesso avevo una causa per cui combattere. Potevo farcela.
Capitolo 12
Scendeva la sera, e sapevo che tra breve i prigionieri di guerra inglesi si
sarebbero radunati a una cinquantina di metri dagli uomini a righe per
tornare all'E715.
Vidi i Kommando di lavoro ebrei cominciare a incolonnarsi per la marcia
verso il loro campo, e feci la mia mossa.
C'era gente dappertutto e, sfruttando la confusione di fine giornata, mi
diressi a passo deciso verso la Bude, una baracca di legno alla fine del
cantiere. Aprii la porta ed entrai. L'interno spoglio mi era familiare qualche
piccolo tavolo e una semplice panca perché a volte ci infilavamo là dentro a
mangiare. Al riparo da sguardi indiscreti, mi sfilai gli stivali pesanti e tenni
pronti gli zoccoli di legno. Hans mi aveva visto entrare, e mi seguì.
D'un tratto fu sulla porta, ed entrò senza esitare un istante. Era
visibilmente agitato ciò che stavamo facendo metteva in pericolo più lui
che me , ciò nonostante era lì. Una notte di riposo in relativa sicurezza e un
boccone di cibo in più valevano la pena di rischiare. Lanciandosi
un'occhiata nervosa alle spalle tirò il chiavistello della porta e si precipitò al
mio fianco, ancora tenendo la testa bassa, come se un solo sguardo bastasse
a tradirlo.
Non ci fu tempo per parlare. La rapidità era essenziale; nel giro di un
minuto qualcuno avrebbe notato la nostra assenza.
Hans si sfilò la casacca infestata di parassiti e me la lanciò. Io feci lo
stesso con la tunica pesante della mia uniforme. Infilai la sua divisa a righe,
sentendo levarsi dalla trama un odore di sporcizia e marciume, mentre dalle
cuciture logore si vedevano saltare fuori gli insetti, affamati di sangue
fresco. Non mi scoraggiai: ero abituato ai pidocchi, avevo imparato la
lezione nel deserto e nei campi di prigionia italiani. Quanto al pensiero di
beccarmi il tifo, non mi passò nemmeno per la testa. In quel momento le
infezioni da parassiti erano l'ultima delle mie preoccupazioni.
Avevo lasciato la camicia militare nella mia baracca, e sotto la giubba
indossavo solo una canottiera. Persino con il cranio rasato e la faccia
insozzata per sembrare più emaciato, una camicia sotto quel sacco a righe
avrebbe sollevato dei dubbi.
Mi ero spogliato di ogni indizio della mia identità. Che grande effetto fa
un'uniforme, pensai per un attimo, guardando Hans vestito con i miei abiti.
Ci avevo visto giusto: avevamo più o meno la stessa statura e corporatura, e
un'identica carnagione chiara.
Con il baratto mi ero procurato un paio di vecchi scarponi che avevo
nascosto in precedenza nella Bude. Un prigioniero di guerra inglese con gli
zoccoli di legno avrebbe attirato l'attenzione. Avevo già nascosto prima del
suo arrivo i miei anfibi militari. Non intendevo cederli a nessuno, nemmeno
per una notte.
Completato lo scambio, riepilogai rapidamente il piano a Hans. Gli dissi
che non doveva mostrare la minima agitazione, né farsi notare in alcun
modo. I suoi gesti dovevano essere calmi e ragionati. Soprattutto gli
ricordai di non correre. Dubito comunque che ne avrebbe avuto la forza.
Dopodiché lui uscì dalla baracca un perfetto soldato inglese e si diresse,
come gli avevo detto, a cercare Bill e Jimmy.
Io attesi per un momento. Poi, imitando l'espressione rassegnata nella
quale mi ero esercitato, incassando la testa nelle spalle e tenendo lo sguardo
fisso a terra, lasciai la Budee mi trascinai fino alla colonna di ebrei in
formazione. Mi infilai al centro di un raggruppamento, tossendo per
nascondere il mio accento dietro una voce roca, se mai qualcuno mi avesse
rivolto la parola.
Era bello tornare ad agire di testa mia. Non ero più un semplice
spettatore. Anche solo trasgredire alla disciplina del campo rappresentava
una piccola vittoria sul nemico.
D'un tratto mi resi conto di un nuovo pericolo. Tastai rapidamente i
bottoni sulla mia casacca a pigiama per accertarmi che fosse chiusa fino in
fondo, e stretta alla gola. Era un dettaglio importante. Sapevo che un
bottone mancante o un colletto aperto venivano puniti dai kapò a forza di
bastonate, un pestaggio che avrei dovuto subire passivamente per non
tradire la mia identità. Se mi avessero smascherato sarei stato fucilato
seduta stante, di questo ero certo. Dentro di me ero pronto a combattere, ma
all'esterno dovevo fingermi debole e inerme.
L'adrenalina mi scorreva nelle vene mentre ascoltavo il ronzio monotono
della conta: «Eins, zwei, drei, vier».
I vivi venivano contati insieme ai morti, i cui cadaveri erano stati
ammucchiati da un lato. I kapò contavano le teste, che appartenessero ai
prigionieri ancora in piedi o ai corpi accasciati per terra. Finché il numero
dei prigionieri alla fine della giornata coincideva con quello della mattina,
per loro non faceva nessuna differenza che fossero vivi o morti.
Se un kapò commetteva uno sbaglio, per salvarsi la pelle ne incolpava i
detenuti: questo implicava come minimo un pugno, un pestaggio o, nel
caso in cui venissero coinvolte le SS, un colpo con il calcio del fucile, se
non peggio. Le guardie tenevano sotto scacco i kapò, e quelli se la
prendevano con i prigionieri. Era questo il meccanismo. Lo avevo visto
dalla mia posizione relativamente sicura di prigioniero di guerra, e ora
provavo un odio ancora più forte verso i kapò.
Terminata la conta, la ripeterono da capo, per sicurezza. Ai due lati della
colonna si erano disposte alcune SS, a sorvegliare, con le armi spianate, il
kapò che passava in rassegna lo schieramento, indicando ciascun
prigioniero e controllandone il numero. Con la coda dell'occhio cercai di
seguire il percorso che conduceva fuori dal cantiere, per prepararmi ai
pericoli futuri.
Da dove mi trovavo, al centro della fila, schiacciato tra le spalle curve di
uomini probabilmente destinati a non sopravvivere un altro giorno, riuscivo
appena a intravedere il cumulo di cadaveri accatastato da un lato.
Conservavano a stento fattezze umane, come se quell'intrico di stracci
luridi appartenesse già alla terra.
Per alcuni di loro la morte doveva essere stata un sollievo, ponendo
contemporaneamente fine alla coscienza e alla sofferenza. In cantiere gli
Häftlinge ebrei morivano continuamente, esalando l'ultimo respiro nella
polvere tra l'indifferenza generale, mentre il lavoro intorno a loro
proseguiva indisturbato; oppure presi a calci e pugni fino a soccombere.
Un'improvvisa confusione mi risvegliò dai miei pensieri, richiamando la
mia attenzione sul mucchio di cadaveri. I loro compagni sollevavano quei
resti scheletrici da terra e li depositavano su assi sottili, una sorta di barelle
improvvisate. Non manifestavano la minima emozione. I morti erano solo
un altro carico da trasportare, seppure questa volta in carne e ossa, e i
portatori tremavano per la fatica. Non c'erano abbastanza assi, e alcuni
furono costretti a trascinarli, afferrandoli per una braccio, per una gamba, o
per un pezzo di quelle uniformi logore. Ogni corpo che ricadeva a terra
causava un ritardo e un pestaggio; e al campo bastava un graffio per
avviarsi verso un rapido declino, e solitamente verso la morte.
Le assi venivano trasportate da due o più prigionieri insieme. Anche là,
persino in quel frangente, l'ingegno umano era all'opera: uno di loro si era
avvolto una fune intorno alle spalle, legandola sotto la barella di fortuna,
per alleviare la fatica dei suoi muscoli magri. Erano tutti ben consapevoli
che ogni sforzo in più avrebbe abbreviato le loro vite.
Caricati i cadaveri, i portatori rientrarono nei ranghi. Io andavo avanti
grazie all'adrenalina, ma avevo represso ogni emozione. I miei meccanismi
di difesa erano alla massima allerta. Non c'era da pensare, bisognava agire
e basta. La riflessione avrebbe infiacchito la mia forza di volontà,
rendendomi vulnerabile. Se vuoi parlare una lingua straniera, devi pensare
in quella lingua, e così mi imposi di fare, confuso in quella folla di uomini
distrutti, ridotti a ombre. Dovevo accettare ciò che stava accadendo come
facevano loro. Dovevo ragionare e comportarmi allo stesso modo.
Dopo settimane passate a riepilogare e visualizzare mentalmente ogni
possibile scenario, il successo del mio piano correva sul filo del rasoio.
Ritrovai concentrazione e freddezza, come nelle missioni di ricognizione
nel deserto, quando non c'era che una frazione di secondo per reagire alle
situazioni. Dovevo restare vigile, o mi sarei beccato una pallottola.
Il mio cuore batteva all'impazzata dentro un corpo che avevo costretto a
fingersi inerme. Là non era possibile difendersi. Era una missione diversa
da qualunque altra, ma pur sempre una missione. Dovevo portare la mia
testimonianza, e niente me lo avrebbe impedito.
Alzando lo sguardo verso la testa della colonna vidi che uno dei cadaveri
stava per scivolare dall'improvvisata barella. Bisognava impedirlo, per
evitare rappresaglie.
In fretta e senza darlo a vedere, un compagno del portatore sistemò
meglio il cadavere. Ne divaricò le gambe, così che ciascuna pendesse fuori
dalla sottile asse di legno, con i piedi che strusciavano a terra. Quella
semplice manovra impedì che gli sbalzi durante il trasporto facessero
cadere il cadavere già irrigidito. Il morto si teneva in equilibrio da sé,
dando il suo contributo ai portatori allo stremo delle forze, nel corteo senza
cerimonia del suo funerale.
Finalmente la colonna si mise lentamente in moto. Se mai c'era stato un
momento per rinunciare al mio piano, ormai era passato. Mi ero lasciato i
compagni alle spalle, allontanandomi rapidamente da tutto ciò che era
familiare e prevedibile. Gli zoccoli di legno mi stavano larghi,
intralciandomi nei movimenti, e dovetti contrarre le dita per non perderli.
Malgrado gli stracci che li fasciavano, i piedi si erano già scorticati, ma
almeno questo rendeva il mio passo strascinato più simile a quello di tutti
gli altri.
Presto superammo i cancelli della fabbrica, ma subito dopo la colonna fu
disturbata da qualcosa, e si arrestò bruscamente. Cercai di mantenermi
composto, o almeno di non distinguermi dagli altri, sforzandomi di capire
cosa stesse accadendo senza tradire curiosità. Sentii delle urla. Le guardie
stavano picchiando un prigioniero nella fila, e l'intera colonna fu
attraversata da un brivido di angoscia repressa. Non era la prima volta che
vedevano accadere cose del genere, e lo stesso valeva per me. Ma in quel
caso non ero più uno spettatore: ero uno di loro. Agli occhi dei carnefici, le
vesti da prigioniero rendevano la mia vita insignificante. Potevano
spegnerla con la stessa facilità di tutte le altre. Impegnato ad architettare il
mio piano, mi ero sentito padrone del mio destino, perché avevo
nuovamente preso un'iniziativa, ma in realtà ero impotente come tutti quelli
che mi circondavano. Sapevo di poter contare solo sulla fortuna.
Dopo un po' riprendemmo il cammino. La marcia, non particolarmente
lunga, fu lenta ed estenuante. Ai miei compagni ogni passo costava una
fatica immensa. Immaginate un condannato a morte, con i ceppi alle
caviglie, stanco e pieno di angoscia, e avrete un quadro della situazione; io
cercai di adeguarmi. Mi stavo lanciando nell'ignoto.
Scrutando tra le file davanti a me, intravidi i cadaveri che venivano
trasportati. Un braccio penzolava di lato. Una gamba oscillava come un
pendolo, impuntandosi continuamente sul terreno. I portatori erano
visibilmente spossati, con le spalle curve sotto il peso, la presa delle dita
ossute sempre più fiacca a mano a mano che procedevano barcollando. Di
colpo uno di loro si accasciò, lasciando cadere a terra il cadavere che
trasportava. Venne subito investito da una scarica di violenza. Sentii i
pugni, il tonfo sordo del calcio dei fucili o dei bastoni sul suo fragile corpo.
Un altro Häftling prese in carico il cadavere e ci rimettemmo in
cammino, ciascuno trascinando i piedi in quella marcia infinita e disperata.
La colonna si fermò per quattro volte, e ogni volta sentii i colpi che si
abbattevano su costole e spalle.
A quel punto cominciavo a intravedere la nostra destinazione: un enorme
campo sovraffollato, con baracche basse e chiuso da un'opprimente
recinzione di doppio filo spinato. Uno di quei fili era un cavo ad alta
tensione. A intervalli regolari erano disposte torrette di guardia, con
sentinelle in allerta costante, e il perimetro era pattugliato dalle SS.
Lasciammo il sentiero per dirigerci verso l'ingresso. Era là che si
svolgevano le loro brevi esistenze, il luogo dove trovare una crosta di pane
faceva la differenza tra vita e morte.
C'era ancora luce quando passammo i cancelli, e vidi la scritta con la
promessa crudele: ARBEIT MACHT FREI, "Il lavoro rende liberi".
Allora non sapevo che la spietata ironia di quelle parole sarebbe
riecheggiata per decenni. Stavo entrando ad Auschwitz III-Monowitz.
Calava rapido l'imbrunire, e da qualche parte sopra di noi un cielo
limpido si scioglieva nel tramonto. Lo avvertivo, sapevo che era là, ma non
riuscivo a provare il senso concreto della sua presenza. Per tutta la durata
della mia prigionia in quel luogo dimenticato da Dio, non vidi mai un cielo
azzurro. Non alzai mai lo sguardo. Così come nel deserto mi ero rifiutato di
leggere le lettere di mia madre, al campo una sola occhiata alla bellezza che
ci sovrastava avrebbe rappresentato una distrazione che non potevo
permettermi. Ricordare la vastità del mondo e la libertà avrebbe infiacchito
la mia determinazione.
Da qualche parte venne intimato un ordine, e noi ci strappammo i berretti
dalla testa. Imitando gli altri, mi misi sull'attenti. Abbandonai la mia
espressione sfinita. Sapevo che agli occhi delle SS bisognava apparire in
grado di lavorare per un altro giorno. Stavano già trascinando qualcuno
fuori dalla fila. Non ci furono pianti, suppliche o proteste. Le vittime erano
troppo deboli. A quel tempo pensavo che alcuni fossero stati ridotti al
punto da accogliere volentieri la fine. Non l'avevo visto di persona, ma
sapevo che venivano caricati su un camion diretto a Birkenau, dove li
attendevano le camere a gas.
Appena varcati i cancelli avevo cominciato a memorizzare la
disposizione del campo, con la sua enorme estensione di rozze baracche in
legno.
Il vento che lo spazzava mi portò l'odore dolciastro e raccapricciante che
veniva dai forni crematori lontani, riempiendomi il naso e serrandomi la
gola. Era un fumo nauseabondo che andava a unirsi al tanfo della sporcizia
e dei cadaveri in decomposizione.
Più avanti nel campo, un corpo con la testa rasata pendeva immobile da
una forca. Aveva il collo spezzato e contorto, la testa piegata in
un'angolatura innaturale. Non potei vedere se aveva le mani legate, e non
riuscii a capire se aveva addosso un cartello che spiegasse di quale delitto si
era macchiato per meritarsi una simile punizione.
Ormai ero abituato alla vista dei cadaveri, ma il corpo di quell'impiccato
portava ancora i segni dell'agonia che aveva preceduto la morte. Lo
avevano lasciato là come monito. Aufpassen, "attenti", sembrava gridare.
Mi scosse, quella visione. Impiccati o no, ci tenevano tutti per la gola.
Potevano stringere il cappio a loro piacimento.
I portatori di cadaveri si rimisero in moto. Con la fatica che solcava le
loro guance scavate, curvarono la schiena per un ultimo sforzo. Sollevando
le tavole da un lato, fecero rotolare quei resti scheletrici, che caddero a terra
uno dopo l'altro quasi senza fare rumore. Poi i portatori drizzarono le spalle
e si unirono al resto di noi, mentre i morti venivano contati per l'ennesima
volta.
Io non avevo la minima intenzione di evadere, non era quello il motivo
per cui mi trovavo là, ma comunque perlustrai la zona, memorizzando la
disposizione, cercando con lo sguardo le vie di fuga che non sarei mai
riuscito a sfruttare. Correre era inutile. Una volta entrati non c'era ritorno.
Se avessero capito che ero un impostore, sarei stato spacciato. Non esisteva
alcun piano B.
L'Appelplatz si trovava in un punto leggermente in salita rispetto al resto
del campo e, mentre la nostra cenciosa colonna si trascinava per rimettersi
nei ranghi, prendendo posto secondo alcuni segni tracciati a terra, mi
accorsi di un dettaglio surreale: nel cortile per l'appello, superando gli
ordini urlati dalle guardie, il rumore dei piedi che venivano strusciati a terra
e i colpi di tosse, sentivo librarsi la musica classica suonata dall'orchestra
dei prigionieri.
Capitolo 13
In piedi tra i ranghi dell'Appelplatz, sapevo che, qualora mi fossi tradito,
della mia morte sarebbero stati testimoni solo gli sventurati che erano al
mio fianco. Quanti di loro sarebbero rimasti ancora in vita da lì a tre mesi?
Non molti. E io sarei stato fucilato o condotto con la forza in qualche posto,
con l'accompagnamento grottesco dell'orchestra. In seguito venni a sapere
che li costringevano a suonare durante le esecuzioni.
Tenevo la testa china, ma essendo un po' più alto della media riuscivo
senza sforzo a osservare le facce delle SS. Ogni cambiamento d'umore o di
attenzione da parte loro era un segnale di pericolo. Se un kapò mi avesse
consegnato, poteva guadagnarsi una ricompensa, ma rischiava a sua volta
di indurre dei sospetti. Nessuno incrociò il mio sguardo. Non accadde
nulla. Smisi di trattenere il fiato.
Terminato l'ennesimo conteggio, e stabilito che il numero corrispondeva
fummo congedati, e la schiera passiva intorno a me riprese vita. Osservai
quella folla di volti ossuti, cercando i compagni che dovevo seguire in
mezzo a quella massa di uniformi logore. Non potevo permettermi di dare
nell'occhio facendomi vedere disorientato. Se fossi entrato nella baracca
sbagliata, mi sarei tradito. Ero concentratissimo e il cuore mi batteva forte,
ma non potevo lasciarlo trapelare. Dovevo conservare la forza interiore,
mostrandomi debole agli occhi di tutti gli altri.
I prigionieri si erano già messi lentamente in marcia quando intravidi
uno dei miei uomini, e senza fiatare lo seguii verso la baracca. Uno stretto
passaggio conduceva al dormitorio.
Appena varcata la soglia l'aria fetida mi mozzò il fiato. Gli uomini erano
stipati su tavolacci di legno grezzo, disposti in castelli di tre nella stanza
buia.
Molti si lasciarono cadere sul pagliericcio, crollando subito nel sonno. Io
seguii le mie due guide, e ci sdraiammo senza scambiarci una parola. Il
tavolaccio era quello che di solito dividevano con Hans. Mi ci sistemai,
cercando una posizione dalla quale osservare e ascoltare senza essere visto.
Quelle non erano brande ordinarie. Invece che sdraiarsi per il lungo,
come si fa di solito, si dormiva in gruppi di tre, mettendosi di traverso. Gli
uomini si disponevano alternati, e chi capitava nel mezzo doveva dormire
con un paio di piedi maleodoranti su tutti e due i lati della faccia. Vista la
profondità di appena un metro e mezzo, io mi dovetti rannicchiare.
Appoggiai la testa sul tavolaccio, con i piedi rivolti verso il corridoio
perché nessuno mi vedesse in faccia. Dietro di noi c'era un sottile pannello
di legno, e al di là di quello un altro gruppo di tavolacci, e altri prigionieri
stremati. I miei due compagni giacevano testa contro testa, e per la prima
volta ebbi la possibilità di vederli da vicino. I loro volti erano tirati ed
emaciati, invecchiati anzitempo, e tuttavia sembravano più in forze di molti
altri.
Uno era un ebreo tedesco, l'altro polacco. Con il tedesco mi era più facile
comunicare. La mia conoscenza della lingua era elementare, ma stava
migliorando, e lui parlava un po' di inglese. Nei campi la lingua con cui si
comunicava era il tedesco, ma non per questo tutti erano in grado di
parlarlo, quindi il dialogo con il polacco era limitato.
Dal passaggio vicino all'ingresso sentii levarsi voci che parlavano lingue
sconosciute. La discussione sembrava animata. Il mercato notturno di cui
avevo tanto sentito parlare stava per cominciare. Qualunque cosa raccolta
durante il giorno qualsiasi oggetto che si potesse in qualche modo definire
un bene, per quanto infimo veniva barattata dagli uomini accalcati nel
passaggio. Un bottone, un filo di cotone, un chiodo avevano un valore
enorme, se era ciò di cui si aveva bisogno. E se a volerli era qualcun altro,
si potevano scambiare per un po' di cibo in più.
Io non avevo portato il mio orologio ma, in base alla luce che c'era fuori
quando eravamo arrivati e al tempo trascorso, calcolai che fossero le sette o
le otto di sera. Gran parte di quanti mi circondavano erano già sfiniti, ed
evitavano ogni movimento superfluo. Restavano distesi, per risparmiare le
forze.
Un clangore mi fece sussultare, e la stanza si riempì di un nuovo fetore.
La zuppa serale era arrivata, dentro un grosso paiolo. Le baracche erano
sovraffollate e soffocanti, ma quell'odore pungente superò presto ogni altro.
Tutti corsero a mettersi in fila, allungando ciascuno la sua ciotola e poi
barcollando di nuovo verso il proprio letto per mangiare.
Io rimasi dov'ero. Non volevo attirare l'attenzione e comunque non sarei
riuscito a mandar giù nemmeno un boccone. Era una sbobba
raccapricciante, cavoli marci bolliti con bucce di patate e Dio solo sa
cos'altro. Bastava il tanfo a darmi il voltastomaco. L'adrenalina mi scorreva
ancora nelle vene, e non feci alcuna fatica a saltare il pasto. Gli altri non
avevano scelta. Dovevano obbligarsi a mandarlo giù.
Ciascuno difendeva la propria gavetta di metallo a costo della vita,
alcuni la tenevano persino legata alla cintura: niente ciotola, niente zuppa, e
senza quello schifo eri morto. Più tardi, quando crollavano sui tavolacci, le
gavette facevano da duro cuscino a cui i prigionieri restavano aggrappati,
anche nel sonno.
Non chiesi mai ai miei complici il loro nome, ma ricordo di aver pensato
che non sembravano ebrei. D'altra parte, che aspetto dovrebbe avere un
ebreo? Non ero sicuro di saperlo. Quando nelle baracche scese il buio,
parlare diventò più facile. Non che la conversazione fluisse senza intoppi.
Nelle mie domande dovevo alternare inglese e tedesco, e abbassare la voce
fino a renderla un sussurro. Gli occhi infossati dei miei compagni di branda
erano uguali a quelli di tutti gli altri, e tuttavia il loro sguardo sembrava
meno sconfitto. Avevo l'impressione che fossero arrivati al campo da poco.
Mi convinsi che fossero sostenuti dalle sigarette che avevo fatto avere
loro tramite Hans, e dal pensiero di quelle che avrebbero ricevuto non
appena fossi tornato al sicuro: una moneta di scambio da usare per
comprare del cibo.
Calcolai che la baracca dovesse contenere tra cento e centocinquanta
prigionieri, molti dei quali prima della guerra avevano sicuramente fatto
una vita agiata: professori universitari, insegnanti, uomini d'affari, provati
di tutto e buttati tutti insieme nel mucchio. E come loro, anch'io annaspavo
per respirare tra il puzzo di feci e sudore. C'era odore di morte là dentro, era
chiaramente percepibile. Un tanfo nauseante e intollerabile.
Poco alla volta, tra i sussurri, i miei compagni mi fecero il quadro di
Auschwitz III. Mi dissero del Krankenbau, il reparto infermeria, isolato
dagli altri e senza alcuna vera struttura di assistenza, dove venivano
mandati i malati gravi. Se non si rimettevano al massimo in due settimane,
finivano sul camion diretto a Birkenau, e alle camere a gas.
Mi raccontarono delle donne tenute prigioniere nella Frauenhaus, usate
come prostitute. Ce n'erano sedici o diciassette, secondo i loro calcoli,
solitamente a disposizione dei kapò tedeschi, come premio per i
maltrattamenti che infliggevano.
Nel buio mi vennero alla mente delle immagini sgranate dell'atroce
tormento toccato a quelle donne. Dio onnipotente! Considerato che razza di
uomini fossero i kapò, criminali incalliti, forse stupratori e assassini... era
impensabile.
Cercai di memorizzare i nomi dei kapò e delle SS, senza riuscirci. Il mio
piano era nato dal desiderio di saperne di più su selezioni e camere a gas,
ma ora mi rendevo conto di trovarmi nel posto sbagliato. I campi erano
separati, e nel contempo indissolubilmente collegati. I prigionieri nelle
baracche venivano sfiancati senza pietà; la minima esitazione o debolezza,
e finivano gassati. Gli ingranaggi erano moltissimi, ma la macchina era una
sola.
Con il trascorrere delle ore il mio compagno polacco cadde in un sonno
irrequieto. Il tedesco si sforzava di rispondere alle mie domande, ma i
silenzi si facevano sempre più lunghi, e le sue parole meno chiare.
Rimasi sdraiato al buio ad ascoltare il respiro affannoso e i lamenti degli
altri prigionieri. Qualcuno farneticava tra sé, ripetendo incessantemente e
compulsivamente la stessa frase. Non era il solo. Altri gridavano, rivivendo
nel sonno gli orrori della giornata, le botte, un'impiccagione, una selezione.
Per altri ancora si trattava della perdita della moglie, della madre, di un
bambino, uccisi subito all'arrivo. Al risveglio li aspettava lo stesso incubo:
non c'era via d'uscita.
Quando ti rassegni, anche il dolore smette di farsi sentire. Ti hanno
strappato ogni emozione, ogni sentimento. Loro erano così. Non avevano
scelta.
Faticavo a respirare. Il caldo era soffocante, e l'odore dei corpi sudati e
malati era opprimente. Non esisteva niente al mondo di paragonabile ad
Auschwitz III: era l'inferno sulla Terra. Mi ci ero introdotto
deliberatamente per vederlo con i miei occhi, ma fu un'esperienza
spaventosa, agghiacciante.
Mi trovavo fianco a fianco con quegli uomini-ombra, ma al contrario di
loro ero là per mia libera scelta. Avevo architettato e studiato un piano e
corrotto delle persone per vedere quel luogo, e così com'ero entrato, ne
sarei uscito; non verso la libertà, non ancora, ma comunque diretto in un
luogo migliore di quello.
Li avrei lasciati al loro destino, e Hans avrebbe ripreso posto su quel
tavolaccio orrendo. Gli stessi lamenti angosciosi gli avrebbero riempito la
testa. Si sarebbe sforzato di tenersi a galla, ma con il mio metro e
ottantadue rannicchiato in quello spazio esiguo, le ginocchia premute
contro le ossa di un estraneo, compresi che alla fine ne sarebbe stato
inevitabilmente risucchiato. Scivolai in un sonno tormentato, sentendo
sullo sfondo le parole indistinte di un uomo che sapevo destinato a morire
tra breve.
Mi svegliai provando un senso di assoluta desolazione. Il kapò aveva
fatto irruzione nella baracca e sferrava calci ai tavolacci. Gli ordini che
urlava rimbombavano sul pavimento di nudo cemento. Si accesero le luci.
Saranno state le quattro del mattino.
Sentii che picchiavano un uomo perché si era alzato troppo lentamente.
Chi non aveva la forza di reggersi in piedi quelli le cui condizioni erano
peggiorate durante la notte, o quelli erano morti nel sonno vennero spinti da
una parte. Non era difficile immaginarne il destino.
La colazione consisteva in un tozzo di pane nero dal sapore strano, con
una bava di qualcosa che mi parve margarina rancida. Passammo davanti al
tavolo, prendendo la nostra razione senza fermarci. Non avevo scelta. A
testa bassa afferrai la mia e passai oltre. Avevo fame, ma comunque non
riuscii a mangiare.
Pensai alle grosse razioni di pane bianco del campo inglese, alle uova
che potevamo acquistare grazie a scambi e baratti. Persino là non sognavo
altro che cibo, ma non c'era confronto tra il nostro regime alimentare e
quello degli ebrei, nemmeno lontanamente. Con le razioni che spettavano a
loro la morte era sicura: era solo questione di tempo.
La mia mente lavorava già in modo frenetico, preparandosi al prossimo
ostacolo: trovare il modo di andarmene. Ci trascinammo all'Appelplatz,
dove fummo contati e ricontati infinite volte. Terminato l'appello, ci
scortarono ai cancelli sotto gli occhi attenti delle SS. Di nuovo, raddrizzai
la schiena. Le guardie non aspettavano altro che strappare alla fila i
prigionieri inabili al lavoro. Usciti dai cancelli, svoltammo a destra lungo il
binario, dirigendoci verso la strada che portava al complesso della IG
Farben. Provai un senso di sollievo. Dovevo ancora portare a termine
l'ultima fase dello scambio ma, malgrado i morsi della fame, per una volta
accolsi di buon grado il pensiero della giornata che mi aspettava. Ero uscito
da quel luogo spaventoso, e non vedevo l'ora di risentire le voci degli
inglesi, di rimettermi la mia divisa.
Marciammo fino al cantiere, e dopo un po' intravidi i miei connazionali.
Sperai che Hans fosse con loro. Adesso, vestito dei suoi stracci, per me era
più difficile spostarmi all'interno del cantiere, mentre lui godeva della
protezione dovuta a un prigioniero di guerra grazie alla mia uniforme. Non
appena la colonna giunse a destinazione ci fu una breve sosta, in attesa che
venissero assegnati i compiti per la giornata, e io ne approfittai per
raggiungere la Bude e nascondermi all'interno, come concordato. Avevo
detto a Hans di tenere gli occhi aperti, e appena vide che mi incamminavo,
mi seguì. Se una delle colonne avesse subìto un ritardo all'appello saremmo
stati nei guai. Lo scambio poteva avvenire solo prima dell'inizio del lavoro.
Il mio piano si fermava lì, per il resto avremmo dovuto improvvisare. Io ci
ero portato, ma comunque l'esito sarebbe dipeso in larga parte dalla fortuna.
Hans era agitato quando arrivò, vestito nella mia uniforme ma, se pure
era riluttante a spogliarsene, non lo diede a vedere. Non aveva voglia di
parlare. Era un bravo ragazzo, e non avevo mai dubitato che non avrebbe
rispettato l'accordo. Ciò nonostante, vederlo fu un sollievo. Sapevo che, se
si fosse lasciato prendere dal panico e avesse rifiutato di raggiungermi,
saremmo stati entrambi spacciati. All'uscita dalla Bude sarebbe ridiventato
un internato del campo di concentramento, e lui lo sapeva. Non doveva
starci troppo a pensare. Prima del suo arrivo avevo recuperato i miei stivali
dal loro nascondiglio e tenevo pronti i suoi zoccoli.
Mi levai i suoi logori stracci a righe, sollevato all'idea di rimettermi la
mia giubba e i miei pantaloni. Riprendevo posto nel mio gruppo, e
riacquisivo la protezione data dallo status di prigioniero di guerra
nell'istante stesso in cui lui la stava perdendo. Il significato di quello
scambio nella fretta passò inosservato: anch'io volevo sbrigarmi.
Ripetei l'avvertimento che gli avevo fatto prima dello scambio: mantieni
la calma, e non correre. Non c'era bisogno di spiegargli come si
comportava un Häftling, e non sono sicuro che mi stesse ascoltando. Sparì
così com'era venuto.
Passarono giorni prima che mi fosse possibile riflettere su quelle ore
trascorse ad Auschwitz III, e comprendere appieno la disperazione di quel
luogo. Quanto accadeva là dentro era la cosa peggiore che si potesse fare a
un uomo. Privarlo di tutto i suoi averi, il suo orgoglio, la sua autostima e
poi ucciderlo. Era una lenta agonia. Dire chesi trattava di un trattamento
disumano non riusciva nemmeno lontanamente a descrivere tutto ciò. Era
molto peggio degli orrori che avevo sperimentato durante la guerra nel
deserto. Là almeno avevo affrontato un nemico, e fatto il mio dovere. Mi
ero dimostrato capace, ed ero sopravvissuto.
Lo scambio era riuscito per puro caso, e tuttavia quanto avevo appreso in
quell'unica notte non era sufficiente. Molte domande restavano ancora
senza una risposta, e aver visto la situazione di persona era solo un inizio.
L'atmosfera di quel luogo mi ossessionava.
Tornai dai miei compagni, e ripresi la fatica di ogni giorno. Ancora
mucchi di tubi e raccordi da caricare; altre valvole a vite che pesavano
trenta chili ciascuna. La parte più dura era mettere quei mucchi sul carrello,
ma una volta che questo era avviato, lo sforzo di spingerlo era tollerabile.
Arrivati nel punto di destinazione al cantiere, dovevamo accatastarli, pronti
per essere montati, e ricominciavamo da capo. Dovetti aspettare
mezzogiorno per mettere qualcosa sotto i denti, e a quel punto mi era
tornato l'appetito.
Impiegai un po' anche a trovare il momento per parlare con Bill. Ero
certo che avesse fatto il suo dovere nei confronti di Hans, non ne avevo
dubbi. Venne fuori che Jimmy non aveva fatto altrettanto, ma comunque se
l'erano cavata. Bill lo aveva individuato e nascosto rapidamente nella mia
branda, sul fondo della baracca, al sicuro dagli sguardi indiscreti. Entrambi
avevano mantenuto il segreto. Non c'era da fidarsi di nessuno, e meno
gente era al corrente del piano, meglio era.
Agli altri avevano detto che stavo male, che mi ero messo a letto e non
volevo essere disturbato. Bill aveva portato da mangiare e da bere a Hans, e
per il resto della serata lui si era tenuto defilato. Nessuno di noi conosceva
l'aspetto di tutti i prigionieri inglesi del campo eravamo in troppi ma le
baracche erano relativamente piccole, quindi Hans aveva dovuto restare
nascosto fino all'appello. Per fortuna si prestava poca attenzione gli uni agli
altri, e l'operazione era filata liscia.
Per Hans valeva la pena di correre il rischio di quel sotterfugio, in vista
delle sigarette che avrebbe potuto scambiare a proprio vantaggio. Le
razioni extra disponibili al campo inglese gli avrebbero ridato un po' di
forze, qualche caloria in più. Solo in seguito, quando riuscii a parlargli, mi
disse che in realtà quel pasto lo aveva fatto star male. Dopo mesi di
maleodorante zuppa di cavolo, non era più in grado di assimilare un cibo
più sostanzioso. Non potevo prevederlo, ma ci rimasi comunque malissimo,
e mi sembrò che quella faccenda ridimensionasse il successo
dell'operazione. Aveva passato una notte relativamente comoda sul mio
materasso di paglia, sotto quelle strane coperte in fibra di legno. Era
senz'altro meglio di ciò a cui era abituato, e almeno per quelle ore era
rimasto lontano da chi lo voleva morto.
Adesso che ero al sicuro, dovevo fare avere al kapò la seconda consegna
di sigarette. Ci volle del tempo prima di riuscire a rispettare l'accordo.
Trovai il modo di passargli davanti, sibilandogli a labbra strette un
appuntamento poco dopo in una piccola costruzione non molto lontano, e
quando si presentò gli consegnai le sigarette. Le nascose sotto la divisa a
righe e svanì. Avevo usato un espediente analogo a quello di pagare un
lavoro con una banconota strappata a metà. Un ottimo sistema per
costringere un complice a tener fede ai patti.
