Testo - Azienda Ospedaliera San Camillo – Forlanini

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Testo - Azienda Ospedaliera San Camillo – Forlanini
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
Contenuto
EDITORIALE
La medicina rigenerativa
R. CANOVA
Regenerative medicine
ARTICOLI ORIGINALI
L'utilizzo dell'aorta toracica discendente nel by-pass aorto-bifemorale per il trattamento
dell'arteriopatia aorto-iliaca degli arti inferiori: la nostra esperienza
G. BERTOLETTI, A. VARRONI, M. MASSUCCI, V. GENOVESE, F. NAPOLI, ADI ABI RACHED, M. MISURACA
M. MASTRODDI, M. MANNO
Descending thoracic aorta to femoral artery by-pass for the treatment of aorta-iliac
artery obstructive disease: our experience
La radiologia interventistica nelle complicanze dei cateteri venosi centrali
S. PIERI, P. AGRESTI, L. DE' MEDICI, A. CARNABUCI, S. PIZZARELLI, S. DI GIULIO
Interventional radiology in central venous catheter's complications
EVIDENZE A CONFRONTO
I CORTICOSTEROIDI NELLA TERAPIA DELL'ARTRITE REUMATOIDE
Cortisonici e artrite reumatoide: evidenze a favore
L. ALTOMONTE
I cortisonici nella terapia dell'artrite reumatoide: evidenze contro
L. SEVERINO MARTIN
I corticosteroidi nella terapia dell'artrite reumatoide: ancora un trattamento valido?
G. D. SEBASTIANI
RASSEGNE
Ipotiroidismo nell'anziano
P. ZUPPI, E. FIDOTTI
Hypothyroidism in the elderly
Tireotossicosi, ipertiroidismo, ipertiroidismo subclinico nell'anziano
P. ZUPPI, E. FIDOTTI
Thyrotoxicosis, hyperthyroidism and subclinical hyperthyroidism
in elderly people
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139
146
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154
156
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Passato, presente, futuro della diagnostica dell'infezione luetica
F. BELLI
Past, present and future of syphilis laboratory procedures
172
CASO CLINICO
La nefrosi osmotica e la nefropatia da saccarosio: caso clinico
M.P. BERALDI, R. DEROCCA, M. SCOPPIO
Osmotic nephrosis and sucrose nephropathy: case report
183
GESTIONE E ORGANIZZAZIONE SANITARIA
La sindrome delle apnee ostruttive del sonno: il ruolo dello specialista otorinolaringoiatra
S.MILLARELLI, G. ACQUAVIVA, V. LAURENDI, G. BELLOCCCHI
187
Obstructive sleep apnea syndrome: the ent role
“La Rivista è stata selezionata da
ELSEVIER BV BIBLIOGRAPHIC DATABASES
per l’indicizzazione nei databases EMBASE, SCOPUS”
COMPEDEX, GEOBASE, EMBIOLOGY, ELSEVIER BIOBASE,
FLUIDEX E WORLD TEXTILES
www.scamilloforlanini.rm.it
Annotazione
Nel fascicolo 1/2006 degli "Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini" è stato pubblicato
il lavoro "Il drenaggio percutaneo nella spondilodiscite tubercolare. Considerazioni tecniche
su pazienti trattati", Autori: Pieri S., Altieri A.M., Agresti P., et al.
Nel fascicolo 2/2008 della "Rassegna di Patologia dell'Apparato Respiratorio" è stato pubblicato il lavoro "Il drenaggio percutaneo nelle complicanze della spondilodiscite tubercolare.
Risultati nel medio-lungo termine", Autori: Pieri S., Agresti P., Altieri A.M.
In bibliografia di quest'ultimo articolo è sfuggita la citazione di quello precedente, opera degli
stessi Autori.
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
Editoriale
LA MEDICINA RIGENERATIVA
REGENERATIVE MEDICINE
ROBERTO CANOVA*
Parole chiave: Medicina rigenerativa
Key words: Regenerative medicine
La Medicina rigenerativa rappresenta oggi una delle più promettenti frontiere della Medicina; studia la biologia
e le applicazioni delle cellule staminali
finalizzate alla ricostruzione di tessuti
danneggiati. È basata sulla capacità di
estendere in coltura popolazioni di cellule staminali autologhe o eterologhe e di
condizionarne il differenziamento verso il
tipo cellulare caratteristico del tessuto che
si cerca di ricostruire. Si rendono così curabili patologie devastanti che fino ad ora
vengono affrontate con trattamenti medici
e chirurgici lunghi e spesso poco efficaci;
quindi una vera e propria nuova frontiera
della medicina su cui è necessario investire risorse umane, tecniche e finanziarie.
Oltre alle terapie consolidate che riguardano l’epidermide e la cornea, gli sforzi
dei prossimi anni saranno finalizzati allo
sviluppo di nuovi protocolli di Medicina
rigenerativa. Mediante altre cellule staminali epiteliali si cercherà di ottenere la
ricostruzione di tessuti diversi, ad esempio
la mucosa uretrale e quella del cavo orale,
e mediante la ricerca di cellule staminali
del tessuto connettivo la individuazione di
efficaci terapie necessarie di fronte a grandi perdite di tessuti come quello osseo. È
recentissima la notizia, da parte di studiosi del Servizio scozzese di emotrasfusione
di Edimburgo, dello sviluppo da cellule
staminali embrionali ottenute con la fecondazione in vitro di eritrociti di gruppo
O negativo, gruppo universale adatto ad
ogni tipo di donazione senza rischio di incompatibilità trasfusionale.
Già nel 2005 un gruppo di ricercatori
statunitensi aveva isolato cellule staminali della pelle umana, coltivandole in
laboratorio ed inducendole a crescere come cellule del grasso, dei muscoli e delle
ossa. Si trattò allora di uno dei primi studi in cui si dimostrò la capacità per una
cellula staminale adulta di convertirsi in
molteplici tipi di tessuti e così oggi si può
lavorare per la ricostruzione di intere parti del corpo.
Alla fine del 2007 due gruppi di ricerca, uno giapponese e l’altro americano,
avevano annunciato di essere riusciti ad
ottenere cellule staminali a partire da
cellule della pelle umana. Per farlo, sono stati introdotti nelle cellule, tramite
*Già Primario Internista della Azienda Ospedaliera San Camillo - Forlanini, Roma
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
vettori virali, particolari geni tipici della fase embrionale dello sviluppo capaci
di far tornare queste cellule adulte allo
stato indifferenziato, tipico delle cellule
staminali. Gli ultimi dati della letteratura segnalano che, pur aumentando il
numero dei donatori d’organo per i trapianti, diminuiscono gli interventi, forse
per l’aumento degli standards, dell’età dei
pazienti o dei rifiuti. Quindi l’obiettivo
della Medicina rigenerativa è quello di
rendere curabili malattie devastanti oggi
senza terapie efficaci, in alternativa alla
medicina dei trapianti, e diventare un
punto di riferimento per la ricostruzione
di molti tessuti epiteliali partendo anche
da cellule staminali adulte. È quello che
stanno elaborando molti centri specialistici internazionali in Europa, Giappone,
Sud America e Stati Uniti in particolare.
Le colture sono a tutti gli effetti equiparate a farmaci per terapie avanzate con
tecniche di coltivazione particolari.
Le staminali, parola entrata nel lessico diffuso, aprono prospettive incredibilmente eccitanti, come sostenne James
Thomson che per la prima volta nel 1998
isolò questo tipo di cellule da un embrione
umano. Essendo indifferenziate, cioè prive
di una identità, le staminali possono essere commissionate a specializzarsi in un
tessuto invece che in un altro, diventare
neuroni anziché cellule del sangue o del
muscolo scheletrico, del cuore o del fegato.
Un trasformismo che gli scienziati stanno
imparando a decifrare e vorrebbero trasferire alle cellule staminali adulte.
Nell’arco della vita si rigenerano e reintegrano le cellule via via perdute nei vari
organi ed apparati del corpo. Per esempio
il fegato è uno degli organi con maggiore
capacità rigenerative, tanto che se ne può
donare una parte per un trapianto. Ma
il più efficiente luogo di rigenerazione
cellulare è il midollo osseo in cui risiedono, oltre alle staminali emopoietiche, le
cellule mesenchimali che danno origine ai
condrociti, cellule che producono cartilagine, e le cellule endoteliali da cui origina
l’apparato vascolare. Da oltre venti anni i
trapianti di midollo osseo sono una opportunità terapeutica fondamentale proprio
per la capacità delle staminali adulte di
rigenerare il midollo osseo e quindi le
cellule del sangue nei soggetti affetti da
leucemie e linfomi; per questa attività trapiantologia sul midollo l’Italia è una delle
prime nazioni mondiali. Questa procedura
è stata l’alba della medicina rigenerativa.
Oggi sappiamo che dai vari organi in cui
risiedono, midollo osseo compreso, è possibile ricavarle, per esempio dal cordone
ombelicale e opportunamente coltivate,
soprattutto con le tecnologie del bioreattore, farle crescere di numero e indurle a
diventare cellule differenziate del tessuto
da cui provengono.
Nessuno dubita più che nel cuore ci
siano staminali residenti; lo ha dimostrato
il gruppo di Piero Aversa della Harvard
Medical School di Boston. Nel tentativo di
riparare il cuore dopo l’infarto sono state
usate nell’uomo staminali adulte di ogni
tipo. I ricercatori ora puntano su particolari cellule del midollo osseo mononucleate o mesenchimali. Queste ultime hanno
capacità riparatoria e riducono la risposta
infiammatoria. L’ipotesi prevalente è che
a migliorare le condizioni nel postinfarto
non siano tanto le cellule iniettate, quanto
l’ambiente che esse modificano con specifici fattori. Sinora però non ci sono prove
che una delle staminali iniettate sia diventata cardiomiocita e abbia cominciato
a comportarsi come tale.
Sempre le cellule emopoietiche sono
usate nelle malattie autoimmuni, come
sclerodermia, sclerosi multipla, lupus ed
artrite reumatoide. Sono circa 700 i trapianti autologhi eseguiti nel mondo negli
ultimi dieci anni per queste malattie, più
di 50 in Italia.
Sono state condotte anche le prime sperimentazioni di mesenchimali sempre del
midollo nella sclerosi multipla in Israele,
per valutare più la sicurezza che l’efficacia. E le cellule staminali adulte del bulbo
olfattivo sono state impiegate nel trauma
spinale in uno studio australiano, il primo
eseguito a regola d’arte dopo tante sperimentazioni con dati aneddotici, per verificarne la sicurezza. Ed è del giugno 2006 il
punto di svolta paradigmatico per indurre
cellule differenziate a comportarsi come
staminali embrionali e farle differenziare
in cellule di tutti i tessuti.
R. Canova: La medicina rigenerativa
I giapponesi dell’Università di Kyoto,
usando vettori embrionali, hanno inserito
in fibroblasti, comuni cellule della pelle,
quattro geni specifici che hanno fornito
loro le caratteristiche di pluripotenzialità
delle staminali embrionali. A riprogrammare quelle cellule, che Yamanaka ha
chiamato “induced pluripotent stem cells”
(iPs), sono state le proteine prodotte da
quei pochi geni; Science l’ha appena definita la scoperta scientifica dell’anno, un
risultato che ha entusiasmato quanti, per
motivi etici, vorrebbero fare a meno del
ricorso agli embrioni per la ricerca.
Però per Douglas Melton, dello Stem
cell Institute di Harvard, ciò è prematuro,
poiché le iPs, sebbene abbiano alcune caratteristiche delle cellule embrionali quali
la capacità di formare colonie, di proliferare di continuo e di poter dare origine a
forme tumorali quali i teratomi, mancano
di altre caratteristiche.
Alla fine del 2007 Yamanaka e Thomson hanno annunciato di aver ottenuto
le iPs anche da cellule umane. E pochi
mesi fa sempre Yamanaka ha ottenuto
cellule staminali pluripotenti da fibroblasti, riprogrammandoli con solo due geni,
nei topi e nell’uomo. Il vantaggio della
sua tecnica, che va ottimizzata perché su
milioni di cellule della pelle ricavate con
la biopsia solo lo 0,1% è effettivamente
riprogrammato, è che consentirà di sviluppare le iPs dai pazienti stessi, evitando lo
scoglio del rigetto.
Che il paziente sia giovane o anziano, con questo sistema le sue cellule si
possono comunque riprogrammare. Ad
agosto 2008 ricercatori di Harvard hanno
prodotto linee di cellule iPs di dieci malattie coltivando fibroblasti di pazienti con
Morbo di Parkinson, diabete e distrofia
muscolare. Consentiranno di studiare le
più svariate patologie e sperimentare
farmaci. C’è già chi immagina di creare
nel futuro banche con linee cellulari di
diverse caratteristiche immunologiche, da
utilizzare su pazienti compatibili, come
già si fa per il midollo osseo o il cordone
ombelicale, ricavate da embrioni donati o
da cellule iPs.
Philippe Collas all’Università di Oslo
ha usato altre tecniche per riprogramma-
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re cellule adulte: vi è riuscito facendole
crescere in un terreno di coltura con un
estratto di cellule emopoietiche. Lo ha
fatto usando un estratto di staminali embrionali. Non si sa bene come ciò avvenga,
quali siano i meccanismi molecolari, comunque la riprogrammazione avviene.
Le nuove linee guida per la sperimentazione clinica redatte di recente dall’International Society for Stem Cell Research dovrebbero facilitare il passaggio dal
laboratorio alla clinica, pur tenendo conto
delle diverse culture, religioni, politiche e
leggi.
Tra i rischi della terapia a base di cellule staminali, in aggiunta alle possibilità di
rifiuto o alla perdita di funzione delle cellule di infuso o a una risposta immunitaria,
una infezione fungina invasiva, più problematica è la loro potenziale trasformazione
neoplastica. Infatti le cellule staminali
possono avere il potenziale per la cura di
malattie devastanti ma le loro proprietà
specifiche di rinnovamento e di clonazione,
le rende inclini a generare tumori. È di
questi giorni la comunicazione dello sviluppo di tumori cerebrali e del midollo spinale benigni in un giovane israeliano che
aveva ricevuto cellule neurali fetali in una
clinica di Mosca. Tuttavia gli aspetti critici
devono essere affrontati, ivi compresa la
sicurezza a lungo termine, la tollerabilità,
l’efficacia di questi trattamenti come pure
il loro potenziale cancerogeno.
In conclusione la Medicina rigenerativa è un nuovo eccitante campo terapeutico che cerca di capire come il corpo
guarisca in condizioni normali, quindi
sfruttare ed amplificare questo processo,
quando e dove è più necessario. Con la
Medicina rigenerativa si promuove la
crescita di tessuti naturali o si replicano
le funzioni di tali tessuti per curare lesioni e malattie che ancora non sono state
risolte dalla medicina tradizionale. La
Medicina rigenerativa riunisce infine biologia, medicina genetica, bioingegneria,
chimica, robotica, informatica ed altri
settori per lo sviluppo di organi artificiali, di tessuti specialmente sviluppati, e di
cellule, comprese le staminali, coltivate
in laboratorio a residui e le combinazioni
di questi approcci.
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Bibliografia essenziale
Attan M, Harousseau JL, Stoppa AM, et al. A prospective randomized trial of autologous bone
marrow transplantation and chemotherapy in
multiple myeloma. NEJM 1996; 335: 91-7
Cerdan C, Rouleau A, Bhatia M. VEGF-A165 augments erythropoietic development from human
embryonic stem cell. Blood 2004; 103: 2504-12
Chien KR. Regenerative medicine and human models
of human disease. Nature 2008; 453: 302-5
Craig AR. A genomics-based approach to regenerative medicine. J Regen Med 2002; 3: 17-24
Cris More. Tissue transplantation for reconstruction.
The convergence of Science, Medicine, Business
and Politics. Regenerative Medicine Organization U.S.A. 5° Annual Conference 2008
Dib N, Mc Carty P, Campbell A, et al. Feasibility
and safety of autologous myoblast trasplantation in patient with ischemic cardiomiopaty.
Cell Trasplant 2005; 14: 11-19
Dow J, Simkhowich BZ, Kedes L, et al. Washout
of transplanted cell from the heart. A potential
new hurdle for cell transplantation therapy.
Cardiovasc Res 2005; 67: 301-7
Haseltine WA. Regenerative medicine 2003: an
overview. J Regen Med 2003; 4: 15-8
Hwang WS, Ryu YJ, Park JH, et al. Evidence of
pluripotent human embryonic stem cell line
derived from a cloned blastocyst. Science 2004;
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Jiang Y, Jahagirdar BN, Reinhardt RL, et al. Pluripotency of mesenchymal cells derived from adult
marrow. Nature 2002; 418: 41-9
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Reya T, Morrison SJ, Clarke MF, et al. Stem cells,
cancer, and cancer stem cells. Nature 2001; 414:
105-11
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
Articoli originali
L’UTILIZZO DELL’AORTA TORACICA DISCENDENTE NEL BY-PASS
AORTO-BIFEMORALE PER IL TRATTAMENTO DELL’ARTERIOPATIA
AORTO-ILIACA DEGLI ARTI INFERIORI: LA NOSTRA ESPERIENZA
DESCENDING THORACIC AORTA TO FEMORAL ARTERY BY-PASS FOR
THE TREATMENT OF AORTA-ILIAC ARTERY OBSTRUCTIVE DISEASE:
OUR EXPERIENCE
GIOVANNI BERTOLETTI, ALESSANDRO VARRONI, MARCO MASSUCCI, VINCENZO GENOVESE,
FILIPPO NAPOLI, ADI ABI RACHED, MARIA MISURACA, MASSIMO MASTRODDI, MARIO MANNO
Unità Operativa Complessa di Chirurgia Vascolare,
Presidio Ospedaliero Nord “S.Maria Goretti”, Latina
Parole chiave: By-pass toraco-bifemorale. Arteriopatia aorto-iliaca. Aorta toracica discendente
Key words: Thoraco-bifemoral by-pass. Aorto-iliac arteriophaty. Descending thoracic aorta
Riassunto – Il by-pass aorto-bifemorale è la procedura terapeutica più comune per il trattamento dei
pazienti affetti da arteriopatia aorto-iliaca. È tuttavia noto che esistono casi in cui l’aorta addominale non
rappresenta la sede ideale per l’aggancio del by-pass. In questi casi una valida alternativa è costituita dall’aorta toracica discendente.
Abbiamo eseguito 5 rivascolarizzazioni degli arti inferiori utilizzando l’aorta toracica come inflow. utilizzando una protesi in PTFE Intering 8 mm. La protesi è stata portata per via retroperitoneale in sede inguinale
sn a cui è seguito il confezionamento di una branca sulla femorale dx.
Il by-pass toraco-bifemorale rappresenta una eccellente alternativa terapeutica per i pazienti con grave
patologia aorto-iliaca.
Abstract – The aorto-bifemoral by-pass is the most common therapeutic procedure for the treatment of
patients with aorta-iliac arteriopathy. The infra-renal abdominal aorta is not always the ideal site for the
proximal anastomosys of the by-pass. In these cases an alternative is descending thoracic aorta.
We performed 5 revascularisations of the lower limbs using the thoracic aorta as inflow with a PTFE Intering 8 mm prosthesis. By a retroperitoneal tunnel the prosthesis was conducted to the left groin. Then a
branch to the right femoral artery was made.
The thoraco-bifemoral by-pass represents an excellent therapeutic alternative for patients with severe aortailiac disease.
Introduzione
Il by-pass aorto-bifemorale è la procedura terapeutica più comune per il trattamento dei pazienti affetti da arteriopatia
aorto-iliaca. Tale intervento è caratterizzato da ottimi risultati a distanza con
un elevata pervietà a lungo termine. In
alcuni casi tuttavia il by-pass aorto-bifemorale può essere controindicato o ad
elevato rischio di fallimento. La presenza
di calcificazioni parietali diffuse e severe
tali da impedire il confezionamento dell’anastomosi prossimale del by-pass, pregressi interventi addominali sia a carico
dell’aorta che di altre strutture, infezione
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Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
di un precedente by-pass aorto-bifemorale, obesità severa sono condizioni che
possono imporre un’opzione terapeutica
alternativa.
Il by-pass axillo-femorale o axillo-bifemorale è, attualmente, l’alternativa chirurgica maggiormente eseguita nelle condizioni descritte in precedenza. Tuttavia
un approccio all’aorta toracica discendente per il confezionamento di un by-pass
toraco-bifemorale può garantire ottimi risultati sia in termini di pervietà a breve e
lungo termine, sia intermini di mortalità
e di morbidità.
Materiali, metodi e risultati
Sono stati eseguiti tra il 1 gennaio 2002
e il 31 dicembre 2004 presso l’Unità Operativa di Chirurgia Vascolare dell’Ospedale Civile S. Maria Goretti di Latina 5
rivascolarizzazioni degli arti inferiori utilizzando l’aorta toracica come in-flow.
I pazienti trattati erano 4 maschi e
una femmina con un’età media di 65 anni.
Tutti i pazienti sono stati studiati con esame angiografico e mediante TC torace ed
addome. Inoltre tutti i pazienti sono stati
sottoposti ad un attento studio preoperatorio sia cardiologico che respiratorio.
La sede delle lesioni è stata aorto-iliaca
in tutti i casi (TASC C = 1 paziente; TASC
D = 4 pazienti). Tre presentavano lesioni
femoro-poplitee associate e una paziente
era stata sottoposta in precedenza ad intervento di tromboendarterectomia carotidea bilaterale.
L’indicazione all’intervento è stata
l’ischemia critica in 4 (80%) pazienti e la
claudicatio invalidante in 1 paziente. In
tutti i pazienti l’intervento di rivascolarizzazione a partenza dalla aorta addominale o un intervento endovascolare è
stato escluso per le estese calcificazioni
aorto-iliache. Tutti i pazienti sono stati
classificati come ASA II.
L’accesso all’aorta toracica è stata ottenuta mediante toracotomia all’ VIII spazio
intercostale e le arterie femorali sono state preparate con tecnica usuale. È stata
utilizzata una protesi in PTFE Intering 8
mm. La protesi è stata portata per via re-
troperitoneale in sede inguinale SN a cui
è seguito il confezionamento di una branca
sulla femorale DX.
Il successo tecnico è stato ottenuto in
tutti i casi. Nessun paziente è deceduto
nel perioperatorio, non si sono verificate
complicanze cardiologiche maggiori e polmonari, nessun paziente è stato trasfuso
sia durante l’intervento che nel post-operatorio.
Non è stato associato in nessun paziente un intervento di rivascolarizzazione
femoro-poplitea, due pazienti sono stati
dimessi con presenza di polsi periferici e
tre con I.W. compreso tra 0,6 e 0,7 e terapia antiaggregante con acido acetilsalicilico alla dose di 100 mg/die.
Non si sono verificate ostruzioni della
protesi né complicanze infettive. Nessun
paziente ha presentato durante il followup medio di 18 mesi modificazioni dell’
I.W. o complicanze legate alla protesi.
Discussione
L’arteriopatia cronica ostruttiva degli
arti inferiori è una patologia di frequente
riscontro. Essa, come è noto, può essere determinata da lesioni che interessano il distretto femoro-popliteo-distale ma anche da
lesioni localizzate nel tratto aorto-iliaco1,2.
In questo ultimo caso, qualora non sia
possibile un intervento endovascolare, la
procedura chirurgica maggiormente effettuata è il by-pass aorto-bifemorale caratterizzato, come è ben riportato in letteratura, da ottima pervietà a lungo termine.
Sono stati proposti diversi metodi di
rivascolarizzazione chirurgica degli arti
inferiori fin da quando Freeman e Leeds3
all’inizio degli anni ’50 hanno decritto
quello che viene riconosciuto come il primo by-pass extranatomico. Essi eseguirono un by-pass femoro-femorale cross-over
utilizzando un’arteria femorale superficiale endarterectomizzata.
Il primo ad utilizzare l’arteria ascellare
come fonte di in-flow è stato l’australiano Lewis che, nel 1959, interpose un
graft in nylon tra l’ascellare sinistra ed
una precedente protesi aortica. Utilizzò,
a questo scopo, un tunnel sottocutaneo
G. Bertoletti: L’utilizzo dell’aorta toracica discendente nel by-pass
attraverso il quale la protesi dal torace
arrivava in addome4. L’utilizzo dell’aorta
toracica discendente rappresenta una valida alternativa all’aorta addominale come
fonte d’in-flow per la rivascolarizzazione
degli arti inferiori. A dispetto dell’efficacia e della semplicità concettuale di tale
tipo di intervento chirurgico, il by-pass
toraco-bifemorale viene però confezionato
raramente.
