103 - Centro Studi Cinematografici
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SOMMARIO n. 103 Anno XVI (nuova serie) n. 103 gennaio-febbraio 2010 Bimestrale di cultura cinematografica Edito dal Centro Studi Cinematografici 00165 ROMA - Via Gregorio VII, 6 tel. (06) 63.82.605 Sito Internet: www.cscinema.org E-mail: [email protected] Aut. Tribunale di Roma n. 271/93 Abbonamento annuale: euro 26,00 (estero $50) Versamenti sul c.c.p. n. 26862003 intestato a Centro Studi Cinematografici Spedizione in abb. post. (comma 20, lettera C, Legge 23 dicembre 96, N. 662 Filiale di Roma) Si collabora solo dietro invito della redazione Direttore Responsabile: Flavio Vergerio Direttore Editoriale: Baldo Vallero Cast e credit a cura di: Simone Emiliani Segreteria: Cesare Frioni Redazione: Marco Lombardi Alessandro Paesano Carlo Tagliabue Giancarlo Zappoli Hanno collaborato a questo numero: Veronica Barteri Elena Bartoni Luca Caruso Chiara Cecchini Marianna Dell’Aquila Tania Di Giacomantonio Silvio Grasselli Elena Mandolini Diego Mondella Fabrizio Moresco Danila Petacco Francesca Piano Manuela Pinetti Valerio Sammarco Stampa: Tipostampa s.r.l. Via dei Tipografi, n. 6 Sangiustino (PG) Nella seguente filmografia vengono considerati tutti i film usciti a Roma e Milano, ad eccezione delle riedizioni. Le date tra parentesi si riferiscono alle “prime” nelle città considerate. Alice in Wonderland ........................................................................... 6 Amante inglese (L’) ............................................................................ 4 An Education ..................................................................................... 22 Anno Uno ........................................................................................... 3 Baciami ancora .................................................................................. 40 Battaglia dei tre regni (La) ................................................................. 29 Bocca del lupo (La) ............................................................................ 7 Casa sulle nuvole (La) ....................................................................... 23 Concerto (Il) ....................................................................................... 2 Crazy Heart ....................................................................................... 20 Dieci inverni ....................................................................................... 8 Donne senza uomini .......................................................................... 38 Figlio più piccolo (Il) ........................................................................... 32 Genitori & figli: agitare bene prima dell’uso ....................................... 35 Genova .............................................................................................. 14 Invictus – L’invincibile ......................................................................... 9 Io & Marilyn ....................................................................................... 26 Lourdes .............................................................................................. 24 Meno male che ci sei ......................................................................... 41 Mine vaganti ...................................................................................... 36 Missionario (Il) ................................................................................... 31 Niko – Una renna per amico .............................................................. 19 Nine ................................................................................................... 15 Onda (L’) ............................................................................................ 12 Popieluszko ....................................................................................... 42 Piovono polpette ................................................................................ 