L'intera impresa era stata da pazzi. A ripensarci oggi, dalla prospettiva
del benessere in cui viviamo, mi appare allo stesso tempo ridicola e
impossibile, eppure andò esattamente come l'ho raccontata.
Fu più o meno in quel periodo che ci trovammo ad affrontare un pericolo
sconosciuto e, in una certa misura, paradossale. A metà del 1944, gli
Alleati si erano resi conto che la Buna-Werke della IG Farben si trovava
nel raggio di volo delle Fortezze volanti dell'aviazione americana, e che
valeva la pena di bombardarla. Gli ebrei accolsero con entusiasmo il raid,
malgrado i rischi. Sapevano che i piloti lassù erano loro amici, e che
portavano la libertà, anche se questo non riduceva la minaccia che essi
rappresentavano.
Al cantiere l'allarme veniva segnalato con una grossa cesta verniciata di
rosso e giallo appesa a uno degli alti camini che sovrastavano la Queen
Mary. Veniva issata all'avvistamento dei bombardieri, e tirata sempre più in
alto a mano a mano che questi riducevano le distanze. Quando essa
raggiungeva la sommità del camino, significava che i velivoli si trovavano
sopra le nostre teste.
Se al loro arrivo eravamo al lavoro, cercavamo un riparo di fortuna,
buttandoci nei fossi o accovacciandoci dietro i muri, o addirittura
infilandoci dentro le tubature. Una volta riuscii a intrufolarmi nella botola
di un grosso condotto di scarico che portava al fiume, e mi trovai fianco a
fianco con una quarantina di persone tra operai civili e guardie. Non mi
cacciarono. Nel cantiere c'erano dei piccoli rifugi in cemento per le guardie,
perché potessero mantenere la postazione anche durante gli attacchi aerei.
Erano delle garitte coniche... e comiche perché assomigliavano a un grande
elmetto tedesco.
C'era anche un imponente bunker antiaereo, più alto di molti degli altri
edifici, un blocco di massiccio cemento grigio. In tedesco "massiccio" si
dice klotzig, e il suono sgradevole della parola rende bene l'idea di quanto
fosse sgraziata quella costruzione, ma sono certo che sarebbe davvero
riuscita a resistere anche a una bomba che gli fosse caduta sul tetto. Mi
hanno detto che è visibile ancora oggi.
Gli ebrei non potevano fare altro che mettersi bocconi, cercando riparo
negli avvallamenti del terreno. Alcuni si radunavano intorno a noi, come
se, in qualità di prigionieri alleati, godessimo di una sorta di protezione
speciale, o sapessimo dove sarebbero cadute le bombe. Si sbagliavano di
grosso.
Il 20 agosto del 1944 era una bella giornata d'estate, almeno per le
condizioni in cui si viveva ad Auschwitz. Era una delle rare domeniche in
cui non ci costrinsero a lavorare, e alcuni compagni avevano organizzato
quello che chiamavano "galà". Si trattava di un tentativo disperato di tenere
alto il morale, ma consisteva in ben poca cosa: qualche attrazione
improvvisata, come un tirassegno in cui si cercava di centrare delle lattine,
o roba del genere.
Sentii l'allarme dell'attacco aereo, e di colpo l'atmosfera mutò. Ci
precipitammo fuori delle baracche e attraversammo il pendio fino a una
radura, delimitata da est a ovest da un canale di scolo, e con un piccolo
rifugio antiaereo in un angolo. Niente a che vedere con l'enorme bunker del
cantiere, ma comunque abbastanza solido. Io non ci volevo entrare. Vere o
false che fossero, non riuscivo a smettere di pensare alle voci sulle camere
a gas. Il pesante portone di acciaio si chiudeva dall'esterno con un grosso
chiavistello di metallo, e quel dettaglio mi metteva a disagio. L'interno era
buio e lugubre. Decisi di correre il rischio, e mi buttai nel fossato. Non ero
il solo a temere il bunker. Molti ragazzi che si erano diretti al rifugio erano
arrivati fino all'imboccatura del tunnel che conduceva all'ingresso, e si
erano fermati là. Pensavano in quel modo di potersi riparare, anche senza
entrare.
Un gas fumogeno si diffondeva già in tutto il campo, rilasciato dalle
bombole a sud del cantiere. L'intento era di schermare la superficie con un
velo di nebbia, così da allontanare gli aerei dall'impianto della buna, e
confonderne il tiro. Alla quota dalla quale gli americani sganciavano le
bombe era comunque improbabile che avessero una mira precisa.
Sentii il rombo spaventoso dei motori sopra le nostre teste. Sembravano
venire da sud. Rotolai dentro il fosso, e udii il fischio delle bombe che
cadevano. Non era una gran consolazione il fatto che si trattasse di fuoco
nemico. Il fondo del fosso era pieno d'acqua, e mi ritrovai con i piedi a
mollo. Schiacciai la faccia contro il terriccio della sponda, e mi coprii la
testa con le mani. Scoppiò un boato tremendo, a una quarantina di metri di
distanza. L'onda d'urto mi sferzò la guancia. Proveniva dalla direzione del
rifugio antiaereo. Seguirono altre esplosioni, più vicine al cantiere della
fabbrica. Il bombardamento proseguì per quindici minuti, e solo quando
cessò potei rialzarmi per verificare i danni.
Corsi al rifugio, la cui rampa di ingresso era ridotta a un cumulo di
cemento profondo circa quattro metri e mezzo. I resti di corpi dilaniati
erano sparsi in un ampio raggio. Il punto dove i miei compagni avevano
cercato riparo era stato centrato in pieno. Quelli all'interno del bunker se
l'erano cavata, ed erano usciti da una porta secondaria. Qualcuno aveva
riportato delle ferite, ma la gran parte di quelli rimasti all'entrata era morta,
intrappolata sotto le macerie.
«C'è un minatore tra voi?», sentii gridare. Uno dei compagni stava
cercando di spostare i blocchi caduti, senza riuscirci. Era sotto shock, e
affrontava quel compito con troppa esitazione. Lo feci spostare, e
cominciai a scavare al suo posto, senza fermarmi. Bisognava essere cauti,
perché a ogni frammento spostato le lastre di cemento rischiavano di
crollare, schiacciando gli eventuali superstiti.
Urlai che mi servivano delle funi, e subito me ne portarono una. Ne
legavo l'estremità a un blocco di cemento, e i ragazzi lo sollevavano,
tirando la corda dal bordo del cratere per permettermi di guardare sotto.
Lavorando senza sosta, riportammo alla luce un cadavere sfigurato dopo
l'altro: alcuni mutilati, altri saltati in aria, altri ancora schiacciati dal
cemento.
Un grosso lastrone ci impediva di procedere. Bisognava spostarlo. Se là
sotto qualcuno respirava ancora, non c'era tempo da perdere. Io riuscivo a
farlo oscillare, ma c'era qualcosa che ci ostacolava. Sotto la lastra c'era il
cadavere di un soldato, e facendola rotolare gli avrei schiacciato il cranio.
Sapevo che andava fatto, per salvare i vivi che si trovavano più sotto, ma
uno dei miei compagni si oppose. «Per questo poveretto ormai è finita»,
protestai, «che alternative abbiamo?». Alla fine riuscii a convincerlo che
non c'era altra scelta. Feci un respiro profondo, e cominciai a spingere.
Riuscii a togliere di mezzo il cadavere, passandone i resti agli altri, fuori
dal cratere, e ripresi a scavare.
Procedendo verso il basso e avvicinandoci all'ingresso del bunker, le
nostre speranze di trovare dei superstiti si assottigliavano. Poi sentii un
suono soffocato, e mi resi conto che qualcuno là sotto era ancora vivo.
Spostai altri calcinacci e riuscii ad aprirmi un varco. Quando lo raggiunsi,
l'uomo era in stato di semi-incoscienza. Gli domandai quale parte del suo
corpo fosse incastrata, senza ottenere risposta. Uscii a prendere dell'acqua,
e tornai dentro con una minuscola ciotola per spruzzargliela in faccia.
Adesso era cosciente, ma era fuori di sé, e urlava. Mi diede del filo da
torcere, però alla fine riuscimmo a estrarlo dalle macerie. A salvargli la vita
era stato uno sgabellino a treppiedi, che aveva frenato la caduta dei
calcinacci, offrendogli un po' di riparo.
In superficie alcuni compagni erano alle prese con i corpi dilaniati. Alla
fine recuperammo i resti di oltre trenta soldati. Li ricomponemmo alla
bell'e meglio, poi li avvolgemmo dentro una coperta, cucendone i bordi. Fu
un compito macabro. Erano tutti nostri amici.
Al campo assistevamo di continuo alla morte di vittime innocenti, ma è
diverso quando si tratta dei tuoi compagni. Fu un colpo terribile, eppure
bisognava tirare avanti. In seguito girò la notizia alla quale la Croce Rossa
prestò fede che quei soldati fossero morti perché stavano assistendo allo
"spettacolo", ma non era vero. Credevano di essere al sicuro.
I corpi furono inviati al cimitero della chiesa dell'Ascensione della
Vergine Maria, a OÅ“wie²cim. Fui mandato avanti con Bill Meredith un
ragazzo di Liverpool per aiutare a scavare una fossa comune, ai piedi del
muro di cinta. In fondo a un passaggio sorgeva una piccola cappella, e per
la prima volta in vita mia vidi delle lapidi con la foto del defunto, una
consuetudine che trovai curiosa8.
8
Quella di mettere il ritratto del defunto sulla lapide è una tradizione diffusa soprattutto nei Paesi
cattolici (n.d.t.). Ci mettemmo a torso nudo e cominciammo a scavare. Terminata la
fossa, arrivò il camion che trasportava i resti e altri compagni per assisterci
nella sepoltura. Non ci furono cerimonie. Disposti in fila, i compagni si
passavano le salme di mano in mano, e io e Bill le sistemavamo nella terra,
l'una accanto all'altra, come si faceva nel deserto. Da troppo tempo non
pensavo agli uomini che avevo lasciato nella sabbia, e a Les, rimasto
insepolto.
Non potemmo ultimare la cerimonia funebre. Prima ancora di ricoprire i
corpi fummo rispediti sul camion. Non so chi abbia chiuso la fossa. A
distanza di tre settimane, sul cimitero cadde una bomba che distrusse le
tombe. Dopo la guerra, i corpi che fu possibile identificare, e alcuni rimasti
ignoti, furono traslati al cimitero di guerra di Cracovia, dove da allora
riposano in pace.
Capitolo 14
Erano passati dei mesi da quando avevo scritto a mia madre di Ernst. Di
tanto in tanto lo rivedevo nel cantiere della fabbrica, ma da casa non avevo
ottenuto risposta. Non sapevo se mia madre avesse ricevuto la lettera, né se
avesse contattato sua sorella Susanne a Birmingham... sempre che lei
abitasse ancora là. Era valsa la pena di tentare, ma in fondo la ritenevo
un'impresa impossibile. Il sistema postale della Croce Rossa ci aveva
offerto un prezioso collegamento con il mondo esterno, ma subiva
continuamente delle interruzioni, e sempre più prolungate.
Dopo qualche mese ricevetti una busta intestata con una calligrafia
sconosciuta. Era seguita da un pacco. La lettera era scritta in inglese, e la
aprii senza pensare a Ernst. Iniziava con «Caro Ginger», ed era firmata
«Susanne». Aveva finto di scrivere a me per non rivelare il vero
destinatario. Diceva che avrebbe spedito le sigarette. Lo stratagemma aveva
funzionato.
In un'altra missiva mia madre mi confermò di aver contattato Susanne,
informandola che l'unico modo di aiutare Ernst era mandargli delle
sigarette, dopodiché aveva lasciato che fosse lei a decidere sul da farsi.
Aprii la scatola, e mi ritrovai davanti duecento pacchetti di Players inglesi.
Quelle che mi mandava mio zio quando arrivavano erano di un'altra marca,
le 555. Le Players erano destinate a Ernst, e la scatola ne conteneva più di
quante ne avessi viste da mesi.
Era un miracolo: la sorella di Ernst era sana e salva. E adesso sapeva che
suo fratello era vivo, e internato ad Auschwitz. Potevo solo sperare che non
le fosse giunta all'orecchio nemmeno una parola su ciò che accadeva nel
campo.
Avevamo cercato un canale di comunicazione, e questo contava più di
tutte quelle sigarette messe insieme, per quanto preziose fossero. Il contatto
che quella lettera aveva stabilito era una sfida lanciata contro il male.
Provai una gioia immensa. Ora dovevo trovare il modo di consegnare la
lettera e le sigarette a Ernst, contrabbandandole all'interno del cantiere della
IG Farben. A volte avvenivano delle persquisizioni, ma io fui fortunato.
Nel campo le sigarette valevano più dell'oro. Quando io e Hans ci
eravamo scambiati di posto, avevano messo le nostre vite nelle mani del
kapò, e il prezzo perché distogliesse lo sguardo era stato di cinquanta
sigarette, venticinque prima, e altrettante a cose fatte. Nella situazione in
cui si viveva al campo, quella somma equivaleva a una fortuna, e adesso
stavo per consegnarne a Ernst molte di più.
Non avevo mai saputo con precisione quale compito svolgesse Ernst nel
cantiere, ma riusciva a spostarsi più liberamente di gran parte dei suoi
compagni, e sembrava esentato dalle mansioni più faticose che si
compivano all'esterno. Pensavo facesse da fattorino o da corriere.
Passò del tempo prima che lo rivedessi. Aspettai l'occasione giusta per
avvicinarlo, e gli sussurrai di incontrarci in un luogo appartato nel giro di
cinque minuti.
Arrivò. Controllai che fossimo soli, e poi presi di tasca la lettera di sua
sorella. Quando capì di cosa si trattava, non stava nella pelle dalla felicità.
Gliela consegnai, facendogli capire a gesti di strapparla dopo averla letta.
Ernst aveva perduto tutto, della sua vita passata non gli restava niente, solo
quella lettera. Dicendogli di sbarazzarsene gli stavo chiedendo un sacrificio
enorme. Sapevo che sarebbe stata dura, ma ne andava della sicurezza di
entrambi, e confidavo che l'avrebbe fatto. La prese e la fece sparire da
qualche parte all'interno della sua divisa a righe.
Mi accertai di nuovo che nessuno ci vedesse, e poi da sotto l'uniforme
feci comparire la prima stecca di sigarette e una barretta di cioccolato.
Dovevo scaglionare la consegna: le sigarette erano troppe perché lui
potesse nasconderle, e correva il rischio di perderle tutte. Gli dissi che
gliele avrei fatte avere un po' alla volta. Considerati il luogo e la situazione,
gli stavo affidando un tesoro, e lui ne era ben consapevole.
Eravamo circondati da uomini disperati, privati di tutto, strappati alle
mogli, ai figli, ai genitori e ai nonni che avevano visto uccidere appena
arrivati. Quanti erano stati risparmiati, spezzati dalla fame e dalla fatica,
sapevano che i familiari erano finiti nelle camere a gas, e i loro corpi arsi
nei forni crematori. Con il tempo anche loro avrebbero finito per
soccombere alla disperazione, alle malattie, allo sfinimento e alle botte.
Era questo il nostro universo, e ora io stavo consegnando a Ernst una
lettera e un dono da sua sorella che viveva in Inghilterra. Era il massimo
che potessi fare per lui. Non avevo idea di come avrebbe fatto fruttare
quelle sigarette, quanto cibo o quali favori potesse ottenere in cambio. Non
potevano restituirgli la libertà, ma almeno poteva usarle per ottenere un
vantaggio, una possibilità in più di sopravvivenza. Non ero in grado di fare
di più. Il resto sarebbe dipeso da lui.
Finora era riuscito a farcela, ma nessuno di noi sapeva quanto a lungo
avrebbe resistito. Il tanfo di quei camini lontani e i cadaveri accumulati alla
fine di ogni giorno di lavoro erano una prova inconfutabile che le nostre
vite erano soggette a una forza maligna, e al capriccio dei carnefici.
Avevo intravisto la realtà oltre il filo spinato di Auschwitz-Monowitz,
ma lui conosceva meglio di me quel mondo, e sapeva come cavarsela.
Avevo fiducia in lui, però ero consapevole che le sue possibilità di
sopravvivenza erano minime. Cercai di non lasciarlo trapelare. Nel corso
delle settimane seguenti gli consegnai di nascosto il resto delle sigarette.
Non venni mai a sapere cosa ne avesse fatto.
A parte l'esistenza della sorella in Inghilterra, non sapevo niente della
sua famiglia. Lui non aveva mai accennato ai genitori o ai nonni, e dava
l'impressione di essere solo al mondo. D'altra parte, così era più facile
sopravvivere, lo sapevo per esperienza personale. Mi ero attenuto a quella
regola nel deserto, e quando i siluri avevano affondato la mia nave. Valeva
lo stesso anche in prigionia. Meglio contare solo su di sé: ti aiutava a stare
in guardia. Come ho già detto, non avevamo altro che noi stessi. Forse è per
questo che in quegli anni mi affezionai a pochissime persone.
Ernst era un'eccezione. Malgrado la disperazione, il suo sguardo lasciava
ancora intravedere un barlume del bambino che era stato, e dell'uomo che
sarebbe diventato. Tra di noi c'erano profonde affinità. Al cantiere lo
cercavo sempre con gli occhi, e ogni volta che potevo gli consegnavo altre
sigarette. Se la guerra si fosse protratta ulteriormente, credo che avrei
tentato di fargli arrivare un altro pacco.
Provavo un bisogno disperato di lasciarmi alle spalle quel luogo
infernale, sia pure per poche ore, così colsi al volo l'opportunità di unirmi a
un gruppo di lavoro fuori da Buna-Werke. Ogni occasione per entrare in
contatto con i civili era preziosa. Avevamo l'ordine di raggiungere in treno
la città di Katowice, caricare dei rifornimenti e fare ritorno. Non ci dissero
di quali merci si trattasse, né perché servissero sei uomini per il loro
trasporto. Uscimmo dal campo sotto scorta armata e, dopo un tragitto a
piedi raggiungemmo una stazione con le banchine basse che davano su un
ampio scalo.
Dalla mia posizione, vedevo di traverso i binari. Dal fondo era appena
arrivato un convoglio di carri da bestiame, carichi di prigionieri. Vennero
incolonnati a forza, a un centinaio di metri da noi, uomini e donne separati,
ancora in abiti civili. Sapevamo quale visione si stesse parando di fronte ai
loro occhi, e quale destino attendesse le donne e i bambini.
Una di loro teneva in braccio un neonato, che piangeva. Una SS
marciava avanti e indietro lungo la fila. Lo vidi fermarsi per rimproverare
la donna, prima di proseguire. Il piccolo continuava a piangere. La guardia
avanzò di qualche passo, poi fece dietrofront, la raggiunse di nuovo e, con
tutta la forza che aveva in corpo, sferrò un pugno in faccia al bambino.
Calò il silenzio.
Quasi vomitai per lo shock e la rabbia di essere impotente. Persino a
quella distanza si capiva che il piccolo era morto. Quella scena
raccapricciante cancellò ogni traccia di sollievo per la giornata trascorsa
fuori dal campo. Arrivò il treno, e salimmo a bordo. Ero ammutolito
dall'orrore. Eravamo abituati a vedere gli adulti trattati con crudeltà, ma
uccidere un neonato tra le braccia della madre superava ogni
immaginazione.
Nei pressi di Katowice, arrivammo a un deposito requisito dai militari,
con un grosso cortile dove ci ordinarono di caricare un mucchio di sacchi
su un vagone ferroviario. Erano fatti con grandi coperte cucite insieme.
Non sapevo cosa contenessero, e non lo scoprii mai. Forse si trattava di
pane, ma dopo quanto avevo visto nemmeno di quello mi importava più.
Finito il lavoro salimmo su un vagone passeggeri, con le guardie di
piantone in corridoio per chiudere ogni via di fuga. Avevo visto un
bambino assassinato con un pugno. Fissando fuori dal finestrino, quella
scena mi tornava incessamente davanti agli occhi. Dovetti obbligarmi a
scacciarla dalla mia mente. Non potevo fare altrimenti. In vita mia non
avevo mai distolto lo sguardo, né mi ero tirato indietro. Non mi avevano
insegnato a voltarmi dall'altra parte di fronte a un'ingiustizia, e adesso ero
costretto continuamente a farlo.
Dal mio scambio con Hans avevo ottenuto dei nomi, e qualche
informazione. Avevo un'idea più chiara di quanto accadesse nel loro settore
del campo, ma aspettavo di scoprire altro. Ero deluso. Sapevo che quello
era il luogo dove avvenivano le selezioni, ma lo sterminio su scala
industriale accadeva altrove. Troppi elementi erano ancora fuori dalla mia
portata.
Passavano le settimane, si avvicinava l'inverno, e cominciava a fare
freddo. C'era il sentore di una nostra vittoria, ma la fine della guerra
sembrava ancora lontana. Non avevo idea di come potesse concludersi la
spaventosa storia dei campi. Chi sarebbe sopravvissuto per parlarne al
mondo? Chi sarebbe rimasto a darne testimonianza?
Lentamente, nel corso dei mesi, nella mia mente prese forma l'idea di
riprovarci. Hans era ancora vivo, e per miracolo anche i suoi due compagni.
Proposi di scambiarci di posto una seconda volta, e lui accettò; le sue
condizioni non erano migliorate, e valeva la pena di correre il rischio. Per
giorni perfezionai il nuovo piano. Questa volta lo scambio non sarebbe
avvenuto nella Bude la baracca usata in passato ma in un Bau, un
fabbricato di mattoni in corso di costruzione nel cantiere.
Appena oltre l'ingresso principale si apriva una stanzetta nella quale a
volte andavamo a riposare, e decidemmo di darci appuntamento là. C'erano
delle nicchie dove potevamo nascondere il necessario prima dello scambio,
e ci parve più adatta.
Al giorno convenuto, mi sentivo più preparato della prima volta. Ora
sapevo come funzionava la marcia, in quali punti si nascondevano le
insidie, e ciò nonostante gran parte della faccenda era affidata al caso.
Ci scambiammo rapidamente gli abiti, però in quella stagione,
infilandomi la sua divisa a righe, sentii il freddo pungermi le ossa. Di
nuovo lui uscì per primo, evitando di attardarsi. Io mi ero nuovamente
sporcato la faccia, e rasato il cranio alla meno peggio. Mi fermai a
controllare che la casacca fosse abbottonata, e mi preparai a imitare la
postura di un uomo sfinito. Raggiunsi gli uomini a righe senza intoppi,
confondendomi con loro in attesa della conta.
Non avevo considerato il rigore dell'inverno. Non ho mai potuto
sopportare il freddo, lo detesto ancora oggi. Ero scosso dai brividi. Questa
volta l'appello sembrò non finire mai.
Ci incamminammo per la marcia che ormai mi era familiare, portandoci
appresso i corpi degli ultimi caduti, proprio come la prima volta in cui ero
entrato nel campo. E, sempre come allora, alcuni cadaveri scivolarono a
terra, furono recuperati, e caddero di nuovo. Dopo quel percorso
interminabile, per la seconda volta varcai i cancelli di Auschwitz IIIMonowitz. Qualcuno urlò un ordine «Mützen ab!» e noi ci levammo i
berretti e raddrizzammo la schiena. Poi ci avviammo verso l'Appelplatz lo
slargo a metà strada lungo il camminamento sulla destra. Anche all'interno
sorgevano delle recinzioni. E come la prima volta, l'orchestra suonava.
Ci mettemmo in fila per essere contati di nuovo. L'appello durò
un'eternità. Lo sforzo della marcia non mi aveva riscaldato, e la divisa a
righe era ridotta a brandelli, così che il calore del mio corpo si disperdeva.
Scendeva la sera. Non fu necessario fingere, stavo male quanto gli uomini
che mi circondavano. Poi cominciò a piovere.
Anche senza contarli, avevo l'impressione che i prigionieri
sull'Appelplatz fossero più numerosi. Quando finalmente ci congedarono,
seguii le mie guide verso le baracche sul lato dello slargo, in prossimità
della recinzione del perimetro, con i suoi fili ad alta tensione. Una volta
entrati, mi stesi sul tavolaccio, deciso a non muovermi. Sapevo già che non
avrei mangiato il loro cibo.
Nei mesi trascorsi da quando avevo diviso con loro il giaciglio, i miei
due amici avevano sofferto molto. Mi sorpresi che fossero ancora vivi. A
loro non lo dissi, ma li trovai terribilmente deperiti. Il polacco era in
condizioni peggiori. La sua carnagione era giallastra, malaticcia. Aveva gli
occhi di un uomo al quale resta poco da vivere. I prigionieri usavano
un'espressione particolare per definirlo: lo chiamavano lo sguardo del
Muselmann.
Avevo l'impressione che i bombardamenti alleati e i progressi bellici
avessero suscitato in loro una vaga speranza di farcela, ma di essa restava
poco più di un miraggio. Il tempo a mia disposizione era limitato, però non
potevo insistere troppo perché parlassero: erano sfiniti, e il polacco crollò
semisvenuto appena si arrampicò sul tavolaccio. Ero certo che non sarebbe
arrivato al mattino. Riuscii a scambiare qualche parola in più con il
tedesco.
Questa volta sapevo già cosa mi aspettava: i lamenti, le parole
farneticanti, di tanto in tanto le urla. Il tedesco doveva avere al massimo
vent'anni, ma ai miei occhi sembrava più un cadavere che una persona: era
ridotto a uno scheletro. I corpi nella baracca non emanavano quasi calore, e
io tremavo per il freddo.
Per la prima volta mi resi conto che la morte ha un odore particolare.
Non saprei descriverlo, però in quella baracca gravava nell'aria, putrido,
oscuro e raccapricciante. Eravamo tutti sfiniti per la fatica della giornata.
Nella litania di gemiti e preghiere recitate, sprofondai nel sonno.
Il polacco sopravvisse alla notte, ma al mattino dovetti aiutarlo ad alzarsi
in piedi. Era allo stremo, e al cantiere non lo rividi mai più. Finalmente finì
l'appello, e provai sollievo quando superai i cancelli per riprendere la strada
che portava al Buna-Werke, e al lavoro che di solito maledicevo.
Dentro il Bau effettuammo lo scambio in fretta e furia, senza una parola,
e fu una consolazione rimettermi la mia uniforme. Io e Hans ritentammo
l'operazione anche una terza volta, qualche settimana dopo, dandoci
nuovamente appuntamento nella Bute. Avevo lasciato aperta la porta della
baracca, perché chiuderla avrebbe suscitato dei sospetti. Ma in quel caso, la
vista di una guardia che si aggirava nel cortile del cantiere ci costrinse a
desistere.
Se guardo al passato, avrei dovuto memorizzare quanto potevo durante il
primo tentativo, e poi lasciar perdere. Ma io non sono fatto così. Se l'avevo
scampata una volta, dovevo riprovarci. Avevo mandato a memoria i nomi
di alcuni kapò e guardie, e soprattutto avevo visto quel luogo con i miei
occhi: per me era questa la cosa importante. Le voci non contano niente.
Non sapevamo cosa ne sarebbe stato dei campi, o chi sarebbe sopravvissuto
fino alla fine della guerra, per poter raccontare al mondo che quei crimini
avevano realmente avuto luogo.
Capitolo 15
Era una mattinata umida e triste. Aveva piovuto a dirotto, e il terreno era
diventato una palude. Insieme ad altri diciannove prigionieri di guerra
inglesi, mi venne ordinato di stendere i cavi elettrici di un nuovo impianto.
Fummo messi in fila, sprofondando fino alla vita in un fossato pieno di
fango, a cavallo dei grossi cavi principali. Secondo la logica assurda dei
campi, il compito era toccato a noi perché quelli addetti ai lavori forzati
erano ormai troppo deboli per sollevare un peso simile. Il cavo era avvolto
intorno a un'enorme bobina di legno, e a mano mano che si srotolava
diventava sempre più pesante. Se non tiravamo all'unisono, risultava
inamovibile.
Accanto alla bobina, sul bordo del fossato sopra di me, c'era un ragazzo
ebreo, avrà avuto diciott'anni. Era magro e deperito, ma aveva ancora un
bel viso. Non vidi cos'avesse fatto di male: ai nazisti non serviva un
motivo. Una SS gli si avvicinò, e il ragazzo si comportò come tutti i
prigionieri davanti alle guardie: interruppe il lavoro, si levò il berretto dalla
testa, sbattendolo contro la coscia, e scattò sull'attenti.
Nemmeno questo poté salvarlo. L'ufficiale stringeva nella mano un
oggetto pesante, e lo colpì alla tempia, con una violenza tale da farlo
sanguinare. Il ragazzo riuscì a rimettersi in piedi, mormorando delle parole
in una lingua sconosciuta. Non appena si fu rialzato l'ufficiale lo colpì di
nuovo, e lui crollò a terra con un grido. Di nuovo si mise in piedi, e di
nuovo venne colpito in faccia. A quel punto la sua uniforme era intrisa di
sangue. Stavo guardando con le mani in mano un ragazzo ammazzato di
botte. Non era la prima volta che mi capitava, ma in quel frangente scattò
qualcosa, e la rabbia che mi ribolliva dentro ruppe gli argini.
Nel mio pessimo tedesco, urlai all'SS: «Du verfluchter Untermensch!».
Era l'offesa più grave che riuscii a trovare. Gli avevo dato del dannato
subumano, un insulto che i nazisti riservavano a quanti consideravano
inferiori: slavi, zingari, ebrei. Sapevo di avere usato parole di fuoco. Il
pestaggio finì lì, ma ero certo che ci sarebbero state conseguenze.
Bastarono dieci minuti perché l'ufficiale avviasse la rappresaglia. Prima
mi lasciò finire il lavoro. Risalii dal fosso e mi girai per andarmene, e lui
mi sorprese alle spalle. Appena mi raggiunse sentii un colpo violento sulla
faccia. Finii a terra, tenendomi una mano sull'occhio destro: mi aveva
percosso con il calcio della pistola. Persi i sensi per qualche secondo.
Quando ripresi conoscenza, la palpebra tumefatta si stava già chiudendo, e
sanguinavo da alcuni tagli sopra e sotto l'occhio. L'ufficiale era sparito.
Non seppi mai cosa accadde al ragazzo, ma temo che non sia
sopravvissuto a lungo. Se anche non fosse morto per quei colpi alla testa,
comunque era un uomo segnato, e presto lo avrebbero fatto fuori.
Dopotutto, io avevo ricevuto un solo colpo, e mi aveva rovinato un occhio.
Nel nostro campo c'era un medico sudafricano, un tizio di nome
Harrison. Gli osservatori della Croce Rossa sostenevano che disponesse di
tutte le attrezzature necessarie. In realtà, non aveva che qualche aspirina e
una lampadina da 60 watt per una rudimentale terapia della luce. Fece il
possibile, e io mi guardai bene dal denunciare l'aggressione.
Il gonfiore sparì, i tagli si rimarginarono, ma la mia vista era
compromessa. A volte guardavo un grosso edificio, e lo vedevo restringersi
e diventare sottile come un palo della luce. A distanza di anni, dopo la
guerra, la lesione si tramutò in un tumore, e dovetti rassegnarmi all'espianto
della cornea e a un occhio di vetro. Sapevo benissimo chi dovevo
ringraziare.
La vulnerabilità di quel ragazzo e la mia impotenza mi tormentavano. Mi
avevano insegnato a oppormi alle ingiustizie, ma ad Auschwitz potevo fare
ben poco. Vidi tante persone picchiate, tante uccise. Eppure, di notte, è
ancora l'immagine di quel ragazzo coraggioso che torna a incombere su di
me. È il suo volto a farmi svegliare di soprassalto, madido di sudore. Di lui
non sapevo nulla, nemmeno il suo nome, ma la sua faccia insanguinata mi
accompagna giorno e notte da quasi settant'anni.
Molti dei miei compagni facevano il possibile per gli uomini a righe,
trovando il modo di dare loro una sigaretta ogni tanto, o un po' di cibo.
Altri erano paralizzati dal terrore suscitato dal trauma. Avevano paura di
essere contagiati dalle loro malattie, di fare la stessa fine. In fondo eravamo
tutti prigionieri, ciascuno preoccupato di sopravvivere, e certo l'altruismo
non era appannaggio esclusivo di quanti, da civili, avevano avuto vita
facile.
Frank Grimm era uno dei soldati meno privilegiati. Mi vergogno un po' a
dirlo, ma quel poveretto in pratica era un analfabeta. Io gli leggevo a voce
alta le lettere della famiglia, e scrivevo le sue sotto dettatura: fu così che ci
conoscemmo. Il tedesco gli risultava ostico, e parlarlo era essenziale per
comunicare nel campo.
Un giorno mi chiese di accompagnarlo a una baracca di falegnami a nord
est del fabbricato della Queen Mary. All'interno c'erano attrezzi e trucioli
dappertutto, e una grossa panca dove due ebrei greci lavoravano da soli.
Avevano un'infarinatura elementare di tedesco, e Frank pensava che
potessi parlare con loro. Si diceva che i greci fossero gli ultimi superstiti
della comunità di Salonicco. Erano commercianti davvero abili, uomini
coriacei e astuti.
Grazie alle loro capacità, quei due avevano avuto la fortuna di essere
incaricati della produzione dei materiali necessari per il cantiere. Per gli
uomini a righe era un vero lusso. Potevano stare al coperto, e sembravano
meno denutriti degli altri.
Ogni volta che poteva, Frank portava loro del cibo ma, dal momento in
cui mi presentò, per chissà quale motivo quei due si convinsero che io fossi
il suo capo, e concentrarono l'attenzione su di me. Da allora mi accolsero
sempre sorridendo quando entravo nella baracca. Durante una di quelle
visite fummo sorpresi dalle SS. Mi aspettavo che, trovandomi là, dessero in
escandescenze, ma non batterono ciglio. Non fecero domande. L'unica
spiegazione era che i due greci stessero fabbricando sottobanco qualcosa
per loro. I prigionieri dovevano approfittare di ogni protezione possibile,
trasformando le proprie capacità in una crosta di pane. L'intricata rete di
rapporti del campo rendeva difficile sapere di chi ci si potesse fidare. Per
questo evitavo di rivelare il mio nome: non sapevi mai chi era legato a chi.
Dappertutto c'erano spie in agguato, e anche le informazioni
rappresentavano un'utile moneta di scambio.
Un giorno, con mia sorpresa, i due falegnami mi consegnarono una
cassetta di legno, insistendo perché l'accettassi in regalo. Era intagliata a
mano, con minuscoli cassettini e commessure perfette, senza un chiodo.
Sarebbe stata l'ideale per tenerci i miei prodotti da bagno, se ne avessi
avuti. Era un oggetto bizzarro da ricevere in dono dentro al campo, dove la
gran parte dei prigionieri faceva tesoro di un bottone, o dei mozziconi
raccolti da terra. Rimasi interdetto.
Era stato Frank a conoscerli per primo, ma nel corso dei mesi quei due
greci erano diventati anche amici miei. Ora volevano a tutti i costi che
tenessi quella piccola cassetta, mettendomi in grave imbarazzo. I greci
avevano la reputazione di non offrire mai niente per niente, però non
riuscivo proprio a immaginare cosa sperassero di ricavare da me. Forse lo
consideravano un investimento in vista di favori futuri, tuttavia non mi
chiesero mai nulla in cambio.
Era pur vero che al campo non lo avrebbero potuto barattare con
qualcos'altro. I prigionieri non avrebbero saputo cosa farsene. Le sigarette
erano una valuta ben più pregiata, più facile da nascondere e da scambiare.
Il piccolo scrigno era più adatto a un operaio civile, o a qualcuno che non
vivesse nel campo, e chissà, magari un prigioniero di guerra era quanto di
più simile avevano sottomano. Non accennarono mai ad alcuna richiesta:
forse era sufficiente che io mi sentissi in debito. Da allora in poi feci del
mio meglio per portare loro da mangiare; quindi, se l'intento era quello, in
un certo senso funzionò.
Per una volta, far uscire lo scrignetto di nascosto dal cantiere non mi
creò problemi. Capitava di venire perquisiti, o di dover corrompere i
Posten. Nel campo non tutti erano incorruttibili, e non era difficile indurre
le guardie a guardare dall'altra parte, purché avessero un tornaconto. In
quell'occasione tutto filò liscio, io raggiunsi senza intralci l'E715 e, arrivato
alla baracca, infilai nel mio zaino lo scrignetto: un raro barlume di bellezza
in un luogo di orrori.