Il primo caso è stato eseguito da Lester R. Sauvage il 7 giugno del 1956. Egli
confezionò un by-pass tra l’aorta toracica
discendente e le arterie femorali usando
due homograft uniti tra loro. Scelse per
quell’intervento un approccio trans-addominale con associata sternotomia mediana
estesa al IV spazio intercostale tunnellizzando la protesi per via intraperitoneale.
La pervietà del by-pass fu di 20 mesi5.
Qualche anno più tardi, nel 1961, Blaisdell e colleghi riportarono il caso di un
paziente rioperato per infezione di una
protesi aorto-iliaca in PTFE. Questa volta fu effettuata un’anastomosi sull’aorta
toracica discendente attraverso una toracotomia anterolaterale sinistra e tunnel
extraperitoneale con anastomosi su entrambe le femorali usando un passaggio
sovrapubico. Il paziente morì dopo 2 settimane per sepsi6.
Negli anni immediatamente successivi
furono pubblicati nuovi lavori su metodi alternativi di rivascolarizzazione degli
arti inferiori. Ancora Blaisdell nel 19637
insieme, ma indipendentemente da Louv8,
riportò i dati sul by-pass axillo-femorale,
mentre lo stesso Sauvage nel 1966 descrisse la tecnica d’esecuzione del by-pass axillo-bifemorale9. Da allora quest’ultimo tipo
d’intervento è stato largamente utilizzato
oscurando quasi completamente il by-pass
toraco-bifemorale.
In letteratura l’utilizzo dell’aorta toracica discendente viene contemplato principalmente come intervento secondario
in pazienti con infezione protesica o in
seguito alla trombosi di un precedente
by-pass aorto-bifemorale. In quest’ultimo
caso, infatti, il re-intervento addominale è
gravato da un elevato tasso di morbidità10
e la pervietà è inferiore rispetto all’intervento primario11.
137
Crawford e colleghi in una serie di 64
by-pass aorto-femorali ed aorto-iliaci eseguiti come re-intervento hanno riportato
una mortalità operatoria del 14% ed un
tasso d’amputazione del 6%.
D’altra parte anche i dati sul by-pass
axillo-femorale sono tutt’altro che ideali.
Vengono riportati tassi di mortalità che
vanno dal 2% al 13%, mentre la pervietà
primaria a 3 anni varia dal 40% 54%12,13 e
quella a 5 anni va dal 19% al 47%14,15.
I risultati pubblicati in letteratura sul
by-pass toraco-bifemorale sono, invece,
nettamente migliori. Criado e colleghi11
riportano, su di una serie di 16 pazienti
sottoposti a ricostruzione aorto-iliaca utilizzando l’aorta toracica discendente come
in-flow, una pervietà del 98,3%, 78,4% e
70,4% rispettivamente ad 1,3 e 5 anni. In
un’analisi retrospettiva su 50 by-pass toraco-femorali eseguiti presso l’Università
del Nord Carolina in un arco temporale di
15 anni vengono riportati tassi di pervietà
primaria, pervietà secondaria, salvataggio
d’arto e sopravvivenza a 5 anni rispettivamente del 79%, 84%, 93% e 67%. La pervietà a distanza, nella nostra esperienza
risulta del tutto sovrapponibile a quella
riportata in letteratura.
Il by-pass toraco-femorale presenta
non pochi vantaggi soprattutto rispetto all’axillo-femorale. Offre un in-flow
sicuramente migliore; in genere l’aorta
toracica discendente è poco interessata
dalla malattia aterosclerotica garantendo una migliore tenuta dell’anastomosi.
Viene utilizzata una protesi più corta
e sicuramente più protetta dagli stress
meccanici. Si evita di riaprire zone ricche
di aderenze per precedenti interventi e,
grazie alla tunnellizzazione retro-peritoneale, preserva dai rischi legati alle
aderenze del graft con i visceri. È inoltre
riportato che l’utilizzo dell’aorta toracica discendente, evitando la laparotomia,
permette di ridurre le perdite ematiche
e di liquidi con un più rapido recupero
post-operatorio16.
La possibilità di clampare l’aorta parzialmente riduce i rischi d’ischemia viscerale, di stress cardiaco da sovraccarico
emodinamico e riduce i rischi di lesione
delle arterie intercostali.
138
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Sebbene l’indicazione principale all’esecuzione del by-pass toraco-bifemorale sia
secondaria ad un fallimento di un precedente intervento sull’aorta addominale
sottorenale (ostruzione del graft, infezione) esistono alcune condizioni che possono
essere considerate, da coloro che hanno
accumulato una maggiore esperienza con
questa tecnica, come indicazioni primarie.
Nei pazienti con cosiddette aorte difficili,
sede di estese calcificazioni, ma anche
in pazienti con addome ostile (pregressi
interventi, ernia permagna, stomie, pancreatiti), o anomalie anatomiche come il
rene a ferro di cavallo17, l’approccio diretto
all’aorta toracica discendente offre certamente vantaggi rispetto sia ad un approccio extranatomico che addominale.
Conclusioni
Il by-pass aorto-bifemorale resta il gold
standard per il trattamento della malattia
aorto-iliaca sintomatica. Tuttavia il bypass toraco-bifemorale rappresenta una
eccellente alternativa terapeutica soprattutto nei casi di infezione protesica o fallimento della protesi aortica addominale.
Tecnicamente è un intervento non complicato che assicura ottimi risultati anche
quando dovesse essere scelto come opzione
terapeutica primaria ad esempio nei casi
in cui l’approccio transaddominale non sia
effettuabile o sia altamente rischioso.
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Corrispondenza e richiesta estratti:
Dott. Mario Manno,
email: [email protected];
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
LA RADIOLOGIA INTERVENTISTICA NELLE COMPLICANZE
DEI CATETERI VENOSI CENTRALI
INTERVENTIONAL RADIOLOGY IN CENTRAL VENOUS
CATHETER’S COMPLICATIONS
STEFANO PIERI1, PAOLO AGRESTI1, LORENZO DE’ MEDICI1, ANTONIO CARNABUCI2,
STEFANIA PIZZARELLI2, SALVATORE DI GIULIO2
1
U.O.C. di Radiologia Vascolare ed Interventistica; 2U.O.C.
Nefrologia e dialisi, Azienda Ospedaliera “S. Camillo-Forlanini” Roma
Parole chiave: Cateteri venosi centrali. Complicazioni. Radiologia interventista
Key words: Central venous catheters. Complications. Interventional radiology
Riassunto – Introduzione: I cateteri venosi centrali, uno degli accessi venosi consigliati per la dialisi, vanno
spesso incontro a complicazioni. Riportiamo la nostra esperienza nella gestione percutanea di tali evenienze.
Materiali e metodi: Tra il 2000 ed il 2007, sono stati controllati 56 pazienti, per un malfunzionamento del
loro catetere venoso centrale. Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad accertamenti radiologici diretti e dopo
somministrazione di mezzo di contrasto, in base ai quali veniva proposta la relativa soluzione terapeutica.
Risultati: In 19 casi (35,1%) è stato riscontrato un quadro di sindrome della vena cava superiore, trattato
con stent autoespandibile e confezionamento di un nuovo accesso vascolare; in 2 pazienti era presente un
malposizionamento del catetere, subito corretto con una più idonea collocazione dello stesso. In 10 casi si
è trattato di recente trombosi del catetere: 9 casi sono stati risolti con la semplice aspirazione del trombo
e 1 con la fibrinolisi farmacologica. In 23 si è registrata la presenza di una lacerazione del catetere: in 11
parziale, mentre in 12 si è registrata la rottura completa, per cui si è provveduto al recupero percutaneo del
corpo estraneo.
Discussione: Il catetere venoso centrale è una delle forme di accesso vascolare per effettuare temporaneamente la dialisi; il suo continuo utilizzo crea i presupposti per lo sviluppo di quei fattori che sono alla base
del suo malfunzionamento. Con le molteplici tecniche endovascolari è possibile risolvere con successo le varie
problematiche cliniche.
Abstract – Introduction: Central venous catheters, one of the suggested modality for dialysis, are likely to
cause complications. We report our experience in percutaneous management of those clinical cases.
Materials and methods: Between 2000 and 2007, 56 patients were studied for malfunctioning of their central
venous catheters. All the patients were studied by imaging, without and with contrast medium; on the basis
of the results an proper therapeutic option was proposed.
Results: In 19 cases (35,1%) a vena cava syndrome was found: it was treated with auto-expandable stent and
a new vascular access; in 2 patients there was an erroneous position of the catheter: it was corrected into a
right place. In 10 cases there was a recent trhombosis: in 9 there was a resolution only with aspiration of
the clot, in 1 it was necessary the fibrinolytic therapy. In 23 patients was found a laceration of the central
venous catheters was found: in 11 it was partial and in 12 complete. For these reasons it was necessary to
retrieve the foreign body by a percutaneous access.
Discussion: Central venous catheter is one vascular access for dialysis; his continuous use creates the conditions for developing a malfunctioning of the catheter. Clinical complication may be coped with by using
many and varied technical endovascular options.
140
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Introduzione
I cateteri venosi centrali, sono spesso
necessari per trattare pazienti ospedalizzati, specie in terapia intensiva, ma sono
anche temporaneamente impiegati per le
sedute di dialisi, in attesa che sviluppi
una fistola o una protesi1. In Italia, circa
75.000 pazienti sono annualmente sottoposti a dialisi: ognuno di questi necessita
di un accesso vascolare valido, in grado
di consentire un’adeguata filtrazione del
sangue, almeno tre volte a settimana2.
Sia la loro inserzione, che il continuo
utilizzo giornaliero crea i presupposti per
l’insorgenza di una serie di complicazioni,
la cui gestione, in parte, coinvolge spesso
il radiologo interventista3.
Riportiamo la nostra esperienza nella
gestione percutanea di tali evenienze cliniche.
Materiali e metodi
Nel periodo 2000-2007, si sono rivolti al
nostro servizio 54 pazienti, con età media
di 58 anni (range 28-75), uomini e donne,
per una problematica clinica connessa alla
presenza di un catetere venoso centrale
malfunzionante, precedentemente posizionato in altra struttura sanitaria.
In 19/54 casi (35,1%), i pazienti si erano
presentati alla nostra osservazione per la
comparsa progressiva di una sintomatologia clinica, caratterizzata da edema al
volto e agli arti superiori, con turgore delle
giugulari e cianosi.
In altri 2/54 casi (3,7%) era stato il contrasto tra il buon funzionamento del catetere in aspirazione e una dolenzia all’atto
dell’infusione a richiedere un approfondimento diagnostico.
In altri 10/54 pazienti (18,5%) si era
registrata la comparsa di un flusso inadeguato, sia nell’aspirazione, che nell’infusione: in tutti i casi erano intercorse meno
di 48 ore dall’ultimo impiego del catetere
venoso centrale.
11 pazienti (20,3%) lamentavano la
comparsa di dolenzia all’atto dell’infusione: questa era connessa anche alla
comparsa di un pomfo cutaneo, che si rias-
sorbiva parzialmente nell’arco di 48 ore,
ma diventava progressivamente crescente
nell’arco di una settimana.
In ultimo, 12 pazienti (22,2%) avevano
riferito la comparsa di disturbi del ritmo
cardiaco (tachicardia sinusale, extrasistoli
ripetute, un caso di fibrillazione atriale)
nell’arco degli ultimi 15 giorni).
Tutti i pazienti venivano sottoposti
ad accertamenti radiologici, per favorire
una migliore comprensione delle varie
manifestazioni cliniche. Dapprima veniva
eseguita una radiografia diretta del torace per confermare o escludere il regolare
posizionamento e decorso del catetere;
poi l’iniezione di mezzo di contrasto [Optiray 320, Tycohealthcare, Milano, Italia]
per verificare la pervietà del catetere,
un’eventuale irregolarità o una lacerazione lungo il decorso; infine la flebografia
degli arti superiori nel sospetto clinico di
una sindrome della vena cava superiore.
Previo consenso informato, sulla base
della conferma diagnostica ottenuta con
l’ausilio delle diverse metodiche radiologiche, il paziente veniva contestualmente
avviato al tentativo di soluzione terapeutica endovascolare.
Nei casi di un quadro clinico compatibile con la sindrome della vena cava superiore si è proceduto al posizionamento di
uno stent vascolare autoespandibile e alla
creazione di un nuovo accesso vascolare.
Nei casi di malposizionamento della
porzione distale del catetere venoso centrale, si è proceduto alla mobilizzazione
della porzione terminale del catetere e alla
sua corretta allocazione definitiva, tramite
un accesso percutaneo femorale e l’impiego
di un catetere a cappio [Hooker 6Fr, Meditalia Biomedica, Medalla (BO), Italia].
Nei casi di trombosi del catetere venoso centrale si è proceduto al tentativo di
risoluzione dell’anomalia attraverso una
gradualità di manovre: prima veniva effettuata un’aspirazione con una siringa
da 50 ml; in caso d’insuccesso veniva
prima passato un filo guida e poi lasciata
nel catetere una soluzione con urochinasi
(bolo di 100.000 UI in 5 cc di soluzione fisiologica). In caso di ulteriore insuccesso,
l’ultima opzione era la sostituzione del
catetere.
S. Pieri et al.: La radiologia interventistica nelle complicanze dei cateteri venosi centrali
141
Dei 54 pazienti con cateteri venosi
centrali malfunzionanti, 19 dovevano la
loro sintomatologia e il quadro radiologico allo sviluppo di una stenosi venosa
benigna nella vena cava superiore. Sono
stati trattati con il posizionamento di uno
stent autoesapandibile e creazione di un
nuovo accesso vascolare; non sono stati
considerati in questo articolo, perché già
argomento di un precedente lavoro4.
Abbiamo avuto 2 casi di malposizionamento di catetere venoso centrale (3,7%):
in un paziente era stato inserito per via
femorale: uno dei due lumi pescava re-
golarmente in vena cava inferiore, per
cui era agevole l’aspirazione del sangue;
l’altra estremità era sottointimale, per
cui risultava dolorosa la fase d’iniezione;
si è proceduto semplicemente all’arretramento di qualche centimetro e al nuovo
fissaggio esterno del catetere. In un altro
paziente, il catetere era stato inserito con
approccio succlavio. Già alla radiografia
diretta appariva evidente l’errore di percorso del catetere; nella stessa seduta,
con un accesso femorale, l’impiego di un
introduttore valvolato armato 8 Fr, lungo
45 cm, si è provveduto prima a mobilizzarlo, ricorrendo ad un catetere a cappio, poi
al posizionamento, con un tragitto e una
destinazione finale regolari, in vena cava
superiore (Fig 1 a, b).
Per i 10 casi (18,5%) di trombosi del
catetere venoso centrale, la semplice aspirazione del trombo con una siringa da 50
ml si è dimostrata risolutiva in 9 pazienti;
dopo due tre tentativi di aspirazione, nella
siringa compariva prima il filamento di
trombo incarcerato nel catetere, seguito,
subito dopo, dall’afflusso continuo di sangue venoso. Il catetere venoso centrale
Fig. 1a
Fig. 1b
Nei casi di lacerazione parziale del
catetere venoso centrale, i pazienti venivano inviati al centro dove i presidi erano stati precedentemente posizionati con
una relazione e una iconografia accurata,
per favorire la loro integrale sostituzione.
Viceversa, nei casi di rottura del catetere
venoso centrale, veniva subito effettuata
la rimozione percutanea del corpo.
Risultati
142
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Fig. 2a
Fig. 2b
veniva quindi lavato con soluzione eparinizzata per scongiurare il ripresentarsi di
tale malfunzionamento. Il sangue aspirato
veniva filtrato in una garza sterile per
isolare il frammento di trombo. Nell’unico
caso in cui questa opzione terapeutica si
è dimostrata inefficace abbiamo risolto
il malfunzionamento del catetere con la
somministrazione di farmaco fibrinolitico, dopo aver passato con difficoltà, in
precedenza, un filo guida all’interno del
catetere. Il bolo di urochinasi di 100.000
UI è stato diluito in 2-3 cc di soluzione
fisiologica ed è stato iniettato a forza nel
catetere. Dopo 15’ di permanenza al suo
interno, il farmaco veniva sospinto con
estrema facilità in circolo, con un’iniezione
di 2-3 cc di mezzo di contrasto, registrando
l’avvenuta risoluzione della trombosi. Non
abbiamo avuto insuccessi nella risoluzione
delle trombosi dei cateteri venosi centrali,
per cui non si è provveduto alla loro sostituzione.
Per gli 11 casi (20,3%) di lacerazione
parziale del catetere si è proceduto alla documentazione, nelle varie proiezioni
oblique e antero-posteriori, della sede e del
tipo di lacerazione (Fig. 2a, b). Il paziente,
in assenza di un ricovero ospedaliero e in
base a precisi accordi, veniva inviato nella
sede dove il catetere era stato in precedenza posizionato, con una relazione e ad
un’esaustiva documentazione radiologica.
Per i 12 casi (22,2%) di distacco totale
di un frammento del catetere venoso centrale si è proceduto al recupero. Dopo aver
documentato la sede del corpo estraneo
(Fig. 3a) e dopo aver posizionato un introduttore valvolato 8Fr, lungo 45 cm, a livello dell’accesso femorale destro, in 7 casi è
stato agevole il recupero con il semplice
catetere a cappio (Fig 3b), in 5 pazienti,
essendo le estremità del frammento di
catetere a contatto con la parete venosa,
non facilmente catturabili, si è proceduto
prima alla loro mobilizzazione con un ca-
Fig. 3a
S. Pieri et al.: La radiologia interventistica nelle complicanze dei cateteri venosi centrali
Fig. 3b
Fig. 3c
tetere angiografico pig-tail, per poi allocare temporaneamente il frammento in vena
iliaca comune e recuperalo definitivamente con il catetere a cappio (Fig 3 c).
Discussione
Tre sono le forme di accesso vascolare
maggiormente utilizzate per la dialisi:
la fistola artero venosa nativa (BresciaCimino), la protesi sintetica e il catetere
venoso centrale5. Quest’ultimo presenta
degli indubbi vantaggi pratici: consente
di effettuare la dialisi immediatamente,
esenta il personale infermieristico dalle difficoltà connesse all’inserzione degli
aghi6.
143
Indipendentemente da come venga posizionato, il suo continuo utilizzo giornaliero crea i presupposti per lo sviluppo
di quelle modificazioni che costituiscono
l’origine del suo malfunzionamento.
Una prima distinzione è sulla base della comparsa del malfunzionamento: acuto
è quello che si manifesta nell’arco di 14
giorni dal posizionamento, mentre cronico
è quello che si registra successivamente a
tale limite temporale7. Una seconda classificazione prevede di attribuire il malfunzionamento a problemi connessi all’inserzione, alla gestione e alla estrazione8.
Nel primo gruppo di complicazioni rientrano i malposizionamenti dei cateteri
venosi centrali, che si verificano in un 15%
delle procedure3. Estremamente più raro
al giorno d’oggi per la sistematica puntura
venosa ecoguidata e per il controllo radiografico diretto del torace, al termine della
procedura, il malposizionamento può capitare già all’atto dell’inserzione, o successivamente, per una spontanea migrazione,
a causa delle variazioni di posizione o di
pressione all’interno della cavità toracica.
Il passaggio del paziente dalla posizione
supina a quella ortostatica, per eseguire
la radiografia del torace, prima di essere
inviato al reparto, è una condizione tipica9. Questa migrazione “fisiologica” è più
pronunciata nelle donne e nelle persone
obese, e per i cateteri posti a livello della
vena succlavia.
Il mancato utilizzo della radiografia
diretta del torace al termine della procedura, come nel paziente con catetere venoso centrale malposizionato, ha impedito
il rapido riscontro e l’altrettanto rapida
risoluzione del quadro clinico, che avrebbe
evitato al paziente inutili sofferenze, sin
dalle prime sedute di dialisi. È stata infatti la sintomatologia accusata dal paziente
a richiamare l’attenzione dello specialista,
che ha richiesto un accertamento radiologico, per una migliore comprensione del
quadro clinico.
Il riposizionamento può avvenire tramite una gestione diretta, utilizzando
guide inserite nel catetere, o indiretta,
attraverso un approccio transfemorale3.
Mentre la prima operazione è limitata sia
dalla naturale adesione del catetere veno-
144
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
so centrale alla pelle, e dal lungo tunnel
sottocutaneo, sia dal rischio d’infezione,
viceversa, l’approccio transfemorale consente di utilizzare dei cateteri dedicati
per afferrare il catetere venoso centrale
e portarne la punta in posizione ideale
(giunzione cava-atrio destro)10.
Nel secondo gruppo di complicazioni, secondarie alla gestione, rientra la
trombosi del catetere venoso centrale. Un
catetere occluso può essere conseguente
alla formazione di fibrina o di un trombo.
La prima è presente già dopo 24 ore, si
dispone in breve tempo lungo il decorso
del catetere. Se il rivestimento dovesse
essere completo, ci sarebbe l’occlusione del
catetere, per cui l’infusione non sarebbe
possibile. La trombosi, che porta all’occlusione, per ingombro del lume del catetere,
crea anch’essa un ostacolo alla infusione
e/o alla dialisi. In entrambe i casi, la migliore cura è l’impiego di un farmaco fibrinolitico, in bolo e/o in infusione continua,
per favorire lo scioglimento della patina di
fibrina e degli aggregati piastrinici. Se il
problema non dovesse essere risolto rapidamente (dopo 12 ore) si possono eseguire
alcune ulteriori manovre interventistiche:
introduzione di un filo guida, conformato
a J, che entra ed esce ripetutamente dal
catetere, con l’aggiunta di un movimento
rotatorio, per cercare di rimuovere meccanicamente i detriti 11-13.
Tra le complicazioni meccaniche attribuite all’estrazione vanno ascritte le
lacerazioni parziali e le rotture complete
del catetere14.
I cateteri in vena succlavia possono essere compressi, vicino alla confluenza tra
la prima costola e la clavicola, da parte del
legamento costo-clavicolare e il muscolo
succlavio. La compressione ripetuta in
questa sede può causare l’erosione del catetere e/o la successiva frattura. Il primo
tipo di evenienza si evidenzia al momento
dell’infusione o della dialisi, con la comparsa di un pomfo cutaneo e del dolore
cutaneo. Il semplice esame radiologico
diretto del torace consente di documentare
il rapido ripiegamento del catetere, mano
a mano che passa sotto la prima costa e
clavicola; le variazioni di movimento e di
sede della scapola possono comportare un
grado diverso di compressione del catetere. L’iniezione di mezzo di contrasto può
essere utile per documentare la sede dello
stravaso, in un catetere spezzato o rotto.
La sostituzione del catetere è una conseguenza obbligata15.
Nel caso in cui la frattura del catetere
sia completa, questo frammento può migrare in una delle sezioni destre del cuore
o nel circolo polmonare. Il paziente può
essere asintomatico o riferire disturbi del
ritmo cardiaco e/o dispnea. Vari Autori
suggeriscono una rimozione il più precoce
possibile per evitare complicazioni (perforazione del miocardio, tamponamento
del miocardio, aritmia cardiaca, embolia
polmonare)16-18.
L’approccio migliore per recuperarli è
quello percutaneo, transvenoso; numerosi sono i tipi di catetere da impiegare,
per evitare la soluzione chirurgica19,20. Se
un’estremità del catetere è libera, è bene
impiegare il sistema del catetere a laccio,
o quella del catetere a canestro. Se invece
entrambe le estremità sono fissate, allora
è bene liberarne una: si può impiegare un
catetere con punta a curva o ad uncino,
cercando di farlo passare sotto la guida.
Una trazione forzata può comportare la
liberazione di un’estremità.
Man mano che cresce la domanda di cateteri venosi centrali, il ruolo del radiologo
diventa sempre più importante, non solo
come riferimento per posizionare il catetere, ma anche per giocare un ruolo attivo in
tutte le problematiche che ne conseguono
(riposizionamento di un catetere malposizionato, gestione del catetere trombizzato,
suo recupero).
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Per corrispondenza e richiesta estratti:
E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Agosto 2009
“Evidenze a confronto”
I CORTICOSTEROIDI NELLA TERAPIA
DELL’ARTRITE REUMATOIDE
GLUCOCORTICOIDS IN THE THERAPY
OF RHEUMATOID ARTHRITIS
Parole chiave: Cortisonici. Uso terapeutico. Artrite reumatoide. Efficacia. Effetti collaterali
Key words: Glucocorticoids. Therapeutic use. Rheumatoid arthritis. Efficacy. Side effects
CORTISONICI E ARTRITE REUMATOIDE: EVIDENZE A FAVORE
LORENZO ALTOMONTE
Direttore UOC Reumatologia, Ospedale S.Eugenio, Roma
Introduzione
Meccanismo di azione dei cortisonici
Il cortisone gioca un ruolo fondamentale nel trattamento della artrite reumatoide
(AR), come d’altra parte in molte altre malattie reumatiche. La proporzione di pazienti trattati con cortisonici nella pratica
reumatologica quotidiana è sicuramente
in eccesso rispetto alle raccomandazioni
usualmente conservative nei trattati di
Reumatologia o nelle review pubblicate.
