Carlo Zauli - Galleria Bianconi
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Carlo Zauli - Galleria Bianconi
Carlo Zauli Flaminio Gualdoni “Proprio in questo periodo sento la necessità di approfondire le mie ricerche nel puro materiale argilloso. Lasciarlo scoperto e nudo, senza smalto e colori, ma il colore deve essere ʻportanteʼ in se stesso, fare parte integrante naturale e non naturale dellʼimpasto argilloso. Sto facendo tante tante prove. Io, che produco con successo quel magnifico smalto bianco – grigio, che vira ai rosa e ai neri e che è stato definito il bianco di Zauli, mi sto introducendo in questo studio di impasti colorati. Ma non intendo tradire il mio morbido bianco. Anzi, forse, ci sarà lʼopportunità di accostarlo alle terre colorate e trovarne dei significativi valori materici e cromatici”. Così annota Carlo Zauli il 15 marzo 1980, a dire dʼuno dei numerosi snodi problematici che il suo lavoro affronta nei decenni, mai acquetandosi entro il perimetro di sicurezza di formule collaudate. Chiara appare soprattutto lʼidentità che lʼartista concepisce di se stesso. Creatore senza remora di spingersi nel territorio dello sperimentale, interlocutore primario del dibattito sulla vocazione formativa delle materie che la stagione informale ha innescato e nutrito, feroce nello scavare unʼautentica, non retorica raison dʼêtre dellʼopera su un piano che non vuole e non può essere quello del mero compiacimento estetico. Allo stesso tempo, artifex nato e cresciuto nel solco della grande tradizione ceramica faentina, vissuta nelle misure della sapienza atavica – venata talora dʼesoterismi – del faber e dʼun orgoglio disciplinare che non sia idée reçue ma esperienza verificata ogni giorno nella pienezza del fare. In altri termini, in un tempo in cui allʼaccoglimento a pieno titolo della pratica ceramica nel novero dei possibili espressivi alti, forte di esempi come quelli che hanno portato da Martini e Marino a Leoncillo e Fontana, va corrispondendo una sorta di demarcazione nominalistica e quasi sempre speciosa tra chi sia “solo” ceramista (dunque escludibile dal gran ballo dellʼarte) e chi scultore in ceramica – chʼè, a un dipresso, ciò che oggi il sistema artistico va goffamente tentando in ambiti come la fotografia, il video, le pratiche digitali; in un tempo cioè in cui la consapevolezza culturale e teorica si manifesta arretrata e inadeguata, soprattutto in Italia, a leggere con i corretti strumenti lʼarte che si va facendo, Zauli vive e attua una posizione autonoma e forte, certa di se stessa e poco propensa a farsi involvere nelle maglie dello sciocchezzaio critico e istituzionale vigente. Lʼarte ceramica è, appunto, unʼars. Certo, è evidente che occorre dedicarsi, sono ancora parole sue, “esclusivamente ad opere ceramiche che vogliono essere esempi di ricerca della forma verso lo spirito della materia che la esalta e verso la chiarezza e la fermezza dellʼidea”. Ed è altrettanto evidente, ovvio, nonostante quanto talune delle neoavaguardie – e solo talune – vanno affermando, che la “virtuosité”, assumendo lʼarguto termine impiegato da Jean Fautrier nella celebre lettera del 1944 a Jean Paulhan, è premessa e condizione essenziale: pericolosa, avvertiva il pittore, per i mediocri, ma fondamentale per gli artisti che sanno cosa devono fare e che le attribuiscono il giusto peso in seno allʼeconomia espressiva. Tutto qui. Dunque Zauli si sa e si vuole scultore proprio perché ceramista, non disposto a nulla cedere della propria sapienza disciplinare in cambio di accettazioni condizionate in seno al sistema artistico. Questa la sua forza. Questo il suo orgoglio. Non a caso è Giulio Carlo Argan a ribadire con autorevolezza serena che “dellʼopera di Zauli non ha proprio senso chiedersi se sia scultura o arte fittile, come se il significato delle forme dipendesse dalle materie e dai procedimenti con cui si realizzano”. Il flusso dʼopere che ne contraddistingue il percorso è, da questo punto di vista, esemplare. Gli anni formativi di Zauli si