Era il dicembre del 1944, e i pacchi della Croce Rossa non arrivavano
più. I bombardamenti alleati avevano distrutto le linee di comunicazione.
Fino ad allora ci eravamo tenuti in vita grazie a quelle razioni extra, e
adesso la nostra situazione peggiorava inesorabilmente. Potevamo contare
solo sul rancio da fame che ci davano i tedeschi, e ne restava ben poco da
passare agli ebrei.
Non ricordo l'ultima volta che vidi Hans o Ernst. Spesso pensavo a loro,
ma nel gennaio del 1945 ci giunse voce dell'avanzata russa. Cominciammo
a sentire il suono dell'artiglieria e gli spari in lontananza. Il campo aveva i
giorni contati. Non sapevo se per noi avrebbe significato la liberazione, o
altre sofferenze.
Il 18 gennaio 1945 gli ebrei furono scortati per l'ultima volta fuori da
Auschwitz III-Monowitz. Il campo, ad appena qualche centinaio di metri
dal sentiero che conduceva all'E715, rimase deserto, con l'eccezione dei
pochi malati che le SS si lasciarono indietro. Nel cuore dell'inverno, i
poveri uomini a righe furono portati via sotto il tiro dei fucili, costretti a
procedere tra la neve e il ghiaccio. Erano migliaia. La marcia della morte
era cominciata.
Quella mattina arrivammo come al solito alla fabbrica della IG Farben,
convinti che fosse un giorno di lavoro come ogni altro, e la trovammo
vuota. Le sagome con le divise a righe che affollavano il cantiere e che la
prima volta mi erano sembrati uscire dalla terra stessa erano scomparse.
Tutto era immobile, avvolto in un silenzio di tomba.
Le voci passavano di bocca in bocca. Temevo che, pressati dall'offensiva
sovietica, i tedeschi ci avrebbero tenuto in ostaggio. Quella notte i russi
lanciarono un furioso attacco aereo. Come sempre uscimmo dal campo in
cerca di riparo, lasciando tutto all'interno delle baracche. Quando
cominciarono a piovere le bombe, io mi nascosti in un piccolo
avvallamento nel campo retrostante le baracche. Il raid fu violentissimo.
Sembrava non finisse mai.
Passai la notte in quel fosso, e non ricordo di avere chiuso occhio. Ero
molto vicino al bersaglio, ma non vidi le esplosioni: tenevo la faccia
incollata a terra, le mani sopra la testa. Quando finì, emersi dalla mia fossa
e trovai il campo pressoché distrutto. Individuai quanto restava del mio
settore, e frugai tra le macerie alla ricerca di qualcosa da recuperare.
Ritrovai il mio orologio, che avevo appeso a un chiodo conficcato nella
branda, e lo zaino con qualche effetto personale, compreso il minuscolo
scrigno che mi avevano donato i greci. Afferrai tutto e mi affrettai a uscire.
Gli altri stavano facendo la stessa cosa, ma il tempo stringeva.
Era ancora buio, faceva freddo, e io non avevo un cappotto... non credo
di averne mai avuto uno in prigionia. Avrei dovuto continuare a farne a
meno. Adesso l'artiglieria russa si sentiva più distintivamente, a non più di
una decina di chilometri di distanza, e sempre più assordante a mano a
mano che si avvicinava. Quel suono ci dava coraggio, e nello stesso tempo
ci riempiva di cupi presagi.
I tedeschi ci radunarono prima dell'alba, schierandoci in due colonne. In
seguito alcuni dissero che Mieser, l'ufficiale tedesco, ci lasciò liberi di
scegliere se dirigerci a est, verso l'avanguardia russa, o a ovest, insieme alla
colonna tedesca. Non è quello che ricordo io. Ci tenevano ancora sotto tiro.
E comparire senza preavviso davanti ai sovietici nelle nostre uniformi
irriconoscibili sarebbe comunque equivalso a un suicidio. Anni dopo mi
raccontarono che due ragazzi avevano corso quel rischio, ed erano morti
per mano dell'Armata rossa.
La nostra colonna fu l'ultima a partire. Ci fecero marciare oltre i cancelli,
con il filo spinato attorcigliato intorno alle assi della staccionata, e ci
lasciammo per sempre alle spalle quanto restava del campo E715.
Capitolo 16
Per un po' ci fecero procedere lungo la staccionata del cantiere della IG
Farben, al buio e al freddo pungente, e io sputai il mio addio a quelle torri e
a quei camini diabolici, alle garitte d'acciaio, ai gasometri e a chilometri di
tubature. Poi svoltammo verso sudest, evitando l'abitato di Auschwitz e
lasciandoci per sempre alle spalle disperazione e tumuli di terra gelida.
Nessuno ci disse dove eravamo diretti. Non ricordo di avere attraversato
l'abitato dove aveva vissuto il numeroso personale civile del campo. Pensai
ai prigionieri ebrei che avevo conosciuto, a Ernst e alla sorella che forse in
Inghilterra si illudeva ancora del suo ritorno; a Hans, del quale sapevo così
poco. Ce n'erano tanti, tanti altri, ma erano volti senza nome.
Non avevo fatto molta strada quando davanti a noi vidi un fagotto di
stracci gettato a terra e semicoperto dalla neve. Avvicinandomi riconobbi la
divisa a righe, ora sbiancata e irrigidita dal gelo. Ne trovammo un altro, e
un altro ancora. Impossibile non riconoscerli. Scansammo i corpi congelati,
senza fermarci. Ad alcuni avevano sparato in faccia, gettandoli nel fosso,
altri giacevano di traverso sulla strada, nel punto dov'erano caduti per
essere finiti da un colpo a bruciapelo. Il poco calore rimasto nei loro corpi
si era volatilizzato da un pezzo. I proiettili erano solo l'ultimo capitolo di
una lunga storia di torture.
Avrei dovuto prevedere che non sarebbe finita tanto presto, che
avremmo assistito ad altre atrocità. Adesso non ero più sicuro che qualcuno
potesse sopravvivere per raccontare al mondo quanto era accaduto. Per
settimane avevo cercato di indovinare cosa ne sarebbe stato degli ebrei. Ora
lo sapevo. I tedeschi avevano trascinato via i loro prigionieri, contando di
sfruttarne ancora le ultime forze. Ma se uno schiavo cadeva lungo la strada,
era spacciato. Pareva che ben pochi fossero riusciti a proseguire.
I corpi erano rimasti là dov'erano stramazzati, a ricoprirsi di ghiaccio.
Erano partiti per la marcia già affamati e allo stremo delle forze, e molti
erano stati uccisi dalla fatica e dal freddo. Alcuni si erano accasciati, e non
si erano alzati più.
«La morte incomincia dalle scarpe», avrebbe scritto Primo Levi dopo
essere sopravvissuto ad Auschwitz III-Monowitz. Ciò valeva nel campo,
dove il legno grezzo degli zoccoli causava ferite gonfie e purulente,
rallentava il passo e portava al declino, ai pestaggi e alla morte; e anche là
fuori, in mezzo alla neve.
Solo tempo dopo avrei saputo che Levi era stato uno di quelli troppo
malati per lasciare Auschwitz III-Monowitz, scampando alla marcia della
morte e riuscendo a sopravvivere.
Per giorni scavalcammo tra i corpi congelati. Sapevo che i superstiti
sarebbero stati ben pochi. Erano troppi i cadaveri irrigiditi ai bordi della
strada. Ernst, Hans e gli altri erano sicuramente morti. Avevo pensato che,
se mai fossi riuscito a tornare in Inghilterra, avrei cercato Susanne, per
raccontarle ciò che avevo visto, ma ormai mi sembrava superfluo. Loro non
c'erano più. Dovevo scacciarli dalla mente, e utilizzare tutte le mie energie
per sopravvivere. Come ho detto, se non pensi a te stesso, è finita.
Le nostre guardie appartenevano alla Wehrmacht, non alle SS, eppure
non c'era alcuna garanzia circa le loro intenzioni. Ricordo un soldato in
particolare, un veterano del fronte orientale. Aveva affrontato i russi in
battaglia, e ne portava i segni: una protesi al posto della mano, coperta da
un guanto di pelle. Aveva ottimi motivi per andare a ovest. La tentazione di
sfidarlo fu irresistibile. Dopo chilometri passati a camminare al suo fianco,
inciampando nei cadaveri a ogni passo, nel miglior tedesco che riuscissi a
tirare fuori gli dissi in faccia: «Ihre Zeit kommt noch», "Verrà la vostra
ora". Si irrigidì. Sapeva a cosa mi riferivo.
Replicò con una minaccia: «Prima ti sparo». Probabilmente non avrebbe
esitato a farlo. Il loro nervosismo era tangibile, e tenevano tutti il dito sul
grilletto. Dopo un po' non ci imbattemmo più nei cadaveri. Ma sapevo che
lo sterminio non era finito: avevano solo cambiato strada.
I viveri scarseggiavano, e ci nutrivamo soprattutto di quanto riuscivamo
a rubare nei campi. Di notte riposavamo nei fienili, sorvegliati dalle
guardie, in altri casi non avevamo altra scelta che dormire all'addiaccio,
sulla neve. Io ero sfinito ma, senza cappotto, assopirsi avrebbe significato
la morte certa, così mi sforzavo di restare sveglio.
Dopo alcuni giorni intravidi le montagne davanti a noi, e il sentiero si
fece più ripido. A mano a mano che salivamo la temperatura precipitava. A
quanto dicono, scese fino a 30 gradi sotto zero. La neve mi sferzava la
faccia, e dalle orecchie mi pendevano dei ghiaccioli. Fu una scalata
lunghissima e logorante. I piedi mi erano diventati insensibili, il primo
sintomo di assideramento. In seguito venni a sapere di compagni che,
togliendosi gli stivali, si erano strappati le dita dei piedi.
Continuammo a salire finché il sentiero non divenne pianeggiante, e poi
si tramutò in una lunga e tortuosa discesa. Smise di nevicare, e i mulinelli
intorno a noi persero di intensità. Di tanto in tanto la neve lasciava
intravedere qualche lembo di verde, poi si diradò, e infine sparì del tutto.
Dopo molte ore ci ordinarono di fermarci in un campo sulla sponda di un
torrente in piena. Quando il sole squarciò le nubi, la superficie dell'acqua si
accese di migliaia di riflessi luminosi. Era una visione fresca, pura e
invitante, e per un momento pensai che mi avrebbe purificato di tutta la
sporcizia, la sofferenza e l'angoscia che mi portavo addosso. La corrente
era fortissima e l'acqua, che scendeva direttamente dalle cime innevate, era
gelida, ma la sua bellezza mi aveva disarmato. Sarebbe bastato un tuffo per
mettere fine a ogni sofferenza. Per un istante rimasi come ipnotizzato, e mi
costò uno sforzo enorme trattenere quell'impulso autodistruttivo.
Marciammo per circa trenta chilometri ogni giorno, e presto tornò il
freddo. Di solito procedevamo in aperta campagna, ma eravamo sempre
sotto il tiro delle guardie armate: fuggire era impossibile. Dove trovare un
riparo, o qualcosa da mangiare, in quel paesaggio invernale?
I viveri erano sempre più scarsi. A un certo punto, durante una sosta, una
guardia mi permise di barattare con un civile il mio orologio per un po' di
pane. Con mio enorme disappunto, la guardia pretese la sua parte.
A ogni sosta vedevo i soldati montare le mitragliatrici sui treppiedi. Quel
rituale ci rendeva nervosi. Non sapevamo cosa avessero in serbo per noi.
Dopotutto, ad Auschwitz avevamo visto di cosa fossero capaci. Ma dopo
un po' notammo che le mitragliatrici puntavano verso l'esterno della nostra
piccola colonna, e ci rilassammo. Eravamo in territorio partigiano, e loro
temevano un'imboscata.
Le guardie avevano un veicolo su cui trasportavano i loro zaini, alcune
armi e i viveri, che in minima parte dividevano con noi. Quando il mezzo
andò in panne lo abbandonarono, requisirono una cavalla e un carro e ci
trasferirono tutto il carico. Quella povera bestia era già molto debole. La
bastonarono senza pietà. Malgrado tutte le crudeltà che avevo visto ad
Auschwitz, e i cadaveri che avevamo dovuto scavalcare lungo la strada, la
sofferenza di quell'animale mi offendeva ancora. Non avrebbe resistito a
lungo, frustata in tal modo. Per quanto mi riguarda, un uomo che maltratta
una creatura inerme ha davvero toccato il fondo. Le persone possono
ribellarsi, un animale no.
Nella fattoria della mia famiglia, io ero cresciuto in mezzo ai cavalli.
Avrei saputo come portarla meglio delle guardie, ma dovevo convincerle a
lasciarmelo fare. Se quella vecchia bestia fosse morta, dissi loro, avrebbero
dovuto trasportare a spalla il loro equipaggiamento. Se l'avessero affidata a
me, avrei fatto in modo che restasse in vita. Mi diedero ragione.
Presi le redini e, mentre la neve riprendeva a sferzarmi la faccia,
cominciai a sussurrare qualcosa all'orecchio della cavalla. Gli animali
domestici hanno un'innata bontà. Se ti guadagni la loro fiducia, faranno
qualsiasi cosa per te. Trattando bene una bestia, non si otterrà da essa altro
che bene. Riuscii a farle riprendere il cammino, e per accontentarmi si
trascinò per altri ottanta chilometri. Poi le guardie le spararono in testa, e la
appesero in un fienile. A quel punto era la cosa giusta da fare. Almeno
aveva smesso di soffrire.
Presi una lama, tagliai una fetta di carne dal suo fianco e la mangiai
cruda. Le guardie si presero il resto, e non vidi mai cosa ne fecero.
Probabilmente la cucinarono. Non me ne lasciarono portare ai compagni
nemmeno un boccone.
Sostammo là per un paio di giorni, e riprendemmo fiato. Poi ricominciò
la marcia. Una volta passammo la notte in un carcere, di quelli con le
sbarre di ferro alle finestre. Comunque offriva un riparo migliore dei fienili
battuti dal vento. Un'altra notte ci fermammo in una distilleria.
Lungo la marcia, un manipolo di compagni mi stava appresso. Forse in
qualche modo ne ero il capo. Tra loro c'erano Bill Hedges, e Jimmy Fleet,
naturalmente. È strano a dirsi, ma credo che Jimmy mi attribuisse capacità
superiori a quelle degli altri. Soffriva molto durante la marcia, e io riuscivo
a sostenerlo. Ero ancora in debito con lui per avere tenuto Hans nascosto
durante i nostri scambi, ma quella era già storia antica. Adesso avevamo
altri problemi, e io evitavo le complicazioni derivanti da un'amicizia
profonda: lo avevo imparato nel deserto. L'indomani avrei potuto trovarmi
a seppellire quei compagni sotto la neve o nella terra, perché peggiorare le
cose? Dunque in generale tenevo le distanze, ma Jimmy e Bill mi avevano
coperto le spalle, e io vegliavo su di loro.
Il gruppo agiva come un'unità militare, e sviluppammo un nostro
sistema, un modus operandi. Alla fine di ogni lunga, sfibrante giornata di
cammino le guardie ci indicavamo un posto dove accamparci, e poi se ne
lavavano le mani. I gradi militari non significano nulla in prigionia, e meno
ancora in quel frangente. La gente tendeva a gravitare intorno a chi
dimostrava di sapersela cavare. Il rispetto non dipendeva dalle mostrine,
dovevi guadagnartelo. A un mio ordine il nostro gruppo si disperdeva, chi
in cerca di cibo qualche bietola quando eravamo fortunati chi a individuare
i punti più riparati per dormire. Io supervisionavo la disposizione e la
routine delle guardie, studiandone i punti deboli. Quel sistema ci permise di
sopravvivere.
Ricordo che una volta perlustrammo un fienile, senza trovare nemmeno
una briciola di cibo. A quel punto, decisi di godermi almeno l'unica risorsa
disponibile in abbondanza, e mi buttai a dormire su un magnifico covone di
fieno falciato di fresco.
Il mio peso schiacciò quelle spighe appena ingiallite che un tempo
avevano prodotto chicchi di grano. L'immagine del pane che ne era stato
ricavato mi ossessionava. Lungo la marcia il cibo era un pensiero fisso, lo
sognavamo anche di notte. Ma non riuscivo né a dormire, né a mettermi
comodo. C'era qualcosa sotto la paglia. Scavai un po', e scoprii che mi ero
sdraiato su un mucchio di patate. Avevamo trovato un tesoro. Qualcuno
stava cercando di aiutarci, ne ero certo. Chiamai i compagni. In tutto,
saranno stati tredici chili di patate novelle. Accendemmo un fuoco, le
cucinammo e mangiammo a sazietà. Fu un autentico banchetto, una
meraviglia. Il resto lo portammo con noi alla partenza. Un colpo di fortuna
simile non si ripeté più.
Avevamo superato Racibórz sconfinando in Slesia, e poi in
Cecoslovacchia. Il viaggio durava ormai da settimane, e ci addentrammo
sempre più in profondità nel territorio boemo, passando oltre Pardubice sul
fiume Elba e poi attraversando la periferia di Praga fino a Pilsen. In alcune
zone dei Sudeti, dove si potrebbe dire che fosse cominciato tutto quel
maledetto disastro con l'occupazione tedesca che aveva scatenato la guerra,
gli abitanti (più i cechi che quelli di origine germanica) ci lanciavano del
pane al nostro passaggio. Le guardie si intromettevano, cercando di
impedirlo, ma non sempre ci riuscivano. Fu un gesto che apprezzammo
molto. Soffrire la fame è terribile.
Al termine di una giornata particolarmente dura, i ragazzi si erano
accampati per la notte in un piccolo fienile, quando notai che la parete
divisoria non arrivava fino alle travi del soffitto. Era alta due metri e
mezzo, e dopo qualche tentativo riuscii ad arrampicarmi e a scavalcarla,
ricadendo dall'altra parte in una dispensa abbandonata. Cominciai a
esplorarla, trovando una ciotola di grasso rancido e cristallizzato,
probabilmente destinato agli animali. Tentai di assaggiarlo, ma mi venne il
voltastomaco, così lo rimisi al suo posto, rifeci l'arrampicata al contrario e
mi misi a dormire. Continuai a pensarci tutta notte. Quando al mattino ci
ordinarono di riprendere la via, saltai su senza pensarci, scavalcai la parete
e ritrovai la ciotola. Mangiai tutto in un boccone, riuscendo a non vomitare.
La mente sa superare qualsiasi ostacolo. Durante quella marcia mi
costrinsi a nutrirmi delle cose più rivoltanti, immaginando ogni volta che
fossero prelibatezze da cena di Natale. È così che sono sopravvissuto.
Da Pilsenòin poi ci sembrò che le guardie ci stessero conducendo verso
la frontiera austriaca. A quel punto non ne potevo più. Da mangiare non era
rimasto niente, e io non intendevo affatto morire di fame, e da prigioniero.
Tanto valeva scappare e arrangiarmi per conto mio.
Decisi di tentare la fuga da solo, e non avvertii nessuno, nemmeno Bill e
Jimmy. Se li avessi informati si sarebbero sentiti in dovere di seguirmi, e se
fossi morto la stessa sorte sarebbe toccata a loro. Non potevo prendermi
quella responsabilità. Me la sono sempre cavata meglio da solo.
Ci fermammo a pernottare da qualche parte a sud di Pilsen, e le guardie
ci ordinarono di accamparci in un grande fienile pieno di paglia. I tedeschi
montavano la guardia a turno, ma erano distratti, ormai avevano altro per la
testa. Rimasi in attesa, tenendo gli occhi aperti. Presi nota delle interruzioni
di quella routine notturna, e alla prima occasione scappai.
Attraversai il campo inoltrandomi in una zona più incolta, temendo da un
momento all'altro il grido d'allarme, e peggio ancora, i proiettili. Continuai
a correre fino a che non mi trovai a distanza di sicurezza. Poi mi gettai in
un fosso e dormii fino alle prime luci dell'alba.
Non c'era tempo per sentirsi sollevati. Ero di nuovo responsabile del mio
destino, e rischiavo di venire catturato e fucilato. Per farcela mi serviva un
piano, e io brancolavo nel buio. Pensai che ormai non aveva più molta
importanza: la guerra era agli sgoccioli e gli Alleati occidentali si stavano
avvicinando. Avevo con me una cartina. Era approssimativa, ma dovevo
farmela bastare.
Prima, però, dovevo mangiare qualcosa. Mi imbattei in una casa, rimasi
a osservarla per un po', poi mi avvicinai e trovai la porta aperta. La paura
scompare quando si ha fame. Se qualcuno mi avesse sorpreso, sarebbe stata
la fine. Ma non ci trovai nessuno. Scappai via con una pagnotta larga due
spanne. Trovai un posto sicuro, mi sedetti e la mangiai fino all'ultimo
boccone.
Poi mi diressi a sud ovest, orientandomi con le stelle e il tramonto. Di
norma camminavo di notte e mi imboscavo di giorno. Indossavo ancora la
mia divisa color cachi, e mi sarebbe tornato utile un cappotto per
nasconderla, ma non ne trovai mai uno. Mi tenni alla larga dai centri abitati
e dalle strade, e varcai il confine con la Germania in aperta campagna.
Rubavo da mangiare quando mi riusciva, e strappavo ai campi tutto ciò
che mi sembrava commestibile. Non era tanto peggio della marcia forzata.
Mi stavo addentrando in territorio tedesco, e dopo innumerevoli notti di
cammino arrivai all'altezza di Regensberg.
Mi imbattei in una enorme stazione di cambio ferroviario, e cominciai a
scrutare i cartelli sui vagoni, nella vana speranza di individuarne uno
diretto a nord. Mi ero messo in testa di raggiungere le linee inglesi.
Fu allora che sentii il rombo di una grossa formazione di aerei sopra di
me, e cominciarono a piovere le bombe. Sapevo che con merci e truppe in
movimento, uno snodo ferroviario come quello rappresentava un obiettivo
strategico. Cominciai a correre, riuscii a uscirne, attraversai un cimitero e
sbucai dall'altra parte. Sentivo alle mie spalle il fischio e i boati delle
bombe. Una cadde proprio sul cimitero che avevo lasciato un istante prima.
Sopra la mia testa passò un'altra formazione, e io mi gettai a terra.
Rotolando sulla schiena, vidi una Fortezza volante americana che perdeva
un'ala e cadeva in picchiata. Avvertii uno spostamento d'aria, seguito da un
tonfo. Pensai fosse una bomba, ma non ci furono esplosioni. Qualcosa era
caduto dal bombardiere ed era precipitato a pochi passi da me. Quando gli
aerei si furono allontanati andai a guardare, e trovai una mazza da baseball
conficcata nel terreno. Immagino appartenesse a un uomo dell'equipaggio,
magari era il suo portafortuna. Non aveva funzionato. In cielo non avevo
visto aprirsi il paracadute. Raccolsi la mazza dal terreno. Ero deciso a
portarmela a casa come souvenir.
A quel punto mi tenni alla larga dalla ferrovia, rassegnandomi a
proseguire a piedi verso nord. Nella vita ho sempre scelto la strada più
dura: è nella mia natura. Raggiunsi la periferia di una città, che speravo
fosse Norimberga. Pensavo di ritentare la sorte con il treno, e feci
un'incursione nell'abitato, ma i bombardieri mi avevano preceduto: era stato
distrutto tutto. In alcuni quartieri non restavano nemmeno due mattoni, uno
sull'altro. Tornai sui miei passi e aggirai la città per poi riprendere il
cammino verso nord. Ero certo che mi stavo avvicinando alle linee alleate,
però in pratica non avevo visto segni di truppe tedesche in movimento,
quindi forse mi sbagliavo.
Ero quasi arrivato a Bamberg prima che la sorte finalmente mi arridesse.
Fuori da un boschetto, mi trovai davanti un'intera unità di blindati in
formazione, con i carri disposti a intervalli di cento metri. Erano americani.
Mi avvicinai con cautela, ma ero allo scoperto, e speravo che disponessero
di un binocolo in grado di distinguere la mia uniforme.
Comunque non avrebbero certo sprecato un colpo di cannone per
un'unica persona, e poi perché sparare a un soldato che si avvicinava di sua
iniziativa, e da solo? Se fossi appartenuto all'esercito nemico, si sarebbero
guadagnati un ostaggio.
Arrivai a una distanza sufficiente da poter gridare che ero un prigioniero
di guerra inglese, e dalla torretta del carro più vicino spuntò un uomo che
mi salutò. Sparì di nuovo, e immaginai che stesse inviando una
comunicazione via radio. Poi saltò giù e mi disse di seguirlo. Ci
inoltrammo nel campo e dopo circa duecento metri raggiungemmo un altro
carro armato dove ci attendeva il comandante.
Era un tipo assurdo. Portava due pistole al cinturone e un pugnale
infilato nello stivale. Arrivò dritto al punto: «Dove diavolo sono quei
maledetti crucchi?».
Non sapevo cosa rispondergli: personalmente, avevo cercato di evitarli.
Gli spiegai che arrivavo dalla zona di Norimberga e che non avevo visto
granché. Lui mi squadrò, si rivolse a uno dei suoi soldati e disse: «Date da
mangiare e da bere a quest'uomo». Ero stato liberato.
Divorai le razioni in un boccone. Non avevo idea di cosa fossero, ma
avevano un sapore meraviglioso. Presto i blindati si rimisero in movimento,
e io fui spedito in fondo alla linea. Dopo un po' mi caricarono su un veicolo
che viaggiò per alcuni chilometri in direzione di Norimberga, fino a una
piccola pista di atterraggio in un campo. Mi dissero che era il punto di
raccolta di altri ex prigionieri di guerra, e che in breve sarebbero arrivati gli
aerei per portarci via.
Scesi dal mezzo e salutai gli americani che ripartivano per raggiungere le
loro unità in avanzata. Quell'intervello era stato breve. Mi ero gustato le
loro razioni, e ora mi ritrovavo solo. Mi avevano davvero liberato? Quel
posto mi sembrava deserto. Non c'erano altri prigionieri. Era solo un
campo. Ancora una volta dovevo arrangiarmi.
Mi aggirai per la zona finché non trovai una casa abbandonata ai margini
della pista, e riuscii a entrare. Era un riparo, ma non c'erano letti. Mi
accoccolai sotto una coperta, sul pavimento. Avevo viaggiato per centinaia
di chilometri, attraversando l'Europa a piedi, sopravvivendo di ciò che
trovavo. Persino nei momenti di peggiore desolazione mi ero immaginato il
momento della liberazione con un po' più di entusiamo. Rovistai in ogni
angolo della casa, in cerca di cibo, senza trovare granché. Ancora nessun
segno degli aerei. Mi preparai ad aspettare.
Mentre ero in attesa, mi domandai se i miei compagni fossero stati
condotti in un altro campo di prigionia, o se erano ancora da qualche parte
a marciare sotto il tiro dei fucili. Sarebbero passati anni prima di scoprire
che i tedeschi li avevano obbligati ad avanzare finché anche loro non si
erano imbattuti negli americani. A quel punto così mi è stato raccontato
uno dei miei compagni aveva strappato la pistola dalla fondina di un
soldato alleato e sparato a bruciapelo all'ufficiale tedesco Mieser,
ammazzandolo sul colpo. Mieser non era il peggiore, ma il gesto era
comunque comprensibile. Sospetto che quello con la protesi guantata
l'abbia passata liscia. Quanto agli ebrei, ero convinto che gli uomini che
avevo conosciuto Ernst, tra gli altri fossero morti. Avevo visto troppi
cadaveri. Smisi di pensarci.
Sedetti sul muretto di cinta in fondo al giardino di quella casa diroccata e
scrutai il cielo alla ricerca degli aerei. Pazientavo, ma dei soccorsi
nemmeno l'ombra. Forse mi avevano abbandonato. Dopo un po', mi passò
davanti un gruppetto di ragazze tedesche. Decisi di tentare la sorte, e le
chiamai. Con mia sorpresa vennero a parlarmi. La più cordiale era bionda,
aveva circa ventidue anni, ed era molto bella. Si accorsero subito che ero
straniero, e mi chiesero da dove venissi. Spiegai loro che ero inglese, un ex
prigioniero di guerra in attesa di tornare a casa. Non dissi dove avevo
passato la prigionia. Auschwitz sembrava già appartenere a un altro mondo.
Era un'esperienza che non si poteva mescolare alla vita normale, nemmeno
in Germania.
Chiacchierammo per un po', comunicando alla bell'e meglio, e infine
domandai loro se avessero qualcosa da mangiare. Mi offrirono una specie
di panino farcito, che accettai con gratitudine e ingurgitai subito.
Ripensandoci, immagino fosse il loro pranzo.
Ci trovavamo nel territorio occupato dagli Alleati, ma non si vedevano
molte truppe. La guerra non era ancora finita, e loro avevano corso un
grosso rischio a trattarmi con tanta gentilezza. Dopo un po', per curiosità,
entrarono con me a visitare la casa abbandonata divenuta il mio domicilio
provvisorio. La ragazza carina mi diede il suo indirizzo a Norimberga, e mi
disse il suo nome: si chiamava Gerdi Herberich. Promisi di scriverle per
ringraziarla quando fossi arrivato a casa, e di mandarle un pacco di viveri.
Mi vergogno ad ammetterlo, ma non lo feci mai. A quel punto avevo altro
per la testa, il mio mondo si era totalmente capovolto.
L'arrivo di un gruppo di americani, insieme ad alcuni ex prigioneri di
guerra, mandò in frantumi l'atmosfera cordiale del mio rifugio. Le ragazze
si dileguarono, e io non le rividi, né ebbi mai più loro notizie. Mi avevano
offerto solo un panino un Brotchen, come lo chiamano i tedeschi ma era
stato un gesto di umanità nei confronti di un soldato nemico, e ciò
comportava dei rischi. Non mi avevano chiesto nulla in cambio.
In presenza dei soldati il clima si fece animato, e i nuovi arrivati
confermarono che quello era il posto giusto. Da un'altra casa vuota lì vicino
avevo rubato quattro barattoli di cibo in scatola. Ne tenni uno per me, e
lasciai il resto agli americani. Non avevano etichetta, così quando gli
yankee aprirono le loro scatolette e ci trovarono della carne, pensai che
anche a me sarebbe toccata la stessa fortuna. Invece il mio barattolo si
rivelò pieno di una verdura acquosa e non identificabile. Fu una delusione
cocente, ma era comunque cibo. Nove o dieci di noi si accamparono là,
rassegnati all'attesa.
Capitolo 17
Passarono due giorni prima che il rombo di grossi motori a elica
scuotesse la casa abbandonata. Quando corsi fuori vidi un Dakota della
RAF che scendeva verso il campo, e atterrava sobbalzando. Si era appena
fermato in fondo alla pista tra i campi quando un secondo aereo lo seguì a
ruota, rimbalzò un paio di volte sul carrello, infine trovò l'equilibrio sulle
ruote posteriori e proseguì per un altro tratto sull'erba.
Per quanto potessi vedere, non c'era nessuno al comando di
quell'aerodromo improvvisato, nessuna torre di controllo, né alcun supporto
a terra. Mi precipitai dentro casa, afferrai il poco che avevo e corsi verso il
campo cercando di capire dove l'aereo si sarebbe fermato. Il Dakota era un
apparecchio avanzato per quel tempo, e contemporaneamente una vera
bestia da soma. Il primo velivolo rallentò poco a poco, svoltò e infine si
arrestò con il muso rivolto in aria e le doppie eliche ancora in movimento.
Altri ragazzi comparvero dagli angoli più remoti del campo e si
precipitarono per raggiungerlo. Sul lato di uno dei due aerei si aprì un
portello, e un uomo con un pesante giubbotto di pelle si sporse fuori e urlò
qualcosa. Non riuscivo a sentirlo sopra il frastuono dei motori, ma dai gesti
intesi che non avrebbero sostato a lungo. Non aveva quasi importanza dove
mi avrebbero portato, contava solo andarmene di là. Una dozzina di noi salì
a bordo prima che il portello si richiudesse. Io trovai posto su un sedile
stretto lungo il fianco dell'abitacolo di metallo sagomato. Mi girai a
guardare alle mie spalle, e dall'oblò vidi che altri ragazzi si accalcavano
intorno al secondo apparecchio, sperando di salire.
A quel punto stavamo già rollando verso l'estremità della pista,
preparandoci al decollo. Sulle nostre facce si aprì un sorriso, e compresi
che non ero l'unico soldato a tornare a casa dopo una dura esperienza in
guerra. Seppi in seguito che un terzo aereo mandato a prenderci aveva
avuto un'avaria ai motori, ed era precipitato in fiamme prima
dell'atterraggio. Ma noi ci stavamo già levando alti sopra le nubi, diretti a
Bruxelles. Abbassai la testa, giocherellando con la mazza da baseball che
mi ero portato appresso da Regensberg, e finalmente osai sperare di essere
davvero sulla via di casa. Grazie a Dio, era finita. Avevo ancora fame.
Non riuscivo più a stare fermo, e per il resto del volo continuai a
camminare avanti e indietro nel corridoio, controllando la visuale dagli
oblò su entrambi i lati. Il conflitto non era ancora terminato, ma ormai
mancava poco. Contemplavo le distese della campagna europea liberata ai
nostri piedi, domandandomi cosa ci avrebbe riservato il dopoguerra.
Atterrammo in un aeroporto militare nei pressi di Bruxelles. Venni
portato a un acquartieramento militare poco lontano, e per la prima volta da
settimane feci un pasto normale. Mi lavai in modo approssimativo: non
c'erano docce, né una vasca da bagno. Passai là una notte soltanto, senza
parlare con anima viva del mio viaggio o del mio periodo di prigionia.
Avevamo tutti vissuto cose tremende; non volevo infastidire nessuno, e
nessuno mi fece domande.
Il giorno dopo mi riportarono sulla pista, fino a un grosso bombardiere
quadrimotore. Sulla punta, sotto il posto del pilota, una cupola trasparente
ricopriva l'abitacolo del puntatore per lo sgancio delle bombe, e un'altra più
piccola, dalla quale spuntava una mitragliatrice, era collocata a metà della
fusoliera, come una gobba sul dorso dell'apparecchio.
Sapevo che si trattava di un bombardiere Lancaster, anche se era la
prima volta che ne vedevo uno. Io ero stato catturato prima che entrassero
comunemente in dotazione, ma erano proprio come me li ero immaginati
sentendo altri prigionieri che ne parlavano.
Si stava preparando al decollo, e salii a bordo con altri compagni. Non
c'erano sedili, e lo spazio era ridotto al minimo. Sapevo già dove avrei
voluto trascorrere il volo, ma il capitano mi disse che la posizione del
puntatore quella specie di serra volante sul davanti era off limits. Non mi
diedi per vinto: tra insistenze e preghiere, finalmente mi accontentarono.
Rimasi sdraiato sulla pancia in quel naso trasparente e bene in vista,
avvertendo in tutto il corpo le vibrazioni delle eliche, il terreno che
scorreva sotto di noi, e infine lo sbalzo quando arrivammo in quota.
Volammo intorno alla pista, poi puntammo verso casa, e dopo qualche
tempo la terra lasciò il posto al mare.
A Norimberga avevo visto di cosa fossero capaci i bombardieri, e
temevo di trovare l'Inghilterra in macerie. Volando a bassa quota sulla
Manica, ciò che vidi non prometteva bene. C'erano relitti e tracce di
combattimenti lungo tutta la costa, e macchie di petrolio a perdita d'occhio.
Poi l'acqua tornò limpida e, quando in lontananza vidi levarsi nella foschia
le bianche scogliere inglesi, compresi che non tutto era stato distrutto.
Stavo tornando a casa.
Presto riuscii a distinguere i campi verdi, delimitati dai sentieri di
campagna e dalle siepi che si irradiavano in ogni direzione. Restai prono
sul muso dell'aereo, e finalmente avvistai la pista di atterraggio.
Lentamente abbassammo la quota finché l'erba diventò un turbine verde
che si avvicinava a velocità vertiginosa, e atterrammo con un balzo.