Quasi 60 anni dopo la sua introduzione
nella pratica clinica, il cortisone ancora
rappresenta il farmaco antinfiammatorio
più importante e più frequentemente impiegato. Tra il 25 e il 75% dei pazienti con
AR sono trattati più o meno continuativamente con cortisone.
Recenti studi hanno riconfermato il potenziale effetto sulla riduzione della progressione della malattia di basse dosi di
cortisone nella AR e quindi hanno riaperto
il dibattito sul rapporto rischi/beneficio di
tale trattamento. Comunque non ci sono
dubbi che, specialmente quando somministrato in modo non corretto, il cortisone
possiede un potenziale piuttosto elevato
di frequenti e seri effetti collaterali, ma
quando usato con prudenza la maggior
parte di questi effetti possono essere evitati.
Il dosaggio di cortisone usato nella AR
è in genere basso ma viene spesso aumentato come risposta al peggioramento della
attività clinica della malattia. Il razionale
di questa decisione, spesso peraltro molto
efficace, è basato sul fatto che dosaggi
più alti aumentano la saturazione dei recettori per i glucocorticoidi in modo dose
dipendente con intensificazione terapeuticamente rilevante delle loro azioni genomiche e produzione di addizionali diverse
azioni non genomiche.
Azioni genomiche dei cortisonici
L’importante effetto antinfiammatorio ed immunomodulante dei cortisonici
è mediato principalmente da meccanismi
genomici. Legandosi ad un recettore citosolico (cGRC) i cortisonici producono
induzione (transattivazione) o inibizione
(transrepressione) della sintesi di proteine
regolatorie. I cortisonici influenzano la
trascrizione di circa l’1% dell’intero genoma. La struttura lipofilica e la piccola
massa molecolare permette ai cortisonici
di passare facilmente la membrana cellulare e di formare quindi un complesso
steroide/recettore citosolico attivo. Tale
147
Evidenze a confronto
complesso è poi traslocato nel nucleo dove
è legato come un omodimero a particolari
siti del DNA, che sono chiamati elementi
responsivi agli steroidi (GREs). A seconda
del gene bersaglio la sua trascrizione viene
attivata o inibita. Oltre a questo meccanismo l’interazione dei monomeri attivati
(cGCR) con fattori di trascrizione come AP1 (Activator Protein 1), NF-KB (Nuclear
Factor Kappa B) e NF-AT (Nuclear Factor
for Activated T cells) è riconosciuta come
un ulteriore importante meccanismo genomico dell’azione dei cortisonici. In accordo
a questo, il complesso GC/cGCR, pur non
inibendone la sintesi, modula la attività di
questi fattori portando in conseguenza alla
inibizione della translocazione nucleare e/o
della funzione di questi fattori di transizione che ha come effetto la inibizione della
espressione di molti fattori immunoregolatori e proinfiammatori (transrepressione). Vi sono indicazioni che molti effetti
avversi clinici dei cortisonici sono causati
dal meccanismo di induzione della sintesi
di proteine regolatorie (transattivazione),
mentre, come accennato in precedenza,
molti importanti effetti antinfiammatori
sono mediati dalla inibizione della sintesi
di proteine regolatorie (transrepressione).
Su questa base sono in fase di sviluppo
nuovi glucocorticoidi detti “SElective Glucocorticoid Receptor Agonists” (SEGRAs),
che avrebbero una attività antinfiammatoria notevolmente superiore a quella dei
glucorticoidi tradizionali in quanto dotati
rispetto a questi di una più bassa attività
di transattivazione.
Azioni non genomiche dei cortisonici
Alcuni effetti dei cortisonici si evidenziano dopo pochi minuti e addirittura dopo
pochi secondi dalla loro somministrazione.
Queste osservazioni non possono essere
spiegate con gli effetti genomici precedentemente descritti per li tempo che questi
richiedono. Un meccanismo di azione non
genomico sembra essere responsabile di
questi effetti rapidi. Sono stati proposti
tre differenti meccanismi non genomici
per spiegare gli effetti rapidi antinfiammatori ed immunosoppressivi dei cortisonici: interazione aspecifica dei cortisonici
con le membrane cellulari, effetti non
genomici mediati dal recettore citosolico
dei cortisonici e specifiche interazioni con
il recettore di membrana dei cortisonici.
Le azioni non genomiche dei cortisonici si
ottengono con dosi superiori ai 30 mg/die
di prednisone equivalente.
Uso terapeutico dei cortisonici
nella artrite reumatoide
Nella pratica terapeutica i regimi cortisonici usati nella AR sono molto differenti.
Inoltre, come è noto, differenti cortisonici
hanno differenti potenza e farmacocinetica.
In base ad una serie di recenti raccomandazioni in proposito, in parte basate
sulle azioni genomiche e non genomiche
di questi farmaci, schematicamente si
sono divisi gli approcci terapeutici con
cortisonici nella AR in basse dosi (< 7,5
mg /die di prednisone), che agiscono per
via genomica e sono usate nella terapia di
mantenimento con relativamente scarsi
effetti collaterali (salvo la induzione di
osteoporosi), medie dosi (dai 7,5 ai 30 mg
/die di prednisone) che agiscono anche esse essenzialmente per via genomica e sono
usate come terapia di attacco o in presenza di qualche manifestazione extrarticolare, come pleuriti o pericarditi, con effetti
collaterali importanti e dose/durata dipendenti e alte dosi (dai 30 ai 100 mg/die di
prednisone) che agiscono prevalentemente
in via non genomica e sono usate per il
trattamento iniziale di serie riacutizzazioni o di complicazioni vasculitiche, ma sono
gravate da importanti effetti collaterali e
per questo non possono essere mantenute
a lungo termine.
Efficacia del cortisone nella artrite reumatoide
Terapia di mantenimento a piccole dosi
Volendo affrontare il tema dell’efficacia
del cortisone nella AR occorre considerare
che in questa malattia il cortisone viene
usato, in generale, dopo una terapia di
attacco a dosi medie per poche settimane,
148
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
a basse dosi di mantenimento e nella maggior parte dei casi come terapia in combinazione con altri farmaci.
È noto a tutti coloro che debbano affrontare la cura della AR che i cortisonici, anche ad un dosaggio inferiore ai 10
mg/die di prednisone, sono molto efficaci sulla sintomatologia clinica articolare
della AR attiva, tanto che molti pazienti
diventano funzionalmente dipendenti da
questa terapia e tendono a continuarla a
lungo termine. Una revisione Cochrane
ha valutato in modo oggettivo gli effetti
sintomatici dei cortisonici nella AR e ha
concluso che quando questi farmaci sono
somministrati a basse dosi per un periodo
di almeno 6 mesi essi sono clinicamente
molto efficaci nel trattamento della AR.
Sono stati osservati miglioramenti nei
parametri clinici, inclusi VAS, punteggi
articolari, rigidità mattutina e affaticabilità, e nel comportamento dei reattanti
della fase acuta, come VES e PCR. Dopo 6
mesi di terapia però gli effetti benefici dei
cortisonici in genere cominciano a diminuire, però se poi questa terapia è ridotta
nei dosaggi o sospesa i pazienti in genere
manifestano un chiaro peggioramento del
sintomi clinici e degli indici di flogosi.
Particolarmente importante è poi nella
AR la valutazione degli effetti dei cortisonici sulla progressione di malattia. Kirvan
e coll nel 1995 hanno descritto un rallentamento del danno articolare in pazienti con
AR in fase precoce o intermedia trattati
con 7,5 mg/die di prednisone per 2 anni
contemporaneamente ai FANS (95%) e ai
farmaci in grado di modificare il decorso
erosivo della malattia (Disease Modifying
Antirheumatic Drugs, DMARDs) (71%).
Da allora altri studi hanno confermato la
possibilità che i cortisonici possano ritardare il danno articolare in questa malattia. Nel 2002 lo studio Utrecht, un RCT
sull’effetto della assunzione di cortisonici
per 2 anni in pazienti DMARDs- naive con
AR “early”, ha dimostrato che in questi
pazienti, che ricevevano solo sulfasalazina come “rescue therapy”, 10 mg /die di
prednisone inibivano chiaramente la progressione del danno radiologico articolare.
Questo effetto favorevole era sempre significativo 1 anno dopo la sospensione del
cortisone e continuava ad essere significativo ancora dopo 5 anni. In questo studio il
40% dei pazienti ha ridotto la necessità di
iniezioni cortisoniche intrarticolari, il 49%
ha ridotto l’assunzione di paracetamolo e
il 55% ha ridotto il consumo di FANS nel
gruppo trattato con steroidi rispetto al
placebo. Recentemente è stata pubblicata
una metanalisi Cochrane sugli effetti del
cortisone sulla progressione radiologica
della AR. Sono stati identificati 15 studi
che avevano almeno un braccio con cortisone e uno senza cortisone e nei quali vi era
una valutazione radiografica delle mani
e/o dei piedi. In totale erano inclusi 1414
pazienti (la maggior parte con AR “early”),
la dose cumulativa media di cortisone era
2300 mg di prednisone equivalente nel primo anno (6.30 mg/die). Tutte le differenze
medie standardizzate sulla progressione
radiologica della AR a 1 anno e a 2 anni
erano a favore dei cortisonici. L’effetto benefico dei cortisonici era in genere ottenuto
quando essi erano usati insieme al trattamento con DMARDs. Questa metanalisi in
definitiva conclude che c’è evidenza che i
cortisonici in aggiunta alla terapia standard possono sostanzialmente ridurre la
progressione erosiva della AR. Per il fatto
quindi che i cortisonici possono rallentare
la progressione del danno articolare nella
AR (specie nelle forme “early”), essi si debbono considerare veri e propri DMARDs.
Boli di cortisone
Con il termine di terapia a boli (“pulse
therapy”) si intende uno specifico approccio terapeutico con dosi molto alte
di cortisone (> 250 mg/die di prednisone)
per periodi molto brevi (da 1 a 5 giorni
consecutivi) sfruttando appieno l’effetto
non genomico di tale farmaco, con successiva drastica riduzione o interruzione del
trattamento. Questa procedura è seguita
quando è necessaria una terapia ponte
nel passaggio da un DMARD ad un altro,
oppure nelle gravi esacerbazioni extrarticolari della AR a rischio di vita, come la
vasculite o il polmone reumatoidi.
L’effetto benefico di tale approccio in
genere dura fino a 6 mesi, ma per i potenziali rischi non è opportuna una sua estesa
149
Evidenze a confronto
applicazione se non in situazioni a rischio
di vita. Specie nell’era dei biologici.
Una forma mitigata di “pulse therapy”
è l’uso im di 120 mg di metilprednisolone
depot ogni 6/12 settimane, abbastanza
usata nella scuola inglese.
Iniezioni di cortisone intrarticolare
Le iniezioni intrarticolari di cortisone
sono spesso usate nella terapia della AR.
L’efficacia è dimostrata ma la sua durata
dipende da molti fattori come la grandezza della articolazione (portante o non portante), l’attività della artrite, il volume del
liquido sinoviale aspirato, il tipo e la dose
del cortisonico, la tecnica della iniezione e
il riposo della articolazione trattata. Comunque si consiglia di non trattare una
articolazione a distanza più ravvicinata
di 2 o 3 settimane e non più di 2 o 3 volte
l’anno per non ingenerare un danno articolare da cortisone.
Conclusioni
Sebbene l’uso del cortisone sorprendentemente non sia incluso nelle Raccoman-
dazioni ACR 2008 per il trattamento con
DMARDs non biologici e biologici della
AR, in base a numerose evidenze i cortisonici trovano invece un posto fondamentale
nella terapia della AR, specie nella forme
“early”, nelle quali ad un dosaggio medio
(per un mese) e poi basso (fino a 2 anni),
specie in associazione ad altri DMARDs,
possono ridurre la tendenza erosiva articolare e sicuramente possono rappresentare sia una efficace terapia sintomatica
che una vera e propria terapia di fondo.
I cortisonici, a differenza degli altri
DMARDs, hanno una tossicità scarsa a
breve termine (fatta eccezione per la osteoporosi che deve sempre essere adeguatamente profilassata), che diviene però più
elevata a lungo termine, specie con le dosi
più elevate (> 5mg/die di prednisone).
Naturalmente, come per tutte le terapie
croniche, l’uso del cortisone nella AR deve
essere accuratamente controllato tenendo
conto di eventuali fattori di rischio per
importanti effetti collaterali come ipertensione arteriosa, diabete mellito, ulcera
peptica, recenti fratture, cataratta e glaucoma, infezioni croniche, dislipidemia e
contemporaneo trattamento con FANS e
la possibile comparsa di osteoporosi.
I CORTISONICI NELLA TERAPIA DELL’ARTRITE REUMATOIDE:
EVIDENZE CONTRO
L. SEVERINO MARTIN
Struttura Complessa di Medicina Interna e Reumatologia
Ospedale “Regina Apostolorum”, Albano Laziale (Roma)
Quando Philip S. Hench decise di utilizzare il 28 Settembre 1948 100 mg
dell’allora conosciuto come “composto E”
(cortisone) per la terapia dell’artrite reumatoide, non poteva immaginare che la
terapia con glucocorticoidi (GC) sarebbe
stata applicata rapidamente a tutte le
branche della medicina. Infatti la terapia
con GC non viene soltanto utilizzata nelle
patologie reumatiche come l’artrite reumatoide, il LES o le vasculiti. È largamente utilizzata nella terapia della sindrome
nefrosica, delle glomerulonefriti, delle crisi anafilattiche, delle reazioni allergiche,
dell’asma bronchiale, delle riacutizzazioni
della BPCO, nella terapia di alcune malattie infettive, di innumerevoli patologie infiammatorie cutanee, di tutte le patologie
infiammatorie croniche del tratto digerente, dell’epatie cronica attiva, come adiuvante nelle chemioterapie, nelle terapie
immunosoppressive in corso di trapianti
d’organo o di patologie autoimmuni ed anche come antiedemigeni a livello cerebrale
e del midollo spinale.
La somministrazione di (GC) a scopo
terapeutico, soprattutto se a dosi elevate
e/o per lunghi periodi di tempo, induce
150
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
in una consistente proporzione di casi
la comparsa di effetti indesiderati, che
possono essere semplicemente spiacevoli
(ad es. l’alterazione dei tratti somatici),
gravi (ad es. il diabete) o potenzialmente
pericolosi (ad es. un collasso vertebrale da
osteoporosi con mielite traversa).
Alcuni effetti collaterali, come l’azione
sulla cenestesi e sull’appetito, possono
avere talora conseguenze favorevoli (ad
es. in malati defedati), ma alle volte conseguenze non auspicabili (ad es. un aumento
abnorme di peso).
Gli eccessi e gli errori compiuti in passato nella somministrazione dei GC hanno creato un ingiustificato timore in una
parte dell’opinione pubblica, onde alcuni
malati si preoccupano quando vengono
loro prescritti questi farmaci, anche perché ritengono che il ricorso ai GC voglia
significare una malattia e/o un fase della
malattia molto grave. Inoltre molte malate, soprattutto se in età non avanzata,
non gradiscono la terapia con GC perché
paventano il danno estetico indotto dall’ipercorticismo.
Va tenuto ben presente e, se necessario,
spiegato al paziente, che i GC rappresentano in molti casi dei farmaci di cui non
sarebbe più possibile fare a meno e che in
ogni caso il loro impiego corretto consente
attualmente di condurre una terapia con
GC, anche a lungo termine, riducendo al
minimo gli effetti indesiderati e le loro
conseguenze.
L’ipercorticismo iatrogeno è la conseguenza dell’uso di dosi soprafisiologiche di
GC e comporta la comparsa di manifestazioni cushingoidi: facies lunare, obesità al
tronco, gibbo a bufalo, strie rubre, oltre a
osteoporosi e diabete.
L’alterata distribuzione del tessuto adiposo dipende dal fatto che agli arti prevale
l’effetto lipolitico diretto dei GC, mentre al
tronco prevale l’effetto lipogenetico indiretto determinato dall’iperinsulinismo reattivo all’iperglicemia, per la diversa concentrazione sulla membrana degli adipociti
dei recettori per i GC e per l’insulina.
La dose di GC utilizzata è molto importante e a questo riguardo è importante
tenere presente la differenza tra dosi “fisiologiche” e dosi “farmacologiche”. La dose
fisiologica è quella che corrisponde alla
produzione endogena di cortisolo ed è pari
alla dose necessaria per mantenere in equilibrio un paziente con insufficienza surrenalica (morbo di Addison): 25-37,5 mg/die
di cortisone, pari a 5-7.5 mg/die di prednisone e 4-6 mg/die di 6-metilprednisolone.
In realtà, se i GC vengono somministrati
in dose unica al mattino, al fine di evitare
l’atrofia surrenale, qualsiasi dose di GC è
“farmacologia”, perché si viene a sommare
alla produzione endogena di cortisolo.
L’inibizione surrenale è la conseguenza dell’effetto CRF-soppressore dei GC
somministrati in dosi frazionate nel corso
della giornata e in particolare, dei GC
somministrati nelle ore serali (con l’ovvia
eccezione di quelli somministrati “una
tantum” in condizioni di emergenza) oppure in preparazione ad assorbimento
ritardato. In poche settimane si determina
un’inibizione e successivamente un’atrofia
dei surreni, che divengono incapaci a rispondere ad una situazione di stress (ad
esempio un trauma, un intervento chirurgico, ecc…) o a riprendere rapidamente la
loro attività dopo la sospensione della terapia con GC esogeni. Il modo migliore di
prevenire questa inibizione surrenalica è
la somministrazione dei GC in dose unica
al mattino, mentre è assolutamente inutile la somministrazione periodica di ACTH,
come suggerito anni fa.
La cortisono-dipendenza è un fenomeno
complesso, in cui intervengono la necessità
“biologica” di proseguire la terapia con GC
quando è intervenuta l’atrofia surrenalica
e la spinta “psicologica” a continuare a utilizzare un farmaco, che oltre a controllare
adeguatamente la sintomatologia induce
un evidente miglioramento della cenestesi. Il rischio della cortisono-dipendenza
deve essere sempre tenuto presente ogni
volta che si intende iniziare una terapia
con GC in una malattia cronica. In una
malattia cronica come l’artrite reumatoide, se si eccettuano i casi ad esordio acuto
o rapidamente ingravescente, la terapia
sintomatica antiflogistica va iniziata di
preferenza con i FANS, in quanto non è poi
facile che un malato che ha fatto ricorso ai
GC apprezzi l’efficacia, indubbiamente
minore, dei FANS. Una particolare atten-
Evidenze a confronto
zione va posta ai soggetti psicolabili, nei
quali il distacco dei GC è particolarmente
difficile e si possono addirittura osservare
fenomeni di auto-prescrizione.
Accanto alle conseguenze che derivano
dalla soppressione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene, vi sono numerose altre complicanze che derivano dalla terapia prolungata con GC. Tra queste, vi sono anomalie
dei liquidi e degli elettroliti, ipertensione arteriosa, iperglicemia, aumento della
suscettibilità alle infezioni, osteoporosi,
miopatia, disturbi del comportamento, cataratta, arresto della crescita e il caratteristico habitus da sovradosaggio di GC che
comprende la ridistribuzione del grasso, le
strie, le ecchimosi, l’acne e l’irsutismo.
Le alterazioni dell’omeostasi dei liquidi
e degli elettroliti possono causare alcalosi
ipokaliemica, edemi ed ipertensione arteriosa. I meccanismi alla base degli effetti
vascolari sono complessi e regolati da molteplici fattori. I GC esercitano un’azione
diretta sul cuore, stimolano l’attività di
sostanze vasoattive e agiscono direttamente sulla muscolatura liscia dei vasi;
inibiscono la sintesi di Prostaglandine
e quindi prevale l’effetto vasocostrittore
della Prostaclina. Infine i GC determinano un aumento dei livelli di prorenina, di
substrati della renina e un aumento dell’attività dell’enzima di conversione dell’angiotensina II.
L’effetto osteopenizzante è determinato
da una negativizzazione del metabolismo
del calcio (riduzione dell’assorbimento intestinale e del riassorbimento tubulare
renale) e da una negativizzazione del
metabolismo dell’osso (attivazione degli
osteoclasti in un quadro di iperparatiroidismo reattivo, con inibizione precoce
degli osteoblasti). Questo fa si che l’effetto osteopenizzante degli GC si manifesti molto precocemente nel corso della
terapia steroidea. Ovviamente l’effetto è
dose-dipendente, ma sembra che dosaggi
anche molto bassi di GC, se proseguiti
per lungo tempo, inducano una riduzione
apprezzabile della massa ossea. Come è
logico pensare, le conseguenze sono tanto
più gravi quanto maggiore è la presenza
di altri fattori di rischio per l’osteoporosi,
come il sesso femminile, l’età avanzata, la
151
menopausa precoce, l’insufficiente apporto
di calcio nella dieta, la sedentarietà, ecc…
La prevenzione dell’effetto osteopenizzante consiste nell’associazione di una terapia
con sali di calcio e bisfosfonati, come stabilito dalla nota 79 AIFA, oltre ovviamente
alla riduzione della dose di GC al minimo
indispensabile. Nei trattamenti prolungati è poi opportuno un periodico monitoraggio del metabolismo minerale osseo
con MOC-DEXA e/o marcatori sierici del
turnover osseo.
L’effetto diabetogeno è determinato da
un lato dall’aumento della neoglucogenesi
protidica e lipidica, conseguente all’aumentata disponibilità di aminoacidi e di
acidi grassi non sterificati, dall’altra da
un’inibizione degli effetti periferici dell’insulina. In assenza di una predisposizione genetica è poco verosimile che i GC
possano provocare “ex novo” la comparsa
di sindrome diabetica, ma in presenza di
un diabete latente o anche solo di una
familiarità diabetica non è raro che i GC
determino la comparsa di un diabete clinico, che tra l’altro non sempre regredisce
dopo la sospensione del trattamento. Se il
soggetto è già diabetico i GC accentuano
lo squilibrio metabolico. In presenza di un
diabete lieve o di una chiara predisposizione familiare può essere utile aggiungere
alla terapia una dose equilibrata di ipoglicemizzanti orali. Se il soggetto è già in
terapia con ipoglicemizzanti orali, occorre
aumentare la dose o passare, se necessario, da questi alla terapia insulinica.
I segni più evidenti delle conseguenze dei GC nel metabolismo lipidico sono
l’accumulo di tessuto adiposo a livello del
collo, del viso e del tronco con perdita di
grassi in corrispondenza delle estremità.
I GC stimolano la lipolisi e inducono un
aumento delle concentrazioni plasmatiche
di acidi grassi liberi. Inoltre, un aumento della massa grassa corporea potrebbe
essere conseguente all’aumento dell’appetito indotto dai GC. Alti livelli di GC
si accompagnano anche ad aumento delle
lipoproteine VLDL, LDL e HDL con elevazione dei livelli totali di colesterolo e
dei trigliceridi. I meccanismi alla base di
questi fenomeni sono probabilmente multifattoriali e comprendono effetti a livello
152
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
della sintesi delle VLDL di acidi grassi e
dell’attività di alcune lipasi endoteliali.
Infatti vi è una grande quantità di dati
ottenuti retrospettivamente che mostrano
come la prevalenza di aterosclerosi sia
superiore tra i pazienti trattati con GC.
Pertanto, anche se sono necessarie ulteriori conferme a questi dati, la potenziale
possibilità di accelerare la progressione
dell’aterosclerosi deve pesare sulla decisione di somministrare una terapia a lungo termine con GC.
L’effetto gastrolesivo è dovuto a meccanismi diversi: aumento della secrezione
cloridropeptica, riduzione della secrezione
di muco, riduzione del potere riparativo
della mucosa. Nel complesso, tuttavia,
l’effetto gastrolesivo dei GC è minore di
quello che viene loro abitualmente attribuito: senza dubbio in presenza di un’ulcera silente, essi possono provocare la
riattivazione o l’aggravamento e favorire
la comparsa di complicanze, quali il sanguinamento o la perforazione. Ma non vi è
alcuna evidenza definita che dimostri che i
GC possano provocare la comparsa “ex novo” di un’ulcera peptica in soggetti che non
avevano sofferto in precedenza. In ogni
caso, l’effetto gastrolesivo dei GC è decisamente inferiore a quello dei FANS, tanto
che in presenza di un soggetto ulceroso si
ricorre preferibilmente ai GC e la terapia
con soli GC a basso dosaggio o per brevi
periodi di tempo non richiede l’associazione sistematica con una gastroprotezione
farmacologica; questa, invece, va iniziata
precocemente se alla terapia con GC si
associa una terapia con FANS e/o Aspirina
ad un dosaggio antiaggregante piastrinico,
come stabilito dalla nota 1 AIFA.
