CORREGGIO DA MADONNARO A PICTOR MAXIMUS di
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CORREGGIO DA MADONNARO A PICTOR MAXIMUS di
1 [Ho segnato in rosso le correzioni, in rosso le ripetizioni e i passaggi dubbi, in verde la spiegazione della mia annotazione.] GISELDA CORREGGIO DA MADONNARO A PICTOR MAXIMUS di Dario Fo testo e traduzione a cura di Franca Rame e Giselda Palombi Collaborazione alla stesura dei testi Carlotta Colli. Revisione Roberto Shaw. Collaborazione alle immagini Michela Casiere. Antonio Allegri (supposto autoritratto), meglio conosciuto come il Correggio, oggi nella memoria di chi si occupi di pittura, in particolare di quella del Rinascimento italiano, lo troviamo sistemato in una classifica mediana. Anzi va sottolineato che già nella prima metà del secolo passato, senza i dirompenti studi e saggi di Roberto Longhi e Federico Zeri a riscoperta del Correggio, egli si ritroverebbe ad arricchire la pletora degli pseudo ignorati. Infatti all’inizio del secolo l’attribuzione di opere al grande pittore padano si limitava a pochi dipinti scelti fra i meno importanti. La sua vasta produzione era stata letteralmente sottratta all’autentico autore e pitture straordinarie come L’educazione di Cupido con Venere ignuda o la stessa dea dormiente spiata dal satiro o Giove che si tramuta in nube per godersi la splendida Io, Il ratto di Ganimede, Danae posseduta da Giove che si è trasformato in monete d’oro, erano 2 state impunemente tolte al Correggio per passare ad arricchire la produzione di Tiziano, di Lotto, di Giorgione e perfino di Raffaello. Per restituire il maltolto al legittimo autore ci vollero veri e propri raid di riscatto combattuti da un tenace esercito di critici italici e stranieri. Per quanto poi riguarda l’opera oggi più conclamata del Correggio, cioè a dire i giganteschi affreschi delle cupole di Parma (immagine cupole 2), essa era letteralmente finita nell’oblio, spazzata via da un uragano di vuoto culturale. Senza la follia di un vasto gruppo di cittadini del Parmigiano, pardon, parmensi, prima fra tutte la sovrintendente Lucia Fornari Schianchi, l’ultima operazione di ripristino del valore dell’Allegri non sarebbe mai stata compiuta. Stiamo parlando della spericolata messa in opera delle torri d’acciaio realizzata nella cupola; macchine che, nei primi anni del XXI secolo, hanno permesso al pubblico di raggiungere i 18 metri d’altezza dentro la cattedrale (impalcature tav 3). Grazie a quel marchingegno, migliaia di visitatori si sono così trovati all’istante sotto quell’immenso cielo sfondato da angeli che impunemente svolazzavano intorno a dozzine di santi spaparanzati su nubi e putti che apparivano all’istante fra le gambe dei beati in uno scorrazzo festoso. Senza quell’impianto d’ascensione tutta l’opera sarebbe rimasta unica fonte di piacere solo per uccelli sperduti entrati per errore nella cattedrale e per qualche pipistrello ubriaco a causa di tanti svolazzi senza senso. Tornando alle origini di Antonio Allegri, dobbiamo costatare che egli non ha goduto di ciò che normalmente si dice un’infanzia facile e serena: venne al mondo nel 1489 a Borgovecchio di Correggio in un’angusta dimora (casa 4) posta su due piani nella quale la famiglia degli Allegri aveva ricavato poche stanze dentro le quali si ammassava una numerosa famiglia composta dal padre Pellegrino, la madre, un suo fratello, lo zio Lorenzo con moglie e numerosa prole, cinque ragazzini, che si aggiungevano ai fratelli e alle sorelle del piccolo Correggio (famiglia 5). Il padre s’arrangiava battendo la piana nelle vesti di venditore di stoffe rustiche e altri manufatti di basso valore e prezzo, i cosiddetti “Reverendoli e Bochari”(immagine 6), termini che alludono al rivenditore anche di capi dismessi, aggiunto a quello di “vociante” corretto in “bocharo”, cioè l’ambulante che dà la voce della sua presenza urlando nelle vie dei borghi per ottenere l’attenzione di possibili clienti: insomma, una specie di vo’ cumprà dell’epoca! Un 3 mestiere di cui non esisteva protezione di corporazione alcuna tanto che Pellegrino, nome che indica già un programma, se ne inventò una, quella di mercante de bòn prèscio. Quindi abbiamo stabilito che Antonio nacque in un borgo in zona bassa. Anche Giorgio Vasari testimonia che Allegri e la sua famiglia fossero di modeste origini, ricchi solo di prole. La presenza numerosa di ragazzini, maschi e femmine, era una costante nel mondo contadino così come in quello dei girovaghi di quel tempo e Correggio, che ebbe a sua volta quattro figli, fu certamente condizionato da quella perenne presenza festosa di fratelli, nipoti e figlioli. Lo zio Lorenzo era pittore e Antonio ragazzino di certo imparò i primi rudimenti della pittura da quel maestro di casa, un maestro di doti minime tant’è che il nipote, ancora giovanissimo, come assicura il Vasari, lo sorpassò ben presto nell’arte. Eppure, in tanta difficoltà, il mercante dai prezzi stracciati esibiva un carattere del tutto positivo tanto che veniva soprannominato “el Domàn”, a intendere qualcuno che proietta a un prossimo futuro la propria fortuna. Evidentemente il figlio, apprendista pittore, gli assomigliava, tant’è che a sua volta veniva chiamato “el Domàn”. Ma il Correggio non era certo propenso ad attendere con speranza che la fortuna arrivasse per conto proprio. E qui ci viene in mente un geniale discorso poetico-filosofico di un altro grande personaggio nato in difficoltà e poi cresciuto, contro ogni previsione, a livelli umani e d’arte straordinari: stiamo parlando di Angelo Beolco, detto il Ruzzante (ritratto 7), contemporaneo del Correggio, nato esattamente nell’anno 1500, generato da un ricco rampollo di nobile famiglia lombarda e partorito dalla madre, una servetta, in piena campagna perché non si sapesse della sua vergognosa nascita. Il brano che vi proponiamo ha un titolo curioso: “La vita” (immagine La vita 8). Eccovi il discorso in questione. Non conoscete gente al mondo che vivendo una vita lunga sia giunta ai cento anni? La conoscete? E ci sono persino di quelli che hanno passato i cento anni di qualche anno. Vi dirò che ce ne sono di questi “campa a lungo” una grande quantità, che si sono accorti che sono stati al mondo solamente quando sono morti. E loro stessi, finalmente, si sono accorti d’esser stati vivi solo nel momento in cui l’anima loro tornava al creatore. Dunque è la morte che li ha fatti accorgere della vita. Ma non sapendo quelli d’essere mai stati vivi quando lo erano, vuoi tu chiamar campare questo loro transitar in vita? No di sicuro. Anche se tu aggiungessi un 4 centinaio di vite a questa prima vita, un’altra vita aggiunta all’altra e un’altra ancora, quelli non avrebbero mai avuto una vita sola da chiamare vita. Di contro, se uno stesse al mondo giusto il tempo della giovinezza e in questo breve passaggio ognuno di lui e del suo stare in vita si fosse accorto per il suo valore e peso, e quindi alla sua dipartita tutti provassero duolo, non si dovrebbe chiamare maggior vita la sua? Ordunque, come nel grappolo d’uva non è la grande abbondanza degli acini che rende il vino meraviglioso e vivo, e nemmeno l’estensione dei filari che fa sembrare pregno di spirito profumato alla follia questo liquido stregato... così non è tanto il numero dei giorni che stiamo vivendo la ragione che ci rende consci di star campando una vita degna, quanto piuttosto il nettare nel nostro graspo spremuto carico di ingegno, sapore, follia e conoscenza impregnate di una «stramberia fantasticante», così generosa da far sì che quando all’istante finisce la tua vita, similmente nella vita degli altri viene all’improvviso a mancare qualcosa della loro vita. Gran sorte è quindi una vita piena di stralunamenti come un albero che butta mille fiori e i rami si distendono a pettinare l’aria e giocano a danzare col vento e non gli importa di spampanarsi intorno, sperdere fiori e far risate che paion di spavento. Questo albero si sogna di essere albero maestro di una nave grande con le vele di trinchetto e rande gonfie e piene come pance di femmine ingravidate. Così follia e allegrezza, aggiunte alla ragione, spingono a più lunga vita, se questa tua vita non la vai vivendo di nascosto, ma con gli altri legato, così generoso che non t’importa di spendere tutto questo tuo campare per far sì che ci sia giocondità, libertà e giustizia per la gente tutta. È da lì che nasce l’eternità della vita. E io vado sperando che il giorno in cui me ne andrò morendo, la gente dica: «Peccato che abbia finito di campare: era così vivo, da vivo!» Antonio era fortemente dotato e così carico d’ansia del sapere non solo nella pittura, ma anche nell’apprendimento di ogni conoscenza, dalla geometria alla matematica, dalla meccanica alla filosofia. Il vantaggio nell’apprendere le basi regalatogli dalla sorte, per il Correggio era quello di trovarsi nel pieno della sua infanzia in una famiglia povera di mezzi, ma dotata di un grado di alfabetizzazione piuttosto avanzato. Per di più uno dei figli dello zio pittore, maggiore di lui, in quel tempo si laureò a Bologna nel collegio degli studi poveri ed esercitò la professione medica. Inoltre due suoi zii, Cristoforo e Giacomo, erano insegnanti. Da questa favorevole condizione 5 nasce la straordinaria predisposizione dell’Allegri per il sapere, da quello umanistico allo scientifico, (tav 9) anche avanzato e rivoluzionario, del tempo. Ancora in tenera età, godette dell’occasione che lo portò a incontrare Giovanni Berni, noto umanista piacentino, il quale fu il suo primo insegnante di scrittura e scienze letterarie. Altro suo maestro fu Battista Marastoni che gli insegnò l’arte dell’eloquenza e della poesia. A 14 anni, il Correggio va a Modena alla scuola di Francesco Bianchi Ferrari, maestro tecnicamente preparato, ma scarso di personalità e idee nuove. Lavora con grande passione ma non tralascia lo studio delle scienze. È in quel momento che incontra il medico Gianbattista Lombardi docente all’università di Ferrara che lo istruisce sulla medicina, la dialettica e la logica. Intanto il DNA ereditato dal padre Pellegrino, ambulante, lo spinge a cambiare spesso luoghi e maestri. Infatti di lì a poco il giovane Allegri che ha appena compiuto 15 anni si trasferisce a Mantova, città del Mantegna, dove dipinge con Francesco, figlio del grande maestro dello scorcio, (tav 10) morto qualche anno prima. Partecipa alla realizzazione degli affreschi nella cappella tombale del maestro su progetto dello stesso Andrea Mantegna, seguendo i disegni preparatori già realizzati da lui stesso qualche tempo prima di morire. A Mantova ha l’occasione di vedere per la prima volta dal vivo i dipinti su parete del Mantegna sistemati nel Palazzo Ducale e nelle varie chiese da lui affrescate. Nella casa dello stesso Mantegna (tav 11 palazzo Mantegna) potrà perfino toccare sculture, le prime stampe incise e un gran numero di disegni preparatori di famose opere tra le quali lo scorcio di Cristo deposto dalla croce (tav 12 Cristo morto di Mantegna). Inoltre nei palazzi dei Gonzaga e negli appartamenti di Isabella d’Este grazie all’intercessione di Francesco Mantegna ha l’occasione di godersi i giganteschi dipinti su tavola dedicati al Trionfo di Cesare che di certo lo lasciano senza fiato. E’ qui che l’ancor giovane Correggio capisce d’aver incontrato un suo incomparabile maestro. Infatti tutti i successivi dipinti di lì a dieci anni testimonieranno, seppur anche sotto pelle, la presenza del grande pittore di Padova. A testimonianza basta osservare un’opera dell’ancor giovane Allegri di notevoli dimensioni dove è raccontato il Trionfo di David (tav13 Trionfo di Davide libro: Correggio pag 53): qui notiamo subito l’analogia compositiva di questo dipinto con le tavole dedicate proprio al 6 Trionfo di Cesare (tav 14 trionfo di Cesare) del Mantegna a partire dalla positura in cui ci appaiono i protagonisti in primo piano. Come nella tela dedicata a Giulio Cesare, i personaggi principali si ritrovano quasi in equilibrio lungo la cornice dell’opera. Il punto di vista in tutta la sequenza di Mantegna e nella sfilata trionfale di Davide è situato in basso, sotto il livello della base dei dipinti. In particolare, la tavola dedicata al re biblico riproduce atteggiamenti, situazioni e perfino animali, bandiere e drappi collocati con grande evidenza anche dal Mantegna in quella sua imponente pittura. L’allievo qui ripropone lo stesso clima scenico dove una caterva di oggetti arraffati nel saccheggio sono presentati l’uno sull’altro fra un toro, spade esibite da guerrieri e trombe a corno trionfali, mentre lassù si affacciano, lungo la collina, palazzi, chiese, torri, campanili in condizioni precarie: è l’allegoria del mondo decrepito che bisogna abbattere e abbandonare. Ma oltre a Mantegna ecco apparire un’importante citazione dal dipinto I tre filosofi del Giorgione (tav15) grazie ad un personaggio quasi identico, il filosofo arabo con zuccotto contorto che sta appresso al sapiente cristiano avvolto in un mantello riccamente panneggiato, e che ritroviamo nelle vesti di un personaggio analogo in un altro dipinto della prima maturità dell’Allegri, cioè nel San Girolamo insieme a un folto gruppo di beati e di martiri, fra i quali San Sebastiano e Sant’Elena che regge una grande croce (tav. 16). L’insieme dell’incontro fra i santi è situato di fronte a un paesaggio incorniciato da alberi di un fitto bosco attraverso il quale il cielo viene rigato come da inferriate di rami e fronde: anche questo particolare compositivo ha origine da Giorgione e da altri pittori veneti e lombardi del tempo, quali lo stesso Mantegna e Dosso Dossi. Nel suo ricercare con costanza e caparbietà opere degne di essere studiate, il giovane Correggio scopre di possedere una grande dote: una memoria visiva davvero eccezionale. Di lui i suoi contemporanei del mestiere dicevano che fosse una vera e propria spugna: gli bastava uno sguardo su un dipinto per essere in grado di ridisegnare immagini e personaggi per intero. Del resto, in tutta la storia dell’arte si incontrano allievi fortemente dotati che all’inizio del loro percorso d’apprendistato si sono giovati di grandi maestri, vedi Tiziano con Giorgione, Leonardo con il Verrocchio, Giotto con Cimabue e Cavallini, Michelangelo con il Ghirlandaio; ma in tutto il Rinascimento ci imbattiamo in altrettanti smisurati talenti che non trovando una 7 bottega che li ospiti sono costretti ad apprendere il mestiere andando intorno per musei e collezioni. Così succede anche al nostro Correggio che si ritrova a vagare come una trottola in ogni dove e a rubare immagini, idee e soluzioni studiando sulle copie stampate o incise di artisti inavvicinabili di persona come Leonardo, Raffaello o maestri della scuola ferrarese e veneziana. Per cui quando osserviamo un dipinto dell’Allegri eseguito nei primi anni del suo apprendistato scopriamo tavole e tele la cui composizione delle figure ci appare di continuo organizzata quasi all’azzardo traendo idee e soluzioni da autori diversi. Ma per aver prove più chiare di quanto andiamo asserendo, ci basta leggere il commento analitico che ci offrono alcuni affermati critici circa un ben noto dipinto eseguito dall’Allegri ancora ragazzo: si tratta della Madonna del San Francesco tavola ad olio di grandi dimensioni (299 x 245) del 1514 (tav 17). Correggio non era ritenuto un artista precoce e fino ad un secolo fa quasi nessuno fra tutti critici accettava che questa grande tavola fosse opera sua: si parlava di pittori lombardo-veneti, specie di Mantova e Ferrara. Il Morelli, ottimo studioso, a proposito di quest’opera, mette addirittura in dubbio la formazione mantegnesca da tutti normalmente accettata, per collegarla invece al Costa (caposcuola dei maestri ferraresi) puntando soprattutto sulle caratteristiche del monocromo del basamento. Ma il Venturi nel 1915 già analizza le varie esperienze culturali che ritiene presenti nell’opera: a suo dire, la Madonna col Bambino deriva direttamente dalla Madonna della Vittoria del Mantegna (tav. 18 Correggio di Skira, pag. 123), la figura del Battista situata a destra della pala sarebbe quasi identico al Battista in Organo a Verona, i