Testo - Azienda Ospedaliera San Camillo – Forlanini
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ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009 Direttore FRANCO SALVATI Comitato di Redazione ALFONSO ALTIERI, FRANCESCO BELLI (Redattore capo), MAURO CALVANI, GIUSEPPE CARDILLO, PAOLO MATTIA, GIOVANNI MINARDI (Coordinatore), MAURIZIO MORUCCI, FABRIZIO NESI, BRUNO NOTARGIACOMO, SERGIO PILLON, ELIO QUARANTOTTO, PIETRO SACCUCCI, MICHELE SCOPPIO, GIANDOMENICO SEBASTIANI, ALESSANDRO SEVERINO Segreteria di Redazione: RITA VESCOVO, ALMERINDA ILARIA Comitato Scientifico-Editoriale Coordinatore ROBERTO CANOVA LOREDANA ADAMI, MARIO GIUSEPPE ALMA, CATERINA AMODDEO, DONATO ANTONELLIS, GIANLUCA BELLOCCHI, FRANCO BERTI, FRANCO BIANCO, PIETRO BORMIOLI, PIO BUONCRISTIANI, ALESSANDRO CALISTI, ILIO CAMMARELLA, ALBERTO CIANETTI, ENRICO COTRONEO, FRANCESCO CREMONESE, ALBERTO DELITALA, EUGENIO DEL TOMA, FILIPPO DE MARINIS, SALVATORE DI GIULIO, CLAUDIO DONADIO, VITTORIO DONATO, ALDO FELICI, LAURA GASBARRONE, CLAUDIO GIANNELLI, EZIO GIOVANNINI, LUCIA GRILLO, MASSIMO LENTINI, ANNA LOCASCIULLI, IGNAZIO MAJOLINO, CARLO MAMMARELLA, LUCIO MANGO, EMILIO MANNELLA, LAURO MARAZZA, MIRELLA MARIANI, MASSIMO MARTELLI, ANTONIO MENICHETTI, GIOVANNI MINISOLA, CINZIA MONACO, FRANCESCO MUSUMECI, REMO ORSETTI, PAOLO ORSI, GIOVACCHINO PEDICELLI, VINCENZO PETITTI, LUCA PIERELLI, ROBERTO PISA, LUIGI PORTALONE, COSIMO PRANTERA, GIOVANNI PUGLISI, SANDRO ROSSETTI, ENRICO SANTINI, EUGENIO SANTORO, GIOVANNI SCHMID, CIRIACO SCOPPETTA, FABRIZIO SOCCORSI, CORA STERNBERG, GIUSEPPE STORNIELLO, PIERO TANZI, ROBERTO TERSIGNI, ANNA RITA TODINI, CLAUDIO TONDO, MIRELLA TRONCI, ROBERTO VIOLINI Segreteria: GIOVANNA DE PAOLA Società Editrice Universo R OMA Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini Roma Direttore Generale: Luigi Macchitella Direttore Sanitario: Diamante Pacchiarini Direttore Amministrativo: Roberto Noto Società Editrice Universo R OMA Abbonamenti 2009 Italia: istituzionali € 100,00; privati € 73,00 Estero: istituzionali € 200,00; privati € 146,00 Il prezzo di ogni fascicolo (solo per l'Italia) è di € 20,00, se arretrato € 40,00 Per la richiesta di abbonamenti e per la richiesta di inserzioni pubblicitarie rivolgersi a Società Editrice Universo s.r.l., Via G.B. 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Giustino (PG) I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i paesi. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009 Contenuto EDITORIALE La medicina rigenerativa R. CANOVA Regenerative medicine ARTICOLI ORIGINALI L'utilizzo dell'aorta toracica discendente nel by-pass aorto-bifemorale per il trattamento dell'arteriopatia aorto-iliaca degli arti inferiori: la nostra esperienza G. BERTOLETTI, A. VARRONI, M. MASSUCCI, V. GENOVESE, F. NAPOLI, ADI ABI RACHED, M. MISURACA M. MASTRODDI, M. MANNO Descending thoracic aorta to femoral artery by-pass for the treatment of aorta-iliac artery obstructive disease: our experience La radiologia interventistica nelle complicanze dei cateteri venosi centrali S. PIERI, P. AGRESTI, L. DE' MEDICI, A. CARNABUCI, S. PIZZARELLI, S. DI GIULIO Interventional radiology in central venous catheter's complications EVIDENZE A CONFRONTO I CORTICOSTEROIDI NELLA TERAPIA DELL'ARTRITE REUMATOIDE Cortisonici e artrite reumatoide: evidenze a favore L. ALTOMONTE I cortisonici nella terapia dell'artrite reumatoide: evidenze contro L. SEVERINO MARTIN I corticosteroidi nella terapia dell'artrite reumatoide: ancora un trattamento valido? G. D. SEBASTIANI RASSEGNE Ipotiroidismo nell'anziano P. ZUPPI, E. FIDOTTI Hypothyroidism in the elderly Tireotossicosi, ipertiroidismo, ipertiroidismo subclinico nell'anziano P. ZUPPI, E. FIDOTTI Thyrotoxicosis, hyperthyroidism and subclinical hyperthyroidism in elderly people 131 135 139 146 149 154 156 162 Passato, presente, futuro della diagnostica dell'infezione luetica F. BELLI Past, present and future of syphilis laboratory procedures 172 CASO CLINICO La nefrosi osmotica e la nefropatia da saccarosio: caso clinico M.P. BERALDI, R. DEROCCA, M. SCOPPIO Osmotic nephrosis and sucrose nephropathy: case report 183 GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA La sindrome delle apnee ostruttive del sonno: il ruolo dello specialista otorinolaringoiatra S.MILLARELLI, G. ACQUAVIVA, V. LAURENDI, G. BELLOCCCHI 187 Obstructive sleep apnea syndrome: the ent role “La Rivista è stata selezionata da ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS” COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE, FLUIDEX E WORLD TEXTILES www.scamilloforlanini.rm.it Annotazione Nel fascicolo 1/2006 degli "Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini" è stato pubblicato il lavoro "Il drenaggio percutaneo nella spondilodiscite tubercolare. Considerazioni tecniche su pazienti trattati", Autori: Pieri S., Altieri A.M., Agresti P., et al. Nel fascicolo 2/2008 della "Rassegna di Patologia dell'Apparato Respiratorio" è stato pubblicato il lavoro "Il drenaggio percutaneo nelle complicanze della spondilodiscite tubercolare. Risultati nel medio-lungo termine", Autori: Pieri S., Agresti P., Altieri A.M. In bibliografia di quest'ultimo articolo è sfuggita la citazione di quello precedente, opera degli stessi Autori. ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009 Editoriale LA MEDICINA RIGENERATIVA REGENERATIVE MEDICINE ROBERTO CANOVA* Parole chiave: Medicina rigenerativa Key words: Regenerative medicine La Medicina rigenerativa rappresenta oggi una delle più promettenti frontiere della Medicina; studia la biologia e le applicazioni delle cellule staminali finalizzate alla ricostruzione di tessuti danneggiati. È basata sulla capacità di estendere in coltura popolazioni di cellule staminali autologhe o eterologhe e di condizionarne il differenziamento verso il tipo cellulare caratteristico del tessuto che si cerca di ricostruire. Si rendono così curabili patologie devastanti che fino ad ora vengono affrontate con trattamenti medici e chirurgici lunghi e spesso poco efficaci; quindi una vera e propria nuova frontiera della medicina su cui è necessario investire risorse umane, tecniche e finanziarie. Oltre alle terapie consolidate che riguardano l’epidermide e la cornea, gli sforzi dei prossimi anni saranno finalizzati allo sviluppo di nuovi protocolli di Medicina rigenerativa. Mediante altre cellule staminali epiteliali si cercherà di ottenere la ricostruzione di tessuti diversi, ad esempio la mucosa uretrale e quella del cavo orale, e mediante la ricerca di cellule staminali del tessuto connettivo la individuazione di efficaci terapie necessarie di fronte a grandi perdite di tessuti come quello osseo. È recentissima la notizia, da parte di studiosi del Servizio scozzese di emotrasfusione di Edimburgo, dello sviluppo da cellule staminali embrionali ottenute con la fecondazione in vitro di eritrociti di gruppo O negativo, gruppo universale adatto ad ogni tipo di donazione senza rischio di incompatibilità trasfusionale. Già nel 2005 un gruppo di ricercatori statunitensi aveva isolato cellule staminali della pelle umana, coltivandole in laboratorio ed inducendole a crescere come cellule del grasso, dei muscoli e delle ossa. Si trattò allora di uno dei primi studi in cui si dimostrò la capacità per una cellula staminale adulta di convertirsi in molteplici tipi di tessuti e così oggi si può lavorare per la ricostruzione di intere parti del corpo. Alla fine del 2007 due gruppi di ricerca, uno giapponese e l’altro americano, avevano annunciato di essere riusciti ad ottenere cellule staminali a partire da cellule della pelle umana. Per farlo, sono stati introdotti nelle cellule, tramite *Già Primario Internista della Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma 132 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 vettori virali, particolari geni tipici della fase embrionale dello sviluppo capaci di far tornare queste cellule adulte allo stato indifferenziato, tipico delle cellule staminali. Gli ultimi dati della letteratura segnalano che, pur aumentando il numero dei donatori d’organo per i trapianti, diminuiscono gli interventi, forse per l’aumento degli standards, dell’età dei pazienti o dei rifiuti. Quindi l’obiettivo della Medicina rigenerativa è quello di rendere curabili malattie devastanti oggi senza terapie efficaci, in alternativa alla medicina dei trapianti, e diventare un punto di riferimento per la ricostruzione di molti tessuti epiteliali partendo anche da cellule staminali adulte. È quello che stanno elaborando molti centri specialistici internazionali in Europa, Giappone, Sud America e Stati Uniti in particolare. Le colture sono a tutti gli effetti equiparate a farmaci per terapie avanzate con tecniche di coltivazione particolari. Le staminali, parola entrata nel lessico diffuso, aprono prospettive incredibilmente eccitanti, come sostenne James Thomson che per la prima volta nel 1998 isolò questo tipo di cellule da un embrione umano. Essendo indifferenziate, cioè prive di una identità, le staminali possono essere commissionate a specializzarsi in un tessuto invece che in un altro, diventare neuroni anziché cellule del sangue o del muscolo scheletrico, del cuore o del fegato. Un trasformismo che gli scienziati stanno imparando a decifrare e vorrebbero trasferire alle cellule staminali adulte. Nell’arco della vita si rigenerano e reintegrano le cellule via via perdute nei vari organi ed apparati del corpo. Per esempio il fegato è uno degli organi con maggiore capacità rigenerative, tanto che se ne può donare una parte per un trapianto. Ma il più efficiente luogo di rigenerazione cellulare è il midollo osseo in cui risiedono, oltre alle staminali emopoietiche, le cellule mesenchimali che danno origine ai condrociti, cellule che producono cartilagine, e le cellule endoteliali da cui origina l’apparato vascolare. Da oltre venti anni i trapianti di midollo osseo sono una opportunità terapeutica fondamentale proprio per la capacità delle staminali adulte di rigenerare il midollo osseo e quindi le cellule del sangue nei soggetti affetti da leucemie e linfomi; per questa attività trapiantologia sul midollo l’Italia è una delle prime nazioni mondiali. Questa procedura è stata l’alba della medicina rigenerativa. Oggi sappiamo che dai vari organi in cui risiedono, midollo osseo compreso, è possibile ricavarle, per esempio dal cordone ombelicale e opportunamente coltivate, soprattutto con le tecnologie del bioreattore, farle crescere di numero e indurle a diventare cellule differenziate del tessuto da cui provengono. Nessuno dubita più che nel cuore ci siano staminali residenti; lo ha dimostrato il gruppo di Piero Aversa della Harvard Medical School di Boston. Nel tentativo di riparare il cuore dopo l’infarto sono state usate nell’uomo staminali adulte di ogni tipo. I ricercatori ora puntano su particolari cellule del midollo osseo mononucleate o mesenchimali. Queste ultime hanno capacità riparatoria e riducono la risposta infiammatoria. L’ipotesi prevalente è che a migliorare le condizioni nel postinfarto non siano tanto le cellule iniettate, quanto l’ambiente che esse modificano con specifici fattori. Sinora però non ci sono prove che una delle staminali iniettate sia diventata cardiomiocita e abbia cominciato a comportarsi come tale. Sempre le cellule emopoietiche sono usate nelle malattie autoimmuni, come sclerodermia, sclerosi multipla, lupus ed artrite reumatoide. Sono circa 700 i trapianti autologhi eseguiti nel mondo negli ultimi dieci anni per queste malattie, più di 50 in Italia. Sono state condotte anche le prime sperimentazioni di mesenchimali sempre del midollo nella sclerosi multipla in Israele, per valutare più la sicurezza che l’efficacia. E le cellule staminali adulte del bulbo olfattivo sono state impiegate nel trauma spinale in uno studio australiano, il primo eseguito a regola d’arte dopo tante sperimentazioni con dati aneddotici, per verificarne la sicurezza. Ed è del giugno 2006 il punto di svolta paradigmatico per indurre cellule differenziate a comportarsi come staminali embrionali e farle differenziare in cellule di tutti i tessuti. R. Canova: La medicina rigenerativa I giapponesi dell’Università di Kyoto, usando vettori embrionali, hanno inserito in fibroblasti, comuni cellule della pelle, quattro geni specifici che hanno fornito loro le caratteristiche di pluripotenzialità delle staminali embrionali. A riprogrammare quelle cellule, che Yamanaka ha chiamato “induced pluripotent stem cells” (iPs), sono state le proteine prodotte da quei pochi geni; Science l’ha appena definita la scoperta scientifica dell’anno, un risultato che ha entusiasmato quanti, per motivi etici, vorrebbero fare a meno del ricorso agli embrioni per la ricerca. Però per Douglas Melton, dello Stem cell Institute di Harvard, ciò è prematuro, poiché le iPs, sebbene abbiano alcune caratteristiche delle cellule embrionali quali la capacità di formare colonie, di proliferare di continuo e di poter dare origine a forme tumorali quali i teratomi, mancano di altre caratteristiche. Alla fine del 2007 Yamanaka e Thomson hanno annunciato di aver ottenuto le iPs anche da cellule umane. E pochi mesi fa sempre Yamanaka ha ottenuto cellule staminali pluripotenti da fibroblasti, riprogrammandoli con solo due geni, nei topi e nell’uomo. Il vantaggio della sua tecnica, che va ottimizzata perché su milioni di cellule della pelle ricavate con la biopsia solo lo 0,1% è effettivamente riprogrammato, è che consentirà di sviluppare le iPs dai pazienti stessi, evitando lo scoglio del rigetto. Che il paziente sia giovane o anziano, con questo sistema le sue cellule si possono comunque riprogrammare. Ad agosto 2008 ricercatori di Harvard hanno prodotto linee di cellule iPs di dieci malattie coltivando fibroblasti di pazienti con Morbo di Parkinson, diabete e distrofia muscolare. Consentiranno di studiare le più svariate patologie e sperimentare farmaci. C’è già chi immagina di creare nel futuro banche con linee cellulari di diverse caratteristiche immunologiche, da utilizzare su pazienti compatibili, come già si fa per il midollo osseo o il cordone ombelicale, ricavate da embrioni donati o da cellule iPs. Philippe Collas all’Università di Oslo ha usato altre tecniche per riprogramma- 133 re cellule adulte: vi è riuscito facendole crescere in un terreno di coltura con un estratto di cellule emopoietiche. Lo ha fatto usando un estratto di staminali embrionali. Non si sa bene come ciò avvenga, quali siano i meccanismi molecolari, comunque la riprogrammazione avviene. Le nuove linee guida per la sperimentazione clinica redatte di recente dall’International Society for Stem Cell Research dovrebbero facilitare il passaggio dal laboratorio alla clinica, pur tenendo conto delle diverse culture, religioni, politiche e leggi. Tra i rischi della terapia a base di cellule staminali, in aggiunta alle possibilità di rifiuto o alla perdita di funzione delle cellule di infuso o a una risposta immunitaria, una infezione fungina invasiva, più problematica è la loro potenziale trasformazione neoplastica. Infatti le cellule staminali possono avere il potenziale per la cura di malattie devastanti ma le loro proprietà specifiche di rinnovamento e di clonazione, le rende inclini a generare tumori. È di questi giorni la comunicazione dello sviluppo di tumori cerebrali e del midollo spinale benigni in un giovane israeliano che aveva ricevuto cellule neurali fetali in una clinica di Mosca. Tuttavia gli aspetti critici devono essere affrontati, ivi compresa la sicurezza a lungo termine, la tollerabilità, l’efficacia di questi trattamenti come pure il loro potenziale cancerogeno. In conclusione la Medicina rigenerativa è un nuovo eccitante campo terapeutico che cerca di capire come il corpo guarisca in condizioni normali, quindi sfruttare ed amplificare questo processo, quando e dove è più necessario. Con la Medicina rigenerativa si promuove la crescita di tessuti naturali o si replicano le funzioni di tali tessuti per curare lesioni e malattie che ancora non sono state risolte dalla medicina tradizionale. La Medicina rigenerativa riunisce infine biologia, medicina genetica, bioingegneria, chimica, robotica, informatica ed altri settori per lo sviluppo di organi artificiali, di tessuti specialmente sviluppati, e di cellule, comprese le staminali, coltivate in laboratorio a residui e le combinazioni di questi approcci. 134 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Bibliografia essenziale Attan M, Harousseau JL, Stoppa AM, et al. A prospective randomized trial of autologous bone marrow transplantation and chemotherapy in multiple myeloma. NEJM 1996; 335: 91-7 Cerdan C, Rouleau A, Bhatia M. VEGF-A165 augments erythropoietic development from human embryonic stem cell. Blood 2004; 103: 2504-12 Chien KR. Regenerative medicine and human models of human disease. Nature 2008; 453: 302-5 Craig AR. A genomics-based approach to regenerative medicine. J Regen Med 2002; 3: 17-24 Cris More. Tissue transplantation for reconstruction. The convergence of Science, Medicine, Business and Politics. Regenerative Medicine Organization U.S.A. 5° Annual Conference 2008 Dib N, Mc Carty P, Campbell A, et al. Feasibility and safety of autologous myoblast trasplantation in patient with ischemic cardiomiopaty. Cell Trasplant 2005; 14: 11-19 Dow J, Simkhowich BZ, Kedes L, et al. Washout of transplanted cell from the heart. A potential new hurdle for cell transplantation therapy. Cardiovasc Res 2005; 67: 301-7 Haseltine WA. Regenerative medicine 2003: an overview. J Regen Med 2003; 4: 15-8 Hwang WS, Ryu YJ, Park JH, et al. Evidence of pluripotent human embryonic stem cell line derived from a cloned blastocyst. Science 2004; 303: 1669-74 Jiang Y, Jahagirdar BN, Reinhardt RL, et al. Pluripotency of mesenchymal cells derived from adult marrow. Nature 2002; 418: 41-9 MacReady N. The murky ethics of stem-cell tourism. Lancet Oncol 2009; 10: 317-8 Razvi E. Stem Cell Europe 2008. Regen Med 2009; 4: 133-5 Reya T, Morrison SJ, Clarke MF, et al. Stem cells, cancer, and cancer stem cells. Nature 2001; 414: 105-11 ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009 Articoli originali L’UTILIZZO DELL’AORTA TORACICA DISCENDENTE NEL BY-PASS AORTO-BIFEMORALE PER IL TRATTAMENTO DELL’ARTERIOPATIA AORTO-ILIACA DEGLI ARTI INFERIORI: LA NOSTRA ESPERIENZA DESCENDING THORACIC AORTA TO FEMORAL ARTERY BY-PASS FOR THE TREATMENT OF AORTA-ILIAC ARTERY OBSTRUCTIVE DISEASE: OUR EXPERIENCE GIOVANNI BERTOLETTI, ALESSANDRO VARRONI, MARCO MASSUCCI, VINCENZO GENOVESE, FILIPPO NAPOLI, ADI ABI RACHED, MARIA MISURACA, MASSIMO MASTRODDI, MARIO MANNO Unità Operativa Complessa di Chirurgia Vascolare, Presidio Ospedaliero Nord “S.Maria Goretti”, Latina Parole chiave: By-pass toraco-bifemorale. Arteriopatia aorto-iliaca. Aorta toracica discendente Key words: Thoraco-bifemoral by-pass. Aorto-iliac arteriophaty. Descending thoracic aorta Riassunto – Il by-pass aorto-bifemorale è la procedura terapeutica più comune per il trattamento dei pazienti affetti da arteriopatia aorto-iliaca. È tuttavia noto che esistono casi in cui l’aorta addominale non rappresenta la sede ideale per l’aggancio del by-pass. In questi casi una valida alternativa è costituita dall’aorta toracica discendente. Abbiamo eseguito 5 rivascolarizzazioni degli arti inferiori utilizzando l’aorta toracica come inflow. utilizzando una protesi in PTFE Intering 8 mm. La protesi è stata portata per via retroperitoneale in sede inguinale sn a cui è seguito il confezionamento di una branca sulla femorale dx. Il by-pass toraco-bifemorale rappresenta una eccellente alternativa terapeutica per i pazienti con grave patologia aorto-iliaca. Abstract – The aorto-bifemoral by-pass is the most common therapeutic procedure for the treatment of patients with aorta-iliac arteriopathy. The infra-renal abdominal aorta is not always the ideal site for the proximal anastomosys of the by-pass. In these cases an alternative is descending thoracic aorta. We performed 5 revascularisations of the lower limbs using the thoracic aorta as inflow with a PTFE Intering 8 mm prosthesis. By a retroperitoneal tunnel the prosthesis was conducted to the left groin. Then a branch to the right femoral artery was made. The thoraco-bifemoral by-pass represents an excellent therapeutic alternative for patients with severe aortailiac disease. Introduzione Il by-pass aorto-bifemorale è la procedura terapeutica più comune per il trattamento dei pazienti affetti da arteriopatia aorto-iliaca. Tale intervento è caratterizzato da ottimi risultati a distanza con un elevata pervietà a lungo termine. In alcuni casi tuttavia il by-pass aorto-bifemorale può essere controindicato o ad elevato rischio di fallimento. La presenza di calcificazioni parietali diffuse e severe tali da impedire il confezionamento dell’anastomosi prossimale del by-pass, pregressi interventi addominali sia a carico dell’aorta che di altre strutture, infezione 136 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 di un precedente by-pass aorto-bifemorale, obesità severa sono condizioni che possono imporre un’opzione terapeutica alternativa. Il by-pass axillo-femorale o axillo-bifemorale è, attualmente, l’alternativa chirurgica maggiormente eseguita nelle condizioni descritte in precedenza. Tuttavia un approccio all’aorta toracica discendente per il confezionamento di un by-pass toraco-bifemorale può garantire ottimi risultati sia in termini di pervietà a breve e lungo termine, sia intermini di mortalità e di morbidità. Materiali, metodi e risultati Sono stati eseguiti tra il 1 gennaio 2002 e il 31 dicembre 2004 presso l’Unità Operativa di Chirurgia Vascolare dell’Ospedale Civile S. Maria Goretti di Latina 5 rivascolarizzazioni degli arti inferiori utilizzando l’aorta toracica come in-flow. I pazienti trattati erano 4 maschi e una femmina con un’età media di 65 anni. Tutti i pazienti sono stati studiati con esame angiografico e mediante TC torace ed addome. Inoltre tutti i pazienti sono stati sottoposti ad un attento studio preoperatorio sia cardiologico che respiratorio. La sede delle lesioni è stata aorto-iliaca in tutti i casi (TASC C = 1 paziente; TASC D = 4 pazienti). Tre presentavano lesioni femoro-poplitee associate e una paziente era stata sottoposta in precedenza ad intervento di tromboendarterectomia carotidea bilaterale. L’indicazione all’intervento è stata l’ischemia critica in 4 (80%) pazienti e la claudicatio invalidante in 1 paziente. In tutti i pazienti l’intervento di rivascolarizzazione a partenza dalla aorta addominale o un intervento endovascolare è stato escluso per le estese calcificazioni aorto-iliache. Tutti i pazienti sono stati classificati come ASA II. L’accesso all’aorta toracica è stata ottenuta mediante toracotomia all’ VIII spazio intercostale e le arterie femorali sono state preparate con tecnica usuale. È stata utilizzata una protesi in PTFE Intering 8 mm. La protesi è stata portata per via re- troperitoneale in sede inguinale SN a cui è seguito il confezionamento di una branca sulla femorale DX. Il successo tecnico è stato ottenuto in tutti i casi. Nessun paziente è deceduto nel perioperatorio, non si sono verificate complicanze cardiologiche maggiori e polmonari, nessun paziente è stato trasfuso sia durante l’intervento che nel post-operatorio. Non è stato associato in nessun paziente un intervento di rivascolarizzazione femoro-poplitea, due pazienti sono stati dimessi con presenza di polsi periferici e tre con I.W. compreso tra 0,6 e 0,7 e terapia antiaggregante con acido acetilsalicilico alla dose di 100 mg/die. Non si sono verificate ostruzioni della protesi né complicanze infettive. Nessun paziente ha presentato durante il followup medio di 18 mesi modificazioni dell’ I.W. o complicanze legate alla protesi. Discussione L’arteriopatia cronica ostruttiva degli arti inferiori è una patologia di frequente riscontro. Essa, come è noto, può essere determinata da lesioni che interessano il distretto femoro-popliteo-distale ma anche da lesioni localizzate nel tratto aorto-iliaco1,2. In questo ultimo caso, qualora non sia possibile un intervento endovascolare, la procedura chirurgica maggiormente effettuata è il by-pass aorto-bifemorale caratterizzato, come è ben riportato in letteratura, da ottima pervietà a lungo termine. Sono stati proposti diversi metodi di rivascolarizzazione chirurgica degli arti inferiori fin da quando Freeman e Leeds3 all’inizio degli anni ’50 hanno decritto quello che viene riconosciuto come il primo by-pass extranatomico. Essi eseguirono un by-pass femoro-femorale cross-over utilizzando un’arteria femorale superficiale endarterectomizzata. Il primo ad utilizzare l’arteria ascellare come fonte di in-flow è stato l’australiano Lewis che, nel 1959, interpose un graft in nylon tra l’ascellare sinistra ed una precedente protesi aortica. Utilizzò, a questo scopo, un tunnel sottocutaneo G. Bertoletti: L’utilizzo dell’aorta toracica discendente nel by-pass attraverso il quale la protesi dal torace arrivava in addome4. L’utilizzo dell’aorta toracica discendente rappresenta una valida alternativa all’aorta addominale come fonte d’in-flow per la rivascolarizzazione degli arti inferiori. A dispetto dell’efficacia e della semplicità concettuale di tale tipo di intervento chirurgico, il by-pass toraco-bifemorale viene però confezionato raramente. Il primo caso è stato eseguito da Lester R. Sauvage il 7 giugno del 1956. Egli confezionò un by-pass tra l’aorta toracica discendente e le arterie femorali usando due homograft uniti tra loro. Scelse per quell’intervento un approccio trans-addominale con associata sternotomia mediana estesa al IV spazio intercostale tunnellizzando la protesi per via intraperitoneale. La pervietà del by-pass fu di 20 mesi5. Qualche anno più tardi, nel 1961, Blaisdell e colleghi riportarono il caso di un paziente rioperato per infezione di una protesi aorto-iliaca in PTFE. Questa volta fu effettuata un’anastomosi sull’aorta toracica discendente attraverso una toracotomia anterolaterale sinistra e tunnel extraperitoneale con anastomosi su entrambe le femorali usando un passaggio sovrapubico. Il paziente morì dopo 2 settimane per sepsi6. Negli anni immediatamente successivi furono pubblicati nuovi lavori su metodi alternativi di rivascolarizzazione degli arti inferiori. Ancora Blaisdell nel 19637 insieme, ma indipendentemente da Louv8, riportò i dati sul by-pass axillo-femorale, mentre lo stesso Sauvage nel 1966 descrisse la tecnica d’esecuzione del by-pass axillo-bifemorale9. Da allora quest’ultimo tipo d’intervento è stato largamente utilizzato oscurando quasi completamente il by-pass toraco-bifemorale. In letteratura l’utilizzo dell’aorta toracica discendente viene contemplato principalmente come intervento secondario in pazienti con infezione protesica o in seguito alla trombosi di un precedente by-pass aorto-bifemorale. In quest’ultimo caso, infatti, il re-intervento addominale è gravato da un elevato tasso di morbidità10 e la pervietà è inferiore rispetto all’intervento primario11. 