L’inibizione dell’accrescimento è un problema aggiuntivo che si presenta quando
i GC vengono utilizzati in età pediatrica.
Questo effetto si esercita sull’accrescimento staturale, mentre lo sviluppo psichico
e la maturazione sessuale non vengono
influenzati. Il suo meccanismo è controverso: i GC non riducono i livelli basali
di GH, ma riducono la risposta incretoria
a stimoli come l’ipoglicemia insulinica.
Probabilmente i GC esercitano questa
influenza negativa sulla crescita antagonizzando a livello periferico l’azione della
somatotropina, forse per una ridotta produzione di somatomedine. Il modo migliore per prevenire l’inibizione della crescita
staturale è la somministrazione dei GC in
dose unica al mattino; tuttavia, se la crescita è stata già bloccata, il solo passaggio
a questa modalità di somministrazione dei
GC non è sufficiente e sarebbe necessaria
la somministrazione a giorni alterni, il
che rende spesso molto problematico il
controllo clinico della malattia che ha richiesto l’impiego dei GC.
La cataratta si manifesta frequentemente in individui trattati con GC, soprattutto se per periodi prolungati con alte
dosi. Da recenti acquisizioni è emerso che
questo effetto è probabilmente conseguente all’instaurasi di un legame di tipo covalente tra la molecola di GC ed il cristallino.
La terapia con GC, inoltre, può indurre un
aumento della pressione intraoculare in
soggetti particolarmente suscettibili, ad
esempio in pazienti con glaucoma primario ad angolo aperto. Il fenomeno sembra
causato da un’azione dei GC sul deflusso
acqueo, forse per intervento a livello dello
stroma trabecolare; infatti è nota una variazione circadiana dei livelli pressori che
segue le fluttuazioni della cortisolemia
con una sfasatura di circa tre ore. Inoltre
si osserva un aumento della pressione
endooculare dopo circa tre ore dalla somministrazione di GC esogeni.
Nelle terapie di lunga durata i GC
sopprimono le risposte immunologiche e
infiammatorie, per questa ragione trovano
ampio impiego nella terapia di condizioni
in cui tali attività risultano dannose. È
dimostrato che i GC esercitano un effetto inibitorio sulla sintesi e/o attività
di sostanze vasoattive, sulla migrazione
leucocitaria nella sede dell’infezione e sull’attività delle cellule immunocompetenti
nella sede colpita. Infatti le infezioni rappresentano un problema rilevante nella
terapia con GC a lungo termine; eccetto
specifiche situazioni (ad es. riattivazione
di TBC quiescente, ascessi non noti, osteomieliti, ecc…) non è possibile prevedere
quale microorganismo potrà causare l’infezione, potendo essere responsabili anche
germi opportunisti. Il probabile aumento
di incidenza e di gravità della TBC in
Evidenze a confronto
pazienti affetti da malattie sistemiche in
trattamento con GC si è dimostrato di particolare interesse. La diagnosi può risultare difficile potendo essere mascherata
dalla malattia sistemica per la quale i GC
vengono somministrati, considerato anche
il fatto che la risposta alla tubercolina può
essere soppressa dai GC.
La miopatia è una manifestazione comune della terapia prolungata con GC.
L’esordio può essere improvviso, ma generalmente il disturbo si instaura gradualmente e si manifesta appieno nel corso di
settimane o mesi. Interessa inizialmente
i muscoli prossimali, coinvolgendo in seguito, talvolta, quelli distali. La miopatia
indotta da GC si manifesta comunemente
con mialgia, sintomo che scompare rapidamente dopo la sospensione della terapia.
Questa evoluzione clinica oltre ai normali
livelli sierici della GOT, della CPK e delle
aldolasi, è molto utile nella diagnosi differenziale con le miopatie indotte da ipokaliemia o da miosite. Un recente studio ha
dimostrato che il danno muscolare indotto
dai GC può essere contrastato dall’esercizio fisico, pertanto i pazienti in terapia con
GC vanno incoraggiati a svolgere un’attività fisica maggiore.
È frequente che in pazienti in terapia
con GC si verifichino modificazioni del
carattere e dello stato psicologico e che,
sebbene molti pazienti inizialmente provino un senso di benessere, in seguito possano comparire depressione e varie forme
di psicosi. Non si può prevedere quale
tipo di disturbo possa comparire sulla
base delle condizioni del paziente prima
della terapia, ma questo è generalmente reversibile alla sospensione. Disturbi
psichiatrici preesistenti non costituiscono
generalmente una contraindicazione alla
terapia con GC.
L’osteonecrosi (conosciuta anche come
necrosi avascolare o asettica) è una complicanza relativamente comune della terapia
con GC. Ne è più frequentemente interessata la testa del femore, ma questo processo può riguardare anche la testa omerale
e il tratto distale del femore. Dolore e rigi-
153
dità articolare sono di solito i sintomi più
precoci, e questa diagnosi dovrebbe essere
presa in considerazione in quei pazienti
che ricevono GC e che improvvisamente
lamentano dolore al femore, alla spalla o
al ginocchio. Sebbene il rischio aumenti sia
con la dose sia con la durata della terapia
con GC, si può presentare l’osteonecrosi
anche quando elevate dosi di GC sono
somministrate per brevi periodi di tempo. L’osteonecrosi di solito è progressiva
e nella maggior parte dei pazienti colpiti
alla fine si rende necessaria la sostituzione
protesica dell’articolazione.
Considerata la quantità e la gravità degli effetti collaterali legati alla terapia con
GC è importantissimo iniziare al più presto tutte le azioni necessarie per ridurre al
minimo gli effetti indesiderati dei GC.
Nella maggior parte delle condizioni in
cui si utilizzano i GC esistono modalità
terapeutiche alternative o aggiuntive che
vanno tenute in considerazione al fine di
ridurre la dose di GC necessaria al miglioramento clinico della malattia di base; e
se possibile utilizzate prima di iniziare la
terapia con GC nel caso che tale scelta terapeutica comporti una minore incidenza
di complicanze.
Una volta instaurata la terapia steroidea è importante monitorizzare la dose
con attenzione. L’obbiettivo principale è la
risposta clinica, quindi al fine di ridurre
gli effetti collaterali è importante ridurre
progressivamente la dose di GC mantenendo una risposta clinica ottimale.
La terapia a giorni alterni ha cominciato ad affermarsi quando si è osservato che
somministrando una singola dose di GC al
mattino a giorni alterni si potevano ridurre alcuni effetti collaterali continuando a
ottenere una risposta clinica soddisfacente. Da diversi studi emerge che la soppressione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene
è minore nella terapia a giorni alterni,
ma il meccanismo preciso che determina
ciò non è noto. La terapia a giorni alterni
è utilizzata preferibilmente per i periodi
prolungati e non è generalmente indicata
per il trattamento iniziale.
154
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
I CORTICOSTEROIDI NELLA TERAPIA DELL’ARTRITE
REUMATOIDE: ANCORA UN TRATTAMENTO VALIDO?
GIAN DOMENICO SEBASTIANI
U.O.C. Reumatologia, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma
Il trattamento dell’artrite reumatoide (AR) ha come scopi il contenimento
del processo flogistico e la prevenzione
del danno strutturale delle articolazioni.
Poiché i meccanismi fisiopatologici della
sinovite, che sono responsabili delle manifestazioni flogistiche della malattia quali
dolore, gonfiore e rigidità, sono differenti
dai meccanismi fisiopatologici che conducono al danno articolare, i farmaci antireumatici idealmente dovrebbero essere
in grado di bloccare o rallentare entrambi
tali meccanismi. Numerosi sono i farmaci attualmente disponibili per la terapia
dell’AR. Essi possono essere distinti in 4
gruppi: 1) antiinfiammatori non steroidei
(FANS, inclusi gli inibitori preferenziali
della cicloossigenasi-2, detti COXIB); 2)
corticosteroidi (CS); 3) farmaci in grado di
modificare la malattia, Disease Modifying
AntiRheumatic Drugs (DMARDs), quali ad esempio methotrexato, ciclosporina,
sulfasalazina, idrossiclorochina, leflunomide; 4) farmaci biologici, quali gli inibitori del Tumor Necrosis Factor alfa (infliximab, etanercept, adalimumab), i farmaci
anti-B linfociti (rituximab, ocrelizumab,
epratuzumab, ofatumumab), i farmaci che
interagiscono con le molecole co-stimolatorie (abatacept), il tocilizumab (antagonista
del recettore dell’IL-6), i farmaci anti-IL1
come anakinra (antagonista del recettore dell’IL-1beta). Tutti questi farmaci, in
misura maggiore o minore, sono in grado
di ridurre il processo flogistico nell’AR,
con notevole miglioramento dei segni e dei
sintomi della malattia. Tuttavia, la remissione totale, con attività di malattia uguale a zero, è piuttosto rara. Anche quando
clinicamente il paziente è in remissione,
alcune indagini strumentali, quali ultrasonografia ad alta risoluzione e risonanza
magnetica nucleare, possono evidenziare
segni residui di sinovite in fase attiva in
articolazioni peraltro clinicamente prive di
flogosi. Al contrario, alcune strategie tera-
peutiche sono in grado di arrestare il danno articolare strutturale, suggerendo che i
farmaci antireumatici possono influenzare
direttamente non solo la flogosi, ma anche
i meccanismi fisiopatologici della distruzione ossea e cartilaginea. Ad esempio, i
farmaci inibitori del TNFalfa sono in grado
di arrestare la progressione del danno articolare, anche in pazienti che non mostrano
miglioramenti significativi nei segni e sintomi dell’AR. D’altra parte, la progressione
del danno strutturale nei pazienti trattati
con methotrexato è maggiore rispetto ai
pazienti trattati con biologici, e la terapia
di combinazione methotrexato + biologico
ottiene i risultati migliori1.
Nonostante i numerosi effetti collaterali,
e nonostante siano stati introdotti 60 anni
fa, i corticosteroidi restano i farmaci più utilizzati nella terapia dell’artrite reumatoide.
Fra i vari farmaci disponibili per la terapia dell’AR, soltanto i CS sono in grado di
sopprimere la sinovite reumatoide in modo
efficace, rapido e sicuro. Tuttavia gli effetti
favorevoli non sono sostenuti nel tempo a
meno che non vengano utilizzate dosi crescenti ed elevate, dosi sicuramente foriere
di effetti collaterali indesiderati, tali da precludere la possibilità di una terapia a lungo
termine. Non esiste paziente affetto da AR
in fase acuta che non risponda a dosi medie
o medio-basse (7.5-30 mg di prednisone) di
CS, anche nei periodi di riattivazione della
malattia, tanto che quando si presenta un
paziente con quadro clinico suggestivo di
AR in fase di acuzie, non responsivo ai CS, è
necessario valutare la possibilità che il quadro infiammatorio sia sostenuto da altre
cause, quali processi infettivi o neoplastici.
Al contrario, tutti gli altri farmaci utilizzati
nella terapia dell’AR, dal methotrexate ai
farmaci biologici di più recente introduzione, presentano una percentuale di pazienti
non-responder. La medicina “basata sull’esperienza” indica inoltre che nella terapia
di mantenimento a lungo termine, spesso è
155
Evidenze a confronto
necessario associare ai DMARDs, quali il
methotrexate, piccoli dosaggi di CS, al fine
di consentire il mantenimento della remissione della malattia. In alcuni casi piccole
riduzioni, anche di un solo milligrammo
al dì, danno luogo ad una riattivazione dei
sintomi. Possiamo affermare che nell’AR la
percentuale di efficacia dei CS è pari alla
possibilità di produrre effetti indesiderati,
ossia 100% dei casi. Ciò non è altrettanto
vero per altre malattie reumatiche, quali
le vasculiti maggiori o il lupus eritematoso
sistemico, dove la terapia con CS, anche a
dosaggi molto maggiori di quelli sufficienti
nell’AR, spesso non è in grado di controllare
il quadro clinico.
Numerosi trials hanno dimostrato l’efficacia dei CS nella terapia dell’AR. Ad esempio, due trials recenti, lo studio COBRA e
lo studio BeSt, hanno evidenziato che i
CS a dosi elevate per os in combinazione
al methotrexate e alla sulfasalazina sono
molto efficaci e rapidi nel ridurre l’attività
di malattia e nel ritardare la progressione
del danno radiologico2,3. Analogamente,
l’efficacia del trattamento con piccole dosi
nel ridurre sia i sintomi della malattia
che la progressione del danno articolare, è
stata dimostrata, fra gli altri, dagli studi
di Kirwan4, van Everdingen5, nello studio
BARFOT6,7, ed è stata documentata in due
meta-analisi8,9. Inoltre, una review recente
ha confermato che i CS sono in grado di
ritardare il danno articolare documentato
radiograficamente, e pertanto dovrebbero
essere inclusi tra i farmaci disease-modifying nella terapia dell’AR10.
In questo numero, nella rubrica “Evidenze a Confronto” due esperti reumatologi esaminano i pro e i contro della terapia
con i corticosteroidi nell’AR. Le conclusioni che si possono trarre dalla lettura dei
due contributi sono che i CS sono tuttora
i farmaci più usati nella terapia dell’AR,
che sono senz’altro molto efficaci, che
tuttavia sono in grado di produrre effetti
collaterali in modo certo. L’uso attento ed
in mani esperte di questi farmaci può limitare notevolmente gli effetti indesiderati,
ecco perché i CS rimangono tra i farmaci
più usati nell’AR anche dopo 60 anni dalla
loro introduzione in terapia e anche dopo
la scoperta di numerose altre molecole.
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ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
Rassegne
IPOTIROIDISMO NELL’ANZIANO*
HYPOTHYROIDISM IN THE ELDERLY
PAOLO ZUPPI, ENRICO FIDOTTI
Dipartimento di Medicina Specialistica - U.O. Endocrinologia
Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Ipotiroidismo. Anziani
Key words: Hypothroidism. Elderly
L’ipotiroidismo1-4 è la sindrome clinica
dovuta alla carenza degli ormoni tiroidei.
Nei pazienti anziani ha una prevalenza
variabile nei diversi studi fra il 5-20%
nelle donne e il 3-8% negli uomini5.
L’ipotiroidismo deve essere sospettato
e diagnosticato poiché se misconosciuto provoca l’insorgenza di complicanze
anche gravi e peggiora la prognosi delle
patologie associate. Spesso, i sintomi e
i segni dell’ipotiroidismo nei pazienti
geriatrici sono male interpretati o come
espressione dell’invecchiamento stesso o
come manifestazione delle comorbidità
presenti nel paziente.
Nel fisiologico processo di invecchiamento, la tiroide va incontro ad una riduzione del volume ghiandolare, vi è un prolungamento dell’emivita del T4 associata
a una modesta riduzione dei livelli del T3
e una frequente positività degli anticorpi
antitiroide6.
La prevalenza dell’ipotiroidismo aumenta con l’incedere dell’età7, fino a essere, nei soggetti con più di 75 anni, circa il
21% nelle femmine e il 16% nei maschi8.
La prevalenza è più elevata nella popolazione che necessita ospedalizzazione9, proprio a testimoniare come l’ipotiroidismo
determini comunque un peggioramento
delle condizioni10.
Eziologia. In circa 80% dei casi è dovuto ad un processo infiammatorio cronico,
tiroidite cronica di Hashimoto11,12, altre
cause sono la tiroidectomia, la terapia con
131
I per ipertiroidismo, i farmaci (amiodarone, litio, citochine).
Manifestazioni cliniche
Il riscontro di ipotiroidismo nell’anziano è frequentemente occasionale (13).
Infatti, l’esordio graduale e subdolo della
sintomatologia, i meccanismi psico-fisici
di adattamento compensativo, la frequente presenza di altre patologie invalidanti
già diagnosticate, il decadimento cognitivo, rendono poco evidente la malattia ai
pazienti, ai parenti e, purtroppo, anche al
medico curante14,15.
* Relazione tenuta al Convegno “Ormoni e invecchiamento”Aula Magna Ospedale Forlanini, Roma, 2/10/2008.
P. Zuppi, E. Fidotti: Ipotiroidismo nell’anziano
I segni e sintomi classici dell’ipotiroidismo sono più sfumati o assenti nei
soggetti anziani16. L’incremento ponderale, ad esempio, è scarso o assente a causa
della contemporanea riduzione dell’apporto alimentare. A volte, addirittura,
a preoccupare il paziente o i parenti è il
calo ponderale. Frequenti sono i molteplici
sintomi neuro-psichiatrici quali la depressione, il delirio, la demenza, l’agitazione,
la sonnolenza, l’apatia, astenia, miopatia,
ipogeusia o disgeusia. A carico del sistema cardiovascolare possono manifestarsi:
bradicardia, ipertensione, versamento pericardico.
Obiettività. L’aspetto fisico è spesso
fuorviante. Caratteristica è la cute pallida, secca e ruvida, il defluvium con capelli
fragili e sottili. Può essere presente ipotermia.
A causa della sintomatologia prevalente all’esordio il paziente ipotiroideo può
essere indirizzato impropriamente ad altri
specialisti (Tabella 1).
Laboratorio. Nell’ipotiroidismo primario si ha una elevazione del TSH con riduzione del FT4. Come esame di screening
è sufficiente il dosaggio del solo TSH. Con
tale accertamento sfuggirebbero al riconoscimento solo gli ipotiroidismi secondari a
disfunzione ipotalamo ipofisaria. La diagnosi deve comunque essere confermata
da un secondo prelievo con il dosaggio di
FT4, FT3, AbTPO e AbTG.
I risultati dei dosaggi ormonali, devono essere interpretati in ogni paziente in
base alle condizioni cliniche. Sappiamo
infatti che nei pazienti affetti da gravi
patologie vi può essere una riduzione del
FT3 e FT4 anche con TSH basso, “sick
euthyroid sindrome”17. In tali situazioni,
157
la prognosi della malattia è direttamente
proporzionale alla riduzione dei valori ormonali18. Con la guarigione della malattia
si verifica la normalizzazione dei valori
ormonali, con una breve fase di elevazione
del TSH sopra i limiti della norma19.
Altre situazioni in cui si può verificare
una transitoria elevazione dei valori del
TSH, non indicativa di ipotiroidismo, sono
riportate nella Tabella 2.
Il dosaggio degli anticorpi anti tireoglobulina (AbTG) ed antitireoperossidasi
(AbTPO), può confermare l’eziologia autoimmune, ma il loro riscontro, nei pazienti geriatrici, è frequente e non indica necessariamente ipotiroidismo20 e pertanto
tale dosaggio non deve essere eseguito nello screening. I pazienti con positività degli
anticorpi hanno una probabilità maggiore
di evoluzione da ipotiroidismo subclinico
a clinico21.
Altre alterazioni dei parametri di laboratorio sono: l’iponatremia, spesso rilievo
occasionale in corso di esami di controllo,
provocata dalla ridotta escrezione dell’acqua libera22; ipercolesterolemia23; elevazione della CPK dovuta alla miopatia24;
aumento dell’omocisteina25; anemia, classicamente macrocitica, ma anche microcitica o normocitica.
L’ecografia tiroidea può evidenziare
ipoecogenicità diffusa o parcellare dell’ecostruttura parenchimale e quindi confermare la presenza di una tiroidite autoimmune26.
Trattamento: I pazienti ipotiroidei
devono essere esaurientemente informati
della loro condizione patologica e sentirsi
partecipi delle decisioni terapeutiche così
da avere un’elevata compliance, infatti
necessitano di ripetuti controlli clinici e di
Tabella 1 - Particolari sintomi di presentazione e possibili referenti specialistici
Anemia
Dolori osteo-articolari
Disturbo dell’andatura/cadute ricorrenti
Cute secca e ruvida,
defluvium
Lipotimia-sincope-coma
CPK elevate
Ematologo
reumatologo/ortopedico
Neurologo
Dermatologo
Pronto Soccorso
cardiologo (per sospetto infarto del miocardio)
Tabella 2 - Cause di transitoria elevazione del
TSH (5-10 µU/ml)
Dopo guarigione da malattie gravi non tiroidee
(euthyroid sick syndrome)
Terapia con amiodarone
Uso di farmaci antidopaminergici
Eccesso di terapia con tionamidi (metimazolo, carbimazolo, propiltiouracile) per ipertiroidismo
158
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
laboratorio27. Solitamente possono essere
seguiti dal medico di medicina generale,
essendo lo specialista endocrinologo necessario solo per casi gravi o complicati.
E utile raccomandare ai pazienti di non
sospendere la terapia, come spesso fanno di propria iniziativa, in corso di altre
patologie o in caso di assunzione di altri
farmaci.
La terapia si basa sull’assunzione di
levotiroxina (L-T4) sintetica. I preparati
a base di estratti tiroidei sono ormai abbandonati per la variabilità in contenuto
ormonale.
La dose iniziale di L-T4, solitamente
12.5 o 25 µg die, deve essere incrementata
di 12.5 o 25 µg ogni 4-6 settimane28, fino
alla normalizzazione dei valori del TSH29.
E raccomandata una maggiore gradualità
nei pazienti in condizioni generali più scadenti, con ipotiroidismo di lunga durata e
in quelli affetti da cardiopatia ischemica.
Il dosaggio del TSH, deve essere effettuato
almeno dopo 6 settimane dalla variazione
posologica. Una volta raggiunta la dose
appropriata, il controllo del TSH sarà semestrale o annuale. La dose sostitutiva ottimale può variare nel tempo per un peggioramento dell’ipotiroidismo o per una
variazione del peso. Il paziente, inoltre,
deve essere invitato a riferire al medico
l’eventuale assunzione di nuovi farmaci o
di nuove abitudini alimentari, per le possibili interferenze con l’assorbimento della
L-T4 30, 31 (Tabella 3).
La terapia cronica con farmaci quali la
fenitoina, la carbamazepina, il fenobarbital e la rifampicina, determinando un au-
Tabella 3 – Farmaci che interferiscono con
l’assorbimento della L-T4
Raloxifene
Calcio carbonato
Dieta ad alto contenuto di fibre e/o di soia
Terapia marziale
Colestiramina
Farmaci per ipercolesterolemia
Idrossido di allumino
Kayexalate
Sucralfato
mentato metabolismo della tiroxina, può
rendere necessario un incremento della
posologia32, 33.
Il sovradosaggio è associato a gravi
effetti collaterali per il trattamento dei
quali rimandiamo all’articolo sulla tireotossicosi.
L’ipotiroidismo sub-clinico è caratterizzato da valori di TSH inferiori a 10
µU/ml con FT4 e FT3 normali. La sua prevalenza nella popolazione anziana varia
dal 4 al 16 % nelle varie statistiche34, 35.
Gli studi della storia clinica dell’ipotiroidismo subclinico indicano che in circa il
5% dei casi si ha la normalizzazione dei
valori del TSH36 e che ogni anno il 5% dei
casi progredisce a ipotiroidismo franco37.
Come abbiamo già detto, i soggetti con
valori di AbTPO particolarmente elevati
presentano una maggiore possibilità di
evoluzione.
Nonostante si sia riscontrato nei pazienti affetti da ipotiroidismo subclinico
un aumentato rischio cardiovascolare38
e di dislipidemia39, e che il trattamento
con L-T4 migliori le prestazioni mentali40,
la sensazione di benessere41 e normalizzi l’assetto lipidico42, 43, la mancanza di
evidenze su grandi trials del beneficio
su end point primari, lascia controversa
l’opportunità del trattamento44, 45. Alcuni
lavori mostrerebbero addirittura una più
lunga sopravvivenza dei pazienti con TSH
modestamente elevato46.
Avendo sempre presente che dobbiamo
curare il paziente e non riportare dei numeri nel range della normalità, riteniamo
che la decisione di consigliare l’assunzione
di L-T4 in pazienti affetti da ipotiroidismo
sub-clinico debba essere presa caso per caso, valutando con attenzione le condizioni
cliniche generali (valori della pressione
arteriosa, test psicometrici, ECG, assetto
lipidico, assetto enzimatico), le altre patologie associate, le altre terapie assunte, la
compliance, (non solo all’assunzione della
terapia ma anche ai controlli, infatti è più
rischioso un ipertiroidismo iatrogeno che
un ipotiroidismo subclinico)47. In alcuni
casi può essere utile iniziare il trattamento e osservare gli eventuali benefici. Se
decideremo di trattare, i valori del TSH
andranno riportati nella norma e non
P. Zuppi, E. Fidotti: Ipotiroidismo nell’anziano
soppressi, se decideremo di non trattare,
dovremo controllare ogni 6-12 mesi le condizioni del paziente e i valori del TSH.