cherubini sembrano la riproduzione precisa di quelli della tavola della Madonna in trono con i santi Girolamo e Sebastiano del Bianchi Ferrari ( tav. 19 cfr. Correggio di Skira, pag. 47) di cui il Correggio è stato allievo agli esordi. L’impianto compositivo del trono senza schienale è tratto senz’altro da un analogo dipinto del Francia, così come l’immagine della Santa Caterina a destra della Vergine e le decorazioni dei capitelli. A questo proposito, lo stesso Venturi dichiara: “la pala dell’Allegri è il risultato compositivo e pittorico di un centone1 di motivi quattrocenteschi”. Ricci, altro noto critico, aggiunge ai giudizi del Venturi l’annotazione di alcuni elementi leonardeschi per la figura del San Giovanni nonché l’inserto di modelli assunti dal Perugino. E per finire il Longhi 1 Il centone è una composizione musicale composta all’ingrosso di diversi autori scelti a caso. 8 individua nell’opera una vera e propria “crisi culturale” accentuata dall’eccessiva quantità di riferimenti a più che noti pittori compreso Raffaello di cui, dice, si sente l’eco della Madonna di Dresda, in quel tempo a San Sisto di Piacenza dove il nostro Allegri ha avuto senz’altro occasione di conoscerla dappresso. A questo punto non ci resta che alzarci in piedi e gridare in coro: ladro! Ma questo insulto ci viene subito serrato nella gola da una dichiarazione di Picasso in persona che a questo proposito dichiara: “Il pittore comune di buon mestiere quando scopre un’opera di gran prestigio vi coglie l’ispirazione, il grande pittore invece non se ne accontenta: ruba tutto!” Ma a parte il lazzo e il ghiribizzo ci dobbiamo rendere conto che quel metodo spesso caotico di usare delle genialità altrui, a lungo andare, diede notevoli frutti tanto sul piano del mestiere che della creatività. Oltretutto, un’altra notevole dote procurava vantaggio al giovane pittore: era quella determinata dalla giocondità del suo carattere, il cognome di Allegri gli era assolutamente appropriato giacchè egli fin da ragazzo dimostrava una forte predisposizione al gioco ironico e scherzoso e strada facendo ve ne daremo dimostrazione trattando delle sue opere. Torniamo al problema della sua crescita sul piano culturale e cerchiamo di andare a fondo di come il Correggio riuscì ad arricchirsi della conoscenza e del sapere. ???? La spinta determinante raccoglie l’abbrivio dall’incontro dei monaci benedettini nel convento di San Paolo a Parma. Si può ben dire che per tutto il Medioevo e il Rinascimento questi monaci furono preziosi detentori della cultura in Europa. A pochi chilometri da Piacenza esiste ancora il monastero benedettino di Broni che, con quello di Benevento, hanno raccolto per secoli un numero incredibile di codici, scritti e documenti provenienti da tutte le civiltà mediterranee, a partire dai Sumeri fino ai Greci e oltre. In più, in quel periodo i monaci benedettini (tav. 20 disegno con i monaci al lavoro in biblioteca), spesso in duro conflitto con la curia romana, partecipavano alla ricerca umanistica, allo studio di filosofie non omologate e soprattutto ponevano grande attenzione allo sviluppo della nuova scienza, specie quella sulle teorie eliocentriche che avevano il loro fulcro di studio nelle università di Bologna e Ferrara. Guarda caso, in queste due Università, aggiunta quella di Padova, era studente agli inizi del ‘500 proprio Copernico (tav. 21 ritratto). Suo maestro diretto era Domenico Maria Novara che 9 aveva tradotto dal greco le intuizioni e le deduzioni di Aristarco da Samo, Ipparco di Nicea e Claudio Tolomeo (tav. 22 ritratto): tre grandi figure della storia del pensiero, modernissime, tanto che si fatica a collocarle a quasi diciotto secoli di distanza da Copernico. Questi scienziati dell’antica Grecia utilizzarono in maniera estesa la geometria e la matematica per analizzare i fenomeni astronomici: arrivarono a misurare, servendosi della proiezione delle ombre prodotte dall’astro solare al suolo, la distanza dalla Terra al Sole e di conseguenza quella dal satellite terrestre al Sole e alla Terra (tav. 23 disegno del sistema copernicano). Correggio viene letteralmente coinvolto dalle idee assolutamente sconvolgenti che quei monaci gli propinano a valanga e nello stesso tempo la reazione del giovane artista così entusiasta produce una grande simpatia e ammirazione nei suoi riguardi da parte dei monaci che immediatamente lo ingaggiano per progetti immediati di pittura, soprattutto in affresco, dei quali tratteremo tra poco. Nello stesso momento l’Allegri lavora al monastero delle suore benedettine dove viene in contatto per la prima volta con la famosa badessa Giovanna da Piacenza, una donna di eccezionale cultura oltre che di fascino, di cui pare fosse notevolmente dotata (tav 24). La nobildonna gli commissiona di affrescare la famosa Camera Alchemica, in particolare la volta che il Correggio propone di dividere in lunette fitte come raggi proiettati dal sole. Egli qui ha l’idea di dar volume alle figure illuminandole dal basso come se un gran numero di candele sistemate su un grande tavolo centrale da pranzo spargesse luce all’insù. Nella volta, inserite nello spazio fra i raggi (tav 25), ci sono quindici monete sulle quali sono raffigurati putti che giocano fra loro e si divertono tenendo fra le braccia cuccioli di cani e altri piccoli animali. Le figure dei bimbi sono di ottima fattura tanto che subito vengono in mente le immagini di fanciulli dipinte da Raffaello (tav. 26 particolare putti di Raffaello). E’ da qui che alcuni critici con giusto intuito hanno ventilato per la prima volta l’idea che senz’altro il Correggio già prima di allora dovesse aver visitato Roma e là avesse osservato con straordinaria attenzione gli affreschi e le tele del maestro di Urbino. Lo stesso discorso vale per le immagini inserite nei semitondi (tav 27 + 27 bis) presentati come fossero piatti da portata che nel mezzo illustrano scene dei miti più famosi della cultura greco-romana come il giovane uomo che toglie un serpente da un vaso (immagine 28), la Fortuna con la cornucopia (immagine 29) e per finire nel 10 triangolo che sovrasta il caminetto Diana col suo cocchio (immagine 30). Alcune immagini delle decorazioni restano misteriose, solo la badessa ormai avvolta nei panni di una profetessa alchemica avrebbe potuto forse svelarcene il mistero. Abbiamo detto e visto la cupola della Camera Alchemica dai raggi solari delle quindici monete che roteano intorno a un immaginario Sole. E’ di certo in quella occasione che l’Allegri conobbe la figura di Aristarco (tav 31), lo scienziato che per primo intuì la nuova idea del sistema planetario. Le straordinarie intuizioni dello scienziato nato nel IV secolo a.C. in un’isola dell’Egeo, nel ‘500 furono studiate e divulgate in gran parte delle università italiane, prime tra tutte, oltre quelle di Bologna e Ferrara, quelle di Pavia e Napoli. A proposito della Campania e dei religiosi vogliamo ricordare che uno dei più appassionati fautori di questa idea, che capovolgeva la teoria geocentrica, fu Giordano Bruno (tav 38), un domenicano nato a Nola. Fra gli intellettuali umanisti la rivoluzione copernicana era seguita con grande interesse. Leonardo aveva dichiarato: “Di certo non è la Terra al centro del sistema, piuttosto al centro sta il Sole e intorno roteano i pianeti con la Terra posta in disparte con essi”. Non soltanto del nuovo sistema se ne parlava sottovoce in qualche università del Nord, ma addirittura se ne faceva spettacolo in alcune corti come quella di Ludovico il Moro a Milano, dove Leonardo (disegno del progetto leonardesco 33) aveva addirittura ideato e messo in opera uno spettacolo agito per mezzo di uno straordinario impianto scenico mosso da ruote, argani e ingranaggi che muovevano sfere galleggianti nello spazio dove il tutto proiettava una fantastica idea del creato. Scorrendo la vita dei grandi pittori come il Correggio ci rendiamo conto del ripetersi di una costante quasi identica: la straordinaria importanza che ha avuto nell’evolversi della loro personalità la presenza di donne eccezionali. Anche per il nostro Antonio le figure femminili che hanno contato come catalizzatori assoluti della sua evoluzione sono state almeno quattro: la prima è senz’altro Giovanna da Piacenza, badessa del Monastero di San Paolo in Parma, che vi abbiamo appena presentato, una figura di grande prestigio e intelligenza oltre che cultura: è lei che commissionò ad Antonio Allegri l’affresco della Camera Alchemica e sicuramente gli suggerì anche i temi della 11 rappresentazione, a cominciare dalle allegorie scientifiche legate ai miti ellenici per poi raggiungere la sequenza dei simboli. Certo non capita tutti i giorni di incontrare una badessa (tav 34) che s’è posta come compito primario quello di allevare e indurre al distacco dal mondo e dalla vanità un numero cospicuo di tenere fanciulle e che impieghi un metodo tanto spregiudicato, ma, - guarda tu! - l’inconsueta educatrice per raggiungere questo scopo si avvale di figure mitiche, cariche di ambigui significati pagani: il pittore è invitato a presentare satiri che producono armonie soffiando in conchiglie, (tav 35) Amore che offre luminose passioni (tav 36), la Purezza che avanza danzando e sollevando la gonna (tav 37), quasi a sottolineare che la danza non è solo simbolo di vanità e di peccato, ma anche e soprattutto di sacra armonia. Il tutto scorre su trabeazioni e semicerchi sorretti da capitelli decorati con teste d’ariete (tav 38), segno della potenza costante del pensiero. Quindi ancora induce l’affrescatore a presentare una fanciulla simbolo della Verginità (tav 39), che non teme il gesto di sollevare le vesti sopra le ginocchia e agita una verga sulla quale è spuntato un bianco fiore, e appresso una ninfa che allude al buon Governo e che va offrendo una cornucopia per indicare fortuna e fecondità. Ancora vediamo sfilare Minerva che mostra una torcia fiammeggiante e s’appoggia all’asta della potestà. Chiude il ciclo una conca con le tre Grazie, le tre figlie di Giove ignude che rappresentano splendore, gioia e prosperità (tav 40): la fanciulla che allude alla Gioia, nel centro, ci volge la schiena e mostra due possenti glutei, alla sua sinistra lo Splendore che si guarda bene dal ricoprirsi il pube e i seni, e la Prosperità che si volge quasi indignata nell’atto di insultare l’immaginario pubblico che la sta spiando con eccessiva morbosità. Insomma, siamo alla rappresentazione scenica dove la finzione allegorica è segnata dalle maschere dei montoni di una commedia non necessariamente classica, ma piuttosto della farsa giullaresca dove i vari arieti ci osservano ammiccanti e spesso irridenti. Abbiamo già notato come in una delle decorazioni appaia un cranio mozzato e una scure simbolo del sacrificio atellanesco dove l’immolato purificante si preoccupa di creare ironia e giocondità. Questa, ormai l’abbiamo già accennato, è la costante fondamentale dell’Allegri, un nome che è una garanzia: il grande senso dell’umorismo. 12 Nel centro la badessa ha chiesto fosse rappresentata una dea che conduce un carro decorato con ferro e rame, trainato da due possenti cavalli, dei quali si scorgono solo le terga. Naturalmente quella femmina risoluta rappresenta Diana cacciatrice, (tav 41 diana cacciatrice) armata di arco e frecce, una figura evidentemente allegorica dedicata alla stessa nobildonna Giovanna: non a caso l’atteggiamento della dea è tipico di una persona che se ne sta in posizione frontale per essere ritratta e ci sta guardando senza alcun turbamento. Ci viene naturale l’idea che a posare per questa Artemide sia stata proprio lei, l’ancor giovane badessa. Lo stesso volto e sguardo lo ritroviamo nella Maddalena realizzato nello stesso periodo dove la donna ritenuta dalla tradizione l’innamorata di Gesù ci guarda con la stessa espressione ed intensità (tav 42). Qui la giovane sta leggendo un libro, atteggiamento che la indica fortemente incline al sapere. Come è costante in tutte le immagini che rappresentano Maria Maddalena ritirata in una grotta nella foresta, la donna se ne sta seminuda con un solo grande drappo che le scende dal capo e le avvolge il petto. È la prima volta che scopriamo una così minuta e straordinaria verzura dentro un dipinto del Correggio (tav 43): qui sembra che il pittore voglia misurarsi con Leonardo nella perfezione riproduttiva delle fronde che fanno da cornice alla santa. Ma tornando alla dea cacciatrice ci viene logico chiederci perché di questa allegoria. Si può arguire che, ancora in tenera età, Giovanna per situazioni legate alle solite imposizioni dinastiche fosse stata costretta a prendere i voti e che da ragazza amasse particolarmente le battute di caccia e il clima festante che qui la accompagna. Infatti nel pergolato trapuntato da medaglioni illustrati, leggiamo scene che alludono vivamente all’arte venatoria: si tratta di bimbi che giocano con piccoli cani da caccia che reggono teste di prede da imbalsamare come trofei (tav 44). I ragazzini, presentati in numero notevole, ci portano subito a ricordare: quelli di fattura rinascimentale, mostrano lo stesso incarnato e scoppiano di salute, ma qui nell’affresco di Correggio, sia i gesti che i volti dei putti non appaiono mai come stereotipi di convenzione, anzi ad ognuno corrisponde un diverso ritratto ripreso dal vero. A questo realismo l’Allegri era portato fortemente dalla presenza, nella sua casa, come abbiamo già accennato, di una strabordante quantità di nipoti che invadevano ogni spazio con i loro giochi e le immancabili 13 caciare. E così possiamo sottolineare che il tema del dipinto rientra nel mito, ma la realizzazione è tradotta nella quotidiana realtà. La messa in opera architettonica delle stanze della badessa fu evidentemente progettata sotto la sua direzione: Giovanna s’era anche assunta l’onere finanziario. Era lei quindi che gestiva quello spazio e che invitava personaggi che partecipavano ai convegni con il dibattito e lo studio. Ma quella insolita autonomia non doveva far molto piacere a certi personaggi di potere nella città tant’è che nel momento in cui la gestione politica e amministrativa di Parma diveniva totale diritto della chiesa vaticana fu imposto alla badessa di chiudere a tutti gli estranei l’accesso alle sue stanze. La ormai famosa Camera veniva a far parte della zona riservata alla clausura; per di più alla nobildonna venne tolto anche l’intero patrimonio di cui disponeva, denaro che dal quel momento entrava nella regola della comunità dei beni. L’altra figura femminile che notevolmente ha inciso sulla preparazione intellettuale e umana di Correggio è stata senz’altro Veronica Gambara (1485-1550) (tav 45). Antonio Correggio era ancora un ragazzo quando la signora, maggiore di lui di quattro anni, gestiva con suo marito Giberto X la signoria della città di Correggio. Colta e letterata di valore, era ritenuta poetessa di notevole talento. Nel suo palazzo ospitò i più famosi scrittori del tempo, fra i quali Bembo, Ariosto e Tasso. Inoltre ebbe modo di accogliere a corte per ben due volte l’imperatore Carlo V. La nobildonna era rimasta da poco vedova di Giberto X, che ella amava appassionatamente, nello stesso tempo in cui incontrò il Correggio presentatogli da Giovanni Battista Lombardi, il più stimato frequentatore di quel circolo, legato da profonda amicizia col pittore. Il 3 settembre del 1521 quando il primo figlio di Correggio, Pomponio, venne battezzato, Lombardi gli fece da padrino. Che il Correggio chiamasse deliberatamente il figlio col nome del celebre umanista Pomponius Laetus ci dice quanto fosse intenso l’interesse che il pittore manifestava per la conoscenza e il sapere, passione che di certo gli veniva dal frequentare personalità quali il Lombardi, la Veronica Gambara e tutta quella corte di poeti e umanisti che abbiamo testé nominato. Questa è certo l’ovvia ragione che fa dichiarare a 14 Ekserdjian2, uno dei maggiori studiosi della pittura rinascimentale, che l’Allegri sia da ritenersi la personalità più colta fra tutti i pittori del suo tempo. Di certo la Gambara, donna di straordinaria cultura e fascino, fu determinante nel coinvolgere l’ancor giovane Antonio nel mondo della ricerca totale per acquisire conoscenza sia dell’antico che del pensiero novo. La frequentazione fra l’Allegri e la nobildonna fu costante e intensa tanto che per molto tempo si ritenne certo che il quadro dedicato ad una nobile signora altri non fosse che il ritratto della malinconica amica del pittore. Più di un particolare rendeva certa l’attribuzione: le perle che pendono dal velo sul capo, il tono e la maestà del suo abbigliamento e soprattutto la dicitura sul bordo della tazza in proscenio dove in lettere greche è scritto “nepenthè”, nome di una bevanda che reca l’oblio alla memoria e al dolore: è inteso chiaro che quella sofferenza per lei era impossibile potesse svanire. Ma più tardi sorge una giusta obiezione: la donna ritratta è di certo legata ai francescani. Lo si deduce dallo scapolare e soprattutto dal cordone dell’ordine suddetto che le cinge la vita. Quindi si tratta di Ginevra Rangone, terziaria francescana, che ancor giovane a sua volta perse il marito Giangaleazzo da Correggio deceduto nel 1517. Dal ritratto si evince chiaramente che si tratta di una donna di fresco e dolce aspetto. Ginevra, a differenza di Veronica Gambara, è risaputo, riuscì a superare quella sua disperata tristezza tant’è che si risposò di lì a un anno. L’inserimento di un’iscrizione greca in un quadro di pittore italiano è a questa data estremamente insolito. La conoscenza del greco non era per niente diffusa, persino fra i più istruiti. La scritta è tratta dall’Odissea. Certo, non è di tutti i giorni scoprire che un pittore del ‘500 nato da una famiglia di venditori ambulanti nel piccolo comune di Reggio fosse in grado di leggere e tradurre tranquillamente un testo di Omero in greco attico. Ma se è per questo è altrettanto stupefacente, come scopriremo fra poco, che questo figlio di paesani minori avesse appreso a manovrare un astrolabio così da rilevare le proiezioni delle distanze e i punti focali sistemati in una cupola a 18 metri d’altezza, che potesse dialogare con i più colti rettori di Università e che si potesse dichiarare il maggiore fra gli scienziati della prospettiva e dello scorcio con Piero della Francesca e Andrea Mantegna. 