137 Crawford e colleghi in una serie di 64 by-pass aorto-femorali ed aorto-iliaci eseguiti come re-intervento hanno riportato una mortalità operatoria del 14% ed un tasso d’amputazione del 6%. D’altra parte anche i dati sul by-pass axillo-femorale sono tutt’altro che ideali. Vengono riportati tassi di mortalità che vanno dal 2% al 13%, mentre la pervietà primaria a 3 anni varia dal 40% 54%12,13 e quella a 5 anni va dal 19% al 47%14,15. I risultati pubblicati in letteratura sul by-pass toraco-bifemorale sono, invece, nettamente migliori. Criado e colleghi11 riportano, su di una serie di 16 pazienti sottoposti a ricostruzione aorto-iliaca utilizzando l’aorta toracica discendente come in-flow, una pervietà del 98,3%, 78,4% e 70,4% rispettivamente ad 1,3 e 5 anni. In un’analisi retrospettiva su 50 by-pass toraco-femorali eseguiti presso l’Università del Nord Carolina in un arco temporale di 15 anni vengono riportati tassi di pervietà primaria, pervietà secondaria, salvataggio d’arto e sopravvivenza a 5 anni rispettivamente del 79%, 84%, 93% e 67%. La pervietà a distanza, nella nostra esperienza risulta del tutto sovrapponibile a quella riportata in letteratura. Il by-pass toraco-femorale presenta non pochi vantaggi soprattutto rispetto all’axillo-femorale. Offre un in-flow sicuramente migliore; in genere l’aorta toracica discendente è poco interessata dalla malattia aterosclerotica garantendo una migliore tenuta dell’anastomosi. Viene utilizzata una protesi più corta e sicuramente più protetta dagli stress meccanici. Si evita di riaprire zone ricche di aderenze per precedenti interventi e, grazie alla tunnellizzazione retro-peritoneale, preserva dai rischi legati alle aderenze del graft con i visceri. È inoltre riportato che l’utilizzo dell’aorta toracica discendente, evitando la laparotomia, permette di ridurre le perdite ematiche e di liquidi con un più rapido recupero post-operatorio16. La possibilità di clampare l’aorta parzialmente riduce i rischi d’ischemia viscerale, di stress cardiaco da sovraccarico emodinamico e riduce i rischi di lesione delle arterie intercostali. 138 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Sebbene l’indicazione principale all’esecuzione del by-pass toraco-bifemorale sia secondaria ad un fallimento di un precedente intervento sull’aorta addominale sottorenale (ostruzione del graft, infezione) esistono alcune condizioni che possono essere considerate, da coloro che hanno accumulato una maggiore esperienza con questa tecnica, come indicazioni primarie. Nei pazienti con cosiddette aorte difficili, sede di estese calcificazioni, ma anche in pazienti con addome ostile (pregressi interventi, ernia permagna, stomie, pancreatiti), o anomalie anatomiche come il rene a ferro di cavallo17, l’approccio diretto all’aorta toracica discendente offre certamente vantaggi rispetto sia ad un approccio extranatomico che addominale. Conclusioni Il by-pass aorto-bifemorale resta il gold standard per il trattamento della malattia aorto-iliaca sintomatica. Tuttavia il bypass toraco-bifemorale rappresenta una eccellente alternativa terapeutica soprattutto nei casi di infezione protesica o fallimento della protesi aortica addominale. Tecnicamente è un intervento non complicato che assicura ottimi risultati anche quando dovesse essere scelto come opzione terapeutica primaria ad esempio nei casi in cui l’approccio transaddominale non sia effettuabile o sia altamente rischioso. Bibliografia 1. Haas KL, Moulder PV, Kerstein MD. Use of thoracic aortobifemoral artery bypass grafting as an alternative procedure for occlusive aortoiliac disease. Am Surg 1985; 51(10): 573-6 2. Sapienza P, Mingoli A, Feldhaus RJ, et al. Descending thoracic aorta-to-femoral artery bypass grafts. Am J Surg 1997; 174(6): 662-6 3. Freeman NE, Leeds FH. Operations on large arteries: Applications of recent advances. Calif Med 1952; 77: 229-33 4. 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Radiologia interventista Key words: Central venous catheters. Complications. Interventional radiology Riassunto – Introduzione: I cateteri venosi centrali, uno degli accessi venosi consigliati per la dialisi, vanno spesso incontro a complicazioni. Riportiamo la nostra esperienza nella gestione percutanea di tali evenienze. Materiali e metodi: Tra il 2000 ed il 2007, sono stati controllati 56 pazienti, per un malfunzionamento del loro catetere venoso centrale. Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad accertamenti radiologici diretti e dopo somministrazione di mezzo di contrasto, in base ai quali veniva proposta la relativa soluzione terapeutica. Risultati: In 19 casi (35,1%) è stato riscontrato un quadro di sindrome della vena cava superiore, trattato con stent autoespandibile e confezionamento di un nuovo accesso vascolare; in 2 pazienti era presente un malposizionamento del catetere, subito corretto con una più idonea collocazione dello stesso. In 10 casi si è trattato di recente trombosi del catetere: 9 casi sono stati risolti con la semplice aspirazione del trombo e 1 con la fibrinolisi farmacologica. In 23 si è registrata la presenza di una lacerazione del catetere: in 11 parziale, mentre in 12 si è registrata la rottura completa, per cui si è provveduto al recupero percutaneo del corpo estraneo. Discussione: Il catetere venoso centrale è una delle forme di accesso vascolare per effettuare temporaneamente la dialisi; il suo continuo utilizzo crea i presupposti per lo sviluppo di quei fattori che sono alla base del suo malfunzionamento. Con le molteplici tecniche endovascolari è possibile risolvere con successo le varie problematiche cliniche. Abstract – Introduction: Central venous catheters, one of the suggested modality for dialysis, are likely to cause complications. We report our experience in percutaneous management of those clinical cases. Materials and methods: Between 2000 and 2007, 56 patients were studied for malfunctioning of their central venous catheters. All the patients were studied by imaging, without and with contrast medium; on the basis of the results an proper therapeutic option was proposed. Results: In 19 cases (35,1%) a vena cava syndrome was found: it was treated with auto-expandable stent and a new vascular access; in 2 patients there was an erroneous position of the catheter: it was corrected into a right place. In 10 cases there was a recent trhombosis: in 9 there was a resolution only with aspiration of the clot, in 1 it was necessary the fibrinolytic therapy. In 23 patients was found a laceration of the central venous catheters was found: in 11 it was partial and in 12 complete. For these reasons it was necessary to retrieve the foreign body by a percutaneous access. Discussion: Central venous catheter is one vascular access for dialysis; his continuous use creates the conditions for developing a malfunctioning of the catheter. Clinical complication may be coped with by using many and varied technical endovascular options. 140 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Introduzione I cateteri venosi centrali, sono spesso necessari per trattare pazienti ospedalizzati, specie in terapia intensiva, ma sono anche temporaneamente impiegati per le sedute di dialisi, in attesa che sviluppi una fistola o una protesi1. In Italia, circa 75.000 pazienti sono annualmente sottoposti a dialisi: ognuno di questi necessita di un accesso vascolare valido, in grado di consentire un’adeguata filtrazione del sangue, almeno tre volte a settimana2. Sia la loro inserzione, che il continuo utilizzo giornaliero crea i presupposti per l’insorgenza di una serie di complicazioni, la cui gestione, in parte, coinvolge spesso il radiologo interventista3. Riportiamo la nostra esperienza nella gestione percutanea di tali evenienze cliniche. Materiali e metodi Nel periodo 2000-2007, si sono rivolti al nostro servizio 54 pazienti, con età media di 58 anni (range 28-75), uomini e donne, per una problematica clinica connessa alla presenza di un catetere venoso centrale malfunzionante, precedentemente posizionato in altra struttura sanitaria. In 19/54 casi (35,1%), i pazienti si erano presentati alla nostra osservazione per la comparsa progressiva di una sintomatologia clinica, caratterizzata da edema al volto e agli arti superiori, con turgore delle giugulari e cianosi. In altri 2/54 casi (3,7%) era stato il contrasto tra il buon funzionamento del catetere in aspirazione e una dolenzia all’atto dell’infusione a richiedere un approfondimento diagnostico. In altri 10/54 pazienti (18,5%) si era registrata la comparsa di un flusso inadeguato, sia nell’aspirazione, che nell’infusione: in tutti i casi erano intercorse meno di 48 ore dall’ultimo impiego del catetere venoso centrale. 11 pazienti (20,3%) lamentavano la comparsa di dolenzia all’atto dell’infusione: questa era connessa anche alla comparsa di un pomfo cutaneo, che si rias- sorbiva parzialmente nell’arco di 48 ore, ma diventava progressivamente crescente nell’arco di una settimana. In ultimo, 12 pazienti (22,2%) avevano riferito la comparsa di disturbi del ritmo cardiaco (tachicardia sinusale, extrasistoli ripetute, un caso di fibrillazione atriale) nell’arco degli ultimi 15 giorni). Tutti i pazienti venivano sottoposti ad accertamenti radiologici, per favorire una migliore comprensione delle varie manifestazioni cliniche. Dapprima veniva eseguita una radiografia diretta del torace per confermare o escludere il regolare posizionamento e decorso del catetere; poi l’iniezione di mezzo di contrasto [Optiray 320, Tycohealthcare, Milano, Italia] per verificare la pervietà del catetere, un’eventuale irregolarità o una lacerazione lungo il decorso; infine la flebografia degli arti superiori nel sospetto clinico di una sindrome della vena cava superiore. Previo consenso informato, sulla base della conferma diagnostica ottenuta con l’ausilio delle diverse metodiche radiologiche, il paziente veniva contestualmente avviato al tentativo di soluzione terapeutica endovascolare. Nei casi di un quadro clinico compatibile con la sindrome della vena cava superiore si è proceduto al posizionamento di uno stent vascolare autoespandibile e alla creazione di un nuovo accesso vascolare. Nei casi di malposizionamento della porzione distale del catetere venoso centrale, si è proceduto alla mobilizzazione della porzione terminale del catetere e alla sua corretta allocazione definitiva, tramite un accesso percutaneo femorale e l’impiego di un catetere a cappio [Hooker 6Fr, Meditalia Biomedica, Medalla (BO), Italia]. Nei casi di trombosi del catetere venoso centrale si è proceduto al tentativo di risoluzione dell’anomalia attraverso una gradualità di manovre: prima veniva effettuata un’aspirazione con una siringa da 50 ml; in caso d’insuccesso veniva prima passato un filo guida e poi lasciata nel catetere una soluzione con urochinasi (bolo di 100.000 UI in 5 cc di soluzione fisiologica). In caso di ulteriore insuccesso, l’ultima opzione era la sostituzione del catetere. S. Pieri et al.: La radiologia interventistica nelle complicanze dei cateteri venosi centrali 141 Dei 54 pazienti con cateteri venosi centrali malfunzionanti, 19 dovevano la loro sintomatologia e il quadro radiologico allo sviluppo di una stenosi venosa benigna nella vena cava superiore. Sono stati trattati con il posizionamento di uno stent autoesapandibile e creazione di un nuovo accesso vascolare; non sono stati considerati in questo articolo, perché già argomento di un precedente lavoro4. Abbiamo avuto 2 casi di malposizionamento di catetere venoso centrale (3,7%): in un paziente era stato inserito per via femorale: uno dei due lumi pescava re- golarmente in vena cava inferiore, per cui era agevole l’aspirazione del sangue; l’altra estremità era sottointimale, per cui risultava dolorosa la fase d’iniezione; si è proceduto semplicemente all’arretramento di qualche centimetro e al nuovo fissaggio esterno del catetere. In un altro paziente, il catetere era stato inserito con approccio succlavio. Già alla radiografia diretta appariva evidente l’errore di percorso del catetere; nella stessa seduta, con un accesso femorale, l’impiego di un introduttore valvolato armato 8 Fr, lungo 45 cm, si è provveduto prima a mobilizzarlo, ricorrendo ad un catetere a cappio, poi al posizionamento, con un tragitto e una destinazione finale regolari, in vena cava superiore (Fig 1 a, b). Per i 10 casi (18,5%) di trombosi del catetere venoso centrale, la semplice aspirazione del trombo con una siringa da 50 ml si è dimostrata risolutiva in 9 pazienti; dopo due tre tentativi di aspirazione, nella siringa compariva prima il filamento di trombo incarcerato nel catetere, seguito, subito dopo, dall’afflusso continuo di sangue venoso. Il catetere venoso centrale Fig. 1a Fig. 1b Nei casi di lacerazione parziale del catetere venoso centrale, i pazienti venivano inviati al centro dove i presidi erano stati precedentemente posizionati con una relazione e una iconografia accurata, per favorire la loro integrale sostituzione. Viceversa, nei casi di rottura del catetere venoso centrale, veniva subito effettuata la rimozione percutanea del corpo. Risultati 142 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Fig. 2a Fig. 2b veniva quindi lavato con soluzione eparinizzata per scongiurare il ripresentarsi di tale malfunzionamento. Il sangue aspirato veniva filtrato in una garza sterile per isolare il frammento di trombo. Nell’unico caso in cui questa opzione terapeutica si è dimostrata inefficace abbiamo risolto il malfunzionamento del catetere con la somministrazione di farmaco fibrinolitico, dopo aver passato con difficoltà, in precedenza, un filo guida all’interno del catetere. Il bolo di urochinasi di 100.000 UI è stato diluito in 2-3 cc di soluzione fisiologica ed è stato iniettato a forza nel catetere. Dopo 15’ di permanenza al suo interno, il farmaco veniva sospinto con estrema facilità in circolo, con un’iniezione di 2-3 cc di mezzo di contrasto, registrando l’avvenuta risoluzione della trombosi. Non abbiamo avuto insuccessi nella risoluzione delle trombosi dei cateteri venosi centrali, per cui non si è provveduto alla loro sostituzione. Per gli 11 casi (20,3%) di lacerazione parziale del catetere si è proceduto alla documentazione, nelle varie proiezioni oblique e antero-posteriori, della sede e del tipo di lacerazione (Fig. 2a, b). Il paziente, in assenza di un ricovero ospedaliero e in base a precisi accordi, veniva inviato nella sede dove il catetere era stato in precedenza posizionato, con una relazione e ad un’esaustiva documentazione radiologica. Per i 12 casi (22,2%) di distacco totale di un frammento del catetere venoso centrale si è proceduto al recupero. Dopo aver documentato la sede del corpo estraneo (Fig. 3a) e dopo aver posizionato un introduttore valvolato 8Fr, lungo 45 cm, a livello dell’accesso femorale destro, in 7 casi è stato agevole il recupero con il semplice catetere a cappio (Fig 3b), in 5 pazienti, essendo le estremità del frammento di catetere a contatto con la parete venosa, non facilmente catturabili, si è proceduto prima alla loro mobilizzazione con un ca- Fig. 3a S. Pieri et al.: La radiologia interventistica nelle complicanze dei cateteri venosi centrali Fig. 3b Fig. 3c tetere angiografico pig-tail, per poi allocare temporaneamente il frammento in vena iliaca comune e recuperalo definitivamente con il catetere a cappio (Fig 3 c). Discussione Tre sono le forme di accesso vascolare maggiormente utilizzate per la dialisi: la fistola artero venosa nativa (BresciaCimino), la protesi sintetica e il catetere venoso centrale5. Quest’ultimo presenta degli indubbi vantaggi pratici: consente di effettuare la dialisi immediatamente, esenta il personale infermieristico dalle difficoltà connesse all’inserzione degli aghi6. 143 Indipendentemente da come venga posizionato, il suo continuo utilizzo giornaliero crea i presupposti per lo sviluppo di quelle modificazioni che costituiscono l’origine del suo malfunzionamento. Una prima distinzione è sulla base della comparsa del malfunzionamento: acuto è quello che si manifesta nell’arco di 14 giorni dal posizionamento, mentre cronico è quello che si registra successivamente a tale limite temporale7. Una seconda classificazione prevede di attribuire il malfunzionamento a problemi connessi all’inserzione, alla gestione e alla estrazione8. Nel primo gruppo di complicazioni rientrano i malposizionamenti dei cateteri venosi centrali, che si verificano in un 15% delle procedure3. Estremamente più raro al giorno d’oggi per la sistematica puntura venosa ecoguidata e per il controllo radiografico diretto del torace, al termine della procedura, il malposizionamento può capitare già all’atto dell’inserzione, o successivamente, per una spontanea migrazione, a causa delle variazioni di posizione o di pressione all’interno della cavità toracica. Il passaggio del paziente dalla posizione supina a quella ortostatica, per eseguire la radiografia del torace, prima di essere inviato al reparto, è una condizione tipica9. Questa migrazione “fisiologica” è più pronunciata nelle donne e nelle persone obese, e per i cateteri posti a livello della vena succlavia. Il mancato utilizzo della radiografia diretta del torace al termine della procedura, come nel paziente con catetere venoso centrale malposizionato, ha impedito il rapido riscontro e l’altrettanto rapida risoluzione del quadro clinico, che avrebbe evitato al paziente inutili sofferenze, sin dalle prime sedute di dialisi. È stata infatti la sintomatologia accusata dal paziente a richiamare l’attenzione dello specialista, che ha richiesto un accertamento radiologico, per una migliore comprensione del quadro clinico. Il riposizionamento può avvenire tramite una gestione diretta, utilizzando guide inserite nel catetere, o indiretta, attraverso un approccio transfemorale3. Mentre la prima operazione è limitata sia dalla naturale adesione del catetere veno- 144 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 so centrale alla pelle, e dal lungo tunnel sottocutaneo, sia dal rischio d’infezione, viceversa, l’approccio transfemorale consente di utilizzare dei cateteri dedicati per afferrare il catetere venoso centrale e portarne la punta in posizione ideale (giunzione cava-atrio destro)10. Nel secondo gruppo di complicazioni, secondarie alla gestione, rientra la trombosi del catetere venoso centrale. Un catetere occluso può essere conseguente alla formazione di fibrina o di un trombo. La prima è presente già dopo 24 ore, si dispone in breve tempo lungo il decorso del catetere. Se il rivestimento dovesse essere completo, ci sarebbe l’occlusione del catetere, per cui l’infusione non sarebbe possibile. La trombosi, che porta all’occlusione, per ingombro del lume del catetere, crea anch’essa un ostacolo alla infusione e/o alla dialisi. In entrambe i casi, la migliore cura è l’impiego di un farmaco fibrinolitico, in bolo e/o in infusione continua, per favorire lo scioglimento della patina di fibrina e degli aggregati piastrinici. Se il problema non dovesse essere risolto rapidamente (dopo 12 ore) si possono eseguire alcune ulteriori manovre interventistiche: introduzione di un filo guida, conformato a J, che entra ed esce ripetutamente dal catetere, con l’aggiunta di un movimento rotatorio, per cercare di rimuovere meccanicamente i detriti 11-13. Tra le complicazioni meccaniche attribuite all’estrazione vanno ascritte le lacerazioni parziali e le rotture complete del catetere14. I cateteri in vena succlavia possono essere compressi, vicino alla confluenza tra la prima costola e la clavicola, da parte del legamento costo-clavicolare e il muscolo succlavio. La compressione ripetuta in questa sede può causare l’erosione del catetere e/o la successiva frattura. Il primo tipo di evenienza si evidenzia al momento dell’infusione o della dialisi, con la comparsa di un pomfo cutaneo e del dolore cutaneo. Il semplice esame radiologico diretto del torace consente di documentare il rapido ripiegamento del catetere, mano a mano che passa sotto la prima costa e clavicola; le variazioni di movimento e di sede della scapola possono comportare un grado diverso di compressione del catetere. L’iniezione di mezzo di contrasto può essere utile per documentare la sede dello stravaso, in un catetere spezzato o rotto. La sostituzione del catetere è una conseguenza obbligata15. Nel caso in cui la frattura del catetere sia completa, questo frammento può migrare in una delle sezioni destre del cuore o nel circolo polmonare. Il paziente può essere asintomatico o riferire disturbi del ritmo cardiaco e/o dispnea. Vari Autori suggeriscono una rimozione il più precoce possibile per evitare complicazioni (perforazione del miocardio, tamponamento del miocardio, aritmia cardiaca, embolia polmonare)16-18. L’approccio migliore per recuperarli è quello percutaneo, transvenoso; numerosi sono i tipi di catetere da impiegare, per evitare la soluzione chirurgica19,20. Se un’estremità del catetere è libera, è bene impiegare il sistema del catetere a laccio, o quella del catetere a canestro. Se invece entrambe le estremità sono fissate, allora è bene liberarne una: si può impiegare un catetere con punta a curva o ad uncino, cercando di farlo passare sotto la guida. Una trazione forzata può comportare la liberazione di un’estremità. Man mano che cresce la domanda di cateteri venosi centrali, il ruolo del radiologo diventa sempre più importante, non solo come riferimento per posizionare il catetere, ma anche per giocare un ruolo attivo in tutte le problematiche che ne conseguono (riposizionamento di un catetere malposizionato, gestione del catetere trombizzato, suo recupero). Bibliografia 1. Merrer J, De Jonghe B, Golliot F, et al. Complication of femoral and subclavian venous catheterization in critically ill patients. JAMA 2001; 286: 700-7 2. Taylor RW, Palagiri AV. Central venous catheterization. Crit care Med 2007; 35: 1390-6 3. Kuminisky R E. Complications of central venous catheterization. Am Coll Surg 2007; 204: 68196 4. Pieri S, Agresti P, Carnabuci A, et al. Trattamento endovascolare nella sindrome della vena S. Pieri et al.: La radiologia interventistica nelle complicanze dei cateteri venosi centrali cava superiore da causa benigna. Aspetti flebografici ed implicazioni terapeutiche. 