Screening. Abbiamo visto come l’ipotiroidismo se identificato sia facilmente
curabile, ma se misconosciuto sia invalidante e potenzialmente mortale. Purtroppo, spesso, i sintomi e i segni dell’ipotiroidismo nei pazienti anziani sono atipici e
non suscitino nel clinico il sospetto diagnostico, ad esempio il 15 % dei pazienti
geriatrici con disturbi psichiatrici è affetto
da ipotiroidismo misconosciuto48.
La U.S. Preventive Services Task Force 49
afferma che, in assenza di studi che dimostrino l’efficacia della terapia con L-T4
nei pazienti affetti da ipotiroidismo subclinico, non è giustificato uno screening di
popolazione in assenza di manifestazioni
cliniche. D’altro canto poiché è opportuno
dosare il TSH in tutti i pazienti geriatrici
con anamnesi patologica o familiare positiva per patologie tiroidee, depressione,
deficit cognitivi, astenia, variazione ponderale, ipertensione oculare, dolori muscolari e articolari, apatia, anemia, ipertensione arteriosa, pallore cutaneo, lipotimia
e in tutte le condizioni patologiche non
diagnosticate, sono ben pochi i pazienti
anziani in cui non sia giustificato il dosaggio del TSH.
L’amiodarone contiene il 37% in peso
di iodio, e, quindi con l’assunzione di 200
mg die, l’apporto iodico è circa 7 mg invece
dei 0.15-0.250 mg ottimali. Oltre che per
l’apporto iodico, l’amiodarone interagisce
con la tiroide a vari livelli: inibisce le desiodasi di tipo 1 50 con riduzione del T3 e
aumento del rT3, inibisce la desiodasi di
tipo 2 51 provocando un modesto aumento
del TSH, con una citotossicità diretta52, inibisce il recettore per gli ormoni tiroidei 53
determinando uno pseudo ipotiroidismo
tissutale, stimola la produzione di anticorpi antitiroidei54. L’incidenza di ipotiroidismo nei pazienti in terapia con amiodarone è di circa il 13% nelle aree con adeguato apporto iodico alimentare e di 6 %
in quelle con ridotto apporto iodico55. E
importante ricordare che nei primi mesi di
terapia con amiodarone si può verificare
una elevazione dei valori del TSH che non
necessita di correzione farmacologica. Se
159
l’amiodarone determina ipotiroidismo, non
è necessario sospendere il farmaco ma è comunque opportuno contattare il cardiologo
curante perché valuti la possibilità di passare ad altri antiaritmici. La terapia sostitutiva con L-T4, deve essere iniziata con
prudenza, monitorando i valori del TSH.
L’evoluzione, della disfunzione tiroidea da
amiodarone è imprevedibile e a volte persiste dopo la sospensione del farmaco.
Coma mixedematoso. Poiché l’ipotiroidismo è spesso misconosciuto, può
evolvere subdolamente fino ad un quadro di grave insufficienza multisistemica in equilibrio precario grazie a complessi meccanismi omeostatici di compenso. Eventi intercorrenti (polmonite,
sanguinamento gastrico, stroke, terapia
con diuretici o sedativi, clima invernale
etc.) possono rendere insufficienti tali
meccanismi adattativi e provocare coma.
Escludere l’ipotiroidismo è necessario nei
pazienti anziani che presentino un coma
per cause apparentemente modeste. Solitamente i parenti riferiscono letargia
e ipersonnia negli ultimi mesi. Il coma
mixedematoso ha una mortalità di circa il
40%56.Vi è ipotermia anche estrema, fino
a 23°57. Il laboratorio evidenzia riduzione FT4, elevazione TSH, iponatriemia,
CPK elevate, ipossia, ipercapnia. Il coma
mixedematoso è una emergenza medica e
la rapidità della diagnosi è essenziale per
migliorare la prognosi. Il trattamento deve essere iniziato anche nel solo sospetto.
Il trattamento di scelta sarebbe la somministrazione di T4 per via endovenosa.
Purtroppo tale presidio non è disponibile
in Italia, e pertanto bisogna somministrare la T4 per os, eventualmente tramite sondino naso gastrico, anche se le
alterazioni circolatorie e intestinali ne
riducono l’assorbimento. La posologia nei
primi giorni può essere anche elevata
per ottenere una rapida saturazione del
volume di distribuzione. Possono essere
associate piccole dosi di T3 ripartite in
tre somministrazioni quotidiane. Inoltre
è opportuno somministrare 200-300 mg
di idrocortisone e.v., instaurare terapia
antibiotica a largo spettro e non ritardare l’intubazione in caso di insufficienza
respiratoria.
160
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Per corrispondenza e richiesta estratti:
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
TIREOTOSSICOSI, IPERTIROIDISMO, IPERTIROIDISMO
SUBCLINICO NELL’ANZIANO*
THYROTOXICOSIS, HYPERTHYROIDISM AND SUBCLINICAL
HYPERTHYRODISM IN ELDERLY PEOPLE
PAOLO ZUPPI, ENRICO FIDOTTI
Dipartimento di Medicina Specialistica - U.O. Endocrinologia
Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Tireotossicosi. Ipertiroidismo. Ipertirodismo subclinico. Anziani
Key words: Thyrotoxicosis. Hyperthoidism. Subclinical hyperthoidism. Elderly
Definizione. La tireotossicosi è la
sindrome clinica dovuta all’eccesso di ormoni tiroidei circolanti. Il termine ipertiroidismo andrebbe riservato a quei
casi in cui l’eccesso ormonale è dovuto
a iperproduzione da parte della tiroide
stessa. Si definisce ipertiroidismo subclinico la presenza di TSH cronicamente
soppresso con valori degli ormoni tiroidei
nella norma1-4.
I dati della letteratura sulla prevalenza della tireotossicosi nella popolazione
geriatrica sono discordanti, variando fra
il 2,7 e 8%, con un rapporto M:F di circa
1:8 (5-10). Tale discordanza è dovuta alla
difformità per età, etnia, apporto iodico
nella dieta, condizioni di salute (soggetti
ambulatoriali, ospedalizzati, sani), fra i
campioni di popolazione esaminati. La
tireotossicosi conclamata è presente nel
0.2-2 % (11).
Eziologia. In età geriatrica, la prevalenza del morbo di Basedow si riduce,
essendo responsabile del 17-24 % dei casi
di tireotossicosi, mentre aumenta la pre-
valenza del gozzo multinodulare tossico,
responsabile di circa il 33-43% dei casi12-14.
L’apporto iodico con la dieta ha grande
rilevanza, essendo maggiore l’incidenza
di morbo di Basedow nelle zone con normale apporto iodico rispetto alle zone con
apporto iodico insufficiente, dove, viceversa, sono più frequenti le lesioni nodulari
tossiche15, 16. Una piccola percentuale di
ipertiroidismi, circa 1%, è scatenata da un
aumentato apporto iodico 17, 18. Farmaci
contenenti iodio, come multivitaminici,
espettoranti, mezzi di contrasto radiografici, o comunque un’aumentata assunzione
di iodio con la dieta (sale iodato, conservanti alimentari), possono provocare
ipertiroidismo, specialmente in pazienti
con patologia plurinodulare provenienti da
aree a carenza iodica.
I pazienti in terapia con L-T4 sono circa
il 5% dell’intera popolazione geriatrica. Il
16% delle tireotossicosi è dovuto ad un sovradosaggio del L-T4, infatti, poiché l’invecchiamento determina il prolungamento
dell’emivita della T4, posologie sostitutive
prima adeguate possono diventare eccessive con il passare degli anni. Nei pazienti
* Relazione tenuta al Convegno “Ormoni e invecchiamento” Aula Magna Ospedale Forlanini, Roma, 2/10/2008
P. Zuppi, E. Fidotti: Tireotossicosi, ipertiroidismo e ipertiroidismo subclinico nell’anziano
in terapia sostitutiva, è quindi opportuno
un controllo periodico del TSH per eventuale riduzione della posologia in precedenza congrua.
Nello 1% dei casi la causa scatenante
può essere una tiroidite sub-acuta.
Sintomatologia. Nei pazienti anziani,
la tireotossicosi, si manifesta con sintomi,
segni e complicanze a carico degli apparati
più vulnerabili in età avanzata19, 20, spesso
determinando l’esacerbazione di patologie
croniche già presenti21. Accade, quindi,
che un sintomo, magari atipico, prevale,
occupando l’intero quadro sindromico e
fuorviando la diagnosi. Per tale motivo,
allorquando in un paziente anziano il
quadro clinico ci porta a sospettare una
malattia neoplastica, una demenza, una
cardiopatia o una patologia gastrointestinale, sarebbe bene sempre escludere la
tireotossicosi.
Rispetto ai pazienti di più giovane
età, sono meno frequenti i classici segni
di attivazione adrenergica quali tremori,
iperfagia, intolleranza al caldo, cardiopalmo, diarrea e sudorazione22, 23. A volte il
riscontro di un eccesso di ormoni tiroidei
plasmatici è una sorpresa in pazienti completamente asintomatici (24).
Sistema cardio-circolatorio: L’accelerato metabolismo, l’accresciuto consumo
di ossigeno, la vasodilatazione periferica,
l’effetto inotropo positivo degli ormoni
tiroidei, determinano un aumento della
gittata e della frequenza cardiaca.
I pazienti lamentano cardiopalmo e
presentano tachicardia. Rispetto ai soggetti con tireotossicosi di più giovane età,
sono più frequenti la fibrillazione atriale
(fino al 28 %), lo scompenso cardiaco congestizio, la cardiopatia ischemica25, 26. Le
frequenti complicanze a carico del sistema cardiocircolatorio sono responsabili
dell’aumentata morbilità e mortalità dei
pazienti ipertiroidei geriatrici27.
Sistema nervoso: Nei soggetti anziani,
la tireotossicosi può esordire con intensa
astenia, depressione del tono dell’umore
e labilità emozionale. In alcuni casi i pazienti lamentano confusione mentale più
o meno grave fino alla pseudo-demenza.
163
I pazienti possono essere agitati o al contrario presentare apatia fino alla letargia
e al coma: apathetic hyperthyroidism28-30.
Sintomo caratteristico è il tremore, che
può interessare anche la lingua, e, ove già
presente, il tremore da parkinsonismo è
esacerbato.
Apparato osteo-muscolare: I pazienti
lamentano astenia e facile faticabilità. Lo
stato ipercatabolico provoca una ipotrofia
muscolare, in particolare del quadricipite,
con aumentato rischio di cadute31. L’eccesso di ormoni tiroidei determina aumento
del turnover osseo, con ipercalcemia e
aumentata escrezione di calcio e fosforo,
con conseguente riduzione della densità
ossea32, determinando accresciuto rischio
di fratture33, specialmente nelle donne
anziane e aumentata morbilità e mortalità34,35.
Respiratorio: è spesso presente dispnea, particolarmente in risposta a sforzi
anche lievi.
Apparato gastroenterico: la sintomatologia a carico dell’apparato gastroenterico è paradigmatica della modalità di
manifestazione clinica della tireotossicosi
nell’anziano: un sintomo a volte unico,
spesso atipico, come la stipsi, che pone la
necessità di una diagnosi differenziale con
malattie neoplastiche d’organo (3).
Il sintomo più frequente è la perdita di
peso, a volte accompagnata da anoressia e
vomito (4).
Oftalmopatia: è molto meno frequente che nei soggetti giovani sia perché
più raramente la tireotossicosi è dovuta
a morbo di Basedow, sia per una minor
incidenza di oftalmopatia in corso di tale
patologia (3), e, quando presente, ha un
decorso meno severo.
Cute: seppur meno frequentemente che
nei soggetti più giovani, possono presentare sudorazione eccessiva, mani calde,
onicolisi con eventuale ipoonichia, iperpigmentazione specialmente intorno agli
occhi, vitiligine che può precedere anche
di anni l’esordio clinico della malattia. I
capelli possono essere fini, fragili e “resistenti al pettine”. Il prurito è presente in
circa il 4% dei pazienti anziani affetti da
ipertiroidismo (Tabella 1).
164
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Tabella 1. Sintomi e segni in pazienti ipertiroidei anziani a confronto con ipertiroidei di
età inferiore a 60 anni
SINTOMI
Calo ponderale
cardiopalmo
astenia
prurito
vertigini
eretismo psichico
apatia
Intolleranza al caldo
Riduzione memoria
sudorazione
anoressia
Aumento fame
Stipsi
SEGNI
tachicardia
Fibrillazione atriale
Segni oculari
tremori
miopatia
Sintomi cutanei
ginecomastia
Confusione-demenza
< 60 anni
> 65 anni
85%
89%
79%
99%
89%
91%
9%
65%
-
76%
36%
28%
4%
20%
48%
31%
43%
8%
21%
32%
7%
37%
100%
6%
71%
97%
< 5%
97%
10%
< 5%
52%
28%
8%
60%
30%
50%
52%
I pazienti con un ipertiroidismo conclamato, hanno un’ aumentata mortalità che
persiste anche a distanza di un anno dalla
normalizzazione dei valori ormonali36.
Diagnosi. Negli anziani sani, i livelli
plasmatici di FT3, FT4 e TSH, non differiscono significativamente da quelli della
popolazione giovanile37, infatti, la ridotta
secrezione ormonale da parte della tiroide
è bilanciata dall’allungamento dell’emivita
della T438. Nella tireotossicosi conclamata
vi sono valori di TSH ridotti con livelli plasmatici di FT3 e/o FT4 elevati. Il dosaggio
ultrasensibile del TSH, di terza generazione39, con una sensibilità fra 0,005 e 0,01
µU/ml, consente una determinazione attendibile del TSH sierico anche nel range
di valori al di sotto della norma.
In circa il 4% dei soggetti con età superiore a 60 anni40, è presente TSH ridotto
con normali valori di FT3 e FT4. Tale
alterazione non sempre è espressione di
ipertiroidismo sub-clinico41. Il prelievo per
il dosaggio del TSH non dovrebbe essere
eseguito durante malattie acute, poiché in
risposta a tali situazioni vi è una fisiologica riduzione della secrezione ipofisaria
del TSH42, inoltre, alcuni farmaci, come la
dopamina, i glucocorticoidi e l’octreotide
(analogo della somatostatina utilizzato
nella terapia dell’acromegalia e dei tumori
neuroendocrini) determinano una riduzione dei valori plasmatici del TSH43.
TSH ridotto con valori di ormoni tiroidei nei limiti si può riscontrare nelle fasi
iniziali e finali della tireotossicosi, infatti
il TSH resta inferiore alla norma fino a tre
mesi dopo la fine di una tireotossicosi44.
Pazienti in terapia con L-T4 possono presentare, in caso di modesto sovradosaggio,
parziale riduzione dei valori del TSH45
(Tabella 2).
A causa della sintomatologia frequentemente atipica e del reperto palpatorio
della ghiandola normale in circa i 2/3 dei
pazienti, la diagnosi è spesso inaspettata.
In una casistica di pazienti ospedalizzati
il riscontro è stato occasionale addirittura
nel 62% di casi46.
Tabella 2 - Condizioni nelle quali è possibile riscontrare TSH ridotto con FT3 e/o FT4 nei limiti
In circa il 2% degli anziani sani
Errore di laboratorio
Eccessiva assunzione di T4 esogeno
Eccessiva assunzione di T3 esogeno
Morbo di Basedow subclinico
Nodulo autonomo
Tiroidite subacuta
Terapia acuta con glucocorticoidi
Terapia con amiodarone
Fase iniziale o finale di ipertiroidismo
TSH µU/ml
0.1-0.5
< 0.1-0.5
< 0.1-0.5
< 0.1-0.5
0.1-0.5
0.1-0.5
< 0.1-0.5
0.1-0.5
< 0.1-0.5
< 0.1-0.5
FT3
↔
↔
↔
↑
↔
↔↑
↔↑
↓
↔↑
↔
FT4
↔
↔
↔↑
↔↓
↔↑
↔↑
↔↑
↔
↔↑
↔
SINTOMI
NO
NO
NO-SI
SI-NO
NO-SI
NO-SI
NO-SI
NO
NO-SI
NO
P. Zuppi, E. Fidotti: Tireotossicosi, ipertiroidismo e ipertiroidismo subclinico nell’anziano
Una volta posta diagnosi di tireotossicosi, in considerazione della prevalenza
delle diverse eziologie in età geriatrica (gozzo multinodulare tossico: 33-43%;
morbo di Basedow: 17-24%; sovradosaggio
del L-T4: 16%; tiroidite sub-acuta: 1%),
proseguiamo l’iter diagnostico con altri
accertamenti:
dosaggio anticorpi: nel morbo di Basedow sono spesso presenti anticorpi antirecettore TSH (TSHRAb), e in più della
metà dei casi, anticorpi anti tireoperossidasi (AbTPO) e anticorpi antitireoglobulina (AbTG) (1).
ecografia tiroidea: permette l’analisi
morfologica della ghiandola, il riconoscimento e la valutazione delle lesioni nodulari e lo studio della vascolarizzazione.
Consente quindi, ad esempio, di identificare un incremento volumetrico diffuso
con vascolarizzazione aumentata, tipico
del morbo di Basedow, o la presenza di un
gozzo plurinodulare.
scintigrafia tiroidea: fornisce la valutazione morfo-funzionale della ghiandola e dei noduli. Nel morbo di Basedow è
presente un aumentato uptake distribuito
omogeneamente. Un’area localizzata di
aumentata captazione con inibizione del
restante parenchima, rivela la presenza di
un adenoma autonomo.
curva di captazione: riflette la captazione dello iodio, la sua organificazione ed
il suo rilascio dalla tiroide. Sarà aumentata in caso di morbo di Basedow, e, sarà invece ridotta in caso di tiroidite sub-acuta
in fase tossica o di assunzione di farmaci
contenenti iodio e nella tireotossicosi factitia. È necessaria per valutare la dose da
somministrare per la terapia radiometabolica.
Nei pazienti geriatrici affetti da tireotossicosi è inoltre necessario eseguire una
accurata valutazione cardiocircolatoria,
anche con studio ecocardiografico, e della
mineralizzazione ossea. Tali informazioni,
nell’ipertiroidismo sub-clinico, sono necessarie per valutare l’opportunità del
trattamento.
Storia clinica dell’ ipertiroidismo
sub-clinico. La maggioranza dei pazienti
anziani che presentano TSH inibito con
valori di FT3 e FT4 nei limiti, non svilup-
165
pano in seguito ipertiroidismo conclamato.
In uno studio di Parle47, su 50 pazienti con
TSH inferiore alla norma ma dosabile, 38
(76%), dopo 12 mesi, tornava ad avere il
TSH nella norma e solo circa il 6% sviluppano una franca tireotossicosi.
L’ipertiroidismo subclinico è associato
ad una maggiore incidenza di fibrillazione
atriale, di accidenti cerebrovascolari48, 49.
Nello studio di Framingham, il 28 % dei
pazienti affetti da ipertiroidismo subclinico presenta almeno un episodio di fibrillazione atriale nei 10 anni successivi, contro
l’11% dei soggetti eutiroidei50. È stata
dimostrata anche una ridotta tolleranza
all’esercizio fisico con alterata funzione
diastolica e diminuita performance sistolica51.
Il Rotterdam study mostra una aumentata incidenza di demenza in soggetti con
età superiore a 55 anni affetti da ipertiroidismo subclinico52.
A livello osseo, determina, specialmente
nelle donne, una riduzione del tono calcico53-55, tale danno migliora allorquando
l’ipertiroidismo subclinico viene trattato56.
Infine, Radacsi nel 2003 ha riscontrato che
nei pazienti geriatrici affetti da patologie
croniche, l’ipertiroidismo sub-clinico si associa ad una aumentata mortalità57.
Screening. La diagnosi di tireotossicosi è frequentemente misconosciuta
nei pazienti di età avanzata, poiché la
sintomatologia è spesso atipica. Alcuni autori58 suggeriscono la valutazione della funzionalità tiroidea in tutti
i pazienti geriatrici che necessitino il
ricovero in ospedale per una qualsiasi
patologia. Franklyn e Parle (2) considerando la mancanza di dati sul possibile
impatto sulla mortalità/morbilità della
terapia nella popolazione sottoposta a
screening, concludono che l’esecuzione di
uno screening in tutti i pazienti anziani
è attualmente ingiustificata. D’altro canto, essendo opportuno eseguire almeno
il dosaggio del TSH in quei pazienti che
presentino calo ponderale, stato mentale
alterato, cadute, depressione, osteoporosi, alterazioni dell’alvo, astenia, prurito,
vertigini, tremori, sono ben pochi i pazienti anziani in cui tale accertamento
non sia giustificato59.
166
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Terapia. Tutti i pazienti affetti da
tireotossicosi conclamata devono essere
trattati. Nei pazienti affetti da ipertiroidismo sub-clinico, la decisione di intraprendere una terapia, sarà valutata caso per
caso, considerando le condizioni generali
e la presenza delle possibili complicanze
della malattia: fibrillazione atriale, calo
ponderale, osteoporosi, miopatia, involuzione delle funzioni superiori.
Terapia farmacologica: Il metimazolo e il propiltiouracile (non in commercio in Italia), inibiscono la captazione
e l’organificazione dello iodio, riducendo
quindi la produzione di T3 e di T4. Il
propiltiouracile, inoltre, inibisce la conversione periferica del T4 a T3, per tale
motivo sembrerebbe più indicato laddove
si desideri la rapida remissione di una
grave tireotossicosi60.
La posologia iniziale deve essere calibrata in base all’eziologia e alla gravità
dell’ipertiroidismo, al volume della ghiandola tiroidea e alle condizioni generali del
paziente. Nel morbo di Basedow è indicato
iniziare con 15-25 mg di metimazolo o 150250 mg di propiltiouracile, e, in caso di
adenoma tossico, con 10-15 mg d metimazolo o 100-150 mg di propiltiouracile61.
Poiché i farmaci inibiscono la sintesi,
ma non il rilascio degli ormoni tiroidei già
sintetizzati, vi è un periodo di latenza dell’effetto, in genere circa 10-15 giorni.
La posologia andrà progressivamente
ridotta, in base ai valori del FT3 e FT4,
fino ad arrivare alla dose minore efficace: in alcuni casi sono sufficienti 2,5 mg
di metimazolo. Il TSH si normalizzerà
molto lentamente, anche dopo mesi dal
raggiungimento di normali valori degli
ormoni tiroidei. Una dose di mantenimento superiore ai 10 mg di metimazolo
o ai 100 mg di propiltiouracile pone il sospetto di una cattiva compliance da parte
del paziente.
Nel morbo di Basedow la durata del
trattamento deve essere almeno di 12-18
mesi62. La probabilità di remissione, nei
soggetti anziani, è superiore al 50%. Fattori predittivi favorevoli sono un piccolo
volume tiroideo, una rapida risposta alla
terapia, una bassa dose di tionamidi necessaria a mantenere l’eutiroidismo63, 64.
La recidiva della malattia alla sospensione della terapia o la necessità di alte dosi
per mantenere l’eutiroidismo, pongono
l’indicazione ad una terapia definitiva.
Riteniamo che nei pazienti che necessitano di una dose minima per conservare
l’eutiroidismo, è indicato continuare la
terapia a vita, controllando i valori di FT3,
FT4 e TSH, dapprima ogni 2 mesi poi ogni
4-6 mesi65. Nel gozzo multinodulare tossico, la terapia farmacologia, sebbene non
determini la guarigione, è indicata nei pazienti che rifiutano la terapia definitiva o
che abbiano una attesa di vita breve (2).
Gli effetti collaterali sono rari (3,4)66.
In meno del 1% dei soggetti può comparire agranulocitosi, solitamente nelle prime settimane del trattamento e con dosi
elevate. È buona norma avvertire il paziente, al momento della prescrizione, di
sospendere immediatamente l’assunzione
del farmaco in caso di comparsa di febbre
e mal di gola. Altri effetti collaterali sono:
vasculite, epatite, neurite, colestasi, rash
cutaneo, prurito (1).
Nel periodo di latenza della terapia
farmacologica, per ridurre rapidamente
la frequenza cardiaca, possono essere impiegati i beta bloccanti. Tali farmaci andranno prescritti con particolare cautela
nei pazienti affetti da scompenso cardiaco
e broncopatia cronica ostruttiva. I farmaci
preferiti sono: il propanololo che però necessita di ripetute somministrazioni quotidiane (20 mg ogni 8 ore), l’ atenololo (50
mg die) e il nadololo 40-80 mg).