2 David Eksedjian, Correggio, Silvana Editoriale, 1997. 15 Ora ci coglie un pensiero: fu la colta modella a suggerire al pittore quella dicitura o egli per proprio conto decise di farne uso? La stessa immagine del ritratto di Ginevra la ritroviamo nel dipinto dedicato al Riposo durante la fuga in Egitto (tav 46): qui la Madonna ha lo stesso suo volto e il suo stesso sguardo mesto e malinconico. Ma tornando all’altra signora della malinconia, Veronica Gambara, veniamo a sapere che essa teneva una fitta corrispondenza con Isabella d’Este (tav 47), signora di Mantova. In una di queste lettere la duchessa, conversando d’arte, chiama il Correggio familiarmente con l’espressione “il nostro Antonio” e si intuisce come entrambe le due dame mostrassero ammirazione e stima per il pittore: questo prova a che livello fosse giunta la sua fama e credibilità. È risaputo del resto che gli interessi di questa straordinaria signora riguardo alle arti del suo tempo fossero addirittura proverbiali: fu la prima in Europa a fondare ed organizzare un teatro con tanto di macchine sceniche e naturalmente una compagnia di attori di professione anticipando così i famosi comici dell’Arte, trattava con poeti e musici fra i più famosi, per non parlare della sua passione per la pittura. La duchessa conobbe l’Allegri ancora ragazzo, ma più tardi ebbe qualche difficoltà ad incontrarsi con lui: la causa di tanta crisi era dovuta alle avventure galanti del marito Francesco II (tav 48) che l’amava intensamente tanto da renderla madre per ben nove volte (cinque femmine e quattro maschi), ma nello stesso tempo andava a scaricare la propria passione anche con altre numerose amanti. Queste continue performance dell’insaziabile Gonzaga la mortificavano profondamente. Quindi viveva sempre più appartata, non amava più incontrare chicchessia. Qualche anno dopo la famosa battaglia di Fornovo presso Parma, l’irrefrenabile Francesco, comandante della coalizione degli eserciti italiani viene ingaggiato dai veneziani perché prendesse il comando delle truppe della Serenissima. Nel frattempo si rende conto d’aver contratto una malattia tipica di chi frequenta prostitute che normalmente seguono gli eserciti, la sifilide, un morbo terribile e infamante. Isabella ne rimane sconvolta e non ne vuole più sapere di incontrarsi col marito, ma come si dice, le disgrazie arrivano sempre a grappolo. Il doge di Venezia scopre che il loro generale, il marchese di 16 Mantova, sta tramando con i nemici della Serenissima: il maneggione fa appena in tempo a fuggire e rifugiarsi presso le truppe della coalizione antiveneziana. Ma il Gonzaga viene catturato e portato a Venezia, processato e costretto in galera a vita con la condanna di tradimento. Le vicissitudini provocano a Isabella un dolore che la porta a gonfiarsi come affetta da obesità straripante al punto da non riuscire più a salire le scale, perciò è costretta a vivere al pian terreno del castello dei Gonzaga. Ciononostante si butta con disperato impegno a scrivere lettere e inviare messaggeri presso la Repubblica veneta e perfino dal papa per fare sì che il traditore venga perdonato e tolto di galera. Dopo numerosi tentativi andati a vuoto Isabella riesce a ridare al marito la libertà. Dopo qualche anno, nel 1519, Francesco, consumato dalla orrenda malattia, muore. Siamo nella primavera del 1517, una data per l’Allegri fondamentale, diremmo magica, quando gli viene messa a disposizione un’enorme stanza nel complesso del monastero dei benedettini di Parma perché egli possa eseguire i cartoni per l’affresco che dovrà decorare l’intera cupola del San Giovanni Evangelista. Il Correggio ha deciso di far apparire Cristo lassù nel centro della cupola dentro un immenso catino lungo 9 metri e largo 8 (tav 49 e tav 50). Nel cielo il corpo di Gesù alluderà nei gesti a un lento volo. Intorno a lui centinaia di teste di bimbi si vedranno affiorare appena illuminati da una luce dorata proiettata dalla figura del figlio di Dio che qui, come nella metafisica socratica, rappresenterà il Sole. Intorno appariranno i dodici apostoli sdraiati su nubi sorrette e spinte da putti che agiranno come in una grande giostra. Ogni figura si muove sottolineata dal vento che agita i capelli, le vesti e i mantelli dei santi. La luce costante che dà vita agli apostoli, alle nubi e ai putti, proviene da Cristo. Qui l’idea del turbinare astronomico si sviluppa con una forza allegorica sconvolgente. Naturalmente la trasposizione metaforica permetteva di celare l’esplicito discorso scientifico rivoluzionario dell’universo. Siamo nel 1517, proprio negli anni in cui si organizza la Controriforma, e in quel clima non era molto agevole e conveniente dichiararsi entusiasti del capovolgimento che negava la teoria tolemaica. Infatti Copernico, proveniente da Varsavia, 17 trovandosi all’università di Ferrara, invitato dal Papa Leone X a Roma a illustrare la propria idea del creato, glissò decisamente l’invito e ritornò nella sua Polonia più tranquilla, per non scendere mai più in Italia. Quando si dice: il terrore di scoprirsi inquisiti dal Santo Tribunale. Ma protetto come si sentiva l’Allegri dai suoi fratelli benedettini, il timore di trovarsi sotto indagine non lo sfiorava nemmeno. È la prima volta nella storia della pittura che un artista riesce a realizzare una serie d’opere tanto azzardate, quasi impossibili: stiamo parlando tanto della cupola di San Giovanni (tav 51) che quella nel Duomo di Parma (tav 52). Va ricordato che la Cappella Sistina e le sue volte furono affrescate da Michelangelo circa 15 anni dopo e il Giudizio Universale tra il 1536 e il 1541, cioè 18 anni più tardi. E ancora, prima dell’Allegri nessuno mai aveva realizzato un affresco su una cupola posta così in alto. Nel primo grande affresco di Parma, su un lato, nel cerchio di base, è evidente la figura di San Giovanni. Infatti la scena è dedicata al racconto della sua visione, evento accaduto poco prima della morte. Sembra quasi di udire la voce del quarto evangelista che narra la nascita dell’universo, noi abbiamo scelto di pubblicarla nella traduzione dall’originale greco proposta dal Diodati, uno dei primi traduttori in volgare della Bibbia, alla fine del ‘500: “Nel principio la Parola era, e la parola era appresso Dio, e la Parola era Dio. In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini. E la luce riluce nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno compresa. Colui che è la luce vera, la quale allumina ogni huomo che viene nel mondo, era”. Per dipingere la visione di San Giovanni narrata sull’intera conca della cupola, il Correggio impiegò due anni, dall’inizio del 1520 alla fine del 1521. Per riuscirvi inventò macchine e si servì di apparecchiature inusitate. Innanzitutto, è quasi certo disegnò l’intera azione scenica sul pavimento quasi a specchio della cupola. Per riportare sul piano di base dell’arcata le distanze e le collocazioni dei personaggi che avrebbe dovuto dipingere lassù, realizzava sul pavimento i calcoli per mezzo dell’astrolabio, (tav 53 e tav 54) l’apparecchio a cerchi intersecati e concentrici di cui si servivano i marinai per orientarsi misurando la distanza che intercorre fra le stelle. 18 A questo punto sul testo viene mostrata una paradossale allusione scenica del progetto dell’impalcatura che sale per l’intera cupola, voluta e gestita dai monaci che a Parma sono anche gli impresari del Duomo, anch’esso in ristrutturazione. (tav 55) Parma da ormai mezzo secolo è diventata un solo enorme cantiere, non si progettano e costruiscono solo chiese, ma anche un gigantesco ed altamente operativo ospitale, più numerosi edifici pubblici per la gestione amministrativa dell’intera città. (tav 56) Ma dove e in conseguenza di che situazione è nato e sta sviluppandosi questo particolare momento positivo di Parma? Tutto ha origine e si propaga nell’intera Lombardia grazie ad un nobile decesso, o se preferite, al decesso di un nobile… nonché principe: costui è Filippo Maria Visconti (tav 57) che muore nel palazzo ducale della capitale lombarda nel 1447 creando un impressionante vuoto di potere nella città e nell’intera regione. Dopo un attimo di sgomento la popolazione di Milano proclama l’Aurea Repubblica Ambrosiana. Lo stato visconteo si era esteso in quel tempo fino a Parma, Bologna, Pisa, Siena, Lucca e Perugia e all’istante si sparge anche nel nucleo più antico delle città lombarde. Parma diventa la proclamatrice della “libertas comunalis”, acquistando, come Mantova, Cremona, Brescia e tutte le città della piana del Po, una completa autonomia politica e giuridica: riappare la “libera magistratura della ragione” gestita con il ritorno degli anziani ‘rettori’ dei Comuni (tav 58). Nel governo della città rientrano i mercanti e gli artigiani, i popolari e i meccanici (tav 59). In questa situazione ancora incerta, i veneziani cercano di approfittare dell’empasse politico e amministrativo per appropriarsi dei terreni e delle città meno protette nei territori dei nuovi liberi. Ma nel nuovo territorio i ‘liberati’ non ne vogliono sapere di questa prepotente ingerenza e organizzano la resistenza. Nel 1448 a Casalmaggiore i lombardi con Francesco Sforza sconfiggono i veneziani, ma vedremo che, come succede spesso, gli alleati, guerrieri di professione, riusciranno a mangiarsi terre e autonomia degli insorti. Come ci spiega Marzio Dell’Acqua nel testo Correggio e le sue cupole, la creazione della Repubblica parmigiana, la fragilità politica e militare delle nuove strutture, le contraddizioni fra 19 il ripristino dell’antico e le difficoltà di dare forma al nuovo, spingono capitani che avevano militato nelle armate di Filippo Maria Visconti a portarsi a Parma con proprie truppe e cercare di riconquistarla per poi guadagnarsi una signoria di dominio del contado e della città. Il più aggressivo di questi è senz’altro Pier Maria Rossi. Ma gli attacchi e le aggressioni continuano finché ecco finire la breve ma intensa parentesi della libertà parmigiana che non è riuscita a neutralizzare le potenti e consolidate aristocrazie del contado. Ciononostante, il biennio libertario ha avuto un grande pregio, quello cioè di far conoscere alle classi della nobiltà cittadina, soprattutto ai mercanti e agli artigiani nonché al popolo minuto, una forza che non credevano o non sapevano di avere, una possibilità di autonomia e riscatto dalle antiche fazioni. Così anche per questa nuova classe dirigente cittadina si apre una possibilità autonoma di far crescere il proprio potere. Com’era prevedibile, nel 1450 Francesco Sforza entra a Milano sopprimendo la Repubblica Ambrosiana e ripristinando totalmente il ducato. Nel 1454 la pace di Lodi tra Milano, Venezia, Firenze e il Papa sancisce una “Santissima Lega Italica” che garantisce un equilibrio politico tra le potenze della penisola e assicura un lungo periodo di non belligeranza. Il Concilio di Firenze del 1439 e la fuga degli intellettuali da Costantinopoli porteranno l’Italia alla scoperta dell’antica letteratura greca e dei trattati scientifici di cui abbiamo già parlato, cioè inerenti alla teoria eliocentrica. All’interno delle città lombarde si comincia a sperimentare il nuovo sapere umanistico affermando la nuova fresca visione architettonica e prospettica. Il rapporto fra i nobili dominanti e la condizione dei dominati cambia di valore e proporzione, il che dà impulso straordinario allo sviluppo della città. Si aprono nuovi cantieri, si costruiscono palazzi comunali e di giustizia, una sequenza di poli universitari e scuole primarie e perfino nuove prigioni. Ancora, finalmente, ci si occupa di ristrutturare i canali e gli argini del fiume maggiore. Ma l’opera davvero colossale che si metterà in atto alla fine del secolo sarà il teatro Farnese che ospiterà più di cinquemila spettatori e dove si organizzeranno perfino battaglie navali, dopo aver naturalmente riempito l’enorme conca d’acqua pompandola per giornate da tre fiumi che attraversano e lambiscono la città. I prìncipi intendono chiaramente il valore dell’architettura ed imparano anche ad apprezzare chi sa progettare e costruire, dal che gli artisti si confrontano con loro alla pari e non è un caso che i 20 più apprezzati da questi signori siano proprio gli ingegneri idraulici, gli architetti, e non ultimi pittori e scultori, insomma gli artisti che si occupano della trasformazione urbana, territoriale e delle opere figurative. E’ nella metà del secolo XV che Gutenberg a Magonza inventa la stampa a carattere mobile. In Italia, questa rivoluzionaria tecnica del riprodurre gli scritti giunge prima a Venezia poi a Firenze e Napoli; qualche anno dopo raggiunge anche la Lombardia. A Parma l’editoria guadagna una forte presenza in città: fra le prime stampe viene eseguito l’atto costitutivo che sancisce i diritti e i doveri fra i contraenti, cioè gli amministratori e le organizzazioni corporative della città. A Parma Angelo Ugoleto è il primo tipografo che stampa le traduzioni di testi dal latino e dal greco, tra le quali l’opera del poeta latino Decimo Magno Ausonio. A fianco delle stamperie, dobbiamo ricordare le fabbriche di carta, lungo il rio dei Folli, che costituiscono una fondamentale industria locale. Queste due attività portano alla creazione di una biblioteca pubblica presso la cattedrale di Parma, con il sostegno dei canonici. All’inizio la Chiesa appoggiò la nuova tecnologia che permetteva la rapida moltiplicazione dei testi e soprattutto la divulgazione grazie a una spesa meno onerosa specie da parte dei ceti meno abbienti, mentre i principi guardavano con certo sospetto ad una rivoluzione che permetteva a nuove classi sociali di accedere alla cultura, al sapere e ad un’informazione diversificata. In un secondo tempo, accortisi di questo pericoloso valore democratico e dialettico, oggi diremmo liberale, il clero, visto che quella innovazione permetteva anche ai “semplici” di accedere a testi di cui era proibita la divulgazione letteraria, perfino alla Bibbia e al Vangelo, magari anche in volgare, impose divieti e censura nei riguardi di tutta la stampa in genere. Nel 1495 si assiste allo scontro fra l’esercito francese di Carlo VIII e la lega composta da truppe dei vari principati italiani e dalle truppe del papa Alessandro VI e la Spagna. Nello scontro in verità non ci sono né vinti né vincitori, specie per le armate italiane di cui restano sul terreno circa duemila uomini. La lega però grida vittoria e in quell’occasione viene chiesto a Mantegna di dipingere una pala dedicata appunto alla Madonna della Vittoria che Correggio assunse come modello assoluto. (vedi immagine 14) 21 Da quell’evento si susseguono altre battaglie fino a quella di Ravenna nella quale i francesi non vengono battuti, ma inaspettatamente abbandonano l’Italia lasciando le città e i feudatari in balia dell’esercito papale schierato con la Spagna cosicché Parma diventa territorio della Chiesa che ne rivendica il possesso con papa Giulio II. La Roma vaticana impone il proprio dominio, ma il fatto straordinario è che ciononostante Parma riesce a realizzare un’incredibile ripresa sia economica che culturale. Nella gestione della città vengono rappresentate tutte le diverse classi sociali quasi al completo, fra queste i dottori e i cavalieri, i piazzesi, i mercanti e gli artisti, fra i quali erano in gran numero gli artigiani. Ogni proposta innovativa veniva discussa e votata: esistevano le fazioni politiche e perfino i voti d’accatto, cioè comprati sottobanco. La votazione avveniva servendosi di fave per approvare e, al contrario, di fagioli, per bocciare una decisione. Questo espediente venne però abbandonato dal momento che i consiglieri corrotti pur di rendere nulla la votazione arrivavano a mangiarsi tanto le fave che all’occorrenza i fagioli. Ai legumi vennero sostituiti piccole pietre di fiumi tonde e colorate tanto che venne messo in circolo un detto popolare che recitava: “Quel consejèr gh’è tant balord ché pur ad sguadagnèr al s’magnarebb anca al so balèt… quei de pedra!”