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Radiol Med 1998; 96: 492-7 Per corrispondenza e richiesta estratti: E-mail: [email protected] ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 3, Luglio - Agosto 2009 “Evidenze a confronto” I CORTICOSTEROIDI NELLA TERAPIA DELL’ARTRITE REUMATOIDE GLUCOCORTICOIDS IN THE THERAPY OF RHEUMATOID ARTHRITIS Parole chiave: Cortisonici. Uso terapeutico. Artrite reumatoide. Efficacia. Effetti collaterali Key words: Glucocorticoids. Therapeutic use. Rheumatoid arthritis. Efficacy. Side effects CORTISONICI E ARTRITE REUMATOIDE: EVIDENZE A FAVORE LORENZO ALTOMONTE Direttore UOC Reumatologia, Ospedale S.Eugenio, Roma Introduzione Meccanismo di azione dei cortisonici Il cortisone gioca un ruolo fondamentale nel trattamento della artrite reumatoide (AR), come d’altra parte in molte altre malattie reumatiche. La proporzione di pazienti trattati con cortisonici nella pratica reumatologica quotidiana è sicuramente in eccesso rispetto alle raccomandazioni usualmente conservative nei trattati di Reumatologia o nelle review pubblicate. Quasi 60 anni dopo la sua introduzione nella pratica clinica, il cortisone ancora rappresenta il farmaco antinfiammatorio più importante e più frequentemente impiegato. Tra il 25 e il 75% dei pazienti con AR sono trattati più o meno continuativamente con cortisone. Recenti studi hanno riconfermato il potenziale effetto sulla riduzione della progressione della malattia di basse dosi di cortisone nella AR e quindi hanno riaperto il dibattito sul rapporto rischi/beneficio di tale trattamento. Comunque non ci sono dubbi che, specialmente quando somministrato in modo non corretto, il cortisone possiede un potenziale piuttosto elevato di frequenti e seri effetti collaterali, ma quando usato con prudenza la maggior parte di questi effetti possono essere evitati. Il dosaggio di cortisone usato nella AR è in genere basso ma viene spesso aumentato come risposta al peggioramento della attività clinica della malattia. Il razionale di questa decisione, spesso peraltro molto efficace, è basato sul fatto che dosaggi più alti aumentano la saturazione dei recettori per i glucocorticoidi in modo dose dipendente con intensificazione terapeuticamente rilevante delle loro azioni genomiche e produzione di addizionali diverse azioni non genomiche. Azioni genomiche dei cortisonici L’importante effetto antinfiammatorio ed immunomodulante dei cortisonici è mediato principalmente da meccanismi genomici. Legandosi ad un recettore citosolico (cGRC) i cortisonici producono induzione (transattivazione) o inibizione (transrepressione) della sintesi di proteine regolatorie. I cortisonici influenzano la trascrizione di circa l’1% dell’intero genoma. La struttura lipofilica e la piccola massa molecolare permette ai cortisonici di passare facilmente la membrana cellulare e di formare quindi un complesso steroide/recettore citosolico attivo. Tale 147 Evidenze a confronto complesso è poi traslocato nel nucleo dove è legato come un omodimero a particolari siti del DNA, che sono chiamati elementi responsivi agli steroidi (GREs). A seconda del gene bersaglio la sua trascrizione viene attivata o inibita. Oltre a questo meccanismo l’interazione dei monomeri attivati (cGCR) con fattori di trascrizione come AP1 (Activator Protein 1), NF-KB (Nuclear Factor Kappa B) e NF-AT (Nuclear Factor for Activated T cells) è riconosciuta come un ulteriore importante meccanismo genomico dell’azione dei cortisonici. In accordo a questo, il complesso GC/cGCR, pur non inibendone la sintesi, modula la attività di questi fattori portando in conseguenza alla inibizione della translocazione nucleare e/o della funzione di questi fattori di transizione che ha come effetto la inibizione della espressione di molti fattori immunoregolatori e proinfiammatori (transrepressione). Vi sono indicazioni che molti effetti avversi clinici dei cortisonici sono causati dal meccanismo di induzione della sintesi di proteine regolatorie (transattivazione), mentre, come accennato in precedenza, molti importanti effetti antinfiammatori sono mediati dalla inibizione della sintesi di proteine regolatorie (transrepressione). Su questa base sono in fase di sviluppo nuovi glucocorticoidi detti “SElective Glucocorticoid Receptor Agonists” (SEGRAs), che avrebbero una attività antinfiammatoria notevolmente superiore a quella dei glucorticoidi tradizionali in quanto dotati rispetto a questi di una più bassa attività di transattivazione. Azioni non genomiche dei cortisonici Alcuni effetti dei cortisonici si evidenziano dopo pochi minuti e addirittura dopo pochi secondi dalla loro somministrazione. Queste osservazioni non possono essere spiegate con gli effetti genomici precedentemente descritti per li tempo che questi richiedono. Un meccanismo di azione non genomico sembra essere responsabile di questi effetti rapidi. Sono stati proposti tre differenti meccanismi non genomici per spiegare gli effetti rapidi antinfiammatori ed immunosoppressivi dei cortisonici: interazione aspecifica dei cortisonici con le membrane cellulari, effetti non genomici mediati dal recettore citosolico dei cortisonici e specifiche interazioni con il recettore di membrana dei cortisonici. Le azioni non genomiche dei cortisonici si ottengono con dosi superiori ai 30 mg/die di prednisone equivalente. Uso terapeutico dei cortisonici nella artrite reumatoide Nella pratica terapeutica i regimi cortisonici usati nella AR sono molto differenti. Inoltre, come è noto, differenti cortisonici hanno differenti potenza e farmacocinetica. In base ad una serie di recenti raccomandazioni in proposito, in parte basate sulle azioni genomiche e non genomiche di questi farmaci, schematicamente si sono divisi gli approcci terapeutici con cortisonici nella AR in basse dosi (< 7,5 mg /die di prednisone), che agiscono per via genomica e sono usate nella terapia di mantenimento con relativamente scarsi effetti collaterali (salvo la induzione di osteoporosi), medie dosi (dai 7,5 ai 30 mg /die di prednisone) che agiscono anche esse essenzialmente per via genomica e sono usate come terapia di attacco o in presenza di qualche manifestazione extrarticolare, come pleuriti o pericarditi, con effetti collaterali importanti e dose/durata dipendenti e alte dosi (dai 30 ai 100 mg/die di prednisone) che agiscono prevalentemente in via non genomica e sono usate per il trattamento iniziale di serie riacutizzazioni o di complicazioni vasculitiche, ma sono gravate da importanti effetti collaterali e per questo non possono essere mantenute a lungo termine. Efficacia del cortisone nella artrite reumatoide Terapia di mantenimento a piccole dosi Volendo affrontare il tema dell’efficacia del cortisone nella AR occorre considerare che in questa malattia il cortisone viene usato, in generale, dopo una terapia di attacco a dosi medie per poche settimane, 148 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 a basse dosi di mantenimento e nella maggior parte dei casi come terapia in combinazione con altri farmaci. È noto a tutti coloro che debbano affrontare la cura della AR che i cortisonici, anche ad un dosaggio inferiore ai 10 mg/die di prednisone, sono molto efficaci sulla sintomatologia clinica articolare della AR attiva, tanto che molti pazienti diventano funzionalmente dipendenti da questa terapia e tendono a continuarla a lungo termine. Una revisione Cochrane ha valutato in modo oggettivo gli effetti sintomatici dei cortisonici nella AR e ha concluso che quando questi farmaci sono somministrati a basse dosi per un periodo di almeno 6 mesi essi sono clinicamente molto efficaci nel trattamento della AR. Sono stati osservati miglioramenti nei parametri clinici, inclusi VAS, punteggi articolari, rigidità mattutina e affaticabilità, e nel comportamento dei reattanti della fase acuta, come VES e PCR. Dopo 6 mesi di terapia però gli effetti benefici dei cortisonici in genere cominciano a diminuire, però se poi questa terapia è ridotta nei dosaggi o sospesa i pazienti in genere manifestano un chiaro peggioramento del sintomi clinici e degli indici di flogosi. Particolarmente importante è poi nella AR la valutazione degli effetti dei cortisonici sulla progressione di malattia. Kirvan e coll nel 1995 hanno descritto un rallentamento del danno articolare in pazienti con AR in fase precoce o intermedia trattati con 7,5 mg/die di prednisone per 2 anni contemporaneamente ai FANS (95%) e ai farmaci in grado di modificare il decorso erosivo della malattia (Disease Modifying Antirheumatic Drugs, DMARDs) (71%). Da allora altri studi hanno confermato la possibilità che i cortisonici possano ritardare il danno articolare in questa malattia. Nel 2002 lo studio Utrecht, un RCT sull’effetto della assunzione di cortisonici per 2 anni in pazienti DMARDs- naive con AR “early”, ha dimostrato che in questi pazienti, che ricevevano solo sulfasalazina come “rescue therapy”, 10 mg /die di prednisone inibivano chiaramente la progressione del danno radiologico articolare. Questo effetto favorevole era sempre significativo 1 anno dopo la sospensione del cortisone e continuava ad essere significativo ancora dopo 5 anni. In questo studio il 40% dei pazienti ha ridotto la necessità di iniezioni cortisoniche intrarticolari, il 49% ha ridotto l’assunzione di paracetamolo e il 55% ha ridotto il consumo di FANS nel gruppo trattato con steroidi rispetto al placebo. Recentemente è stata pubblicata una metanalisi Cochrane sugli effetti del cortisone sulla progressione radiologica della AR. Sono stati identificati 15 studi che avevano almeno un braccio con cortisone e uno senza cortisone e nei quali vi era una valutazione radiografica delle mani e/o dei piedi. In totale erano inclusi 1414 pazienti (la maggior parte con AR “early”), la dose cumulativa media di cortisone era 2300 mg di prednisone equivalente nel primo anno (6.30 mg/die). Tutte le differenze medie standardizzate sulla progressione radiologica della AR a 1 anno e a 2 anni erano a favore dei cortisonici. L’effetto benefico dei cortisonici era in genere ottenuto quando essi erano usati insieme al trattamento con DMARDs. Questa metanalisi in definitiva conclude che c’è evidenza che i cortisonici in aggiunta alla terapia standard possono sostanzialmente ridurre la progressione erosiva della AR. Per il fatto quindi che i cortisonici possono rallentare la progressione del danno articolare nella AR (specie nelle forme “early”), essi si debbono considerare veri e propri DMARDs. Boli di cortisone Con il termine di terapia a boli (“pulse therapy”) si intende uno specifico approccio terapeutico con dosi molto alte di cortisone (> 250 mg/die di prednisone) per periodi molto brevi (da 1 a 5 giorni consecutivi) sfruttando appieno l’effetto non genomico di tale farmaco, con successiva drastica riduzione o interruzione del trattamento. Questa procedura è seguita quando è necessaria una terapia ponte nel passaggio da un DMARD ad un altro, oppure nelle gravi esacerbazioni extrarticolari della AR a rischio di vita, come la vasculite o il polmone reumatoidi. L’effetto benefico di tale approccio in genere dura fino a 6 mesi, ma per i potenziali rischi non è opportuna una sua estesa 149 Evidenze a confronto applicazione se non in situazioni a rischio di vita. Specie nell’era dei biologici. Una forma mitigata di “pulse therapy” è l’uso im di 120 mg di metilprednisolone depot ogni 6/12 settimane, abbastanza usata nella scuola inglese. Iniezioni di cortisone intrarticolare Le iniezioni intrarticolari di cortisone sono spesso usate nella terapia della AR. L’efficacia è dimostrata ma la sua durata dipende da molti fattori come la grandezza della articolazione (portante o non portante), l’attività della artrite, il volume del liquido sinoviale aspirato, il tipo e la dose del cortisonico, la tecnica della iniezione e il riposo della articolazione trattata. Comunque si consiglia di non trattare una articolazione a distanza più ravvicinata di 2 o 3 settimane e non più di 2 o 3 volte l’anno per non ingenerare un danno articolare da cortisone. Conclusioni Sebbene l’uso del cortisone sorprendentemente non sia incluso nelle Raccoman- dazioni ACR 2008 per il trattamento con DMARDs non biologici e biologici della AR, in base a numerose evidenze i cortisonici trovano invece un posto fondamentale nella terapia della AR, specie nella forme “early”, nelle quali ad un dosaggio medio (per un mese) e poi basso (fino a 2 anni), specie in associazione ad altri DMARDs, possono ridurre la tendenza erosiva articolare e sicuramente possono rappresentare sia una efficace terapia sintomatica che una vera e propria terapia di fondo. I cortisonici, a differenza degli altri DMARDs, hanno una tossicità scarsa a breve termine (fatta eccezione per la osteoporosi che deve sempre essere adeguatamente profilassata), che diviene però più elevata a lungo termine, specie con le dosi più elevate (> 5mg/die di prednisone). Naturalmente, come per tutte le terapie croniche, l’uso del cortisone nella AR deve essere accuratamente controllato tenendo conto di eventuali fattori di rischio per importanti effetti collaterali come ipertensione arteriosa, diabete mellito, ulcera peptica, recenti fratture, cataratta e glaucoma, infezioni croniche, dislipidemia e contemporaneo trattamento con FANS e la possibile comparsa di osteoporosi. I CORTISONICI NELLA TERAPIA DELL’ARTRITE REUMATOIDE: EVIDENZE CONTRO L. SEVERINO MARTIN Struttura Complessa di Medicina Interna e Reumatologia Ospedale “Regina Apostolorum”, Albano Laziale (Roma) Quando Philip S. Hench decise di utilizzare il 28 Settembre 1948 100 mg dell’allora conosciuto come “composto E” (cortisone) per la terapia dell’artrite reumatoide, non poteva immaginare che la terapia con glucocorticoidi (GC) sarebbe stata applicata rapidamente a tutte le branche della medicina. Infatti la terapia con GC non viene soltanto utilizzata nelle patologie reumatiche come l’artrite reumatoide, il LES o le vasculiti. È largamente utilizzata nella terapia della sindrome nefrosica, delle glomerulonefriti, delle crisi anafilattiche, delle reazioni allergiche, dell’asma bronchiale, delle riacutizzazioni della BPCO, nella terapia di alcune malattie infettive, di innumerevoli patologie infiammatorie cutanee, di tutte le patologie infiammatorie croniche del tratto digerente, dell’epatie cronica attiva, come adiuvante nelle chemioterapie, nelle terapie immunosoppressive in corso di trapianti d’organo o di patologie autoimmuni ed anche come antiedemigeni a livello cerebrale e del midollo spinale. La somministrazione di (GC) a scopo terapeutico, soprattutto se a dosi elevate e/o per lunghi periodi di tempo, induce 150 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 in una consistente proporzione di casi la comparsa di effetti indesiderati, che possono essere semplicemente spiacevoli (ad es. l’alterazione dei tratti somatici), gravi (ad es. il diabete) o potenzialmente pericolosi (ad es. un collasso vertebrale da osteoporosi con mielite traversa). Alcuni effetti collaterali, come l’azione sulla cenestesi e sull’appetito, possono avere talora conseguenze favorevoli (ad es. in malati defedati), ma alle volte conseguenze non auspicabili (ad es. un aumento abnorme di peso). Gli eccessi e gli errori compiuti in passato nella somministrazione dei GC hanno creato un ingiustificato timore in una parte dell’opinione pubblica, onde alcuni malati si preoccupano quando vengono loro prescritti questi farmaci, anche perché ritengono che il ricorso ai GC voglia significare una malattia e/o un fase della malattia molto grave. Inoltre molte malate, soprattutto se in età non avanzata, non gradiscono la terapia con GC perché paventano il danno estetico indotto dall’ipercorticismo. Va tenuto ben presente e, se necessario, spiegato al paziente, che i GC rappresentano in molti casi dei farmaci di cui non sarebbe più possibile fare a meno e che in ogni caso il loro impiego corretto consente attualmente di condurre una terapia con GC, anche a lungo termine, riducendo al minimo gli effetti indesiderati e le loro conseguenze. L’ipercorticismo iatrogeno è la conseguenza dell’uso di dosi soprafisiologiche di GC e comporta la comparsa di manifestazioni cushingoidi: facies lunare, obesità al tronco, gibbo a bufalo, strie rubre, oltre a osteoporosi e diabete. L’alterata distribuzione del tessuto adiposo dipende dal fatto che agli arti prevale l’effetto lipolitico diretto dei GC, mentre al tronco prevale l’effetto lipogenetico indiretto determinato dall’iperinsulinismo reattivo all’iperglicemia, per la diversa concentrazione sulla membrana degli adipociti dei recettori per i GC e per l’insulina. La dose di GC utilizzata è molto importante e a questo riguardo è importante tenere presente la differenza tra dosi “fisiologiche” e dosi “farmacologiche”. La dose fisiologica è quella che corrisponde alla produzione endogena di cortisolo ed è pari alla dose necessaria per mantenere in equilibrio un paziente con insufficienza surrenalica (morbo di Addison): 25-37,5 mg/die di cortisone, pari a 5-7.5 mg/die di prednisone e 4-6 mg/die di 6-metilprednisolone. In realtà, se i GC vengono somministrati in dose unica al mattino, al fine di evitare l’atrofia surrenale, qualsiasi dose di GC è “farmacologia”, perché si viene a sommare alla produzione endogena di cortisolo. L’inibizione surrenale è la conseguenza dell’effetto CRF-soppressore dei GC somministrati in dosi frazionate nel corso della giornata e in particolare, dei GC somministrati nelle ore serali (con l’ovvia eccezione di quelli somministrati “una tantum” in condizioni di emergenza) oppure in preparazione ad assorbimento ritardato. In poche settimane si determina un’inibizione e successivamente un’atrofia dei surreni, che divengono incapaci a rispondere ad una situazione di stress (ad esempio un trauma, un intervento chirurgico, ecc…) o a riprendere rapidamente la loro attività dopo la sospensione della terapia con GC esogeni. Il modo migliore di prevenire questa inibizione surrenalica è la somministrazione dei GC in dose unica al mattino, mentre è assolutamente inutile la somministrazione periodica di ACTH, come suggerito anni fa. La cortisono-dipendenza è un fenomeno complesso, in cui intervengono la necessità “biologica” di proseguire la terapia con GC quando è intervenuta l’atrofia surrenalica e la spinta “psicologica” a continuare a utilizzare un farmaco, che oltre a controllare adeguatamente la sintomatologia induce un evidente miglioramento della cenestesi. Il rischio della cortisono-dipendenza deve essere sempre tenuto presente ogni volta che si intende iniziare una terapia con GC in una malattia cronica. In una malattia cronica come l’artrite reumatoide, se si eccettuano i casi ad esordio acuto o rapidamente ingravescente, la terapia sintomatica antiflogistica va iniziata di preferenza con i FANS, in quanto non è poi facile che un malato che ha fatto ricorso ai GC apprezzi l’efficacia, indubbiamente minore, dei FANS. Una particolare atten- Evidenze a confronto zione va posta ai soggetti psicolabili, nei quali il distacco dei GC è particolarmente difficile e si possono addirittura osservare fenomeni di auto-prescrizione. Accanto alle conseguenze che derivano dalla soppressione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene, vi sono numerose altre complicanze che derivano dalla terapia prolungata con GC. Tra queste, vi sono anomalie dei liquidi e degli elettroliti, ipertensione arteriosa, iperglicemia, aumento della suscettibilità alle infezioni, osteoporosi, miopatia, disturbi del comportamento, cataratta, arresto della crescita e il caratteristico habitus da sovradosaggio di GC che comprende la ridistribuzione del grasso, le strie, le ecchimosi, l’acne e l’irsutismo. Le alterazioni dell’omeostasi dei liquidi e degli elettroliti possono causare alcalosi ipokaliemica, edemi ed ipertensione arteriosa. I meccanismi alla base degli effetti vascolari sono complessi e regolati da molteplici fattori. I GC esercitano un’azione diretta sul cuore, stimolano l’attività di sostanze vasoattive e agiscono direttamente sulla muscolatura liscia dei vasi; inibiscono la sintesi di Prostaglandine e quindi prevale l’effetto vasocostrittore della Prostaclina. Infine i GC determinano un aumento dei livelli di prorenina, di substrati della renina e un aumento dell’attività dell’enzima di conversione dell’angiotensina II. L’effetto osteopenizzante è determinato da una negativizzazione del metabolismo del calcio (riduzione dell’assorbimento intestinale e del riassorbimento tubulare renale) e da una negativizzazione del metabolismo dell’osso (attivazione degli osteoclasti in un quadro di iperparatiroidismo reattivo, con inibizione precoce degli osteoblasti). Questo fa si che l’effetto osteopenizzante degli GC si manifesti molto precocemente nel corso della terapia steroidea. Ovviamente l’effetto è dose-dipendente, ma sembra che dosaggi anche molto bassi di GC, se proseguiti per lungo tempo, inducano una riduzione apprezzabile della massa ossea. Come è logico pensare, le conseguenze sono tanto più gravi quanto maggiore è la presenza di altri fattori di rischio per l’osteoporosi, come il sesso femminile, l’età avanzata, la 151 menopausa precoce, l’insufficiente apporto di calcio nella dieta, la sedentarietà, ecc… La prevenzione dell’effetto osteopenizzante consiste nell’associazione di una terapia con sali di calcio e bisfosfonati, come stabilito dalla nota 79 AIFA, oltre ovviamente alla riduzione della dose di GC al minimo indispensabile. Nei trattamenti prolungati è poi opportuno un periodico monitoraggio del metabolismo minerale osseo con MOC-DEXA e/o marcatori sierici del turnover osseo. L’effetto diabetogeno è determinato da un lato dall’aumento della neoglucogenesi protidica e lipidica, conseguente all’aumentata disponibilità di aminoacidi e di acidi grassi non sterificati, dall’altra da un’inibizione degli effetti periferici dell’insulina. In assenza di una predisposizione genetica è poco verosimile che i GC possano provocare “ex novo” la comparsa di sindrome diabetica, ma in presenza di un diabete latente o anche solo di una familiarità diabetica non è raro che i GC determino la comparsa di un diabete clinico, che tra l’altro non sempre regredisce dopo la sospensione del trattamento. Se il soggetto è già diabetico i GC accentuano lo squilibrio metabolico. In presenza di un diabete lieve o di una chiara predisposizione familiare può essere utile aggiungere alla terapia una dose equilibrata di ipoglicemizzanti orali. Se il soggetto è già in terapia con ipoglicemizzanti orali, occorre aumentare la dose o passare, se necessario, da questi alla terapia insulinica. I segni più evidenti delle conseguenze dei GC nel metabolismo lipidico sono l’accumulo di tessuto adiposo a livello del collo, del viso e del tronco con perdita di grassi in corrispondenza delle estremità. I GC stimolano la lipolisi e inducono un aumento delle concentrazioni plasmatiche di acidi grassi liberi. Inoltre, un aumento della massa grassa corporea potrebbe essere conseguente all’aumento dell’appetito indotto dai GC. Alti livelli di GC si accompagnano anche ad aumento delle lipoproteine VLDL, LDL e HDL con elevazione dei livelli totali di colesterolo e dei trigliceridi. I