L'apparecchio si fermò, aprirono il portello e, prima che prendessimo
commiato e ci disperdessimo, il capitano insistette perché lasciassimo la
nostra firma sulla fusoliera con un pennarello. Doveva avere accumulato
innumerevoli ore di volo in combattimento, ma forse riportare a casa dei
compagni aveva un altro significato.
Mi fischiavano ancora le orecchie per il rumore assordante quando
distinsi un suono familiare, che non sentivo da anni: erano le voci irreali
delle donne inglesi, e stavano servendo un tè caldo.
Mi condussero in una caserma e finalmente potei fare una doccia. Mi
diedero calze, biancheria e un'uniforme usata ma fresca di bucato, insieme
a un paio di anfibi neri con le suole chiodate e i tacchi con il rinforzo di
metallo. Li conservo ancora oggi. Non mi fermai a lungo. Ormai da molto
tempo vivevo al di fuori della disciplina militare, e non chiesi il permesso
di andarmene. Lasciai un biglietto in dormitorio, uscii dalla caserma e salii
su un treno per Londra.
Alla stazione di Liverpool Street presi al volo una coincidenza e
proseguii fino in Essex senza pagare un centesimo, e senza vedere danni
alla città. Volevo tornare dalle persone che amavo. Mancavano un giorno o
due alla Giornata della Vittoria in Europa, e non rivedevo casa mia da quasi
cinque anni.
Scesi dal treno alla stazione di North Weald e, guardando oltre il muro di
cinta del deposito di carbone, vidi un uomo che scaricava sacchi da una
carriola. Lo riconobbi subito: era mio zio Fred, commerciante di carbone e
un tempo giocatore del Fulham. Scavalcai il muro con un salto, e nel
vedermi lui esclamò una serie di frasi irripetibili. Finì di scaricare i sacchi e
mi offrì un passaggio, e per tutta la strada non smise mai di parlare. Dopo
tanti anni tornavo a casa a bordo di un carro di carbone. Giunto al cancello
Fred girò il suo carro, lasciandomi entrare da solo in casa.
Superai la siepe gialla del ligustro e mi incamminai per il sentiero di
trenta metri tra le aiuole fino alla facciata con doppio ingresso della fattoria
dove avevo passato l'infanzia. Avevo conservato quel luogo chiuso in un
angolo della memoria; nel deserto e nei campi di prigionia pensarci era una
sofferenza in più. Non potevo tornarci, quindi perché torturarmi con il
ricordo e la nostalgia? Adesso però potevo liberare i miei sentimenti senza
timore.
Non avevo avvertito nessuno del mio arrivo. Bussai al grosso portone di
quercia. Ci fu una pausa prima che sulla soglia comparisse una donna.
Aveva un'aria familiare, per quanto stanca e tirata. Vedendomi le mancò il
fiato, e io le dissi: «Mamma, sei invecchiata».
Quanto ho desiderato in tutti questi anni potermi rimangiare quelle
parole. Lei mi abbracciò sulla soglia, e pareva che non volesse più
lasciarmi andare. Ero sano e salvo, ma dovevo essere in uno stato pietoso.
Alla partenza pesavo ottanta chili. Al mio ritorno non arrivavo a cinquanta.
Mia madre era rimasta da sola. Anche mio padre era stato fatto
prigioniero. Le avevano detto che ero stato ferito in Africa. Nelle mie
lettere le scrivevo che stavo bene, ma lei aveva dato per scontato che io non
le dicessi tutta la verità. Poi la posta già sporadica dal campo E715 si era
interrotta del tutto. Erano cominciate le marce della morte e il mio lungo
pellegrinaggio attraverso l'Europa centrale. Mia madre non aveva più avuto
notizie, e aveva temuto il peggio. E oltre a quelle preoccupazioni, il suo
stato di salute era diventato più precario.
Nei pochi anni che le restarono da vivere non mi chiese mai della guerra,
della mia esperienza di prigioniero, o di quella marcia interminabile. Allora
l'idea comune era che di certe cose non si dovesse parlare. I soldati e le loro
famiglie venivano spinti a dimenticare il passato.
Non so esattamente quando mio padre tornò a casa. Aveva mentito sulla
sua età per arruolarsi, facendolo in parte nella speranza di proteggermi. Era
stato ferito e fatto prigioniero quando i paracadutisti tedeschi avevano
preso Creta. L'avevano condotto in Austria e costretto a costruire ferrovie
sulla montagna, malgrado i suoi attacchi di polmonite.
Le autorità militari dicevano che presto sarebbe tornato a casa, ma
"presto" era un tempo troppo vago. Poi, un giorno, ero assorto in qualcosa
in una delle stanzette sul retro quando sentii un fruscio all'esterno.
Qualcuno stava cercando di entrare dalla porta di servizio, e non riusciva ad
aprirla. Andai sulla soglia, e lo vidi là, che frugava nel suo zaino. Quando
mi vide lo lasciò cadere a terra, e mi abbracciò per la prima volta da
quando ero bambino. Era macilento: mi sentii scorrere le lacrime sulla
faccia, e vidi che anche lui piangeva.
Mi ricordavo di quand'ero piccolo, gli sedevo sulle ginocchia e lui mi
cantava: «There will come a time when I am far away / There will be no
father to guide you from day to day»9.
Il pensiero della sua morte mi turbava, e da bambino gli battevo i pugni
sul torace quando intonava quella canzone per farlo smettere.
Non lo avevo mai considerato un sentimentale, ma mi dissero che
quando era morta sua madre se n'era andato da solo in mezzo a un campo,
cantando a squarciagola per sfogarsi. Il suo ritorno mi dimostrò che
entrambi eravamo cambiati, anche se il suo abbraccio fu rapido. Non
assistetti al momento in cui rivide per la prima volta mia madre. Posso solo
immaginarlo. Avvenne tra loro due soli, com'era giusto che fosse. Sono
certo che si fosse pentito di averla lasciata per andare volontario. Non credo
che dopo la guerra la sua vita sia mai più stata la stessa ma, se soffriva
come me, comunque non lo diede mai a vedere.
Morì nel 1960, e in tutti quegli anni non parlammo mai della guerra, né
ci raccontammo le rispettive esperienze di prigionia. Nemmeno una parola.
Non credo abbia mai saputo che ero stato in un campo vicino ad
Auschwitz.
Non ero tornato da molto quando le prime conseguenze del trauma si
fecero sentire. Di giorno vivevo nell'Essex, nello stesso pacifico villaggio
di sempre, ma di notte, appena mi addormentavo, mi ritrovavo nell'orrore
9
Verrà un tempo in cui non ci sarò più, e tu non avrai più un padre per guidarti ogni giorno" (n.d.t.). di Auschwitz. Cominciarono gli incubi: il ragazzino che resta sull'attenti
mentre viene bastonato in testa, e il sangue gli cola sulla faccia. Rivissi
innumerevoli volte la morte del neonato ucciso con un pugno dalla SS. Mi
svegliavo tra lenzuola madide di sudore, convinto di essermi introdotto nel
campo degli ebrei, e di essere stato scoperto.
Per tutta la guerra nel deserto, durante gli anni di prigionia e
l'internamento ad Auschwitz, avevo continuato a ripetermi: «Non serve
pensare, devi agire». Per sopravvivere dovevo prendere ogni decisione
d'istinto. Adesso il rischio era che pensassi troppo. I sogni stavano per
sopraffarmi. Rivivevo ogni notte quella sensazione d'impotenza, dovendo
assistere a un'ingiustizia senza poter muovere un dito.
A quel tempo non era prevista assistenza per i soldati che avevano subìto
uno shock. Era inconcepibile. Ora so che avevo un disperato bisogno di
aiuto, ma allora ero troppo confuso per capirlo. Molti di noi stavano come
me.
Mentre mia madre non domandava mai della guerra, gli abitanti del
villaggio non facevano altro. Non che fossero davvero interessati alla realtà
dei fatti, naturalmente: volevano solo sentire il racconto di imprese eroiche.
Allora dei campi di concentramento non si sapeva nulla, e se capitava che
io li citassi, i miei interlocutori lasciavano cadere l'argomento. Quei luoghi
non combaciavano con la loro visione del mondo, e loro in un certo senso
si rifiutavano di accettarne l'esistenza. La gente si sentiva a disagio davanti
a certi discorsi, e la reazione istintiva era quella di ignorarli. Io la chiamavo
la "sindrome da sguardo vitreo".
Chi non aveva fatto la guerra non riusciva a capire quell'esperienza, e in
patria se ne sentivano dire, di sciocchezze. La domanda che più mi faceva
imbestialire era: «Quanti tedeschi hai ammazzato?». Quelle cose noi soldati
eravamo stati costretti a farle, e parlarne in termini simili sviliva tutto. Ci
spingevano a gloriarci di cose che volevamo dimenticare. Vantarsi di avere
ucciso un nemico che già aveva pagato con la vita era una mancanza di
rispetto.
Un tizio un macellaio di Epping che non aveva mai fatto il soldato mi
raccontò tutto tronfio che, se avessero vinto i tedeschi, avrebbe pugnalato la
moglie piuttosto che farla cadere nelle mani del nemico. Evidentemente la
donna non ne era al corrente. Lo vidi sprofondare nell'imbarazzo quando,
qualche tempo dopo, li incontrai entrambi su un treno. Non ci fu bisogno di
dire nulla.
Auschwitz era già un pianeta lontano, ma in sogno rivedevo i volti delle
persone conosciute là. Non c'era modo di informarmi della sorte di Hans,
ma con Ernst era diverso. Avevo un dovere da compiere nei suoi confronti,
che me la sentissi o meno. Dovevo rintracciare Susanne a Birmingham, e
dirle quanto sapevo. A quel punto ero riuscito, con qualche difficoltà, a
ottenere una sorta di congedo ufficiale, e avevo qualche settimana libera.
Ciò che mi proponevo di fare era campato in aria, non ci avevo riflettuto
abbastanza.
Non ricordo come sia riuscito a mettermi in contatto con lei, se per
lettera o per telefono, o se mi sia semplicemente presentato alla sua porta
senza preavviso. Sapevo che si chiamava Susanne, e avevo scoperto anche
il suo cognome, Cottrell. O forse era stato Ernst a dirmelo fin dal principio.
Avevo dato per scontato che sua sorella fosse stata adottata dalla famiglia
che l'aveva ospitata prima della guerra, quindi nella mia testa lei era sempre
stata Susanne Cottrell. Una delle poche conversazioni con mia madre in
merito al tempo di guerra riguardava proprio la faccenda delle sigarette, di
cui mi aveva brevemente chiarito la dinamica. Fu contenta di scoprire che
ne avevo ricevuta una parte, e che erano state utili. Ma a parte questo, meno
sapeva dei campi e meglio era, e con lei evitai sempre di scendere nel
dettaglio.
Mi sembra di ricordare che l'incontro con Susanne sia avvenuto a
Birmingham, ma non ne sono sicuro. Non ero in condizioni di parlare con
nessuno, e non mi ero preparato nulla di quanto le avrei detto. La guerra e
la prigionia mi avevano indurito, non avevo più il tatto necessario a
comunicare certe notizie. Per la verità, non ero nemmeno sicuro del perché
volessi incontrarla. Semplicemente, apparteneva a un elenco di persone che
ritenevo mio dovere informare, insieme ai genitori di Les Jackson e ad altri
che rintracciai in seguito.
Credo di averla raggiunta a casa sua, ma è tutto molto vago. Ho
l'impressione che fossimo usciti per fare una passeggiata; ricordo che
eravamo all'aria aperta. Lei doveva avere circa ventidue anni: una ragazza
carina, ma davvero timida, e con un fisico minuto. Parlava ancora con
accento straniero.
Fu un incontro angosciante. Volevo che sapesse che le sue sigarette
erano arrivate a destinazione, che Ernst era stato contentissimo di riceverle,
e che forse per un po' erano servite ad aiutarlo e proteggerlo. Questo avrei
potuto raccontarglielo, se fossi riuscito a spiccicare parola; ma poi, cos'altro
restava da dire? Non avevo da darle nessuna buona notizia.
Rivedevo mentalmente la marcia della morte, e tutti quei corpi assiderati.
Li avevamo scavalcati per chilometri e chilometri. Sapevo che con ogni
probabilità Ernst era stato assassinato insieme agli altri. E anche qualora
fosse sopravvissuto alla marcia, la sua meta sarebbe stata un altro campo di
sterminio, dove l'avrebbero annientato. Per Susanne non avevo parole di
speranza, né alcuna informazione sul modo in cui il fratello era morto; non
ero presente, e non ne avevo visto il corpo.
Mi ritrovavo davanti a una ragazza che aveva perso tutto, ma che ora
aveva la possibilità di ricominciare da zero. Perché gettarle addosso il peso
delle atrocità di Auschwitz? E poi io stesso non riuscivo a parlarne. Ci
furono lunghi silenzi. In parte pensavo ancora in tedesco. E, magro
com'ero, dovevo avere un aspetto orribile.
Fu un episodio traumatico, e me ne andai con il dubbio di averle fatto più
male che bene. La barbarie di Auschwitz ti entrava dentro fino all'osso, e io
ero perseguitato da ricordi che non riuscivo a esorcizzare. Con chi potevo
confidarmi? Se ripenso a come stavo allora, ammetto che versavo in
condizioni pietose. Oggi la chiamano STPS, sindrome da stress posttraumatico. Mi ci vollero anni per ritrovare la ragione. Ero fuori di testa.
Qualche tempo dopo tentai senza molto convinzione di rimettermi in
contatto con Susanne. Non riuscii a trovarla, e rinunciai. Avevo già fatto
abbastanza danni, meglio lasciar perdere.
Nello stesso periodo, il 3 giugno 1945, una mia ex fidanzata, una pianista
di nome Jane, mi regalò un'agendina nuova. Era piccola e rilegata in pelle
marrone, e io ci scrissi ciò che sapevo della ragazza che credevo ancora si
chiamasse Susanne Cottrell: 7, Tixall Road, Birmingham. Appuntai anche
l'indirizzo di Gerdi Herberich a Norimberga: evidentemente quel sandwich
era stato davvero memorabile. Ci avevo scritto anche quello dei genitori di
Les Jackson. Erano i prossimi della mia lista, ma l'esperienza con Susanne
mi aveva scosso. Passarono mesi prima che trovassi il coraggio di tornare
ad Aspen Grove, e affrontarli. Alla fine presi la macchina, andai da suo
padre, lo invitai al pub e ci prendemmo una sbronza. Lui aveva perso suo
figlio, e io sapevo esattamente come. Ero là per colmare le lacune dei
comunicati ufficiali, ma gli risparmiai i dettagli. Non era il caso che
sapesse che Les era stato fatto a pezzi. Mi limitai a ciò che si dice sempre
in circostanze simili: ero con lui quando era stato ucciso, e non aveva
sofferto. Spero di essergli stato di aiuto. Il signor Jackson non si lasciò
andare alla commozione, ci pensò il liquore a tirarlo su. Caro vecchio Les:
è ancora là da qualche parte nella sabbia.
Rientrati in casa ci reggevamo a stento, ed ecco arrivare Marjorie, la
sorella di Les. Era bella come un tempo. Avevo ballato con lei prima di
imbarcarmi, e tenuto la sua foto appesa nella cabina della nave. In seguito
si era messa con un tizio di nome Evans, e adesso era una donna sposata.
Per evitarle imbarazzi davanti al marito mi comportai come se fossimo
estranei; lo feci anche per proteggere me stesso. Marjorie per me era
speciale e danzava magnificamente, ma io ero rimasto lontano tanto a
lungo. Per gli altri la vita era andata avanti, e un'altra porta si era chiusa.
Passai la notte a casa loro, e ripartii la mattina presto.
Ma la storia di Les non finisce qui. Aveva una moglie che abitava a
Southampton, e quando tornai in caserma a Winchester mi presentai a
sorpresa a casa sua. Avrei dovuto saperlo che non era una buona idea, ma a
quel tempo non ragionavo proprio. Comparii sulla porta, lei diventò
paonazza, e mi chiese di aspettare fuori. Dopo qualche minuto tornò con il
cappotto, e suggerì che andassimo a parlare al pub. Capii subito che stava
con un altro. Non c'era niente di male, Les era morto da qualche anno, ma
per me era comunque strano. Ero andato là per consolarla, per comunicarle
quei pochi dettagli che mi sentivo di dirle, però la cosa non sembrava
interessarle. Non so cosa mi aspettassi. Pensavo che volesse sapere cos'era
successo, che le avrebbe fatto piacere sentire il racconto di qualche nostra
avventura. Lei aveva fretta, aveva un'aria distratta e nervosa. Date le
circostanze, mi limitai al minimo indispensabile, e ci salutammo fuori del
pub. Non la riaccompagnai a casa.
Mi turbò, quell'incontro. I soldati erano andati a combattere, e molti
avevano pagato con la vita. Ma a guerra appena finita, già ci si dimenticava
di loro, li si metteva da parte: sprofondavano nell'oblio. Vederlo con i miei
occhi aggravò il mio già preoccupante stato mentale.
Non ero tornato da molto quando, nella mia casa dell'Essex, ricevetti una
misteriosa telefonata. Era un uomo che diceva di essere un ebreo detenuto
ad Auschwitz III-Monowitz. Al campo lo conoscevo appena di vista, non
aveva mai chiesto il mio aiuto e, per quanto ne sapessi, non avevo mai fatto
nulla per lui. Lo chiamavamo con un soprannome: "Stracci". Chissà come
era venuto a sapere il mio vero nome, e si era messo in contatto con me
tramite la Croce Rossa. Mi incuriosì il fatto che fosse riuscito a trovarmi,
malgrado la prudenza con la quale avevo protetto la mia identità. Non era
un prigioniero che conoscevo bene, e adesso mi telefonava da Parigi, e a
quel tempo le chiamate internazionali erano una cosa rara.
Mi raccontò tutto della marcia della morte. Disse di avere contato
centinaia di spari ogni giorno di cammino, e che molti erano stati
massacrati. Lui era sopravvissuto per puro miracolo. La sua versione
confermava ciò che avevo visto, ma era anche la prima indicazione che ci
fossero dei superstiti. Nella mia agendina annotai il suo indirizzo di Parigi,
sotto il nome "Merge". Non lo risentii più, ma due o tre settimane dopo, a
sorpresa, si presentarono a casa mia quattro ragazzi ebrei. Li aveva mandati
lui. Il più grande aveva diciotto anni, gli altri circa quattordici. Erano
educati, arrivavano da Ilford. Non erano sopravvissuti ai campi, durante la
guerra avevano vissuto in Inghilterra. Forse ci erano arrivati con un
Kindertransport10 come quello di Susanne. Da me non volevano niente, e
io non ero comunque in grado di aiutarli. Chiacchierammo per un po', mia
madre li invitò a pranzo, e poi ripartirono, lasciandoci interdetti.
10
Programma internazionale che mise in salvo, portandoli in inghilterra, circa diecimila bambini ebrei
nei mesi precedenti allo scoppio della seconda guerra mondiale (n.d.t.). Capitolo 18
Fui richiamato a Wincherster dai miei superiori: volevano sapere se
avessi qualcosa da riferire in merito alla mia esperienza di prigioniero di
guerra. Ce l'avevo, eccome, ma da dove cominciare? Cercai di parlare di
Auschwitz, ma capii subito che non mi stavano seguendo. Nel 1945 si
sapeva ben poco dei campi di concentramento, e per me quella era una
faccenda morta e sepolta. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a riaprirla.
Nel limite del possibile, cercai di spiegare il lavoro schiavistico, le
violenze e le esecuzioni gratuite, le camere a gas e i forni crematori, ma a
quel tempo in Inghilterra sembrava tutto talmente surreale che mi
mancarono le parole. Se anche i miei superiori sapevano dell'esistenza dei
campi di lavoro, di certo non avevano idea che ci fossero dei soldati alleati
costretti a lavorare fianco a fianco con gli internati. Il loro atteggiamento
rivelava quanto fossero a disagio nel sentirselo dire. Come gli abitanti del
mio villaggio, mi fissavano con lo sguardo vitreo.
Nel dopoguerra molti ex prigionieri venivano visti come traditori, per il
fatto stesso di essere stati catturati. Nessuno lo diceva apertamente, ma noi
ci sentivamo guardati con sospetto. Invece che vittime dei campi di lavoro
forzato nazisti, ci consideravano dei collaboratori più o meno volontari
dello sforzo bellico tedesco. Di sicuro al nostro ritorno nessuno ci trattò da
eroi. Rinunciai a proseguire oltre, e abbandonai l'ufficio.
Dopo quell'episodio, per decenni non parlai più in modo esplicito di
Auschwitz. Credo che ai compagni tornati in seguito siano stati consegnati
dei moduli da compilare, per fare rapporto sulle loro esperienze di
prigionia. Quel sistema serviva probabilmente a trarre d'impaccio gli
ufficiali che dovevano sentirne parlare direttamente. A quel punto, io ero
già andato avanti. Avevamo fatto tutto il possibile per sabotare le attività in
corso alla IG Farben, e avevamo sofferto quanto gli altri sui campi di
battaglia. Eravamo anche stati testimoni diretti di uno dei capitoli più bui
nella storia dell'umanità, e al ritorno a casa non potevamo nemmeno
parlarne. Nessuno era in grado di capirlo, comunque.
Tenni però fede a una cosa che mi ero ripromesso di fare: mettere per
iscritto tutto ciò che riuscivo a ricordare di Auschwitz III-Monowitz. Mi
appuntai i pochi nomi che mi erano rimasti in mente, e i particolari che
avevo raccolto sulle condizioni di vita nel campo come li avevo visti di
persona, poi chiusi tutto in una vecchia valigetta di pelle, e cercai di non
pensarci più. Mi sforzai di convincermi che quel periodo apparteneva al
passato.
Mi sbagliavo. Cominciavano a succedermi cose inspiegabili. Di tanto in
tanto rivedevo Jane. Suo marito era morto durante la guerra, e adesso lei
lavorava come assistente di un ammiraglio americano di stanza
all'ambasciata statunitense a Londra. Continuava anche a suonare il
pianoforte. Quella tra me e Jane era sempre stata un'amicizia un po'
turbolenta. Anche prima della guerra litigavamo tantissimo, ma questo non
aveva mai fatto venir meno il nostro affetto. Mi invitò a cenare a Londra
con un nutrito gruppo di suoi amici. Passammo una serata piacevole, e
usciti dal ristorante ci trasferimmo tutti nel suo appartamento in Beaufort
Street, a Chelsea, dove proseguirono i bagordi, o almeno credo. Non so
esattamente che cosa accadde.
Qualche tempo dopo facevo il mio ingresso in una stazione di polizia
dell'East End, dalla parte opposta della città. Ero frastornato, confuso, e
totalmente terrorizzato. Non ricordavo niente degli ultimi tre giorni. Mi
dissero che non ero ubriaco, e per quanto riuscissi a capire, non avevo
perso conoscenza, eppure tutte quelle ore erano state cancellate da
un'amnesia totale.
A peggiorare le cose, mi ero presentato al volante di un'auto ufficiale
dell'esercito americano. Non ho idea di come l'avessi ottenuta, ma
immagino appartenesse a uno degli ospiti di Jane. Almeno la macchina non
aveva riportato danni, e questo era un sollievo. Ciò nonostante ero molto
preoccupato, sia per me che per gli altri. Da quando ero tornato a casa
avevo sempre i nervi a fior di pelle. Se qualcuno mi prendeva alla
sprovvista, o mi toccava sulla spalla, mi giravo di scatto, pronto a reagire.
Perdevo facilmente le staffe. Avevo vissuto tanto a lungo fuori da ogni
regola che tutto era possibile. Non potevo escludere di essermi messo nei
guai o di avere fatto del male a qualcuno durante quei tre giorni, e non
riuscire a ricordarmelo peggiorava la situazione. Quella perdita di memoria
mi spaventava.
Così mi consegnai alla polizia, spiegando ciò che pensavo fosse
accaduto. La situazione era quasi comica. Non sapevano cosa farsene di
me. Verificarono se esistessero ricercati che corrispondevano alla mia
descrizione. Immagino non fosse la prima volta che si trovavano a fare i
conti con il comportamento assurdo di un veterano di guerra. Lasciai alla
stazione l'auto ufficiale e me ne tornai a casa da solo, avvilito e scosso
dall'accaduto.
Venni congedato definitivamente nel 1946, ma al mio paese la gente
continuava a tormentarmi con le stesse domande sciocche sulla guerra. Non
potevo accontentarli. Si lasciavano affascinare dai dettagli più strampalati,
come la mazza da baseball piovuta dal cielo. A Leystone la tenevo sul
sedile posteriore della mia decapottabile, e un giorno, uscito da una
droghieria, scoprii che l'avevano rubata. Io mi ero messo in testa di scoprire
a chi apparteneva, e di restituirla alla sua famiglia. Erano propositi
insensati. La mazza era sopravvissuta, ma il suo proprietario era
sicuramente morto. Non sarebbe certo servita come consolazione o
conforto ai suoi cari.
Pochissimi tra i miei amici avevano fatto ritorno al paese dopo la guerra,
e in un luogo così familiare la solitudine mi pesava ancora di più. Della vita
spensierata e felice che avevo vissuto non era rimasta traccia. Prima di
partire, il tempo non mi bastava mai: la vita era entusiasmante. Adesso era
vuota. Ero irrequieto, mi sentivo sempre più debole, e cominciai a soffrire
di crampi allo stomaco. Qualcosa non andava, ma non sapevo cosa. Mi
venne l'idea di andare a Manchester e rintracciare Bill Hedges. Avevo un
vago progetto di trasferirmi da qualche parte al Nord, e di cercarmi un
lavoro.
Riuscii a trovare Bill, e fu bello rivedersi. Si era sposato, e non mi disse
se il trauma lo tormentava quanto me. Non fummo in grado di parlare di
Auschwitz, no davvero. Non c'era spazio per quell'esperienza nelle nostre
vite. Lui era sopravvissuto alla lunga marcia facendo ritorno a casa, e
questo era già qualcosa, ma entrambi volevamo lasciarci simili esperienze
alle spalle, ritrovare un posto in un mondo che non ci capiva.
A quel punto i miei dolori di stomaco si erano fatti lancinanti. Quando
mi veniva un attacco, non riuscivo a reggermi in piedi, mi contorcevo dal
male, e in aggiunta soffrivo anche di emicranie invalidanti. Ero sempre
spossato, con il fisico a pezzi, e avevo la lingua nera come un asso di
picche: mi serviva urgentemente un dottore.
Bill non mi rimase vicino. Venni ricoverato d'urgenza al Manchester
Royal Infirmary, dove i medici si dichiararono sconcertati quanto me. Nel
deserto avevo sofferto di malaria e di febbre da pappataci, in Italia mi ero
beccato dissenteria e scabbia, e Dio solo sa quali infezioni avevo contratto
ad Auschwitz. Sapevamo che tra i prigionieri scoppiavano epidemie di tifo,
ma certo quella non era l'unica malattia che infestasse il campo.
I dottori mi visitarono i polmoni e tutto il resto prima che uno dei
luminari arrivasse all'origine del problema, diagnosticandomi una
tubercolosi sistemica. Disse che si era sviluppata in gola, nei polmoni, nello
stomaco e nell'intestino. Sapevo che la situazione era grave, ma non c'era
da sorprendersi, dopo tanto tempo passato a sgobbare fianco a fianco con
gli schiavi del campo di lavoro. Il professore mi disse che l'intervento
chirurgico era molto invasivo, e che per riprendermi ci sarebbero voluti
mesi, se non addirittura anni. Prima di autorizzare l'operazione, pretesi che
l'intera procedura mi venisse spiegata per filo e per segno, così un'équipe
medica si radunò intorno al mio letto e me la descrisse nel dettaglio. Mi era
più facile capire il procedimento in termini tecnici. Si trattava di eliminare
un lungo tratto di intestino, e poi di riattaccare le viscere. In sostanza, un
radicale intervento sul sistema idraulico.
Dopo l'operazione mi risvegliai con una cicatrice di quindici centimetri
che mi attraversava l'addome. Sapevo che sarebbe stata brutta, ma ne rimasi
comunque scioccato. Mi avevano ricucito, però ben presto la ferita si riaprì.
Mi ricucirono un'altra volta, eppure il taglio non voleva saperne di
rimarginarsi, e in certi punti era largo tre centimetri. Il mio organismo
aveva esaurito le forze. La pelle ci mise un anno e mezzo a cicatrizzarsi.
Bill non venne mai a trovarmi. Mio padre riuscì a fare il viaggio per
venire là una volta sola. Ero andato a Manchester con l'intenzione di
ricominciare da zero, ma soprattutto per allontanarmi da chi mi conosceva,
e dalla terribile domanda: «Che cos'hai fatto durante la guerra?». Tornando
a lottare contro la morte provavo di nuovo un senso di gratitudine verso la
vita. Non mi aspettavo di impiegare tanto a rimettermi in piedi, ma almeno
in ospedale godevo della solitudine e dell'anonimato che cercavo.
Il pensiero di Auschwitz svaniva progressivamente. Non provai alcun
interesse per la prima fase del processo di Norimberga ai criminali di
guerra, che videro imputati uomini come il Reichsmarshall Hermann
Göring e i vertici militari come Alfred Jodl e Wilhelm Keitel, e altri ancora.
Il capo delle SS, Heinrich Himmler, era già sfuggito alla giustizia. Si era
suicidato dopo la cattura da parte dell'esercito inglese, nel maggio del 1945,
a poche settimane di distanza dal mio ritorno a casa. Era lui il principale
responsabile dei crimini ai quali avevo assistito, dei campi di sterminio e
della riduzione in schiavitù, ciò nonostante la sua morte, come quasi tutto
in quel periodo, mi lasciò indifferente.
Mentre lottavo per debellare la tubercolosi, si stava preparando il
processo ai dirigenti della IG Farben per la loro complicità nei programmi
di lavoro schiavistico. Quando mi rimisi in piedi le udienze erano già in
corso.
Alcuni dei superstiti alleati del campo E715 avevano reso dichiarazioni
giurate nel 1947 che vennero usate dall'accusa. Nessuno degli avvocati era
riuscito a rintracciarmi. Ero ancora gravemente malato, ricoverato in un
ospedale lontano da casa, completamente all'oscuro dei fatti. Non ero né
fisicamente, né mentalmente in condizione di testimoniare.
Dopo settimane di ricovero al Manchester Royal Infirmary mi
trasferirono al sanatorio di Baguley per un periodo di riposo e
convalescenza. A quel tempo quelle strutture erano luoghi spartani, e l'aria
fresca era la base della terapia. Avevo una stanza tutta per me, con due
porte ai lati, simili a quelle della stalla della mia fattoria, con il pannello
superiore e quello inferiore che si potevano aprire e chiudere
separatamente. Quello di sopra era sempre aperto, e lo stesso valeva per le
finestre, con qualunque tempo e in ogni stagione. Di notte le tenevano
leggermente accostate, ma la situazione non migliorava di molto. Sopra le
coperte del letto c'era una tela cerata per proteggermi dalla pioggia, e
d'inverno gli inservienti mi toglievano sempre la neve di dosso con una
spazzola. Era come dormire sotto un tetto senza pareti, e di notte la stanza
era attraversata da raffiche di vento e mulinelli di neve. Le coperte erano
abbastanza pesanti, ma io congelavo lo stesso.
E questo era niente. La cosa che odiavo di più erano le due
intramuscolari quotidiane nei glutei. E poi c'era una pastiglia talmente acida
da staccare l'intonaco dai muri. Forse era per questo che nella stanza non ce
n'erano.
Solo alla fine del 1947 fui in condizioni di essere dimesso. Il mio
ricovero era durato più di diciotto mesi. Poco dopo, l'8 di dicembre, mio
padre mi contattò per informarmi che mia madre era gravissima, e che
dovevo tornare subito a casa. Andai direttamente alla stazione di
Manchester, solo per scoprire che il primo treno per Londra sarebbe partito
sei ore più tardi. L'attesa fu lunga, e il viaggio ancora più interminabile. Per
raggiungere il mio paesino, nella capitale dovetti prendere una coincidenza.
Arrivai a casa stremato, ma era troppo tardi: mia madre era già morta.
Al ritorno dalla guerra avevo avuto il presentimento che non stesse bene.
I suoi capelli ramati, che la facevano somigliare alle donne ritratte da
Tiziano, erano diventati grigi. Aveva pagato lo scotto del nostro conflitto.
Quel giorno mio padre l'aveva accompagnata a Epping per fare delle
compere. In un negozio lei si era seduta per provarsi un paio di scarpe, ed
era caduta dallo sgabello. Lui l'aveva portata subito in ospedale, ma non
avevano potuto fare niente. Era morta nel giro di poche ore. Era stata
colpita da un aneurisma cerebrale: un'emorragia al cervello. Era una
persona magnifica e affettuosa, e si era spenta a soli cinquantanove anni.
Dopo il funerale mi resi conto che niente più mi legava a North Weald, e
lasciai definitivamente il paese in cui avevo trascorso l'infanzia per tornare
a Manchester, deciso a impegnarmi per costruirmi un futuro.
Impiegai un po' a trovare un lavoro. Molte aziende mi dicevano che ero
troppo qualificato, e naturalmente la mia inflessione tradiva le mie origini
meridionali. A quel tempo nel Nord c'erano parecchi pregiudizi nei
confronti dei ragazzi del Sud, e viceversa.
Io avevo sempre avuto il bernoccolo della meccanica. Nel deserto avevo
tenuto in moto il carro cingolato, ed ero abituato a trafficare con automobili
e motociclette già da prima della guerra, così mi comprai qualche attrezzo e
trovai un impiego nella manutenzione di un'azienda con uno strano nome,
la Winterbottom Book Cloth Company, con sede a Weaste, Manchester.
Era un inizio. La fabbrica produceva un materiale che serviva per la
rilegatura dei libri, e un particolare tessuto sottoposto a un trattamento con
amido, utilizzato per i cosiddetti fogli Imperial, destinati al disegno tecnico.
Poco tempo dopo incontrai una ragazza che si chiamava Irene. Era uno
spasso, molto estroversa e briosa. Ci sposammo in fretta e furia e andammo
ad abitare con sua madre a Burnage, a sud di Manchester, in attesa di
trovare una casa adatta a noi. Otto mesi dopo un colpo di fortuna sul lavoro
mi offrì l'occasione di farmi notare. I motori a vapore che alimentavano
quasi ogni macchina nella fabbrica della Winterbottom si erano guastati,
mettendo a repentaglio il futuro dell'impresa. Il direttore dello stabilimento
a quel tempo era quasi un padreterno chiamò i tecnici dell'assistenza da
Bolton, ma ci sarebbero voluti giorni o persino settimane prima del loro
arrivo.
Io dissi che, se me ne fosse stata data la possibilità, avrei riparato il
guasto. Ero apprezzato sul lavoro, ma mi consideravano un tipo un po'
bizzarro. A quel tempo la descrizione era calzante: ancora non ero tornato
in me. Il direttore rispose che la mia era una pretesa ridicola, non sarei mai
riuscito ad aggiustare una macchina tanto complicata. Quello che non
sapeva era che, prima della guerra, quando lavoravo per lo zuccherificio
Tate & Lyle, avevo assistito Sir Oliver Lyle nei suoi esperimenti per
migliorare il rendimento dei motori a vapore. Qualcosina l'avevo imparata.
Avevo ottimi motivi per farmi avanti, ma si trattava comunque di un
azzardo. In fabbrica sapevano che mi intendevo di motori, e alla fine
decisero che non avevano nulla da perdere. Fu una fatica epocale. Per ogni
macchina dovevo sollevare un albero a gomiti del peso di cinquanta
tonnellate sui crick idraulici, togliere i cuscinetti, riplasmarli per quanto
potessi, rifinirli al tornio, infine rimetterli in posizione, e limarli. Dopo
trentasei ore di lavoro, senza mai fermarmi né chiudere occhio, riuscii a far
ripartire le macchine. La direzione era al settimo cielo, e io tirai un sospiro
di sollievo.
Avevo risparmiato alla fabbrica perdite per migliaia di sterline.