collocano nel decennio Cinquanta, quello in cui le diatribe entusiastiche e tormentate tra figurare e astrarre sono innervate, per chi come Zauli sia figlio della tradizione grande faentina e ne sappia leggere lo spettro tutto delle implicazioni e delle sfumature, da mozioni come la “sintesi delle arti” corbusieriana, la continuità congenere tra la cultura altoartigianale e la ricerca pura, lo scambio paritario dʼesperienze tra artista e artefice, il maturare del design. Valga qualche sintetica indicazione: il congresso bergamasco CIAM VII è del 1949, nel 1951 Argan pubblica il saggio fondamentale Walter Gropius e la Bauhaus e si tiene la IX edizione della Triennale milanese, il cui programma sʼannuncia nel voler portare “gli artisti alla prova di problemi concreti, promuovendo nuovi rapporti di collaborazione fra le varie arti: architettura, pittura e scultura, per lʼelevazione di un livello di vita tanto spirituale che pratico”. È il tempo in cui Gio Ponti scrive: “Io credo profondamente negli artisti dʼoggi, nei miei fratelli artisti dʼoggi”, nel tentativo di recuperare il patrimonio inderogabile dʼesperienza che le pratiche altoartigianali hanno conferito alla ricerca artistica; il valore della piccola serie nel modello della nascente impresa italiana, quasi una contaminazione tra atelier di pensiero e struttura produttiva; il fondamento dellʼinventare come lievito del progettare, in una sorta di continua fagocitazione di stimoli che il dettato duro delle discipline vorrebbe eteronomi. A partire da tale adesione climatica Zauli matura presto una consapevolezza individuale forte e lucida. Riflette sulle conduzioni produttive della pratica dʼarte e sulla fisionomia nuova che lʼartista può assumere, facendo del proprio raggiunto magistero nella pratica ceramica non un punto dʼarrivo ma, sʼè detto, la premessa e la condizione necessaria a un fare arte che si sappia identitariamente antico, e modernissimo. Le prime stagioni di maturità creativa dicono di uno Zauli frequentatore assiduo della geometria, con propensioni forti allʼintegrazione architettonica dellʼopera. Da un lato, i grandi rilievi di quel tempo, ponendosi in confronto complice e non accessorio con lo spazio del costruire e del vivere, sottraggono a questo formare ogni sospetto di compitazione metodologica, di separatezza algida dal mondo delle forme viventi dʼesperienza estetica. Zauli sʼavvede da subito dei rischi di sperimentalismo in vitro che lʼarte che si proclama pura nutre in se stessa: il rischio del predominare della mozione intellettuale, del farsi protagonista nel progetto rispetto al fare, gli è ben evidente, ed egli sa invece che lʼarte, la sua arte, non può che riconoscersi e determinarsi nel fare, nel passo dopo passo del confronto diretto con la materia e con la formazione, dunque con lo spazio storico del vivere. Dʼaltro canto, per lui lo schema geometrico vale come griglia intellettuale dʼordinamento che in ogni momento del processo si misuri criticamente, a costo del conflitto, con le pulsioni impure e fastose della terra, del suo premere secondo un crescere oscuramente naturale che trovi infine una ragione qualificativa nella forma. La terra è materia atavica, sapienziale, potente, e lʼartista non può, se è davvero artista, imporle lʼarroganza di pro- cessi formativi eteronomi. Il fare arte, il farsi dellʼarte, è accettare lo scambio dʼesperienza, eroticamente complice, tra intenzione di forma e volontà autonoma di formazione della materia. È in questo momento che Zauli assetta le condizioni fon- dative della propria idea dʼarte. Desiderare la forma, e fare della geometria la questione, non la soluzione del suo stream generatore, il reagente che faccia lievitare le ragioni imperscrutabili della materia verso la clarté dʼun ordine esteticamente necessario. A un tratto del proprio percorso, lʼartista si avvede che la terra vuole altro, che in ogni caso la filigrana geometrica può farsi retorica di se stessa: può farsi impropriamente, soprattutto, stile. E affronta una sorta