meccanismi alla base di questi fenomeni sono probabilmente multifattoriali e comprendono effetti a livello 152 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 della sintesi delle VLDL di acidi grassi e dell’attività di alcune lipasi endoteliali. Infatti vi è una grande quantità di dati ottenuti retrospettivamente che mostrano come la prevalenza di aterosclerosi sia superiore tra i pazienti trattati con GC. Pertanto, anche se sono necessarie ulteriori conferme a questi dati, la potenziale possibilità di accelerare la progressione dell’aterosclerosi deve pesare sulla decisione di somministrare una terapia a lungo termine con GC. L’effetto gastrolesivo è dovuto a meccanismi diversi: aumento della secrezione cloridropeptica, riduzione della secrezione di muco, riduzione del potere riparativo della mucosa. Nel complesso, tuttavia, l’effetto gastrolesivo dei GC è minore di quello che viene loro abitualmente attribuito: senza dubbio in presenza di un’ulcera silente, essi possono provocare la riattivazione o l’aggravamento e favorire la comparsa di complicanze, quali il sanguinamento o la perforazione. Ma non vi è alcuna evidenza definita che dimostri che i GC possano provocare la comparsa “ex novo” di un’ulcera peptica in soggetti che non avevano sofferto in precedenza. In ogni caso, l’effetto gastrolesivo dei GC è decisamente inferiore a quello dei FANS, tanto che in presenza di un soggetto ulceroso si ricorre preferibilmente ai GC e la terapia con soli GC a basso dosaggio o per brevi periodi di tempo non richiede l’associazione sistematica con una gastroprotezione farmacologica; questa, invece, va iniziata precocemente se alla terapia con GC si associa una terapia con FANS e/o Aspirina ad un dosaggio antiaggregante piastrinico, come stabilito dalla nota 1 AIFA. L’inibizione dell’accrescimento è un problema aggiuntivo che si presenta quando i GC vengono utilizzati in età pediatrica. Questo effetto si esercita sull’accrescimento staturale, mentre lo sviluppo psichico e la maturazione sessuale non vengono influenzati. Il suo meccanismo è controverso: i GC non riducono i livelli basali di GH, ma riducono la risposta incretoria a stimoli come l’ipoglicemia insulinica. Probabilmente i GC esercitano questa influenza negativa sulla crescita antagonizzando a livello periferico l’azione della somatotropina, forse per una ridotta produzione di somatomedine. Il modo migliore per prevenire l’inibizione della crescita staturale è la somministrazione dei GC in dose unica al mattino; tuttavia, se la crescita è stata già bloccata, il solo passaggio a questa modalità di somministrazione dei GC non è sufficiente e sarebbe necessaria la somministrazione a giorni alterni, il che rende spesso molto problematico il controllo clinico della malattia che ha richiesto l’impiego dei GC. La cataratta si manifesta frequentemente in individui trattati con GC, soprattutto se per periodi prolungati con alte dosi. Da recenti acquisizioni è emerso che questo effetto è probabilmente conseguente all’instaurasi di un legame di tipo covalente tra la molecola di GC ed il cristallino. La terapia con GC, inoltre, può indurre un aumento della pressione intraoculare in soggetti particolarmente suscettibili, ad esempio in pazienti con glaucoma primario ad angolo aperto. Il fenomeno sembra causato da un’azione dei GC sul deflusso acqueo, forse per intervento a livello dello stroma trabecolare; infatti è nota una variazione circadiana dei livelli pressori che segue le fluttuazioni della cortisolemia con una sfasatura di circa tre ore. Inoltre si osserva un aumento della pressione endooculare dopo circa tre ore dalla somministrazione di GC esogeni. Nelle terapie di lunga durata i GC sopprimono le risposte immunologiche e infiammatorie, per questa ragione trovano ampio impiego nella terapia di condizioni in cui tali attività risultano dannose. È dimostrato che i GC esercitano un effetto inibitorio sulla sintesi e/o attività di sostanze vasoattive, sulla migrazione leucocitaria nella sede dell’infezione e sull’attività delle cellule immunocompetenti nella sede colpita. Infatti le infezioni rappresentano un problema rilevante nella terapia con GC a lungo termine; eccetto specifiche situazioni (ad es. riattivazione di TBC quiescente, ascessi non noti, osteomieliti, ecc…) non è possibile prevedere quale microorganismo potrà causare l’infezione, potendo essere responsabili anche germi opportunisti. Il probabile aumento di incidenza e di gravità della TBC in Evidenze a confronto pazienti affetti da malattie sistemiche in trattamento con GC si è dimostrato di particolare interesse. La diagnosi può risultare difficile potendo essere mascherata dalla malattia sistemica per la quale i GC vengono somministrati, considerato anche il fatto che la risposta alla tubercolina può essere soppressa dai GC. La miopatia è una manifestazione comune della terapia prolungata con GC. L’esordio può essere improvviso, ma generalmente il disturbo si instaura gradualmente e si manifesta appieno nel corso di settimane o mesi. Interessa inizialmente i muscoli prossimali, coinvolgendo in seguito, talvolta, quelli distali. La miopatia indotta da GC si manifesta comunemente con mialgia, sintomo che scompare rapidamente dopo la sospensione della terapia. Questa evoluzione clinica oltre ai normali livelli sierici della GOT, della CPK e delle aldolasi, è molto utile nella diagnosi differenziale con le miopatie indotte da ipokaliemia o da miosite. Un recente studio ha dimostrato che il danno muscolare indotto dai GC può essere contrastato dall’esercizio fisico, pertanto i pazienti in terapia con GC vanno incoraggiati a svolgere un’attività fisica maggiore. È frequente che in pazienti in terapia con GC si verifichino modificazioni del carattere e dello stato psicologico e che, sebbene molti pazienti inizialmente provino un senso di benessere, in seguito possano comparire depressione e varie forme di psicosi. Non si può prevedere quale tipo di disturbo possa comparire sulla base delle condizioni del paziente prima della terapia, ma questo è generalmente reversibile alla sospensione. Disturbi psichiatrici preesistenti non costituiscono generalmente una contraindicazione alla terapia con GC. L’osteonecrosi (conosciuta anche come necrosi avascolare o asettica) è una complicanza relativamente comune della terapia con GC. Ne è più frequentemente interessata la testa del femore, ma questo processo può riguardare anche la testa omerale e il tratto distale del femore. Dolore e rigi- 153 dità articolare sono di solito i sintomi più precoci, e questa diagnosi dovrebbe essere presa in considerazione in quei pazienti che ricevono GC e che improvvisamente lamentano dolore al femore, alla spalla o al ginocchio. Sebbene il rischio aumenti sia con la dose sia con la durata della terapia con GC, si può presentare l’osteonecrosi anche quando elevate dosi di GC sono somministrate per brevi periodi di tempo. L’osteonecrosi di solito è progressiva e nella maggior parte dei pazienti colpiti alla fine si rende necessaria la sostituzione protesica dell’articolazione. Considerata la quantità e la gravità degli effetti collaterali legati alla terapia con GC è importantissimo iniziare al più presto tutte le azioni necessarie per ridurre al minimo gli effetti indesiderati dei GC. Nella maggior parte delle condizioni in cui si utilizzano i GC esistono modalità terapeutiche alternative o aggiuntive che vanno tenute in considerazione al fine di ridurre la dose di GC necessaria al miglioramento clinico della malattia di base; e se possibile utilizzate prima di iniziare la terapia con GC nel caso che tale scelta terapeutica comporti una minore incidenza di complicanze. Una volta instaurata la terapia steroidea è importante monitorizzare la dose con attenzione. L’obbiettivo principale è la risposta clinica, quindi al fine di ridurre gli effetti collaterali è importante ridurre progressivamente la dose di GC mantenendo una risposta clinica ottimale. La terapia a giorni alterni ha cominciato ad affermarsi quando si è osservato che somministrando una singola dose di GC al mattino a giorni alterni si potevano ridurre alcuni effetti collaterali continuando a ottenere una risposta clinica soddisfacente. Da diversi studi emerge che la soppressione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene è minore nella terapia a giorni alterni, ma il meccanismo preciso che determina ciò non è noto. La terapia a giorni alterni è utilizzata preferibilmente per i periodi prolungati e non è generalmente indicata per il trattamento iniziale. 154 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 I CORTICOSTEROIDI NELLA TERAPIA DELL’ARTRITE REUMATOIDE: ANCORA UN TRATTAMENTO VALIDO? GIAN DOMENICO SEBASTIANI U.O.C. Reumatologia, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma Il trattamento dell’artrite reumatoide (AR) ha come scopi il contenimento del processo flogistico e la prevenzione del danno strutturale delle articolazioni. Poiché i meccanismi fisiopatologici della sinovite, che sono responsabili delle manifestazioni flogistiche della malattia quali dolore, gonfiore e rigidità, sono differenti dai meccanismi fisiopatologici che conducono al danno articolare, i farmaci antireumatici idealmente dovrebbero essere in grado di bloccare o rallentare entrambi tali meccanismi. Numerosi sono i farmaci attualmente disponibili per la terapia dell’AR. Essi possono essere distinti in 4 gruppi: 1) antiinfiammatori non steroidei (FANS, inclusi gli inibitori preferenziali della cicloossigenasi-2, detti COXIB); 2) corticosteroidi (CS); 3) farmaci in grado di modificare la malattia, Disease Modifying AntiRheumatic Drugs (DMARDs), quali ad esempio methotrexato, ciclosporina, sulfasalazina, idrossiclorochina, leflunomide; 4) farmaci biologici, quali gli inibitori del Tumor Necrosis Factor alfa (infliximab, etanercept, adalimumab), i farmaci anti-B linfociti (rituximab, ocrelizumab, epratuzumab, ofatumumab), i farmaci che interagiscono con le molecole co-stimolatorie (abatacept), il tocilizumab (antagonista del recettore dell’IL-6), i farmaci anti-IL1 come anakinra (antagonista del recettore dell’IL-1beta). Tutti questi farmaci, in misura maggiore o minore, sono in grado di ridurre il processo flogistico nell’AR, con notevole miglioramento dei segni e dei sintomi della malattia. Tuttavia, la remissione totale, con attività di malattia uguale a zero, è piuttosto rara. Anche quando clinicamente il paziente è in remissione, alcune indagini strumentali, quali ultrasonografia ad alta risoluzione e risonanza magnetica nucleare, possono evidenziare segni residui di sinovite in fase attiva in articolazioni peraltro clinicamente prive di flogosi. Al contrario, alcune strategie tera- peutiche sono in grado di arrestare il danno articolare strutturale, suggerendo che i farmaci antireumatici possono influenzare direttamente non solo la flogosi, ma anche i meccanismi fisiopatologici della distruzione ossea e cartilaginea. Ad esempio, i farmaci inibitori del TNFalfa sono in grado di arrestare la progressione del danno articolare, anche in pazienti che non mostrano miglioramenti significativi nei segni e sintomi dell’AR. D’altra parte, la progressione del danno strutturale nei pazienti trattati con methotrexato è maggiore rispetto ai pazienti trattati con biologici, e la terapia di combinazione methotrexato + biologico ottiene i risultati migliori1. Nonostante i numerosi effetti collaterali, e nonostante siano stati introdotti 60 anni fa, i corticosteroidi restano i farmaci più utilizzati nella terapia dell’artrite reumatoide. Fra i vari farmaci disponibili per la terapia dell’AR, soltanto i CS sono in grado di sopprimere la sinovite reumatoide in modo efficace, rapido e sicuro. Tuttavia gli effetti favorevoli non sono sostenuti nel tempo a meno che non vengano utilizzate dosi crescenti ed elevate, dosi sicuramente foriere di effetti collaterali indesiderati, tali da precludere la possibilità di una terapia a lungo termine. Non esiste paziente affetto da AR in fase acuta che non risponda a dosi medie o medio-basse (7.5-30 mg di prednisone) di CS, anche nei periodi di riattivazione della malattia, tanto che quando si presenta un paziente con quadro clinico suggestivo di AR in fase di acuzie, non responsivo ai CS, è necessario valutare la possibilità che il quadro infiammatorio sia sostenuto da altre cause, quali processi infettivi o neoplastici. Al contrario, tutti gli altri farmaci utilizzati nella terapia dell’AR, dal methotrexate ai farmaci biologici di più recente introduzione, presentano una percentuale di pazienti non-responder. La medicina “basata sull’esperienza” indica inoltre che nella terapia di mantenimento a lungo termine, spesso è 155 Evidenze a confronto necessario associare ai DMARDs, quali il methotrexate, piccoli dosaggi di CS, al fine di consentire il mantenimento della remissione della malattia. In alcuni casi piccole riduzioni, anche di un solo milligrammo al dì, danno luogo ad una riattivazione dei sintomi. Possiamo affermare che nell’AR la percentuale di efficacia dei CS è pari alla possibilità di produrre effetti indesiderati, ossia 100% dei casi. Ciò non è altrettanto vero per altre malattie reumatiche, quali le vasculiti maggiori o il lupus eritematoso sistemico, dove la terapia con CS, anche a dosaggi molto maggiori di quelli sufficienti nell’AR, spesso non è in grado di controllare il quadro clinico. Numerosi trials hanno dimostrato l’efficacia dei CS nella terapia dell’AR. Ad esempio, due trials recenti, lo studio COBRA e lo studio BeSt, hanno evidenziato che i CS a dosi elevate per os in combinazione al methotrexate e alla sulfasalazina sono molto efficaci e rapidi nel ridurre l’attività di malattia e nel ritardare la progressione del danno radiologico2,3. Analogamente, l’efficacia del trattamento con piccole dosi nel ridurre sia i sintomi della malattia che la progressione del danno articolare, è stata dimostrata, fra gli altri, dagli studi di Kirwan4, van Everdingen5, nello studio BARFOT6,7, ed è stata documentata in due meta-analisi8,9. Inoltre, una review recente ha confermato che i CS sono in grado di ritardare il danno articolare documentato radiograficamente, e pertanto dovrebbero essere inclusi tra i farmaci disease-modifying nella terapia dell’AR10. In questo numero, nella rubrica “Evidenze a Confronto” due esperti reumatologi esaminano i pro e i contro della terapia con i corticosteroidi nell’AR. Le conclusioni che si possono trarre dalla lettura dei due contributi sono che i CS sono tuttora i farmaci più usati nella terapia dell’AR, che sono senz’altro molto efficaci, che tuttavia sono in grado di produrre effetti collaterali in modo certo. L’uso attento ed in mani esperte di questi farmaci può limitare notevolmente gli effetti indesiderati, ecco perché i CS rimangono tra i farmaci più usati nell’AR anche dopo 60 anni dalla loro introduzione in terapia e anche dopo la scoperta di numerose altre molecole. Bibliografia 1. Schett G, Stach C, Zwerina J, et al. How antirheumatic drugs protect joints from damage in rheumatoid arthritis. Arthritis Rheum 2008; 58: 2936-48 2. Boers M, Verhoeven AC, Markusse HM, et al. Randomised comparison of combined step-down prednisolone, methotrexate and sulphasalazine with sulphasalazine alone in early rheumatoid arthritis. Lancet 1997; 350: 309-18 3. Goekoop-Ruiterman YP, de Vries-Bouwstra JK, Allaart CF, et al. Clinical and radiographic outcomes of four different treatment strategies in patients with early rheumatoid arthritis (the BeSt study): a randomized, controlled trial. Arthritis Rheum 2005; 52: 3381-90 4. Kirwan JR. 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Review ANNALI DEGLI OSPEDALI San Camillo e Forlanini Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009 Rassegne IPOTIROIDISMO NELL’ANZIANO* HYPOTHYROIDISM IN THE ELDERLY PAOLO ZUPPI, ENRICO FIDOTTI Dipartimento di Medicina Specialistica - U.O. Endocrinologia Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma Parole chiave: Ipotiroidismo. Anziani Key words: Hypothroidism. Elderly L’ipotiroidismo1-4 è la sindrome clinica dovuta alla carenza degli ormoni tiroidei. Nei pazienti anziani ha una prevalenza variabile nei diversi studi fra il 5-20% nelle donne e il 3-8% negli uomini5. L’ipotiroidismo deve essere sospettato e diagnosticato poiché se misconosciuto provoca l’insorgenza di complicanze anche gravi e peggiora la prognosi delle patologie associate. Spesso, i sintomi e i segni dell’ipotiroidismo nei pazienti geriatrici sono male interpretati o come espressione dell’invecchiamento stesso o come manifestazione delle comorbidità presenti nel paziente. Nel fisiologico processo di invecchiamento, la tiroide va incontro ad una riduzione del volume ghiandolare, vi è un prolungamento dell’emivita del T4 associata a una modesta riduzione dei livelli del T3 e una frequente positività degli anticorpi antitiroide6. La prevalenza dell’ipotiroidismo aumenta con l’incedere dell’età7, fino a essere, nei soggetti con più di 75 anni, circa il 21% nelle femmine e il 16% nei maschi8. La prevalenza è più elevata nella popolazione che necessita ospedalizzazione9, proprio a testimoniare come l’ipotiroidismo determini comunque un peggioramento delle condizioni10. Eziologia. In circa 80% dei casi è dovuto ad un processo infiammatorio cronico, tiroidite cronica di Hashimoto11,12, altre cause sono la tiroidectomia, la terapia con 131 I per ipertiroidismo, i farmaci (amiodarone, litio, citochine). Manifestazioni cliniche Il riscontro di ipotiroidismo nell’anziano è frequentemente occasionale (13). Infatti, l’esordio graduale e subdolo della sintomatologia, i meccanismi psico-fisici di adattamento compensativo, la frequente presenza di altre patologie invalidanti già diagnosticate, il decadimento cognitivo, rendono poco evidente la malattia ai pazienti, ai parenti e, purtroppo, anche al medico curante14,15. * Relazione tenuta al Convegno “Ormoni e invecchiamento”Aula Magna Ospedale Forlanini, Roma, 2/10/2008. P. Zuppi, E. Fidotti: Ipotiroidismo nell’anziano I segni e sintomi classici dell’ipotiroidismo sono più sfumati o assenti nei soggetti anziani16. L’incremento ponderale, ad esempio, è scarso o assente a causa della contemporanea riduzione dell’apporto alimentare. A volte, addirittura, a preoccupare il paziente o i parenti è il calo ponderale. Frequenti sono i molteplici sintomi neuro-psichiatrici quali la depressione, il delirio, la demenza, l’agitazione, la sonnolenza, l’apatia, astenia, miopatia, ipogeusia o disgeusia. A carico del sistema cardiovascolare possono manifestarsi: bradicardia, ipertensione, versamento pericardico. Obiettività. L’aspetto fisico è spesso fuorviante. Caratteristica è la cute pallida, secca e ruvida, il defluvium con capelli fragili e sottili. Può essere presente ipotermia. A causa della sintomatologia prevalente all’esordio il paziente ipotiroideo può essere indirizzato impropriamente ad altri specialisti (Tabella 1). Laboratorio. Nell’ipotiroidismo primario si ha una elevazione del TSH con riduzione del FT4. Come esame di screening è sufficiente il dosaggio del solo TSH. Con tale accertamento sfuggirebbero al riconoscimento solo gli ipotiroidismi secondari a disfunzione ipotalamo ipofisaria. La diagnosi deve comunque essere confermata da un secondo prelievo con il dosaggio di FT4, FT3, AbTPO e AbTG. I risultati dei dosaggi ormonali, devono essere interpretati in ogni paziente in base alle condizioni cliniche. Sappiamo infatti che nei pazienti affetti da gravi patologie vi può essere una riduzione del FT3 e FT4 anche con TSH basso, “sick euthyroid sindrome”17. In tali situazioni, 157 la prognosi della malattia è direttamente proporzionale alla riduzione dei valori ormonali18. Con la guarigione della malattia si verifica la normalizzazione dei valori ormonali, con una breve fase di elevazione del TSH sopra i limiti della norma19. Altre situazioni in cui si può verificare una transitoria elevazione dei valori del TSH, non indicativa di ipotiroidismo, sono riportate nella Tabella 2. Il dosaggio degli anticorpi anti tireoglobulina (AbTG) ed antitireoperossidasi (AbTPO), può confermare l’eziologia autoimmune, ma il loro riscontro, nei pazienti geriatrici, è frequente e non indica necessariamente ipotiroidismo20 e pertanto tale dosaggio non deve essere eseguito nello screening. I pazienti con positività degli anticorpi hanno una probabilità maggiore di evoluzione da ipotiroidismo subclinico a clinico21. Altre alterazioni dei parametri di laboratorio sono: l’iponatremia, spesso rilievo occasionale in corso di esami di controllo, provocata dalla ridotta escrezione dell’acqua libera22; ipercolesterolemia23; elevazione della CPK dovuta alla miopatia24; aumento dell’omocisteina25; anemia, classicamente macrocitica, ma anche microcitica o normocitica. L’ecografia tiroidea può evidenziare ipoecogenicità diffusa o parcellare dell’ecostruttura parenchimale e quindi confermare la presenza di una tiroidite autoimmune26. Trattamento: I pazienti ipotiroidei devono essere esaurientemente informati della loro condizione patologica e sentirsi partecipi delle decisioni terapeutiche così da avere un’elevata compliance, infatti necessitano di ripetuti controlli clinici e di Tabella 1 - Particolari sintomi di presentazione e possibili referenti specialistici Anemia Dolori osteo-articolari Disturbo dell’andatura/cadute ricorrenti Cute secca e ruvida, defluvium Lipotimia-sincope-coma CPK elevate Ematologo reumatologo/ortopedico Neurologo Dermatologo Pronto Soccorso cardiologo (per sospetto infarto del miocardio) Tabella 2 - Cause di transitoria elevazione del TSH (5-10 µU/ml) Dopo guarigione da malattie gravi non tiroidee (euthyroid sick syndrome) Terapia con amiodarone Uso di farmaci antidopaminergici Eccesso di terapia con tionamidi (metimazolo, carbimazolo, propiltiouracile) per ipertiroidismo 158 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 laboratorio27. Solitamente possono essere seguiti dal medico di medicina generale, essendo lo specialista endocrinologo necessario solo per casi gravi o complicati. E utile raccomandare ai pazienti di non sospendere la terapia, come spesso fanno di propria iniziativa, in corso di altre patologie o in caso di assunzione di altri farmaci. La terapia si basa sull’assunzione di levotiroxina (L-T4) sintetica. I preparati a base di estratti tiroidei sono ormai abbandonati per la variabilità in contenuto ormonale. La dose iniziale di L-T4, solitamente 12.5 o 25 µg die, deve essere incrementata di 12.5 o 25 µg ogni 4-6 settimane28, fino alla normalizzazione dei valori del TSH29. E raccomandata una maggiore gradualità nei pazienti in condizioni generali più scadenti, con ipotiroidismo di lunga durata e in quelli affetti da cardiopatia ischemica. Il dosaggio del TSH, deve essere effettuato almeno dopo 6 settimane dalla variazione posologica. Una volta raggiunta la dose appropriata, il controllo del TSH sarà semestrale o annuale. La dose sostitutiva ottimale può variare nel tempo per un peggioramento dell’ipotiroidismo o per una variazione del peso. Il paziente, inoltre, deve essere invitato a riferire al medico l’eventuale assunzione di nuovi farmaci o di nuove abitudini alimentari, per le possibili interferenze con l’assorbimento della L-T4 30, 31 (Tabella 3). La terapia cronica con farmaci quali la fenitoina, la carbamazepina, il fenobarbital e la rifampicina, determinando un au- Tabella 3 – Farmaci che interferiscono con l’assorbimento della L-T4 Raloxifene Calcio carbonato Dieta ad alto contenuto di fibre e/o di soia Terapia marziale Colestiramina Farmaci per ipercolesterolemia Idrossido di allumino Kayexalate Sucralfato mentato metabolismo della tiroxina, può rendere necessario un incremento della posologia32, 33. Il sovradosaggio è associato a gravi effetti collaterali per il trattamento dei quali rimandiamo all’articolo sulla tireotossicosi. L’ipotiroidismo sub-clinico è caratterizzato da valori di TSH inferiori a 10 µU/ml con FT4 e FT3 normali. La sua prevalenza nella popolazione anziana varia dal 4 al 16 % nelle varie statistiche34, 35. Gli studi della storia clinica dell’ipotiroidismo subclinico indicano che in circa il 5% dei casi si ha