. In tutto questo conflitto, di volta in volta tragico o grottesco, chi continuava a gestire la propria posizione di vantaggio e di rispettoso consenso della popolazione erano i monaci, che nell’ultimo mezzo secolo erano riusciti a rimontare una loro pesante crisi sia organizzativa che qualitativa nell’ambito religioso. I loro storici monasteri rischiavano di crollare causa la dissipazione organizzata dai commendatari imposti dai vari papi. All’inizio del Quattrocento Ludovico Barbo aveva riformato una parte dell’ordine riuscendo a riaffilare i vari monasteri sparsi qua e là della zona: le loro sedi tornarono a vivere una situazione di recupero dell’originale spirito benedettino. Il dibattito e il confronto sia culturale che religioso è alla base di questo innovamento: i benedettini si danno anche una struttura dove i posti di comando sono gestiti con il benestare e controllo dell’intera comunità monacale. Il loro motto, che da sempre era rimasto “Ora et labora” si arricchisce di un’ulteriore regola: conosci e confronta, non far uso del dogma per negare qualsiasi nuovo pensiero. 22 E’ in questo clima che Correggio opera e si arricchisce d’ogni nuova cognizione e guadagna massimo rispetto e ammirazione dai monaci tutti, tanto che viene a sua volta eletto conventuale di quell’ordine. Di certo, senza i monaci di Parma il nostro Antonio pittore non avrebbe avuto la fortuna di poter salire fin alla cima delle due cupole per realizzare questo suo indiscusso capolavoro. Ma tornando d’appresso al Paradiso di Correggio, figure di santi se ne stanno a spaparanza su morbide nubi delle quali altri santi (tav 34, tav 35), soprattutto femmine e fanciulle alate, vanno agitando tamburelli e suonando viole e abbracciandosi a cirri gonfi come cuscini tenuti in grembo nel tentativo di nascondere almeno in parte la figura rimasta ignuda: sembra di sentir recitare le rime di una spumeggiante epigramma satirico di Marziale che descrive una ragazza immersa nell’acqua di una tiepida fonte che vuol risalire all’asciutto (tav 36). Un’amica le lancia un largo lenzuolo che la fanciulla agilmente acchiappa risalendo per una scala, il lenzuolo le sfugge per cui va mostrando due splendidi seni nudi: con uno scatto manda un grido pudico e, svelta, raccoglie il drappo ricoprendosi il petto, ma, ahimé, lascia scoperto il ventre e il pube. Altro grido, questa volta lanciato dai giovani che stanno sulla cornice della fonte. Nuovo scatto di braccia, mani e fianchi per nascondere le nudità. Finalmente la fanciulla è del tutto abbigliata, si volta ed esplode un altro grido compiaciuto: la ragazza sta mostrando schiena e sedere nudi per la gioia festosa di ognuno. Più o meno è la stessa allegrezza che vediamo ripetersi nelle progressioni di questo santo baccanale giocato nel cielo. (tav 37) Dalle mani dei festanti spuntano tamburelli e dalle bocche flauti, agitati nel dare il ritmo a un concerto dove musici, maschi e femmine, danzando soffiano nei loro strumenti. Da una nebbia appena accennata sorgono immagini di cherubini e di figliole che via via si fanno più nitide e riconoscibili. (tav 38) L’Allegri, qui, ha badato bene di non ripetere mai identiche sembianze. Infatti ogni ragazza mostra carattere e fisionomia diversi: evidentemente appartengono a differenti modelle alcune delle quali di certo s’accompagnavano volentieri con l’ancor giovane maestro. A questo proposito, è risaputo che i monaci e gli amici d’ambo i sessi spesso chiedessero all’Allegri: “Antonio, cosa aspetti a mettere capo a buon partito? Ormai sei in giusta età per prender moglie e aver figli. Con tutte le ragazze che ti stanno intorno non hai che deciderti…”, 23 e pare il pittore rispondesse immancabilmente: “Aspetta. Non subito, ci penserò domani…”, e quel “domani”, che era già il nomignolo di suo padre Pellegrino, così divenne così l’appellativo dell’artista ripetuto da tutti. Allegri, detto Correggio, trascritto in “Ilare”, soprannominato “Sì, ma domani”. (tav. 39) Ma ogni rimando, è risaputo, ha il proprio tempo definitivo e nell’anno stesso in cui si spalanca il doppio cantiere per le cupole (1517-18), ecco che per incanto, a tempo giusto, appare la splendida compagna che il destino gli sta proponendo, Girolama. (tav. 40) Antonio ogni tanto ha bisogno di uscire da quella gabbia celeste stracolma di beati che gli sta diventando alquanto ossessiva, così se ne torna al paese per cercare di ritrovare una situazione finalmente famigliare: sta passeggiando per un vicolo nel centro della città di Correggio, quando viene all’improvviso travolto da un gruppo di ragazze che, sciamando, si rincorrono per gioco (tav. 41). In particolare va a scontrarsi con una di quelle figliole che lo getta letteralmente a terra e gli si frana addirittura addosso: (tav. 42) seduti per terra, dopo un primo momento d’impaccio, entrambi scoppiano in una fragorosa risata. È un incontro quasi magico, che trasforma e sconvolge interamente la vita di entrambi, maschio e femmina, completamente e per sempre. Appena Girolama, con quella sua presenza piena di timore e luminosa al tempo, si incontra col pittore appare confusa, non si sarebbe mai aspettata che il personaggio più noto e famoso della piccola città (Correggio a quel tempo faticava a raggiungere i mille abitanti) dimostrasse tanta attenzione per lei e la invitasse addirittura a passeggiarle appresso. (tav. 43) Antonio e Girolama si danno spesso appuntamento e di certo di lì a poco lui vuol conoscere i suoi genitori: scopre che il padre della ragazza, un armigero del duca di Correggio, è rimasto ucciso in uno scontro in battaglia nel primo anno di vita della piccola Girolama, mentre della madre di lei non si sa nulla. Ma Antonio ha intenzione di stupire quella figliola fino allo stordimento e così la conduce con sé a Parma, e con l’aria di compiere una normale visita alla basilica di San Giovanni, le fa strada fino alla base della cupola trasformata in cantiere. Girolama rimane a dir poco sconvolta. Subito sul pavimento incontra, distesi uno appresso all’altro, grandi cartoni sui quali sono disegnate figure volanti di santi e bambini fra le nuvole (tav. 44). Antonio prende per mano la 24 ragazza e la invita a camminare su quell’immenso abbozzo. “Perché – chiede – hai steso tutto il progetto sul terreno?” E Antonio le risponde: “Per poterlo osservare dall’alto senza torcere il collo in aria rischiando un coccolone.” “Non capisco…” Antonio la riprende per mano e la conduce verso un’impalcatura dalla quale partono scale che s’arrampicano verso l’alto (tav 45). Montano lassù, raggiungono una specie di poggiolo dal quale ci si può affacciare. “Guarda in basso – la invita Antonio – ecco, di qua puoi immaginare come si presenteranno le figure una volta dipinte nella cupola. Chiudi gli occhi per un attimo prima di volgere lo sguardo in basso e riaprili immaginando di aver rovesciato il tuo corpo così da trovarti con il viso volto verso l’alto.” (tav 46) Girolama chiede: “Cos’è, un gioco?” “Tu fai come ti dico…” La ragazza esegue e quindi esclama: “E’ vero, così si può immaginare come sarà il dipinto terminato. E’ stupendo!” Antonio si fa portare da un collaboratore un aggeggio meccanico con archi in metallo rotanti, lo consegna alla ragazza dicendole: “Ora poniti lo strumento davanti agli occhi e puntalo in alto.” “Cos’è?” chiede. “E’ un astrolabio: se ne servono i marinai per misurare la distanza fra le stelle e la Terra così da potersi orientare in mare.” “Meraviglioso! E come funziona?” “Non è semplice. – dice Antonio – Prima di tutto devi appoggiare questa stampella alla spalla sinistra, poi far scorrere la struttura a cerchi fino a raggiungere il livello degli occhi. Ora torci l’astrolabio e guarda dentro questa piccola apertura.” La lezione dura per un certo tempo, poi entusiasta la ragazza grida: “Ci sono riuscita! La tacca qui dice 15 piedi.” “Brava!” 25 E senza rendersene conto si abbracciano. Per fortuna il macchinario impedisce loro di baciarsi proprio davanti al sopraggiunto maestro generale dell’Ordine che commenta: “Aah, caro Antonio, vedo che ti sei portato appresso una nipote... oppure si tratta di una tua figliola segreta?” Antonio rimane un attimo impacciato, poi risponde con espressione compunta: “Maestro, la ragazza si chiama Girolama: me ne sono innamorato e l’ho portata qui per farvela conoscere prima che ci uniate in matrimonio.” “Bravo! – esclama il padre benedettino – Ma la prossima volta porta con lei anche la balia così l’accudisce più comoda.” Ad ogni modo lo spettacolo non è ancora finito. L’Allegri chiama i suoi collaboratori che salgono sull’impalcatura come se si arrampicassero sugli alberi di una grande nave, poi si fa consegnare una specie di piccolo flauto dentro il quale soffia traendone fischi da nostromo: tutti gli operatori insieme iniziano a roteare mangani e strattonar funi in ogni direzione. All’istante da ogni lato scendono e salgono personaggi che sembrano vivi, in verità si tratta di marionette a grandezza naturale realizzate usando paglia impastata con gesso e colla, in modo che risultino le più leggere possibile: per eseguirle, l’Allegri ha ingaggiato un gruppo di scultori adibiti a quel solo compito. “Ecco, così puoi farti l’idea di come sarà la cupola una volta terminata.” La manovra giunge al termine: gli argani s’arrestano, i pupazzi continuano ad oscillare ancora per un po’. “E’ incredibile, è uno spettacolo magico!” (tav. 47) Girolama si sente rotare la testa e deve appoggiarsi ad Antonio per poi sedersi sui gradini della scala esclamando: “Oh, è troppo! Scusate, ma ogni volta che dipingete una cupola montate un simile macchinamento?” “No, - le risponde il grande maestro dei benedettini - succede per la prima volta: è Antonio, che s’è inventato tutto quello che vedi. E’ lui, qui, il grande artefice d’ogni cosa.” E di rimando un altro monaco aggiunge: “Di fatto è il nostro maestro, è lui il creatore di questo universo, seppur immaginario. Stava già al servizio del Padreterno quando il Creatore montò l’universo.” 26 Scendendo dai ponteggi, i due innamorati senza rendersene conto sulle scale spesso si abbracciano l’uno l’altro e all’istante lei sussurra: “Antonio, ho paura di essermi innamorata del creatore.” È ovvio che preso com’è dal fascino vivo e ammaliante della ragazza, lo sposo non le tolga mai gli occhi di dosso e non possa fare a meno di dedicarle ritratti uno appresso all’altro; e rapido com’è nel disegno continua ad abbozzare ritratti della fanciulla sotto forma di cartoni che userà per gli affreschi. (tav. 39) Tre anni fa mi è capitata la fortuna di vedere un’immagine di Girolama, non classificata fra i dipinti conosciuti. Si trattava di un’opera proveniente dalla collezione privata della famiglia Fucci di Fano: la pittura era su tavola e piuttosto malridotta. Mi sono rivolto a un’amica, Pinin Brambilla, che senz’altro è riconosciuta come una delle più dotate fra tutti i restauratori di un certo valore. Nel suo studio è stato eseguito un vero e proprio salvataggio e ripristino di questo dipinto che ho pensato fosse giusto pubblicare. (tav. fotografia Girolama) E qual è l’immagine di Girolama dentro queste pitture su muro? Beh, non c’è che puntar bene lo sguardo ed eccola: è lì, in mezzo a una brigata di figliole festanti che accompagnano Eva, che è il ritratto di Girolama ragazzina, naturalmente ignuda che non si cura certo di nascondere le sue grazie (tav. 40 e tav. 41) . E’ felice e libera come appena venuta al mondo e assomiglia straordinariamente ai ritratti di dee e di ninfe che fra poco le dedicherà, così ecco che il viso di Girolama appare in dipinti dedicati, oltre che ad Eva, anche alla Vergine e alla Maddalena (tav. 48, tav. 49), nonché nel volto di Santa Caterina nel matrimonio mistico con Gesù (tav. 50). Finalmente anche in queste nuove figure vive e che sembrano respirare, ogni immagine di femmine beate solleva come per incanto le palpebre, lasciando intravedere sguardi luminosi (tav. 51), anzi, spesso gli occhi, nel caso della Vergine, si spalancano nel comunicare una gran gioia verso il piccolo Gesù che festosamente contraccambia. Volti e figure femminili hanno perso definitivamente quel loro atteggiamento da icona, si fanno sempre più vivi e slanciati, e soprattutto affiora nei gesti e negli sguardi una tenera festosità espressa nel gioco fra madre e bimbo al quale partecipano spesso angeli, il san Giovannino e fanciulle beate. 27 La produzione di Allegri in quel tempo si fa addirittura febbrile, ormai la sua ragazza è assunta al ruolo di protagonista di episodi tra i più svariati, sia sacri che profani. La riconosciamo col bimbo in braccio ne Il riposo durante la fuga in Egitto (vedi tav. 51), mentre Giuseppe si preoccupa di abbassare i rami di un albero di datteri che raccoglie per offrire alla Vergine e al suo bimbo. Sullo stesso tema è il dipinto detto de La Zingarella (tav. 52) dove la Madonna se ne sta accovacciata ai piedi di una grande palma con il bambino dormiente; in alto un gruppo di angeli si aggrappa ai rami in modo da spingerli verso il basso, così da permettere alla Vergine di cogliere i frutti per il figliolo. Se confrontiamo il volto della Zingarella (tav. 53), oggi a Capodimonte a Napoli, eseguito nel 1517-18 con quello della Madonna Campori (tav. 54) a Modena dello stesso periodo nel palazzo Estense, ci rendiamo conto che l’immagine di una è l’esatto pendant dell’altra e che nella loro gestualità la donna e il bambino sono una madre e un figlio autentici: il gesto con cui la cosiddetta zingarella raccoglie sul proprio petto il figlio non può essere che ritratto dal vero, come reale è il gesto con cui il bimbo nella Madonna Campori rifiuta il latte che la madre gli offre dal suo seno. Ma da dove nasce l’ispirazione e l’argomento che vede una raccolta di datteri da donare al figlio di Dio affamato nel viaggio? Guarda caso il Vangelo apocrifo dello pseudo–Matteo (I secolo d.C.) ci parla della disperazione di Giuseppe e Maria, che attraversando una zona desertica, vanno cercando una fonte per dissetare se stessi e il bambino. Scorgono un’alta palma i cui frutti sono irraggiungibili. All’istante appaiono tre piccoli angeli. I cherubini s’aggrappano alle lunghe foglie e strattonandole riescono a curvare tutto un ramo tanto da fargli lambire il suolo. La Madonna solleva il bimbo cosicché egli possa staccare i datteri e portarseli alla bocca per suggerne la polpa. La scena ha ispirato pittori famosi, fra i quali appunto il Correggio. Ma da qualche anno ci si è accorti che il dipinto de La zingarella è stato pesantemente modificato dai sovraintendenti del museo negli anni 1922-23. È incredibile constatare che censori bigotti e prude abbiano imposto una così brutale censura a quel capolavoro: hanno fatto sparire dal dipinto uno dei due angeli, quello che curvava la palma per spingere i datteri verso la Madonna3. Questa correzione cancellava il gesto di porgere i frutti. Ma perché? È proprio vero che l’imbecillità dei censori è 3 Cfr. Dario Fo, Gesù e le donne, Rizzoli, 2007, p.72. 