di radicale remise en question dei propri raggiungimenti, lavorando, sono ancora parole sue, a saggiare la possibilità di “strutture strappate, violentate”, ovvero opere in cui la ragione stessa di forma sia lo snodo problematico del processo. Lo schema plastico del solido viene assunto nella sua catafratta purezza, ma per sottoporlo alla pressione della forza autogeneratrice della terra, dʼuna materia che non sopporta imposizioni, che ha un dentro brulicante nellʼinfinito delle forme possibili e un fuori che si fa pelle alla luce: e colore in quanto colore di materia. Non si tratta beninteso, per Zauli, si sostituire alla retorica della shape geometrica la retorica autre della degenerazione della forma, a unʼintenzione unʼaltra intenzione. Ciò che gli importa, ora che gli echi dellʼinformale e del naturalismo di partecipazione vanno trascolorando, è concentrare il momento fondante del processo di formazione nellʼauscultazione reciproca tra le pulsioni espressive dellʼartista e quelle della crescenza formale che la terra, materia di cui si accoglie lʼavventura della totale autodeterminazione, manifesta a chi sappia: sappia guardare, sappia soprattutto toccare. Una fotografia bellissima di Antonio Masotti mostra Zauli, nel 1975, seduto su una distesa di zolle e meditabondo, che rivolge uno sguardo amorevole alla terra. Qui è, al di là dʼogni arzigogolo intellettuale, il punto. Lʼartista e la sua materia, la sua terra nello spettro tutto delle significazioni dellʼespressione, sono una sola cosa, non convenzionalmente uniti da unʼidentità indissolubile. Lʼarte è la manifestazione distillata di tale identità. Zauli può accettare di affrontare questa nuova condizione di cecità progettuale, di fabrilità che scopre se stessa nella pienezza del fare, proprio perché salde, saldissime sono le premesse tecniche della disciplina. Se, in altri termini, egli può maturare la scelta di affidarsi alla plenitudine esperienziale del processo, è perché mai rischia di farsene prigioniero, o succube. E scopre, molto scopre in questi anni: che sono quelli degli Sconvolti, delle Flessuosità, delle Zolle, titolazioni tutte emblematiche. In cui sembra dispiegarsi lo spettro degli ulteriori possibili plastici, quelli che egli andrà esplorando nel corso degli anni a venire. Per scommesse espressive e decantazioni, per intuizioni e riflessioni, Zauli giunge a comprendere che la materia chiede forme, perché esse sono figlie dei suoi intimi comportamenti. Porsi al passo con tali comportamenti, in consonanza, forzando lʼinterna tensione genetica sino a che emerga e si faccia forma formata, è ritrovare nellʼarte un fare perfettamente naturale. Naturale perché aggira lʼantica e ormai esausta questione della referenza, e si fa epifania della naturalità della materia per via di forme equivalenti: forme che sono dellʼarte, certo, ma perché intimamente alla natura appartengono. Fare è dunque accettare le ragioni della terra, sottoponendole al vaglio lucido e inflessibile dellʼazione che verifica, seleziona, delucida, eliminando ogni accessorio dʼaccidentalità in favore di una sorta di potente, diretta evidenza. Il sapere la terra e il sapere della terra possono, ora, agire allʼunisono. Non è più, ormai, per Zauli, neppure questione di discorso dʼarte, men che meno di dimensione estetica, di gusto. Se una bellezza è alle viste, è lʼintima bellezza della terra formata, che offre le proprie superfici fluenti, le proprie cellule generative, a una luce che ne legge la qualità necessaria, irrelata, per certi versi indici- bile. Dei comportamenti della materia Zauli saggia, ora, gli statuti fondamentali, lo stare sullʼorizzonte e lʼergersi verticale, nella primarietà della stele, della colonna, in un rapporto dellʼuomo con la terra che le fa totemiche. Il tramarsi fluente delle ondulazioni, che si fanno pieghe umbratili ed evidenze lucenti e sensuose, come di corpo, come di carne amata. Gli equilibri e gli squilibri, le geometrie ora non sapute, ma continuamente perse e trovate. La stagione