la normalizzazione dei valori del TSH36 e che ogni anno il 5% dei casi progredisce a ipotiroidismo franco37. Come abbiamo già detto, i soggetti con valori di AbTPO particolarmente elevati presentano una maggiore possibilità di evoluzione. Nonostante si sia riscontrato nei pazienti affetti da ipotiroidismo subclinico un aumentato rischio cardiovascolare38 e di dislipidemia39, e che il trattamento con L-T4 migliori le prestazioni mentali40, la sensazione di benessere41 e normalizzi l’assetto lipidico42, 43, la mancanza di evidenze su grandi trials del beneficio su end point primari, lascia controversa l’opportunità del trattamento44, 45. Alcuni lavori mostrerebbero addirittura una più lunga sopravvivenza dei pazienti con TSH modestamente elevato46. Avendo sempre presente che dobbiamo curare il paziente e non riportare dei numeri nel range della normalità, riteniamo che la decisione di consigliare l’assunzione di L-T4 in pazienti affetti da ipotiroidismo sub-clinico debba essere presa caso per caso, valutando con attenzione le condizioni cliniche generali (valori della pressione arteriosa, test psicometrici, ECG, assetto lipidico, assetto enzimatico), le altre patologie associate, le altre terapie assunte, la compliance, (non solo all’assunzione della terapia ma anche ai controlli, infatti è più rischioso un ipertiroidismo iatrogeno che un ipotiroidismo subclinico)47. In alcuni casi può essere utile iniziare il trattamento e osservare gli eventuali benefici. Se decideremo di trattare, i valori del TSH andranno riportati nella norma e non P. Zuppi, E. Fidotti: Ipotiroidismo nell’anziano soppressi, se decideremo di non trattare, dovremo controllare ogni 6-12 mesi le condizioni del paziente e i valori del TSH. Screening. Abbiamo visto come l’ipotiroidismo se identificato sia facilmente curabile, ma se misconosciuto sia invalidante e potenzialmente mortale. Purtroppo, spesso, i sintomi e i segni dell’ipotiroidismo nei pazienti anziani sono atipici e non suscitino nel clinico il sospetto diagnostico, ad esempio il 15 % dei pazienti geriatrici con disturbi psichiatrici è affetto da ipotiroidismo misconosciuto48. La U.S. Preventive Services Task Force 49 afferma che, in assenza di studi che dimostrino l’efficacia della terapia con L-T4 nei pazienti affetti da ipotiroidismo subclinico, non è giustificato uno screening di popolazione in assenza di manifestazioni cliniche. D’altro canto poiché è opportuno dosare il TSH in tutti i pazienti geriatrici con anamnesi patologica o familiare positiva per patologie tiroidee, depressione, deficit cognitivi, astenia, variazione ponderale, ipertensione oculare, dolori muscolari e articolari, apatia, anemia, ipertensione arteriosa, pallore cutaneo, lipotimia e in tutte le condizioni patologiche non diagnosticate, sono ben pochi i pazienti anziani in cui non sia giustificato il dosaggio del TSH. L’amiodarone contiene il 37% in peso di iodio, e, quindi con l’assunzione di 200 mg die, l’apporto iodico è circa 7 mg invece dei 0.15-0.250 mg ottimali. Oltre che per l’apporto iodico, l’amiodarone interagisce con la tiroide a vari livelli: inibisce le desiodasi di tipo 1 50 con riduzione del T3 e aumento del rT3, inibisce la desiodasi di tipo 2 51 provocando un modesto aumento del TSH, con una citotossicità diretta52, inibisce il recettore per gli ormoni tiroidei 53 determinando uno pseudo ipotiroidismo tissutale, stimola la produzione di anticorpi antitiroidei54. L’incidenza di ipotiroidismo nei pazienti in terapia con amiodarone è di circa il 13% nelle aree con adeguato apporto iodico alimentare e di 6 % in quelle con ridotto apporto iodico55. E importante ricordare che nei primi mesi di terapia con amiodarone si può verificare una elevazione dei valori del TSH che non necessita di correzione farmacologica. Se 159 l’amiodarone determina ipotiroidismo, non è necessario sospendere il farmaco ma è comunque opportuno contattare il cardiologo curante perché valuti la possibilità di passare ad altri antiaritmici. La terapia sostitutiva con L-T4, deve essere iniziata con prudenza, monitorando i valori del TSH. L’evoluzione, della disfunzione tiroidea da amiodarone è imprevedibile e a volte persiste dopo la sospensione del farmaco. Coma mixedematoso. Poiché l’ipotiroidismo è spesso misconosciuto, può evolvere subdolamente fino ad un quadro di grave insufficienza multisistemica in equilibrio precario grazie a complessi meccanismi omeostatici di compenso. Eventi intercorrenti (polmonite, sanguinamento gastrico, stroke, terapia con diuretici o sedativi, clima invernale etc.) possono rendere insufficienti tali meccanismi adattativi e provocare coma. Escludere l’ipotiroidismo è necessario nei pazienti anziani che presentino un coma per cause apparentemente modeste. Solitamente i parenti riferiscono letargia e ipersonnia negli ultimi mesi. Il coma mixedematoso ha una mortalità di circa il 40%56.Vi è ipotermia anche estrema, fino a 23°57. Il laboratorio evidenzia riduzione FT4, elevazione TSH, iponatriemia, CPK elevate, ipossia, ipercapnia. Il coma mixedematoso è una emergenza medica e la rapidità della diagnosi è essenziale per migliorare la prognosi. Il trattamento deve essere iniziato anche nel solo sospetto. Il trattamento di scelta sarebbe la somministrazione di T4 per via endovenosa. Purtroppo tale presidio non è disponibile in Italia, e pertanto bisogna somministrare la T4 per os, eventualmente tramite sondino naso gastrico, anche se le alterazioni circolatorie e intestinali ne riducono l’assorbimento. La posologia nei primi giorni può essere anche elevata per ottenere una rapida saturazione del volume di distribuzione. Possono essere associate piccole dosi di T3 ripartite in tre somministrazioni quotidiane. Inoltre è opportuno somministrare 200-300 mg di idrocortisone e.v., instaurare terapia antibiotica a largo spettro e non ritardare l’intubazione in caso di insufficienza respiratoria. 160 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Bibliografia 1 Davies TF, Larsen PR. Thyreotoxicosis, in Larsen PR, Kronenberg HM, Melmed S., Polonsky K.S. (eds). Williams text book of endocrinology. Tenth edition. Philadelphia, Saunders, 2003; 374-421 2. Franklyn J, Parle J. Hyperthyroidism-aging. In Blackman M. (Ed) Endocrinology of Aging., www.endotext.org 3. Greenspan SL, Resnick NM. Geriatric Endocrinology. In Greenspan FS, Gardner DG (eds), Basic & clinical endocrilogy, seventh edition. New York, McGraw-Hill, 2004; 842-66 4. Roth J, Kpch CA, Tother KI. Aging, endocrinology, and the elderly patient. In DeGroot LJ, Jameson JL (eds). Endocrinology, Fourth ed. Philadelphia, Saunders, 2001; 529-55 5. Laurberg P, Andersen S, Bulow Pedersen I, Carle A. 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Il termine ipertiroidismo andrebbe riservato a quei casi in cui l’eccesso ormonale è dovuto a iperproduzione da parte della tiroide stessa. Si definisce ipertiroidismo subclinico la presenza di TSH cronicamente soppresso con valori degli ormoni tiroidei nella norma1-4. I dati della letteratura sulla prevalenza della tireotossicosi nella popolazione geriatrica sono discordanti, variando fra il 2,7 e 8%, con un rapporto M:F di circa 1:8 (5-10). Tale discordanza è dovuta alla difformità per età, etnia, apporto iodico nella dieta, condizioni di salute (soggetti ambulatoriali, ospedalizzati, sani), fra i campioni di popolazione esaminati. La tireotossicosi conclamata è presente nel 0.2-2 % (11). Eziologia. In età geriatrica, la prevalenza del morbo di Basedow si riduce, essendo responsabile del 17-24 % dei casi di tireotossicosi, mentre aumenta la pre- valenza del gozzo multinodulare tossico, responsabile di circa il 33-43% dei casi12-14. L’apporto iodico con la dieta ha grande rilevanza, essendo maggiore l’incidenza di morbo di Basedow nelle zone con normale apporto iodico rispetto alle zone con apporto iodico insufficiente, dove, viceversa, sono più frequenti le lesioni nodulari tossiche15, 16. Una piccola percentuale di ipertiroidismi, circa 1%, è scatenata da un aumentato apporto iodico 17, 18. Farmaci contenenti iodio, come multivitaminici, espettoranti, mezzi di contrasto radiografici, o comunque un’aumentata assunzione di iodio con la dieta (sale iodato, conservanti alimentari), possono provocare ipertiroidismo, specialmente in pazienti con patologia plurinodulare provenienti da aree a carenza iodica. I pazienti in terapia con L-T4 sono circa il 5% dell’intera popolazione geriatrica. Il 16% delle tireotossicosi è dovuto ad un sovradosaggio del L-T4, infatti, poiché l’invecchiamento determina il prolungamento dell’emivita della T4, posologie sostitutive prima adeguate possono diventare eccessive con il passare degli anni. Nei pazienti * Relazione tenuta al Convegno “Ormoni e invecchiamento” Aula Magna Ospedale Forlanini, Roma, 2/10/2008 P. Zuppi, E. Fidotti: Tireotossicosi, ipertiroidismo e ipertiroidismo subclinico nell’anziano in terapia sostitutiva, è quindi opportuno un controllo periodico del TSH per eventuale riduzione della posologia in precedenza congrua. Nello 1% dei casi la causa scatenante può essere una tiroidite sub-acuta. Sintomatologia. Nei pazienti anziani, la tireotossicosi, si manifesta con sintomi, segni e complicanze a carico degli apparati più vulnerabili in età avanzata19, 20, spesso determinando l’esacerbazione di patologie croniche già presenti21. Accade, quindi, che un sintomo, magari atipico, prevale, occupando l’intero quadro sindromico e fuorviando la diagnosi. Per tale motivo, allorquando in un paziente anziano il quadro clinico ci porta a sospettare una malattia neoplastica, una demenza, una cardiopatia o una patologia gastrointestinale, sarebbe bene sempre escludere la tireotossicosi. Rispetto ai pazienti di più giovane età, sono meno frequenti i classici segni di attivazione adrenergica quali tremori, iperfagia, intolleranza al caldo, cardiopalmo, diarrea e sudorazione22, 23. A volte il riscontro di un eccesso di ormoni tiroidei plasmatici è una sorpresa in pazienti completamente asintomatici (24). Sistema cardio-circolatorio: L’accelerato metabolismo, l’accresciuto consumo di ossigeno, la vasodilatazione periferica, l’effetto inotropo positivo degli ormoni tiroidei, determinano un aumento della gittata e della frequenza cardiaca. I pazienti lamentano cardiopalmo e presentano tachicardia. Rispetto ai soggetti con tireotossicosi di più giovane età, sono più frequenti la fibrillazione atriale (fino al 28 %), lo scompenso cardiaco congestizio, la cardiopatia ischemica25, 26. Le frequenti complicanze a carico del sistema cardiocircolatorio sono responsabili dell’aumentata morbilità e mortalità dei pazienti ipertiroidei geriatrici27. Sistema nervoso: Nei soggetti anziani, la tireotossicosi può esordire con intensa astenia, depressione del tono dell’umore e labilità emozionale. In alcuni casi i pazienti lamentano confusione mentale più o meno grave fino alla pseudo-demenza. 163 I pazienti possono essere agitati o al contrario presentare apatia fino alla letargia e al coma: apathetic hyperthyroidism28-30. Sintomo caratteristico è il tremore, che può interessare anche la lingua, e, ove già presente, il tremore da parkinsonismo è esacerbato. Apparato osteo-muscolare: I pazienti lamentano astenia e facile faticabilità. Lo stato ipercatabolico provoca una ipotrofia muscolare, in particolare del quadricipite, con aumentato rischio di cadute31. L’eccesso di ormoni tiroidei determina aumento del turnover osseo, con ipercalcemia e aumentata escrezione di calcio e fosforo, con conseguente riduzione della densità ossea32, determinando accresciuto rischio di fratture33, specialmente nelle donne anziane e aumentata morbilità e mortalità34,35. Respiratorio: è spesso presente dispnea, particolarmente in risposta a sforzi anche lievi. Apparato gastroenterico: la sintomatologia a carico dell’apparato gastroenterico è paradigmatica della modalità di manifestazione clinica della tireotossicosi nell’anziano: un sintomo a volte unico, spesso atipico, come la stipsi, che pone la necessità di una diagnosi differenziale con malattie neoplastiche d’organo (3). Il sintomo più frequente è la perdita di peso, a volte accompagnata da anoressia e vomito (4). Oftalmopatia: è molto meno frequente che nei soggetti giovani sia perché più raramente la tireotossicosi è dovuta a morbo di Basedow, sia per una minor incidenza di oftalmopatia in corso di tale patologia (3), e, quando presente, ha un decorso meno severo. Cute: seppur meno frequentemente che nei soggetti più giovani, possono presentare sudorazione eccessiva, mani calde, onicolisi con eventuale ipoonichia, iperpigmentazione specialmente intorno agli occhi, vitiligine che può precedere anche di anni l’esordio clinico della malattia. I capelli possono essere fini, fragili e “resistenti al pettine”. Il prurito è presente in circa il 4% dei pazienti anziani affetti da ipertiroidismo (Tabella 1). 164 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Tabella 1. Sintomi e segni in pazienti ipertiroidei anziani a confronto con ipertiroidei di età inferiore a 60 anni SINTOMI Calo ponderale cardiopalmo astenia prurito vertigini eretismo psichico apatia Intolleranza al caldo Riduzione memoria sudorazione anoressia Aumento fame Stipsi SEGNI tachicardia Fibrillazione atriale Segni oculari tremori miopatia Sintomi cutanei ginecomastia Confusione-demenza < 60 anni > 65 anni 85% 89% 79% 99% 89% 91% 9% 65% - 76% 36% 28% 4% 20% 48% 31% 43% 8% 21% 32% 7% 37% 100% 6% 71% 97% < 5% 97% 10% < 5% 52% 28% 8% 60% 30% 50% 52% I pazienti con un ipertiroidismo conclamato, hanno un’ aumentata mortalità che persiste anche a distanza di un anno dalla normalizzazione dei valori ormonali36. Diagnosi. Negli anziani sani, i livelli plasmatici di FT3, FT4 e TSH, non differiscono significativamente da quelli della popolazione giovanile37, infatti, la ridotta secrezione ormonale da parte della tiroide è bilanciata dall’allungamento dell’emivita della T438. Nella tireotossicosi conclamata vi sono valori di TSH ridotti con livelli plasmatici di FT3 e/o FT4 elevati. Il dosaggio ultrasensibile del TSH, di terza generazione39, con una sensibilità fra 0,005 e 0,01 µU/ml, consente una determinazione attendibile del TSH sierico anche nel range di valori al di sotto della norma. In circa il 4% dei soggetti con età superiore a 60 anni40, è presente TSH ridotto con normali valori di FT3 e FT4. Tale alterazione non sempre è espressione di ipertiroidismo sub-clinico41. Il prelievo per il dosaggio del TSH non dovrebbe essere eseguito durante malattie acute, poiché in risposta a tali situazioni vi è una fisiologica riduzione della secrezione ipofisaria del TSH42, inoltre, alcuni farmaci, come la dopamina, i glucocorticoidi e l’octreotide (analogo della somatostatina utilizzato nella terapia dell’acromegalia e dei tumori neuroendocrini) determinano una riduzione dei valori plasmatici del TSH43. TSH ridotto con valori di ormoni tiroidei nei limiti si può riscontrare nelle fasi iniziali e finali della tireotossicosi, infatti il TSH resta inferiore alla norma fino a tre mesi dopo la fine di una tireotossicosi44. Pazienti in terapia con L-T4 possono presentare, in caso di modesto sovradosaggio, parziale riduzione dei valori del TSH45 (Tabella 2). A causa della sintomatologia frequentemente atipica e del reperto palpatorio della ghiandola normale in circa i 2/3 dei pazienti, la diagnosi è spesso inaspettata. In una casistica di pazienti ospedalizzati il riscontro è stato occasionale addirittura nel 62% di casi46. Tabella 2 - Condizioni nelle quali è possibile riscontrare TSH ridotto con FT3 e/o FT4 nei limiti In circa il 2% degli anziani sani Errore di laboratorio Eccessiva assunzione di T4 esogeno Eccessiva assunzione di T3 esogeno Morbo di Basedow subclinico Nodulo autonomo Tiroidite subacuta Terapia acuta con glucocorticoidi Terapia con amiodarone Fase iniziale o finale di ipertiroidismo TSH µU/ml 0.1-0.5 < 0.1-0.5 < 0.1-0.5 < 0.1-0.5 0.1-0.5 0.1-0.5 < 0.1-0.5 0.1-0.5 < 0.1-0.5 < 0.1-0.5 FT3 ↔ ↔ ↔ ↑ ↔ ↔↑ ↔↑ ↓ ↔↑ ↔ FT4 ↔ ↔ ↔↑ ↔↓ ↔↑ ↔↑ ↔↑ ↔ ↔↑ ↔ SINTOMI NO NO NO-SI SI-NO NO-SI NO-SI NO-SI NO NO-SI NO P. Zuppi, E. Fidotti: Tireotossicosi, ipertiroidismo e ipertiroidismo subclinico nell’anziano Una volta posta diagnosi di tireotossicosi, in considerazione della prevalenza delle diverse eziologie in età geriatrica (gozzo multinodulare tossico: 33-43%; morbo di Basedow: 17-24%; sovradosaggio del L-T4: 16%; tiroidite sub-acuta: 1%), proseguiamo l’iter diagnostico con altri accertamenti: dosaggio anticorpi: nel morbo di Basedow sono spesso presenti anticorpi antirecettore TSH (TSHRAb), e in più della metà dei casi, anticorpi anti tireoperossidasi (AbTPO) e anticorpi antitireoglobulina (AbTG) (1). ecografia tiroidea: permette l’analisi morfologica della ghiandola, il riconoscimento e la valutazione delle lesioni nodulari e lo studio della vascolarizzazione. Consente quindi, ad esempio, di identificare un incremento volumetrico diffuso con vascolarizzazione aumentata, tipico del morbo di Basedow, o la presenza di un gozzo plurinodulare. scintigrafia tiroidea: fornisce la valutazione morfo-funzionale della ghiandola e dei noduli. Nel morbo di Basedow è presente un aumentato uptake distribuito omogeneamente. Un’area localizzata di aumentata captazione con inibizione del restante parenchima, rivela la presenza di un adenoma autonomo. curva di captazione: riflette la captazione dello iodio, la sua organificazione ed il suo rilascio dalla tiroide. Sarà aumentata in caso di morbo di Basedow, e, sarà invece ridotta in caso di tiroidite sub-acuta in fase tossica o di assunzione di farmaci contenenti iodio e nella tireotossicosi factitia. È necessaria per valutare la dose da somministrare per la terapia radiometabolica. Nei pazienti geriatrici affetti da tireotossicosi è inoltre necessario eseguire una accurata valutazione cardiocircolatoria, anche con studio ecocardiografico, e della mineralizzazione ossea. Tali informazioni, nell’ipertiroidismo sub-clinico, sono necessarie per valutare l’opportunità del trattamento. Storia clinica dell’ ipertiroidismo sub-clinico. La maggioranza dei pazienti anziani che presentano TSH inibito con valori di FT3 e FT4 nei limiti, non svilup- 165 pano in seguito ipertiroidismo conclamato. In uno studio di Parle47, su 50 pazienti con TSH inferiore alla norma ma dosabile, 38 (76%), dopo 12 mesi, tornava ad avere il TSH nella norma e solo circa il 6% sviluppano una franca tireotossicosi. L’ipertiroidismo subclinico è associato ad una maggiore incidenza di fibrillazione atriale, di accidenti cerebrovascolari48, 49. Nello studio di Framingham, il 28 % dei pazienti affetti da ipertiroidismo subclinico presenta almeno un episodio di fibrillazione atriale nei 10 anni successivi, contro l’11% dei soggetti eutiroidei50. È stata dimostrata anche una ridotta tolleranza all’esercizio fisico con alterata funzione diastolica e diminuita performance sistolica51. Il Rotterdam study mostra una aumentata incidenza di demenza in soggetti con età superiore a 55 anni affetti da ipertiroidismo subclinico52. A livello osseo, determina, specialmente nelle donne, una riduzione del tono calcico53-55, tale danno migliora allorquando l’ipertiroidismo subclinico viene trattato56. Infine, Radacsi nel 2003 ha riscontrato che nei pazienti geriatrici affetti da patologie croniche, l’ipertiroidismo sub-clinico si associa ad una aumentata mortalità57. Screening. La diagnosi di tireotossicosi è frequentemente misconosciuta nei pazienti di età avanzata, poiché la sintomatologia è spesso atipica. Alcuni autori58 suggeriscono la valutazione della funzionalità tiroidea in tutti i pazienti geriatrici che necessitino il ricovero in ospedale per una qualsiasi patologia. Franklyn e Parle (2) considerando la mancanza di dati sul possibile impatto sulla mortalità/morbilità della terapia nella popolazione sottoposta a screening, concludono che l’esecuzione di uno screening in tutti i pazienti anziani è attualmente ingiustificata. D’altro canto, essendo opportuno eseguire almeno il dosaggio del TSH in quei pazienti che presentino calo ponderale, stato mentale alterato, cadute, depressione, osteoporosi, alterazioni dell’alvo, astenia, prurito, vertigini, tremori, sono ben pochi i pazienti anziani in cui tale accertamento non sia giustificato59. 166 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Terapia. Tutti i pazienti affetti da tireotossicosi conclamata devono essere trattati. Nei pazienti affetti da ipertiroidismo sub-clinico, la decisione di intraprendere una terapia, sarà valutata caso per caso, considerando le condizioni generali e la presenza delle possibili complicanze della malattia: fibrillazione atriale, calo ponderale, osteoporosi, miopatia, involuzione delle funzioni superiori. Terapia farmacologica: Il metimazolo e il propiltiouracile (non in commercio in Italia), inibiscono la captazione e l’organificazione dello iodio, riducendo quindi la produzione di T3 e di T4. Il propiltiouracile, inoltre, inibisce la conversione periferica del T4 a T3, per tale motivo sembrerebbe più indicato laddove si desideri la rapida remissione di una grave tireotossicosi60. La posologia iniziale deve essere calibrata in base all’eziologia e alla gravità dell’ipertiroidismo, al volume della ghiandola tiroidea e alle condizioni generali del paziente. Nel morbo di Basedow è indicato iniziare con 15-25 mg di metimazolo o 150250 mg di propiltiouracile, e, in caso di adenoma tossico, con 10-15 mg d metimazolo o 100-150 mg di propiltiouracile61. Poiché i farmaci inibiscono la sintesi, ma non il rilascio degli ormoni tiroidei già sintetizzati, vi è un periodo di latenza dell’effetto, in genere circa 10-15 giorni. La posologia andrà progressivamente ridotta, in base ai valori del FT3 e FT4, fino ad arrivare alla dose minore efficace: in alcuni casi sono sufficienti 2,5 mg di metimazolo. Il TSH si normalizzerà molto lentamente, anche dopo mesi dal raggiungimento di normali valori degli ormoni tiroidei. Una dose di mantenimento superiore ai 10 mg di metimazolo o ai 100 mg di propiltiouracile pone il sospetto di una cattiva compliance da parte del paziente. Nel morbo di Basedow la durata del trattamento deve essere almeno di 12-18 mesi62. La probabilità di remissione, nei soggetti anziani, è superiore al 50%. Fattori predittivi favorevoli sono un piccolo volume tiroideo, una rapida risposta alla terapia, una bassa dose di tionamidi necessaria a mantenere l’eutiroidismo63, 64. La recidiva della malattia alla sospensione della terapia o la necessità di alte dosi per mantenere l’eutiroidismo, pongono l’indicazione ad una terapia definitiva. Riteniamo che nei pazienti che necessitano di una dose minima per conservare l’eutiroidismo, è indicato continuare la terapia a vita, controllando i valori di FT3, FT4 e TSH, dapprima ogni 2 mesi poi ogni 4-6 mesi65. Nel gozzo multinodulare tossico, la terapia farmacologia, sebbene non determini la guarigione, è indicata nei pazienti che rifiutano la terapia definitiva o che abbiano una attesa di vita breve (2). Gli effetti collaterali sono rari (3,4)66. In meno del 1% dei soggetti può comparire agranulocitosi, solitamente nelle prime settimane del trattamento e con dosi elevate. È buona norma avvertire il paziente, al momento della prescrizione, di sospendere immediatamente l’assunzione del farmaco in caso di comparsa di febbre e mal di gola. Altri effetti collaterali sono: vasculite, epatite, neurite, colestasi, rash cutaneo, prurito (1). Nel periodo di latenza della terapia farmacologica, per ridurre rapidamente la frequenza cardiaca, possono essere impiegati i beta bloccanti. Tali farmaci andranno prescritti con particolare cautela nei pazienti affetti da scompenso cardiaco e broncopatia cronica ostruttiva. I farmaci preferiti sono: il propanololo che però necessita di ripetute somministrazioni quotidiane (20 mg ogni 8 ore), l’ atenololo (50 mg die) e il nadololo 40-80 mg). Non vi sono controindicazioni alla terapia anticoagulante per la fibrillazione atriale. Per limitare la possibilità di recidive, la cardioversione deve essere tentata solo una volta raggiunto l’eutiroidismo. Terapia radiometabolica: I vantaggi della terapia radiometabolica sono la facilità della somministrazione, l’unicità del trattamento, la quasi assenza di effetti collaterali (alcuni pazienti lamentano dolore alla gola o senso di tensione), l’assenza di rischio neoplastico (1). Nei pazienti affetti da un ipertiroidismo severo, è consigliabile una preparazione con tionamidi, da sospendere 5-7 giorni prima di somministrare lo 131I, per evitare la tempesta tiroidea che potrebbe essere P. Zuppi, E. Fidotti: Tireotossicosi, ipertiroidismo e ipertiroidismo subclinico nell’anziano scatenata dal rilascio di ormoni preformati dovuta dalla distruzione tissutale. Poiché l’effetto dello 131I, si instaura lentamente, nei pazienti con grave ipertiroidismo, è consigliabile riprendere la terapia tireostatica dopo 5-7 giorni dal trattamento. Vi sono molti protocolli che suggeriscono come determinare la dose di 131I più opportuna per ogni paziente. Sempre più centri prescrivono una dose tale da essere sicuramente efficace in un’unica somministrazione, anche se a rischio di provocare ipotiroidismo nel tempo67. Nei primi tempi dopo la terapia, è opportuno controllare i valori ormonali ogni 4-6 settimane per sospendere progressivamente le tionamidi. Se dopo 6 mesi dal trattamento vi è ancora ipertiroidismo, bisogna ripetere la terapia. Poiché circa l’80% dei pazienti trattati diventa ipotiroideo, anche a distanza di anni, è opportuno monitorizzare i valori ormonali. Terapia chirurgica: In considerazione degli aumentati rischi operatori nei pazienti anziani, la terapia chirurgica appare indicata solo in presenza di voluminoso gozzo plurinodulare tossico che determini sintomi compressivi e/o nella sospetta coesistenza di una neoplasia. I pazienti devono essere riportati all’eutiroidismo con una preparazione con tionamidi per ridurre i rischi di tempesta tiroidea dovuta al maneggiamento operatorio della ghiandola (3,4). È stata proposta una preparazione rapida con steroidi, acido iopanoico, tionamidi e betabloccanti68. I vantaggi della terapia chirurgica sono la guarigione definitiva, la facilità con cui si determina la corretta posologia della terapia sostitutiva, la scomparsa del rischio neoplastico69, 70. L’ amiodarone interagisce con la funzionalità tiroidea a numerosi livelli: apporto iodico esagerato, alterazione dell’attività delle desiodasi (provocando il modesto aumento del TSH che spesso si osserva in questi pazienti)71, 72, apoptosi delle cellule tiroidee73, 74 con danno parenchimale, produzione di anticorpi antitiroidei75, inibizione del recettore per gli ormoni tiroidei76. 