11 Riccio (Il) ............................................................................................ 34 Single Man (A) ................................................................................... 27 Tra le nuvole ...................................................................................... 17 Uomo che verrà (L’) ........................................................................... 39 Videocrazy – Basta apparire ............................................................. 28 Tutto Festival – Venezia 2009 .......................................................... 42 Film Tutti i film della stagione IL CONCERTO (Le concert) Francia/Romania/Belgio/Italia, 2009 Regia: Radu Mihaileanu Produzione: Alain Attal, Radu Mihaileanu per Les Productions du Trésor/Oï Oï Oï Productions/Castel Film Romania/Panache Productions/France 3 Cinéma/Mars Films/Europa Corp./ Radio Télévision Belge Francophone (RTBF)/ BIM Distribuzione Distribuzione: BIM Prima: (Roma 5-2-2010; Milano 5-2-2010) Soggetto: Héctor Cabello Reyes, Thierry Degrandi Sceneggiatura: Radu Mihaileanu, Alain-Michel Blanc, Matthew Robbins Direttore della fotografia: Laurent Dailland Montaggio: Ludovic Troch Musiche: Armand Amar Scenografia:Stanislas Reydellet, Christian Niculescu Costumi: Viorica Petrovici, Maira Ramedhan Lévy Co-produttori: Valerio De Paolis, André Logie, Vlad Paunescu Line producer: Bogdan Moncea Direttore di produzione: Xavier Amblard Casting: Gigi Akoka, Hervé Jakubowicz ndreï Filipov è stato il più grande direttore della famosa Orchestra del Bolshoi dell’Unione Sovietica. Licenziato proprio durante un’importante esecuzione di fronte a tutto il pubblico, perché si rifiutò di separarsi dai suoi musicisti ebrei, si ritrova trent’anni dopo a lavorare al Bolchoi, come uomo delle pulizie. Un giorno, Andreï, mentre si trova nell’ufficio del direttore, trova casualmente un fax indirizzato al direttore stesso: è il Théâtre du Châtelet che invita l’orchestra a suonare a Parigi. Andreï decide di riunire i suoi vecchi amici musicisti, che come lui non vivono più di musica, e portarli a A Aiuti regista: Hany El-Sayed, Julie Grumbach, Olivier Jacquet, Ovi Morariu, Michaël Pierrard Operatore steadicam: Alessandro Brambilla Art director: Vlad Roseanu Arredatore: Gina Stancu Trucco: Daniela Busoiu, Michèle Constantinides, Bernard Floch Acconciature: Catherine Crassac, Adelina Popa Supervisori effetti visivi: Benjamin Ageorges, Stephane Bidault Suono: Pierre Excoffier Interpreti: Aleksei Guskov (Andreï Filipov), Dmitri Nazarov (Sacha Grossman), Mélanie Laurent (Anne-Marie Jacquet), François Berléand ( Olivier Morne Duplessis ), Miou-Miou (Guylène de la Rivière), Valeri Barinov (Ivan Gavrilov), Anna Kamenkova Pavlova (Irina Filipovna), Lionel Abelanski (JeanPaul Carrère), Alexander Komissarov (Victor Vikitch), Ramzy Bedia (proprietario del ‘Trou Normand’), Laurent Bateau Durata: 120’ Metri: 3300 Parigi, spacciandosi per il Bolshoi. L’amico e musicista Sacha e la moglie Irina, lo spronano e aiutano nell’impresa. In soccorso arriva il loro ex impresario Ivan, proprio colui che trent’anni prima li aveva umiliati; Sacha accetta con difficoltà il suo aiuto, non avendolo ancora perdonato del tutto. Ma, proprio grazie ad Ivan, la ritrovata orchestra chiede e ottiene tutte le opzioni contrattuali proposte al direttore Jean-Paul Carrère di Parigi, fra cui anche la presenza della giovane e famosa solista Anne-Marie Jacquet. Andreï e Sacha parlano di Anne-Marie in modo tale, da far supporre che in realtà la ragazza 2 sia proprio figlia di Andreï. Con difficoltà, arrivano finalmente a Parigi. Le prove saltano per dispiacere di Sacha e Andreï, visto che tutti i componenti dell’orchestra stanno approfittando del soggiorno parigino per fare soldi, dimenticandosi del concerto in programmazione la sera successiva. Andreï riesce ad incontrare Anne-Marie, nonostante le remore di Guylène, manager della ragazza. Durante la cena, Andreï le racconta di quel