Non vi sono controindicazioni alla terapia anticoagulante per la fibrillazione
atriale. Per limitare la possibilità di recidive, la cardioversione deve essere tentata
solo una volta raggiunto l’eutiroidismo.
Terapia radiometabolica: I vantaggi della terapia radiometabolica sono la
facilità della somministrazione, l’unicità
del trattamento, la quasi assenza di effetti
collaterali (alcuni pazienti lamentano dolore alla gola o senso di tensione), l’assenza di rischio neoplastico (1).
Nei pazienti affetti da un ipertiroidismo
severo, è consigliabile una preparazione
con tionamidi, da sospendere 5-7 giorni
prima di somministrare lo 131I, per evitare
la tempesta tiroidea che potrebbe essere
P. Zuppi, E. Fidotti: Tireotossicosi, ipertiroidismo e ipertiroidismo subclinico nell’anziano
scatenata dal rilascio di ormoni preformati
dovuta dalla distruzione tissutale. Poiché
l’effetto dello 131I, si instaura lentamente,
nei pazienti con grave ipertiroidismo, è
consigliabile riprendere la terapia tireostatica dopo 5-7 giorni dal trattamento.
Vi sono molti protocolli che suggeriscono come determinare la dose di 131I più
opportuna per ogni paziente. Sempre più
centri prescrivono una dose tale da essere
sicuramente efficace in un’unica somministrazione, anche se a rischio di provocare
ipotiroidismo nel tempo67.
Nei primi tempi dopo la terapia, è opportuno controllare i valori ormonali ogni
4-6 settimane per sospendere progressivamente le tionamidi.
Se dopo 6 mesi dal trattamento vi è
ancora ipertiroidismo, bisogna ripetere la
terapia.
Poiché circa l’80% dei pazienti trattati
diventa ipotiroideo, anche a distanza di
anni, è opportuno monitorizzare i valori
ormonali.
Terapia chirurgica: In considerazione degli aumentati rischi operatori nei
pazienti anziani, la terapia chirurgica
appare indicata solo in presenza di voluminoso gozzo plurinodulare tossico che
determini sintomi compressivi e/o nella
sospetta coesistenza di una neoplasia. I
pazienti devono essere riportati all’eutiroidismo con una preparazione con tionamidi per ridurre i rischi di tempesta tiroidea dovuta al maneggiamento operatorio
della ghiandola (3,4). È stata proposta una
preparazione rapida con steroidi, acido
iopanoico, tionamidi e betabloccanti68. I
vantaggi della terapia chirurgica sono la
guarigione definitiva, la facilità con cui si
determina la corretta posologia della terapia sostitutiva, la scomparsa del rischio
neoplastico69, 70.
L’ amiodarone interagisce con la funzionalità tiroidea a numerosi livelli: apporto iodico esagerato, alterazione dell’attività delle desiodasi (provocando il
modesto aumento del TSH che spesso si
osserva in questi pazienti)71, 72, apoptosi
delle cellule tiroidee73, 74 con danno parenchimale, produzione di anticorpi antitiroidei75, inibizione del recettore per gli
ormoni tiroidei76.
167
Una vera tireotossicosi si manifesta nel
2-12% dei pazienti in terapia con amiodarone, con un rapporto maschi/femmine 3:1
77
, potendo esordire fino a 3-6 mesi dalla
sospensione del farmaco. Sono state descritte due forme di tireotossicosi in corso
di terapia con amiodarone78: TIPO I: in
pazienti con precedenti disordini tiroidei,
espressione di una incapacità di adattamento al carico di iodio. Questi pazienti
hanno la IL-6 normale o poco elevata, una
ghiandola ipervascolarizzata79, il decorso
è protratto; TIPO II: in assenza di anormalità tiroidee, espressione di un processo distruttivo con dismissione in circolo
di ormoni preformati, spesso seguito da
ipotiroidismo. In questi pazienti, la IL-6
è elevata, la ghiandola è poco vascolarizzata, il decorso è solitamente transitorio.
Ma le due forme cliniche espressione del
prevalente meccanismo del danno, sono
spesso indistinguibili.
I pazienti in terapia con amiodarone,
presentano frequentemente alterazioni
dei valori ormonali che però, spesso, non
necessitano alcun provvedimento terapeutico.
Non dovranno infatti essere corretti
farmacologicamente né un modesto aumento del FT4, né una moderata riduzione del FT3, né un limitato incremento del
TSH all’inizio della terapia, né la modesta
riduzione del TSH che può comparire con
l’assunzione cronica di amiodarone.
In caso di riscontro di ipertiroidismo
franco, è opportuno chiedere al cardiologo curante di valutare la possibilità di
sospendere il farmaco. La sospensione,
comunque, non determina una remissione rapida dell’ipertiroidismo. Purtroppo,
frequentemente non sarà possibile l’interruzione, poiché l’amiodarone, in alcuni
pazienti, sembrerebbe l’unico farmaco in
grado di controllare aritmie potenzialmente mortali.
Nei pazienti affetti da ipertiroidismo di
Tipo I è indicato il METIMAZOLO, alla
dose di 10-30 mg, o il PROPILTIOURACILE, 100-300 mg. In casi particolarmente
impegnativi può trovare indicazione il
PERCLORATO DI POTASSIO alla dose
di 400-1000 mg die. Tale farmaco ha come
possibili effetti collaterali l’anemia apla-
168
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
stica e l’agranulocitosi. Nei pazienti affetti
da ipertiroidismo di Tipo II è indicata una
terapia steroidea: PREDNISONE 25-75
MG per 8-10 settimane, magari in associazione con l’ ACIDO IOPANOICO80. Spesso
comunque ci troviamo di fronte a forme
miste o difficilmente inquadrabili, in cui,
dobbiamo fare ricorso a più farmaci: Tionamidi + perclorato di potassio + steroidi.
In presenza di un voluminoso gozzo, di un
ipertiroidismo resistente e nella necessità
di prosecuzione della terapia con amiodarone, può essere indicata la tiroidectomia81.
La preparazione rapida all’intervento può
essere fatta con 1 grammo di acido iopanoico al giorno82.
Il recupero una volta raggiunto l’eutiroidismo, dipende, non solo dalla durata
e dalla gravità della tireotossicosi, ma anche dalle condizioni generali del paziente
che, spesso nell’anziano affetto da patologie multiple, sono scadenti.
A livello osseo, contrariamente che nei
pazienti più giovani, dopo la correzione
della tireotossicosi, non si è osservato recupero della densità83. Non abbiamo dati
sull’evoluzione del danno cardiaco in età
geriatrica, ma, in popolazioni più giovani dopo il trattamento assistiamo ad un
miglioramento delle lesioni ecocardiografiche84, 85.
Riteniamo quindi doveroso instaurare
precocemente il trattamento più adeguato
affinché i danni non si instaurino.
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with iopanoic acid rapidly controls thyrotoxicosis in patients with amiodarone-induced thyrotoxicosis before thyroidectomy. Surgery 2002;
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Per corrispondenza e richiesta estratti:
e-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
PASSATO, PRESENTE, FUTURO DELLA DIAGNOSTICA
DELL’INFEZIONE LUETICA
PAST, PRESENT AND FUTURE OF SYPHILIS
LABORATORY PROCEDURES
FRANCESCO BELLI
Laboratorio di Microbiologia e Virologia
Azienda Ospedaliera “S. Camillo-Forlanini” Roma
Parole chiave: Geni Tprk. Antigeni treponemici. Immunoblot. Test bio-molecolari
Key words: Tprk genes. Treponemal antigens. Immunoblotting. Bio-molecular assays
Riassunto – La sifilide è ancora oggi un problema rilevante di sanità pubblica a livello mondiale, con oltre
12 milioni di nuovi casi l’anno, soprattutto nei paesi africani e asiatici. Nel 1998 fu sequenziato interamente
il genoma di T.pallidum: fra le regioni studiate, la famiglia di geni TprK si è rivelata particolarmente interessante, in quanto codifica proteine di superficie verso cui è diretta la risposta anticorpale ed è caratterizzata da elevata variabilità, il che costituisce un meccanismo di immunoevasione del germe.
Le molteplici tecniche per il dosaggio degli anticorpi, vecchie e nuove, sono passate in rassegna, soprattutto
in relazione alle diverse situazioni cliniche o condizioni particolari di applicazione: diagnosi dell’infezione
acquisita, lue congenita, neuro lue, screening dei donatori, confezione con altre infezioni sessualmente trasmesse. Sono anche delineate le possibili applicazioni in futuro delle nuove metodologie bio-molecolari, oggi
appannaggio di pochi laboratori e di situazioni limitate.
Abstract – Syphilis is still a great problem of public health in the world: over 12 million cases/year of infectious disease are estimated to occur worldwide, the vast majority within developing countries. In 1998 the
genoma of Treponema pallidum was sequenced; a family of TprK genes encode surface antigenic proteins
and antibodies to TprK variable regions and are protective. Antigenic variations through gene conversion
has been hypothesized to be a mechanism of escape immune surveillance by T.pallidum.
The serological detection of specific antibodies is of particular importance in the diagnosis of syphilis: this
paper evaluates and new tests, current conventional techniques, automated immunoassays, confirmatory
test, such immunoblotting and the perspectives of PCR and other bio-molecular assays in screening of acquired disease, in healthy blood donors, in diagnosis of maternal and congenital syphilis, in comorbidity with
STDs, in neurosyphilis.
Introduzione
La sifilide è un’infezione cronica trasmessa perlopiù per via sessuale, che
può divenire sistemica, provocata da
Treponema pallidum, sottospecie Palli-
dum, caratterizzata da episodi di malattia attiva alternati a periodi di latenza.
Queste sono le fasi dell’infezione e della
malattia:
– INCUBAZIONE, 2-6 settimane
– LESIONE PRIMARIA, in sede di con-
F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica
tagio e di contatto sessuale, spesso con
adenopatia satellite concomitante
– STADIO SECONDARIO, caratterizzato da batteriemia, lesioni mucocutanee
generalizzate e linfadenite diffusa
– INFEZIONE LATENTE, subclinica,
che può durare anni e che sfocia, in 1/3
dei casi, senza terapia o con terapia
inadeguata, nello
– STADIO TERZIARIO, con lesioni mucocutanee, muscoloscheletriche e parenchimali, progressive e distruttive, a
carico soprattutto dell’aorta e del sistema nervoso centrale.
T.pallidum appartiene alla famiglia
delle Spirochetales, che include 3 generi
patogeni per l’uomo: Leptospira, responsabile della leptospirosi umana, Borrelia, a
cui si imputa la febbre ricorrente e la malattia di Lyme e Treponema, al cui genere appartengono: T. Pallidum sottospecie
pallidum, agente eziologico della sifilide
venerea, pallidum sottospecie pertenue,
che causa la framboesia e pallidum sottospecie endemicum responsabile del Bejel.
Altro patogeno per l’uomo è il Treponema
carateum, che provoca il mal del Pinto. Vi
sono poi numerosi altri treponemi di specie non patogene che possono essere isolati
dal cavo orale, dal tratto gastrointestinale
e dalla mucosa genitale.
T.pallidum è un microrganismo sottile,
provvisto di 6-14 spire, lungo 6-15 μm e
largo 0.2 μm; numerosi endoflagelli si avvolgono attorno al corpo cellulare e contribuiscono alla motilità del batterio.
La risposta immunitaria umorale è
principalmente diretta verso antigeni della membrana esterna codificati dal gene
Tprk, le cui eventuali mutazioni, con la
sintesi di proteine differenziate, sono un
sistema di evasione immunologica del
batterio, di sua persistenza nell’ospite e
dunque di non eradicazione (progressione)
dell’infezione o reinfezione1.
Molti mammiferi possono essere infettati da T.pallidum, ma solo l’uomo, i
primati superiori e pochi animali di laboratorio sviluppano le lesioni luetiche.
Nessun ceppo è mai stato coltivato con
successo: ceppi virulenti (Nichols, Gand)
vengono cresciuti e conservati per inoculazione nei testicoli di coniglio e possono
173
crescere anche in colture in vitro di cellule
epiteliali dello stesso animale. Pertanto
per la diagnosi di routine sono necessari
test alternativi, come quelli sierologici e,
in prospettiva, molecolari.
La quasi totalità dei casi di sifilide consegue a contatto venereo con lesioni infettanti (sifiloma, placche mucose, esantema
cutaneo, conditomi piani); più rare, ma
possibili e documentate sono le infezioni
per contatti intimi non sessuali, le infezioni intrauterine e da trasfusione ematica.
Epidemiologia
La situazione epidemiologica oggi è
tale che, da malattia quasi dimenticata
e sulla via di essere ritenuta “obsoleta”,
soprattutto nel mondo occidentale e nei
contesti sociosanitari più organizzati, si
è ripresentata negli ultimi lustri in modo
anche prepotente: hanno concorso a questo diversi fattori, quali l’abbassamento
della soglia di attenzione e sorveglianza,
flussi migratori da paesi ove l’infezione
non è mai scomparsa, l’associazione con
altre infezioni sessualmente trasmesse
(STD), specie in individui defedati, immunodepressi e con comportamenti a rischio,
la minor conoscenza dei quadri clinici da
parte delle nuove generazioni di medici.
Tutto questo si è tradotto in 12 milioni di
nuovi casi nel mondo nel 2008.
Negli USA il numero di casi di sifilide,
che passò da 57.000 nuovi casi del 1943 a
31.500 del 2000, tuttavia con picchi epidemici, come nel 1990, che interrompevano
il trend in discesa, ha ripreso ad aumentare dal 1997 dapprima nelle grandi città
(Seattle, Washington, Los Angeles, San
Francisco) e poi anche nelle aree extraurbane, soprattutto negli stati del sud tra
gli ispanici. I gruppi più a rischio sono gli
omo ed eterosessuali affetti da altre STD
(specie AIDS2), soggetti appartenenti a
strati sociali con scadenti condizioni igieniche, utilizzatori di crack e cocaina che
si procurano la droga in cambio di prestazioni sessuali. Il tasso nazionale è di 2.6
casi/100.000 abitanti, con un incremento
nel 2001-2 del 12% rispetto all’epoca preAIDS3.
174
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Negli USA l’incidenza della sifilide congenita è strettamente correlata all’aumento dell’infezione nel sesso femminile:
si è così passati dai 107 casi del 1978 ai
4424 del 1991; l’attuazione di programmi
di controllo e prevenzione nelle donne ha
ridotto il numero di infezioni congenite
neonatali a 529 nel 2000 con trend attualmente in lieve, costante diminuzione.
A seguito di questa nuova situazione
epidemiologica, in molti stati degli USA
sono state adottate misure preventive sul
modello di quelle già in atto in diversi paesi
europei, come l’Italia e con criteri e obiettivi analoghi: l’elevata contagiosità della lue
(il 50% di coloro che hanno rapporti con
luetici si infetta a sua volta), detta come
buona prassi di identificare ed eventualmente trattare tutti i contatti recentemente esposti quale misura fondamentale per
il controllo epidemiologico dell’infezione;
pertanto per l’identificazione delle persone
infette si applicano i test sierologici alle
donne in gravidanza, ai ricoverati in regime ospedaliero, alle reclute militari, a chi
entra nel mondo del lavoro, nell’ambito di
generici protocolli di screening. In alcuni
stati americani i test vengono eseguiti prima del matrimonio e su indicazione delle
compagnie assicurative.
Nell’est europeo la situazione epidemiologica da metà degli anni ’90 a oggi
vede un incremento drammatico con numero di nuovi casi l’anno oggi superiore di
4-5 volte rispetto a 15 anni fa in Russia,
Ucraina, Bulgaria, Lettonia, Kazakistan
e addirittura maggiore in Romania: oggi
l’incidenza supera i 200 casi/100.000 abitanti, ma si sono avuti episodi epidemici
come quello del 2003 che hanno portanto
l’incidenza a 900 casi/100.000 abitanti,
specie in Bielorussia, Ucraina e Romania.
Le ragioni socio-sanitarie di questo fenomeno dovrebbero essere attentamente
analizzate, tenendo anche conto dei rivolgimenti politici e organizzativi che si sono
verificati; da un punto di vista microbiologico è stata evidenziata in questi paesi la
circolazione di ceppi mutanti e resistenti
alle terapie convenzionali, che possiamo
rintracciare anche negli immigrati in occidente, ove la malattia incide maggiormente rispetto alle popolazioni autoctone.
In Africa la lue incide maggiormente
tra le donne (55-60%), con valori compresi
fra 337-424 casi/100.000 abitanti nelle
zone del maghreb, 1233-1539 casi/100.000
abitanti nei paesi subsahariani: valori
questi ultimi 15 volte superiori a quelli
dell’Europa occidentale; complessivamente nel continente africano riscontriamo 1/3
di tutti i casi del pianeta, in alcuni paesi
del sud è colpito il 10% della popolazione
con frequente associazione lue-AIDS4. In
Asia la sifilide sta divenendo una vera
piaga sociale in alcuni contesti, come le
prostitute, ove assistiamo ad incrementi
annui del 300% in Cina, Thailandia e Bangladesh e la coesistenza con altre STD in
1/3 dei casi.
In Italia, così come in altri paesi dell’Europa occidentale, il numero di nuovi
casi segnalati l’anno, anche tra gli autoctoni, è in aumento, soprattutto nell’ultimo decennio (321 notifiche nel 1999, 793
nel 2002, 1345 nel 2004, con picchi d’incidenza nel Lazio, Lombardia ed Emilia,
incremento del 400 % negli ultimi 5 anni,
tant’è che oggi la sifilide rappresenta il
12% di tutte le infezioni a trasmissione
sessuale), particolarmente fra gli omosessuali e nel mondo della prostituzione
ma senza una evidente associazione con
l’AIDS o altre STD, come negli USA. Nel
nostro paese il 90% dei pazienti affetti
da sifilide o altre STD è eterosessuale, il
60% sono uomini, il 15% non è italiano,
il 21% ha avuto o ha un’altra infezione
sessuale5.
Patogenesi e reazione immune
Alcune recenti acquisizioni di patogenesi hanno contribuito a chiarire la dinamica dell’infezione. È stato calcolato che
la malattia può essere contratta con un
inoculo medio di 500-1000 microrganismi,
anche se per molti infettivologi ne basterebbero molti di meno.
Durante le fasi di batteriemia, ad esempio dopo la penetrazione del batterio attraverso la cute o le mucose, nel periodo
d’incubazione e durante la disseminazione
emolinfatica, il sangue del soggetto infettato è contagioso.
F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica
La reazione immunitaria della sifilide
primaria, in sede di lesione, è prevalentemente cellulare, con macrofagi in grado
di fagocitare e talora neutralizzare i treponemi, linfociti Cd4+ e Cd8+ che producono citochine di tipo 1 (γ-interferon),
plasmacellule6. I linfociti T sono implicati
sin dall’infezione primaria nella clearance dei batteri e alcuni antigeni codificati
dai geni TprK sono potenti bersagli della
risposta immune. Nelle lesioni delle fasi
successive, accanto a questi elementi,
riscontriamo proliferazione dell’endotelio
capillare, intervento di neutrofili e fibroblasti da cui dipende la formazione di
tessuto fibrotico più o meno accentuata.
La progressione verso la fase secondaria
si accompagna comunque ad uno switch
→Th2, con incompleta eliminazione del
batterio7.
Gli anticorpi anti TprK sono diretti
verso epitopi delle regioni variabili e,
in alcuni modelli animali (coniglio) si
dimostrano opsonizzanti e possono conferire un’immunità protettiva: quanto tutto
questo sia trasferibile nell’infezione umana è ancora oggetto di dibattito e pertanto
la sintesi di vaccini su queste basi ancora
lontana.
Non si conoscono appieno le ragioni
per cui la malattia può evolvere con la
comparsa delle manifestazioni della fase secondaria: ciò è presumibilmente da
ricondurre anche alla variazione degli
antigeni espressi in superficie e quindi
a quei meccanismi di immunoevasione
del batterio, cui accennavamo in precedenza8.
Il passaggio dalla forma latente alla
sifilide terziaria, in epoca antibiotica, è
raro; nei paesi industrializzati è descritto
in soggetti immunodepressi, soprattutto
confetti lue/HIV, ove predominano i casi
di interessamento neurologico rispetto all’aortite. Lo sviluppo della forma terziaria
è sicuramente legato ad una risposta immunologica alterata, ma gli intimi meccanismi sono ancora sconosciuti. Nei paesi
in via di sviluppo e là ove è ancora difficile
l’accesso alle cure, il 30% dei pazienti con
lue non trattata sviluppa i segni clinicopatologici della forma terziaria e 1/4 di
essi muore di tale patologia.
175
Cenni di clinica e di diagnosi
differenziale
Le lesioni genitali che più spesso devono
essere differenziate da quelle della sifilide
primaria sono quelle provocate da herpes
simplex primario o recidivante genitale, quelle provocate da Haemophilus Ducreyi (ulcera venerea o cancroide o molle),
quelle provocate da Calymmatobacterium
granulomatis (donovanosi o granuloma
inguinale o granuloma venereo), le lesioni
traumatiche9, 10.
Il tipico sifiloma è di norma una papula
isolata, non dolente, che va rapidamente
incontro a erosione; di solito appare dura,
con una caratteristica consistenza cartilaginea alla palpazione dei bordi e della
base dell’ulcera. Quasi costante è l’adenopatia satellite bilaterale: i linfonodi sono
duri, non fluttuanti, non dolenti. Lesioni
atipiche si hanno in soggetti immunodepressi (HIV+) e con alte cariche batteriche: precoce è l’ulcerazione o la presenza
di lesioni multiple11.
Nella sifilide secondaria12 compaiono
lesioni mucocutanee localizzate o diffuse,
simmetriche, con linfoadenopatia generalizzata non dolente. L’eruzione cutanea
consiste in macule, papule, pustole spesso
concomitanti, perlopiù al tronco e alle
braccia, simmetriche, non dolenti e non
pruriginose, con possibile evoluzione necrotica se accompagnate da un’endoarterite progressiva. Nel 10% dei casi le lesioni
ai genitali si ulcerano (conditomi piani)
e sono altamente contagiose. Compaiono
sintomi generali e, anche in assenza di
segni neurologici, nel 30% dei casi vi sono
anomalie del liquor, con incremento di
proteine e cellule.
Fra gli organi più frequentemente coinvolti in corso di sifilide, soprattutto nella
fase secondaria, vi è il fegato: l’interessamento è di solito asintomatico, ma almeno
il 25% dei pazienti luetici presenta test di
funzionalità epatica alterati, così come, in
corso di epatite virale cronica, si hanno
false positività alle sierodiagnosi per la
lue. L’epatite franca sifilitica si caratterizza per l’insolito incremento della fosfatasi
alcalina; solo il quadro istologico da biopsia può dirimere i dubbi diagnostici da
176
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
un’epatite virale, evidenziando una moderata flogosi con infiltrato pluricellulare di
linfociti e granulociti, alterazioni aspecifiche degli epatociti e assenza di colestasi.
Per quanto riguarda la sifilide latente,
la diagnosi viene posta in presenza di un
test treponemico positivo, esame del liquor negativo e assenza di manifestazioni
cliniche in atto; aiutano ovviamente i dati
anamnestici di pregresse lesioni primitive o secondarie, esposizione al contagio,
una gravidanza che abbia dato esito ad
un bambino affetto da lue congenita. Le
donne gravide con sifilide latente possono
infettare il feto in utero.
Una sifilide trasfusionale può essere
trasmessa anche da soggetti con lue latente da molti anni.
Nella sifilide latente distinguiamo una
forma precoce, che copre il 1° anno dopo
l’infezione e una tardiva, che inizia successivamente ed è relativamente immune a
ricadute. L’evoluzione di quest’ultima non
trattata può essere:
1) persistenza dell’infettività per tutta la
vita;
2) sviluppo di lue tardiva;
3) guarigione spontanea (infrequente) con
test treponemici che raramente si negativizzano.
Il 25% dei pazienti con sifilide latente
tardiva non trattata è a rischio di complicanze neurologiche: le forme asintomatiche si diagnosticano, in laboratorio,
mediante esame del liquor (pleiocitosi mononucleare, > 5 leucociti /ml, proteine >
45 mg/dl) e mediante la sierologia per
lue (positività di uno o più test). Talora è
possibile riscontrare il DNA treponemico
nel liquor mediante PCR. Questi pazienti
vanno identificati e trattati, poiché il 20%
svilupperà entro dieci anni una forma clinicamente manifesta, quota che successivamente aumenta con il passare degli anni.