167 Una vera tireotossicosi si manifesta nel 2-12% dei pazienti in terapia con amiodarone, con un rapporto maschi/femmine 3:1 77 , potendo esordire fino a 3-6 mesi dalla sospensione del farmaco. Sono state descritte due forme di tireotossicosi in corso di terapia con amiodarone78: TIPO I: in pazienti con precedenti disordini tiroidei, espressione di una incapacità di adattamento al carico di iodio. Questi pazienti hanno la IL-6 normale o poco elevata, una ghiandola ipervascolarizzata79, il decorso è protratto; TIPO II: in assenza di anormalità tiroidee, espressione di un processo distruttivo con dismissione in circolo di ormoni preformati, spesso seguito da ipotiroidismo. In questi pazienti, la IL-6 è elevata, la ghiandola è poco vascolarizzata, il decorso è solitamente transitorio. Ma le due forme cliniche espressione del prevalente meccanismo del danno, sono spesso indistinguibili. I pazienti in terapia con amiodarone, presentano frequentemente alterazioni dei valori ormonali che però, spesso, non necessitano alcun provvedimento terapeutico. Non dovranno infatti essere corretti farmacologicamente né un modesto aumento del FT4, né una moderata riduzione del FT3, né un limitato incremento del TSH all’inizio della terapia, né la modesta riduzione del TSH che può comparire con l’assunzione cronica di amiodarone. In caso di riscontro di ipertiroidismo franco, è opportuno chiedere al cardiologo curante di valutare la possibilità di sospendere il farmaco. La sospensione, comunque, non determina una remissione rapida dell’ipertiroidismo. Purtroppo, frequentemente non sarà possibile l’interruzione, poiché l’amiodarone, in alcuni pazienti, sembrerebbe l’unico farmaco in grado di controllare aritmie potenzialmente mortali. Nei pazienti affetti da ipertiroidismo di Tipo I è indicato il METIMAZOLO, alla dose di 10-30 mg, o il PROPILTIOURACILE, 100-300 mg. In casi particolarmente impegnativi può trovare indicazione il PERCLORATO DI POTASSIO alla dose di 400-1000 mg die. Tale farmaco ha come possibili effetti collaterali l’anemia apla- 168 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 stica e l’agranulocitosi. Nei pazienti affetti da ipertiroidismo di Tipo II è indicata una terapia steroidea: PREDNISONE 25-75 MG per 8-10 settimane, magari in associazione con l’ ACIDO IOPANOICO80. Spesso comunque ci troviamo di fronte a forme miste o difficilmente inquadrabili, in cui, dobbiamo fare ricorso a più farmaci: Tionamidi + perclorato di potassio + steroidi. In presenza di un voluminoso gozzo, di un ipertiroidismo resistente e nella necessità di prosecuzione della terapia con amiodarone, può essere indicata la tiroidectomia81. La preparazione rapida all’intervento può essere fatta con 1 grammo di acido iopanoico al giorno82. Il recupero una volta raggiunto l’eutiroidismo, dipende, non solo dalla durata e dalla gravità della tireotossicosi, ma anche dalle condizioni generali del paziente che, spesso nell’anziano affetto da patologie multiple, sono scadenti. A livello osseo, contrariamente che nei pazienti più giovani, dopo la correzione della tireotossicosi, non si è osservato recupero della densità83. Non abbiamo dati sull’evoluzione del danno cardiaco in età geriatrica, ma, in popolazioni più giovani dopo il trattamento assistiamo ad un miglioramento delle lesioni ecocardiografiche84, 85. Riteniamo quindi doveroso instaurare precocemente il trattamento più adeguato affinché i danni non si instaurino. Bibliografia 1. Davies TF, Larsen PR. Thyreotoxicosis, in Larsen PR, Kronenberg HM, Melmed S, et al. Williams text book of endocrinology. Tenth edition. Philadelphia, Saunders, 2003; 374-421 2. Franklyn J, Parle J. Hyperthyroidism-aging. In Blackman M. (Ed) Endocrinology of Aging. www.endotext.org 3. 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Nel 1998 fu sequenziato interamente il genoma di T.pallidum: fra le regioni studiate, la famiglia di geni TprK si è rivelata particolarmente interessante, in quanto codifica proteine di superficie verso cui è diretta la risposta anticorpale ed è caratterizzata da elevata variabilità, il che costituisce un meccanismo di immunoevasione del germe. Le molteplici tecniche per il dosaggio degli anticorpi, vecchie e nuove, sono passate in rassegna, soprattutto in relazione alle diverse situazioni cliniche o condizioni particolari di applicazione: diagnosi dell’infezione acquisita, lue congenita, neuro lue, screening dei donatori, confezione con altre infezioni sessualmente trasmesse. Sono anche delineate le possibili applicazioni in futuro delle nuove metodologie bio-molecolari, oggi appannaggio di pochi laboratori e di situazioni limitate. Abstract – Syphilis is still a great problem of public health in the world: over 12 million cases/year of infectious disease are estimated to occur worldwide, the vast majority within developing countries. In 1998 the genoma of Treponema pallidum was sequenced; a family of TprK genes encode surface antigenic proteins and antibodies to TprK variable regions and are protective. Antigenic variations through gene conversion has been hypothesized to be a mechanism of escape immune surveillance by T.pallidum. The serological detection of specific antibodies is of particular importance in the diagnosis of syphilis: this paper evaluates and new tests, current conventional techniques, automated immunoassays, confirmatory test, such immunoblotting and the perspectives of PCR and other bio-molecular assays in screening of acquired disease, in healthy blood donors, in diagnosis of maternal and congenital syphilis, in comorbidity with STDs, in neurosyphilis. Introduzione La sifilide è un’infezione cronica trasmessa perlopiù per via sessuale, che può divenire sistemica, provocata da Treponema pallidum, sottospecie Palli- dum, caratterizzata da episodi di malattia attiva alternati a periodi di latenza. Queste sono le fasi dell’infezione e della malattia: – INCUBAZIONE, 2-6 settimane – LESIONE PRIMARIA, in sede di con- F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica tagio e di contatto sessuale, spesso con adenopatia satellite concomitante – STADIO SECONDARIO, caratterizzato da batteriemia, lesioni mucocutanee generalizzate e linfadenite diffusa – INFEZIONE LATENTE, subclinica, che può durare anni e che sfocia, in 1/3 dei casi, senza terapia o con terapia inadeguata, nello – STADIO TERZIARIO, con lesioni mucocutanee, muscoloscheletriche e parenchimali, progressive e distruttive, a carico soprattutto dell’aorta e del sistema nervoso centrale. T.pallidum appartiene alla famiglia delle Spirochetales, che include 3 generi patogeni per l’uomo: Leptospira, responsabile della leptospirosi umana, Borrelia, a cui si imputa la febbre ricorrente e la malattia di Lyme e Treponema, al cui genere appartengono: T. Pallidum sottospecie pallidum, agente eziologico della sifilide venerea, pallidum sottospecie pertenue, che causa la framboesia e pallidum sottospecie endemicum responsabile del Bejel. Altro patogeno per l’uomo è il Treponema carateum, che provoca il mal del Pinto. Vi sono poi numerosi altri treponemi di specie non patogene che possono essere isolati dal cavo orale, dal tratto gastrointestinale e dalla mucosa genitale. T.pallidum è un microrganismo sottile, provvisto di 6-14 spire, lungo 6-15 μm e largo 0.2 μm; numerosi endoflagelli si avvolgono attorno al corpo cellulare e contribuiscono alla motilità del batterio. La risposta immunitaria umorale è principalmente diretta verso antigeni della membrana esterna codificati dal gene Tprk, le cui eventuali mutazioni, con la sintesi di proteine differenziate, sono un sistema di evasione immunologica del batterio, di sua persistenza nell’ospite e dunque di non eradicazione (progressione) dell’infezione o reinfezione1. Molti mammiferi possono essere infettati da T.pallidum, ma solo l’uomo, i primati superiori e pochi animali di laboratorio sviluppano le lesioni luetiche. Nessun ceppo è mai stato coltivato con successo: ceppi virulenti (Nichols, Gand) vengono cresciuti e conservati per inoculazione nei testicoli di coniglio e possono 173 crescere anche in colture in vitro di cellule epiteliali dello stesso animale. Pertanto per la diagnosi di routine sono necessari test alternativi, come quelli sierologici e, in prospettiva, molecolari. La quasi totalità dei casi di sifilide consegue a contatto venereo con lesioni infettanti (sifiloma, placche mucose, esantema cutaneo, conditomi piani); più rare, ma possibili e documentate sono le infezioni per contatti intimi non sessuali, le infezioni intrauterine e da trasfusione ematica. Epidemiologia La situazione epidemiologica oggi è tale che, da malattia quasi dimenticata e sulla via di essere ritenuta “obsoleta”, soprattutto nel mondo occidentale e nei contesti sociosanitari più organizzati, si è ripresentata negli ultimi lustri in modo anche prepotente: hanno concorso a questo diversi fattori, quali l’abbassamento della soglia di attenzione e sorveglianza, flussi migratori da paesi ove l’infezione non è mai scomparsa, l’associazione con altre infezioni sessualmente trasmesse (STD), specie in individui defedati, immunodepressi e con comportamenti a rischio, la minor conoscenza dei quadri clinici da parte delle nuove generazioni di medici. Tutto questo si è tradotto in 12 milioni di nuovi casi nel mondo nel 2008. Negli USA il numero di casi di sifilide, che passò da 57.000 nuovi casi del 1943 a 31.500 del 2000, tuttavia con picchi epidemici, come nel 1990, che interrompevano il trend in discesa, ha ripreso ad aumentare dal 1997 dapprima nelle grandi città (Seattle, Washington, Los Angeles, San Francisco) e poi anche nelle aree extraurbane, soprattutto negli stati del sud tra gli ispanici. I gruppi più a rischio sono gli omo ed eterosessuali affetti da altre STD (specie AIDS2), soggetti appartenenti a strati sociali con scadenti condizioni igieniche, utilizzatori di crack e cocaina che si procurano la droga in cambio di prestazioni sessuali. Il tasso nazionale è di 2.6 casi/100.000 abitanti, con un incremento nel 2001-2 del 12% rispetto all’epoca preAIDS3. 174 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Negli USA l’incidenza della sifilide congenita è strettamente correlata all’aumento dell’infezione nel sesso femminile: si è così passati dai 107 casi del 1978 ai 4424 del 1991; l’attuazione di programmi di controllo e prevenzione nelle donne ha ridotto il numero di infezioni congenite neonatali a 529 nel 2000 con trend attualmente in lieve, costante diminuzione. A seguito di questa nuova situazione epidemiologica, in molti stati degli USA sono state adottate misure preventive sul modello di quelle già in atto in diversi paesi europei, come l’Italia e con criteri e obiettivi analoghi: l’elevata contagiosità della lue (il 50% di coloro che hanno rapporti con luetici si infetta a sua volta), detta come buona prassi di identificare ed eventualmente trattare tutti i contatti recentemente esposti quale misura fondamentale per il controllo epidemiologico dell’infezione; pertanto per l’identificazione delle persone infette si applicano i test sierologici alle donne in gravidanza, ai ricoverati in regime ospedaliero, alle reclute militari, a chi entra nel mondo del lavoro, nell’ambito di generici protocolli di screening. In alcuni stati americani i test vengono eseguiti prima del matrimonio e su indicazione delle compagnie assicurative. Nell’est europeo la situazione epidemiologica da metà degli anni ’90 a oggi vede un incremento drammatico con numero di nuovi casi l’anno oggi superiore di 4-5 volte rispetto a 15 anni fa in Russia, Ucraina, Bulgaria, Lettonia, Kazakistan e addirittura maggiore in Romania: oggi l’incidenza supera i 200 casi/100.000 abitanti, ma si sono avuti episodi epidemici come quello del 2003 che hanno portanto l’incidenza a 900 casi/100.000 abitanti, specie in Bielorussia, Ucraina e Romania. Le ragioni socio-sanitarie di questo fenomeno dovrebbero essere attentamente analizzate, tenendo anche conto dei rivolgimenti politici e organizzativi che si sono verificati; da un punto di vista microbiologico è stata evidenziata in questi paesi la circolazione di ceppi mutanti e resistenti alle terapie convenzionali, che possiamo rintracciare anche negli immigrati in occidente, ove la malattia incide maggiormente rispetto alle popolazioni autoctone. In Africa la lue incide maggiormente tra le donne (55-60%), con valori compresi fra 337-424 casi/100.000 abitanti nelle zone del maghreb, 1233-1539 casi/100.000 abitanti nei paesi subsahariani: valori questi ultimi 15 volte superiori a quelli dell’Europa occidentale; complessivamente nel continente africano riscontriamo 1/3 di tutti i casi del pianeta, in alcuni paesi del sud è colpito il 10% della popolazione con frequente associazione lue-AIDS4. In Asia la sifilide sta divenendo una vera piaga sociale in alcuni contesti, come le prostitute, ove assistiamo ad incrementi annui del 300% in Cina, Thailandia e Bangladesh e la coesistenza con altre STD in 1/3 dei casi. In Italia, così come in altri paesi dell’Europa occidentale, il numero di nuovi casi segnalati l’anno, anche tra gli autoctoni, è in aumento, soprattutto nell’ultimo decennio (321 notifiche nel 1999, 793 nel 2002, 1345 nel 2004, con picchi d’incidenza nel Lazio, Lombardia ed Emilia, incremento del 400 % negli ultimi 5 anni, tant’è che oggi la sifilide rappresenta il 12% di tutte le infezioni a trasmissione sessuale), particolarmente fra gli omosessuali e nel mondo della prostituzione ma senza una evidente associazione con l’AIDS o altre STD, come negli USA. Nel nostro paese il 90% dei pazienti affetti da sifilide o altre STD è eterosessuale, il 60% sono uomini, il 15% non è italiano, il 21% ha avuto o ha un’altra infezione sessuale5. Patogenesi e reazione immune Alcune recenti acquisizioni di patogenesi hanno contribuito a chiarire la dinamica dell’infezione. È stato calcolato che la malattia può essere contratta con un inoculo medio di 500-1000 microrganismi, anche se per molti infettivologi ne basterebbero molti di meno. Durante le fasi di batteriemia, ad esempio dopo la penetrazione del batterio attraverso la cute o le mucose, nel periodo d’incubazione e durante la disseminazione emolinfatica, il sangue del soggetto infettato è contagioso. F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica La reazione immunitaria della sifilide primaria, in sede di lesione, è prevalentemente cellulare, con macrofagi in grado di fagocitare e talora neutralizzare i treponemi, linfociti Cd4+ e Cd8+ che producono citochine di tipo 1 (γ-interferon), plasmacellule6. I linfociti T sono implicati sin dall’infezione primaria nella clearance dei batteri e alcuni antigeni codificati dai geni TprK sono potenti bersagli della risposta immune. Nelle lesioni delle fasi successive, accanto a questi elementi, riscontriamo proliferazione dell’endotelio capillare, intervento di neutrofili e fibroblasti da cui dipende la formazione di tessuto fibrotico più o meno accentuata. La progressione verso la fase secondaria si accompagna comunque ad uno switch →Th2, con incompleta eliminazione del batterio7. Gli anticorpi anti TprK sono diretti verso epitopi delle regioni variabili e, in alcuni modelli animali (coniglio) si dimostrano opsonizzanti e possono conferire un’immunità protettiva: quanto tutto questo sia trasferibile nell’infezione umana è ancora oggetto di dibattito e pertanto la sintesi di vaccini su queste basi ancora lontana. Non si conoscono appieno le ragioni per cui la malattia può evolvere con la comparsa delle manifestazioni della fase secondaria: ciò è presumibilmente da ricondurre anche alla variazione degli antigeni espressi in superficie e quindi a quei meccanismi di immunoevasione del batterio, cui accennavamo in precedenza8. Il passaggio dalla forma latente alla sifilide terziaria, in epoca antibiotica, è raro; nei paesi industrializzati è descritto in soggetti immunodepressi, soprattutto confetti lue/HIV, ove predominano i casi di interessamento neurologico rispetto all’aortite. Lo sviluppo della forma terziaria è sicuramente legato ad una risposta immunologica alterata, ma gli intimi meccanismi sono ancora sconosciuti. Nei paesi in via di sviluppo e là ove è ancora difficile l’accesso alle cure, il 30% dei pazienti con lue non trattata sviluppa i segni clinicopatologici della forma terziaria e 1/4 di essi muore di tale patologia. 175 Cenni di clinica e di diagnosi differenziale Le lesioni genitali che più spesso devono essere differenziate da quelle della sifilide primaria sono quelle provocate da herpes simplex primario o recidivante genitale, quelle provocate da Haemophilus Ducreyi (ulcera venerea o cancroide o molle), quelle provocate da Calymmatobacterium granulomatis (donovanosi o granuloma inguinale o granuloma venereo), le lesioni traumatiche9, 10. Il tipico sifiloma è di norma una papula isolata, non dolente, che va rapidamente incontro a erosione; di solito appare dura, con una caratteristica consistenza cartilaginea alla palpazione dei bordi e della base dell’ulcera. Quasi costante è l’adenopatia satellite bilaterale: i linfonodi sono duri, non fluttuanti, non dolenti. Lesioni atipiche si hanno in soggetti immunodepressi (HIV+) e con alte cariche batteriche: precoce è l’ulcerazione o la presenza di lesioni multiple11. Nella sifilide secondaria12 compaiono lesioni mucocutanee localizzate o diffuse, simmetriche, con linfoadenopatia generalizzata non dolente. L’eruzione cutanea consiste in macule, papule, pustole spesso concomitanti, perlopiù al tronco e alle braccia, simmetriche, non dolenti e non pruriginose, con possibile evoluzione necrotica se accompagnate da un’endoarterite progressiva. Nel 10% dei casi le lesioni ai genitali si ulcerano (conditomi piani) e sono altamente contagiose. Compaiono sintomi generali e, anche in assenza di segni neurologici, nel 30% dei casi vi sono anomalie del liquor, con incremento di proteine e cellule. Fra gli organi più frequentemente coinvolti in corso di sifilide, soprattutto nella fase secondaria, vi è il fegato: l’interessamento è di solito asintomatico, ma almeno il 25% dei pazienti luetici presenta test di funzionalità epatica alterati, così come, in corso di epatite virale cronica, si hanno false positività alle sierodiagnosi per la lue. L’epatite franca sifilitica si caratterizza per l’insolito incremento della fosfatasi alcalina; solo il quadro istologico da biopsia può dirimere i dubbi diagnostici da 176 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 un’epatite virale, evidenziando una moderata flogosi con infiltrato pluricellulare di linfociti e granulociti, alterazioni aspecifiche degli epatociti e assenza di colestasi. Per quanto riguarda la sifilide latente, la diagnosi viene posta in presenza di un test treponemico positivo, esame del liquor negativo e assenza di manifestazioni cliniche in atto; aiutano ovviamente i dati anamnestici di pregresse lesioni primitive o secondarie, esposizione al contagio, una gravidanza che abbia dato esito ad un bambino affetto da lue congenita. Le donne gravide con sifilide latente possono infettare il feto in utero. Una sifilide trasfusionale può essere trasmessa anche da soggetti con lue latente da molti anni. Nella sifilide latente distinguiamo una forma precoce, che copre il 1° anno dopo l’infezione e una tardiva, che inizia successivamente ed è relativamente immune a ricadute. L’evoluzione di quest’ultima non trattata può essere: 1) persistenza dell’infettività per tutta la vita; 2) sviluppo di lue tardiva; 3) guarigione spontanea (infrequente) con test treponemici che raramente si negativizzano. Il 25% dei pazienti con sifilide latente tardiva non trattata è a rischio di complicanze neurologiche: le forme asintomatiche si diagnosticano, in laboratorio, mediante esame del liquor (pleiocitosi mononucleare, > 5 leucociti /ml, proteine > 45 mg/dl) e mediante la sierologia per lue (positività di uno o più test). Talora è possibile riscontrare il DNA treponemico nel liquor mediante PCR. Questi pazienti vanno identificati e trattati, poiché il 20% svilupperà entro dieci anni una forma clinicamente manifesta, quota che successivamente aumenta con il passare degli anni. La probabilità di sviluppare una neurolue sintomatica è direttamente proporzionale alle alterazioni liquorali (tanto maggiore è la pleiocitosi e la proteinorrachia, tanto più frequenti e precoci sono le manifestazioni neurologiche) e al titolo di anticorpi anti t.pallidum presenti nel siero13. Soprattutto in passato, i quadri clinici più frequenti della neurosifilide sintoma- tica erano: la lue meningea, che si sviluppava entro un anno dall’infezione; la lue meningovascolare, entro 5/10 dall’infezione; la lue parenchimatosa, che poteva manifestarsi come paralisi progressiva, a 20 anni dall’infezione o come tabe dorsale, anche a 25/30 anni dall’infezione. Oggi assistiamo a quadri misti, sfumati o incompleti, specie nei pazienti trattati in modo più o meno adeguato14. Altre manifestazioni della sifilide tardiva sono a carico dell’apparato cardiovascolare (aortite semplice, lesioni della valvola aortica con successiva insufficienza, aneurisma sacciforme dell’aorta ascendente, più di rado addominale, non dissecante e la stenosi dell’ostio coronarico) e le cosidette gomme: trattasi di lesioni granulomatose che possono colpire la cute, le ossa e qualunque viscere, perlopiù da 10 a 40 anni dall’infezione; il quadro istologico non è tipico e si rende necessaria la diagnosi differenziale con altre lesioni granulomatose (tubercolosi, lebbra, sarcoidosi, micosi). Sono comunque fondamentali i test sierologici, il riscontro del DNA batterico mediante PCR e l’impiego della terapia specifica: la penicillina determina