28 infinita, specie quando vestono la tonaca del rigore. Infatti, l’aggressione alla pittura è diretta proprio ai datteri che in un brano poetico del Cantico dei Cantici4 alludono ai seni dell’amata. Eccovelo: (tav. 55) Quanto sei bella e quanto vaga, carissima mia adorata. Il tuo corpo s’allunga come una palma e i tuoi seni sembrano pomi di dattero. E io assaggerò con le mie labbra quei frutti che di sicuro saranno più dolci del miele. È chiaro che questo stupendo frammento lirico l’Allegri innamorato lo abbia voluto dedicare alla sua giovane prossima sposa, protagonista in quest’altro ritratto (tav. 56 Madonna della cesta), e c’è da pensare che forse il bambino in realtà non sia altro che il piccolo figliolo di Girolama partorito qualche mese dopo il matrimonio. Ma tornando alle cupole, più di un ricercatore ha notato l’incombere fin troppo palese in quegli affreschi dei più grandi maestri della pittura rinascimentale; per cui ci è facile, quasi ovvio, riconoscere in San Giovanni l’immagine dipinta da Raffaello nelle Stanze vaticane e poco più in là la positura e la potenza di alcuni personaggi dipinti da Michelangelo. Naturalmente non mancano soluzioni viste a scorcio tratte da Mantegna e putti ispirati da Leonardo e Raffaello e per finire allusioni ai Carracci, al Beccafumi e ai ferraresi. Ma cos’è, il trionfo dell’appropriazione indebita? Eh no, perché questa volta non si tratta di una semplice emulazione, Correggio qui sta accogliendo una vera e propria lezione di stile e sviluppo pittorico dai più grandi maestri del suo tempo: in questo caso ogni personaggio, sia protagonista o elementi del coro, ha subito ognuno una profonda elaborazione e ora ci appaiono riproposti attraverso un linguaggio e uno spirito del tutto sconosciuto. Tanto per cominciare, l’intera messa in scena è impregnata di un sottile umorismo per cui anche le forme più grottesche ci vengono sempre proposte con andamento leggero e addirittura poetico, specie 4 Il Cantico dei Cantici è un testo poetico contenuto nella Bibbia ebraica e risalente al V-III secolo a.C. 29 quelli della cattedrale, anzi qui l’azione, anche la più vorticosa, si trova immersa in una trasparenza che esalta e rende più leggere le immagini. Abbiamo detto di Eva (tav. 57- 58), fresca e ridente, e della somiglianza con il viso di Girolama: intorno a lei si muovono altre ragazze, che l’accompagnano con gesti di danza nel coro; a loro volta ciascuna ci riporta al viso dell’innamorata di Antonio ‘Domani’. Alcuni noti pittori ci fanno osservare che i visi riprodotti appaiono leggermente più paffuti di quelli che più tardi rappresenteranno Madonne e ninfe, ma l’osservazione cade immediatamente appena ci si rende conto che qui ci troviamo proprio nel tempo in cui l’amore ha dato un secondo frutto, infatti la sposa dell’Allegri ora aspetta una femminuccia. Questo ci spiega l’incarnato paffutello dei ritratti di alcune protagoniste. L’intera opera doveva essere realizzata con l’apporto di altri quattro artisti: il Parmigianino, l’Anselmi, il Rondani e l’Araldi. Il grandioso schema del Duomo fin dall’inizio incontrò innumerevoli difficoltà: per cominciare, il Parmigianino prima ancora che si iniziassero i lavori dovette suo malgrado abbandonare il cantiere per recarsi a Roma dove aveva stipulato un precedente contratto di lavoro. Più tardi l’Anselmi, dopo aver appena realizzato alcuni affreschi tratti dai suoi cartoni, si vide crollare le pareti dipinte. Qualche tempo dopo, uno dei pittori morì all’improvviso. Pascasio Belliardi, rappresentante dei Canonici che dovevano seguire i lavori, fu eletto Segretario di Pio III che intendeva farlo cardinale: l’elezione andò a monte in conseguenza dell’avvenuto decesso del pontefice regnante per soli ventisei giorni. Al di fuori di qualche solenne e tragico avvenimento come l’improvvisa morte di un papa appena eletto e la dipartita di qualche artista operandi, tutto il lavoro proseguiva con rapida facilità. I Fabbricieri ed i Canonici si dimostravano entusiasti della resa di tutta l’opera e di giorno in giorno, sull’onda di tanto successo, l’Allegri proponeva soluzioni pittoriche sempre più azzardate che mandavano in crisi i più conservatori fra i committenti, finché senza alcun preavviso ecco esplodere un contenzioso che provocò una vera e propria rottura fra l’Allegri e i responsabili giuridici e amministrativi della cattedrale. Come da progetto, per di più stipulato e firmato, Antonio il Correggio, aveva dipinto nell’abside una splendida Madonna nell’atto di essere benedetta dal figlio suo. All’istante i Canonici della Cattedrale decisero di abbattere le 30 pareti su cui era stato eseguito l’affresco per creare un percorso più facile all’ingresso della Cattedrale. E’ inutile sottolineare che nel ritratto di quella Madonna si riproduceva il volto di Girolama. Qualcuno sospetta che quel gesto abbastanza brutale fosse dettato dall’intento di ridimensionare il troppo potere che il Correggio si stava conquistando da sé. Una rimessa in riga, insomma. Antonio reagì indignato e abbandonò su due piedi la cattedrale lasciando incompiuti gli affreschi di cui si era impegnato nel contratto. Quel suo gesto fu giudicato dai più come sconsiderato e arrogante giacchè egli non teneva protettori fra i nobili e grandi mercanti. Ora poi perdeva anche la protezione dei monaci e del comune, ma alla fine l’orgoglio e la caparbietà, fondamenti rischiosi del suo carattere, gli furono di gran vantaggio in quella situazione. Per fortuna nel tempo in cui Correggio si era impegnato nella messa in scena pittorica delle cupole, non cessò di aver rapporti con committenti privati. Fra i suoi estimatori forse la più importante era la vedova di Bergonzi, Briseide Colla, che gli commissionò un grande quadro, la Madonna di San Gerolamo, raffigurante la Vergine con alcuni santi e al centro, sdraiata quasi voluttuosamente sul bambino, la Maddalena. Per quest’opera il Correggio ricevette quattrocento lire imperiali, due carri di fascine, alcune staia di frumento e un maiale. Si tratta di una pittura davvero straordinaria, sia per l’impianto compositivo, che per i temi che svolge: è una delle prime volte nelle quali vediamo la Maddalena vicino a Gesù bambino in una situazione capovolta nello spazio e nel tempo. Maddalena dimostra più o meno la stessa giovane età della Madonna, e Gesù, che nella tradizione popolare è l’uomo della Maddalena, invece è putto, bimbo, ma nella composizione e negli atteggiamenti dei protagonisti, scopriamo una passione con una grande carica di sensualità. Inoltre c’è un elemento che non è nascosto e che anzi viene a sottolineare questa passione, tanta dolcezza: il gesto della Maddalena che teneramente tiene nelle sue mani il piede del bambino, e il bambino che accarezza i capelli della Maddalena. In questi gesti è facile leggere il riferimento ai Vangeli canonici dove si rappresenta la situazione in cui la Maddalena lava i piedi di Gesù e quindi li asciuga con i propri capelli, quelli che ora Gesù accarezza. Il putto che sta alle sue spalle mostra una piccola brocca, simbolo della 31 sessualità femminile, e nello stesso tempo si allude al prezioso unguento che la Maddalena userà per il lavacro dei piedi di Gesù. Un elemento cromatico di grande importanza è il piano della luce. Lassù in alto è stesa un’ampia tenda che serve a calmare, ad abbassare il calore della luce del sole, ma ecco che i personaggi non appaiono protetti dall’ombra anzi sono tutta luce, ma si ritrovano, nello stesso tempo, in controluce. È un’invenzione pittorica straordinaria. Il fondo è la luce. È come se ci fossero due soli che illuminano: un sole che se ne va al tramonto di là e uno che spunta davanti e che illumina tutti. Alla fine del ‘700 la tela viene inserita nel bottino napoleonico, onore riservato solo alle grandi opere rapinate. Rimane in Francia per vent’anni. Molti critici fanno notare come la Maddalena, per il suo tessuto cromatico-pittorico, ricordi alcuni famosi dipinti muliebri del Tiziano. Fra i committenti privati senz’altro uno dei maggiori clienti collezionista d’arte è il duca figlio di Isabella d’Este che cominciò ad ordinare al Correggio l’Educazione di Amore. E’ un tema completamente nuovo per lui tanto che prima di affrontarlo esegue numerosi disegni e bozzetti preparatori. Fra il ‘600 e il ‘700 quest’opera fu attribuita a vari grandi maestri della pittura veneta e lombarda, come Tiziano e Dosso Dossi. Nella lezione d’amore dove di fronte ad una splendida Afrodite completamente nuda, Eros bambino impara a leggere un testo sui giochi amorosi aiutato da Ermes che regge un foglio e gli corregge gli strafalcioni. Come di tradizione, Venere non indossa abito alcuno, nemmeno un drappo (con lei le sartorie d’alta moda fallivano immancabilmente): basta immaginare la dea dell’amore, qui rappresentata, all’impiedi, sdraidata su un letto e noteremo subito le concomitanze con le Veneri di Giorgione e di Tiziano, però con il viso che costantemente ritrae quello di Girolama che è sempre di più l’unica modella di Antonio Allegri. Oltre il viso, l’unico particolare che distingue la dea del Correggio da quella dei veneziani sono le due fragili ali che le spuntano dalle spalle, ali che qualche critico ha ritenuto produrre emozioni di grande erotismo... non abbiamo capito perché: purtroppo non abbiamo mai avuto la fortuna di ricevere carezze alate. Questa tela vince senz’altro il record degli spostamenti e dei cambi di proprietà. Dal Gonzaga, passa a Carlo I d’Inghilterra; quindi viene acquistata dal duca d’Alba per ottocento sterline 32 giunge in Spagna, dove poi passa di proprietà al principe De la Pace; nel 1808 viene trasportata a Napoli e diventa di proprietà del Murat, il capitano napoleonico fatto re dall’Imperatore. Pare che costui se la tenesse sempre appresso, perfino quando si trovò a partecipare alla campagna di Russia, anzi durante la ritirata si dice spogliasse il quadro, Venere compresa, dalla grossa tela che lo avvolgeva per coprirsene a sua volta, riuscendo così a salvarsi dal gelo. Dopo il disastro militare, la Venere ancora raffreddata venne venduta a Carolina Buonaparte a Vienna, senza la tela di copertura: si racconta che la splendida moglie di Napoleone era solita confrontarsi a sua volta nuda con Venere, davanti a uno specchio, ma si accorse ben presto che il confronto andava a tutto vantaggio della dea, quindi decise di venderla al marchese di Londonderry, che la cedette allo stato britannico. In conseguenza di tali traversie, l’opera accusò notevoli guasti e l’intervento dei restauri si rivelò purtroppo inadeguato. Il peggior danno venne apportato probabilmente dagli ultimi proprietari, gli inglesi: costoro ridurono la tavola nei due fianchi di almeno 15 centimetri per parte; ne danno testimonianza le riproduzioni della fine del ‘500 dove si nota chiaramente il più vasto spazio laterale del dipinto. In poche parole, per far entrare la tavola in una cornice muraria preesistente, il possessore risolse tranquillamente di segare due strisce laterali in eccedenza. Questa di subìte riduzioni o addirittura amputazioni è sorte ben nota che si ripete spesso in pittura. Infatti un’altra opera di Allegri sita nella Cattedrale di Parma ha dovuto sopportare addirittura un vero e proprio massacro: a una serie di figure femminili in tutta la loro stupenda nudità e rappresentanti personaggi mitici della tradizione antica sono state tranquillamente mozzate la testa e una parte del tronco per lasciar spazio a una serie di finestre riccamente decorate.5 A parte le vicissitudini, il dipinto l’Educazione d’Amore ebbe tale successo che il giovane Francesco Gonzaga ordinò all’Allegri tutta una serie di tavole ad argomento erotico. Qui vediamo Giove trasformato in fauno, pronto a gettarsi sulla ninfa dormiente. Vedremo nelle prossime pitture, dedicate al padre degli dei e ai suoi amori, come Jupiter arrivasse a trasformarsi di volta in volta nelle sue performance erotiche in cigno, in aquila e perfino in monete d’oro. E’ risaputo come per Giove la metamorfosi fosse incentivo erotico di cui non 5 D. Ekserdjian, Correggio, op.cit., pag. 260 33 poteva fare a meno… una metamorfosi e oplà, eccolo eccitato da Dio! Insomma, questo era il viagra degli dei! Ma fermi tutti: purtroppo molti critici d’arte non sono d’accordo con quest’ultimo ruolo assegnato ai personaggi. Sembra trattarsi piuttosto di una Venere addormentata con Cupido e spiata da un satiro. Ma c’è un particolare che manda in crisi: il cosiddetto ombreggiato, del quale il Correggio era grande maestro. In poche parole sulla tavola è stata eseguita una ripulitura piuttosto pesante che ha letteralmente cancellato il gioco dei chiari e degli scuri, fondamentale per sottolineare lo scorcio. Sono sparite l’ombra propria e quella proiettata dalle figure cosicché s’è appiattito lo scorcio, a partire dall’ombreggiato del busto e del ventre. Lo scorcio dello stato originale è percepibile da un disegno preparatorio dello stesso Correggio di una figura di Venere che si trova al Windsor Castle che riproduce ancora una Venere dormiente vista dal basso, cioè dalla stessa posizione da cui si osservano il fauno e la dea addormentata. Nel 1628 l’opera originale fu venduta a Carlo I d’Inghilterra insieme all’Educazione di Amore: molto probabilmente fu proprio lui l’inglese che mozzò i lati del primo dipinto con la figura di Venere. Non fece in tempo a produrre lo stesso scempio con la Venere dormiente, poiché scoppiò la guerra civile e stavolta la testa fu mozzata al re. Questo succede a chi fa violenza alle donne, anche se solo ritratte, specie se nei confronti di sono una divinità! A proposito di disgrazie e decessi, a ‘sto punto della storia del Correggio siamo nel 1528, mi imbatto in una notizia che mi rattrista e sconvolge al tempo. Molti ricercatori mi assicurano che più o meno in quel periodo muore la moglie dell’Allegri, Girolama. E da che si evince l’avvenuto decesso? Dal fatto che da quella data in poi, della dolce e ancor giovane donna non si hanno più notizie. D’istinto immediatamente esclamo: “Ma come può succedere una cosa del genere?” Non parlo della dipartita, ma del fatto che l’Allegri, uno dei più grandi pittori del secolo, in piena vedovanza, sorpassando tranquillamente il tragico dolore della perdita di quella creatura che amava alla follia, continua a dipingerla ritraendola completamente nuda nell’atteggiamento di sguazzare con Giove travestito da nubi scatenate, da satiri montanti, da un cigno scurrile e addirittura da una pioggia d’oro. Ancora, lungi da me fare del moralismo, ma 34 ciò che maggiormente mi indigna, è il constatare che la donna amata venga rappresentata nell’atto di partecipare tanto piacevolmente a quegli amplessi, gemendo di piacere e lasciandosi trasportare dentro una vera e propria tempesta erotica al limite della pornografia. Andiamo, un po’ di rispetto per le anime defunte! Quindi quasi disperato mi butto a organizzare un’inchiesta coinvolgendo studiosi dell’intiera Emilia, ricevo da un professore di Modena la fotocopia di alcuni testi dedicati a Girolama, fra i quali addirittura un dramma teatrale di qualche secolo fa dove, parlando in rime endecasillabe, il Correggio a sua volta disperato se ne sta in ginocchio presso l’amata stesa sul letto di morte, che sta per abbandonarlo. Non cedo. Caparbio, telefono all’ex presidente della Fondazione dedicata al Correggio, Giuseppe Adani che di lì a poco mi dà la stupenda notizia attraverso Patrizia Pecchini. Nella città di Correggio è stato ritrovato l’atto autentico della sepoltura di Girolama Merlini avvenuta nel 1545, quindi di tutta la famiglia, Girolama è stata la più longeva. Infatti il marito Antonio è deceduto 6 anni prima della reale morte della moglie ed egualmente qualche anno avanti sono deceduti il padre di lui, alcuni zii e nipoti comprese le due giovani figlie di Antonio e Girolama Allegri. “Allegri! Grottesco destino di un cognome!”