L'amministrazione fu informata del mio successo e mi offrì una
promozione, con un nuovo impiego presso una società controllata
dell'azienda. Si chiamava UMP, e il mio ruolo era quello di capo tecnico.
Finalmente la fortuna mi arrideva: avevo la possibilità di mettere a frutto le
mie capacità, e di riprendere il processo di formazione interrotto dal
conflitto. Era cominciata la ripresa del dopoguerra.
A casa non ero altrettanto felice. Il temperamento vivace di Irene
avrebbe potuto andarmi a genio prima del conflitto, ma a quel punto
dovevo ammettere che ero cambiato. Eravamo male assortiti. Di giorno
avevo grandi soddisfazioni sul lavoro, però la sera soffrivo ancora
moltissimo. In quegli anni tormentati, gli incubi che mi incombevano
addosso nelle ore notturne mi ammorbavano come una nebbia densa e
velenosa.
Con Irene non riuscivo a parlarne, né con nessun altro. Lei non avrebbe
capito; a quei tempi nessuno poteva farlo. Appena appoggiavo la testa sul
cuscino tornavano i fantasmi. Il pensiero stesso di andare a dormire mi
terrorizzava. Il ragazzino picchiato a sangue non era l'unico sogno
ricorrente. C'erano anche i volti di altri ebrei torturati: immagini sconnesse
che apparivano e scomparivano davanti ai miei occhi. Tantissime volte mi
capitava di risvegliarmi come se risalissi in superficie da un'immersione in
una grotta sott'acqua, confuso e senza fiato. Il cuore mi batteva
all'impazzata, ed ero madido di sudore.
Il ricordo della fine di Les non mi perseguitò mai, e nemmeno le
innumerevoli morti cui avevo assistito in guerra. Non sognavo l'uomo che
avevo ucciso con le mie mani nel deserto, malgrado le sensazioni provate
in battaglia fossero sempre con me, in un angolo della mia mente. Invece
sognavo continuamente i deportati ebrei. Quei ricordi infestavano ogni
cosa.
E peggio ancora, sognavo le ore passate ad Auschwitz III. Il tanfo
raccapricciante invadeva la mia stanza, risentivo il borbottio incessante
delle voci nella baracca, mi sembrava di ritrovarmi su quel tavolaccio. Ero
di nuovo nascosto in quel luogo oscuro e terribile dal quale non c'era
scampo. Sapevo che il minimo rumore mi avrebbe tradito. Non potevo
muovermi, né respirare, dovevo stare immobile, o sarei morto.
Avevo fatto spesso quest'incubo, ma una notte fu particolarmente brutto:
sapevo che erano sul punto di scoprirmi, e solo un silenzio totale e assoluto
poteva sventare la catastrofe. Quando il sogno raggiunse il suo orrendo
apice, Irene, che a sua volta dormiva profondamente al mio fianco, cacciò
un grido nel sonno.
Dovevo far cessare quel rumore, altrimenti mi avrebbero scoperto, e
ucciso. Nel sonno le saltai addosso, tentando disperatamente di soffocare il
suono. Fu questione di secondi prima che mi riscuotessi e mi rendessi conto
di ciò che stavo facendo: le serravo le mani intorno alla gola. Mi misi a
sedere sul bordo del letto, grondando sudore dalla fronte. Le avevo fatto
davvero del male. Irene riusciva a parlare a stento, e sul collo le rimasero
dei segni rossi per giorni e giorni. Fu un momento terribile, davvero
tremendo. Avevo toccato il fondo.
Serviva un cambiamento. Il giorno dopo andai da un medico, e mi
presentai dalla polizia a denunciare l'accaduto. Ero profondamente scosso,
sapevo che era la cosa giusta da fare. Già dopo l'episodio dell'amnesia di
Londra, consapevole di essere una mina vagante, mi ero rivolto alle forze
dell'ordine. Questa volta la situazione era molto, molto più grave.
Mi ero convinto di essere un individuo pericoloso, e non mi sarei
opposto se mi avessero rinchiuso. Una parte di me lo desiderava proprio.
Almeno avrei evitato di commettere qualcosa di irreparabile. Mi stettero a
sentire, ma senza darmi retta. Non mi presero sul serio.
Nemmeno il medico mi fu di grande aiuto: mi liquidò prescrivendomi
qualche farmaco. Non so di cosa si trattasse. Soffrivo di stress posttraumatico molto prima che quella sindrome venisse diagnosticata. Ne ero
succube, ed ero completamente solo. Non avevo idea di quanti, come me,
ne fossero vittima. In vita mia non avevo mai accettato quel ruolo, e subirlo
per colpa della mia mente era davvero una situazione assurda.
Compresi che l'unica soluzione era incanalare in qualche modo il dolore
e la disperazione. Dovevo curarmi da solo. La forza di volontà mi aveva
permesso di sopravvivere alla guerra, ai campi e alla lunga marcia verso
casa. A quel tempo mi ripetevo che non potevano rinchiudere la mia mente,
e adesso era lei che aveva imprigionato me, e mi stava distruggendo.
Dovevo riprendere il controllo su me stesso.
Cominciai a praticare il judo, una disciplina che mi affascinava. Era un
ponte tra l'educazione marziale con cui ero cresciuto il pugilato e la vita
militare e qualcosa di più profondo. La boxe si basa molto sulla tattica e
sull'agilità, ma con il judo stavo imparando a sfruttare la forza e la rabbia
dell'avversario contro di lui. Per mandarlo al tappeto non serviva scansarmi
e colpire: bastava usarlo da fulcro. Mi allenai fino a ottenere la cintura nera,
ed ero molto attratto anche dalla filosofia di quella disciplina. Mi piaceva
l'idea di trascendere la soglia del dolore. La mente è prodigiosa. Mi aveva
portato fin là, ma sarebbe riuscita a guarirmi?
Mi sarebbe piaciuto moltissimo studiare il buddismo ed esplorare le
tradizioni orientali, ma a quel tempo non usava. Il mio lavoro era molto
impegnativo, e forse quel genere di cose non era comunque adatto a me. Il
percorso per ritrovare la salute mentale richiese anni, interi decenni. Non
cercai aiuto nella psicoanalisi, al contrario, mi chiusi sempre più nel
silenzio riguardo alla guerra, e su tutto ciò che avevo fatto e visto durante
tale periodo. Quelle cose appartenevano al passato, non c'era posto per loro
nella mia nuova vita. Dovevo lasciarle indietro.
Le nostre esperienze di prigionia stridevano con il clima generale. La
gente voleva sentire il racconto di audaci evasioni, non dei programmi di
lavoro forzato. Per questo i film sui campi avevano sempre come
protagonisti gli ufficiali: non erano costretti a lavorare. L'esperienza di
prigionia della stragrande maggioranza di soldati semplici venne rimossa, o
andò perduta. Il pubblico esigeva eroi e battaglie vinte, non le sconfitte e
l'ignominia della cattura. Volevano momenti di gloria, non lunghe e
dolorose storie di sopravvivenza in condizioni disperate. Noi avevamo fatto
la nostra parte, ma nei primi anni del dopoguerra diventammo invisibili.
Poco alla volta, riuscii in qualche modo a tenere sotto controllo gli incubi
peggiori. Non riuscii mai a scacciarli del tutto, ma almeno non avevano più
la meglio su di me. Siccome mi erano sempre piaciute le macchine da
corsa, mi dedicai alle gare automobilistiche: avevo bisogno di quella
scarica di adrenalina per sentirmi vivo. Mi iscrissi a un club che si riuniva
regolarmente al circuito di Oulton Park, per gareggiare al volante delle
nostre Jaguar. La vita riprendeva a emozionarmi. Confesso che guidavo
sempre al massimo della velocità, anche in autostrada, e con qualsiasi
condizione climatica. Il tran tran ordinario era troppo lento e monotono. Mi
serviva un'emozione più forte che mi aiutasse a cancellare i ricordi.
Con il passare degli anni si diffuse l'abitudine di fare viaggi all'estero, e
io scelsi la Spagna. Per quattro volte corsi con i tori nelle strade di
Pamplona durante la festa di san Firmino. Mi lasciavo trascinare
dall'atmosfera, e per l'occasione indossavo camicia e pantaloni bianchi,
messi in risalto dal tradizionale fazzoletto rosso al collo e intorno alla vita.
Sono sempre stato un tipo vanitoso, ma quell'esperienza era davvero
elettrizzante. Andai anche a fare delle immersioni nel Mar Rosso, molto
prima che diventasse un passatempo alla moda.
Non tutti i miei hobby erano così pericolosi. Ripresi a cavalcare: comprai
quattro cavalli, e diventai un concorrente fisso alle cosiddette gare dei "tre
giorni", che comprendono le specialità di dressage, salto a ostacoli e crosscountry. Riuscii a partecipare a una serie di safari a cavallo in Africa.
Dunque, sì, lo ammetto, nel dopoguerra facevo la bella vita. Non avrei
potuto concedermi di meglio. In quegli anni non mi venne mai in mente
che mi stavo nascondendo da qualcosa. Pensavo di essermi sbarazzato di
Auschwitz, di averla dimenticata, di avere superato il trauma, e invece per
tutto quel tempo era rimasto con me.
Mi era impossibile sedermi dando le spalle a una porta: non ci riesco
ancora adesso. Sono sempre in allerta, sul chi vive. Detesto il freddo, e lo
spreco di cibo. Sono tutti strascichi di quegli anni. Gli incubi non erano più
così coinvolgenti e assillanti, ma non erano spariti del tutto.
All'apparenza, tutto andava per il meglio: abitavo in una bella casa a
Bramhall, nel Cheshire, con un grande giardino, un campo da tennis,
lunghe siepi di rose fiorite, ma la mia vita coniugale non era felice. Io e
Irene avevamo pochi interessi in comune. Io la stimavo, ma eravamo
incompatibili. Ci dedicammo a vite sociali separate, allontanandoci sempre
più fino al divorzio.
Nel 1960 morì mio padre. La cosa della quale andava più fiero era una
gigantesca biblioteca, formata da magnifici volumi rilegati in pelle sugli
argomenti più disparati che aveva raccolto nel corso degli anni. Non potevo
portarli a casa mia a Manchester: a quel tempo era un viaggio impegnativo,
e comunque mi mancava lo spazio. Una settimana circa dopo la sua morte,
nella casa in Essex si presentarono un paio di commercianti cockney, per
una stima e un'offerta.
Frugarono tra gli scaffali scorrendo le coste dei volumi con aria
sprezzante, e poi proposero una cifra irrisoria per tutto il lotto. Persi le
staffe, e li cacciai in malo modo. Ammucchiai i libri in giardino, a distanza
di sicurezza dalla casa, poi li bruciai tutti insieme alla magnifica scrivania
di mogano di mio padre. Quella biblioteca era appartenuta a lui, e doveva
restare là dov'era sempre stata. Nessun altro doveva metterci mano. Il falò
bruciò per tre giorni e tre notti. All'ultimo minuto strappai un volume alle
fiamme, lo gettai sul sedile posteriore della mia auto e me ne tornai a
Manchester.
Più o meno in quel periodo, dei ladri fecero irruzione in casa mia.
Portarono via un mucchio di oggetti di valore, orologi da polso e da parete,
argenteria, e anche la vecchia valigetta di pelle nella quale avevo
conservato i miei appunti su Auschwitz. Non ci pensavo da anni, e da
quando li avevo scritti non li avevo mai più riletti. La valigetta era pesante,
e sempre chiusa a chiave, quindi sembrava contenere documenti importanti,
ma era preziosa solo per me. Al momento ero troppo preoccupato della
quantità di oggetti preziosi che i ladri avevano preso per fermarmi a
riflettere su una vecchia valigetta e su quel manoscritto.
Come capo tecnico, ricoprivo una posizione manageriale, e quando nel
1961 l'azienda venne acquisita dalla Venesta, la nuova dirigenza decise di
liquidarmi. Rifiutai l'offerta di un impiego a Londra, scegliendo invece di
diventare tecnico responsabile di tutte le filiali della Cheshire Sterilised
Milk Company. Stavo recuperando sul tempo perduto. Avevo trovato un
altro modo di essere al comando, malgrado la mia confusione interiore.
L'incontro con Audrey cambiò tutto. Solo allora compresi quanto avevo
perso. Lei colmò un vuoto nella mia vita, e continua a farlo ancora oggi. Il
mio lavoro mi dava l'illusione di assumermi delle responsabilità, di
prendere delle decisioni, di andare avanti; in sostanza, di essere al
comando. Se guardo le foto di quegli anni, vedo un uomo di mezza età, con
l'aria sicura di sé, circondato dai tipici status symbol del successo:
macchine veloci, una bella casa, i cavalli.
Audrey descrive in tutt'altro modo la persona che conobbe allora. Dice
che avevo lo sguardo perso, come se fossi costantemente alla ricerca di
qualcosa. Vide in me una tristezza che io non avevo ammesso nemmeno a
me stesso, e che avevo sperato di riuscire a nascondere. Lei invece mi
ricorda come un uomo con la faccia scavata, e gli occhi sempre incollati al
pavimento. Intuì subito che qualcosa non andava. Aveva ragione lei, e ciò
succedeva quasi sempre, come in seguito avrei avuto modo di verificare.
Ad ogni modo, io ero malato, e Audrey sospettava che il mio malessere
avesse qualcosa a che fare con Auschwitz, ma non ne conosceva i dettagli.
Io restai allibito già dal fatto che avesse capito il nesso. Mi aiutò a ritrovare
l'equilibrio. Da allora, è la mia àncora di salvezza.
Qualcos'altro venne a riportarmi alla mente gli anni della guerra. Il mio
occhio ferito non faceva che peggiorare. Mi dava problemi da quando mi
ero preso quel colpo in faccia per avere sfidato la SS. Di punto in bianco la
vista si distorceva, gli oggetti rimpicciolivano e scomparivano, o peggio
ancora, ci vedevo doppio. Fui costretto a rinunciare al cricket e al tennis.
Non riuscivo a calcolare la posizione della pallina e, cosa ben più grave,
non ero più in grado di decifrare i disegni tecnici alle riunioni. Il problema
era serio, e andava risolto.
Audrey e io non eravamo ancora una coppia vera e propria, ma un sabato
avevo promesso di accompagnarla a fare compere, dopo la visita
dall'oculista. Il destino decise diversamente.
Lo specialista mi sottopose a una serie di test, puntandomi delle lucette
nell'occhio e facendomi guardare dentro una serie di macchinari. Terminato
l'esame, espresse il suo parere. Non era incoraggiante. La lesione all'occhio
era degenerata in un cancro, e minacciava ben più della mia vista. Dovevo
farmi operare entro quarantott'ore, o le metastasi avrebbero invaso il
cervello, e sarei morto. All'una telefonai ad Audrey per comunicarle la
brutta notizia. Mi avevano già ricoverato, e mi stavano preparando per
l'intervento il lunedì mattina.
Mi avrebbero espiantato il bulbo, sostituendolo con un occhio di vetro.
Quando superai lo shock, lo specialista mi chiese se volevo partecipare a un
esperimento che poteva contribuire alla comprensione del funzionamento
dell'occhio e delle sue innervature. Disse di avere convocato un collega
dalla Svezia per partecipare all'intervento. Mi avrebbero reciso i nervi sotto
l'occhio in anestesia locale, invece che generale. Per tutto l'intervento sarei
rimasto perfettamente lucido, in modo da spiegare ciò che provavo mentre
mi operavano.
Venne il giorno dell'operazione. Io chiusi il mio occhio buono e guardai
l'orologio per l'ultima volta con quello malato. Erano le undici in punto
quando mi portarono in sala ancora sveglio, se pure un po' frastornato. Mi
sistemarono su un lettino sotto una luce abbagliante, e cominciò
l'esperimento. Non ricordo di avere provato un dolore vero e proprio, ma
ricordo distintamente il chirurgo che mi conficcava un sottile bisturi
azzurrino in vari punti dell'occhio, chiedendomi di volta in volta: «Adesso
vede qualcosa?»
«No, nessun cambiamento».
Lui frugava un altro po' con la punta della lama. «E adesso?». E così via.
Infine fece un ultimo, delicato movimento con la mano, con la precisione
di un orologiaio, e il mio occhio sinistro diventò cieco. Fu come se ci
avessero appoggiato sopra una grossa moneta. Avevo commentato passo
passo l'intervento che mi aveva privato della vista a un occhio. Da quel
momento in poi non ricordo molto, probabilmente mi fecero l'anestesia
generale per la fase di espianto.
Quando ripresi conoscenza, fu un sollievo scoprire che con il sinistro ci
vedevo ancora. A quel punto avevo superato esperienze ben peggiori, e non
ricordo di essermi fermato troppo a pensare, anche se Audrey ne soffrì
molto.
In cambio della mia partecipazione alla ricerca, potei usufruire di un'altra
procedura sperimentale: la prima protesi oculare mobile. Attraverso una
rondella, avrebbero collegato i muscoli sul fondo della mia orbita all'occhio
finto, permettendone in parte il movimento.
A quel tempo si trattava di un congegno davvero avveniristico. Quanto
seguì non lo fu affatto. Mi riempirono l'orbita di plastilina per fare un calco,
e mi dotarono di una protesi provvisoria, con l'iride di un colore diverso dal
mio. Dopo un po' mi mandarono nel piccolo atelier di un'artista. Comparve
una donna giovane che, scambiato qualche convenevole, mi fece
accomodare come se dovessi posare per un ritratto. Mi scrutò a lungo e
attentamente, poi tirò fuori un occhio di vetro bianco, qualche minuscolo
barattolo di vernice e dei pennellini microscopici. Come un cesellatore alle
prese con un cammeo, mescolò i colori per riprodurre ogni pagliuzza e
sfumatura della mia iride. Il risultato fu magnifico, e molto superiore a
quelli ottenuti più tardi con sistemi ad alta tecnologia.
Di solito la gente non si accorge che ho un occhio di vetro finché io
stesso non ne do una dimostrazione, battendoci sopra un cucchiaino da tè.
Lo tolgo ancora, di tanto in tanto, e mi capita di dimenticarlo sul comodino
insieme all'apparecchio acustico. Audrey sostiene che certe volte lascio
tanti di quei pezzi di me sul comodino che tanto varrebbe che pure lei
dormisse lì. Di solito, ai fini della battuta, aggiunge anche una gamba di
legno.
Nel giugno del 1966 ricevetti una busta con un assegno di risarcimento
per quella che la lettera di accompagnamento definiva la mia «persecuzione
per mano nazista». La somma era di duecentoquattro sterline, e l'assegno
era firmato dal ministro del Tesoro. Rimasi esterrefatto, e scandalizzato. Il
governo non aveva mai trattato come sarebbe stato giusto gli ex prigionieri
di guerra, e quella ne era l'ennesima prova.
Trascorsi ancora qualche anno facendo la bella vita, poi la situazione
cambiò bruscamente. Avevo progettato un rivoluzionario nuovo processo
di estrusione compatta per rendere più efficiente la produzione di alluminio
destinato ai tubetti di dentrificio e ai contenitori alimentari. L'idea era solo
mia, e ci investii tutti i miei risparmi. Ero talmente preso dalla sfida
rappresentata dalla nuova impresa che non prestai abbastanza attenzione
alle clausole e ai dettagli contrattuali. Fu un fiasco, e persi quasi tutto. Più o
meno nello stesso periodo i miei titoli azionari crollarono, e fu la fine. Non
avevo mai avuto il bernoccolo della finanza.
Ma avevo ancora una freccia al mio arco. La Associated Diaries,
destinata a diventare la ASDA, il gigante dei supermercati, mi propose di
costruire nei pressi di Newcastle una fabbrica per la produzione e
l'imbottigliamento di latte pastorizzato a lunga conservazione. Comprai il
terreno, trattai con gli enti locali, poi progettai e costruii quello che sarebbe
diventato il primo impianto totalmente meccanizzato nel suo genere del
Paese. Fu inaugurato dal principe Carlo, e fu l'ultimo exploit della mia
carriera: non era andata sempre al meglio, ma io ne ero comunque fiero.
Già prima della pensione avevo cominciato a ripensare alla mia vita. Io e
Audrey non volevamo essere in debito con nessuno, così vendemmo tutto e
lasciammo il Cheshire per una casetta più piccola e circondata dai campi
alla periferia del paese di Bradwell, nel Derbyshire. Tutto intorno a noi,
antiche mura di cinta costruite con pietre a secco si inerpicano sulle colline
verdi, delimitando le valli. Esse costeggiavano anche il sentiero dietro casa,
che scende a precipizio zigazagando intorno a una grande grotta, poi risale
fino a raggiungere la strada principale fuori del paese. È un luogo dove
viviamo seguendo l'alternarsi delle stagioni, invece che limitarci a vederle
passare. Il paesaggio, dapprima lussureggiante, progressivamente si fa
spoglio. È il posto più bello e felice dove sia mai stato.
Capitolo 19
Continuavo a chiudermi nel silenzio. Audrey non conosceva alcun
dettaglio della mia permanenza al campo E715, né del mio ingresso ad
Auschwitz, e nemmeno di Ernst. Quando qualcuno mi chiedeva di parlarne,
mi rifiutavo di farlo. Non era un argomento adatto alle nostre vite del
dopoguerra, e restò sepolto dentro di me.
Comunque alla gente non interessava sapere: le occasioni per parlarne
erano rare, ma anche in quel caso io tenevo la bocca chiusa. La mia non era
l'esperienza di un autentico sopravvissuto all'Olocausto. Avevo assistito ad
alcuni dei peggiori crimini contro l'umanità, ma non ero io la vittima
designata. Cosa potevamo dirne, noi? Qual era il nostro posto? Ormai il
volto scheletrico di Ernst era uno dei tanti nella mia mente: uomini la cui
morte forse non sarebbe stata ricordata da nessuno.
Eppure qualcosa stava cambiando. Non in me, non ancora, ma nel
mondo. L'opinione pubblica ora aveva saputo dell'Olocausto, delle camere
a gas e dei forni crematori. Anni prima avevano cominciato a comparire nei
documentari quei filmati spaventosi sui campi di concentramento. Gli
spettatori si erano assuefatti a tali immagini, e avevano smesso di vedere le
vittime come individui, come esseri umani.
Poi la situazione mutò. L'attenzione cominciò a spostarsi dalle camere a
gas al contesto più vasto dell'apparato schiavistico nazista. Io sapevo per
esperienza che in realtà le vittime venivano trattate peggio degli schiavi.
Uno schiavo è un bene di valore per il suo padrone, mentre il lavoro
imposto ai prigionieri ebrei in luoghi come la Buna-Werke della IG Farben
era principalmente uno strumento di sterminio. Cominciarono a diffondersi
servizi radiofonici e televisivi che avevano per protagonisti le vittime.
Nel settembre del 1999, sul «Times», mi imbattei in un articolo su un
ebreo sopravvissuto dell'impianto Buna di Auschwitz. Aveva preso il nome
di Rudy Kennedy, ma in origine si chiamava Karmeinsky. Era intervenuto
più volte alla radio e alla televisione, in sostegno di una campagna per il
risarcimento delle vittime dei campi di lavoro nazisti. Per quanto possa
sembrare strano, mi misi in testa che forse lo conoscevo, e che magari
avevamo lavorato fianco a fianco alla IG Farben. Cercai di contattarlo
tramite il giornale, ma non arrivai da nessuna parte.
Alcuni dei superstiti stavano manifestando la loro rabbia come mai in
passato, e cominciavano a ottenere un certo seguito. Nell'agosto del 2000,
dopo anni di pressioni, il governo tedesco e alcune delle aziende di primo
piano del Paese istituirono la Fondazione per il ricordo, la responsabilità e
il futuro, mettendo a disposizione dieci miliardi di marchi per risarcire i
lavoratori ridotti in schiavitù e le altre vittime del nazismo.
Fui convinto a fare domanda, ed entro i tempi prestabiliti consegnai un
modulo alla International Organization for Migration (IOM), uno dei
gruppi che gestivano il programma. Impiegarono quasi due anni per
respingere la mia richiesta e tutte le altre presentate dai prigionieri alleati
internati al campo E715. Non era il denaro a preoccuparmi, era la
mancanza di un riconoscimento. Ancora una volta, la nostra esperienza
veniva ignorata. Presentai un appello accorato, e incoraggiai gli altri
compagni a fare lo stesso.
Entrai in un periodo di grande impegno, in cui tempestai di furiose
lettere di denuncia i membri del Parlamento, il ministero della Difesa,
persino l'allora primo ministro Tony Blair. Volevo a tutti i costi che il
mondo sapesse che alcuni prigionieri alleati erano stati costretti ai lavori
forzati, talvolta in condizioni terribili. Non avevamo passato la prigionia
comodamente seduti ad aspettare di venire liberati a guerra finita. Anche
noi eravamo stati ridotti in schiavitù.
Soprattutto volevo che il governo inglese sapesse del campo E715,
talmente vicino ad Auschwitz che gli internati avevano fatto parte della
stessa forza lavoro. Ritenevo che meritassimo quantomeno un risarcimento
analogo a quello riconosciuto ai soldati detenuti nei campi giapponesi in
Estremo Oriente. Qualche tempo dopo ricevetti dallo IOM un assegno di
circa cinquemila sterline. Ero contento che la mia richiesta di risarcimento
fosse stata accolta, ma molti dei miei compagni si videro nuovamente
respinte le domande. Non mi sembrava giusto.
Per la prima volta dal 1945 mi stavo realmente occupando della guerra,
ma ancora non avevo analizzato i miei ricordi. L'Imperial War Museum
mandò una donna a intervistarmi. Non so come ci sia riuscita, ma fece un
ottimo lavoro. In un modo o nell'altro, mi convinse a parlare. Non credo sia
stato facile. Buttai tutto fuori a un ritmo febbrile. Per la prima volta, stavo
sforzandomi di ricordare. C'erano cose delle quali non avevo mai parlato
con nessuno, e senz'altro il mio discorso fu confuso e disordinato, ma
avevo fatto un primo passo. I ricordi cominciavano ad affiorare, e quando
l'intervistatrice se ne andò, mi resi conto di non averle raccontato nemmeno
la metà di quanto sapevo. Avevo a malapena intaccato la superficie.
Un giorno alla mia porta si presentò uno sconosciuto. Era una bella
giornata cioè nel Derbyshire significa che non pioveva e io stavo
trafficando per la casa. Il campanello suonò, e sulla soglia trovai un tizio
che si presentò come un ufficiale dell'esercito, anche se indossava abiti
civili. Lo invitai a entrare e ad accomodarsi sul divano. Disse che lavorava
per la Combat Stress, un'associazione che offriva assistenza psicologica ai
veterani di guerra, poi fece cadere la tazza di tè che Audrey gli aveva
portato, rovesciandola tutta sul tappeto nuovo. Dopo che ebbi asciugato il
tappeto e tranquillizzato l'ospite, lui cominciò a spiegarmi che la sua
organizzazione si impegnava in favore degli ex combattenti ad affrontare il
trauma della guerra. Voleva sapere se mi serviva una mano. La mia risposta
fu sintetica: «Sei in ritardo di sessant'anni, amico», gli dissi.
Osservai il grado riportato sul suo biglietto da visita, e gli assestai
un'altra stoccata: per quanto potevo vedere, lui non era mai stato in guerra,
quindi che ne sapeva? Fui piuttosto brusco. Spero non troppo. Al momento
del congedo, noi soldati eravamo stati liquidati con un cambio d'abito
scadente e nemmeno un grazie. Per decenni io avevo lottato da solo con i
miei incubi e la mia angoscia, e adesso, a ottant'anni suonati, ecco arrivare
qualcuno a chiedermi se mi serviva aiuto. Gran parte dei miei compagni era
già morta.
Dopo la guerra, il governo e l'esercito si erano lavati le mani di noi. A
quei tempi usava così. Se la famiglia riusciva a rimetterti in sesto, bene; se
no, pazienza. Io non ero mai stato in grado di scacciare del tutto i miei
incubi, ma almeno non dominavano più la mia vita. Il tizio di Combat
Stress non rappresentava né il governo, né l'esercito, e stava solo cercando
di rendersi utile, povero Cristo. In seguito provai rimorso per averlo trattato
tanto male. La sua organizzazione fa un ottimo lavoro.
Ma la mia vera svolta si verificò nel 2003, quando mi chiesero di
partecipare come ospite a una trasmissione radiofonica sulle pensioni di
guerra. Ero seduto nello studio, pronto a parlare del servizio statale che le
erogava. Si accese il segnale che indicava che eravamo in onda. Il
programma era in diretta. Con me c'erano altri due ospiti, il mio microfono
era aperto, e io avevo il mio discorsetto pronto. Poi il presentatore mi fece
una domanda del tutto inaspettata. Mi chiese della mia esperienza di
soldato.
Com'è mia abitudine, cominciai dal principio. D'un tratto, e per la prima
volta, stavo parlando della guerra in termini molto personali. Inizialmente
esitai, ma poi, con qualche termine tedesco che spuntava qua e là nel
discorso, tutto riaffiorò alla memoria. Anche la lingua, tanto che a un certo
il presentatore fu costretto a chiedermi di tradurre per gli ascoltatori.
I ricordi tornavano a galla, e le parole mi uscivano come un fiume. Non
volevo mai più chiudermi nel silenzio.
Ripercorsi tutta la mia vicenda di guerra così come l'ho raccontata in
questo libro, finché arrivai a descrivere Auschwitz, e il lavoro forzato, ogni
giorno fianco a fianco con i prigionieri ebrei, dall'alba fino al tramonto.
Quella era ben altra cosa. La mia voce cominciò a incrinarsi, l'emozione mi
chiuse la gola, e dovetti interrompermi. Seguì un lungo silenzio. Stavo
rivivendo tutto, e mi mancavano le parole. Ritrovai la calma, e ripresi il
racconto da un episodio meno straziante, approfittandone per ricompormi.
Poi mi rituffai nel gorgo. Descrissi l'odore raccapricciante che proveniva
dai camini dei forni. Parlandone, lo risentivo in bocca. Di nuovo un nodo
mi strinse la gola. Gli altri ospiti in studio mi ascoltavano ammutoliti, il
presentatore non aveva quasi bisogno di farmi domande. Gli dissi di come
mi ero abituato a vedere ogni giorno uomini ammazzati a furia di botte.
Questa volta dentro di me si era davvero aperto un varco. Scendevo nei
minimi dettagli come mai in passato, era un'esperienza completamente
nuova. Dopo quella trasmissione ci furono altre interviste. Altri ricordi mi
tornavano alle mente, ormai non c'era più verso di tenerli dentro. Ero
partito.
Scrissi a Les Allen, segretario onorario dell'Associazione nazionale degli
ex prigionieri di guerra, informandolo dei miei trascorsi, e lui mi fissò un
appuntamento con un reporter della BBC, Rob Broomby. Stava indagando
sulla vicenda dei prigionieri inglesi internati vicino ad Auschwitz. Aveva
anche studiato a fondo quei primi rapporti sulla schiavitù degli ebrei e sulle
aziende tedesche. Era tornato da poco da Berlino, dove lavorava come
corrispondente per la BBC. Il suo approccio mi piaceva. Era un tipo con i
piedi per terra, e rispettoso. Lui mi capiva.
Da molti punti di vista, Rob sarebbe diventato parte integrante della mia
storia. Stava facendo ricerche sulla richiesta di risarcimento in favore dei
prigionieri inglesi costretti a lavorare per i tedeschi. Gli raccontai di un
ebreo di nome Ernst che aveva una sorella in Inghilterra, e del mio
tentativo di aiutarlo facendogli avere delle sigarette di nascosto. Gli
raccontai del mio scambio con Hans e descrissi le notti passate ad
Auschwitz III.
Quando la BBC trasmise l'intervista, non rimasi del tutto sorpreso di
scoprire che la storia completa dello scambio era stata tagliata. In seguito
venni a sapere che Rob aveva cercato di salvarla, inserendo lo spezzone in
un altro progetto, ma l'idea non aveva funzionato, e lui aveva dovuto
rinunciarvi.
Passarono alcuni anni prima che Rob, che ora lavorava con un produttore
della BBC di nome Patrick Howse, si rimettesse in contatto con me. Era
l'autunno del 2009, e i due volevano registrare la mia storia per trasmetterla
in radio e in televisione. Questa volta l'intera intervista avrebbe ruotato
sullo scambio ad Auschwitz e sui miei tentativi di aiutare Ernst.
Nelle settimane seguenti Rob mi telefonò a più riprese, ogni volta con
nuove domande. Si era messo in testa di rintracciare la sorella di Ernst,
Susanne. Se era ancora viva, disse, forse potevano scoprire com'era morto
suo fratello. Io non le parlavo dal 1945, e non avevo modo di sapere quale
direzione avesse preso la sua vita dopo quel nostro incontro. Se davvero era
in vita, ormai doveva essere parecchio invecchiata: lo eravamo tutti.
Ripescai la mia agendina di pelle del 1945 per vedere cosa potevo
cavarne. L'inchiostro era vecchio e sbiadito, ma ancora leggibile: Susanne
Cottrell, 7, Tixall Road, Birmingham. Non era poi molto: un indirizzo di
sessant'anni prima, e un cognome chiaramente preso quando era arrivata in
Inghilterra.
Rob mi tenne aggiornato sui suoi progressi, ma si capiva che non stava
approdando a nulla. Poi per settimane non ebbi più sue notizie.
L'Associazione dei profughi ebrei gli aveva detto che Cottrell non
sembrava affatto un cognome ebraico, e che per rintracciare Susanne al loro
specialista dei Kindertransport serviva quello della famiglia d'origine.
Altrettanto infruttuoso era stato il tentativo di ritrovare i registri del
Comitato profughi di Birmingham relativi a quel periodo.
Il primo colpo di fortuna gli capitò con il registro elettorale del 1945, che
riportava tre votanti all'indirizzo di Tixall Road. La buona notizia era che il
loro cognome era Cottrell, quella cattiva era che nessuna si chiamava
Susanne. I loro nomi erano Ida, Sarah e Amy. Rob mi chiese se ritenevo
possibile che Susanne avesse cambiato nome, ma io non ne avevo idea.
L'impresa era disperata. Sapevo che Rob era impegnato con il notiziario
quotidiano della BBC, e che le ore dedicate a quelle ricerche ostacolavano i
suoi altri impegni. Pensai che ci avrebbe dedicato qualche settimana, e poi
avrebbe gettato la spugna. Di solito è così che vanno le cose. A quel punto
l'intervista sarebbe diventata un servizio televisivo di quattro minuti e un
inserto radiofonico appena più lungo. Non era esattamente il progetto per
un reportage di grande interesse.
Poi Rob mi telefonò per informarmi di un piccolo passo in avanti. Era
riuscito a contattare le persone che adesso abitavano al numero 7 di Tixall
Road. In un Paese dove la gente trasloca di continuo, era rimasto sbalordito
quando aveva scoperto che l'anziana coppia di proprietari era la stessa che
negli anni Sessanta aveva acquistato la casa da una signora di nome
Cottrell.
Ricordavano di avere sentito dire che durante la guerra i Cottrell avevano
dato asilo a una ragazza ebrea tedesca. Rob era al settimo cielo, ma
naturalmente tutto questo confermava solo ciò che sapevamo già. Non era
riuscito a trovare informazioni nuove. Quello che avevamo saputo era
meglio di niente, ma non significava che Susanne fosse ancora viva.
Dopodiché, la pista si esauriva. Mi arrovellai invano in cerca di altri
dettagli utili da quel traumatico incontro. Nella mia memoria, l'intero
periodo era completamente fuori fuoco.
Non ero affatto sicuro che Susanne fosse stata adottata ufficialmente, e
anche in quel caso, i documenti sarebbero stati riservati. Dal registro
elettorale, dai dati del censimento e persino dall'elenco telefonico
risultarono una manciata di Cottrell disseminati ai quattro angoli del Paese,
ma dopo ore passate al telefono, di Susanne neanche l'ombra. I colleghi di
Rob cominciavano a domandarsi se non fosse una grande perdita di tempo.
Certo non mancavano inchieste più facili di cui occuparsi.