concerto e di tutte le loro vite spezzate, mettendo particolare enfasi sulla storia della solista di allora, Lena e del marito Izac, anche lui musicista dell’orchestra. Anne-Marie lo lascia al tavolo, dicendo che lei non potrà mai sostituire quella ragazza, per cui lei non parteciperà al concerto. Sacha, vedendo l’amico in pezzi, decide di parlare con Anne-Marie, facendole capire che tutto quello che crede di sapere su suoi genitori morti, sono solo bugie e che proprio alla fine del concerto troverà il suo vero padre e madre. Incredula, Anne-Marie all’inizio rifiuta per poi andare nell’albergo dove alloggia l’orchestra; proprio lì viene vista da un componente dell’orchestra che sembra quasi riconoscerla. A tutti i musicisti dell’orchestra arriva un sms in cui viene espressamente chiesto di andare a suonare in ricordo di Lena. La sera del concerto tutti sono presenti, persino Ivan resta in teatro per bloccare in uno sgabuzzino, il vero direttore del Bolshoi, giunto disgraziatamente a Parigi per una vacanza in famiglia. Inizia il concerto: tutti suonano egregiamente e Anne-Marie si commuo- Film ve. Mentre dirige, Andreï si ricorda di Lena ed Izac, i veri genitori di Anne-Marie, entrambi morti in un campo di concentramento; per salvare la loro unica figlia, la affidarono a Sacha e Andreï che, a loro volta, la diedero a Guylène che stava andando a lavorare a Parigi. Il concerto finisce: tutti applaudo. Parte un tour mondiale di grande successo. n concerto d’emozioni. Tutto il film è un crescendo, proprio come la musica di Cajkovskij, che culmina nella scena madre. Il finale riconciliatore di Andreï col suo passato, di Anne – Marie con i fantasmi dei propri genitori ritrovati, di ogni personaggio col proprio conto in sospeso, è ben scritto ed egregiamente recitato. Inevitabile, quindi, commuoversi di fronte alle lacrime della giovane violinista, o con la passione per la musica del protagonista. Grottesco e divertente, Il Concerto miscela con astuzia scene drammatiche e non, grazie anche a una sceneggiatura ben scritta che scorre come un ingranaggio ben U Tutti i film della stagione oliato. Giocato bene il colpo di scena dell’identità dei genitori di Anne – Marie. Per come sono seminati gli indizi e per quella convenzione implicita, per cui il protagonista è al centro di ogni plot del film, si pensa che Andreï sia il vero padre della ragazza; invece, altri non è che la figlia di due cari amici ormai morti e di cui Andreï si sente il diretto responsabile di tale tragedia. Presentato al Festival del Cinema di Roma, Il Concerto affronta bonariamente le differenze culturali fra occidente e oriente, simboleggiate dal direttore di Parigi, JeanPaul Carrère e da Ivan. Il quadro della Russia che viene ritratto non è certo dei più moderni o accattivanti; tant’è vero che finchè non ci viene mostrata Parigi, o lo stesso Jean-Paul, si pensa che il film sia ambientato negli anni Ottanta. Così ben orchestrato questo gioco temporale, che quando la falsa orchestra si trasferisce in Francia, sembra quasi esserci stato un vero e proprio salto nel tempo. Il merito del film è sicuramente quello di mostrarci tali differenze, con relative difficoltà interpersonali, senza deridere nessuna delle due parti e senza eccedere: semplicemente ci mostra ciò che è la realtà, è il pubblico che osserva e capisce. Il film resta, in primis, la storia di un riscatto, di una rivalsa che ha aspettato trent’anni per compiersi. Pazienza e paura, desiderio e timore, si mescolano in Andreï; così anche nello spettatore che parteggia inevitabilmente per il protagonista e sogna con lui di raggiungere quel palcoscenico e poter così concludere il sospirato concerto. Così ben girato e interpretato che, non appena Andreï si trova di fronte all’orchestra, è così palpabile la sua emozione, che inevitabilmente si riflette sul pubblico. Viene quasi voglia di incitarlo a incominciare, nonostante la paura sua e nostra, che possa rivelarsi un fiasco totale. Radu Mihaileanu, già regista