. Tiro un gran respiro: ora finalmente potrò tornare a godermi le scene erotiche con Veneri in amore senza soffrire di lascivia repressa dall’indegnità delle situazioni. Evviva, Girolama è viva! Distacchiamoci un attimo dalle avventure di Giove per considerare un’altra tela del Correggio dello stesso tempo, determinante per valutare lo stupefacente lavoro di ricerca pittorica dell’Allegri nella sua maturità. Si tratta de La notte. Nell’adorazione dei pastori al presepio, l’Allegri sviluppa un nuovo impiego della luce già sperimentato nella tela Madonna di San Gerolamo. Qui non c’è il cielo chiaro del fondo, ma un tenero tramonto che prelude al buio notturno. È il bambino Gesù che proietta luce tutt’intorno illuminando di sé la madre e i pastori nonché gli angeli in alto. L’unico che resta nell’ombra scura è il padre putativo, Giuseppe. Più di uno studioso ha ravvisato l’influsso dei fiamminghi ma qui la particolare invenzione è rappresentata dalla fonte luminosa sparsa dal bambino. Più verosimile è la similitudine di quest’opera con la pala Pesaro del Tiziano che si rifà alle rappresentazioni teatrali di quel tempo. In entrambi i dipinti si può 35 leggere l’uso della luce alla maniera scenica del teatro dove in proscenio gli attori vengono illuminati dalle sole lampade a terra o dall’alto grazie ad un enorme lampadario che esibisce il chiarore di cento candele. Ma torniamo al ciclo dedicato agli amori di Giove. Questo che vi presentiamo è certamente uno dei capolavori dipinti ad olio del Correggio. Vediamo Danae, splendida ninfa, languidamente quasi distesa sul letto. La fanciulla è stata rinchiusa in una torre per impedire a Giove, che la desidera follemente, di arrivare a possederla attraverso i suoi mirabolanti trucchi. Il padre degli dei non può raggiungerla né trasformato in cigno o toro né tanto meno in satiro. Non gli resta che tradursi in un calabrone ammaliandola con il suo ronzio, ma non è cosa da dei, andiamo! Quindi sceglie di tramutarsi in pioggia d’oro, “Questa sì che è una trovata divina!” un’aurea nube di polvere, che trasportata dal vento, entra dall’unica finestra spalancata. Danae, pudica, si copre il pube con un lenzuolo. Ma c’è Amore che da ruffiano cerca di procurare a Giove il suo vantaggio: ecco che il divino fanciullo allarga il lenzuolo per raccogliere tutta la pioggia d’oro e lo solleva in modo che arrivi nel grembo di Danae. Qui ha già delle monete d’oro in mano e cerca di buttarle verso il pube della ragazza. A questo punto dobbiamo allontanarci di qualche passo dal dipinto per poterlo inquadrare in tutta la sua dimensione e considerare il particolare inusitato dell’impianto scenico e prospettico: scopriamo l’esistenza di ben tre prospettive con punti di fuga diversi, una sovrapposta all’altra. Abbiamo un livello maggiore che permette la visione di tutto ciò che avviene dall’alto: lo spettatore è proiettato in aria a guardare giù. Poi di colpo si trova costretto a scendere e osservare dal basso: ci appare il letto pesantissimo che si pone in contrapposizione alla leggerezza del corpo di Danae che pare sospeso nel vuoto. Le lenzuola su cui è semisdraiata la splendida ninfa, quasi si trasformano in tappeto volante e la sollevano per favorire la pioggia di monete d’oro. Ma l’effetto più sorprendente di magico erotismo è determinato da un uso inconsueto dei chiari tanto spregiudicato da apparire quasi un errore. Infatti, nel suo impianto scenico l’Allegri introduce addirittura due opposte fonti di luce: una proveniente dall’alto fuori proscenio, l’altra dal basso di taglio, sul fondo. All’estrema sinistra della parete scorgiamo una finestra e, con 36 tutto che quell’apertura ci appaia completamente spalancata e se ne scorga un cielo limpido, di lì non proviene nessun accenno del giorno: una finestra assolutamente cieca! Strano! È un arbitrio, ma c’è un perchè: quella finestra è solo un elemento compositivo, un respiro luminoso nell’ombra del fondale. Quindi tutto l’assetto è perfettamente teatrale. E per finire osservate la nube dalla quale scende l’oro: dovrebbe essere leggera e vaporosa invece sembra ritagliata in una tavola di legno, non è adeguatamente mascherata proprio perché vuol essere scenografica, cioè viene riprodotto un elemento tipico del teatro: la sagoma di quinta. Proseguiamo con un’altra avventura amorosa di Giove: ecco l’opera che racconta di Ganimede rapito dall’aquila, l’ennesimo travestimento di Giove assatanato. Il padre degli dei si è invaghito del ragazzino, ma non riesce mai ad avvicinarlo senza rischiare di essere scoperto dagli aggressivi famigliari del fanciullo. Così, travestito, tramutato in aquila, ecco Giove alato che può afferrarlo, prenderlo e portarlo nel cielo. Non è nemmeno tanto dispiaciuto Ganimede. L’unico ad accorgersi del rapimento è il cane, che sta a terra e abbaia disperato. Ancora ci troviamo dinanzi a un ulteriore espediente scenografico: se vogliamo leggere la posizione del cane dobbiamo immaginare di vederlo dall’alto. Noi siamo in alto come Ganimede: è più o meno lo stesso punto di vista del ragazzo che vede il cane in basso, sotto di lui. Ma per osservare correttamente la figura del rapito sospeso nel vuoto dobbiamo porci al livello del cane e guardare attraverso i suoi occhi. Di qua avremo l’idea dello scorcio perfetto del ragazzino che sta salendo trasportato dall’aquila. Questa magia dello scorcio prospettico è dovuta all’insistito esercizio del realizzare scorci a centinaia sulle due cupole di Parma, conoscenza che gli ha procurato una ineguagliabile dimestichezza nel realizzare immagini viste da ogni luogo e un’agilità pittorica davvero straordinaria. Chiudiamo l’esposizione nell’ultima sala dedicata alle opere del Correggio che hanno subito sconci e manomissioni causate da restauri sconsiderati e da interventi censori che rasentano la follia. “Il sonno della ragione genera mostri” diceva Francisco Goya. Bisognerebbe aggiungere: “Quel torpore della mente causa anche massacri di opere d’arte”. 37 Nel caso dell’Ecce Homo siamo di fronte a una vera e propria ri-pittura eseguita allo scopo di addolcire, secondo la moda tardo seicentesca, l’immagine di Cristo incatenato mostrato alla folla. Ce ne rendiamo conto soprattutto osservando la lastra della radiografia eseguita sul dipinto grazie alla quale scopriamo l’autentica stesura pittorica che ci propone una drammaticità figurativa di ben altro valore. Il viso di Cristo ci offre tutt’altra potenza espressiva; le sue dita che nel restauro così come lo vediamo oggi, sono esageratamente allungate, quasi femminili, nella lastra ci appaiono finalmente mani virili di giusta fattura. Ancora, la figura della Vergine che nell’odierna pittura è convenzionalmente melodrammatica, nel dipinto sommerso ci rivela un volto di sofferenza che si pietrifica nel dolore. Insomma due pitture: quella nascosta di gran potenza, l’altra di uno stereotipo convenzionale. Naturalmente sul nostro testo le due diverse immagini verranno poste a confronto una appresso all’altra così da intendere immediatamente la palese mistificazione. Passiamo al Noli me tangere, tela nella quale vediamo una donna, tradizionalmente la Maddalena, che ha afferrato un lembo dell’abito di Gesù per attirare la sua attenzione. La posizione di Maria Maddalena è ancora in scorcio, cioè chi guarda si trova in basso al di sotto della cornice. La figura protesa verso il Messia risorto esprime una passione di straordinaria forza emotiva: non a caso più di uno scultore e numerosi incisori si sono serviti di quel dipinto e dei disegni preparatori come modello per realizzare a loro volta opere di valore. Anche Gesù che con un gesto perentorio le impedisce di abbracciarlo è visto dal basso ma solo dal tronco in su, l’altra parte del corpo compresi i piedi sono visti dall’alto. La Maddalena sta seduta a terra quasi inginocchiata davanti a lui che le si rivolge indicando il cielo: “Non mi trattenere. E’ lassù, da mio padre che devo innanzi tornare!” come recita il Vangelo di Giovanni. Ma osservando con attenzione il dipinto basta un minimo di conoscenza di pittura per capire che i due personaggi così come sono raccontati nel diverso tessuto cromatico e pittorico non hanno niente a che vedere l’uno con l’altro. Alcuni tecnici del restauro ci comunicano che il dipinto è stato manomesso soprattutto per quanto riguarda le velature in tempera, nello stesso modo in cui sono state lavate nella Venere dormiente insieme al nero-fumo delle candele. Ecco la ragione del perché il corpo di Cristo e il suo panneggio hanno perso la plasticità e il volume, e soprattutto si è perduta la struttura dell’impianto e del disegno, al punto che il braccio alzato 38 appare deformato, e il ventre sporge gonfio; ancora più sotto, la gamba destra resta priva di appoggio. Ma cosa ci dà tanta sicurezza nel dichiarare la deformazione fisica di certe figure come questa di Cristo appena risorto del dipinto dell’Allegri? È soprattutto un particolare assetto dell’impianto esecutivo che ci fa scoprire il difetto, cioè quello che si può evincere solo ricordando la tecnica impiegata dal Correggio al momento di impostare le figure: egli, come abbiamo già accennato poco fa, è uso disegnare i personaggi in tutti i particolari immaginandoli completamente nudi così da studiare con esattezza l’equilibrio degli appoggi, il movimento del busto, gli attacchi degli arti e la loro gestualità. Quindi solo dopo questa preparazione il pittore inizia ad immaginare sul corpo nudo i panneggi delle vesti indossate dai personaggi. Ora, se noi proviamo a togliere loro gli abiti scopriremo se le figure spogliate stanno nel giusto equilibrio dinamico, oppure, come si dice in gergo, sballanzano, cioè non mantengono il giusto equilibrio. L’ultima opera della serie legata agli amori di Giove è senz’altro Leda con il cigno, forse la più eroticamente provocatoria di quei racconti. Il figlio del duca d’Orléans, che dopo vari passaggi divenne proprietario della tela, preso da furori moralistici, a metà del 1700 taglia a pezzi il dipinto e distrugge la testa di Leda. L’opera è salvata dall’intervento del pittore di corte Coypel che dà l’incarico ad un restauratore perché ricostruisca, oltre alle altre parti del dipinto, il viso di Leda deturpato. Anche qui, grazie alle incisioni a copia della Leda originale eseguite un paio di secoli prima dello scempio regale ci rendiamo conto che i pur numerosi restauri non sono riusciti a salvare del tutto il dipinto. Il viso della Leda ora appare piuttosto convenzionale: più una maschera fissa che un volto carico di sessuale gaudio. Così come sono di fattura approssimativa le immagini delle ancelle di Leda che si bagnano fra le acque di un ruscello. Osservando con distacco quello che c’è rimasto della pittura originale, ci rendiamo conto che il Correggio qui s’è lasciato andare ad uno sguazzo erotico-satirico piuttosto spinto, tant’è che non s’è accontentato di presentarci la Leda posseduta dal volatile fornicante, ma ha aggiunto fanciulle del coro che a tormentone vengono turbate dall’apparire costante e improvviso di nuovi cigni, altrettanto ruzzanti che spuntano fra le terga delle ninfe come funghi scurrili della foresta. A 39 ‘sto punto ci nasce un moto di comprensione davanti al gesto isterico del giovane d’Orleans. Ma come si può rimanere insensibile davanti a tanta provocazione? O ti masturbi o spacchi tutto! Di fatti egli armato di spada si è lanciato con giusto furore verso quei colli rampanti di cigni sorgenti da ogni dove, deciso a decapitare i pennuti zozzoni. Nella storia dell’arte non conosciamo altri dipinti aggrediti da maniaci e fanatici del moralismo, sconciati in tal misura, non conosciamo una situazione d’ansia così disperata di ricostruzione come è accaduto con questa pittura dedicata alla ballata oscena dell’ultimo canto del cigno. A questo punto è bene cercare di individuare il carattere di questo straordinario personaggio che è il Correggio. ma Non tanto quello superlativo riguardante la sua indiscussa genialità nei campi più diversi, abbiamo ormai stabilito che l’Allegri possedeva una preparazione riguardo la meccanica dei ponteggi a dir poco superlativa, quasi al livello di Leonardo. Infatti, per le cupole, aveva ideato specie di montacarichi che gli permettevano di salire fino a livelli di 18 metri e più; grazie ad argani sofisticati e contrappesi da orologeria riusciva a trasportare lassù, fra le impalcature più alte, non solo persone ma anche strutture tecniche di notevole peso e volume. Inoltre, per salire a dipingere sulle pareti concave aveva inventato imbragature appese su piani scorrevoli che erano in grado di trasportare il pittore e i suoi aiuti nell’aria in tutte le direzioni compreso in trasversale. Aveva imparato a servirsi di specchi coi quali raddoppiava il valore della luce e la proiettava sulle immagini da riprodurre come si fa per mezzo dei moderni riflettori. Insomma, sul piano dell’ingegno l’Allegri era da ritenersi un vero e proprio scienziato. Ma A noi interessa invece scoprire come si comportasse nelle situazione del vivere comune. Di certo teneva un grande senso della famiglia: quel vivere fin dalla prima infanzia in quegli angusti spazi in un clima da ammucchiata, tutti insieme, padre, madre, zii e nipoti, ognuno appresso all’altro in un’unica stanza, dormire in chissà quanti nello stesso letto lo aveva senz’altro condotto ad una solidarietà di gruppo indistruttibile dove il nucleo portante era la famiglia col padre padrone che dettava le regole e amministrava quella misera comunità dei beni. Quasi all’istante, appena raggiunta la pubertà ecco che Antonio comincia a portare a casa quattrini in tal quantità da ribaltare completamente la situazione di vita dell’intiera famiglia. Raggiunti i venticinque anni, Correggio godeva già di una notevole celebrità ed era in grado di 40 farsi pagare cifre davvero consistenti per le sue opere, ma faceva ancora amministrare i suoi lauti guadagni dal capo clan Pellegrino. Ci si è chiesto, da parte di molti ricercatori cosa spinse ad un certo punto Girolama, moglie di Antonio, maritata con lui da pochi anni, a stendere un testamento davanti al notaio che specificasse a chi dei parenti e degli amici e in che misura dovessero essere concesse le sue proprietà e i beni in caso di morte. Ma cos’era successo? Quale tremenda crisi familiare era esplosa in casa Allegri per provocare una simile situazione? Qualche ricercatore un po’ all’ingrosso ha immaginato che la giovane sposa temesse a causa della sua fragilità fisica di perdere anzitempo la vita. Ma abbiamo già visto come Girolama fosse in ottima salute e che l’idea di una sua morte prematura è risultata del tutto falsa. Evidentemente la ragione che l’aveva indotta a stendere quel documento è un’altra. In famiglia dev’essere esploso un problema serio: probabilmente l’attaccamento al denaro che il padre del pittore mostrava di continuo in modo ossessivo l’aveva preoccupata ed è del tutto possibile che, consigliata dai suoi parenti di sangue che l’avevano allevata, fosse giunta a quel gesto di difesa con il quale imponeva alla famiglia Allegri e quindi anche allo sposo di rispettare assolutamente i denari e le proprietà che aveva portato con sé. C’è un altro problema che a proposito della vita di Antonio Allegri è rimasto sospeso: il suo viaggio a Roma. Ma di questo suo viaggio non abbiamo né un’indicazione né tanto meno un documento che ce lo confermi. E’ indubbio che Correggio oltre che da Leonardo e Mantegna abbia tratto ispirazione dalle opere di Raffaello e Michelangelo, entrambi ingaggiati per lungo tempo dai pontefici dell’Urbe. La sua attenzione riguardo ai dipinti in questione sia nella totalità che nei particolari più sottili è costante: da qui si può dedurre che il Correggio quelle opere le abbia quasi toccate oltre che osservate dappresso, ma a questo proposito ci si dimentica che in quegli anni, dai primi del ‘500 in poi si era creato in tutta Europa un vero e proprio mercato delle copie e delle riproduzioni dei grandi maestri: a partire da quelle eseguiti su tela o tavola, dipinti a tempera o ad olio per continuare con quelle realizzate attraverso la tecnica dell’incisione senza dimenticarci di quelle ottenute per mezzo stampa. 