ultima di Zauli si fa fastosamente frenetica: affronta anche in modo struggente la questione della pelle della scultura, quel suo essere ora limite periclitante della forma alla luce e ora tegumento, protezione lucente dellʼintimità. Mosso da premesse per cui mai più sarebbe stato possibile, allʼarte moderna, concepire una statua, Zauli si avvede che ciò che va nascendo tra una Genesi e una Sensualità sconvolta sono, ancora, forse, sorgivamente statue. Ovvero individui che valgano il doppio atavico del corpo umano, non la sua rappresentazione. Quasi a ridire lʼantica sapienza: “Dirà lʼargilla a chi la forma: ʻChe fai?ʼ” (Isaia 45, 9). Sono nato, cresciuto e vivo gran parte della mia vita, tra le crete, i colori e i forni di Faenza: città universalmente riconosciuta e ritenuta capitale della ceramica, dove da secoli e secoli, lʼaria che si respira è satura di uno strano e benefico “virus” che respirato, dà origine ad un profondo stimolo di interesse e di amore verso lʼargilla smaltata. Da qui indubbiamente, uno dei tanti (ma non meno importanti) motivi per cui lʼho scelta come mezzo più congeniale alle mie ricerche di sculture. Pur non trascurando, né sottovalutando, nessuna materia, ritenendomi un interessato ed anche curioso studioso di classici ed inediti materiali della nostra epoca, i miei studi mi spingono a rivolgermi, in particolare alla ceramica: materia antichissima che sento più adatta a realizzare le mie necessità creative. Profondamente sono un uomo che ama un “grumo” di argilla che vuole vitalizzarlo, dargli piano piano forma, più vita, esaltando e riordinando i suoi infiniti ritmi a le sue misteriose tensioni che in esse si nascondono. Non mi oppongo alla materia, ma a questa mi adeguo, cercando di capirla, fondendola alla mia fantasia plasmando forme che seguono una genesi, una vita una serie di esaltazioni possibilistiche. Invece di comprimere forzatamente e distorcere innaturalmente, cerco di cogliere, il più acutamente possibile, le forme naturali invisibili che al suo interno si celano, che respirano ed intendono venire in superficie e vogliono “essere”; per poi concretizzarsi con vitalità in forme e forme che si posso- no contemplare, toccare ed accarezzare. Tutto questo con imperturbabile ordine classico, direi ellenico, fuso con i severi e ben piantati ritmi rinascimentali, ovviamente impregnati di tutte le sottili ed esplosive tensioni del mondo dʼoggi. Credo che lʼUomo dopo tanti millenni dʼarte, non abbia ancora esaurite tutte le virtualità possedute da una materia tanto semplice e tanto difficile, ma tanto vicino a lui. Tanto difficile da essere trasportata poeticamente nellʼambiente e nello spazio in cui vive. Sono un artista che cerca di conoscere al meglio le tecniche ed il proprio mestiere, anche nei suoi aspetti umili e artigianali, perché penso che senza la consapevolezza, la conoscenza profonda e il controllo preciso della materia non ci sia arte. Tutto ciò probabilmente, potrà sembrare semplicistico. Non credo! lo so soltanto che queste convinzioni sono la base del mio lavoro, delle mie ansie, dei miei entusiasmi. È un lavoro e un impegno creativo duro, che consuma, ma forse per questo tanto affascinante. La fedeltà a questa materia, così antica, così moderna mi dà grande soddisfazione. È unʼemozione darle una forma, suggerirle un Fremito mediante un gesto liberamente inventivo. È il segno della e nella “terra”, della e nella natura capace di imprimere quel senso vitale e costruttivo sempre presente intorno a noi e in noi. È un intervento umano, che mira ad un riordinamento inventivo con il materiale più semplice. Lʼimportante è che il risultato sia un preciso punto di equilibrio tra natura e ordine immaginativo, ovviamente in chiave di ricerca contemporanea. È magnifico il pensare a tutto ciò, con le terre, i colori, gli smalti, i pigmenti coloranti; ed infine che con il fuoco il grande fuoco, lʼopera si esalti, rendendosi eterna per noi e per gli altri che verranno.
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