Capitolo 2 - In attesa del nemico
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Capitolo 2 - In attesa del nemico
II: In attesa del nemico “Devono avere preso un passo alle nostre spalle,” concluse Fleias. “Passati oltre senza che neanche ce ne accorgessimo.” “Impossibile. Gli unici passi sono ad ovest. Ed anche se ci passano alle spalle si troveranno tra il campo della legione e le colline.” Disse Arragas, il più vecchio della compagnia. “Secondo quelle mappe vecchie di secoli…” Non mancò di rilevare Fleias. Il terreno sterminato attorno al tempio di Marasma, fatto di paludi e foreste sterminate, era uno dei meno conosciuti di tutto l’Impero. “Capitano, tu non ci credi che vogliono attaccarci?” Disse Dramos. “Credo che vogliano attaccare la legione, ma non mentre è fortificata alle rovine.” Rifletté il capitano ad occhi bassi. “Attenderemo qui, abbiamo bisogno di certezze per fare rapporto, non d’impressioni.” Poco prima Vicus si era messo in disparte, nella penombra tra il piccolo fuoco accesso con grande fatica da Fleias e Dres, e il fitto muro di mangrovie che proteggeva il campo dal vento freddo del nord. Ian lo aveva visto assumere quell’atteggiamento ogni volta che c’era da prendere una decisione importante. Pochi giorni prima, quando erano stati mandati in avanscoperta lontani dalle insegne dell’esercito in marcia, Ian aveva provato un profondo disagio. Per qualche attimo in cui aveva sentito le viscere attorcigliarsi, era stato certo che non avrebbe mai più rivisto i compagni. Non era stata solo una paura, ma una certezza che aveva cacciato qualsiasi altra sensazione dalla sua mente. Si era sentito come un lupo che veniva forzato ad allontanarsi dal suo branco. In quei giorni, man mano che il gruppo del Capitano Vicus si addentrava in quella spirale di foreste dalla terra marcia, aveva cominciato a scorgere la stessa paura negli occhi dei commilitoni. Gli incursori imperiali erano gli occhi e le orecchie di ogni esercito in marcia. Possibile che l’esercito imperiale fosse sordo e cieco nel bel mezzo di un territorio ostile? Tra tutti, Fleias era l’unico con il quale era possibile avere una discussione tra pari, nonostante il ragazzo tendesse a parlare anche troppo. Prima di partire, aveva anche ottenuto da Vicus il permesso di portare la piccola arpa nordica che suonava ogni volta ne aveva la possibilità. Proprio in quell’istante canticchiava qualche nota. “E non è l’arciere al pari di un fante o un cavaliere?” Quando Dramos grugnì interrompendo la ballata sul nascere, Fleias deformò grottescamente il viso, fingendo offesa. “Quella ballata è una beffa per ogni buon soldato che guarda negli occhi ogni uomo che uccide.” “Anche loro fanno la loro parte,” Obbiettò Arragas, l’anziano soldato dal volto scavato che per qualche motivo si sentiva sempre in dovere di proteggere Ian dagli altri. “Erestor della lancia è il più potente tra gli dei di Arar.” Disse Fleias. “Però non ci sono che ballate sulla sua caduta… tutte molto tristi a dire il vero.” Dres gli passò una scodella. “Dimenticavo che vieni da Icarion… comunque Marve la cacciatrice è altrettanto affidabile.” “Eh sì, una dea cacciatrice non può nulla contro il possente Erestor.” Rise Arragas porgendo a sua volta la scodella all’uomo al suo fianco. “Nessun comandante degno di questo nome sarebbe felice di comandare un’unità di arcieri.” Grugnì Dramos. L’unico occhio di Vicus, di ritorno, lo gelò, costringendolo a desiderare di non avere mai pronunciato parole come quelle. Ian sentì l’arma pesare sulle proprie spalle. “Non vedo cosa ci sia di male nel maneggiare l’arco.” Disse, confortato dalla presenza del capitano. Dramos rispose senza nemmeno cercare il suo sguardo. “La spada è l’unica arma virile degna di un uomo.” O della sua arroganza, pensò Ian infastidito. Non aveva alcuna voglia di lasciarsi mettere a tacere dal tono altero del soldato per l’ennesima volta. Erano persi in mezzo al nulla, a caccia di nemici che nessuno aveva mai visto. Sicuro che la cosa lo avrebbe mandato in bestia aggiunse: “Tendere un arco richiede molta più forza del maneggiare una spada.” Il crepitare del fuoco giungeva ad ondate, invitando