Non gli restava che un'ultima cosa da fare. Per disperazione, cominciò a
richiamare alcune delle persone con le quali aveva già parlato. Telefonò di
nuovo all'anziana coppia di Tixall Road. Dopo quella prima intervista i due
avevano avuto un po' di tempo per rifletterci e ne avevano parlato con il
figlio Andrew, che abitava nei pressi di Solihull. Andrew non soltanto
ricordava di avere sentito la storia della bambina tedesca giunta in
Inghilterra come profuga all'inizio della seconda guerra mondiale, ma era
anche sicuro che abitasse ancora a Birmingham. Gli sembrava che da
sposata il suo cognome fosse diventato James, e che avesse un figlio di
nome Peter. Meglio ancora: era certo di averla vista nell'ultimo anno o due,
a cena in un ristorante della zona.
Erano ottime notizie. Rob cominciò dunque a indagare su una Susanne
James, madre di un tale Peter che, a quanto pareva, si era trasferito negli
Stati Uniti, e forse aveva fatto carriera laggiù come commercialista. La
ricerca si estese così alle due sponde dell'Atlantico, complicata dal fatto che
il cognome James era molto diffuso.
Andrew, però, aveva fornito un altro indizio. Era sicuro che fino a poco
tempo prima Susanne abitasse sulla Warwick Road, nel quartiere Acocks
Green di Birmingham.
Warkick Road è una strada molto lunga, tanto che vi abitava più di una
persona che faceva di cognome James. A uno dei numeri telefonici che
pareva più promettente rispose un ristorante take-away, decisamente più
interessato a prendere ordinazioni che a rintracciare persone smarrite.
Anche un altro numero sembrava interessante. Il registro elettorale per il
2001 comprendeva una certa Susanne E. James, residente in Warwick
Road. Ma il mistero si infittiva: c'erano altre due persone registrate come
votanti allo stesso indirizzo, una delle quali con un cognome tipico
dell'Europa orientale. La donna che rispose al telefono era chiaramente
troppo giovane per essere Susanne, e la telefonata la mise in agitazione.
Una reazione normale, considerato che stava parlando con un perfetto
estraneo che le faceva strane domande su un'anziana signora sconosciuta.
Dopo un po' le tornò in mente di avere visitato tempo prima una casa che
voleva comprare, di proprietà di un'anziana minuta e con i capelli grigi. La
pista era promettente, ma lei non ricordava il nome della donna. Un'altra
strada senza uscita. Rob mi telefonò per avvertirmi che stava per desistere.
Ormai aveva investito settimane in quella ricerca, senza risultati, così lui e
Patrick mi fissarono un appuntamento per le riprese radiotelevisive, così
com'erano state pianificate all'inizio.
Aggiunse anche di essersi ritagliato il tempo per un'ultima giornata di
ricerche porta a porta a Birmigham, come estremo tentativo, dopodiché
avrebbe desistito. I ritmi dei mass media non perdonano. Quando sentii che
avrebbe giocato quell'ultima carta, mi convinsi che non saremmo mai
riusciti a trovare la donna che avevo incontrato da ragazza, sessantaquattro
anni prima.
Le vittime come suo fratello Ernst erano milioni. Quello che gli era
successo potevo immaginarlo, non c'era bisogno di conferme. La nostra era
una missione disperata, ma era stato bello finché era durato. A quel punto
potevano contare solo sulla mia testimonianza.
La troupe televisiva arrivò puntuale. Ricordavo Rob dal nostro ultimo
incontro, e lui mi presentò Patrick. Al telefono mi aveva fatto una buona
impressione, e anche di persona era esattamente come l'avevo immaginato:
un uomo ponderato e sensibile. Fui felice di notare che indossavano
entrambi un papavero all'occhiello11. Spostarono un po' i mobili e
sistemarono le telecamere in modo da inquadrare uno scorcio della Hope
Valley dalla finestra alle mie spalle. Le telecamere erano due, una
decisamente più piccola dell'altra, e con le loro attrezzature il mio salotto si
tramutò in un piccolo studio televisivo. Mostrai loro il fucile che mio padre
mi aveva regalato da ragazzo e che tengo ancora appeso alla parete,
insieme alle mie foto da ragazzo in cui correvo come fantino. Audrey ci
servì un tè e mise tutti a proprio agio.
Io mi accomodai in poltrona, e Rob sedette davanti a me, pronto ad
intervistarmi. Cominciò chiedendomi della guerra nel deserto. Passammo
rapidamente in rassegna i combattimenti, la mia cattura, e la fuga dalla
nave colpita dai siluri; poi il periodo di prigionia in Italia e il trasferimento
prima in Germania e infine al campo E715, per lavorare con gli schiavi di
Auschwitz.
Mi domandò dello scambio con Hans, delle mie notti ad Auschwitz III,
dopodiché io cominciai a raccontare la storia di Ernst e delle sigarette che
avevo fatto arrivare di nascosto. Rispetto ai primi stentati tentativi, ora
parlare mi veniva più facile. Al termine della vicenda di Ernst e delle
sigarette facemmo una pausa per cambiare i nastri.
Restai seduto sulla mia poltrona, con il microfono ancora attaccato al
bavero, a guardare dalla finestra la valle che si estende fino a Bradwell
Edge. In passato avevo montato il mio cavallo, Ryedale, lungo quel rilievo
innumerevoli volte, e conoscevo ogni centimetro della zona. Ryedale era
uno stallone magnifico: un incrocio tra un Hannover e un arabo, un metro e
settantatré al garrese, il cavallo più intelligente che io abbia mai avuto.
Avevo persino comprato un pony Shetland nano chiamato Copper per
tenergli compagnia. Se Ryedale stava fermo, Copper era talmente piccolo
da passargli sotto la pancia. Quando morirono, scavai una fossa e li
seppellii entrambi nel campo davanti alla finestra. Con la vecchiaia ho
rinunciato all'equitazione, e adesso la collina dove un tempo andavo a
cavallo si è ridotta a semplice panorama, seppure ravvivato da un clima
burrascoso per buona parte dell'anno.
Quel giorno, mentre la troupe armeggiava con le attrezzature, avevo
l'impressione che dal paesaggio della collina fosse sbiadito ogni colore. Gli
alberi e i cespugli che le danno vita apparivano spenti. L'autunno non aveva
ancora incendiato le foglie delle piante decidue in fondo alla valle.
I tecnici riaccesero i riflettori e ci preparammo a riprendere l'intervista.
Dovevo riallacciare in fretta il filo dei pensieri. Rob mi stava nuovamente
chiedendo di Ernst, e della fine che ritenevo gli fosse toccata.
Come in un lampo, rividi i cadaveri imbiancati e irrigiditi dal gelo lungo
la marcia della morte, i corpi infagottati nelle divise a righe che avevo
scavalcato per chilometri e chilometri sessantaquattro anni prima. Risentii
11
Nei Paesi del Commonwealth, è il simbolo del remembrance Day, giornata in cui si commemorano i
caduti in battaglia (n.d.t.). quel freddo. Non avevo il minimo dubbio che Ernst fosse morto come tanti
altri. Stavo per cominciare il resoconto di quella marcia e di ciò che avevo
visto quando fui interrotto.
«Abbiamo fatto delle ulteriori ricerche», stava dicendo Rob. Si era
sporto in avanti sulla sedia, e mi stava consegnando qualcosa: «Ernst non è
morto».
Restai a bocca aperta, sforzandomi di capire. Rob stava dicendo che
Ernst era sopravvissuto alla marcia della morte. Mi aveva messo in mano
delle fotografie. Armeggiai per afferrare il monocolo che tengo appeso al
collo con un nastro rosso. Misi a fuoco il viso di un giovane di bell'aspetto.
Erano gli stessi lineamenti che ricordavo. I capelli gli erano ricresciuti, e il
suo fisico non era più scheletrico come un tempo, ma era proprio lui. Il
ragazzo che avevo incontrato tanti anni prima mi stava sorridendo dal
ritratto.
«Dio del cielo!». Non riuscii a dire altro.
Malgrado ostacoli insormontabili, Ernst ce l'aveva fatta. Secondo il
racconto di Rob, era riuscito chissà come a resistere, mentre tanti intorno a
lui morivano. In seguito era emigrato in America, dove aveva vissuto una
vita felice e ricca, e si era fatto una famiglia. Si era spento a settantasette
anni. Rob si chinò nuovamente in avanti, mettendomi in mano un breve
resoconto della sua vita.
«Dio del cielo», ripetei io, «è un miracolo».
C'erano foto di Ernst da piccolo insieme a una bambina. Doveva trattarsi
di Susanne. Poi altre di Ernst in anni successivi, con lo sguardo vispo che a
settant'anni può avere solo un uomo che ama ancora la vita. In una foto era
ritratto accanto a una donna attraente con un'ordinata chioma grigia e
un'espressione gentile. Ero senza parole.
Per un istante esultai, e l'istante dopo mi sentii abbattuto. Ernst era morto
solo sette anni prima. Lo sentivo tanto vicino in quel momento, e nel
contempo mi rendevo conto che non ci saremmo mai più rivisti. Ma la mia
mente stava già formulando un'altra domanda: com'era riuscito a
sopravvivere alla marcia della morte?
Capitolo 20
La troupe voleva fare delle riprese in esterni, così mi misi un maglione
pesante. Entrai e uscii più volte dall'inquadratura, aprendo e chiudendo il
cancello e ripetendo gli stessi gesti da angolature diverse. Diedi delle
caramelle ai miei due pony Shetland, Oscar e Timmy, che avevamo
riportato dalla Francia per salvarli dalla mannaia del macellaio: non
sopporto di veder soffrire gli animali. Le riprese non finivano mai. Ero
ancora incredulo. Ernst era sopravvissuto alla marcia della morte, ma
com'erano riusciti a scoprirlo?
Ventiquattro ore prima Rob e Patrick brancolavano ancora nel buio.
Erano arrivati a Solihull in una giornata uggiosa e deprimente,
parcheggiando davanti a un'accogliente casetta di periferia.
Avevano incontrato Andrew Warwick, i cui genitori abitavano ancora a
Tixall Road. L'uomo li aveva accolti in cucina e, appoggiato contro il
bancone, aveva ripetuto la storia del suo incontro casuale con la signora che
secondo lui doveva essere proprio la Susanne che stavamo cercando. Per
risparmiare tempo, li aveva accompagnati lui stesso in macchina in quel
locale.
Il Plum of Feathers era un pub ampio e grazioso, con una sala ristorante.
Era un affollato locale di città, non un pub di campagna in cui il personale
conosce per nome ogni avventore. Una delle bariste ricordava vagamente
un'anziana signora che somigliava alla descrizione e che andava spesso là a
pranzo con un'amica. Di solito sceglieva il tavolo accanto alla finestra, ma
era da parecchio che non si faceva vedere.
Come pista era piuttosto debole. Ormai era quasi mezzogiorno, e la coda
di anziani eleganti in attesa di ordinare il pranzo andava dal bancone fino
all'ingresso. A vederle così, una qualunque di quelle signore poteva
corrispondere all'identikit.
Rob e Patrick si intestardirono comunque a fare a tutti la stessa
domanda: avevano forse sentito parlare di un'anziana di nome Susanne,
fuggita ancora bambina dalla Germania poco prima della guerra? Stava
diventando una situazione ridicola. Lasciarono il loro numero di telefono al
bancone e uscirono nel parcheggio deserto con la coda tra le gambe. Patrick
propose di trovare una biblioteca e di controllare un'altra volta il registro
elettorale. Invece si diressero a Tixall Road per ringraziare i signori
Warwick del loro aiuto e fare qualche ripresa della casa. Avevano l'umore a
terra. Il nome riportato sul registro elettorale di una Susanne James
residente in Warwick Road otto anni prima era l'ultimo indizio rimasto.
Si avviarono in macchina. Rob cercava di decifrare la cartina senza gli
occhiali, e la teneva a distanza di un braccio. Patrick accostò al lato di una
larga via fiancheggiata dagli alberi. «Questa situazione è ridicola», disse,
chinandosi per leggere la mappa. «Secondo me dobbiamo andare da questa
parte», dichiarò poi, indicando con il dito sulla cartina mezza Birmingham.
Borbottò qualcosa su aghi e pagliai, fece manovra, e dopo qualche
chilometro i cartelli stradali tornarono a corrispondere ai nomi sulla mappa.
Avevano ritrovato la strada.
Anche se una Susanne era registrata a Warwick Road, c'erano
moltissime ragioni per cui non avrebbe più dovuto trovarsi in quella via.
Poteva non essere più in vita, o essere stata ricoverata in un ospizio. O,
visto che suo figlio viveva in America, poteva essersi trasferita là.
Rob e Patrick parcheggiarono dietro l'angolo dell'indirizzo di Warwick
Road, e si avviarono a piedi. Era una bella strada residenziale, prima che il
traffico la ingolfasse. Adesso è un'arteria trafficata, la A41 che collega
Birmingham a Solihull. Il passaggio continuo di veicoli ha creato una
specie di fossato nel bel mezzo del quartiere. Gli abitanti su un lato della
via non hanno molti contatti con quelli che stanno di fronte. Attraversare la
strada è un rischio. L'intonaco delle case è incrostato di polvere e di scorie
dei fumi di scarico, così come il fogliame delle siepi. Davanti ad alcune
case c'è un giardinetto dove nessuno esce mai: il rumore delle auto è troppo
assordante.
I due giornalisti controllarono l'indirizzo un'ultima volta, raggiunsero
l'ingresso e bussarono con decisione alla porta. Nessuna risposta. Tentarono
di nuovo. Ancora niente. Passarono alla casa accanto, ripetendo gli stessi
gesti, e ottenendo lo stesso risultato. Nel bel mezzo di una giornata feriale, i
residenti erano tutti al lavoro. Proseguirono così da un capo all'altro della
via, senza mai trovare nessuno. Era il tipo di giornalismo investigativo
porta a porta che ormai non usa più, e il motivo era evidente.
Restava un'ultima porta alla quale bussare, e questa volta trovarono
qualcuno. Sentirono lo scatto di svariate serrature, la porta si aprì in uno
spiraglio, e un uomo di mezza età li scrutò diffidente dalla fessura: quello
non era il tipo di quartiere dove i vicini passavano a trovarti senza
preavviso.
Rob e Patrick sorrisero, e cominciarono a spiegare il motivo della visita.
Erano giornalisti e stavano cercando una signora anziana di nome Susanne,
forse Susanne James, fuggita dalla Germania prima della guerra. Da
principio l'uomo si tenne sulle sue, ma poi sembrò rilassarsi e allargò lo
spiraglio della porta. Loro gli mostrarono i documenti, cercando di
rassicurarlo. L'uomo era incuriosito da quegli ospiti inaspettati. Disse di
ricordare una vicina che si chiamava Susanne James, che però si era
trasferita alcuni anni prima.
«Crede che sia ancora viva?», gli domandarono.
«A quanto ne so, sì», rispose lui. I due sulla soglia tirarono un lungo
sospiro di sollievo. «Perché la cercate?», chiese l'uomo.
I giornalisti gli spiegarono brevemente la situazione, e gli garantirono
che lei sarebbe stata felice di essere rintracciata. La questione aveva a che
fare con suo fratello, e con la guerra. Seguì il silenzio. L'uomo li valutava
con lo sguardo.
«Sarà meglio che vi accomodiate», disse. Entrarono in un'anticamera
stretta. Sul pavimento c'era un computer ancora dentro alla scatola
circondato da un intrico di cavi. Il momento evidentemente non era dei più
indicati. La scala era tappezzata da scaffali zeppi di libri. L'uomo si
chiamava Michael, e cominciava a trovare Rob e Patrick piuttosto
simpatici. Ma aveva un sorriso sospettoso, come se fosse alle prese con un
paio di monelli, e non riuscisse a decidere se assecondarli o buttarli fuori a
calci. Loro continuarono a parlare, per creare un'atmosfera amichevole. E
poi Michael mise le sue carte in tavola: «A dire la verità, conosco piuttosto
bene Susanne James. Le nostre famiglie sono state vicine di casa per molti
anni».
Patrick riuscì quasi a stamparsi in faccia un sorriso. Seguì un altro
silenzio. Per un momento Michael restò a guardare il tappeto, mordendosi
un labbro. Ancora non sapeva che fare. Con delicatezza, Rob lo incalzò:
«In che modo potremmo metterci in contatto con lei?», domandò. Ci fu
un'altra pausa prima che Michael prendesse la sua decisione.
«Vuole che le telefoni?», chiese.
La domanda era retorica. Michael controllò il numero, poi lo compose.
Qualcuno all'altro capo rispose, e lui cominciò a spiegare la situazione, ma
presto incespicò, e si rivolse a Rob: «Perché non gliene parla lei? Gliela
passo», disse.
Allungò il ricevitore. Rob sentì la voce garbata e amichevole di una
signora anziana. Avevano trovato la ragazza che avevo incontrato
sessantaquattro anni prima, quando lottavo per non perdere la ragione. Era
arrivata dalla Germania con un Kindertransport nel giugno del 1939, a soli
quindici anni. In un giorno uggioso a Solihull, una telefonata imprevista
cominciò a dipanare il mistero.
Michael aveva avvertito i due giornalisti che avevano a che fare con una
donna molto timida, ma quel giorno Susanne superò d'un balzo tutte le sue
paure. Diede loro il suo indirizzo, e li invitò ad andare subito a trovarla.
Rob le propose un appuntamento nel giro un paio d'ore, per darle modo di
riflettere. Non voleva farle pressione.
Per ammazzare il tempo, i due guidarono per un po' lungo la strada, e si
fermarono in un locale mediorientale, con dei tavolini di formica
scheggiati. Ordinarono falafel con insalata, e Rob una bella tazza di tè
forte. Aveva il sorriso stampato in faccia, e non riusciva a stare fermo.
Patrick, posato e con la testa sulle spalle, pensava alle questioni pratiche,
cercando di convincersi che quello era un servizio come qualsiasi altro. Era
un suo trucco per evitare delusioni. Era il caso di riprendere l'incontro, o
c'era il rischio che la videocamera spaventasse l'anziana signora, ancora
ignara di cosa volessero da lei? Nessuno dei due osava credere fino in
fondo a quel colpo di fortuna. Rob cominciava a straparlare: «Secondo me
è fatta. Tu che ne dici, è fatta?».
Patrick, che era stato fino a poco tempo prima un importante produttore
di Baghdad, diffidava di quell'esultanza prematura. Scelse attentamente le
parole e, nel suo caldo accento di Blackburn, disse: «Aspettiamo di vedere
come va, ok?».
Raggiunsero in macchina un tranquillo quartiere residenziale con
giardinetti ben curati. Susanne anziana, minuta, con i capelli bianchi ben
pettinati e un'espressione cordiale era uscita ad accoglierli sul sentiero di
casa. Rob accese la videocamera, sperando di registrare quel primo
incontro, poi decise che il momento era troppo prezioso, e preferì
presentarsi.
«Non so dirle quanto siamo felici di averla trovata», disse non appena
furono entrati in casa e si furono accomodati sul divano.
Non credo fosse mai stato davvero convinto di poterla rintracciare e, ciò
nonostante, non si era arreso. Quanto a Susanne, quella telefonata l'aveva
colta di sorpresa, ma non avendo avuto il tempo di rifletterci troppo, aveva
semplicemente accettato la situazione. Offrì loro una tazza di tè, si misero
tutti comodi, e lei cominciò a raccontare la sua storia.
Era nata nel 1923 a Breslavia, una bella città medievale, che allora
faceva parte della Germania. Il suo vero nome era Susanne Lobethal, e
abitava in Goethestrasse 45-47. Veniva da una famiglia ebraica benestante,
ma dopo che il padre li aveva abbandonati la vita era stata dura. Poi, alla
vigilia della guerra, Susanne aveva ottenuto un posto su un Kindertransport
diretto in Inghilterra. Ernst non era stato altrettanto fortunato. Era rimasto
in Germania ed era stato deportato ad Auschwitz nel gennaio del 1943.
Ora i due giornalisti cominciavano a capire perché rintracciarla si fosse
rivelato tanto difficile. Risultò che in Inghilterra lei non aveva mai adottato
il cognome Cottrell. Mi ero sbagliato, dandolo per scontato, per quanto
Susanne avesse sempre considerato Ida Cottrell, che l'aveva accolta in casa,
come una figura materna. Susanne aveva preso la cittadinanza inglese dopo
la guerra, e abbreviato il suo cognome in Bethal, un nome nel quale non ci
eravamo mai imbattuti nel corso delle nostre ricerche. Era quello l'anello
mancante nella catena di indizi, e se la famiglia Warwick non ci avesse
indicato il suo cognome da sposata, James, non saremmo mai riusciti a
trovarla. A confondere ulteriormente le cose, il suo primo marito era morto
nel 1994 e Susanne si era risposata, cambiando nuovamente cognome. Il
secondo marito, Richard, che purtroppo sarebbe deceduto un anno dopo,
sedeva sulla sua poltrona e seguiva la conversazione con un certo
sconcerto, ma contento di tanta animazione.
I due giornalisti non riuscirono a convincere Susanne a farsi riprendere
per un'intervista televisiva. Era davvero schiva, evidentemente.
«Oh, vengo malissimo in fotografia», si schermì. Non era vero. Era una
nonnina perfetta.
Seduta accanto a Rob e Patrick sul divano, confermò ciò che loro
avevano a stento osato sognare. Contro ogni previsione, suo fratello era
sopravvissuto. Era scampato ad Auschwitz e alla marcia della morte.
"Ernie", come lo chiamava adesso, aveva sopportato sofferenze enormi, ma
ce l'aveva fatta, e questo aveva qualcosa a che fare con le sigarette. Non si
erano visti per molti anni dopo la guerra, e anche in seguito solo di rado.
Lui era diventato un cittadino americano e, come sua sorella, aveva
abbreviato il cognome. Ma se lei era diventata Bethal, lui era diventato
Ernie Lobet.
Susanne ricordava la lettera e le sigarette inviate ad Auschwitz attraverso
l'inaffidabile servizio postale della guerra, ma poco altro. Sospettava di
avere contribuito alla sopravvivenza del fratello, ma non sapeva
esattamente come. Ricordava di avere incontrato un soldato inglese nel
1945, un uomo alto e bizzarro tornato dalla prigionia che l'aveva cercata
per dirle che le sigarette erano arrivate a destinazione. Quello ero io.
Avevo vissuto una dura esperienza di guerra e una prigionia drammatica,
e avevo attraversato a piedi mezza Europa per tornare a casa. Ci ero
arrivato denutrito e a un passo dal perdere la ragione. Ripensandoci oggi,
credo di averle fatto un'impressione terribile quel giorno, e di non avere
contribuito in nulla ad alleviare la sua angoscia. Sessantaquattro anni prima
ero entrato nella sua vita e ne ero uscito senza lasciare traccia.
Alle riprese seguì una lunga fase di stallo. Rob e Patrick li sentivo di
rado, e cominciavo a domandarmi cosa stessero combinando. A quel punto
il figlio di Susanne, Peter, che viveva con la moglie negli Stati Uniti,
assunse un ruolo centrale nella vicenda. Susanne aveva informato i due
giornalisti che Ernst aveva rilasciato un'intervista filmata sulla sua vita allo
Shoah Foundation Institute della University of Southern California,
un'associazione che raccoglie testimonianze video dei sopravvissuti
all'Olocausto. Nel corso degli anni questa fondazione ha accumulato un
vasto archivio delle più atroci testimonianze del secolo. Peter aveva una
copia dell'intervista registrata da Ernie come lo chiamerò da qui in avanti
nel 1995.
Quando Rob telefonò a Peter in America, scoprì che Susanne,
impaziente di raccontare al figlio la visita dei giornalisti, l'aveva battuto sul
tempo. Rob riferì a Peter la storia così come la conosceva al momento, e gli
domandò di verificare se nella sua intervista Ernie avesse accennato, se
pure di sfuggita, a un prigioniero di guerra inglese che poteva averlo aiutato
quand'era internato ad Auschwitz.
Avevo avvertito Rob che al campo non usavo mai il mio vero nome.
Quando capitava di doversi identificare, dicevo di chiamarmi Ginger. Rob
riferì il dettaglio a Peter, che ricordava lo zio con grande affetto. Lui
accettò di guardare l'intervista, un filmato che durava diverse ore.
Un paio di giorni dopo, uscito dal lavoro più tardi del solito, Rob
aspettava il treno alla stazione londinese di Blackfriars. Era già buio,
l'inverno si avvicinava, e il vento prometteva pioggia. Per passare il tempo
Rob aveva passeggiato fino in fondo alla banchina, che si inarca sopra il
Tamigi, a godersi il panorama. Stava guardando la cupola della cattedrale
di Saint Paul oltre le luci riflesse sulla superficie nera del fiume, quando il
suo cellulare squillò.
Sopra al fruscio tipico delle chiamate internazionali, sentì la voce di
Peter: «Ho guardato il video, è pazzesco», disse. «Rob, devi vederlo di
persona».
Capitolo 21
Dopo tanto tempo, morivo dalla voglia di parlare con Susanne. Dovevo
sapere cosa era accaduto a Ernie, e come fosse riuscito a sopravvivere.
Desideravo anche spiegarle il mio strano comportamento di tanti anni
prima.
Rob non voleva che ci parlassimo al telefono. Disse che avrebbe
organizzato un incontro, e che voleva filmare il momento in cui ci saremmo
rivisti. Considerato tutto quello che aveva fatto per me fino a quel
momento, acconsentii.
Poi mi telefonò per avvertirmi che ci sarebbe stato un ritardo. Susanne
voleva aspettare l'arrivo di suo figlio Peter e della moglie Lynn dagli Stati
Uniti. Il viaggio era previsto nel giro di qualche settimana, e a quel punto
sarebbero venuti tutti e tre insieme a trovarmi nel Derbyshire. Mi sembrava
una buona idea. A pochi giorni dalla data prefissata, Rob mi telefonò e, per
le riprese, mi propose di andare tutti a pranzo al pub. Io non ne vedevo il
motivo, e non volevo che il nostro incontro avvenisse in un luogo pubblico.
Audrey era disposta a cucinare per noi: cos'altro si poteva desiderare di
meglio? In seguito Rob mi confessò il suo timore che, dopo tanti anni, io e
Susanne non avessimo poi molto da dirci. Era una preoccupazione
comprensibile. Non eravamo amici nemmeno nel 1945. Io ero andato a
parlarle per senso del dovere, e poi mi ero reso conto che non avevo nulla
di confortante da dirle. Dopo sessantaquattro anni persino gli amici intimi
devono rifare un po' conoscenza: noi avremmo dovuto partire da zero.
Arrivò il giorno prestabilito. Io volevo fare una buona impressione, così
indossai un foulard di seta blu e oro, con un panciotto ricamato. Non mi
sono mai preoccupato molto del mio abbigliamento, ma loro venivano da
molto lontano solo per vedermi, e sicuramente mi avrebbero trovato molto
invecchiato.
Rob, Patrick e i cameramen arrivarono in anticipo. Audrey offrì loro un
tè e ci sedemmo a chiacchierare. Erano più nervosi di me. Il cellulare di
Rob squillò, e lui uscì per cercare campo. Durante la notte aveva piovuto, e
l'aria era umida. Quando rientrò disse che l'auto era arrivata, poi tornò fuori
per ricevere i nostri ospiti all'ingresso.
Io non intendevo certo aspettare che suonassero il campanello, così uscii
a mia volta, e la vidi. Indossava un cappotto grigio con il colletto di
pelliccia e un foulard rosso. Sessant'anni sono tanti, ma lei camminava a
passo spedito lungo il vialetto del giardino, insieme a suo figlio e alla nuora
Lynn. Salì i gradini della soglia, alzò gli occhi, sorrise e disse:
«Buongiorno». Io la presi per mano quando arrivò alla porta, e finalmente
potei vederla da vicino.
«Susanne», feci, chinandomi a baciarla, prima su una guancia e poi
sull'altra. «Come stai, tesoro?
«È magnifico rivederti», rispose. «Magnifico».
Ora le tenevo entrambe le mani, perché potessimo guardarci bene in
faccia. «Sono passati più di sessant'anni», dissi. «Più di sessant'anni». Poi li
invitai a entrare.
«Hai una casa splendida», fece Susanne, ammirando la vista dalla
finestra. «Sono davvero felice per te».
Mi avevano avvertito che era una donna molto timida, ma a me non
sembrava. In seguito mi spiegò che lungo il tragitto in auto, le colline
ondulate del Peak District le avevano sollevato l'umore, e l'avevano
rilassata.
«Eri più alta quanto ti ho conosciuta», dissi scherzando.
«Mi sono ristretta parecchio», rispose.
«Oh, benvenuta nel club».
«Tu sì che eri altissimo», aggiunse lei. «Era l'unica cosa che mi
ricordavo di te».
Santo cielo, dopo tanto tempo era fantastico rivederla, ma stava
accadendo tutto troppo in fretta. Sentivo che il nostro strano incontro del
1945 si frapponeva ancora tra noi, e volevo levarmi quel peso dallo
stomaco.
«Ho cercato di ricordare che cosa ti dissi, e temo di essermi comportato
malissimo, stavo talmente male che non sono riuscito a spiegarti niente, né
a spiegarti ciò che provavo».
Lei annuì.
Parlammo delle lettere scritte a mia madre, delle sigarette che Susanne
mi aveva spedito per Ernie, di tutto. «Facesti un lavoro magnifico», le dissi.
«Quelle sigarette furono una miniera d'oro per Ernst». Allora lo chiamavo
ancora con il suo vero nome.
«Era il minimo che potessi fare», replicò lei. «Mio fratello era un
ragazzo adorabile. Aveva un cuore d'oro, non si poteva fare a meno di
volergli bene».
Le raccontai di quando l'avevano quasi colto in flagrante nella Bude, la
baracca nel cantiere della IG Farben. Sapevo che era un ragazzo sveglio.
Non aveva affatto perso la calma.
«Be', è straordinario» disse lei. «E in tutti questi anni non avevi mai
saputo che era sopravvissuto?»
«Non ne sapevo niente», ammisi.
«Santo cielo, quanto tempo è passato!». Mi guardò, e aggiunse: «Vorrei
solo che fosse qui con noi oggi».
«Oh, anch'io», risposi.
Impiegai un paio di secondi per comprendere appieno il significato di
quelle parole. Lui aveva vissuto in America per tutto quel tempo, sarebbe
stato così facile incontrarci. Ero a metà della frase successiva, quando la
realtà di quella perdita mi colpì nella sua totalità. Drizzai le spalle e mi
sforzai di terminare la frase. «Mi piacerebbe avere una sua foto», dissi, «e
anche riuscire a parlare con la sua famiglia».
«Ne saranno felicissimi», rispose lei, ma non fui in grado di sentire altro.
Di colpo, la situazione mi aveva sopraffatto: le notizie sul conto di Ernie,
quei ricordi terribili, e le emozioni tenute dentro per decenni. Un nodo mi
strinse la gola, e mi coprii il volto con le mani. Ero piegato in due, come se
avessi ricevuto un colpo allo stomaco, chinato davanti a una donna che
conoscevo appena, mentre sentivo salirmi agli occhi le lacrime mai versate.
«Mi dispiace», dissi, e mi si incrinò la voce. Ero ancora chinato quando
sentii la mano di Susanne sulla spalla.
Nessuno aprì bocca per un po'. Poi una voce interruppe il silenzio,
suggerendo che ci mettessimo seduti e ci rilassassimo. Qualcuno disse di
preparare un tè. Era una cosa da fare. Ero di nuovo il padrone di casa. Feci
qualche respiro profondo, ritrovai la calma, sistemai i cuscini sul divano e
invitai tutti ad accomodarsi.
Adesso era più facile. Lynn cominciò a parlare a ruota libera. Disse di
avere saputo della mia esistenza fin dal suo primo incontro con Peter, tanti
anni prima. Ernie aveva parlato loro di un prigioniero inglese di nome
Ginger.
«Ho sempre saputo della tua esistenza», ripeté Lynn. «Solo non
sapevamo che ti chiamassi Denis». Mi disse di quando Ernie aveva
raccontato loro quella storia, durante un fine settimana. «Non so spiegarti
quanto avesse significato per lui. Quando ce ne parlò, erano passati
quarant'anni dai fatti. Per Ernie era stato fondamentale avere la certezza che
Susanne lo sapesse ancora vivo». Poi proseguì: «Nessuno amava la vita più
di Ernie. Era un tale spasso, un grande affabulatore. Dopo quell'esperienza,
ha avuto una vita meravigliosa».
Susanne aveva cercato pazientemente di darmi qualcosa. Ora, con un
piccolo incoraggiamento, e parlando in tono piuttosto formale, come se si
fosse preparata il discorso, colse la sua occasione: «È un grande piacere per
me consegnarti questo filmato registrato da Ernie nel 1995», disse,
mettendomi tra le mani un DVD.
Era, spiegò Peter, un breve estratto della storia della vita di Ernie,
registrata per la Shoah Foundation. «Denis, devi vederlo».
Salimmo la scala a chioccola che porta al piano ammezzato dove per
tradizione apriamo i regali di Natale e ci godiamo un bicchierino o due con
amici e parenti. Io crollai a sedere accanto a Susanne e gli altri inserirono il
DVD nel lettore.
Dopo qualche istante apparve un'immagine, ed eccolo, il viso di Ernst
immobile sullo schermo. Aveva una settantina d'anni, e sembrava in forma.
La sua folta chioma grigia era pettinata all'indietro sulla fronte, e lui
indossava una camicia blu elegante e senza cravatta. Riconobbi la stessa
espressione amichevole che avevo visto nelle foto, e davanti agli occhi mi
passarono come un lampo le immagini del ragazzo che avevo conosciuto.
Era seduto in una stanza con le pareti tappezzate di libri e una piccola
lampada da lettura dietro la spalla destra.
Immagino che a quel punto fosse a metà del suo racconto su Auschwitz,
perché non sorrideva. «Oh, eccolo», disse Susanne, vedendo il suo volto.
Era la prima volta che assisteva all'intervista, e pensai che per lei non
sarebbe stato facile. Ernie era suo fratello, ma avremmo vissuto
quell'esperienza insieme. Di colpo l'immagine si animò, e Ernie cominciò a
parlare guardandoci dritto negli occhi.
Stava raccontando un'altra straordinaria peripezia di due ebrei cechi,
originari di Praga, divenuti amici di un civile che di nascosto dava loro il
cibo spedito dalle loro fidanzate fuori del campo. Come preambolo era
avvincente.
Lentamente la storia assumeva un contorno familiare, e io cominciavo a
presentire dove Ernie stesse andando a parare. «Mi capitò un altro colpo di
fortuna», gli sentii dire. Stava consegnando il rancio a degli operai civili
tedeschi. D'un tratto compresi. Avevo sempre pensato che avesse il ruolo
del corriere, e adesso ne avevo la riprova. Ecco perché riusciva a spostarsi
all'interno del campo un po' più liberamente degli altri detenuti. Stava
raccontando che aveva tentato di avvicinare alcuni prigionieri di guerra
inglesi. Voleva informarli che aveva una sorella in Gran Bretagna. Disse di
avere osservato a lungo un prigioniero in particolare, che indossava
un'uniforme color cachi. Mi resi conto che stava descrivendo me.
Raccontò che un giorno quel soldato stava saldando dei pezzi, e lui
aveva atteso che gettasse a terra il mozzicone di una sigaretta. Tutto
tornava. Rivivevo il momento mentre lo raccontava. Stava descrivendo
quel nostro primo, impacciato incontro, una vita fa.
Ernst si era presentato, e poi aveva chiesto al soldato il suo nome.
Afferrai la mano di Susanne. La risposta era stata: «Ginger».
«Gingy», gli feci eco io, sentendo risuonare nelle orecchie il modo in cui
l'aveva pronunciato Ernst la prima volta.
Mentre parlava, il volto di Ernie si era illuminato. Descrivendo i capelli
rossi di "Ginger", chinò la testa di lato, con gli occhi un po' persi, come se
li stesse rivedendo. Rammentando quant'era giovane quel soldato, agli
angoli della bocca gli era spuntato un sorriso affettuoso.
In qualche dettaglio i suoi ricordi differivano dai miei. Secondo lui
avevo scritto l'indirizzo su un foglietto. Io ero sicuro di averlo
memorizzato, ma comunque la sostanza era chiara come la luce del sole: si
ricordava di me, era questa la cosa importante.