41 Queste riproduzioni venivano acquistate in gran numero sia dai collezionisti che dai pittori e dalle accademie d’arte perché gli allievi potessero studiare dappresso i capolavori più famosi. Di queste immagini ne sono giunte numerose a noi, perfino riprodotte da dipinti di fiamminghi e grandi pittori francesi e spagnoli. Attento com’era ad ogni novità, Antonio Allegri a sua volta ha immediatamente tratto vantaggio di questa nuova tecnica del riprodurre tanto con l’incisione che con l’acquaforte6, e duplicò soprattutto le immagini dei propri lavori di maggior successo. Ma il fenomeno davvero eccezionale si scopre analizzando il numero delle riproduzioni delle sue opere eseguite dai copisti e incisori di professione di tutta Europa. A questo proposito vi consigliamo di consultare il volume di Massimo Mussini intitolato il Correggio tradotto, edito da Federico Motta Editore, che ci propone una quantità impressionante di acqueforti tratte da dipinti dell’Allegri che invasero letteralmente il mercato nei successivi secoli fino ad oggi. Così incontriamo le ninfe ignude che amoreggiano con Giove trasformato in nuvola o in cigno in decine di copie stampate, e ancora frammenti di dipinti tratti dalle cupole del Correggio disegnati con grande maestria in numero strabordante, da queste testimonianze veniamo anche a scoprire una notevole quantità di opere originali dell’Allegri andate perdute e delle quali ci sono pervenute soltanto incisioni realizzate qualche secolo fa. Fra le opere dell’Allegri rimaste intonse c’è una Deposizione, quella che conosciamo come Compianto sul Cristo morto che viene proposta in un centinaio di copie diverse e osservandole una dietro l’altra ci rendiamo conto che queste immagini sono utilissime per decifrare particolari che presi come siamo dalla pittura e dall’emozione cromatica che ci coglie spesso ci sfuggono. In quest’opera notiamo subito che il dipinto, che misura 130x60 centimetri, è attraversato compositivamente da una diagonale che parte dall’angolo di sinistra e raggiunge l’angolo di destra del quadro. In contrapposizione notiamo un frammento di scala che s’appoggia al palo centrale della croce. Gesù è deposto su terreno scosceso e il suo corpo è iscritto dentro il grande triangolo che si è formato a sinistra. Se disegniamo due verticali a distanza eguale, ci troviamo col volto di Gesù esattamente nel centro del primo spazio; mani e braccia delle donne, compresa la Vergine che lo sorreggono, concorrono nella loro gestualità a creare un cerchio che raccoglie il volto di 6 L’acquaforte è una soluzione acida dentro la quale s’immerge la lastra disegnata graffiando lo strato preparatorio. La composto ha il potere di incidere così la lastra solo nei punti dove si è incisa la copertura. 42 Cristo in basso e le tre Marie compresa la madre. Non si tratta però di un’inquadratura geometrica e fissa ma mobile, ed è proprio la gestualità delle tre donne che avvolge come in un turbine il volto di Cristo. Dentro due linee parallele che attraversano il dipinto longitudinalmente da destra a sinistra è inscritta anche la figura della Maddalena. La donna tiene la nuca appoggiata alla base della croce, le mani raccolte in grembo e una disperata espressione di dolore le solca il viso. La figura della Maddalena, quella di Cristo e quella della Madonna si trovano collocate sullo stesso asse trasversale: questo andamento produce una ritmica ossessiva che crea un’angoscia incontenibile. Un’altra figura geometrica importante è quella disegnata dal braccio di Cristo abbandonato verso il suolo, seguito dal suo viso e poi sormontato da quello della Madonna e dietro ancora quello di una delle Marie. L’incisione sottolinea ancora di più la progressione dei valori compositivi delle figure: ci si rende conto che il braccio di Cristo con le tre teste in sequenza è affiancato dalla posizione di gambe, braccia e panneggi che partendo dalla mano abbandonata di Cristo producono una specie di raggiera a timbro ossessivo. Ma ciò che sorprende maggiormente è il fatto che tutta questa struttura portante della geometria compositiva non sovrasta mai la pura drammaticità della scena: linee rette trasversali o a raggiera sono perfettamente celate dalla commozione disperata che inarrestabile raggiunge il proscenio della pittura. A proposito di opere perdute del Correggio, esistono una decina di copie di un dipinto originale dell’Allegri di cui uno si trova nella Galleria di Parma, più qualche incisione. La pittura originale, di cui esistono testimonianze nei secoli passati, è letteralmente scomparsa. Si tratta del Giovane fuggente dalla cattura di Cristo: l’episodio è tratto dal Vangelo di Marco (14, 5152) che narra, appunto, del tradimento di Giuda a Cristo. Questa versione del Vangelo che vi proponiamo è tratta dall’originale greco stampato agli inizi del Seicento in volgare pistoiese da Diodati7. “Hor colui che lo tradiva havéa dato loro [agli sbirri] un segnale: dicendo, Colui il quale io havrò baciato è desso: pigliatelo, menatelo con voi sicuramente. E, come fu giunto, subito 7 San Marco XIV, 44-52. La Bibbia di Diodati, Nuovo Testamento e Apocrifi. Edito da I Meridiani. 43 s’accostò a lui, e disse: Bene stii, Maestro: e lo baciò. Allhora coloro gli misero le mani addosso, e lo presero. Ed uno dei seguaci ch’erano quivi presenti trasse uno coltellacio, e percosse il servidore del Sommo Sacerdote, e gli spiccò l’orecchio. E Iesu fece lor motto, e disse, Voi siete usciti con ispàde, e con haste, come contr’ad ladrone, per pigliarmi. Io era tutto dì appresso di voi, insegnando nel Tempio, e voi non m’havete preso: ma ciò è avvenuto, accioche le Scritture sieno adempiute. E tutti [i seguaci suoi], lasciatolo, se ne fuggirono. Ed un certo giovane lo seguitava, involto d’un panno di lino sopra la carne ignuda: ed i fanti lo presero. Ma egli, lasciato il panno, se ne fuggì da loro, ignudo.” Nel testo si dice esplicitamente che il giovane coperto da un lenzuolo seguiva Gesù. Solo quando sentì addosso le mani delle guardie capì che si trattava di una imboscata ed evitò la cattura sciogliendosi dal drappo e ammollandolo ai fanti presi in contropiede. Molti commentatori di fede cattolica hanno cercato di minimizzare il significato di quella presenza, essi si chiedono: chi era quel ragazzo? Uno qualunque che si era svegliato nella casa in cui dormiva Gesù e l’aveva seguito attratto dal frastuono, solo per curiosità? Impossibile: nel Vangelo non si raccontano mai aneddoti inutili e senza senso. Infatti più di uno studioso, anche credente, insinua senza alcuna malignità che si tratti di un giovane che dormiva con il Messia. Diciamo subito che sono quasi inesistenti altri dipinti che illustrino questo episodio, ne conosciamo solo uno di Durer e un altro eseguito da Ercole de Roberti, il cui originale sta a Bologna: se Correggio lo ha dipinto e tanti altri pittori hanno ritenuto di eseguirne delle copie non può essere solo per un valore pittorico, ma anche per la straordinaria situazione che vi si racconta. Qualcuno ipotizza che il ragazzo rimasto ignudo sia Giovanni Evangelista, ma anche questa versione non sta in piedi. Ma passiamo ad esaminare il dipinto: l’eleganza e la leggerezza con cui il giovane si libera dal drappo sfuggendo all’aggressore e quindi scattando in una corsa che lo porterà indubbiamente alla salvezza, ha dello straordinario. Fa venire in mente un’azione da podista greco in gara nello stadio: è un gesto stilisticamente ineccepibile che ci è capitato di scorgere solo rappresentato su vasi attici e in alcuni disegni di Giulio Romano; così come qui viene espresso si traduce in un lazzo colmo di sottile umorismo raddoppiato dallo 44 scorgere, alle spalle del fuggitivo, la figura del soldato che arranca in modo pesante e goffo. In realtà non si tratta di un semplice soldato, infatti per l’elmo piumato che calza in capo ci fa venire subito in mente lo stesso ufficiale romano che invade la tela nella Cattura di Caravaggio, ma che qui proietta il braccio in avanti nell’ultimo tentativo di acchiappare il podista sfuggente proprio mentre egli sembra irridere alla beffa riuscita a meraviglia. C’è un altro dipinto di Correggio che produce enorme commozione per il tema e la dolcezza che sa esprimere e che per il grande successo da cui è stato accolto, ha provocato una miriade di riproduzioni d’ogni tipo. Stiamo parlando del cosiddetto Matrimonio mistico di Santa Caterina. Le due donne, la Vergine e la giovane Santa, sono entrambe di profilo con i visi che quasi si sfiorano: sembrano una lo specchio dell’altra. Infatti, quasi sicuramente, la modella è una sola: l’immancabile dolcissima Girolama. Il bambino Gesù non è il solito putto nato da poco, qui ci appare più grandicello e non viene mostrato ignudo, ma indossa un abito. Il volto della Madonna proteso in avanti copre quasi per metà il viso del suo Bambino: questa soluzione davvero insolita accresce enormemente il senso di complicità che affiora palese fra madre e bimbo. Gesù sembra chiedere alla madre: “Ma davvero posso sposare questa stupenda ragazza?” e la Madonna sembra rispondere: “Certo, anzi sbrigati a infilarle l’anello al dito. Non vedi quanto lo desideri anche lei?” La straordinaria commozione che si legge sul viso di Santa Caterina è amplificato dall’impiego della luce; la Madonna ha il volto in ombra, il suo profilo è disegnato dal taglio di sole che illumina metà del viso di Gesù, mentre la figura della Santa è completamente illuminata dal fascio luminoso che taglia la scena. Qui dobbiamo sottolineare come siano pochi i pittori del Rinascimento, compresi i grandi veneti e toscani, che dimostrino tanta sapienza nel gestire il chiaro e l’ombra producendo volumi e ritmi di tanta bellezza. Naturalmente l’Allegri anche qui non si lascia sfuggire l’altra fra le sue doti da gran maestro: alludiamo alla sapienza compositiva attraverso la quale riesce a collocare le figure. Questa lettura ci viene facilitata se la deduciamo dalle acqueforti che riproducono in gran numero questo dipinto: abbiamo detto che le due protagoniste sono poste una di fronte all’altra di profilo. Se seguiamo l’arco che raccoglie i volti, le spalle e le schiene d’entrambe e quindi risaliamo seguendo le braccia, otterremo due ellissi che si compenetrano e che appresso continuano a rotare coinvolgendo i due corpi femminili che insieme avvolgono il piccolo Gesù. 45 Come perno al movimento nel centro fra i due volti scende una lunga e sottile foglia di palma, simbolo della purezza, segno che prosegue fino a raggiungere il panneggio della giovane martire. Ma di certo il dipinto di Correggio che ha sorpassato ogni altro nel numero delle copie dipinte e in quelle in acquaforte e stampa è quello della Madonna con bambino e un piccolo Angelo. Ancora, di certo è stato eseguito dall’Allegri qualche anno appresso l’aver incontrato e preso in moglie la sua compagna per la vita. Infatti in questo ritratto Girolama è ancora molto giovane e quel bimbo che tiene in braccio e al quale offre il seno gonfio di latte è suo: si tratta del primogenito (Pomponio). La Vergine madre qui accenna ad un sorriso pieno di dolcezza: evidentemente si sta divertendo nell’osservare l’impaccio del piccolo Gesù che non sa decidersi se appoggiare le proprie labbra al capezzolo della madre o accettare il dono del bambino alato che gli offre una manciata di datteri. Certo, anche qui ritorna il poema amoroso del Cantico dei Cantici. Il bimbo alato che qualcuno ha identificato nel Giovannino che offre i succosi frutti osserva con intensità di sguardo il seno della Vergine quasi fosse attratto dall’idea di suggerne il latte a sua volta. Pare che l’angiolino stia facendo una proposta di scambio azzardato: “Fammi assaggiare qualche goccia di latte della tua mamma e io in cambio ti do tutti i datteri che tengo in pugno”. A quella proposta il Bambino Gesù sembra bloccare il gesto del compagno di giochi e, ponendo la mano presso il seno della Madre, pare dica: “Eh no, il seno è mio e non te lo do!” Non possiamo fare a meno anche in questo caso di prendere in esame la struttura compositiva di questo capolavoro: tutto, volti, braccia, mani, gambe e piedi della Santa Madre e dei bimbi sono raccolti dentro una sequenza di cerchi della stessa dimensione che vanno roteando uno dentro l’altro, creando una sensazione di festoso mercato fra i frutti di dattero e i seni della Madre. Qui ci coglie la memoria delle grandi madri dell’antica e costante rappresentazione della nostra cultura mediterranea con Demetra e i suoi figlioli che si disputano golosi i seni turgidi per la gran quantità di latte che le sgorga intrattenibile dai capezzoli. Osservando la serie finale dei disegni preparatori degli affreschi delle cupole di Correggio ci rendiamo conto quasi a ritmo costante di una situazione della quale abbiamo già accennato 46 l’imponente presenza: stiamo parlando delle gestualità che alludono a passi di danza e a movimenti contrappuntati con braccia e corpo tutto. Lassù incontriamo Gesù che sembra accennare un ballo nell’aria: intorno ritroviamo le amiche di Eva ed ella stessa che danzano sfrenate e anche i bimbi nel loro gioco si sono trasformati in piccoli danzatori, poi gambe e braccia si agitano uno appresso all’altro segnando ritmi da tarantola e pavana. Ma anche Gesù nel Noli me tangere sembra accennare ad una danza e presso a lui sembra sollevarsi all’impiedi anche la sua compagna Maddalena pronta a seguirlo nel ballo. Quasi con logica obbligata, ci viene alla mente quello stupendo canto ritrovato nel Vangelo apocrifo di Giovanni della seconda metà del II secolo d.C. E’ Gesù che parla, quasi cantando: Rispondi alla mia danza. Non ho casa, eppure un tetto sempre mi protegge, non tengo campi, eppure ogni podere posso attraversare non ho templi coperti con cupole, ma ho per cupola tutto il cielo. E’ inutile che tu cerchi uno specchio, affacciati al mio viso, ti ci vedrai riflesso. Una porta sono per te che bussi, strada sono per te che devi camminare Rispondi ora alla mia danza, non c’è commento più eloquente Di un corpo che si agita nell’aria. Danzando mi dimostri che sai leggere ciò che vado dicendo. Tu hai visto la mia sofferenza e, vedendo, non sei rimasto immobile, hai torto il tuo corpo come un albero squassato dal vento. Ti sei torto nella danza per diventare saggio. Tu mi hai come un luogo di riposo, ora consolati in me, danziamo e accompagniamoci con il sorriso. Io ho deriso tutto con la parola e ho saltellato nella beffa dello sghignazzo. E io stesso ho riso nell’essere deriso. 