La probabilità di sviluppare una neurolue
sintomatica è direttamente proporzionale
alle alterazioni liquorali (tanto maggiore
è la pleiocitosi e la proteinorrachia, tanto
più frequenti e precoci sono le manifestazioni neurologiche) e al titolo di anticorpi
anti t.pallidum presenti nel siero13.
Soprattutto in passato, i quadri clinici
più frequenti della neurosifilide sintoma-
tica erano: la lue meningea, che si sviluppava entro un anno dall’infezione; la lue
meningovascolare, entro 5/10 dall’infezione; la lue parenchimatosa, che poteva
manifestarsi come paralisi progressiva, a
20 anni dall’infezione o come tabe dorsale,
anche a 25/30 anni dall’infezione. Oggi assistiamo a quadri misti, sfumati o incompleti, specie nei pazienti trattati in modo
più o meno adeguato14.
Altre manifestazioni della sifilide tardiva sono a carico dell’apparato cardiovascolare (aortite semplice, lesioni della valvola
aortica con successiva insufficienza, aneurisma sacciforme dell’aorta ascendente,
più di rado addominale, non dissecante
e la stenosi dell’ostio coronarico) e le cosidette gomme: trattasi di lesioni granulomatose che possono colpire la cute, le
ossa e qualunque viscere, perlopiù da 10 a
40 anni dall’infezione; il quadro istologico
non è tipico e si rende necessaria la diagnosi differenziale con altre lesioni granulomatose (tubercolosi, lebbra, sarcoidosi,
micosi). Sono comunque fondamentali i
test sierologici, il riscontro del DNA batterico mediante PCR e l’impiego della
terapia specifica: la penicillina determina
una rapida guarigione o remissione delle
lesioni gommose attive.
Un discorso a parte merita la sifilide
congenita. La trasmissione di t.pallidum
da una donna luetica al feto attraverso la
placenta si può verificare in qualunque
momento della gravidanza, ma le tipiche
lesioni della lue congenita si hanno dopo il
IV mese di gestazione, quando il sistema
immunitario del feto comincia a svilupparsi: ciò induce a pensare che la malattia
luetica fetale dipenda più da una risposta
immunitaria deviata o iperattiva che da
un effetto tossico diretto del batterio. Il
rischio di trasmissione va dal 35% nei casi
di lue materna datati da almeno due anni,
al 75-95% per i casi recenti non trattati; la
terapia antibiotica instaurata prima della
16° settimana di gravidanza riduce quasi
del tutto il rischio. I quadri clinici osservabili più frequentemente vanno dall’aborto
alla nascita di feti morti, alla prematurità,
alla morte neonatale fino alle manifestazioni della lue congenita non letale; fra
queste distinguiamo forme precoci, entro
F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica
i primi 2 anni di vita, contagiose; tardive,
dopo i due anni di vita, non contagiose; le
stimmati residue a distanza15.
Il problema clinico più comune è quello
di un neonato apparentemente sano nato
da madre con test sierologici positivi; la
sierologia della lue rientra tra gli esami
di routine in gravidanza, da ripetere al 3°
trimestre e al momento del parto nelle zone ad elevata incidenza di malattia e nelle
donne ad alto rischio.
T.pallidum può essere isolato, per inoculazione nel coniglio, dal liquor di neonati
infetti prima del trattamento terapeutico;
la sensibilità del test, comunque indaginoso, è molto bassa (non più di un quarto
dei casi) e anche in questo campo dovranno essere affinate e applicate metodiche
molecolari. La diagnosi differenziale deve
comunque essere posta rispetto ad altre
lesioni congenite, quali quelle da rosolia,
HSV, cytomegalovirus, toxoplasmosi e all’eritroblastosi.
Antigeni treponemici e applicazioni diagnostiche in laboratorio
Il genoma di T.pallidum è stato completamente sequenziato nel 1998; sono state
studiate diverse famiglie di geni, come la
TprJ, di solito ben conservata e a bassa eterogeneità16, ma soprattutto la famiglia di
12 geni chiamata Tpr, fra cui TprK regola
la sintesi di quelle molecole, nell’ambito di
oltre 40 antigeni di superficie17, verso cui
è diretta nell’uomo la risposta anticorpale:
questa famiglia presenta un’altissima eterogeneità ed è soggetta a frequenti mutazioni. L’eterogeneità di TprK è localizzata
in 7 regioni variabili18 e ne esitano sostituzioni di aminoacidi, inserzioni o delezioni19, con grado differente di variabilità a
seconda dei ceppi. Queste modificazioni si
verificano durante la storia naturale dell’infezione, nel corso della quale T.pallidum
modula (modifica) la trascrizione di questi
geni: ceppi batterici differenti esprimono i
geni stessi in modo diverso20.
Solo tre antigeni sono utilizzati (o lo
sono stati in passato) per la ricerca diagnostica:
– antigene lipoideo aspecifico
177
– antigene proteico di gruppo
– antigene polisaccaridico specie-specifico.
Antigene lipoideo aspecifico. Viene
estratto dal cuore di bue (da qui il nome
di cardiolipina): è un difosfolipide che
diviene attivo dopo aggiunta di lecitina e
colesterolo; gli anticorpi anti-cardiolipina
prendono il nome di reagine. È presente
sulla superficie di t.pallidum ma anche di
treponemi non patogeni e diversi epitopi
sono stati trovati in antigeni della più varia provenienza; pertanto un test positivo
verso la sola cardiolipina non ci permette
di fare diagnosi di lue con certezza e numerose sono le false positività (persistenti
o transitorie) che si possono riscontrare
in condizioni fisiologiche e patologiche:
gravidanza, tossicodipendenza, mononucleosi infettiva, polmonite da mycoplasma,
linfogranuloma venereo, tubercolosi, lebbra, linfomi, LES, artrite reumatoide, età
avanzata.
I test che utilizzano questo antigene
sono detti “reazioni non treponemiche”:
reazione di Wasserman, VDRL, RPR e variante automatizzata: Visuwell Reagin.
Antigene proteico di gruppo. È ricavato dal ceppo coltivabile di Reiter (il
ceppo Nichols ne fornisce quote esigue), è
comune al t.pallidum e ad altri treponemi
patogeni o saprofiti, ma presenta un’alta
specificità e pertanto costituisce un gradino diagnostico superiore rispetto alle
reazioni non treponemiche, soprattutto là
dove si abbia una risposta falsamente positiva o sospetta tale. Fornisce indicazioni
utili anche nei casi di test non treponemici
negativi, ma con segni clinici di sifilide
tardiva.
Le reazioni che utilizzano questo antigene sono dette “treponemiche” e si tratta di varianti della classica Wasserman:
RPCF, reazione di Wasserman-Kolmer.
Antigene polisaccaridico di gruppo. È stato estratto da t.pallidum, dal
ceppo di Reiter e altri treponemi, ma è
differente nelle varie specie e pertanto
viene considerato specie-specifico. Il primo
antigene fu ottenuto da una sospensione
di treponemi cresciuti su testicoli di coniglio; oggi si impiegano prevalentemente
antigeni ricombinanti ed esistono metodi
178
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
per eliminare, mediante adsorbimento,
antigeni polisaccaridici di altri treponemi,
come nell’ FTA-ABS, elevando la specificità della reazione. Anche questi test
sono considerati di tipo “treponemico”:
TPI, FTA-ABS, TPHA, ricerca IgG e IgM
specifiche mediante immunoenzimatica e
chemiluminescenza.
Diagnostica di laboratorio della
sifilide: il passato
Reazione di Wasserman. Mette in
evidenza la presenza di reagine mediante
una reazione di fissazione del complemento: come sistema rivelatore si impiega
una sospensione di emazie di montone ed
emolisine anti globuli rossi. La reazione si
positivizza dopo 40 giorni dal contagio e si
negativizza rapidamente dopo terapia.
La classica reazione di Wasserman fu
modificata da Kolmer nel 1942 utilizzando cardiolipina diluita e facendo avvenire
la reazione a freddo - 4° - e con un’incubazione più lunga, overnight.
Ultima variante è stata la RPCF – Reiter protein complement fixation test -,
che impiega la stessa metodica e lo stesso
principio della Wasserman classica, ma
l’antigene utilizzato non è più la cardiolipina ma l’antigene proteico di gruppo, così aumentando specificità e sensibilità del test.
TPI (treponema pallidum immobilization test). Fu introdotto nel 1949 da
Nelson e Meyer, che riuscirono a coltivare
e a sviluppare i treponemi su testicoli di
coniglio, ove tra l’altro conservavano la
propria mobilità; cimentando i microrganismi con il siero del paziente, nel caso che
in esso fossero stati presenti anticorpi, che
sono di tipo “immobilizzante”, in seguito
all’infezione e alla reazione con l’antigene
treponemico polisaccaridico, si aveva come
conseguenza una perdita totale o parziale
di mobilità dei treponemi; l’effetto era
svelato al microscopio in campo oscuro e
quando la percentuale di microrganismi
immobilizzati superava il 50%, il test era
ritenuto positivo. Questa prova è molto
specifica ma relativamente sensibile: infatti solo dopo due mesi dal contagio si può
registrare la positività. Il TPI è comunque
stato abbandonato quasi ovunque (un re-
lativo utilizzo permane negli USA) per
l’alta pericolosità di manipolare treponemi vivi.
Diagnostica di laboratorio della
sifilide: il presente
VDRL (Veneral disease research
laboratory test). È una tecnica di microflocculazione: le reagine presenti nel siero
della persona infetta si legano ad un aptene lipidico della superficie dei treponemi e
coeso in vitro di solito a particelle di latice,
aptene che diviene un antigene completo
unendosi a lecitina e colesterolo sierici. È
un test semplice, di basso costo ma molto
aspecifico: infezioni acute e croniche e malattie autoimmuni danno luogo a numerosi
falsi positivi; negli USA tuttavia è considerato il test di riferimento su liquor.
RPR (Rapid plasma reagin test).
È una tecnica di microagglutinazione: la
reazione avviene fra le reagine eventualmente presenti nel siero e l’antigene lipoideo adeso a particelle di carbone. Come
la VDRL è a basso costo ma presenta gli
stessi problemi di aspecificità.
La variante automatizzata dell’ RPR
è la Visuwell Reagin, test in ELISA su
micropiastra, i cui pozzetti sono coattati
con cardiolipina, lecitina e colesterolo;
il sistema di rilevazione consiste in Ig
umane anti-reagine coniugate a fosfatasi
alcalina e successivo impiego di substrato
e stoppante.
TPHA (Treponema pallidum haemoagglutination assay). Fu introdotto
da Rathlev nel 1965: la reazione avviene
tra gli anticorpi presenti nel siero del
soggetto infettato e gli antigeni adesi
sulla superficie di emazie, provocando
un’emoagglutinazione evidente. Nei primi
tempi le emazie provenivano da animali
sensibilizzati con estratti di t.pallidum
ceppo Reiter, oggi gli antigeni sono legati
alla superficie dei globuli rossi mediante
manipolazione molecolare su scala “industriale”. Utilizzando diluizioni del siero,
il test può essere reso quantitativo: un
titolo significativo è = o > 1/160. Il TPHA
è largamente usato in Europa, ma è poco
diffuso negli USA.
FTA-ABS (Fluorescent treponemal
179
F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica
antibody – absorption test)21. Fu introdotto nel 1957 da Decon: è un classico test di immunofluorescenza indiretta,
che prevede l’utilizzo di treponemi uccisi
prefissati su un vetrino: il corpo batterico
mantiene gli antigeni immunologicamente efficienti. Nel 1964 Hunter modificò la
metodica rendendola ancora più specifica:
il siero del paziente viene pretrattato mediante adsorbimento con estratto di treponema di Reiter, in modo da neutralizzare
gran parte degli antigeni non di treponema pallidum. L’utilizzo di antisieri specifici per le catene γ e μ permette di evidenziare separatamente anticorpi IgG e IgM
e di fornire una valutazione della fase di
attività della malattia. FTA-ABS diviene
positivo già 20 giorni dal contagio, quando
le altre prove sono tutte perlopiù negative;
rimane positivo praticamente per tutta la
vita, con riduzione del titolo anticorpale. Il
test non è pericoloso, poiché si lavora con
microrganismi uccisi e fissati.
Ricerca anticorpi anti-treponema
pallidum di classe IgG e IgM mediante ELISA e chemiluminescenza22, 23.
Queste metodiche, oggi largamente impiegate, presentano diversi vantaggi: elevata
sensibilità e specificità; possibilità di distinguere le varie classi anticorpali – IgG
e IgM -, queste ultime previa separazione
o con metodi a “cattura”; le metodiche sono
completamente automatizzabili ed eseguibili in micrometodo; le interferenze del fattore reumatoide e degli immunocomplessi
sono notevolmente ridotte o annullate; gli
antigeni impiegati sono altamente purificati e standardizzati e consistono oggi in
lisati batterici o molecole ricombinanti.
Nella tabella n. 1 abbiamo riportato la
sensibilità, nelle varie fasi della sifilide,
dei test treponemici e non: è evidente la
superiorità dei primi soprattutto nella
fase terziaria.
A questo punto della trattazione è doverosa una pausa per focalizzare l’attenzione su un problema oggi d’attualità e
non privo di implicazioni cliniche e diagnostiche peculiari: la confezione sifilide
– HIV. Le due infezioni frequentemente
coesistono nello stesso paziente: lesioni
luetiche ulcerative dei genitali sono fattori
di rischio e di trasmissione per HIV, specie
tra gli omosessuali maschi sessualmente
Tabella 1 – Sensibilità dei test treponemici e
non treponemici nelle diverse fasi della sifilide.
Da: Larsen SA. Clin Microbiol Rev 8:1, 2005
Test
non
Treponemici
Treponemici
Sifilide
primaria
Sifilide
secondaria
Sifilide
latente
Sifilide
terziaria
74-87%
100%
88-100%
37-94%
70-100%
100%
100%
95%
attivi e nei paesi con scadenti condizioni
igieniche. Le manifestazioni della sifilide
possono essere diversificate nei pazienti
confettati da HIV: ad esempio, sono più
frequenti le forme neurologiche ed anche
le recidive dopo terapia; tuttavia, studi
controllati hanno dimostrato che la risposta terapeutica è uguale nei soggetti con
lue precoce, con o senza HIV, mentre nelle
forme di sifilide più avanzata il fallimento
terapeutico è più frequente nei soggetti
coinfettati. La sierologia per la lue non
sembra differire a seconda della presenza
o meno della coinfezione, ma negli HIV+ il
titolo anticorpale scende più lentamente.
I soggetti con recente diagnosi d’infezione
da HIV devono essere sottoposti a indagini per la sifilide; d’altro canto, a tutti i pazienti con nuova diagnosi di sifilide deve
essere offerto il test per HIV.
Immunoblot24, 25, 26. Antigeni treponemici vengono separati mediante migrazione elettroforetica su gel di poliacrilamide,
in base al loro peso molecolare: gli anticorpi del paziente si legano alle corrispondenti bande antigeniche. Le bande rilevabili
possono essere divise in tre gruppi27, 28:
1) BANDE A BASSO PM: marcano proteine di membrana ad alta specificità,
come quelle di 15.5 e 17 KDa.
2) BANDE INTERMEDIE, che a loro volta
marcano 3 gruppi di proteine: proteine
flagellari a bassa specificità, fra 28 e 35
KDa, come FLAB 1 e 3; proteine flagellari esterne p37 e FLAA, a bassa specificità; proteine flagellari più pesanti,
p38 e p39, anch’esse poco specifiche.
3) BANDE AD ALTO PM: marcano lipoproteine maggiori di membrana molto
specifiche, fra 45 e 48 KDa. Le più importanti sono quelle di 45 e 47 KDa.
180
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
Le proteine più specifiche rilevabili
sono quelle di 15-17 e 45-47 KDa29: per
alcuni è sufficiente, per far diagnosi, riscontrarne una, per altri due di gruppi
differenti. Quelle a basso PM sono proprie
di una fase precoce di malattia, quelle ad
alto PM di una fase più tardiva. Oggi la
metodica, completamente automatizzabile, si propone come test di conferma in casi
dubbi, con prove di screening discordanti,
nella forma latente, nel monitoraggio della terapia. Esistono in commercio kit che
evidenziano anticorpi totali, ma anche
discriminano fra IgG e IgM30.
Di recente è stata introdotta una variante che utilizza 4 proteine ricombinanti
come bande distinte su una striscia di
nylon: TpN15-17-47 e TmpA; per la diagnosi è sufficiente individuarne una sola31, 32.
Diagnostica di laboratorio della
sifilide: il futuro
I test di biologia molecolare, dall’originaria PCR alle sue successive evoluzioni,
cominciano ad essere applicati anche in
Italia per la ricerca del DNA di t.pallidum.
A parte le problematiche connesse all’automazione delle prove e ai costi elevati,
la loro diffusione potrà avere tre linee
d’impiego:
1) In fase di diagnosi, nei casi con test di
screening dubbi o discordanti, nelle forme di vecchia data sierologicamente incerte, nella sifilide latente, nella forma
congenita, nelle diverse manifestazioni
della neurolue con ricerca del DNA nel
liquor.
2) Nel follow-up dei pazienti in trattamento, specie se si disporrà di dosaggi
quantitativi.
3) Infine, è auspicabile la diffusione di test
per lo studio delle mutazioni che portano alla sintesi di proteine antigeniche
differenziate, con la circolazione di ceppi rari, e/o legate a eventuali resistenze
farmacologiche33.
Conclusioni
La mancata eradicazione dell’infezione
luetica, obiettivo ben lontano dall’essere
raggiunto, che anzi, come abbiamo visto,
si assiste ad una ripresa epidemiologica e
talora ad incrementi consistenti in alcune
aree geografiche e soprattutto in determinati contesti sociali, impone di non abbassare la soglia d’attenzione (diagnostica,
terapeutica, preventiva, socio-sanitaria in
senso lato), ripristinando, ove e se possibile, misure abbandonate negli ultimi
decenni ad iniziare dalla formazione delle
nuove generazioni di operatori sanitari
per una cultura d’attenzione verso la malattia.
La quale malattia, oggi, si presenta con
caratteristiche diverse rispetto al passato:
da un punto di vista biologico, le frequenti mutazioni riscontrate si traducono in
variazioni dell’assetto antigenico del microrganismo e nella circolazione di ceppi
diversificati, che possono complicare il
quadro diagnostico e l’esito terapeutico;
i test tradizionali talora falliscono o più
spesso risultano discordanti nei confronti
di ceppi mutati, antigenicamente nuovi
e verso i quali la diagnostica sierologica appare inadeguata o non aggiornata:
pertanto aumenta l’esigenza di applicare
anche nei confronti di t.pallidum i nuovi
strumenti analitici che la biologia molecolare ha già messo a disposizione in altri
settori dell’infettivologia.
Durante l’infezione luetica possono
essere presenti più sottopopolazioni di
T.pallidum, come dimostrato dall’eterogeneità genetica delle varianti TprK e
dei prodotti di trascrizione; le recidive o
reinfezioni sono provocate da varianti fenotipiche del batterio.
Ceppi mutati possono essere caratterizzati da resistenze agli antibiotici, fenomeno in aumento soprattutto fra gli infetti
dell’est europeo e dell’Africa; è questa una
situazione nuova sottoposta ancora a pochi
studi le cui dimensioni, per il futuro, sono
tutte da valutare; pertanto si rende necessaria un’ulteriore soglia d’attenzione e la
ricerca di nuovi strumenti diagnostici.
Altro argomento lacunoso riguarda le
nostre conoscenze sulla reazione immune
nei confronti di t.pallidum: come abbiamo
accennato, essa è complessa, coinvolgendo
sia la risposta cellulare che quella umorale e sicuramente diversificata verso ceppi
tradizionali o mutanti; variazioni dell’as-
F. Belli: Passato, presente, futuro della diagnostica dell’infezione luetica
setto antigenico di superficie costituiscono meccanismi di elusione del batterio
verso la risposta immune dell’ospite, ma
le nostre conoscenze a riguardo sono frammentarie, così come il ruolo dell’immunità
innata in corso di infezione primaria e il
determinismo dell’immunodeficit che sicuramente è “conditio sine qua non” verso le
forme più avanzate.
Questa rassegna ha illustrato la storia
della sierologia della lue: è indubbio che,
tenendo conto dei nuovi problemi epidemiologici, clinici, diagnostici che oggi l’infezione presenta e di cui abbiamo discusso,
si dovrebbe procedere ad una revisione
critica di tutto l’armamentario di laboratorio a disposizione e, là dove necessario, ad
un azzeramento di prove obsolete e inadeguate. Al tempo stesso è auspicabile una
maggior diffusione dei test che permettono
di discriminare, al pari di altre infezioni,
tra classi anticorpali al fine di puntualizzare la fase in atto della malattia luetica,
utilizzando le metodiche in immunofluorescenza indiretta e, meglio ancora, in immunoenzimatica e chemiluminescenza che
offrono una valutazione quantitativa.
Le più recenti tecniche di conferma, come l’immunoblot, non sono ancora entrate
nell’impiego routinario se non di pochi
laboratori e le divergenze nell’interpretazione dei risultati risentono dell’analisi
di casistiche limitate; tuttavia disporre
di Western-Blot o test simili nel proprio
pattern diagnostico può essere utile, come
abbiamo visto, in casi sierologicamente
incerti e in situazioni cliniche particolari,
quali la forma latente, la neurolue, la sifilide congenita, in pazienti immunodepressi, con infezione luetica “sieroimmunologicamente” coperta da altre STD.
L’evidenziazione del DNA batterico nei
campioni biologici è l’ultima offerta delle
nuove tecnologie per la ricerca di base,
la diagnosi e il follow-up del paziente con
infezione luetica: costi elevati, limitata
automazione e controversie interpretative limitano tuttora a pochi laboratori la
diffusione di queste nuove opportunità. È
indubbio che la ricerca di base ne trarrà
vantaggi, potendo meglio conoscere il genoma batterico, le sue differenze (o similitudini) con altri treponemi, le mutazioni
che si traducono in una serie di eventi im-
181
portanti anche sul piano clinico: differente
assetto antigenico, variabilità dell’interazione con l’ospite e la sua risposta immune, meccanismi di elusione immunologica,
da cui la possibile progressione dell’infezione, indeterminatezza o negatività dei
test diagnostici tradizionali, acquisizione
di resistenze farmacologiche34. Da questa
nuova impostazione di studi sarà possibile
correlare tra loro problematiche immunobiologiche, diagnostiche e cliniche, come i
rapporti fra eterogeneità dei geni TprK,
risposta immune e decorso clinico.
Ma è soprattutto nella diagnostica che
è auspicabile, a breve, una maggior diffusione delle metodiche molecolari: abbiamo
sottolineato come vi sono a tutt’oggi casi
sierologicamente discrepanti o muti o falsamente positivi, per numerose cause già
illustrate inerenti la struttura batterica,
la risposta immune o la situazione clinica
dell’ospite, i limiti delle prove convenzionali. Applicando la ricerca del genoma
batterico al sangue o ad altri materiali
biologici (liquor!) in tutte quelle situazioni
“difficili” che rappresentano una quota
non trascurabile della routine quotidiana:
forme latenti, lue congenita, neurolue
in tutte le sue manifestazioni, pazienti immunodepressi con alterata risposta
anticorpale e/o cellulare, concomitanza di
altre STD, il numero di situazioni con diagnosi incerta potrà diminuire, così come se
ne avvantaggerà il follow-up dei pazienti
in trattamento.
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Per corrispondenza e richiesta estratti:
Dr. Francesco Belli,
E-mail: [email protected]
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
Caso clinico
LA NEFROSI OSMOTICA E LA NEFROPATIA DA SACCAROSIO:
CASO CLINICO
OSMOTIC NEPHROSIS AND SUCROSE NEPHROPATHY:
CASE REPORT
MARIA PIA BERALDI, RAFFAELLO DEROCCA, MICHELE SCOPPIO
1
U.O.C. di Nefrologia, Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini. Roma
Parole chiave: Nefrosi osmotica. Saccarosio. Immunoglobuline
Key words: Osmotic nephrosis. Sucrose. Immunoglobulins
Riassunto – Il termine nefrosi osmotica non è riferito ad una entità precisa, ma ad alterazioni istopatologiche renali aspecifiche. La nefrosi osmotica può essere causata da vari farmaci e composti come il saccarosio,
il mannitolo e i mezzi di contrasto. Gli Autori descrivono un caso clinico.