Raccontò tutta la storia così come l'ho riportata in questo libro. Ricordò
che per qualche tempo, di nascosto, gli avevo allungato una sigaretta di
tanto in tanto, e poi qualche mese dopo gli avevo fatto capire a gesti che
volevo scambiare qualche parola con lui. Parlava più lentamente a mano a
mano che il racconto giungeva alla sua conclusione: «Mi consegnò una
lettera», disse con un sospiro strozzato, e deglutendo per trattenere la
commozione, «insieme a dieci pacchetti di sigarette e a una barretta di
cioccolato, da parte di mia sorella». Gli luccicavano gli occhi.
Ed eccoci là: Audrey, io e Susanne, insieme a Peter e a sua moglie, ad
ascoltare il racconto di Ernie nella mia casa del Derbyshire, a
sessantacinque anni di distanza. Come un messaggio dall'oltretomba.
Disse che a quel tempo non poteva sapere se era stato l'unico al quale
fosse toccato un simile colpo di fortuna, perché non poteva confidarlo a
nessuno. Sapeva che parlandone metteva a repentaglio la mia vita, oltre alla
sua, e così aveva taciuto. Ero commosso.
Il mio gesto mi sembrava irrilevante rispetto alle atrocità che Ernie aveva
subìto, eppure, sentendolo parlare, compresi quanto avesse significato per
lui. «Dieci pacchetti di sigarette», disse, come per sottolinearlo di nuovo.
«Fu come se mi avessero regalato il Rockefeller Center».
Era internato ad Auschwitz III, nel 1944, a un passo dallo sterminio, e io
gli avevo fatto avere una lettera da sua sorella in Inghilterra. Ripetendolo
cinquant'anni dopo sembrava incredulo come allora, proprio nello stesso
modo in cui lo ricordavo io in quel momento.
Ma com'era sopravvissuto alla marcia della morte? Ancora non l'aveva
spiegato. Sistemai il mio apparecchio acustico per non perdere nemmeno
una parola del resoconto sul modo in cui aveva impiegato quelle sigarette.
Molte le aveva barattate in cambio di quelli che definì «favori futuri»,
ma persino ad Auschwitz Ernie aveva conservato intatta la sua generosità:
ne aveva regalate alcune a un amico che chiamò Maki, altre a un uomo
deportato da Breslavia sul suo stesso convoglio, per aiutarlo, e alcune al
suo kapò, senz'altro per ottenerne la protezione. Poi arrivò al punto.
«Le suole delle mie scarpe erano logore, quasi inesistenti», disse.
«Naturalmente, al campo c'erano dei ciabattini, e con due pacchetti di
Players inglesi potei pagarmi delle suole resistenti da adattare a un paio di
stivali». Il quadro cominciava a delinearsi. «Quelle scarpe», disse, «mi
salvarono la vita durante la marcia della morte del 1945».
Eccola, la risposta, pura e semplice. Erano state le scarpe. Uscendo dal
campo avevo scavalcato tutti quei cadaveri, chi fucilato perché era caduto,
chi perché aveva i piedi assiderati, chi perché se li era feriti camminando
con quegli zoccoli di legno e aveva rallentato il passo, restando indietro.
Ernie aveva usato le sigarette per ottenere l'unica cosa che poteva fare la
differenza tra la vita e la morte: un paio di stivali resistenti.
Spiegò quant'era stato fortunato rispetto ad altri nel campo. Durante
l'avvicinamento dei russi, quando le SS si preparavano a evacuare
Auschwitz, lui era in condizioni migliori di molti suoi compagni: parlava
tedesco, aveva messo da parte un po' di pane, aveva sigarette da scambiare
e scarpe adatte a una lunga marcia. Quando le SS li radunarono per uscire,
aveva deciso che la posizione migliore sarebbe stata quella in testa alla
colonna. Sapeva che, dovunque fossero diretti, un eventuale rifugio non
sarebbe bastato a ospitarli tutti. Quelli in coda si sarebbero trovati a
dormire fuori, sul ghiaccio.
Descrisse la neve alta e la morsa del freddo, come io stesso li ricordavo.
Calcolava che diecimila prigionieri fossero stati trascinati fuori da
Auschwitz III, insieme ad altri trentamila provenienti dal campo centrale.
In quel giorno terribile, sotto il tiro dei fucili, si erano incamminati per
coprire gli oltre sessanta chilometri che li separavano da Gleiwitz. In pieno
inverno, coperti solo di stracci, malati e denutriti, per la stragrande
maggioranza di loro la fatica si era rivelata insostenibile. «Cadevano come
mosche», disse. «E chiunque cadeva, veniva fucilato».
«Aveva un'espressione così triste», esclamò Susanne, appena il filmato
terminò. «Ha rivissuto tutta la vicenda».
Vollero subito sapere le mie reazioni, ma io non riuscivo a trovare le
parole. Ero troppo felice che si fosse ricordato di me, e di avere contribuito
alla sua sopravvivenza.
«Non gliel'avevo mai sentita raccontare», disse Susanne. «È una storia
meravigliosa».
Solo allora mi resi conto che era stata una rivelazione anche per lei.
Aveva fatto ciò che poteva, ma non aveva mai saputo fino in fondo che
quelle sigarette spedite di nascosto avevano aiutato suo fratello a tenersi in
vita.
«Non potevo fare molto durante la guerra», mi confidò. «Ma sono felice
che quel poco sia servito».
Si interruppe per un istante, poi mi augurò una vita lunga e felice, il che
alla mia età vuol dire molto.
Le raccontai dei miei vani tentativi di rintracciarla dopo la guerra, per
riappacificarmi con lei una volta ritrovato il mio equilibrio. «Mi dispiace
che non ci siamo tenuti in contatto», le dissi.
«Sì», rispose lei. «Sarebbe stato bello, quando eravamo più giovani».
Capitolo 22
Alla sua prima messa in onda, la mia storia suscitò un certo scalpore.
Gente che non sentivo da decenni si rimise in contatto con me. La
telefonata che più mi fece piacere fu quella di Henry Kamm, un ex
corrispondente del «New York Times» e vincitore del premio Pulitzer, che
ora vive in un mulino ristrutturato nel Sud della Francia. Come ogni
mattina si era seduto al computer, si era collegato al notiziario del BBC
World Service, e aveva visto il servizio di Rob su un prigioniero di guerra
inglese internato ad Auschwitz. Gli si erano rizzate le orecchie sentendo
citare un ebreo di nome Ernst, e si era reso conto che si trattava del suo
vecchio amico Ernie Lobet. Fui felicissimo di sentirlo, e le sue generose
parole di gratitudine per l'aiuto che avevo offerto a Ernst mi risollevarono il
morale. Poco dopo ricevetti un pacchetto dalla Francia, e aprendolo trovai
delle copie del suo libro. Aprii un volume, e proprio sul frontespizio trovai
una toccante dedica scritta di suo pugno per me. Non intendo riportarle qui,
ma sono parole che avrò care per il resto dei miei giorni.
Da allora il telefono non ha più smesso di squillare. Sono stato invitato
due volte a Downing Street, ho pranzato alla Camera dei Lord, e parlato
davanti un folto pubblico sia alla Cambridge Union sia alla Chabat Society
che riunisce gli studenti ebrei dell'Università di Oxford.
Nel corso dei mesi ho rilasciato innumerevoli interviste per la radio, la
televisione e i giornali, riscuotendo un'attenzione ben al di là delle mie
aspettative. Ho avuto l'onore di essere contattato dalla Raoul Wallenberg
Foundation, un'associazione non governativa che mi ha voluto tributare un
riconoscimento per il mio impegno civile, e ha incaricato l'artista Felix de
la Concha di farmi il ritratto. Audrey mi aveva domandato subito se, prima
della vernice, qualcuno mi avrebbe dato una mano di antiruggine.
Ho tenuto conferenze nelle scuole e ho partecipato a una cena
dell'Holocaust Educational Trust, in una sfarzosa sala ricevimenti di
Londra, una settimana dopo che uno specialista mi aveva detto senza mezzi
termini che stavo per perdere la vista anche dall'occhio sinistro. Così, ligio
agli ordini del dottore, sono salito sul podio indossando il blazer, la
cravatta, e un bel paio di occhiali scuri per proteggere il mio occhio dai
riflettori. Rob mi ha confidato che sembravo una versione invecchiata di
Jack Nicholson in una giornata storta. E anche che il discorso doveva
essere stringato, perché il tempo a mia disposizione era poco, e dunque
dovevo arrivare dritto al punto. Quando sono salito sul podio e ho
cominciato a raccontare la mia storia a partire dalla guerra in Egitto, ha
temuto che li avrei tenuti lì tutta notte, ma in fin dei conti me la sono cavata
in poco più di dieci minuti, che per me è quasi un record. Adesso che riesco
a parlarne, ogni volta sento il dovere di spiegare tutto da capo.
Risultò poi che quegli occhiali scuri erano superflui; qualche settimana
dopo chiesi un secondo consulto, e mi dissero che il mio occhio mi avrebbe
accompagnato fino alla fine dei miei giorni. Cos'altro si può desiderare, alla
mia età?
Ero preso in un turbinio di attività. A quel punto Rob mi aveva già
convinto a scrivere questo libro, e mi teneva sotto torchio, scavando negli
angoli più reconditi della mia memoria che ancora mi ero trattenuto
dall'esplorare. È stato un processo difficile, catartico e doloroso in pari
misura, ma l'oscurità si va dissolvendo, e ricordare diventa sempre più
facile.
Proseguendo nelle sue ricerche, Rob ha più volte messo alla prova i
meccanismi della mia memoria. Continuava a chiedermi se ero proprio
sicuro di avere visto quella scritta, Arbeit Macht Frei, sopra i cancelli di
Auschwitz III-Monowitz. Io non avevo dubbi, ma lui diceva che alcuni
esperti mi contraddicevano, e oggi non è rimasto alcun sopravvissuto di
quella parte del campo in grado di testimoniare e dirimere la questione. La
scritta che conosciamo tutti si trovava all'ingresso del campo principale,
Auschwitz I. Dopo più di sessant'anni, è quella che si è impressa a fuoco
nella memoria collettiva, ma in realtà molti campi avevano la stessa
insegna. Rob disse che il più autorevole resoconto di prigionia nel campo
quello dello scrittore sopravvissuto Primo Levi citava l'insegna di
Auschwitz III più di una volta, ma il responsabile delle ricerche
dell'archivio di Auschwitz non era convinto. La discrepanza indusse Rob a
continuare a scandagliare i miei ricordi. Non sono rimasti in molti quelli ai
quali poterlo chiedere. Poi accadde qualcosa di imprevisto. Incontrai un
altro superstite di quello stesso campo che viveva nel Regno Unito. Era un
uomo magnifico, di nome Freddie Knoller, e con ogni probabilità
lavorammo fianco a fianco al sito della IG Farben, senza mai conoscerci.
Rob si rivolse anche a lui, e Freddie non aveva alcun dubbio in merito a
quell'insegna orribile. Io l'avevo vista solo un paio di volte, e di sfuggita,
ma lui aveva marciato attraverso quel cancello tutti i giorni.
Avevo sempre desiderato conoscere la storia di Ernie. Ora che sapevo
che ce l'aveva fatta, volevo conoscere ogni dettaglio della sua vita dopo
Auschwitz, e in America. Rob mi aveva mostrato un estratto del lungo
video della Shoah Foundation, ma solo la sezione nella quale Ernie parlava
di me, delle sigarette e dell'inizio della marcia della morte. Disse di volere
portare a termine tutte le interviste prima di mostrarmi per intero la storia di
Ernie. Avrei dovuto pazientare un altro po'.
Cominciarono le ricerche, e poi, un giorno dell'estate del 2010, Rob
arrivò in macchina nel Derbyshire per comunicarmi una notizia strabiliante.
Questa volta non riguardava Auschwitz, ma un evento precedente, che
risaliva al 1941: il siluramento della nave al quale ero scampato tuffandomi
nel Mediterraneo.
Disse che, secondo la documentazione, gli italiani avevano perso molte
navi cargo nel Mediterrano in quei mesi, ma che soltanto una di queste
corrispondeva alla mia descrizione: le altre erano affondate a coordinate o
in date diverse.
Era convinto che la mia nave fosse la Sebastiano Venier, nota anche
come Giasone. Dispiegò sul mio tavolo da pranzo mappe nautiche e
registri, e li passammo meticolosamente al setaccio. Per me fu una
rivelazione.
Il 9 dicembre del 1941 la Sebastiano Venier fu colpita da un siluro
sparato da uno dei nostri sommergibili, l'HMSPorpoise, sotto il comando
del tenente comandante Pizey. Centinaia di soldati alleati, molti dei quali
neozelandesi, rimasero uccisi. Si trattò di uno dei casi peggiori della storia
di quello che oggi definiremmo "fuoco amico", ma allora i calcoli erano più
sbrigativi: i prigionieri non servono a vincere una guerra, e le imbarcazioni
nemiche contribuivano a rifornire Rommel. A prescindere da quanti
prigionieri ci andassero di mezzo, le navi dovevano essere affondate per
salvare la vita dei soldati ancora attivi sui campi di battaglia. Bisognava
pensare al bene comune, anche a costo di sacrificare i singoli. E furono
uomini come noi a pagarne lo scotto.
Questa era la brutta notizia. In stiva, soprattutto nel punto centrato dal
siluro, il massacro era stato agghiacciante, ma Rob aveva scoperto che non
tutti i prigionieri a bordo erano morti, e anzi la maggior parte di loro era
sopravvissuta. Non riuscivo a crederci, mi sembrava impossibile.
Io mi ero arrampicato sul ponte pochi istanti dopo lo scoppio del siluro, e
mi ero buttato in mare senza pensarci un attimo, nuotando freneticamente
per staccarmi il più possibile dalla nave colpita. L'avevo vista allontanarsi,
con la prua che sprofondava sempre di più sotto il pelo dell'acqua, finché
era sparita. Ero sicuro che fosse colata a picco con tutti quei poveretti
intrappolati all'interno.
Ricordavo che il mare si era alzato, impedendomi di distinguere
alcunché al di là dalle onde. Poi aveva fatto irruzione il cacciatorpediniere
italiano, falciando i pochi superstiti rimasti in acqua e sganciando le bombe
di profondità. Ne rivedevo ancora il nome sulla murata, Centurion o
qualcosa del genere. Guardando i documenti, Rob disse che si trattava
quasi certamente del Centauro un'imbarcazione italiana Classe Spica che
aveva caricato a bordo un generale neozelandese il quale in seguito fu in
grado di raccontare quell'esperienza.
A quel punto, oltre a me, in acqua erano in molti, ma con il passare delle
ore il mare li aveva inghiottiti tutti. Per quanto riuscissi a vedere, non ne
era rimasto nessuno. Gli domandai com'era possibile che ci fossero dei
superstiti. Rob rispose che la Sebastiano Venier non era affondata; anzi, è
passata alla storia proprio per essere rimasta a galla. Ero frastornato.
Quando mi ero tuffato, ero certissimo che sarebbe andata a fondo nel giro
di pochi minuti. La mia era stata l'ennesima reazione istintiva; non c'era il
tempo di starci a riflettere. E invece le ricerche di Bob avevano ricostruito
la vicenda ancora più straordinaria che ebbe luogo a bordo della nave,
mentre sotto di me scoppiavano le bombe di profondità.
Il viaggio di andata della Sebastiano Venier, salpata per portare
rifornimenti a Bengasi, aveva messo a dura prova il suo equipaggio. Di un
convoglio di cinque imbarcazioni, la loro era stata l'unica ad arrivare a
destinazione. Gli attacchi degli aerei decollati da Malta e i cannoni della
Marina Reale inglese avevano fatto il resto. L'equipaggio aveva i nervi a
fior di pelle. Il capitano italiano, in particolare, era estremamente ansioso e
angosciato quando fece rotta di ritorno. Sapevano tutti cosa li aspettava,
tranne i prigionieri nella stiva. Erano in vista della costa meridionale della
Grecia quando, secondo le testimonianze dei superstiti, il capitano avvistò
il periscopio di un sottomarino alleato che sbucava dalle onde. Preso dal
panico, saltò alla conclusione che la Sebastiano Venier fosse spacciata.
Temeva che, non appena un siluro avesse centrato la nave, i circa duemila
prigionieri alleati si sarebbero ribellati, facendosi largo sul ponte per
impadronirsi delle poche scialuppe di salvataggio disponibili. Per salvarsi
la pelle, ordinò all'equipaggio di abbandonare la nave prima ancora che il
siluro l'avesse colpita. Quell'ordine gli costò caro, condannandolo
all'ignominia, e decidendo del suo destino.
La posizione della Sebastiano Venier era di circa tre miglia e mezzo a
ovest di Methoni, sulla punta sudoccidentale della penisola greca, quando il
terzo siluro sparato dal sottomarino inglese Porpoise centrò la prima stiva a
prua, uccidendo sul colpo molti degli uomini stipati là.
Alcuni di quelli che mi ero lasciato alle spalle imitarono il mio esempio,
gettandosi in mare, convinti come me che la nave stesse per affondare, ma
quasi tutti finirono annegati. A quel punto l'imbarcazione stava virando a
dritta, e molti di quelli che si erano tuffati da babordo rimasero travolti
dall'ondata prodotta dallo spostamento di poppa, risucchiati e fatti a pezzi
dalle eliche.
L'uomo che salvò la nave e la vita dei prigionieri rimasti a bordo era un
tedesco la cui identità resta ancora oggi ignota. Fece la sua apparizione
come il più strano degli angeli custodi, armato di una pistola Luger e di una
grossa chiave inglese. Ristabilì l'ordine, radunò alcuni tecnici italiani
piantati in asso dai loro superiori e poi, con l'aiuto di un ufficiale alleato,
convinse i prigionieri a calmarsi e a restare a bordo. Disse loro che
potevano salvare la nave se avessero lavorato di concerto, per contrastare
quello che adesso restava il loro nemico più temibile: il mare. Ordinò a tutti
di spostarsi a poppa, per compensare con il loro peso per quanto potesse
essere irrilevante lo sbilanciamento delle paratie di prua. Era questione di
vita o di morte, e riuscì a convincerli. Diede anche ordini affinché
venissero allestite postazioni di pronto soccorso per occuparsi dei feriti, e
fece ripartire i motori, se pure a regime ridotto. Non potevo crederci:
l'impresa era eroica, e avrei dato chissà cosa per assistervi.
Probabilmente io ero in acqua da una ventina di minuti, e la corrente
doveva avermi trascinato via. Con la prua che caricava acqua e faceva da
zavorra, l'ignoto tedesco fece procedere la nave a poppavia, e molto
lentamente riuscì a farle coprire le miglia che la separavano dalla costa.
Parecchie ore dopo la portò ad arenarsi sugli scogli, schiantando la chiglia
di metallo. I prigionieri alleati levarono calorosi grida di gioia per il
marinaio tedesco che aveva messo da parte le ostilità per salvare quanti più
uomini possibile.
Sulle loro scialuppe, anche il capitano e il suo equipaggio si erano rivolti
faticosamente nella stessa direzione e poco prima, avvicinandosi alla costa,
avevano incrociato la Sebastiano Venier che, malgrado la falla, procedeva
ostinava verso terra. Se fosse colata a picco, ben pochi tra i superiori del
capitano lo avrebbero rimproverato di avere sacrificato i prigionieri per
salvare se stesso. Ma visto che la nave si era dimostrata recuperabile, se
pure per un soffio, la sua condanna era certa, e lui doveva essersene reso
conto. Pare che sia stato arrestato e condannato a morte dalla corte marziale
a causa della sua scelta frettolosa di abbandonare la nave.
Il tedesco, che scomparve così com'era arrivato, era un uomo di tutt'altra
pasta; probabilmente si trattava di un ingegnere navale, e la sua dedizione
ai prigionieri non fu mai dimenticata. Tutti coloro che lo incontrarono in
quel frangente ne parlano come di un uomo di grande coraggio e umanità,
che nemico o no aveva salvato centinaia di vite alleate, anche se molti altri
prigionieri annegarono nel tentativo di guadagnare la terraferma dalla nave
incagliata.
Io non ne avevo saputo nulla perché ero rimasto a lungo in clandestinità
prima di venire riacciuffato, e non mi ero mai imbattuto in altri superstiti,
malgrado alcuni di loro risultassero essere stati a loro volta internati
nell'"acro della dissenteria".
Ascoltai il racconto di Rob, ma faticavo ancora a farlo combaciare con i
miei ricordi. Era una storia pazzesca. Dopo tanto tempo mi spiegò che era
impossibile da verificare, ma era davvero improbabile che si trattasse di
una coincidenza. Ero sbalordito. Il mio naufragio era stato un'esperienza
agghiacciante, eppure le cose molte più brutte accadute in seguito l'avevano
fatto passare in secondo piano. Fu un sollievo scoprire che tanti uomini era
sopravvissuti a quella catastrofe. Per quasi sessant'anni avevo dato per
scontato di esserne scampato soltanto io, poi l'ultimo tassello del mosaico
era tornato al suo posto.
«Quindi non c'era bisogno che mi tuffassi in mare».
«A quanto pare», rispose Rob.
«Sono proprio un imbecille», osservai.
Capitolo 23
15 novembre 2010
La giornata si preannunciava umida e grigia, ma a metà mattino vidi
dalla finestra che la coltre di nubi si era sollevata, lasciando solo qualche
banco di foschia ai piedi di Win Hill, la collina in fondo alla valle che si
apre davanti a casa mia. Secondo la leggenda, venne battezzata così dai
vincitori di un'antica battaglia. I guerrieri sconfitti avevano preso posizione
nei pressi di un altro rilievo oggi noto come Lose Hill12. Non tutto nel Peak
District è così bianco o nero. In realtà, trovo questa parte di mondo
piuttosto accogliente, adesso che ne padroneggio il dialetto. Aggiungeteci
un letto caldo e tre pasti sostanziosi al giorno, e credo di potermi definire
un uomo felice.
Rob arrivò un po' tardi, e a quel punto il sole aveva già cominciato a
diradare le nuvole, aprendo squarci di azzurro sopra la Hope Valley. Rob
portava con sé qualcosa che aspettavo di vedere da dodici mesi: la storia
integrale di Ernie Lobet Ernst, come lo ricordavo io raccontata in un video
di quattro ore e mezza. Salii la scala a chiocciola fino all'ammezzato,
ansioso di sentire cosa ne fosse stato dell'uomo conosciuto tanti anni prima.
Ci accomodammo davanti al televisore: Rob premette PLAY, ed Ernie
riprese il racconto dall'inizio, cioè da uno spazioso appartamento di otto
stanze in quella che prima della guerra era la bellissima città di Breslavia. I
Lobenthal erano ebrei piuttosto importanti. Il padre di Ernie dirigeva una
florida fabbrica tessile, e la famiglia era benestante. La famiglia contava
persino un premio Nobel tra le sue fila, il prozio Paul Ehrlich, lo scienziato
che a inizio secolo aveva scoperto una cura per la sifilide.
Ernie raccontò una breve vacanza sul Mar Baltico, accompagnato dalla
bambinaia, nel 1929. Aveva quattro anni, e al suo ritorno scoprì che il
padre aveva fatto fagotto. Evidentemente il ricordo lo faceva ancora
soffrire. L'uomo aveva liquidato la sua quota azionaria nell'azienda, ed era
sparito in Sud Africa con un'altra donna; ci fu uno scandalo, e la vicenda
finì su tutti i giornali.
12
Letteralmente in inglese Win Hill significa la "collina della vittoria". Allo stesso modo, Lose Hill sta
per la "collina della sconfitta" (n.d.t.). Sua madre Frieda e la nonna Rosa, colte alla sprovvista, avevano dovuto
cavarsela da sole. Si erano trasferite in un appartamento molto più piccolo,
e dopo qualche tempo Frieda era riuscita a rintracciare il marito, lo aveva
querelato e aveva vinto la causa. Si trattò, disse Ernie, di una vittoria di
Pirro, perché lei non vide mai un centesimo.
Da quel momento in poi i guai non fecero che aumentare. Frieda
contrasse la tubercolosi e venne ricoverata. A quel tempo ai bambini era
vietato fare visita ai pazienti tubercolotici, e lui la rivide solo due volte
prima che la malattia la stroncasse nel 1932. Secondo Ernie era morta di
crepacuore. La famiglia si era vista sfuggire tra le dita tutto ciò che aveva, e
non era che l'inizio.
«Era davvero un uomo magnifico», commentò Audrey, commossa dal
tono affettuoso con cui Ernie aveva ricordato la sua famiglia. Nonna Rosa
fece il possibile per allevare lui e Susanne da sola. Era una donna fuori del
comune, ma era cresciuta nell'agiatezza, abituata a contare sui domestici
per quasi tutta la vita. Ora di punto in bianco si ritrovava in là con gli anni,
e con due bambini da crescere: una responsabilità superiore alle sue forze.
«Ci voleva un bene dell'anima, e per noi avrebbe sacrificato tutto», disse
Ernie, faticando a trattenere la commozione che lo aveva colto al ricordo di
lei.
Infine la nonna cedette alle insistenze dei parenti, e affidò i due bambini
a un orfanotrofio ebraico. «Era un posto tremendo, davvero orribile», disse
Ernie. Lo aveva detestato fin dall'inizio, diventando, secondo la sua stessa
definizione, «un pessimo soggetto». Essendo di corporatura esile, lo
costringevano a mangiare più degli altri, e lui doveva trovare degli
espedienti per sbarazzarsi del cibo. Nascondeva porzioni di patate e sugo di
carne in un fazzoletto che teneva in tasca, contando di liberarsene in
seguito. Sorrise descrivendo il rivolo di sugo che gli scendeva sulla gamba
quando si precipitava a buttare via l'involto fuori del refettorio.
Ascoltando il suo racconto provai una sensazione stranissima. Avevo
l'impressione di incontrarlo davvero per la prima volta, e mi piaceva
sempre di più. Credo avesse un'indole più sensibile della mia, eppure anche
riferendo quegli episodi terribili dei suoi primi anni di vita riusciva a
riderne.
Dopo essere fuggito varie volte dall'orfanotrofio fu dato in affido a una
famiglia. Disse che il giorno in cui era uscito da quel portone era stato il
più felice della sua infanzia. I genitori affidatari lo lasciavano libero di
andare e venire a suo piacimento, ma intorno a lui la Germania stava
rapidamente assumendo un volto inquietante. Ernst aveva otto anni quando,
nel 1933, Hitler andò al potere, e due anni dopo le leggi di Norimberga
vietarono il matrimonio e i rapporti sessuali tra ebrei e ariani, accelerando
la discesa nell'abisso.
Sua nonna aveva lavorato a maglia per mesi, vendendo cappelli di lana
per regalargli una bicicletta in occasione del Bar Mitzvah, al suo
tredicesimo compleanno. L'espulsione degli ebrei dalle università e dalle
libere professioni aveva avuto scarso impatto sulla sua mente di bambino,
ma la Kristallnacht la Notte dei Cristalli gli era rimasta impressa.
Ricordava che quella mattina di novembre del 1938, lungo il tragitto di
quindici minuti a piedi per andare a scuola, aveva visto le vetrine sfondate,
i negozi distrutti e saccheggiati. La magnifica sinagoga di Breslavia era in
fiamme, e girava voce che i nazisti stessero rastrellando in massa gli ebrei
maschi adulti.
Poi la scuola chiuse i battenti. Gli adulti disperati parlavano di emigrare,
di lasciare il Paese. Susanne aveva ottenuto un posto su un Kindertransport
diretto in Inghilterra, ma Ernie rimase indietro. Entrò a far parte di uno dei
kibbutz di un'iniziativa che aveva lo scopo di formare gli ebrei al lavoro
agricolo, in vista di una vita futura in Israele. I nazisti li tollerarono per un
po', ma nei primi anni della guerra li soppressero tutti.
Ernie, appena quindicenne, tornò a casa per accudire la nonna vecchia e
malata, che a quel punto dipendeva completamente da lui. Abitavano in una
stanzetta soffocante al terzo piano di un fabbricato, mentre nuove leggi
imponevano agli ebrei restrizioni sempre più spietate. Persino il consumo
di gas e di elettricità era sottoposto a limiti severi, tanto che per cucinare
Ernie doveva usare un fornelletto da campo e il keronese gli veniva dato da
un commerciante compassionevole. Per qualche tempo ancora riuscì a
passare inosservato, mantenendo sé e la nonna con un impiego in una
fabbrica di pneumatici.
Guardandolo raccontare la sua storia, trovavo sbalorditivo quanto a
lungo fosse riuscito a scampare alla deportazione. Avevo sempre temuto
che fosse stato internato nel campo molto prima. Mi dissi che, in un certo
senso, era stata una benedizione, ma sapevo lo sapevamo tutti come andava
a finire quella storia. Di nascosto, i vicini e un negoziante lo aiutavano con
un po' di cibo, ma la rete si stava restringendo sempre più. Le truppe
tedesche di ritorno dal servizio attivo riportavano già dal fronte resoconti
delle persecuzioni degli ebrei polacchi: le retate, i ghetti, i massacri. Le
voci si diffusero rapidamente, ma i racconti erano così raccapriccianti che
nessuno riusciva a crederci. Eppure persino quelle atrocità impallidiscono
al confronto con ciò che sarebbe accaduto dopo.
Fino ad allora la nonna di Ernie era stata risparmiata, ma le sue sorelle
erano già state deportate. Poi, nel gennaio del 1943, il nome di Ernie
comparve in uno degli elenchi dei deportati, e gli fu ordinato di prepararsi
per il trasporto diretto a est. Lui si aspettava di venire destinato ai lavori
forzati, forse alla costruzione di strade o qualcosa del genere, ma nessuno
poteva saperlo con certezza. Riempì uno zaino con i pochi abiti pesanti che
aveva, e rimase in attesa.
Era tardo pomeriggio quando gli uomini con il cappotto di pelle vennero
a prenderlo. Erano ufficiali della Gestapo, e da principio si comportarono
quasi in modo educato, finché sua nonna li implorò di non portarle via
Ernie. «Era là in piedi, faceva pena solo a guardarla», disse scuotendo
furibondo la testa e mordendosi le labbra per non piangere. «Era inerme
senza di me, sapeva che non ce l'avrebbe fatta. Li pregò e li implorò. "Non
potete lasciarmelo?", ripeteva. "Non mi resta nessun altro". Non riusciva a
farsene una ragione. A quel punto loro tagliarono corto. "Muoviti", mi
dissero, e io capii che non l'avrei mai, mai più rivista. Era una donna così
buona».
Era dura vederlo tornare a quei momenti. Anche al sicuro nella mia casa,
mi immedesimavo in lui mentre riviveva quel commiato terribile, e
immaginavo il suo strazio. Dopo la partenza di Susanne e di tutta la sua
famiglia non gli era rimasta che la nonna, e non osavo nemmeno pensare al
destino terribile toccato a quella vecchia signora tanto fragile.
Cominciavo a comprendere perché Ernie avesse voluto raccontare la sua
storia. Ne stava serbando il ricordo, affinché altri in futuro sapessero che
lui, Ernie Lobet, aveva un tempo avuto una nonna di nome Rosa, la quale
era vissuta ed era stata amata dalla sua famiglia. Anche lui stava portando
una testimonianza. Avrebbe scoperto in seguito che Rosa era morta nel
campo di concentramento di Theresienstadt.
Non serve che descriva il viaggio di Ernie nei carri bestiame, il suo
arrivo ad Auschwitz e la selezione tra coloro che furono inviati subito alle
camere a gas e quelli mandati a morire più lentamente di stenti. Internato
ad Auschwitz III-Monowitz, Ernie aveva assistito innumerevoli volte al
disperato smarrimento di ogni nuovo arrivato, giunto su un convoglio
insieme alla moglie e ai figli, quando si rendeva conto che tutte le persone
che amava erano già state uccise e cremate. Ernie era solo, e almeno gli fu
risparmiato il dolore di vedere la sofferenza dei suoi cari.
Inutile dire che la sua sopravvivenza ad Auschwitz dipese da molti casi
fortuiti. Per non morire, spiegava, dovevi trovarti una nicchia, un
espediente per mangiare un boccone in più rispetto alle razioni da fame del
campo. Ernie cominciò a lavorare allo sterro di un fabbricato; sapeva usare
la vanga, un utensile che gran parte degli altri non aveva quasi mai visto,
ma freddo e fatica stavano fiaccando anche lui. Poi gli capitò un colpo di
fortuna. Gli fu ordinato di spazzare il pavimento della baracca che le
guardie usavano per ripararsi. All'interno c'era un forno, ed Ernie fu
incaricato di tenerlo acceso e di fare da palo, per avvertire le guardie
dell'arrivo del sergente mentre loro se ne stavano al chiuso, e al caldo.
Questo significava che, entrando per riattizzare il fuoco, poteva riscaldarsi
per qualche minuto. In questo modo riuscì a superare le settimane più
rigide del primo inverno.
Avevo intuito da subito che era un ragazzo in gamba, e la sua buona
stella lo aveva aiutato. Spiegava come, all'arrivo, fosse riuscito a
conservare cento marchi, tenendoli nascosti dietro la cintura. Anche trovare
il modo di usarli rappresentava un rischio, ma alla fine scelse di consegnarli
al caposettore in cambio di mezza pagnotta. Gli era costata cara, ma quelle
forze in più gli valsero l'incarico di corriere per quella stessa guardia, di cui
recava i messaggi da una parte all'altra del campo. Il lavoro era meno
sfibrante, e in premio riceveva un cucchiaio di zuppa in più. Aveva davanti
agli occhi l'esempio di molti altri, annientati dallo sfinimento.
Quelli che lavoravano all'aperto deperivano in fretta. Li vedeva morire a
centinaia, e ormai aveva capito che senza il ricorso a continui espedienti era
assolutamente impossibile sopravvivere al campo di sterminio. Anche il
luogo in cui si lavorava era determinante. Ernie ebbe fortuna e finì per
lavorare al coperto, con i civili tedeschi, e questo gli offrì un vantaggio, per
quanto minimo.
Andando avanti con il racconto, lo sentii narrare di nuovo l'episodio
delle sigarette, e del nostro incontro. Tornare al ricordo di quei pochi
momenti così speciali fu una gioia, ma era soprattutto il seguito a
interessarmi.
Le amicizie tra prigionieri non erano necessariamente d'aiuto. «Per
sopravvivere dovevi cavartela da solo», disse Ernie. Quant'era vero, pensai.
Per lo stesso motivo anch'io negli anni della prigionia mi ero tenuto isolato.
Ma al campo Ernie un vero amico lo aveva, un uomo che lui chiamava
Makki o Maggi, era difficile distinguere la pronuncia. Lo aveva conosciuto
alla hachshara, il kibbutz sperimentale dove aveva lavorato anni prima, e
dove entrambi avevano imparato ad arare e seminare la terra. Ernie diede
proprio a Makki come lo chiamerò da qui in avanti una parte delle sigarette
che ero riuscito a procurargli, creando così in un certo senso un legame
anche tra me e lui.
Ciò che davvero volevo sapere era cosa fosse accaduto dopo Auschwitz,
ma quando Ernie cominciò a parlare della marcia della morte, il suo tono
cambiò. Tutto ciò che si era costruito per riuscire a sopravvivere svanì
all'istante; tuttavia lui era un po' meno denutrito degli altri, calzava un paio
di stivali pesanti, e aveva delle sigarette come moneta di scambio. Avevo
visto quei cadaveri assiderati con i miei stessi occhi, e affrontato il
cammino da Auschwitz lungo lo stesso sentiero ghiacciato, quindi avevo
un'esperienza diretta di quei giorni terribili. Secondo le stime di Ernie, delle
circa quaranta-sessantamila persone evacuate dal campo, meno di ventimila
sopravvissero alla marcia. Questo non significava che sarebbero riuscite a
vedere la fine della guerra, ma solo che erano scampate a quella particolare
ordalia.
Ernie intuì subito che doveva portarsi in testa alla colonna perché,
dovunque si fossero fermati, non ci sarebbe stato posto per tutti. Aveva
ragione. Fu tra i primi a raggiungere il campo di concentramento di
Gleiwitz, dove riuscì a passare la notte al riparo, su un tavolaccio. Quelli
arrivati dopo furono costretti a dormire sul pavimento ghiacciato.