al sonno, non allo scontro. Attraverso di esso poteva vedere gli sguardi di odio di Dramos. Avrebbe anche sopportato di stare al freddo, lontano dal fuoco pur di non udire quei discorsi, ma il fumo era l’unico modo per cacciare l’odore di marcio onnipresente in quelle paludi. Ian aveva imparato da Dres ad impregnare i propri vestiti di fumo per cacciare i parassiti ed i cattivi odori. Ma anche quel l’accensione di quel piccolo fuoco era stata una decisione sofferta per Vicus. Avevano resistito al gelo per molte sere. L’umidità, che di giorno impregnava ogni cosa, la notte diveniva una trappola gelida per le ossa. La scelta finale era stata tra rivelare la propria presenza ai nemici o morire. Dramos afferrò bruscamente la scodella che la mano sottile di Dres gli stava porgendo. “Ascolta quel che ti si dice,” fece in tono affatto conciliante. “Non ti hanno insegnato che gli arcieri sono codardi e anche gli dei non si fidano delle loro preghiere?” “Sciocchezze!” Sbuffò Ian stanco di quelle parole vuote. Dramos si drizzò in piedi, come se fosse stato toccato da un ferro rovente. Nell’alzarsi fece cadere la sua spada, la cintura avvolta attorno al fodero e alla guardia. Ian rimase seduto e degnò l’uomo di un sorriso di sprezzo. Attorno, i commilitoni fissavano la scena con preoccupazione. Dramos era il più imponente tra i dodici incursori e di certo era l’ultimo che conveniva mettersi contro. Ci sarebbero voluti due uomini della statura di Ian per fare il peso di Dramos. “Guai a te, soldatino, se dici un’altra parola!” Un’altra cosa che Ian non sopportava era sentirsi chiamare soldatino. Per la verità, fino a quel momento, lo aveva sopportato anche abbastanza. Doveva fare qualcosa ma sapeva che, seppure in modo duro e volgare, i suoi commilitoni lo mettevano alla prova. La cicatrice sul dorso della mano sinistra che lo costringeva ad usare l’altra mano per lo scudo lo aveva segnato fin dall’inizio con il marchio della debolezza. A nulla era servito il guato di cuoio con cui copriva la mano. La prima volta che Dramos aveva visto la bizzarra posizione che Ian assumeva in combattimento, era scoppiato in una risata. Vicus aveva schioccato un colpo del suo unico occhio verso Dramos, che da allora non aveva perdonato la cosa a Ian. “Allora vediamo che sai fare.” Disse Ian. Ma il suo tono, con suo rincrescimento, suonò più timido di quanto non avesse voluto. Si sforzò di non guardare Vicus. L’ultima cosa che voleva era essere umiliato da una sua difesa. Dramos si guardò intorno. “Come dici?” Ringhiò facendo finta di non vedere nessuno davanti a sé. “Prendi la tua spada e combatti!” L’uomo non se lo fece ripetere e si girò grugnendo una mezza risata in cerca della spada. In un solo movimento, il braccio di Ian andò alla faretra, portò una freccia all’arco, tese e scoccò. L’uomo, sorpreso, tentò di trarre la spada fuori dal fodero, ma il suo movimento fu bloccato dalla freccia che ancorava come in un nodo la cintura attorno all’elsa della spada. Ian si mise a sedere come se nulla fosse. Non temeva di avere mancato il bersaglio, ma di potere centrare l’uomo invece della sua cintura. L’arco vibrava ancora tra le mani di Ian quando l’uomo comprese quel che era accaduto. Dramos gettò la spada a terra e girò attorno al fuoco a lunghi passi venendo verso di lui. “Dramos.” Lo richiamò la voce del Capitano. Il soldato si bloccò immediatamente. “Ian, questa notte hai il primo turno di guardia.” “Sì, Capitano.” Il ragazzo si alzò e batté due volte il pugno destro sul petto. Poi si allontanò dal fuoco lanciando un ultimo sguardo di sfida a Dramos. Il miglior punto di osservazione si trovava a poche decine di passi dal campo, verso valle. Ian scese allontanandosi dalla fitta vegetazione che sorgeva attorno al campo. Appoggiò la schiena e si lasciò scivolare a terra. Ben presto i rumori della notte furono interrotti dalle voci dei compagni. Fleias cantava una ballata nel tentativo di fare impazzire Arragas. Il vecchio sosteneva di conoscerle tutte e probabilmente era vero, ma la cosa non aveva impedito a Fleias di coglierlo alla sprovvista con una di sua invenzione. Mentre le costellazioni si