di Train de vie e Vai e vivrai, esegue un film degno di attenzione, dirigendo con maestria i competenti attori; su tutti l’interprete di Andreï, Alexeï Guskov. Si ride, si piange, proprio com’è la vita. Elena Mandolini ANNO UNO (Year One) Stati Uniti, 2009 Regia: Harold Ramis Produzione: Judd Apatow, Clayton Townsend per Columbia Pictures/Ocean Pictures/Apatow Productions Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia Prima: (Roma 6-11-2009; Milano 6-11-2009) Soggetto: Harold Ramis Sceneggiatura: Harold Ramis, Gene Stupnitsky, Lee Eisenberg Direttore della fotografia: Alar Kivilo Montaggio: Craig P. Herring, Steve Welch Musiche: Theodore Shapiro Scenografia: Jefferson Sage Costumi: Debra McGuire Produttore esecutivo: Rodney Rothman Produttore associato: Andrew Epstein Co-produttori: Harold Ramis, Laurel A. Ward Casting: Tara Duncil, Chris Gray, Jeanne McCarthy Aiuti regista: Dieter ‘Dietman’Bush, Mark Cotone, E.J. Foerster, Jon Mallard, Dawn Massaro, Matt G. Sheets, Yumiko Takeya Operatori: Brown Cooper, Robert Foster, Tom Hutchinson, Monty Rowan, Gerard Sava Art director: Richard Fojo Arredatore: Dorree Cooper Trucco: Kim Ayers, Robin Beauchesne, John Blake, Stacey Herbert, Ann-Maree Hurley, Jack Lazzaro, Courtney Lether, Rose Librizzi, Roz Music, Kim Perrodin, Viola Rock, Yolanda nno uno. Zed e il suo amico Oh vivono in una tribù di uomini primitivi, divisa in raccoglitori e cacciatori, dominata dal violento Marlak. Zed A Sheridan, Nicole Sortillon Acconciature: Yvonne Depatis-Kupka, Patricia Gundlach, Jules Holdren, Jennifer Jane, Norma Lee, Ann Marie Luddy, Maxine Morris, Roz Music, Theraesa Rivers, Tommie Strawther, Tony Ward Supervisore effetti speciali: Bob Shelley Supervisore effetti visivi: Jamie Dixon (Hammerhead Productions) Coordinatori effetti visivi: Collin Fowler, Kelly Rae Kenan (Hammerhead Productions) Supervisore costumi: Careen Fowles Interpreti: Jack Black (Zed), Michael Cera (Oh), Oliver Platt (Gran Sacerdote), David Cross (Cain), Christopher MintzPlasse (Isaac), Vinnie Jones (Sargon), Hank Azaria (Abraham), Juno Temple (Eema), Olivia Wilde (Principessa Inanna), June Diane Raphael (Maya), Xander Berkeley (Il Re), Gia Carides (La Regina), Horatio Sanz (Enmebaragesi), David Pasquesi (Primo Ministro), Matthew Willig (Marlak), Harold Ramis (Adam), Rhoda Griffis (Eve), Gabriel Sunday (Seth), Eden Riegel (Lilith), Kyle Gass (Zaftig l’eunuco), Bill Hader (lo sciamano), Marshall Manesh (venditore di schiavi), Rion Hunter (beduino Sheik), Gene Stupnitsky (guardia), Lee Eisenberg (Sodom Sentry), Lacie Manshack (ragazza con la banana), Matt Besser (tizio della folla) Durata: 100’ Metri: 2750 ama non corrisposto la bella Mya, che gli preferisce Marlak, mentre il delicato e sensibile Oh non riesce a far colpo sulla giovane Eema. Un giorno, Zed decide di as3 saggiare il famigerato frutto proibito e questo gli dà un’inaspettata forza. Stufo di quella tribù, Zed decide di partire in cerca di nuovi posti e nuovi popoli, seguito dal fedele Film Oh. I due si imbattono in due fratelli in lite, Caino e Abele, e assistono all’uccisione di Abele da parte di Caino. Zed e Oh si recano con Caino dalla sua famiglia dove conoscono il padre Adamo. Il giorno dopo, in un mercato, i due rivedono Maya e Eema, rapite e rese schiave. Ridotti anche loro in schiavitù, Zed e Oh riescono a scappare nel deserto. Decisi a liberare le due donne amate, i due decidono di recarsi nella mitica città di Sodoma. Durante il viaggio si imbattono in Abramo che sta per sacrificare il figlio Giacobbe e riescono a fermarlo. Ospiti di Abramo, i due restano colpiti dai racconti dell’uomo su Sodoma e Gomorra, città dove regna incontrastato il vizio. Giunti a Sodoma in compagnia di Giacobbe, i due si imbattono di nuovo in Caino e vengono arruolati tra i soldati dell’esercito. La città è dominata dal re che ha una figliastra bellissima, la principessa Inanna. Sulla popolazione grava un periodo di grave carestia: per invocare l’arrivo della pioggia, il