una rapida guarigione o remissione delle lesioni gommose attive. Un discorso a parte merita la sifilide congenita. La trasmissione di t.pallidum da una donna luetica al feto attraverso la placenta si può verificare in qualunque momento della gravidanza, ma le tipiche lesioni della lue congenita si hanno dopo il IV mese di gestazione, quando il sistema immunitario del feto comincia a svilupparsi: ciò induce a pensare che la malattia luetica fetale dipenda più da una risposta immunitaria deviata o iperattiva che da un effetto tossico diretto del batterio. Il rischio di trasmissione va dal 35% nei casi di lue materna datati da almeno due anni, al 75-95% per i casi recenti non trattati; la terapia antibiotica instaurata prima della 16° settimana di gravidanza riduce quasi del tutto il rischio. I quadri clinici osservabili più frequentemente vanno dall’aborto alla nascita di feti morti, alla prematurità, alla morte neonatale fino alle manifestazioni della lue congenita non letale; fra queste distinguiamo forme precoci, entro F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica i primi 2 anni di vita, contagiose; tardive, dopo i due anni di vita, non contagiose; le stimmati residue a distanza15. Il problema clinico più comune è quello di un neonato apparentemente sano nato da madre con test sierologici positivi; la sierologia della lue rientra tra gli esami di routine in gravidanza, da ripetere al 3° trimestre e al momento del parto nelle zone ad elevata incidenza di malattia e nelle donne ad alto rischio. T.pallidum può essere isolato, per inoculazione nel coniglio, dal liquor di neonati infetti prima del trattamento terapeutico; la sensibilità del test, comunque indaginoso, è molto bassa (non più di un quarto dei casi) e anche in questo campo dovranno essere affinate e applicate metodiche molecolari. La diagnosi differenziale deve comunque essere posta rispetto ad altre lesioni congenite, quali quelle da rosolia, HSV, cytomegalovirus, toxoplasmosi e all’eritroblastosi. Antigeni treponemici e applicazioni diagnostiche in laboratorio Il genoma di T.pallidum è stato completamente sequenziato nel 1998; sono state studiate diverse famiglie di geni, come la TprJ, di solito ben conservata e a bassa eterogeneità16, ma soprattutto la famiglia di 12 geni chiamata Tpr, fra cui TprK regola la sintesi di quelle molecole, nell’ambito di oltre 40 antigeni di superficie17, verso cui è diretta nell’uomo la risposta anticorpale: questa famiglia presenta un’altissima eterogeneità ed è soggetta a frequenti mutazioni. L’eterogeneità di TprK è localizzata in 7 regioni variabili18 e ne esitano sostituzioni di aminoacidi, inserzioni o delezioni19, con grado differente di variabilità a seconda dei ceppi. Queste modificazioni si verificano durante la storia naturale dell’infezione, nel corso della quale T.pallidum modula (modifica) la trascrizione di questi geni: ceppi batterici differenti esprimono i geni stessi in modo diverso20. Solo tre antigeni sono utilizzati (o lo sono stati in passato) per la ricerca diagnostica: – antigene lipoideo aspecifico 177 – antigene proteico di gruppo – antigene polisaccaridico specie-specifico. Antigene lipoideo aspecifico. Viene estratto dal cuore di bue (da qui il nome di cardiolipina): è un difosfolipide che diviene attivo dopo aggiunta di lecitina e colesterolo; gli anticorpi anti-cardiolipina prendono il nome di reagine. È presente sulla superficie di t.pallidum ma anche di treponemi non patogeni e diversi epitopi sono stati trovati in antigeni della più varia provenienza; pertanto un test positivo verso la sola cardiolipina non ci permette di fare diagnosi di lue con certezza e numerose sono le false positività (persistenti o transitorie) che si possono riscontrare in condizioni fisiologiche e patologiche: gravidanza, tossicodipendenza, mononucleosi infettiva, polmonite da mycoplasma, linfogranuloma venereo, tubercolosi, lebbra, linfomi, LES, artrite reumatoide, età avanzata. I test che utilizzano questo antigene sono detti “reazioni non treponemiche”: reazione di Wasserman, VDRL, RPR e variante automatizzata: Visuwell Reagin. Antigene proteico di gruppo. È ricavato dal ceppo coltivabile di Reiter (il ceppo Nichols ne fornisce quote esigue), è comune al t.pallidum e ad altri treponemi patogeni o saprofiti, ma presenta un’alta specificità e pertanto costituisce un gradino diagnostico superiore rispetto alle reazioni non treponemiche, soprattutto là dove si abbia una risposta falsamente positiva o sospetta tale. Fornisce indicazioni utili anche nei casi di test non treponemici negativi, ma con segni clinici di sifilide tardiva. Le reazioni che utilizzano questo antigene sono dette “treponemiche” e si tratta di varianti della classica Wasserman: RPCF, reazione di Wasserman-Kolmer. Antigene polisaccaridico di gruppo. È stato estratto da t.pallidum, dal ceppo di Reiter e altri treponemi, ma è differente nelle varie specie e pertanto viene considerato specie-specifico. Il primo antigene fu ottenuto da una sospensione di treponemi cresciuti su testicoli di coniglio; oggi si impiegano prevalentemente antigeni ricombinanti ed esistono metodi 178 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 per eliminare, mediante adsorbimento, antigeni polisaccaridici di altri treponemi, come nell’ FTA-ABS, elevando la specificità della reazione. Anche questi test sono considerati di tipo “treponemico”: TPI, FTA-ABS, TPHA, ricerca IgG e IgM specifiche mediante immunoenzimatica e chemiluminescenza. Diagnostica di laboratorio della sifilide: il passato Reazione di Wasserman. Mette in evidenza la presenza di reagine mediante una reazione di fissazione del complemento: come sistema rivelatore si impiega una sospensione di emazie di montone ed emolisine anti globuli rossi. La reazione si positivizza dopo 40 giorni dal contagio e si negativizza rapidamente dopo terapia. La classica reazione di Wasserman fu modificata da Kolmer nel 1942 utilizzando cardiolipina diluita e facendo avvenire la reazione a freddo - 4° - e con un’incubazione più lunga, overnight. Ultima variante è stata la RPCF – Reiter protein complement fixation test -, che impiega la stessa metodica e lo stesso principio della Wasserman classica, ma l’antigene utilizzato non è più la cardiolipina ma l’antigene proteico di gruppo, così aumentando specificità e sensibilità del test. TPI (treponema pallidum immobilization test). Fu introdotto nel 1949 da Nelson e Meyer, che riuscirono a coltivare e a sviluppare i treponemi su testicoli di coniglio, ove tra l’altro conservavano la propria mobilità; cimentando i microrganismi con il siero del paziente, nel caso che in esso fossero stati presenti anticorpi, che sono di tipo “immobilizzante”, in seguito all’infezione e alla reazione con l’antigene treponemico polisaccaridico, si aveva come conseguenza una perdita totale o parziale di mobilità dei treponemi; l’effetto era svelato al microscopio in campo oscuro e quando la percentuale di microrganismi immobilizzati superava il 50%, il test era ritenuto positivo. Questa prova è molto specifica ma relativamente sensibile: infatti solo dopo due mesi dal contagio si può registrare la positività. Il TPI è comunque stato abbandonato quasi ovunque (un re- lativo utilizzo permane negli USA) per l’alta pericolosità di manipolare treponemi vivi. Diagnostica di laboratorio della sifilide: il presente VDRL (Veneral disease research laboratory test). È una tecnica di microflocculazione: le reagine presenti nel siero della persona infetta si legano ad un aptene lipidico della superficie dei treponemi e coeso in vitro di solito a particelle di latice, aptene che diviene un antigene completo unendosi a lecitina e colesterolo sierici. È un test semplice, di basso costo ma molto aspecifico: infezioni acute e croniche e malattie autoimmuni danno luogo a numerosi falsi positivi; negli USA tuttavia è considerato il test di riferimento su liquor. RPR (Rapid plasma reagin test). È una tecnica di microagglutinazione: la reazione avviene fra le reagine eventualmente presenti nel siero e l’antigene lipoideo adeso a particelle di carbone. Come la VDRL è a basso costo ma presenta gli stessi problemi di aspecificità. La variante automatizzata dell’ RPR è la Visuwell Reagin, test in ELISA su micropiastra, i cui pozzetti sono coattati con cardiolipina, lecitina e colesterolo; il sistema di rilevazione consiste in Ig umane anti-reagine coniugate a fosfatasi alcalina e successivo impiego di substrato e stoppante. TPHA (Treponema pallidum haemoagglutination assay). Fu introdotto da Rathlev nel 1965: la reazione avviene tra gli anticorpi presenti nel siero del soggetto infettato e gli antigeni adesi sulla superficie di emazie, provocando un’emoagglutinazione evidente. Nei primi tempi le emazie provenivano da animali sensibilizzati con estratti di t.pallidum ceppo Reiter, oggi gli antigeni sono legati alla superficie dei globuli rossi mediante manipolazione molecolare su scala “industriale”. Utilizzando diluizioni del siero, il test può essere reso quantitativo: un titolo significativo è = o > 1/160. Il TPHA è largamente usato in Europa, ma è poco diffuso negli USA. FTA-ABS (Fluorescent treponemal 179 F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica antibody – absorption test)21. Fu introdotto nel 1957 da Decon: è un classico test di immunofluorescenza indiretta, che prevede l’utilizzo di treponemi uccisi prefissati su un vetrino: il corpo batterico mantiene gli antigeni immunologicamente efficienti. Nel 1964 Hunter modificò la metodica rendendola ancora più specifica: il siero del paziente viene pretrattato mediante adsorbimento con estratto di treponema di Reiter, in modo da neutralizzare gran parte degli antigeni non di treponema pallidum. L’utilizzo di antisieri specifici per le catene γ e μ permette di evidenziare separatamente anticorpi IgG e IgM e di fornire una valutazione della fase di attività della malattia. FTA-ABS diviene positivo già 20 giorni dal contagio, quando le altre prove sono tutte perlopiù negative; rimane positivo praticamente per tutta la vita, con riduzione del titolo anticorpale. Il test non è pericoloso, poiché si lavora con microrganismi uccisi e fissati. Ricerca anticorpi anti-treponema pallidum di classe IgG e IgM mediante ELISA e chemiluminescenza22, 23. Queste metodiche, oggi largamente impiegate, presentano diversi vantaggi: elevata sensibilità e specificità; possibilità di distinguere le varie classi anticorpali – IgG e IgM -, queste ultime previa separazione o con metodi a “cattura”; le metodiche sono completamente automatizzabili ed eseguibili in micrometodo; le interferenze del fattore reumatoide e degli immunocomplessi sono notevolmente ridotte o annullate; gli antigeni impiegati sono altamente purificati e standardizzati e consistono oggi in lisati batterici o molecole ricombinanti. Nella tabella n. 1 abbiamo riportato la sensibilità, nelle varie fasi della sifilide, dei test treponemici e non: è evidente la superiorità dei primi soprattutto nella fase terziaria. A questo punto della trattazione è doverosa una pausa per focalizzare l’attenzione su un problema oggi d’attualità e non privo di implicazioni cliniche e diagnostiche peculiari: la confezione sifilide – HIV. Le due infezioni frequentemente coesistono nello stesso paziente: lesioni luetiche ulcerative dei genitali sono fattori di rischio e di trasmissione per HIV, specie tra gli omosessuali maschi sessualmente Tabella 1 – Sensibilità dei test treponemici e non treponemici nelle diverse fasi della sifilide. Da: Larsen SA. Clin Microbiol Rev 8:1, 2005 Test non Treponemici Treponemici Sifilide primaria Sifilide secondaria Sifilide latente Sifilide terziaria 74-87% 100% 88-100% 37-94% 70-100% 100% 100% 95% attivi e nei paesi con scadenti condizioni igieniche. Le manifestazioni della sifilide possono essere diversificate nei pazienti confettati da HIV: ad esempio, sono più frequenti le forme neurologiche ed anche le recidive dopo terapia; tuttavia, studi controllati hanno dimostrato che la risposta terapeutica è uguale nei soggetti con lue precoce, con o senza HIV, mentre nelle forme di sifilide più avanzata il fallimento terapeutico è più frequente nei soggetti coinfettati. La sierologia per la lue non sembra differire a seconda della presenza o meno della coinfezione, ma negli HIV+ il titolo anticorpale scende più lentamente. I soggetti con recente diagnosi d’infezione da HIV devono essere sottoposti a indagini per la sifilide; d’altro canto, a tutti i pazienti con nuova diagnosi di sifilide deve essere offerto il test per HIV. Immunoblot24, 25, 26. Antigeni treponemici vengono separati mediante migrazione elettroforetica su gel di poliacrilamide, in base al loro peso molecolare: gli anticorpi del paziente si legano alle corrispondenti bande antigeniche. Le bande rilevabili possono essere divise in tre gruppi27, 28: 1) BANDE A BASSO PM: marcano proteine di membrana ad alta specificità, come quelle di 15.5 e 17 KDa. 2) BANDE INTERMEDIE, che a loro volta marcano 3 gruppi di proteine: proteine flagellari a bassa specificità, fra 28 e 35 KDa, come FLAB 1 e 3; proteine flagellari esterne p37 e FLAA, a bassa specificità; proteine flagellari più pesanti, p38 e p39, anch’esse poco specifiche. 3) BANDE AD ALTO PM: marcano lipoproteine maggiori di membrana molto specifiche, fra 45 e 48 KDa. Le più importanti sono quelle di 45 e 47 KDa. 180 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 Le proteine più specifiche rilevabili sono quelle di 15-17 e 45-47 KDa29: per alcuni è sufficiente, per far diagnosi, riscontrarne una, per altri due di gruppi differenti. Quelle a basso PM sono proprie di una fase precoce di malattia, quelle ad alto PM di una fase più tardiva. Oggi la metodica, completamente automatizzabile, si propone come test di conferma in casi dubbi, con prove di screening discordanti, nella forma latente, nel monitoraggio della terapia. Esistono in commercio kit che evidenziano anticorpi totali, ma anche discriminano fra IgG e IgM30. Di recente è stata introdotta una variante che utilizza 4 proteine ricombinanti come bande distinte su una striscia di nylon: TpN15-17-47 e TmpA; per la diagnosi è sufficiente individuarne una sola31, 32. Diagnostica di laboratorio della sifilide: il futuro I test di biologia molecolare, dall’originaria PCR alle sue successive evoluzioni, cominciano ad essere applicati anche in Italia per la ricerca del DNA di t.pallidum. A parte le problematiche connesse all’automazione delle prove e ai costi elevati, la loro diffusione potrà avere tre linee d’impiego: 1) In fase di diagnosi, nei casi con test di screening dubbi o discordanti, nelle forme di vecchia data sierologicamente incerte, nella sifilide latente, nella forma congenita, nelle diverse manifestazioni della neurolue con ricerca del DNA nel liquor. 2) Nel follow-up dei pazienti in trattamento, specie se si disporrà di dosaggi quantitativi. 3) Infine, è auspicabile la diffusione di test per lo studio delle mutazioni che portano alla sintesi di proteine antigeniche differenziate, con la circolazione di ceppi rari, e/o legate a eventuali resistenze farmacologiche33. Conclusioni La mancata eradicazione dell’infezione luetica, obiettivo ben lontano dall’essere raggiunto, che anzi, come abbiamo visto, si assiste ad una ripresa epidemiologica e talora ad incrementi consistenti in alcune aree geografiche e soprattutto in determinati contesti sociali, impone di non abbassare la soglia d’attenzione (diagnostica, terapeutica, preventiva, socio-sanitaria in senso lato), ripristinando, ove e se possibile, misure abbandonate negli ultimi decenni ad iniziare dalla formazione delle nuove generazioni di operatori sanitari per una cultura d’attenzione verso la malattia. La quale malattia, oggi, si presenta con caratteristiche diverse rispetto al passato: da un punto di vista biologico, le frequenti mutazioni riscontrate si traducono in variazioni dell’assetto antigenico del microrganismo e nella circolazione di ceppi diversificati, che possono complicare il quadro diagnostico e l’esito terapeutico; i test tradizionali talora falliscono o più spesso risultano discordanti nei confronti di ceppi mutati, antigenicamente nuovi e verso i quali la diagnostica sierologica appare inadeguata o non aggiornata: pertanto aumenta l’esigenza di applicare anche nei confronti di t.pallidum i nuovi strumenti analitici che la biologia molecolare ha già messo a disposizione in altri settori dell’infettivologia. Durante l’infezione luetica possono essere presenti più sottopopolazioni di T.pallidum, come dimostrato dall’eterogeneità genetica delle varianti TprK e dei prodotti di trascrizione; le recidive o reinfezioni sono provocate da varianti fenotipiche del batterio. Ceppi mutati possono essere caratterizzati da resistenze agli antibiotici, fenomeno in aumento soprattutto fra gli infetti dell’est europeo e dell’Africa; è questa una situazione nuova sottoposta ancora a pochi studi le cui dimensioni, per il futuro, sono tutte da valutare; pertanto si rende necessaria un’ulteriore soglia d’attenzione e la ricerca di nuovi strumenti diagnostici. Altro argomento lacunoso riguarda le nostre conoscenze sulla reazione immune nei confronti di t.pallidum: come abbiamo accennato, essa è complessa, coinvolgendo sia la risposta cellulare che quella umorale e sicuramente diversificata verso ceppi tradizionali o mutanti; variazioni dell’as- F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica setto antigenico di superficie costituiscono meccanismi di elusione del batterio verso la risposta immune dell’ospite, ma le nostre conoscenze a riguardo sono frammentarie, così come il ruolo dell’immunità innata in corso di infezione primaria e il determinismo dell’immunodeficit che sicuramente è “conditio sine qua non” verso le forme più avanzate. Questa rassegna ha illustrato la storia della sierologia della lue: è indubbio che, tenendo conto dei nuovi problemi epidemiologici, clinici, diagnostici che oggi l’infezione presenta e di cui abbiamo discusso, si dovrebbe procedere ad una revisione critica di tutto l’armamentario di laboratorio a disposizione e, là dove necessario, ad un azzeramento di prove obsolete e inadeguate. Al tempo stesso è auspicabile una maggior diffusione dei test che permettono di discriminare, al pari di altre infezioni, tra classi anticorpali al fine di puntualizzare la fase in atto della malattia luetica, utilizzando le metodiche in immunofluorescenza indiretta e, meglio ancora, in immunoenzimatica e chemiluminescenza che offrono una valutazione quantitativa. Le più recenti tecniche di conferma, come l’immunoblot, non sono ancora entrate nell’impiego routinario se non di pochi laboratori e le divergenze nell’interpretazione dei risultati risentono dell’analisi di casistiche limitate; tuttavia disporre di Western-Blot o test simili nel proprio pattern diagnostico può essere utile, come abbiamo visto, in casi sierologicamente incerti e in situazioni cliniche particolari, quali la forma latente, la neurolue, la sifilide congenita, in pazienti immunodepressi, con infezione luetica “sieroimmunologicamente” coperta da altre STD. L’evidenziazione del DNA batterico nei campioni biologici è l’ultima offerta delle nuove tecnologie per la ricerca di base, la diagnosi e il follow-up del paziente con infezione luetica: costi elevati, limitata automazione e controversie interpretative limitano tuttora a pochi laboratori la diffusione di queste nuove opportunità. È indubbio che la ricerca di base ne trarrà vantaggi, potendo meglio conoscere il genoma batterico, le sue differenze (o similitudini) con altri treponemi, le mutazioni che si traducono in una serie di eventi im- 181 portanti anche sul piano clinico: differente assetto antigenico, variabilità dell’interazione con l’ospite e la sua risposta immune, meccanismi di elusione immunologica, da cui la possibile progressione dell’infezione, indeterminatezza o negatività dei test diagnostici tradizionali, acquisizione di resistenze farmacologiche34. Da questa nuova impostazione di studi sarà possibile correlare tra loro problematiche immunobiologiche, diagnostiche e cliniche, come i rapporti fra eterogeneità dei geni TprK, risposta immune e decorso clinico. Ma è soprattutto nella diagnostica che è auspicabile, a breve, una maggior diffusione delle metodiche molecolari: abbiamo sottolineato come vi sono a tutt’oggi casi sierologicamente discrepanti o muti o falsamente positivi, per numerose cause già illustrate inerenti la struttura batterica, la risposta immune o la situazione clinica dell’ospite, i limiti delle prove convenzionali. Applicando la ricerca del genoma batterico al sangue o ad altri materiali biologici (liquor!) in tutte quelle situazioni “difficili” che rappresentano una quota non trascurabile della routine quotidiana: forme latenti, lue congenita, neurolue in tutte le sue manifestazioni, pazienti immunodepressi con alterata risposta anticorpale e/o cellulare, concomitanza di altre STD, il numero di situazioni con diagnosi incerta potrà diminuire, così come se ne avvantaggerà il follow-up dei pazienti in trattamento. Bibliografia 1. LaFond RE, Lukehart SA. Biological basis for syphilis. Clin Microbiol Rev 2006; 19: 29-49 2. Purcell JS, Chacko M. Comorbidity of STDs. Adolesc Med 1996; 7: 443-8 3. Centers for Disease Control and Prevention. 2002 sexually transmitted diseases treatment guidelines. MMWR 2002; 51: 18 4. D’Antuono A. Le principali MTS di rilievo. Corso di formazione, Bologna, 19 Novembre 2006 5. Giuliani M, Suligoi B. La nuova epidemiologia delle MTS. 