inseguivano nel cielo volubile di Marasma, le voci dal campo si spensero. Ian rimase a lungo in silenzio, ascoltando soltanto i rumori della foresta, finché questo non fu interrotto dalla voce di Dramos. “Quasi non mi ammazzava!” Disse. Ian sorrise immaginando il suo volto arrossarsi di rabbia e le vene del suo collo taurino gonfiarsi. “Il ragazzo è coraggioso, ma è ancora inesperto ed arrogante.”La voce di Vicus arrivava appena udibile. “Darei tutto per avere più tempo con lui.” Ricordava quasi esattamente il dolore che lo aveva tormento tutte le volte che stringeva lo scudo sotto i colpi di Vicus, potenti come i colpi di un fabbro alla forgia. Era un dolore subdolo perché il freddo lo calmava quanto bastava per dimenticarsene fino al movimento successivo. Il vento che soffiava sopra le cime degli alberi sembrava levarsi in un canto sinistro confondendo ancora di più i suoi pensieri. Quando si era allontanato con solo la luce delle stelle ad illuminare il suo cammino aveva dimenticato ogni altro dolore. Il mormorio dietro gli alberi aveva destato il suo interesse. “Pensi che ci sia qualcuno nascosto ai guadi, capitano?” Stava chiedendo Dramos con il suo tono basso. “Ancora una volta: siamo qui per scoprirlo.” Rispose. “Si sarebbero già accorti di noi, e se fossero stati in grado di attaccarci lo avrebbero già fatto.” “Sono come fantasmi.” Fece Dramos, la sua voce era quella di un uomo spaventato, non più del soldato dal volto scolpito nella pietra. “Ci guardano nascosti nella nebbia.” Un vento pungente si alzò improvviso, portando con sé nubi che coprirono il cielo. Ian non riuscì più a scorgere le stelle, unica fonte di luce. S’inoltrò nel bosco con le parole del Capitano che continuavano ad interrompere ogni suo pensiero. Non è che un ragazzo… *** Colpì una volta il tronco. Non sentì nulla se non il contatto con la corteccia, simile a terra compatta. Colpì sempre più forte, cacciando fuori l’aria dai polmoni per lo sforzo. Frammenti di legno marcio cedettero, si conficcarono sulle nocche come spine di pietra. Non badò al dolore che il gelo della notte non riusciva più ad attenuare. Non è che un ragazzo? Ian soffocò in gola un urlo di rabbia. Colpire chiunque di loro sarebbe stata un’offesa che Ian avrebbe pagato doppiamente. La Legione non poteva tollerare l’insubordinazione e non poteva tollerare che questa venisse da chi era ancora considerato poco più di un ragazzino. Ma lui non poteva tollerare che quegli uomini si prendessero gioco di lui. Tutta qui la differenza tra lui ed un Atenaris. La differenza tra Ian Atenaris e un veroAtenaris della Rocca. Tamir si sarebbe lanciato disarmato contro dieci uomini, piuttosto che accettare un’offesa. Sarebbe morto, ma senza pronunciare una parola di rimpianto né un gemito di dolore. Dalle ferite sulle nocche cominciò a gocciolare sangue, il suo calore parve risvegliare ancora di più il dolore. Continuò a sferrare colpi come quando si allenava all’arco fino a perdere ogni sensibilità, ogni percezione di sé e del tempo. Ricordava quella sensazione strana di torpore che saliva dal braccio fino… La spada sarà anche più letale dell’arco, ma una spada non può catturare una preda. Colpì un’ultima volta. Il rumore sordo ed indifferente dell’albero suonò come un saluto di un vecchio compagno, forse auspicio di fortuna. Afferrò l’arco ed estrasse una freccia dal fodero di pelle. Se non posso fare loro del male, allora farò in modo che mi rispettino. Ed ancora una volta si ritrovò solo con il dolore pulsante alle mani. La foresta sembrava il luogo più desolato del mondo quando, scivolando silenziosamente, si lasciò alle spalle il campo. *** Aveva spostato il peso della carcassa, ancora calda, da una spalla all’altra. Era già la seconda volta che era costretto a fermarsi per tirare il fiato. Sulle mani, il suo sangue si era mischiato a quello dell’animale imbrattando la benda sulla sinistra. Posò il corpo a terra e vide la scia di sangue, simile ad una costellazione scarlatta che indicava come una freccia il percorso verso il cuore marcio della foresta. Respirò profondamente e si ripulì alla meglio dal sangue sulle mani sul tronco argentato di una