Abstract – Osmotic nephrosis describes a morphological pattern with vacuolization and swelling of the renal proximal tubular cells. The term refers to a nonspecific histopathologic finding rather than defining a
specific entity. Osmotic nephrosis can be induced by many different compounds, such as sucrose, hydroxyethyl starch, dextrans, and contrast media. The Authors describe a clinical case.
La nefrosi osmotica fu descritta la
prima volta nel 1930 in seguito alla infusione di soluzioni glucosate ipertoniche
per il trattamento dell’ipertensione endocranica. Descritta dapprima nei topi
e successivamente in autopsie umane, è
caratterizzata da marcata degenerazione
vacuolare e riduzione di volume del nucleo
delle cellule tubulari renali. Le caratteristiche morfologiche della nefrosi osmotica,
o “nefrosi da zucchero”, furono studiate in
dettaglio tra il 1940 e il 1965 in autopsie
e esperimenti su animali. All’autopsia i
reni apparivano di dimensioni aumentate
e di colorito pallido, con alterazioni simili
a quelle della necrosi tubulare acuta. Istologicamente la nefrosi osmotica è caratterizzata da una focale, o, meno frequente-
mente, diffusa trasformazione in cellule
chiare delle cellule epiteliali dei tubuli
prossimali, mostrando una fine e isometrica vacuolizzazione citoplasmatica. Sono
interessati soprattutto i tubuli prossimali, e in genere sono risparmiati i tubuli
distali e i dotti collettori. Raramente la
vacuolizzazione interessa le cellule epiteliali e i podociti della capsula di Bowman,
e le cellule interstiziali. Le alterazioni più
precoci sono rappresentate dalla formazione di vescicole al di sotto della membrana
delle cellule apicali.
Gradatamente le vescicole riempiono
il citoplasma. I vacuoli, fondendosi, aumentano di volume fino a raggiungere un
diametro finale tra 1 e 4 micron. Nelle
fasi finali i vacuoli possono contenere un
184
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
materiale amorfo elettro-denso. Il nucleo
viene sospinto verso la parte basale della
cellula e quindi deformato dai vacuoli.
Microscopicamente e istochimicamente i
vacuoli possono essere identificati come
lisosomi.
Gli esiti della nefrosi osmotica non
sono prevedibili: in molti casi la vacuolizzazione si risolve senza esiti; in altri
casi può persistere senza altre alterazioni
e senza danno renale; in pochi casi si ha
evoluzione verso l’insufficienza renale irreversibile, con atrofia tubulare e fibrosi
interstiziale.
La diagnosi differenziale della nefrosi
osmotica va fatta con le altre situazioni
che possono determinare la trasformazione in cellule chiare delle cellule epiteliali
tubulari (Tabella 1).
La teoria iniziale di Allen che i vacuoli si formavano a causa di ritenzione
di liquidi per cause osmotiche fu abbandonata nel 1960, quando fu dimostrato
che il saccarosio ed altri agenti entrano
nelle cellule per mezzo di un processo di
pinocitosi, e che i vacuoli poi si fondono
Tabella 1. Diagnosi differenziale della trasformazione in cellule chiare delle cellule epiteliali tubulari
Nefrosi osmotica
Tossicità tubulare degli inibitori della calcineurina
Cellule grassose nell’accumulo di lipidi (es. nella sindrome nefrosica)
Danno ischemico
Deplezione di potassio
Intossicazione da glicole etilenico
Terapia con rapamicina
Iperglicemia diabetica
Carcinoma renale a cellule chiare
Nota: la diagnosi generalmente si può fare con l’esame
al microscopio ottico e con l’anamnesi del paziente
tra di essi e con i lisosomi per formare
vacuoli che contengono l’agente causale e
enzimi idrolitici (teoria della pinocitosi).
Questo meccanismo patogenetico è stato
confermato per il saccarosio, il glucosio, il
maltosio, il mannitolo, il destrano e per i
mezzi di contrasto iodati.
La percentuale di agente causale che
penetra nelle cellule tubulari per pinocitosi dipende dalla quantità che ne viene somministrata. Qualunque situazione, come l’ischemia o un danno renale
preesistente, che impedisce la digestione
lisosomiale, ritarda ulteriormente la degradazione dell’agente causale.
Il fattore patogenetico più importante
nel danno renale acuto correlato alla nefrosi osmotica è l’ipossia renale. È plausibile ritenere che il danno renale acuto
e l’oliguria sia diretta conseguenza dell’ostruzione tubulare da parte delle cellule
rigonfie.
La nefrosi osmotica può avvenire e
scomparire con e senza segni clinici. Dalla
letteratura si possono ricavare alcuni dati
sul decorso clinico e l’outcome della nefrosi
osmotica (Tabella 2).
L’ecografia renale non mostra alterazioni particolari. L’esame delle urine può
mostrare una proteinuria tubulare.
La nefrosi osmotica è generalmente reversibile e il danno funzionale e strutturale regredisce alla sospensione dell’agente
causale.
La prevenzione include tutte le misure
atte ad impedire il danno renale prima e
durante la somministrazione dell’agente
terapeutico: stabilità emodinamica e una
sufficiente idratazione prima dell’inizio
della terapia. È consigliabile sospendere
eventuali diuretici per il rischio di ipovolemia.
Tabella 2. Decorso clinico e outcome della nefrosi osmotica
Sostanza
Immunoglobuline ev
Mannitolo
Destrano
Mezzi di contrasto
Tempo di comparsa
dell’insufficienza renale (giorni)
9 (2-14)
3.5 (2-6)
4 (3-6)
ca. 4
Persistenza dell’insufficienza renale
ESRD
2
Non valutabile
0
Non valutabile
1
0
1
1
M.P. Beraldi: La nefrosi osmotica e la nefropatia da saccarosio: caso clinico
Le preparazioni di immunoglobuline
endovena contengono immunoglobuline
umane altamente purificate, soprattutto
immunoglobuline G, con un peso molecolare di 150 Kd, ed una sostanza stabilizzatrice. Le sostanze stabilizzatrici più
usate sono il glucosio al 2% o 5%, maltosio
al 10%, saccarosio al 5% o 10%, sorbitolo,
glicina o albumina allo 0,3% o 1%.
Il riscontro di danno renale acuto dopo somministrazione di immunoglobuline
endovena risale al 1983. Dal 1998 la US
Food and Drug Administration ha collezionato 54 casi di danno renale acuto da
immunoglobuline. La review di questi casi
ha dimostrato che tutti, tranne uno, erano
stati causati da immunoglobuline contenenti saccarosio. Ciò conferma il sospetto
che è il saccarosio la causa della nefrosi
osmotica, e non le immunoglobuline di
per se. I pazienti con insufficienza renale
preesistente e i trapiantati sono a più alto
rischio. L’età avanzata ed il diabete sono
fattori di rischio aggiuntivi. Recentemente
sono stati rilevati 2 casi di nefrosi osmotica
da immunoglobuline contenenti maltosio.
Il motivo per cui questo tipo di preparazione è meglio tollerato può essere che la
maltasi, e non la saccarasi, è presente nel
brush border dei tubuli prossimali. Quindi
il maltosio viene metabolizzato a glucosio,
al contrario del saccarosio.
Sono raccomandati concentrazioni più
basse possibili dell’infusato (< 3% preferibilmente) e una infusione lenta (50
mg/Kg/ora), pur essendo ancora poche le
evidenze cliniche a tal riguardo.
Caso clinico
Uomo di 60 anni, affetto da ipertensione arteriosa, diabete mellito tipo 2,
piastrinopenia autoimmune, insufficienza renale cronica di 2° grado. A causa di
questa patologia aveva eseguito terapia
con immunoglobuline endovena a cadenza
mensile, senza alcuna complicanza. L’ultima somministrazione era stata eseguita
con una preparazione farmaceutica di
immunoglobuline endovena diversa dalle
precedenti e dopo circa 48 ore era comparsa oligoanuria, edemi rapidamente ingra-
185
vescenti, aumento della pressione arteriosa, rapido aumento della creatininemia.
Dopo 24 ore è stato ricoverato d’urgenza
per edema polmonare acuto e sindrome
nefrosica. Al momento dell’ingresso gli
esami di laboratorio mostravano iperazotemia (160 mg/dl) e ipercreatininemia
(6,7 mg/dl), filtrato glomerulare calcolato
(MDRD) pari a 16 ml/min, proteinuria
delle 24 ore pari a 3500 mg. L’ecografia
mostrava reni di forma e dimensioni normali con aumento della ecogenicità, come
da nefropatia acuta.
Iniziata terapia con diuretici e nitroderivati endovena c’è stata una rapida ripresa della diuresi, con miglioramento clinico
generale e cardiovascolare, riduzione degli
edemi. I valori di azotemia e creatininemia sono gradatamente tornati ai valori
precedenti al ricovero.
A causa della insufficienza acuta del
ventricolo sinistro e della piastrinopenia
non è stata ritenuta opportuna la biopsia
renale, per cui manca una diagnosi istologica. Ma dalla anamnesi abbiamo ipotizzato una insufficienza renale acuta da
nefrosi osmotica conseguente alla somministrazione di immunoglobuline endovena
contenenti saccarosio.
Infatti l’ultima somministrazione di
immunoglobuline era stata eseguita con
una preparazione contenente saccarosio
come stabilizzatore, al contrario delle
precedenti che non contenevano saccarosio.
Il paziente presentava anche fattori
di rischio aggiuntivi, quali l’insufficienza
renale cronica e il diabete mellito.
Bibliografia essenziale
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Corrispondenza e richiesta estratti:
Dott. Michele Scoppio
Viale di Villa Pamphili 180
00152 Roma
ANNALI DEGLI OSPEDALI
San Camillo e Forlanini
Volume 11, Numero 3, Luglio - Settembre 2009
Gestione e organizzazione sanitaria
LA SINDROME DELLE APNEE OSTRUTTIVE DEL SONNO:
IL RUOLO DELLO SPECIALISTA OTORINOLARINGOIATRA
OBSTRUCTIVE SLEEP APNEA SYNDROME: THE ENT ROLE
STEFANO MILLARELLI, GILBERTO ACQUAVIVA, VINCENZO LAURENDI, GIANLUCA BELLOCCHI
U.O.C. di Otorinolaringoiatria
Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma
Parole chiave: Apnee ostruttive del sonno. Disturbi del sonno. ORL. Diagnosi. Terapia
Key words: Obstructive sleep apnea syndrome. Sleep disorders. ENT. Diagnosis. Therapy
Riassunto: L’OSAS costituisce una patologia collegata alla “civilizzazione”, alle migliorate qualità di vita,
alla sedentarietà, agli eccessi alimentari. Le implicazioni socio-economiche sono correlate ad un aumento
di incidenza di patologie cerebro-vascolari, di ipertensione (con tutte le conseguenze legate a questo “killer
silenzioso”) ad un aumento del numero di incidenti automobilistici.
Nel complesso diagnostico terapeutico di tale sindrome lo specialista ORL svolge un ruolo fondamentale
poiché i siti determinanti la patologia sono di stretta competenza ORL.
L’anamnesi deve essere indirizzata ad evidenziare sintomi non usualmente riferiti come stanchezza, irritabilità, difficoltà respiratorie nasali, cefalea, impotenza. L’esame obiettivo deve prendere in considerazione tutti
i distretti rinofaringolaringei ed inoltre risulta indispensabile, per la quantificazione oggettiva del grado di
collassabilità ipofaringea, l’esecuzione di una fibroscopia con Manovra di Müller. A tutto ciò è necessario aggiungere la valutazione della polisonnografia ed un proficuo ed accorto colloquio interdisciplinare che valuti
l’aspetto terapeutico non sempre e soltanto medico e non sempre e soltanto chirurgico ma individualizzato,
scelto e proposto collegialmente per il singolo paziente.
Abstract: OSAS represents a pathology related to “civilization”, to the better quality of life, to the sedentary life, to the excess of food. The social and economical effects are characterized by an increase of vascular
pathology, of hypertension (with all the consequences related to this “silent killer”) and an increase of car
crashes. In the management of this pathology the ENT specialist has a central role because the areas causing the pathology are located in the nose and throat regions. The anamnesis must be done with the evaluation of irritability, tiredness, nasal dyspnoea, headaches and impotence. The objective examination must be
completed in all ENT areas associated with endoscopic examination with the Müller manoeuvre. The ENT
must also evaluate the polysomnography and must speak with other specialists to offer patients the best
therapy they need that is not only medical and not only surgical.
Introduzione
Nella storia della Sindrome delle Apnee
Ostruttive del Sonno, OSAS è l’acronimo
di Obstructive Sleep Apnea Sindrome, lo
specialista otorinolaringoiatra ha inizialmente svolto un importante ruolo nella
identificazione e definizione del quadro
sindromico per poi diventare elemento
fondamentale nell’iter diagnostico e terapeutico multidisciplinare.
Il ricorrere durante il sonno di episodi
di apnea e di ipopnea è una condizione potenzialmente pericolosa in quanto
predispone ad ipertensione polmonare,
cardiopatia ischemica, aritmie, accidenti
188
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
cerebrovascolari e soprattutto rischio di
addormentamento alla guida di veicoli.
Recentemente, in alcune regioni d’Italia,
è stata introdotto l’obbligo di eseguire un
esame polisonnografico per i conducenti
degli autotreni. La sindrome delle apnee
ostruttive del sonno è quindi ben altro
del semplice russamento, che rappresenta
soltanto un sintomo, se pur costante, di un
quadro più complesso e grave.
La Sindrome delle Apnee Ostruttive del Sonno
L’OSAS è il più frequente tra i disturbi
respiratori nel sonno, decisamente più
frequente dell’apnea centrale, dove l’arresto respiratorio non è legato a fenomeni
ostruttivi. Si definisce apnea un arresto
completo dell’attività respiratoria di durata superiore a 10 secondi. Durante il sonno
in tutti gli individui si modifica la dinamica respiratoria in quanto si modifica l’attività dei centri nervosi deputati alla coordinazione dei movimenti respiratori e della
posizione del corpo. La conseguenza sul
tratto aerodigestivo superiore è il rilassamento della muscolatura orale, linguale e
faringea che in molti soggetti può determinare il fenomeno del russamento, in altri,
in particolare soggetti obesi o in sovrappeso, l’ostruzione completa, transitoria, delle
vie aeree durante il sonno. L’ostruzione si
verifica soprattutto quando a condizioni
anatomiche sfavorevoli a livello faringeo
si associa una cattiva ventilazione nasale.
Il restringimento del lume faringeo, fino
al collabimento delle sue pareti, è facilitato infatti sia dalla respirazione notturna
orale sia dalla respirazione nasale con
resistenze aumentate, per il meccanismo
di suzione che la pressione negativa faringea deve attuare al fine di contrastare
l’aumentata resistenza al passaggio dell’aria nelle fosse nasali. Il susseguirsi, ad
intervalli talvolta brevi, di apnee durante
il sonno provoca una riduzione della ossigenazione del sangue. Gli episodi di apnea
si concludono con brevi micro risvegli,
normalmente non percepiti dal soggetto, a
volte frequentissimi, fino a diverse centinaia in poche ore di sonno, concentrati soprattutto nelle fasi del sonno più profonde
e quindi teoricamente più corroboranti. La
conseguenza di questi continui brevissimi
risvegli inconsci è rappresentata quindi da
una marcata frammentazione oltre che ad
una ridotta durata del sonno, con importante decremento dell’effetto riposante. A
questo si aggiungono le conseguenze delle
apnee sull’apparato cardio-circolatorio e
su quello polmonare.
I sintomi principali dell’OSAS sono
rappresentati da:
– Frequenti episodi di arresto della respirazione durante il sonno spesso riferiti
dal partner
– Cefalea al risveglio
– Russamento intermittente (perché interrotto dalle apnee)
– Sonnolenza diurna
– Ridotta capacità di memoria
– Ridotta capacità di concentrazione
– Ipertensione arteriosa
– Bocca asciutta al risveglio
– Riduzione della libido
L’OSAS si manifesta prevalentemente
a partire dalla 3° - 4° decade di vita, età
centrale nella vita biologica e lavorativa
di un individuo, con evidenti implicazioni
socio-economiche e sanitarie. Sempre più
spesso infatti l’OSAS rappresenta il tema
centrale di simposi e relazioni di diverse
società scientifiche nei quali viene costantemente enfatizzata la necessità dell’approccio multidisciplinare.
Lo specialista otorinolaringoiatra interviene, come elemento del gruppo interdisciplinare, in tre fasi che sono, nell’ordine:
– La selezione dei casi da avviare al protocollo diagnostico per l’OSAS
– la diagnostica clinico-strumentale
– la formulazione dell’indirizzo terapeutico con l’ eventuale esecuzione di interventi chirurgici dedicati.
Ruolo di screening dello specialista ORL
I sintomi relativi all’OSAS che più
spesso vengono riferiti allo specialista
ORL sono il russa mento, la cefalea mattutina, la secchezza delle fauci con polidipsia notturna ed i risvegli notturni. Altri
quadri sindromici si riferiscono a patologie cervico-facciali più o meno legate
all’OSAS con meccanismo di casualità o di
comorbilità, quali la difficoltà respiratoria
nasale con accentuazione in clinostatismo,
S. Millarelli: La sindrome delle apnee ostruttive del sonno
la rino-sinusopatia cronica, la faringite o
faringotonsillite cronica. Proprio nei casi
di OSAS di prima osservazione otorinolaringoiatrica il trattamento prevede spesso la correzione chirurgica di anomalie
anatomiche del distretto cervico-facciale,
eventualmente associata a modifica di
abitudini dietetiche e voluttuarie.
Ruolo dello specialista ORL nell’iter diagnostico
L’Iter diagnostico di competenza otorinolaringoiatra prevede:
– la raccolta accurata dell’anamnesi
– un esame obiettivo completo del distretto cervico-facciale, con predilezione per
lo studio della ventilazione nasale. La
presenza di patologie nasali come una
deviazione del setto nasale, una marcata ipertrofia dei turbinati o la presenza
di poliposi nasale, sono infatti sia fattori
favorenti l’OSAS che fattori ostativi ad
una adeguata applicazione della CPAP
(Continous Positive Airway Pressure).
Il meccanismo attraverso il quale l’ostruzione nasale determina le apnee è, come già
accennato duplice. Nel caso l’ostruzione sia
tanto serrata da obbligare alla respirazione
orale questa si accompagnerà a secchezza
della mucosa, flogosi cronica ipertrofica
e malposizionamento glosso-mandibolare
con conseguente collabimento delle pareti
faringee in inspirazione. Nel caso invece
l’ostruzione sia di grado più lieve e consenta comunque una respirazione nasale,
l’aumento delle resistenze, con un maggiore sforzo inspiratorio, potrà determinare il
collabimento delle pareti faringee con un
meccanismo di suzione.
Importante poi è lo studio morfo-funzionale del tratto faringo-laringeo. La presenza di palato molle flaccido con dolicougola, la marcata ipertrofia tonsillare, la
iperplasia della base della lingua, spesso
secondaria ad una patologia da reflusso
gastroesofageo, contribuiscono ad accentuare i sintomi di OSAS.
– la fibrorinolaringoscopia con manovra
di Müller, esame ormai effettuato di
routine senza anestesia o senza sedazione, permette di esplorare tutti i distretti
di competenza orl e di valutare il grado
di collassabilità delle pareti ipofarin-
189
gee. Esso costituisce irrinunciabile base
obiettiva per eventuali programmazioni
terapeutiche di ordine chirurgico.
L’esame consiste nell’introdurre attraverso le fosse nasali un endoscopio flessibile e, dopo aver superato la regione coanale, nell’invitare il paziente ad inspirare
a bocca chiusa con le narici otturate per
poter valutare la collassabilita’ ipofaringea; tale manovra può determinare una
collasso delle strutture ipofaringee e/o laringee in senso anteroposteriore, in senso
lateromediale o in senso circolare. Tale
dinamica inspiratoria viene classificata
secondo una scala di positività da 1 a 4
rispettivamente corrispondente al 25% del
totale, per cui una positività ++++ corrisponde ad una stenosi totale o sub totale
mentre una positività di + rappresenta
una ostruzione del 25% dell’ipofaringe.
– l’interpretazione e l’acquisizione di valutazioni cliniche e strumentali proposte o eseguite da altri specialisti,
primo fra tutti la polisonnografia, che
rappresenta oggi il gold standard per la
diagnosi dell’OSAS, in grado di definirne anche grado e severità.
– colloqui interdisciplinari.
Ruolo dello specialista ORL nel
trattamento dell’OSAS
Le linee del trattamento dell’OSAS
sono:
– innanzitutto necessaria la correzione di
abitudini di vita quali l’astensione dal
fumo, il controllo dell’alimentazione e
l’astensione dagli alcoolici. Spesso è necessaria la revisione di terapie farmacologiche.
– la CPAP rappresenta il primo valido procedimento terapeutico e nella
maggioranza dei casi, se ben tarata e
tollerata, risolve totalmente i problemi
notturni. Consiste nella applicazione
di una maschera facciale o nasale, a
tenuta ermetica, connessa ad un dispositivo in grado erogare una pressione
aerea positiva perfettamente regolata,
in grado di contrastare il collabimento
inspiratorio delle pareti del faringe.
La corretta applicazione della CPAP
prevede la disponibilità di maschere
facciali di diverse forme e dimensioni
190
Annali degli Ospedali San Camillo e Forlanini 11, 3, 2009
ed una scrupolosa regolazione della
pressione di esercizio.
– il trattamento medico (riniti croniche,
reflusso, sinusiti croniche, ipertrofia
tonsillare, epifaringite)
– il trattamento chirurgico (settoplastica
e chirurgia dei turbinati, tonsillectomia, uvulo-palato plastica, faringoplastica, sospensione ioidea, supporti palatali, avanzamento del genioglosso,
tracheotomia temporanea).
Il ruolo dell’ORL è fondamentale nella
valutazione dei siti di ostruzione e nella
possibilità di fornire una alternativa terapeutica chirurgica alla utilizzazione della
CPAP.
La terapia chirurgica è estremamente
diversificata potendo avvalersi di tecniche
eseguite in anestesia locale, in sedazione
o in narcosi.
Il ventaglio di opzioni chirurgiche prevede:
– interventi ambulatoriali in anestesia
locale come l’inserzione di supporti palatali ( pillar system) e l’uvulotomia
– interventi da eseguire in day hospital
in anestesia locale come la riduzione
volumetrica dei turbinati con radiofrequenze e la uvulopalatoplastica con
radiofrequenze
– interventi da eseguire in anestesia generale in day surgery come la settoplastica
la uvulopalatoplastica con abbinata tonsillectomia, la faringoplastica di allargamento, la riduzione volumetrica della
base della lingua con radiofrequenze
– interventi da eseguire in ricovero ordinario come la sospensione ioidea,
l’avanzamento del muscolo genioglosso
e la tracheotomia temporanea.
Il tipo di intervento chirurgico da consigliare al paziente deve essere pertanto individualizzato e programmato dopo una adeguata valutazione polispecialistica; maggiore è la gravità delle condizioni del paziente
tanto più complesso è l’iter terapeutico
chirurgico e conseguentemente più elevata
è la classe di rischio anestesiologico.
L’intervento deve essere considerato
un punto di arrivo e non il primo gradino
terapeutico.
È obbligatorio sottolineare come la sintomatologia che riferisce il paziente, ma
spesso i suoi familiari, è la conseguenza di
abitudini di vita non propriamente igieni-
che ed è fondamentale affermare come il
primum movens terapeutico sia rappresentato dalla modifica dei comportamenti
dietetici.
È infine da ribadire come spesso i pazienti non siano correttamente informati
delle problematiche legate all’OSAS ma si
recano dal medico solamente per il fastidioso sintomo del russamento; deve essere
compito dei vari specialisti di evidenziare
i rischi di tale patologia
Per concludere possiamo affermare che
oggi la patologia respiratoria ostruttiva
del sonno non può essere affrontata se non
in un contesto di interdisciplinarietà. Possiamo anche sottolineare l’importanza che
in questo gruppo interdisciplinare riveste
lo specialista otorinolaringoiatra, non dimenticando di considerare la delicatezza
del suo ruolo per la precisione diagnostica
richiesta. Se infatti interventi terapeutici
sull’OSAS di ordine medico, quali il calo
ponderale, l’astensione dalle abitudini voluttuarie dannose, l’eliminazione dell’uso
di determinati farmaci e la stessa C-PAP
possono prescindere da una diagnosi fine
della sede dell’ostruzione, altrettanto non
è per le patologie di interessa ORL. In tali
casi infatti l’indicazione al trattamento,
chirurgico o farmacologico, deve seguire
ad una precisa individuazione del famoso
“segmento collassante” del tratto aerodigestivo superiore.
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