47 A questo punto del percorso dell’Allegri, ci rendiamo conto dell’incredibile quantità di opere prodotte dal maestro di Correggio: ne abbiamo contate più di cento di cui un gran numero di Madonne col bimbo e altre dove la Vergine sovrasta gruppi di Sante e Santi più qualche putto che non può mai mancare. Ma lo spazio più esteso affrescato dal pittore è senz’altro quello delle aree concave delle cupole con relative basi: si tratta di intonaci che coprono mura per centinaia di metri quadri con una folla di personaggi mobili che galleggiano in un cielo profondo sfondato fra nubi dalle quali spuntano volti e corpi di altre anime che fluttuano nella nebbia. Ciò che impressiona maggiormente di quelle straordinarie scene è il movimento: non c’è figura che se ne stia assente e beata in quello spazio, ognuno si muove agitando braccia e gambe che si sorpassano l’un l’altra come una sequenza futurista di Balla, Boccioni e Severini. Certo osservando d’appresso le varie fasi pittoriche, anche le più nascoste di quel doppio, triplo paradiso, siamo portati ad immaginare scene sempre diverse che si susseguono come su un enorme schermo rotante: ci puoi leggere la tragedia di Icaro che cerca di guadagnare alti spazi navigando per mezzo di ali incollate con la cera, e poi ecco il sole che scioglie le piume e Icaro che precipita urlando fino a schiantarsi. Ci vedi frammenti di disegni giganteschi di Leonardo con scheletri di ali che attraversano l’affresco ad ogni lato, incrociando angeli appena abbozzati e poi ancora le immagini acrobatiche inventate per gli spettacoli sacri dentro le cupole di Firenze e Milano da Brunelleschi e dal Bramante, ecco le figliole che sbattono ali di carta e vanno muovendosi appese a cerchi che rotolano nella grande macchina del cielo; ma dove ti senti mancare il fiato è nella disputa che si svolge davanti ai tuoi occhi e alle tue orecchie come davanti al fondale di un immenso cielo: i dialoganti sono un contadino e un grande sapiente, il tema è quello sulla teoria geocentrica di Tolomeo opposta a quella di Copernico. All’inizio ti pare che il contadino si esprima nel dialetto di Ruzzante, ma poi vieni a scoprire che quelle folli teorie del “villan di Pava” sono sì ruzzatine, ma scritte da Galileo Galilei in persona. Proprio lui, il grande scienziato pisano che insegnava a Padova, che impiegava il linguaggio del Ruzzante per mascherare con quella lingua ostrogota le folli teorie nuove che per poco non gli procurarono la prigione e anche il rogo. 48 È un reperto spettacolare di scienza e teatro completamente sconosciuto, specie agli eruditi e ai sapienti, ma di certo sarebbe piaciuto tanto all’Allegri e, se permettete, glielo dedichiamo. Dunque da una parte c’è il contadino che si chiama Nale e dall’altra il dottore sapiente che tiene lezione al villano. Per primo prende la parola il dottore: DOTTORE: Ora, caro Nale, se tu mi presti attenzione, ti mostrerò come, grazie alla divina intuizione di Aristotele, si reggono gli astri e i pianeti nel cielo. I pianeti e gli astri stanno incastonati dentro cerchi e sfere immense di vetro, anzi di cristallo purissimo, sfere e cerchi che si muovono in grande sincronia fra di loro intorno alla terra, che per nostra fortuna sta fissa, immobile, nel centro dell’intero sistema. NALE: Ah, ah, ah! I astri e i pianéta stan incastonó deréntro el voltón de cristal compàgn che le campane trispàrenti per covrìr i santi? Nel balón de véder?! DOTTORE: Sì, sì, esatto, esatto! Di queste sfere ce ne sta una in particolare, straordinaria, dentro la quale è incastonato il sole. NALE: Còssa? El Sole el sta incastonà deréntro al vetro? ’Sta fornàse brusànte che desléngua el fèro, che desléngua el bronzo, che desléngua anco l’azàro… l’è incastonò dentro una capa de cristal?! Ah, ah, ah! Ma per ’sto gran calór de fornàse che l’è ol Sol tüto l’andarèsse infondùo, tüto infondùo andarésse ’sto vetro! Tüto stcioparèse come un gran lampadari e a nuioltri ghe tocherèsse andar a sbalzolóni in per la Tèra con tüti i vetri che se inzòca dentra ai pie! DOTTORE: Sentilo, il nostro sarcastico Nale! Ora dimmi, secondo il tuo grande ingegno, come starebbero appesi gli astri lassù? NALE: No’ sta miga pendùi i astri, no. I va rotolando pe’ l’àire! DOTTORE: Rotolando?! Ivi compresa la Terra?! NALE: Sì, pruòpri! Comprendùt ol nostro pianeta. Mi son sigùro che la Tèra no’ sta miga fissa inciodàt come dise l’Aristotile, ma la va zizeràndo come ’na tròtola in gran zércolo… Gh’havìt in ment la rùsola? DOTTORE: Sì, la ruzzola… che poi sarebbe, se non erro, quella specie di formaggio asseccato che i contadini della tua razza cingono con una lunga fune, quindi tirando la stessa lanciano il formaggiotto rotante a srotolarsi lungo la china e spesso lo fanno volare. 49 NALE: Ben… ecco, quèlo… o si ti vol, compàgn a ’na sfritàda de zentomìla milión de òvi… ’na sopressàda zigànte che va zizzagàndo per ol ziél, donde ol Sol l’è ’na polenta… un polentón stragrande infogà… che nel pindorlàr tremendo ol va intorno e sbròfa fòra gnòchi de polenta che po’ son le stèle che sbrìgola in del firmamento! DOTTORE: Ah, ah, ah! E quindi gli astri sarebbero proiettati nell’universo senza tracciare un’elisse di ritorno? NALE: Cosa sarèsse ’sto elisse de restórno? DOTTORE: Intendo il vagar degli astri: quando la tua sfrittàta che lanci si ritrova a compier parabole continue, essa tua ruzzola terrestre, rimane su per cento battiti di ciglia massimamente, poi cala la tensione e finisce al suolo. Ma gli astri reali, le sfrittàte nostre celesti, Luna e stelle, le nostre polente, rimangon su, non calano manco di un grado e continuano nel loro vorticare infinito, costante. Come lo spieghi? Come giustifichi la tensione che le costringe a disegnar parabole perfette in eterno? NALE: Beh, basta no’ desmentegàrse de la traziùn che végne de l’alta e basa marea e per il tiramento de le misme. DOTTORE: Cosa?! La trazione? Il tiramento? Bassa e alta marea nel firmamento? Cosa vuol dire? NALE: Ma sì… l’è semplize… coma quand la Luna e la Tèra in del loro zizzagàr, i arìva pròxime l’una a l’óltra, èco che salta fóra l’alta marea. Gh’è ol mar che da la Tèra se spónza de fóra come una panza de una dona ingravidàda… squàsi ciuciàdo da la Luna, e anche i sbotón, i zermògli che gh’è in de la Tèra, la Luna le tira. E gh’è anca i péssi che vorarèsse tiràrse de fóra e sbotàr in ver la Luna… E anca ai animal ghe tira sgrogognà de vegnìr fóra, che tüto in de l’universo l’è un gran tiramento: co gh’è la Luna che tira co’ la Tèra, a gh’è la Tèra col Sol che tira, i pianeti se tiran l’un l’oltro. Insoma, nasse un desìo passionàd compàgn de un magnàtismo maravegióso tremendo, chè i ghè costrìnze a ziràr deréntro le orbite senza farse spudàr de fóra. 50 Chè i pianeti vorsarìa slonzonàrse, andar de parabola, ma gh’è un altro subito che ol tira: «Végne qua!» (Mima descrivendo in una specie di danza pavana l’attirarsi degli astri) BRUUAAAM! Torna indrìo e de l’altro canto gh’è un altro ch’el tira: «El va, el va!!» PLAAAK! Torna indrìo… e l’elisse se forma per i tiramenti: tira v’un che tira l’altro, tüto se tira! Così no’ se dise forse che un òmo, quando l’è in amor, ghe tira? A l’òmo ghe tira sempre per squasi tüte le fèmene... che noialtri semo plu zenerósi! E no’ se dise che una fèmena ghe tira per ol sò òmo? E dònca tüti, astri e pianeti e le stèle stan dentro a un tiràrse vorticoso de tiramenti passionàdi, che tüto ol desechilìbrio se stciaparèsse in un gran desastro fracasóso se no’ ghe fuèsse ’sto tiramento… che po’ l’è ol magnifico tiramento zeneràl de l’universo in amore! DOTTORE: L’universo in amore? Ma questo tuo universo in amore è eterno? NALE: Mah, nisciùno l’è eterno in tèl zièlo. No’ gh’è astri, no’ gh’è pianeti che i sìvia per sempre. Solamente ol nostro Deo Padre l’è eterno... forse. E puranco ol nostro Sole se retroverà un ziorno col tiramento che se smorza… ol sò magnetismo e astri che lo tira se slasserà andar… se slabra ’sta arcada cilèste, se trova con venti de corénti de contro e... teremendo!, se spénge ol gran falò de fògo, se smorzerà ol Sol e la sòa lus… e una cóa luçente ’mé meteora infogàda se slogherà svortegànte filante per ol çielo… cossì in de lo scuro despàre desolvéndose ol Sole. «Ehi! L’è terminàt lo spectàcolo… Silénti!... Tüti dormienti in sempiterno! E no’ rompìt pì i cojón!»9 DOTTORE: Oh, oh, oh! La fine dell’universo orrendo! È un giudizio universale proprio da sghignazzare! Ah, ah, ah! Morir dal ridere! NALE: No, no, l’è ol tò de universo che ol fa crepàr de’ ridàde, doctor, eh… con ’ste tòe volte del ziélo in cristal, col Padreterno impatacàt in de la volta del firmamento co’ in testa inciodàt un triangolo. È che a vui dotóri ve fa spavento l’idea de un universo tròpo grando… Voàltri preferìt che ol sìvia limità e calculàbile… No, mé despiàse dotóri, l’universo no’ l’è restrengiùo e no’ l’è calculàbile… l’è tüto de un grand desórdene emmensuràbele. L’è masa pi’ grande de quèlo 51 che se pòl penzàre. L’universo l’è infinito... parchè l’è ol Deo Padre che no’ lo gh’ha finito! E ’sta solusión a vui àlter siòri doctóri ve porta spavento… Voàltri preferè de pensar a un Deo Creadòr a vostra emmàzine, eguàl a vui… de la vostra misura, perché se ’sto Deo Padre ol strarépa fora del normale, sbota un universo in del qual tüti se despèrde spampanà. Ecco la rasón che ol va fàito enventàrve un creato de corta misura, in manéra che la Tèra sia sempre lì ben piantàda intramèso al gran giardin, fermàda, co’ tüti i pianeti che i zira torno a torno a noaltri, co’ la giunta del Sole osequieóso che zira come fuèsse deréntro a ’na giostra e l’òmo intraméso sentà, coi astri che i zira: «Che bel tramonto che te m’è fàit ’stassera, gràsie! Oh che bel’alba! Oh la Luna che la monta! Ohi, Marte, semo in ritardo! Venere, va’ soto e covrete ’ste ciàpe,svergognà!» Ma si ti vegni a descrovrìr, de incanto, che la giostra no’ gh’è miga... che la Tèra gira ’mé ’na sfritàda che rùsola per ol çiél… e astri tüti a gh’hann ognun un sò ziraménto intorno al Sol e a ogni momento te incòrgi che artri pianeti e artre stèle spunta dapartùto… Alora no’ gh’è più devìna misura… l’onivèrso l’è sfrondàt e tüto devénta spropositàt, a comenzàr dal Padreterno… un Deo che no’ ti pol pì imazzinàrlo stravacà su ’na nuvola, trasportà de angiulìn co’ l’ali, no, anco lu, Deo, l’è andàt fóra de norma e spampanàt in l’universo smoderàt. No’ esiste pì’ ni misura ni proporzión. Cossì, a l’estànte, l’òmo devénta pìcol, ma cossì pìccol… picinìn, che al sò confronto una pùresepidòcio la parèsse un eliofànte: «Oh, donde sèito ti, òmo?» (Con voce sottile) «Son chi… In tel fondo...» «Che fondo? Indove?» (Camminando intorno alla ricerca dell’invisibile creatura) Fàite védar… azzènde un fògo… Donde siii?… Donde siiiiii? Non te sento pì… (Mima, per inciampo, dischiacciarlo col piede) GNACH! «Ahiaoa!» «Oh!… Scùsame… perdoname… te gh’ho schisciàdo!» E l’è finìda tüta l’umanidàd! TRADUZIONE DELLE BATTUTE DI NALE (da mettere in fronte pagine) 1 Ah, ah, ah! Gli astri e i pianeti stanno incastonati dentro il voltone di cristallo come le campane trasparenti per coprire i santi? Nel pallone di vetro?! 52 2 Cosa? Il Sole sta incastonato dentro al vetro? Questa fornace rovente che scioglie il ferro, che scioglie il bronzo e scioglie anche l’acciaio… è incastonata in una cappa di cristallo?! Ah, ah, ah! Ma per ’sto gran calore di fornace che è il Sole tutto andrebbe fuso, tutto fuso andrebbe questo vetro! Tutto scoppierebbe come un gran lampadario e a noialtri toccherebbe andar a saltelloni per la Terra con tutti i vetri che ci si infilano nei piedi! 3 Non stanno mica appesi gli astri, no. Vanno rotolando nell’aria. 4 Sì, proprio! Compreso il nostro pianeta. Io sono sicuro che la Terra non sta fissa inchiodata come dice l’Aristotile, ma va girovagando come una trottola in gran cerchio... Avete in mente la «ruzzola»? 5 Bene... o se vuoi, come a una frittata di centomila milioni di uova... o una sopressata gigante che va zigzagando per il cielo, dove il Sole è una polenta, un polentone stragrande infuocato che nel vorticare tremendo va intorno e spruzza fuori gnocchi di polenta che poi sono le stelle che brillano nel firmamento! 6 Cosa sarebbe questa ellisse di ritorno? 7 Beh, basta non dimenticarsi dell’attrazione che arriva dall’alta e bassa marea e per il tiramento delle medesime. 8 Ma sì… è semplice… come quando la Luna e la Terra, nel loro zigzagare, arrivano vicine l’una all’altra, ecco che salta fuori l’alta marea. C’è il mare che dalla Terra si spinge in fuori come una pancia di donna ingravidata... quasi succhiato dalla Luna, e anche i germogli che stanno nella terra, la Luna li attira. E ci sono anche i pesci che vorrebbero uscire e lanciarsi verso la Luna… e anche agli animali gli tira la voglia di venir fuori, che tutto nell’universo è un gran tiramento (tutto si attira): c’è la Luna che si attira con la Terra, c’è la Terra col Sole che tira, i pianeti si attirano l’un l’altro. Insomma, nasce un desiderio appassionato come un magnetismo meraviglioso tremendo, che li costringe a girare dentro le orbite senza farsi sputar fuori. Che i pianeti vorrebbero allontanarsi, andar di parabola, ma ce n’è un altro subito che li attira: «Vieni qua!» (Mima descrivendo in una specie di danza pavana l’attirarsi degli astri) BRUUAAAM! Torna indietro e dall’altro canto ce ne è un altro che lo tira: «Va, va!!» PLAAAK! Torna indietro… 53 e l’ellisse si forma per i tiramenti: tira l’uno che tira l’altro, tutto si attira! Così non si dice forse che un uomo, quando è in amore, gli tira? All’uomo tira sempre per quasi tutte le femmine… ché noialtri siamo più generosi! E non si dice che a una femmina le tira per il suo uomo? E dunque tutti, astri e pianeti e le stelle, stanno dentro a un tirarsi vorticoso di tiramenti appassionati, che tutto l’equilibrio si spaccherebbe in un grande disastro fracassoso se non ci fosse questo tiramento… che poi è il magnifico tiramento generale dell’universo in amore. Mah, nessuno è eterno in cielo. Non ci sono astri, né pianeti che siano per sempre. Solamente il nostro Dio Padre è eterno… forse. Anche il nostro sole si ritroverà un giorno col tiramento che si smorza... il suo magnetismo e gli astri-pianeti che lo attirano si lasceranno andare… si slabbra questa arcata celeste, si trova venti e correnti contro e... tremendo!, si spegne il gran fuoco, si smorzerà il Sole e la sua luce… e una coda lucente come una meteora infuocata si allungherà vorticando per il cielo… così nello scuro scompare dissolvendosi il Sole. «Ehi! È terminato lo spettacolo… Silenzio!... Tutti a dormire in sempiterno. E non rompete più i coglioni!» 9 No, no, è il tuo di universo che fa crepare dalle risate, dottore, eh… con ’ste tue volte del cielo in cristallo col Padreterno appiccicato alla volta del firmamento, con in testa inchiodato un triangolo. È che a voi dottori vi fa spavento l’idea di un universo troppo grande... Voialtri preferite che sia limitato e calcolabile… No, mi dispiace dottori, l’universo non è stretto e non è calcolabile… è tutto un gran disordine incommensurabile. È molto più grande di quello che si può pensare. L’universo è infinito... perché è il Dio Padre che non l’ha finito! E questa soluzione a voialtri signori dottori vi spaventa… Voialtri preferite pensare a un Dio creatore a vostra immagine, uguale a voi… della vostra misura, perché se ’sto Dio Padre straripa fuori dal normale, sbotta un universo nel quale tutto si disperde spampanato. Ecco la ragione che vi ha fatto inventare un creato di corta misura, in maniera che la Terra sia sempre lì ben piantata in mezzo al gran giardino, ferma, con tutti i pianeti che girano attorno in tondo a noi, con l’aggiunta del Sole ossequioso che gira come fosse dentro a una 54 giostra e l’uomo seduto in mezzo, con gli astri che gli girano intorno: «Che bel tramonto che mi hai fatto questa sera, grazie! Oh che bell’alba! Oh la Luna che la monta! Ohi, Marte, siamo in ritardo! Venere, va’ sotto e copriti le chiappe, svergognata!» Ma se vieni a scoprire, d’incanto, che la giostra non c’è... che la Terra gira come una frittata che ruzzola per il cielo... e gli astri tutti hanno ognuno un loro giramento intorno al Sole e in ogni momento ti accorgi che altri pianeti e altre stelle spuntano dappertutto… Allora non c’è più divina misura… l’universo è sfondato e tutto diventa spropositato, a cominciare dal Padreterno… un Dio che non puoi più immaginare stravaccato su una nuvola, trasportato dagli angioletti con le ali, no, anche lui, Dio, è andato fuori di norma e spampanato nell’universo smoderato. Non esiste più né misura né proporzioni. Così, all’istante, l’uomo diventa piccolo, ma così piccolo… piccino, che al suo confronto una pulce-pidocchio pare un elefante: «Oh, dove sei tu, uomo?» (Con voce sottile) «Sono qui… nel fondo...» «Che fondo? Dove? (Camminando intorno alla ricerca dell’invisibile creatura) Fatti vedere… accendi un fuoco… Dove seii?… Dove seiiiiii? Non ti sento più… (Mima, per inciampo, di schiacciarlo col piede) GNACH! «Ahiaoa!» «Oh, scusami… perdonami, ti ho schiacciato!» Ed è finita tutta l’umanità!
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