betulla. Se qualcuno lo avesse inseguito, pensò, animale o uomo che fosse, non ci sarebbe stato modo di nascondere le tracce di sangue. Una voce bloccò quel pensiero sul nascere. Ian trasalì. “Chi c’è là?” La voce forzata di Dramos, anche se carica di ostilità, tranquillizzò in qualche modo Ian. “Ci sono solo io e la nostra cena.” Disse in tono lieve, tentando di mascherare la fatica. “La solita lepre pelle ed ossa? O ci vuoi avvelenare con i funghi, stavolta?” Ian lo ignorò. Si avvicinò alla carcassa del cervo. La carne emetteva ancora l’odore potente, l’afrore pungente della foresta. Ma ora l’odore metallico del sangue e la fragranza di terra bagnata ne rovinavano la maestosità come una sontuosa cena finita nel sangue. L’odore di un re massacrato. Fece leva sulle spalle e fu felice, ancora una volta, di non avere portato con sé l’ulteriore carico della spada. Percorse gli ultimi metri della salita che lo separava dal campo con il cuore che batteva forte. Non seppe dire se per la stanchezza o per l’affanno di vedere la reazione di Dramos. “Allora non sei un coniglio, sei un lupo!” Scandì le parole senza sorridere. Ian lasciò andare la carcassa che si schiantò con un tonfo sordo ai piedi dell’uomo. Fleias, seduto su un tronco, posò l’arpa come se fosse stata la cosa più fragile del mondo e si passò la mano tra i capelli rossi, raggiungendo Dramos. “Domani si mangia…. Sì?” Disse toccando la spalla dell’uomo che superava di tutta la testa la sua altezza e quella di Ian. “Tu giungi come il Cacciatore di ritorno dai boschi sacri!” Motteggiò infilandosi tra l’amico e Dramos, la cui unica risposta fu un grugnito di disprezzo. “Penso io a prepararla.” La figura di Gres, alta e magra fino all’osso, scostò i due dalla carcassa e la sollevò come se fosse davvero stata una lepre. Ian si andò a sedere vicino alle ceneri del fuoco, finalmente contento di poter prendere fiato e di vedere Dramos silenzioso. Strinse il pugno, il dorso della mano avvolto da un’unica cicatrice simile ad una ragnatela insanguinata. Il dolore, aveva sperimentato più di una volta, l’ultima quel giorno stesso, era tre volte più inteso in quella mano che nella destra. Per questo motivo aveva sempre spontaneamente preferito portare lo scudo sull’altro braccio evitando così i contraccolpi dolorosi delle parate. “Bene,” aveva detto il maestro d’armi della Rocca rassegnandosi alla strana abitudine. “Vorrà dire che coglierai di sorpresa l’avversario.” Fleias con le spalle appoggiate su un tronco, lo guardava mentre cambiava la fasciatura, incrostata del suo stesso sangue e da quello del cervo. Distinguere gli sguardi di compassione da quelli di disgusto: un’altra cosa che la cicatrice sulla mano lo aveva ben presto reso abile a fare. “Come te la sei fatta?” La luce dell’alba colmava gli occhi verdi di Fleias di una luce felina. “Non ricordo come. So solo che è sempre stata così,” aprì il palmo, come a dimostrare che funzionava perfettamente nonostante le apparenze. “Suppongo sia stato il fuoco.” “I tuoi genitori non te l’hanno mai spiegato?” Chiese Fleias confuso. “Sono morti prima di poterlo fare,” disse Ian seccamente. “Il Cielo mi ha assistito. L’Arconte Atenaris mi trovò abbandonato ai lupi nelle sue terre e mi prese con sé.” Aveva sempre odiato essere compatito e voleva chiudere alla svelta il discorso. “Fortuna da poco,” fece Fleias sogghignando. “In cambio dei tuoi genitori e di una cicatrice hai avuto un titolo imperiale.” Ian sentì il fuoco crescere dentro. “Peccato che non abbia chiesto né l’una né l’altro.” “Sta calmo,” fece Fleias portando le mani aventi. “Non volevo offendere.” “Ognuno di questi uomini ha lasciato le proprie case e le proprie città in preda a rivolte e, nei casi migliori, alla paura di una nuova guerra con i regni dell’ovest.” Disse Fleias appoggiando la schiena sul tronco. Ian non rispose. Il fumo cacciò dalla sua mente l’odore del sangue. Avvolse nuovamente il panno, ora niente più che uno straccio logoro e sporco, attorno al palmo della mano. Il suo sguardo si perse nel fuoco morente. Strinse nuovamente il pugno, finché non fece male.
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