Rob mi aveva avvertito che la narrazione avrebbe preso una piega
particolarmente straziante, e io non riuscivo proprio a immaginare come
Ernie fosse riuscito a sopravvivere. A me era toccato attraversare a piedi
l'Europa centrale, ma per i prigionieri ebrei sarebbe stato impossibile: ci
avevo quasi lasciato la pelle anch'io, e alla partenza ero in condizioni
decisamente migliori.
Ernie rimase a Gleiwitz per tre giorni, ma i nazisti ormai sapevano della
rapida avanzata sovietica. La disperazione alimentava voci di ogni genere.
Alcuni sostenevano che le guardie li avrebbero portati nei campi di
concentramento di Buchenwald o di Mauthausen, altri che la Svizzera o la
Svezia avessero finalmente accettato di accoglierli come profughi.
«Credevamo a qualunque cosa», disse Ernie. «Un'altra diceria molto
diffusa era che saremmo andati in Germania a lavorare in una fabbrica di
marmellata. Volevamo crederci, perché nella marmellata c'è lo zucchero, e
stavamo tutti morendo di fame». Potevo solo immaginare quanto
sembrassero affascinanti quelle ipotesi; nel nostro campo non si parlava
d'altro che di cibo, ma per uomini come loro, a un passo dalla morte per
inedia, solo pensarci doveva essere un supplizio. Quelli tra loro che un
tempo erano avvocati sostenevano che ci sarebbe stata un'amnistia. «Come
se fosse possibile un'amnistia per persone che nessun tribunale ha mai
condannato», aggiunse Ernie.
Infine arrivò l'ordine di prepararsi alla partenza, e vennero tutti caricati
su vagoni scoperti per il trasporto del bestiame. «Nel mio eravamo
un'ottantina», disse abbassando lo sguardo sul pavimento. Nevicava quando
il convoglio si mise in moto, ed Ernie perse rapidamente la percezione del
tempo. «Rimasi in piedi per buona parte del viaggio, ma poi molti dei
compagni cominciarono a morire, e noi li buttammo giù dal treno per
ricavare un po' di spazio dove sederci. Non so quanti giorni passammo in
quel vagone. Mi era rimasto un po' di pane, ma non avevamo acqua».
Era una sofferenza sentirglielo raccontare, restandomene con le mani in
mano. Gli borbottavo dei consigli a mezza voce, come se potesse
ascoltarmi.
«Uno di noi aveva una gavetta», disse, «e qualcuno tirò fuori un pezzetto
di spago. Ci legavamo la gavetta e la facevamo pendere dal lato del vagone,
trascinandola a terra per riempirla di neve. Poi ci scioglievamo la neve in
bocca. Fu così che riuscimmo a resistere».
Impiegarono quattro giorni per raggiungere Mauthausen, in Austria. La
terribile fama della cava di pietra di quel campo era arrivata persino ad
Auschwitz. «Pensavamo che fosse la fine, e a quel punto eravamo talmente
esausti, stremati, che non faceva differenza», disse. «Ci gettarono del pane,
e tutti si accalcarono per afferrarne un tozzo, ma io restai senza: nessuno
condivideva niente. Chi aveva la fortuna di accaparrarsi un boccone lo
inghiottiva subito, prima che altri potessero metterci sopra le mani».
Presto girò la voce che Mauthausen scoppiava già di prigionieri, e che
loro sarebbero stati trasferiti altrove. Parlando, Ernie cambiò posizione
sulla sedia. Si vedeva che misurava le parole, come per procrastinare il
momento successivo, pur sforzandosi di mantenere un atteggiamento
distaccato. Il treno era ripartito, e per un momento sembrò che Ernie non
sarebbe riuscito a raccontare il resto. Fece un respiro profondo, gli si
arrossarono gli occhi, e lui scosse la testa, ancora incredulo. Si sforzò di
sorridere, poi disse, tutto d'un fiato: «Persi la vista. Avevo gli occhi aperti e
guardavo fuori del vagone, e di colpo diventò tutto buio». Gli tremavano le
labbra. «Tutto buio», ripeté. Era rimasto cieco e completamente inerme, sul
fondo di un carro bestiame aperto alla neve, schiacciato tra una folla di
uomini agonizzanti.
Faticava a parlare come mai fino a quel momento, aveva lo sguardo
perso, scrollava la testa, e gli si incrinò la voce quando disse: «Fu
tremendo», stentando a trattenere le lacrime. «Le ruote del treno
sferragliavano, si fermavano, si rimettevano in moto, ma non cambiava
niente. Continuava a nevicare». Si fermò per soffiarsi il naso. Sembrava
invecchiare a vista d'occhio. Il volto sorridente che avevo visto nelle foto
era svanito. Le rughe che gli scendevano dal naso agli angoli della bocca
erano diventate solchi profondi.
Doveva dipendere totalmente dal suo amico, Makki, che strada facendo
gli aveva spiegato che avevano superato il confine austriaco, e alle stazioni
successive lo aveva avvisato che i cartelli erano scritti in ceco. Ernie
continuava a non vedere altro che tenebra.
Mentre attraversavano la campagna, Makki disse che la notizia del loro
passaggio doveva essersi diffusa, perché gli abitanti cechi gettavano pane
nel vagone, per cercare di tenerli in vita. «Visto dai ponti, dovevamo essere
uno spettacolo davvero sconvolgente», disse Ernie. «Non so quanti fossero
i carri bestiame, ma erano tutti scoperti, e all'interno erano stipati di quegli
esseri scheletrici, vestiti di stracci a righe, e rannicchiati insieme, inermi
come vitelli condotti al macello». In territorio austriaco non avevano
ricevuto nemmeno una briciola di pane, e fu lo stesso quando rientrarono in
Germania, ma i cechi avevano fatto il possibile per aiutarli. Mi fece tornare
in mente la pagnotta che lanciarono anche a noi, mentre marciavamo sfiniti
in quella campagna più o meno nello stesso periodo.
A quel punto Ernie era sprofondato in uno stato letargico, non aveva più
la forza di lottare; senza Makki era impotente, e in quel buio dovette sentire
la vita che gli sfuggiva tra le dita. Sapeva che uno schiavo cieco è un peso
inutile e che, non appena le guardie se ne fossero accorte, gli avrebbero
sparato. Dopo almeno sette giorni su quei carri esposti agli elementi, il
treno raggiunse una località nei pressi di Nordhausen, nella Germania
centrale, e le guardie ordinarono ai prigionieri di uscire, radunandoli in un
altro, lugubre campo di concentramento. Si chiamava Dora-Mittelbau, ed
Ernie non l'avrebbe mai dimenticato.
Gli diedero da mangiare della zuppa, e lui recuperò la vista prima che le
guardie si accorgessero del cambiamento. Venne presto a sapere che il
campo forniva manodopera schiavistica a una segreta fabbrica sotterranea
dove si costruiva la Vergeltungswaffe di Hitler: l'arma che gli Alleati
chiamavano razzo V2. Il dittatore giocava la sua ultima carta.
Assegnarono a Ernie un numero, che almeno questa volta non gli venne
tatuato sulla pelle. Gli tolsero tutti i vestiti, compreso il maglione che lo
aveva tenuto in vita, e lo rinchiusero in una baracca, con un tavolaccio ogni
due prigionieri. Dovette ricominciare da zero a cercarsi una fonte di
sostentamento in più, senza la quale sapeva per esperienza che non ce
l'avrebbe fatta.
I prigionieri vennero scortati nelle gallerie dove si costruivano i razzi, ed
Ernie fu assegnato a un Kommando di lavoro che trasportava mattoni a un
gruppo di muratori civili italiani. Non vide mai un solo missile nella sua
parte di grotta, ma di questo non gli interessava. A quel punto gli americani
si preparavano ad attraversare il Reno, e i russi avevano già circondato la
città natale di Ernie, Breslavia, ma lui cominciava a temere che non
arrivassero in tempo a salvarlo. Ripensai al mio viaggio verso casa, e alla
tentazione di annegare le sofferenze nella corrente rovinosa del torrente, e
mi domandai dove Ernie avesse trovato la forza di resistere.
«Ci sfiancavano di lavoro, e da mangiare avevamo un litro di zuppa»,
proseguì. Disse al suo amico Makki che dovevano andarsene da lì, o
sarebbero sicuramente morti. Non poteva esistere niente di peggio delle
orribili gallerie sotterranee di Dora-Mittelbau. Girò voce che stavano
selezionando un Kommando da inviare altrove. Sapevano entrambi che era
la loro unica possibilità, e si offrirono volontari senza nemmeno conoscerne
la destinazione.
Ernie sapeva che c'erano maggiori probabilità di venire scelti se ci si
dichiarava specializzati in qualcosa, vera o inventata che fosse. Lui e
Makki si unirono alla lunga fila di prigionieri che come loro speravano di
andarsene, e si ritrovarono faccia a faccia con una SS incaricata della
selezione.
Ernie fece un passo avanti, e la SS gli domandò bruscamente il suo
mestiere. «Fabbro», rispose lui, malgrado di quel lavoro non sapesse quasi
niente. Venne inviato al trasporto. Makki era proprio dietro di lui, e non
poteva dare la stessa risposta, così dichiarò di essere un elettricista.
«Tu no, ci servi qui», ringhiò il soldato, e Makki venne respinto. «Mi si
spezzò il cuore», fece Ernie, mordendosi il labbro e quasi crollando sotto il
peso di ciò che aveva appena detto. Poi rinunciò a trattenersi, la sua
espressione cambiò di colpo e lui emise un gemito, coprendosi gli occhi
con le mani. «Volevo che venisse come», disse con la voce soffocata. «Non
l'ho mai più rivisto. Morì solo perché aveva detto "elettricista"». I
singhiozzi gli squassavano il petto.
Mi sentivo a disagio ad assistere a quel momento di dolore tanto privato;
mi sembrava che non avessimo il diritto di vederlo. A distanza di
cinquant'anni, Ernie soffriva ancora per la perdita del suo amico. Dicono
che in quel luogo orrendo perirono circa ventimila prigionieri, e
probabilmente Makki fu uno di loro. Come aveva fatto per sua nonna,
Ernie portava una testimonianza per il suo amico, perché si riconoscesse
che anche quella vita, come tutte le altre, aveva contato. Insieme erano
riusciti a sopravvivere ad Auschwitz e alla marcia della morte, Ernie lo
aveva aiutato con le sigarette che gli avevo procurato di nascosto, ma
niente di tutto ciò era bastato.
A quel punto le vittime si contavano a milioni, e c'era ben poco che i rari
sopravvissuti potessero fare per salvarsi. Le loro riserve di coraggio e
iniziativa non li avevano aiutati. Sapevo per esperienza che in guerra e in
prigionia gli scampati devono la loro esistenza soprattutto al caso. Ernie
aveva messo a frutto ogni occasione, ma anche per lui la sopravvivenza era
stata in larga parte questione di fortuna.
Quando riprese a parlare, lo spirito che aveva animato il suo racconto
sembrò quasi esaurito. Aveva superato una soglia. Pareva che la perdita del
suo amico avesse contaminato il valore straordinario dimostrato dalla sua
impresa; ora le sue parole fluivano lente, come se a quel punto proseguisse
solo per dovere.
Il gruppo si era messo in marcia, ma Ernie e gli altri volontari pelle e
ossa furono condotti solo a Nordhausen, il campo all'altra estremità del
medesimo complesso spaventoso che comprendeva le gallerie sotterranee, e
la loro situazione non migliorò di molto. Dormivano su file di tavolacci
stipati all'interno di una serie di rimesse dell'esercito. Ernie calcolava che in
quel periodo gli internati fossero circa seimila, tutti rinchiusi nell'ennesima
recinzione elettrificata. Mancava da mangiare, e quel poco era tremendo
come negli altri campi.
Era marzo, e i giorni si susseguivano, confondendosi gli uni agli altri.
Ernie sapeva che la fine della guerra era vicina, ma il suo organismo
deperiva inesorabilmente. Ovunque i prigionieri morivano, e lui temette di
non farcela a vedere la liberazione. Nel giro di poche settimane, dei seimila
detenuti del campo al suo arrivo solo millecinquecento erano ancora vivi.
Ogni giorno Ernie veniva trasportato nella galleria a bordo di un piccolo
treno per spostare rocce, un lavoro sfiancante che procedeva quasi per
inerzia; i prigionieri erano troppo deboli e le guardie ormai avevano altro di
cui preoccuparsi. In millecinquecento riuscivano a stento a fare
l'equivalente di un centinaio di uomini sani, disse. Poi, alla fine di marzo, lo
scavo si interruppe del tutto: ormai era inutile.
Tutti attendevano da un giorno all'altro l'arrivo degli americani, ma non
arrivavano mai. Vedevano volare alti i bombardieri, diretti a colpire altri
bersagli più lontani. Poi, ai primi di aprile, Ernie sentì le sirene dell'allarme
antiaereo, anche se per lui non facevano molta differenza, non c'era
comunque un luogo dove ripararsi. Sentì cadere le bombe sul campo,
alcune delle quali colpirono le baracche, causandone il rogo. Udì le grida, e
vide correre i prigionieri in fiamme. Erano bombe incendiarie, e la
vischiosa sostanza infiammabile al loro interno ti si incollava addosso. Poi
notò che in alcuni punti le esplosioni avevano danneggiato la recinzione
intorno al campo, e malgrado le SS disponessero di rifugi antiaerei, anche
molti di loro erano morti. Ma tentare la fuga era ancora troppo rischioso.
La sua baracca era rimasta intatta, così i prigionieri degli altri settori si
radunarono a cercare riparo là, tutti rannicchiati insieme per una notte
intera, digiuni, e temendo il peggio. La mattina dopo si riattivarono le
sirene, e i prigionieri furono colti dal panico; la gente correva in ogni
direzione. Non appena fu uscito dalla baracca, Ernie notò che il filo
elettrificato pendeva dai sostegni, e in un punto era tranciato. Le SS che
riusciva a vedere stavano a loro volta scappando il più in fretta possibile.
Vide altri prigionieri scavalcare il filo, li seguì, e appena raggiunto l'altro
lato cominciò a correre.
Poi sentì il rombo degli aerei a bassa quota, il bombardamento riprese, e
lui proseguì la fuga attraverso i prati, circondato dalle esplosioni. Si girò e
vide che il campo era stato colpito. Forse i piloti non sapevano che quei
fabbricati militari erano stati da poco trasformati in campo di
concentramento. Ernie continuò a correre finché glielo permisero le forze,
poi si gettò in un fosso ai margini del bosco, a riprendere fiato.
Guardandosi intorno, intravide il cadavere di un civile, e dai vestiti
indovinò che si trattava di un italiano, ucciso la notte precedente. Indossava
una vecchia giacca militare, pantaloni anonimi e un «improbabile» berretto
con la visiera. Ernie lo stava scrutando quando, per la prima volta, si rese
conto di essere libero.
Fece rotolare il corpo di lato, e non senza fatica riuscì a svestirlo. «Non
c'è niente di peggio che spogliare un cadavere», disse. Il corpo era già
irrigidito, ma lui riuscì a levargli i pantaloni e la giacca, liberandosi a sua
volta della divisa a righe. Era tornato un civile.
Mentre pronunciava queste parole, il sorriso gli illuminò il volto per la
prima volta da quella che mi era parsa un'eternità. La sua felicità era
contagiosa, e mi sorpresi a sorridere con lui; sapevo come doveva essersi
sentito in quel momento.
Poi, indossati gli abiti dello sconosciuto, si guardò in giro e vide gente in
lontananza, ma nessuno sembrava prestargli attenzione. Il vento strappava
dei fogli da alcuni pacchi di carta in mezzo al prato, facendoli volare in
aria. Ernie pensò che potevano tornare utili come carta igienica, e ne afferrò
uno. Era un volantino lasciato cadere da un aeroplano. In piedi nell'erba
lesse queste parole: «Tedeschi, gettate le armi, la guerra è finita.
Arrendetevi. Il vostro Führer vi ha abbandonato». In vita sua, disse, non
aveva mai ricevuto un messaggio tanto bello.
Anch'io avevo attraversato l'Europa a piedi. Sapevo che a quel punto
Ernst era ancora ben lontano dall'essere al sicuro, e sospettavo che la sua
storia riservasse ancora un paio di colpi di scena. Avevo ragione. Si era
inoltrato nel bosco fino a incrociare una strada di campagna piena di civili
tedeschi che trasportavano le loro masserizie su carri, carrozzine e
qualunque cosa avesse delle ruote. Intuì che le loro case erano state
bombardate, e notò subito che tra loro non c'erano giovani: solo anziani, e
madri con i loro bambini.
Poi individuò una contadina robusta che si tirava appresso i suoi averi su
una sorta di carretto. Dai suoi abiti la donna lo prese per un italiano, e lo
chiamò. Ernst comprese subito di essere in pericolo, lui non parlava affatto
italiano, ma forse nemmeno lei. Dai compagni di prigionia aveva imparato
qualche frase, e si giustificò con un: «Non parlo tedesco». Lei lo guardò
con sospetto, poi gli chiese a gesti di aiutarla a tirare il carretto. Quando
prese il posto tra le stanghe, Ernst notò un'enorme forma di pane proprio in
cima al carico.
Lo vidi sorridere di nuovo mentre descriveva le dimensioni di quella
pagnotta, aprendo la braccia come un pescatore spaccone che mostra il
pesce dei suoi sogni. Con la coda dell'occhio vidi che anche Audrey e Rob
sogghignavano guardandolo raccontare quell'episodio; sapevamo tutti dove
stesse andando a parare. Lui non ci tenne in sospeso. Tirato il carretto per
qualche minuto, la foresta si infittì, e lui si gettò ad afferrare il pane, scappò
tra gli alberi e si dileguò prima che la donna avesse il tempo di rendersi
conto dell'accaduto.
La sentì gridare: «Dieb! Dieb!», "Al ladro! Al ladro! Fermatelo!".
Nessuno si prese la briga di inseguirlo nel fitto del bosco per una pagnotta,
e quando fu a distanza di sicurezza, Ernie sedette e la mangiò tutta in un
colpo solo.
Ormai si avvertiva che quella storia straordinaria volgeva all'epilogo.
Ernie sorrideva con maggiore frequenza, e chinava la testa di lato,
ricordando, dopo tutto ciò che aveva passato, gli ultimi giorni di guerra.
Lungo la strada incontrò Peter, un uomo conosciuto nei campi, che a sua
volta era fuggito, si era trovato degli abiti civili e si era incamminato lungo
lo stesso viottolo di campagna.
Ernie indossava ancora il berretto dell'italiano morto e sapeva che, se
qualcuno gli avesse ordinato di toglierselo, il suo cranio rasato l'avrebbe
tradito come prigioniero evaso. Insieme a Peter decise di dirigersi verso
ovest, nella speranza di incrociare l'avanzata degli Alleati, ma il cielo era
coperto, e in assenza del sole nessuno dei due era sicuro di quale fosse la
direzione giusta. Infine pensarono che probabilmente anche i profughi
civili avessero la loro stessa destinazione, e presero a seguirli dal bordo
della strada, tenendosi al coperto degli alberi.
«Alt!». Si arrestarono di botto. L'ordine veniva da un soldato tedesco
sbucato dal bosco. Pretese di sapere chi fossero, e dove stessero andando, e
disse loro che non potevano proseguire: stavano arrivando gli americani.
Ernst e Peter erano ben consapevoli del loro aspetto emaciato, degli abiti
ridicoli, delle teste rasate. Avevano come unico vantaggio la perfetta
padronanza del tedesco.
Raccontarono al soldato di essere operai civili di Nordhausen; avevano
perso gli abiti sotto le bombe, ciò che indossavano era il poco che erano
riusciti a recuperare. Si dichiararono diretti a riparare i mezzi militari in una
cittadina poco oltre. Secondo quanto raccontò Ernie, quell'alibi era
totalmente campato per aria. Che avesse abboccato o no, il soldato disse
loro che li avrebbe accompagnati dal suo superiore, e loro non ebbero altra
scelta che seguirlo. Mentre li scortava, il tedesco chiese se sapevano
sparare. «Ma certo», replicò Ernie, senz'altro domandandosi dove volesse
andare a parare.
Sapevano che non si fidava di loro fino in fondo; certo, parlavano
tedesco, ma pelle e ossa com'erano, non sembravano affatto dei civili.
Avvicinandosi alla base militare, Ernie pensò che, se messi alle strette,
potevano tentare di sopraffarre il soldato, ma lui era armato e li scortava da
dietro, impedendo loro di comunicare.
Non ebbero il tempo di ribellarsi. Il soldato apparteneva alla Wehrmacht,
non alle SS, ma comunque appena avessero ordinato loro di levarsi i
berretti, li avrebbero riconosciuti per quello che erano.
Arrivarono a un posto di comando, dove furono condotti da un tenente
con un braccio solo. Il soldato ripeté la storia che gli avevano raccontato,
ma l'ufficiale lo interruppe. «Altri due uomini, ottimo», disse. «Ci serve
tutto l'aiuto possibile». Ordinò loro di prendere delle uniformi, e delle
pistole.
Dopo anni di campo di concentramento, Ernie rischiava di concludere la
guerra con addosso un'uniforme tedesca, e con l'ordine di sparare ai suoi
liberatori e alleati. Prima che arrivassero gli abiti e le armi, l'ufficiale
domandò loro se avevano mangiato, e alla risposta negativa li mandò a
prendersi un po' di zuppa. Mezz'ora dopo stavano godendosi una razione di
rancio, e domandandosi cosa fare, quando un soldato fece irruzione,
gridando: «Feind-alarm! Feid-alarm!», "Allarme, il nemico!". Gli
americani erano stati avvistati.
Scoppiò il pandemonio; i soldati correvano dappertutto, mettendo in
moto auto e motociclette nel cortile, mentre l'intera unità si preparava alla
fuga. Dieci minuti dopo, Ernst e Peter erano ancora là a godersi la zuppa in
santa pace. I tedeschi si erano volatilizzati. Ernst era un magnifico
narratore. Sentendolo descrivere la scena, scoppiai un'altra volta a ridere
insieme a lui.
Uscirono dalla mensa senza sapere dove andare, quando videro i primi
carri armati che puntavano verso di loro, ciascuno con una stella bianca
sulla fiancata. L'espressione di Ernie si era rianimata mentre parlava, e
gesticolava descrivendo l'enorme colonna di blindati e i soldati nelle strane
uniformi che erano dappertutto. Sentì qualcuno soffiare in un fischietto, la
colonna si arrestò, e dalla torretta di un carro spuntò un soldato, che lo
guardò dall'alto in basso e domandò: «Polski?». Era il primo uomo di
colore che Ernie avesse mai visto, e quello lo aveva preso per un polacco.
«No», replicò lui. «Konsentrationslager» ("Campo di concentramento").
L'espressione dell'americano lasciava chiaramente intendere che non
sapeva a cosa si riferisse. Era la liberazione, Ernie non aveva sognato che
quello, ma anche il soldato cercava a suo modo un conforto. «Hai del
cognac?», gli domandò. La risposta dovette deluderlo, e la colonna riprese
il cammino, lasciandoseli alle spalle.
Sul volto di Ernie si allargò un sorriso disteso mentre ricordava
quell'incontro. Il suo racconto mi aveva dato l'impressione di riviverlo con
lui, e anch'io sorridevo.
Il resto della sua storia prese un altro ritmo: eravamo in vista del
traguardo. Andò a Parigi, dove si mantenne vendendo sigarette per la
strada, imparò il francese alla Alliance Française, e infine trovò posto a
bordo della SSMarine Flasher, una nave di immigrati diretti in America.
Avvistò la Statua della Libertà, e approdò a New York il primo lunedì di
settembre del 1947, un giorno di festa nazionale. Non molto tempo dopo, il
povero Ernie venne richiamato dall'esercito americano per combattere nella
guerra di Corea, dove prese parte allo sbarco di Incheon. Negli anni che
seguirono diventò rappresentante di aspirapolvere ad Harlem, e studiò
sodo. Come me, prese un diploma tecnico, e anni dopo la laurea in
giurisprudenza. Si capiva che aveva lavorato duro, ma aveva realizzato a
suo modo il sogno americano, e per quanto la Corea dovesse averlo
scioccato, superò anche quel trauma. Non riuscivo a crederci. Quanta strada
aveva fatto il ragazzo conosciuto ad Auschwitz!
Rimasi sbalordito dalla somiglianza delle nostre vite nel dopoguerra, a
partire dalla specializzazione tecnica. Anche lui amava le macchine da
corsa, e guidava una Jaguar identica alla mia. Si era rifiutato di soffermarsi
sul passato, o di scaricare sulle spalle altrui il peso della sua sofferenza.
Secondo la sua famiglia, non parlò quasi mai di Auschwitz fino agli ultimi
anni della sua vita.
Dicono che fosse un uomo allegro, e sono sicuro che avesse molti
argomenti di conversazione anche senza citare quegli anni terribili.
Secondo Henry Kamm, suo amico di vecchia data, Ernie era arrivato in
America solo con gli abiti che aveva addosso, e grazie alla sua intelligenza,
energia, forza di volontà e ambizione, si era costruito una vita da zero, ed
era stata una vita invidiabile. Henry mi disse che un gran numero di amici
aveva pianto la sua morte.
Quando, alla fine del suo racconto, l'intervistatore gli domandò quale
messaggio volesse trasmettere alle generazioni future, Ernie rispose:
«Perché il male trionfi, basta che i giusti non facciano niente». Quelle
parole mi trasmisero un brivido lungo la schiena. Dal primo momento in
cui io e Rob avevamo cominciato a scrivere questo libro, e con
l'ostinazione di cui solo un quasi novantenne sarebbe capace, gli avevo
ripetuto le stesse identiche parole di Edmund Burke, e ora le risentivo dalla
viva voce di Ernie. Faticai a contenermi, quando proseguì. Stentavo a
credere alle mie orecchie: «Mai cedere alla rassegnazione», disse. «Devi
combattere per ciò in cui credi, senza subire passivamente e senza aspettarti
che altri lottino al posto tuo. Devi puntare con decisione verso il tuo
obiettivo, prendere posizione, e combattere con tutte le tue forze».
Dopodiché Ernie l'amico che avevo aiutato, senza mai conoscerlo davvero
si strinse nelle spalle, sorrise, e ringraziò il suo intervistatore. La sua storia
era finita, e anche la mia.
Dietro casa mia il sole invernale calava, le ombre si allungavano, e il
tramonto dava a Win Hill una sfumatura color ruggine.
«Ernie lo sapeva», dissi io. «La sua esperienza gli ha insegnato che
bisogna lottare per ciò che è giusto, anche a rischio di mettersi nei guai. Era
arrivato alla mia stessa conclusione». La gente ritiene che una cosa del
genere non possa accadere mai più, e soprattutto che non potrebbe
succedere anche qui. Non credeteci: basta poco.
Rimpiangerò sempre di non avere rintracciato Ernst quand'era ancora
vivo; se avessi saputo che era in America, senza dubbio sarei andato a
cercarlo.
Il Grande Architetto aveva voltato le spalle ad Auschwitz, di questo sono
convinto, ma so che persino nel campo di concentramento, ogni volta che
parlavo con Ernie, il giorno mi appariva un po' più luminoso, e quella è una
sensazione che non si dimentica. Ormai sono vecchio, ma so che è esistito
almeno un volto tra la folla al quale posso pensare, e dire a me stesso: ho
fatto il possibile.
Persino in prigionia ho sempre conservato il mio ottimismo, e malgrado
tutto sono rimasto convinto di essere padrone del mio destino, e in grado di
prendere l'iniziativa. Ernie e Makki misero a frutto tutta la loro intelligenza,
sfruttarono ogni occasione, eppure bastò un caso fortuito una semplice
parola, la scelta tra «elettricista» e «fabbro» per fare sì che Ernie
sopravvivesse, e il suo amico fosse condannato.
Nessuno può attribuirsi il merito della salvezza di un altro. Il vero eroe
della storia di Ernie Lobet era Ernie stesso, ma io sono comunque
orgoglioso del piccolo contributo che ho dato a un uomo per superare le
atrocità di Auschwitz. Il resto è stato merito suo.
Il campo ha ucciso una parte di me ma, per il poco che ho potuto fare, ho
conservato viva in me la rabbia. Ammetto di avere atteso a lungo prima di
riuscire a condividere la mia storia, ma adesso la gente è disposta ad
ascoltarla, e io voglio che il mio racconto serva a qualcosa. Fin dall'inizio
mi ero proposto di portare una testimonianza.
Spero di vivere ancora qualche anno, malgrado la mia età, eppure posso
comunque dire di avere avuto una vita felice, e di averla goduta appieno. E,
come ripeto spesso, è stata una vita talmente avventurosa che ci si potrebbe
scrivere un libro.
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare Audrey per la sua pazienza infinita, per il suo amore e
il suo sostegno nei tanti anni che abbiamo trascorso insieme; per la sua
comprensione, e soprattutto per avermi tenuto i piedi saldamente per terra e
avermi sopportato, nel bene e nel male. È il mio critico più severo e la mia
migliore amica. Sono profondamente grato a Sir Martin Gilbert per avere
trovato, nella sua fittissima agenda, il tempo per scrivere un generoso
commento al manoscritto, del quale ho fatto tesoro. Grazie a Lord Janner,
Karen Pollock e al gruppo dell'Holocaust Educational Trust per il loro
costante aiuto e sostegno. Il valore di ciò che fanno è incalcolabile. Grazie
a Gordon e Sarah Brown per avermi invitato a Downing Street, e a Ian
Duncan Smith, Michael Gove e Ed Balls per l'interesse manifestato per la
mia storia. Desidero anche aggiungere un ringraziamento particolare
all'operato della Croce Rossa, i cui pacchi di viveri hanno nutrito il corpo e
la speranza dei prigionieri di guerra.
Denis Avey
Desidero aggiungere i miei personali ringraziamenti ad Audrey per la
sua pazienza e l'ospitalità durante gli innumerevoli giorni necessari per le
interviste, per il suo affetto, la sua disponibilità e l'inesauribile buonumore.
Non sempre è stato facile per lei affrontare ciò che avevo scatenato, ma si è
comportata in modo meraviglioso dall'inizio alla fine. Ha gestito la
situazione con uno straordinario senso dell'umorismo, e ci ha intrattenuti
per moltissime, magnifiche serate di sincero confronto e di risate, oltre a
offrirci un paio di bicchierini. Le auguro di continuare a lungo così.
Se posso, vorrei ringraziare anche Regi e i miei figli, Jan e Anja, per il
loro sostegno durante un anno davvero importante. È stata dura, e voi siete
stati meravigliosi come sempre soprattutto quando ero sottoposto alle
pressioni più forti. Grazie anche a Mark James, Simon Enright, Jonathan
Chapman, Saleem Patka, Wanda Petrusewicz, Richard Jackson e Andrew
Whitehead della BBC per avermi spianato la strada, concedendomi il
tempo necessario a dedicarmi a questo libro, in un periodo in cui il BBC
World Service il gioiello della corona subiva tanti e gravi tagli di bilancio.
Una menzione speciale va a Patrick Howse, per avere compreso da subito
l'importanza della testimonianza di Denis, nonché per il suo duro lavoro e
la sua amicizia. È un uomo dall'entusiasmo sconfinato, che incarna i
migliori ideali della BBC. Allo stesso modo, ringrazio David Edmonds per
i suoi saggi consigli, e Kevin Bakhurst del BBC New Channel e Jeremy
Skeet e Kirsty Reid della Bush House per l'entusiasmo manifestato verso
questa storia. Grazie anche a Joanne McNally per avermi sensibilizzato
tanti anni fa al tema dei prigionieri di guerra.
Soprattutto vorrei rendere omaggio al mio amico e mentore James Long,
per i suoi consigli e la sua guida costante, per avermi fatto da bussola nel
mondo dell'editoria, per la sua assistenza nelle ricerche, e per avermi
aiutato a rivedere e dare una struttura al manoscritto. Sempre affidabile,
James è stato un'enorme fonte di ispirazione, e mi ha tranquillizzato in più
di un'occasione. Che si trattasse di aiutarmi nel tentativo fallito di fare
irruzione in un albergo ben oltre l'orario stabito, o di riparare una cucina a
gas discettando di motori, ho sempre potuto contare su di lui. E quando
serviva un desperado, James era sempre disponibile. Non avrei potuto
farcela senza di lui.
Rob Broomby
Entrambi vorremmo esprimere la nostra più profonda gratitudine a
Susanne Timms, una donna davvero straordinaria, che insieme a Peter
James e Lynn Amari ci ha dato fiducia, amicizia, e incoraggiamento.
Dobbiamo a loro l'anello mancante che ci ha permesso di ricostruire l'intera
vicenda, oltre ad averci fornito uno straordinario aiuto. Il loro contributo è
incommensurabile. Il nostro unico rimpianto è di non avere avuto
l'occasione di conoscerli prima.
Grazie anche a Shirley Spector per le sue parole gentili speriamo che un
giorno potremo incontrarci tutti di persona e a Henry Kamm un nuovo
amico per la sua saggezza e i suoi consigli, soprattutto per avere preso
l'iniziativa di contattare un estraneo, accogliendolo in casa propria e
facendolo sentire perfettamente a suo agio. Un ringraziamento particolare
anche alla famiglia Warwick per il contributo che ha dato alla soluzione
dell'enigma, e a Michael Wood che ha aperto la porta al momento giusto,
salvando così l'impresa; senza di lui tutto sarebbe andato perduto.
Naturalmente dobbiamo davvero ringraziare la Shoah Foundation Institute
for Visual History and Education Archive della University of Southern
California (USC) per il suo meraviglioso operato, senza il quale tante storie
sarebbero andate perdute per sempre, e per la gentile autorizzazione a usare
la testimonianza di Ernie Lobet (n. 4365), senza la quale molte parti di
questo nostro racconto sarebbero rimaste poco chiare. Allo stesso modo,
vogliamo ringraziare il personale dell'Archivio Auschwitz per il suo
contributo, e a Freddie Knoller per i suoi suggerimenti.
Siamo entrambi immensamente grati a Rupert Lancaster della Hodder &
Stoughton per la sua lungimiranza e saggezza, e per aver creduto in questo
libro fin dall'inizio, e naturalmente alla nostra agente Jane Turnbull, che ha
spianato la strada affinché tutto potesse succedere tanto rapidamente.
Rob Broomby e Denis Avey
L'Holocaust Educational Trust
Fondato da Lord Janner di Braunstone e dal defunto Lord Merlyn-Rees,
l'Holocaust Educational Trust (HET) è stato istituito nel 1988. L'HET è
stato ideato da membri del Parlamento e della Camera dei Lord in virtù del
rinnovato interesse e del bisogno di conoscere più approfonditamente
l'Olocausto, entrambi stimolati dall'approvazione della legge sui crimini di
guerra alla fine degli anni Ottanta.
Il nostro obiettivo è sensibilizzare l'opinione pubblica e incoraggiare le
scuole allo studio dell'Olocausto. Riteniamo che nella memoria collettiva
debba essere serbato un ricordo perenne dell'Olocausto.
Uno dei primi traguardi raggiunti dall'HET è stato, nel 1991, garantire
che l'Olocausto fosse incluso nei programmi ministeriali per gli studenti
delle scuole medie (dagli undici ai quattordici anni). Ha avuto un esito la
nostra campagna finalizzata alla restituzione ai legittimi proprietari dei beni
delle vittime e dei sopravvissuti dell'Olocausto.
In seguito al contributo essenziale nell'istituzione, nella realizzazione e
nella promozione della giornata della Memoria nel Regno Unito, l'HET
continua a svolgere un ruolo chiave in tale ricorrenza.
L'HET è attivo nelle scuole e negli istituti accademici, presso cui tiene
seminari e conferenze di formazione per gli insegnanti, oltre ad ausili e a
materiali didattici.
Il progetto Auschwitz dell'HET per gli studenti maggiori di sedici anni e
per gli insegnanti è arrivato al suo tredicesimo anno, e ha fatto sì che oltre
dodicimila studenti e insegnanti del Regno Unito visitassero AuschwitzBirkenau.
Per ulteriori informazioni sull'Holocaust Educational Trust, visitate il
sito: www.het.org.uk.