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Immunoglobulins Riassunto – Il termine nefrosi osmotica non è riferito ad una entità precisa, ma ad alterazioni istopatologiche renali aspecifiche. La nefrosi osmotica può essere causata da vari farmaci e composti come il saccarosio, il mannitolo e i mezzi di contrasto. Gli Autori descrivono un caso clinico. Abstract – Osmotic nephrosis describes a morphological pattern with vacuolization and swelling of the renal proximal tubular cells. The term refers to a nonspecific histopathologic finding rather than defining a specific entity. Osmotic nephrosis can be induced by many different compounds, such as sucrose, hydroxyethyl starch, dextrans, and contrast media. The Authors describe a clinical case. La nefrosi osmotica fu descritta la prima volta nel 1930 in seguito alla infusione di soluzioni glucosate ipertoniche per il trattamento dell’ipertensione endocranica. Descritta dapprima nei topi e successivamente in autopsie umane, è caratterizzata da marcata degenerazione vacuolare e riduzione di volume del nucleo delle cellule tubulari renali. Le caratteristiche morfologiche della nefrosi osmotica, o “nefrosi da zucchero”, furono studiate in dettaglio tra il 1940 e il 1965 in autopsie e esperimenti su animali. All’autopsia i reni apparivano di dimensioni aumentate e di colorito pallido, con alterazioni simili a quelle della necrosi tubulare acuta. Istologicamente la nefrosi osmotica è caratterizzata da una focale, o, meno frequente- mente, diffusa trasformazione in cellule chiare delle cellule epiteliali dei tubuli prossimali, mostrando una fine e isometrica vacuolizzazione citoplasmatica. Sono interessati soprattutto i tubuli prossimali, e in genere sono risparmiati i tubuli distali e i dotti collettori. Raramente la vacuolizzazione interessa le cellule epiteliali e i podociti della capsula di Bowman, e le cellule interstiziali. Le alterazioni più precoci sono rappresentate dalla formazione di vescicole al di sotto della membrana delle cellule apicali. Gradatamente le vescicole riempiono il citoplasma. I vacuoli, fondendosi, aumentano di volume fino a raggiungere un diametro finale tra 1 e 4 micron. Nelle fasi finali i vacuoli possono contenere un 184 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 materiale amorfo elettro-denso. Il nucleo viene sospinto verso la parte basale della cellula e quindi deformato dai vacuoli. Microscopicamente e istochimicamente i vacuoli possono essere identificati come lisosomi. Gli esiti della nefrosi osmotica non sono prevedibili: in molti casi la vacuolizzazione si risolve senza esiti; in altri casi può persistere senza altre alterazioni e senza danno renale; in pochi casi si ha evoluzione verso l’insufficienza renale irreversibile, con atrofia tubulare e fibrosi interstiziale. La diagnosi differenziale della nefrosi osmotica va fatta con le altre situazioni che possono determinare la trasformazione in cellule chiare delle cellule epiteliali tubulari (Tabella 1). La teoria iniziale di Allen che i vacuoli si formavano a causa di ritenzione di liquidi per cause osmotiche fu abbandonata nel 1960, quando fu dimostrato che il saccarosio ed altri agenti entrano nelle cellule per mezzo di un processo di pinocitosi, e che i vacuoli poi si fondono Tabella 1. Diagnosi differenziale della trasformazione in cellule chiare delle cellule epiteliali tubulari Nefrosi osmotica Tossicità tubulare degli inibitori della calcineurina Cellule grassose nell’accumulo di lipidi (es. nella sindrome nefrosica) Danno ischemico Deplezione di potassio Intossicazione da glicole etilenico Terapia con rapamicina Iperglicemia diabetica Carcinoma renale a cellule chiare Nota: la diagnosi generalmente si può fare con l’esame al microscopio ottico e con l’anamnesi del paziente tra di essi e con i lisosomi per formare vacuoli che contengono l’agente causale e enzimi idrolitici (teoria della pinocitosi). Questo meccanismo patogenetico è stato confermato per il saccarosio, il glucosio, il maltosio, il mannitolo, il destrano e per i mezzi di contrasto iodati. La percentuale di agente causale che penetra nelle cellule tubulari per pinocitosi dipende dalla quantità che ne viene somministrata. Qualunque situazione, come l’ischemia o un danno renale preesistente, che impedisce la digestione lisosomiale, ritarda ulteriormente la degradazione dell’agente causale. Il fattore patogenetico più importante nel danno renale acuto correlato alla nefrosi osmotica è l’ipossia renale. È plausibile ritenere che il danno renale acuto e l’oliguria sia diretta conseguenza dell’ostruzione tubulare da parte delle cellule rigonfie. La nefrosi osmotica può avvenire e scomparire con e senza segni clinici. Dalla letteratura si possono ricavare alcuni dati sul decorso clinico e l’outcome della nefrosi osmotica (Tabella 2). L’ecografia renale non mostra alterazioni particolari. L’esame delle urine può mostrare una proteinuria tubulare. La nefrosi osmotica è generalmente reversibile e il danno funzionale e strutturale regredisce alla sospensione dell’agente causale. La prevenzione include tutte le misure atte ad impedire il danno renale prima e durante la somministrazione dell’agente terapeutico: stabilità emodinamica e una sufficiente idratazione prima dell’inizio della terapia. È consigliabile sospendere eventuali diuretici per il rischio di ipovolemia. Tabella 2. Decorso clinico e outcome della nefrosi osmotica Sostanza Immunoglobuline ev Mannitolo Destrano Mezzi di contrasto Tempo di comparsa dell’insufficienza renale (giorni) 9 (2-14) 3.5 (2-6) 4 (3-6) ca. 4 Persistenza dell’insufficienza renale ESRD 2 Non valutabile 0 Non valutabile 1 0 1 1 M.P. Beraldi: La nefrosi osmotica e la nefropatia da saccarosio: caso clinico Le preparazioni di immunoglobuline endovena contengono immunoglobuline umane altamente purificate, soprattutto immunoglobuline G, con un peso molecolare di 150 Kd, ed una sostanza stabilizzatrice. Le sostanze stabilizzatrici più usate sono il glucosio al 2% o 5%, maltosio al 10%, saccarosio al 5% o 10%, sorbitolo, glicina o albumina allo 0,3% o 1%. Il riscontro di danno renale acuto dopo somministrazione di immunoglobuline endovena risale al 1983. Dal 1998 la US Food and Drug Administration ha collezionato 54 casi di danno renale acuto da immunoglobuline. La review di questi casi ha dimostrato che tutti, tranne uno, erano stati causati da immunoglobuline contenenti saccarosio. Ciò conferma il sospetto che è il saccarosio la causa della nefrosi osmotica, e non le immunoglobuline di per se. I pazienti con insufficienza renale preesistente e i trapiantati sono a più alto rischio. L’età avanzata ed il diabete sono fattori di rischio aggiuntivi. Recentemente sono stati rilevati 2 casi di nefrosi osmotica da immunoglobuline contenenti maltosio. Il motivo per cui questo tipo di preparazione è meglio tollerato può essere che la maltasi, e non la saccarasi, è presente nel brush border dei tubuli prossimali. Quindi il maltosio viene metabolizzato a glucosio, al contrario del saccarosio. Sono raccomandati concentrazioni più basse possibili dell’infusato (< 3% preferibilmente) e una infusione lenta (50 mg/Kg/ora), pur essendo ancora poche le evidenze cliniche a tal riguardo. Caso clinico Uomo di 60 anni, affetto da ipertensione arteriosa, diabete mellito tipo 2, piastrinopenia autoimmune, insufficienza renale cronica di 2° grado. A causa di questa patologia aveva eseguito terapia con immunoglobuline endovena a cadenza mensile, senza alcuna complicanza. L’ultima somministrazione era stata eseguita con una preparazione farmaceutica di immunoglobuline endovena diversa dalle precedenti e dopo circa 48 ore era comparsa oligoanuria, edemi rapidamente ingra- 185 vescenti, aumento della pressione arteriosa, rapido aumento della creatininemia. Dopo 24 ore è stato ricoverato d’urgenza per edema polmonare acuto e sindrome nefrosica. Al momento dell’ingresso gli esami di laboratorio mostravano iperazotemia (160 mg/dl) e ipercreatininemia (6,7 mg/dl), filtrato glomerulare calcolato (MDRD) pari a 16 ml/min, proteinuria delle 24 ore pari a 3500 mg. L’ecografia mostrava reni di forma e dimensioni normali con aumento della ecogenicità, come da nefropatia acuta. Iniziata terapia con diuretici e nitroderivati endovena c’è stata una rapida ripresa della diuresi, con miglioramento clinico generale e cardiovascolare, riduzione degli edemi. I valori di azotemia e creatininemia sono gradatamente tornati ai valori precedenti al ricovero. A causa della insufficienza acuta del ventricolo sinistro e della piastrinopenia non è stata ritenuta opportuna la biopsia renale, per cui manca una diagnosi istologica. Ma dalla anamnesi abbiamo ipotizzato una insufficienza renale acuta da nefrosi osmotica conseguente alla somministrazione di immunoglobuline endovena contenenti saccarosio. Infatti l’ultima somministrazione di immunoglobuline era stata eseguita con una preparazione contenente saccarosio come stabilizzatore, al contrario delle precedenti che non contenevano saccarosio. Il paziente presentava anche fattori di rischio aggiuntivi, quali l’insufficienza renale cronica e il diabete mellito. Bibliografia essenziale Allen AC. Diseases of the tubules, in Grune, Stratton I (eds): The Kidney: Medical and Surgical Diseases. New York, NY, Grune & Stratton,1951; 207-98 Chacko B, John GT, Balakrishnan N, et al. 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Terapia Key words: Obstructive sleep apnea syndrome. Sleep disorders. ENT. Diagnosis. Therapy Riassunto: L’OSAS costituisce una patologia collegata alla “civilizzazione”, alle migliorate qualità di vita, alla sedentarietà, agli eccessi alimentari. Le implicazioni socio-economiche sono correlate ad un aumento di incidenza di patologie cerebro-vascolari, di ipertensione (con tutte le conseguenze legate a questo “killer silenzioso”) ad un aumento del numero di incidenti automobilistici. Nel complesso diagnostico terapeutico di tale sindrome lo specialista ORL svolge un ruolo fondamentale poiché i siti determinanti la patologia sono di stretta competenza ORL. L’anamnesi deve essere indirizzata ad evidenziare sintomi non usualmente riferiti come stanchezza, irritabilità, difficoltà respiratorie nasali, cefalea, impotenza. L’esame obiettivo deve prendere in considerazione tutti i distretti rinofaringolaringei ed inoltre risulta indispensabile, per la quantificazione oggettiva del grado di collassabilità ipofaringea, l’esecuzione di una fibroscopia con Manovra di Müller. A tutto ciò è necessario aggiungere la valutazione della polisonnografia ed un proficuo ed accorto colloquio interdisciplinare che valuti l’aspetto terapeutico non sempre e soltanto medico e non sempre e soltanto chirurgico ma individualizzato, scelto e proposto collegialmente per il singolo paziente. Abstract: OSAS represents a pathology related to “civilization”, to the better quality of life, to the sedentary life, to the excess of food. The social and economical effects are characterized by an increase of vascular pathology, of hypertension (with all the consequences related to this “silent killer”) and an increase of car crashes. In the management of this pathology the ENT specialist has a central role because the areas causing the pathology are located in the nose and throat regions. The anamnesis must be done with the evaluation of irritability, tiredness, nasal dyspnoea, headaches and impotence. The objective examination must be completed in all ENT areas associated with endoscopic examination with the Müller manoeuvre. The ENT must also evaluate the polysomnography and must speak with other specialists to offer patients the best therapy they need that is not only medical and not only surgical. Introduzione Nella storia della Sindrome delle Apnee Ostruttive del Sonno, OSAS è l’acronimo di Obstructive Sleep Apnea Sindrome, lo specialista otorinolaringoiatra ha inizialmente svolto un importante ruolo nella identificazione e definizione del quadro sindromico per poi diventare elemento fondamentale nell’iter diagnostico e terapeutico multidisciplinare. Il ricorrere durante il sonno di episodi di apnea e di ipopnea è una condizione potenzialmente pericolosa in quanto predispone ad ipertensione polmonare, cardiopatia ischemica, aritmie, accidenti 188 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 cerebrovascolari e soprattutto rischio di addormentamento alla guida di veicoli. Recentemente, in alcune regioni d’Italia, è stata introdotto l’obbligo di eseguire un esame polisonnografico per i conducenti degli autotreni. La sindrome delle apnee ostruttive del sonno è quindi ben altro del semplice russamento, che rappresenta soltanto un sintomo, se pur costante, di un quadro più complesso e grave. La Sindrome delle Apnee Ostruttive del Sonno L’OSAS è il più frequente tra i disturbi respiratori nel sonno, decisamente più frequente dell’apnea centrale, dove l’arresto respiratorio non è legato a fenomeni ostruttivi. Si definisce apnea un arresto completo dell’attività respiratoria di durata superiore a 10 secondi. Durante il sonno in tutti gli individui si modifica la dinamica respiratoria in quanto si modifica l’attività dei centri nervosi deputati alla coordinazione dei movimenti respiratori e della posizione del corpo. La conseguenza sul tratto aerodigestivo superiore è il rilassamento della muscolatura orale, linguale e faringea che in molti soggetti può determinare il fenomeno del russamento, in altri, in particolare soggetti obesi o in sovrappeso, l’ostruzione completa, transitoria, delle vie aeree durante il sonno. L’ostruzione si verifica soprattutto quando a condizioni anatomiche sfavorevoli a livello faringeo si associa una cattiva ventilazione nasale. Il restringimento del lume faringeo, fino al collabimento delle sue pareti, è facilitato infatti sia dalla respirazione notturna orale sia dalla respirazione nasale con resistenze aumentate, per il meccanismo di suzione che la pressione negativa faringea deve attuare al fine di contrastare l’aumentata resistenza al passaggio dell’aria nelle fosse nasali. Il susseguirsi, ad intervalli talvolta brevi, di apnee durante il sonno provoca una riduzione della ossigenazione del sangue. Gli episodi di apnea si concludono con brevi micro risvegli, normalmente non percepiti dal soggetto, a volte frequentissimi, fino a diverse centinaia in poche ore di sonno, concentrati soprattutto nelle fasi del sonno più profonde e quindi teoricamente più corroboranti. La conseguenza di questi continui brevissimi risvegli inconsci è rappresentata quindi da una marcata frammentazione oltre che ad una ridotta durata del sonno, con importante decremento dell’effetto riposante. A questo si aggiungono le conseguenze delle apnee sull’apparato cardio-circolatorio e su quello polmonare. I sintomi principali dell’OSAS sono rappresentati da: – Frequenti episodi di arresto della respirazione durante il sonno spesso riferiti dal partner – Cefalea al risveglio – Russamento intermittente (perché interrotto dalle apnee) – Sonnolenza diurna – Ridotta capacità di memoria – Ridotta capacità di concentrazione – Ipertensione arteriosa – Bocca asciutta al risveglio – Riduzione della libido L’OSAS si manifesta prevalentemente a partire dalla 3° - 4° decade di vita, età centrale nella vita biologica e lavorativa di un individuo, con evidenti implicazioni socio-economiche e sanitarie. Sempre più spesso infatti l’OSAS rappresenta il tema centrale di simposi e relazioni di diverse società scientifiche nei quali viene costantemente enfatizzata la necessità dell’approccio multidisciplinare. Lo specialista otorinolaringoiatra interviene, come elemento del gruppo interdisciplinare, in tre fasi che sono, nell’ordine: – La selezione dei casi da avviare al protocollo diagnostico per l’OSAS – la diagnostica clinico-strumentale – la formulazione dell’indirizzo terapeutico con l’ eventuale esecuzione di interventi chirurgici dedicati. Ruolo di screening dello specialista ORL I sintomi relativi all’OSAS che più spesso vengono riferiti allo specialista ORL sono il russa mento, la cefalea mattutina, la secchezza delle fauci con polidipsia notturna ed i risvegli notturni. Altri quadri sindromici si riferiscono a patologie cervico-facciali più o meno legate all’OSAS con meccanismo di casualità o di comorbilità, quali la difficoltà respiratoria nasale con accentuazione in clinostatismo, S. Millarelli: La sindrome delle apnee ostruttive del sonno la rino-sinusopatia cronica, la faringite o faringotonsillite cronica. Proprio nei casi di OSAS di prima osservazione otorinolaringoiatrica il trattamento prevede spesso la correzione chirurgica di anomalie anatomiche del distretto cervico-facciale, eventualmente associata a modifica di abitudini dietetiche e voluttuarie. Ruolo dello specialista ORL nell’iter diagnostico L’Iter diagnostico di competenza otorinolaringoiatra prevede: – la raccolta accurata dell’anamnesi – un esame obiettivo completo del distretto cervico-facciale, con predilezione per lo studio della ventilazione nasale. La presenza di patologie nasali come una deviazione del setto nasale, una marcata ipertrofia dei turbinati o la presenza di poliposi nasale, sono infatti sia fattori favorenti l’OSAS che fattori ostativi ad una adeguata applicazione della CPAP (Continous Positive Airway Pressure). Il meccanismo attraverso il quale l’ostruzione nasale determina le apnee è, come già accennato duplice. Nel caso l’ostruzione sia tanto serrata da obbligare alla respirazione orale questa si accompagnerà a secchezza della mucosa, flogosi cronica ipertrofica e malposizionamento glosso-mandibolare con conseguente collabimento delle pareti faringee in inspirazione. Nel caso invece l’ostruzione sia di grado più lieve e consenta comunque una respirazione nasale, l’aumento delle resistenze, con un maggiore sforzo inspiratorio, potrà determinare il collabimento delle pareti faringee con un meccanismo di suzione. Importante poi è lo studio morfo-funzionale del tratto faringo-laringeo. La presenza di palato molle flaccido con dolicougola, la marcata ipertrofia tonsillare, la iperplasia della base della lingua, spesso secondaria ad una patologia da reflusso gastroesofageo, contribuiscono ad accentuare i sintomi di OSAS. – la fibrorinolaringoscopia con manovra di Müller, esame ormai effettuato di routine senza anestesia o senza sedazione, permette di esplorare tutti i distretti di competenza orl e di valutare il grado di collassabilità delle pareti ipofarin- 189 gee. Esso costituisce irrinunciabile base obiettiva per eventuali programmazioni terapeutiche di ordine chirurgico. L’esame consiste nell’introdurre attraverso le fosse nasali un endoscopio flessibile e, dopo aver superato la regione coanale, nell’invitare il paziente ad inspirare a bocca chiusa con le narici otturate per poter valutare la collassabilita’ ipofaringea; tale manovra può determinare una collasso delle strutture ipofaringee e/o laringee in senso anteroposteriore, in senso lateromediale o in senso circolare. Tale dinamica inspiratoria viene classificata secondo una scala di positività da 1 a 4 rispettivamente corrispondente al 25% del totale, per cui una positività ++++ corrisponde ad una stenosi totale o sub totale mentre una positività di + rappresenta una ostruzione del 25% dell’ipofaringe. – l’interpretazione e l’acquisizione di valutazioni cliniche e strumentali proposte o eseguite da altri specialisti, primo fra tutti la polisonnografia, che rappresenta oggi il gold standard per la diagnosi dell’OSAS, in grado di definirne anche grado e severità. – colloqui interdisciplinari. Ruolo dello specialista ORL nel trattamento dell’OSAS Le linee del trattamento dell’OSAS sono: – innanzitutto necessaria la correzione di abitudini di vita quali l’astensione dal fumo, il controllo dell’alimentazione e l’astensione dagli alcoolici. Spesso è necessaria la revisione di terapie farmacologiche. – la CPAP rappresenta il primo valido procedimento terapeutico e nella maggioranza dei casi, se ben tarata e tollerata, risolve totalmente i problemi notturni. Consiste nella applicazione di una maschera facciale o nasale, a tenuta ermetica, connessa ad un dispositivo in grado erogare una pressione aerea positiva perfettamente regolata, in grado di contrastare il collabimento inspiratorio delle pareti del faringe. La corretta applicazione della CPAP prevede la disponibilità di maschere facciali di diverse forme e dimensioni 190 Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009 ed una scrupolosa regolazione della pressione di esercizio. – il trattamento medico (riniti croniche, reflusso, sinusiti croniche, ipertrofia tonsillare, epifaringite) – il trattamento chirurgico (settoplastica e chirurgia dei turbinati, tonsillectomia, uvulo-palato plastica, faringoplastica, sospensione ioidea, supporti palatali, avanzamento del genioglosso, tracheotomia temporanea). Il ruolo dell’ORL è fondamentale nella valutazione dei siti di ostruzione e nella possibilità di fornire una alternativa terapeutica chirurgica alla utilizzazione della CPAP. La terapia chirurgica è estremamente diversificata potendo avvalersi di tecniche eseguite in anestesia locale, in sedazione o in narcosi. Il ventaglio di opzioni chirurgiche prevede: – interventi ambulatoriali in anestesia locale come l’inserzione di supporti palatali ( pillar system) e l’uvulotomia – interventi da eseguire in day hospital in anestesia locale come la riduzione volumetrica dei turbinati con radiofrequenze e la uvulopalatoplastica con radiofrequenze – interventi da eseguire in anestesia generale in day surgery come la settoplastica la uvulopalatoplastica con abbinata tonsillectomia, la faringoplastica di allargamento, la riduzione volumetrica della base della lingua con radiofrequenze – interventi da eseguire in ricovero ordinario come la sospensione ioidea, l’avanzamento del muscolo genioglosso e la tracheotomia temporanea. Il tipo di intervento chirurgico da consigliare al paziente deve essere pertanto individualizzato e programmato dopo una adeguata valutazione polispecialistica; maggiore è la gravità delle condizioni del paziente tanto più complesso è l’iter terapeutico chirurgico e conseguentemente più elevata è la classe di rischio anestesiologico. L’intervento deve essere considerato un punto di arrivo e non il primo gradino terapeutico. È obbligatorio sottolineare come la sintomatologia che riferisce il paziente, ma spesso i suoi familiari, è la conseguenza di abitudini di vita non propriamente igieni- che ed è fondamentale affermare come il primum movens terapeutico sia rappresentato dalla modifica dei comportamenti dietetici. È infine da ribadire come spesso i pazienti non siano correttamente informati delle problematiche legate all’OSAS ma si recano dal medico solamente per il fastidioso sintomo del russamento; deve essere compito dei vari specialisti di evidenziare i rischi di tale patologia Per concludere possiamo affermare che oggi la patologia respiratoria ostruttiva del sonno non può essere affrontata se non in un contesto di interdisciplinarietà. Possiamo anche sottolineare l’importanza che in questo gruppo interdisciplinare riveste lo specialista otorinolaringoiatra, non dimenticando di considerare la delicatezza del suo ruolo per la precisione diagnostica richiesta. Se infatti interventi terapeutici sull’OSAS di ordine medico, quali il calo ponderale, l’astensione dalle abitudini voluttuarie dannose, l’eliminazione dell’uso di determinati farmaci e la stessa C-PAP possono prescindere da una diagnosi fine della sede dell’ostruzione, altrettanto non è per le patologie di interessa ORL. In tali casi infatti l’indicazione al trattamento, chirurgico o farmacologico, deve seguire ad una precisa individuazione del famoso “segmento collassante” del tratto aerodigestivo superiore. Bibliografia essenziale De Benedetto M. La Roncopatia cronica. Relazione Ufficiale Congresso Annuale SIO. 2004 Ferini Strambi L, Smirne S, Moz U, et al. Muscle fibre type and obstructive sleep apnea. Sleep Res Online 1998; 1: 24-7 Imadojemu VA, Gleeson K, Gray KS, et al. Obstructive apnea during sleep is associated with peripheral vasoconstriction. Am J Respir Crit Care Med 2002; 165: 61-6 King ED, O’Donnell CP, Smith PL, et al. A model of obstructive sleep apnea in normal humans: role of upper airway. Am J Respir Crit Care Med 2000; 161: 1979-84 Llorente Arenas EM, Vicente Gonzales EA, Marin Trigo GM, et al. Histological changes in soft palate in patients with obstructive sleep apnea. Am Otorrinolaringol Ibero Am 2001; 28(5): 467-76 Sulsenti G. I disordini ostruttivi respiratori nel sonno. Le roncopatie rinogene. Atti Convegno Nazionale Annuale AOOI Bologna. 1996 Società Editrice Universo S.R.L. Via G.B. Morgagni 1 - 00161 Roma Tel. 064402053/4 - 0644231171 - 0664503500 – Fax 064402033 E-mail: [email protected] - Indirizzo Web: http://www.seu-roma.it GRUPPO PERIODICI LA CLINICA TERAPEUTICA: Rivista bimestrale di clinica e terapia medica, diretta da Pietro Cugini e Massimo Lopez. MEDICINA PSICOSOMATICA: Rivista trimestrale di medicina psicosomatica, psicologia clinica e psicoterapia, diretta da Massimo Biondi, redatta da Roberto Delle Chiaie. ANNALI DI IGIENE, MEDICINA PREVENTIVA E DI COMUNITà: Rivista bimestrale, diretta da G.M. Fara, A. Gullotti, V. Leoni, A. Panà, A. Simonetti D’Arca. ZACCHIA - Archivio di Medicina Legale, sociale e criminologica: Rivista trimestrale, diretta da Ferdinando Antoniotti, Paolo Arbarello, Luigi Macchiarelli, Silvio Merli. La clinica termale: Rassegna trimestrale di idrologia e climatologia medica, fondata da Mariano Messini. SCIENZA DELLA RIABILITAZIONE: Rivista trimestrale, diretta da V. M. Saraceni. INTERNATIONAL NURSING PERSPECTIVES: Rivista quadrimestrale di ricerca infermieristica, diretta da Paola Binetti. ANNALI DEGLI OSPEDALI SAN CAMILLO E FORLANINI: Rivista trimestrale, diretta da Franco Salvati. ABBONAMENTI ANNO 2009 Italia Euro LA CLINICA TERAPEUTICA 56,00 LA CLINICA TERAPEUTICA ... on-line 45,16 + Iva 20% MEDICINA PSICOSOMATICA 45,00 MEDICINA PSICOSOMATICA ... on-line 38,00 + Iva 20% ANNALI DI IGIENE, MEDICINA PREVENTIVA E DI COMUNITÀ 69,00 ANNALI DI IGIENE .... on-line 55,16 + Iva 20% ZACCHIA 50,00 LA CLINICA TERMALE 32,00 SCIENZA DELLA RIABILITAZIONE 39,00 INTERNATIONAL NURSING PERSPECTIVES 33,00 ANNALI DEGLI OSPEDALI S.CAMILLO E FORLANINI (Istituzionale) 100,00 ANNALI DEGLI OSPEDALI S.CAMILLO E FORLANINI (privato) 73,00 Estero + sp.Postali Euro 112,00 + 45,16 90,00 + 38,00 138,00 + 55,16 100,00 + 64,00 + 78,00 + 66,00 + 200,00 + 146,00 + Euro 32,00 20,00 32,00 32,00 20,00 20,00 17,00 20,00 20,00 Il pagamento può essere effettuato mediante versamento sul conto corrente postale N° 925008, a mezzo vaglia postale o assegno bancario intestati alla Società Editrice Universo - via G. B. 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