re presenzia alla brutale cerimonia del sacrificio delle vergini. Quella sera i due vengono invitati a un banchetto dove regna il vizio: Oh viene indorato e costretto a fare la statua vivente e Zed viene corteggiato dalla principessa. Mentre Oh viene circuito dall’orrido Gran Sacerdote che lo costringe a massaggiarlo sul suo laido corpo peloso, Zed, scambiato per l’’Eletto’, viene costretto dalla principessa a entrare nel “sancta santorum” e a parlare con gli dèi. Dentro il santuario incontra Oh e pronuncia una serie di preghiere. Subito dopo, però, i due vengono fatti prigionieri dal re e condannati per i crimini più svariati. Condotti al patibolo, di fronte al re e al popolo, i due vengono condannati a essere lapidati. Zed arringa il popolo che inneggia a lui come “l’Eletto” e lo salva. Ma, poco dopo, Maya Tutti i film della stagione e Eema vengono condotte sul patibolo per essere sacrificate. Con una serie di atti eroici, Zed salva tutti, mentre il Gran Sacerdote viene gettato nel fuoco sacrificale. Improvvisamente la pioggia cade copiosa. La città è salva. Zed e Oh sono vittoriosi, conquistano l’amore delle loro donne e la principessa li ringrazia. Le strade dei due ora si dividono in cerca di nuove avventure. spasso nel tempo. Ancora una volta in chiave demenziale. E già, il cinema italiano della ditta Vanzina bros., qualche anno fa aveva riletto in chiave comica i viaggi nel tempo mandando su e giù per la storia i suoi sguaiati protagonisti (l’ex coppia d’oro della commedia italiana Boldi-De Sica) in un film intitolato appunto A spasso nel tempo (era il 1996 e dato il successo un anno dopo fu subito sequel). A dire il vero, più che alla ditta italica, il regista Harold Ramis sembra essersi ispirato a un film come La pazza storia del mondo con Mel Brooks. Qui, a zonzo nel tempo e nello spazio, a metà strada fra eventi storici e biblici, ci va qual faccione buffo e simpatico di Jack Black, accompagnato dal faccino imberbe di Michael Cera (già visto nella commedia Juno nei panni di un padre adolescente). Ma, a dire il vero, si viaggia un po’ troppo a casaccio, spaziando da episodi dell’Antico Testamento, come l’omicidio di Abele da parte di Caino o il sacrificio di Isacco, per finire (naturalmente) a Sodoma. L’effetto comico dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) scaturire dalle battute (rigorosamente attuali) pronunciate dai due cavernicoli che passeggiano per l’antichità. Spesso si scade nella volgarità che noi italiani, abituati a prodotti come i ‘cinepanettoni’, conosciamo bene. E tra rumorac- A ci e battutacce, citiamo due “perle”: Black che assaggia le feci e Cera che si fa la pipì in faccia mentre è appeso a testa in giù in prigione. Inutile dire che Harold Ramis ha fatto di meglio dirigendo l’esilarante Terapia e pallottole e, ancora prima i simpatici Mi sdoppio in quattro e Ricomincio da capo,o scrivendo la sceneggiatura di un ‘cult’ come Animal House. Qui quel che resta è ben poco: il faccione buffo di Black, l’altro faccione di Oliver Platt, gustoso nei panni di un laido ‘Gran Sacerdote’, la bellezza ipnotica di Olivia Wilde nei panni della principessa Inanna. Il resto è demenzialità già vista. Siamo a metà strada tra la satira dei Monthy Python e lo stile “antenati”, ma si resta sospesi a metà, indecisi tra il biblico e il preistorico. Siamo comunque lontani dalla farsa irriverente degli argomenti biblici di Brian di Nazareth (1979) con i Monthy Python scatenati e ancora al gran completo. Ma siamo distanti anche da ‘cult’ del genere preistorico come il nostrano Quando le donne avevano la coda, diretto nel lontano 1970 da Pasquale Festa Campanile, sedicente farsa grossolana e pecoreccia (nonostante il soggetto rechi la firma di un fine letterato di nome Umberto Eco). Qui le donne non hanno la coda, ma hanno bellezza e intelletto superiore ai due protagonisti, pasticcioni e un po’ addormentati, anche se uno dei due addenta arditamente il frutto proibito. D’altronde i tempi sono cambiati … oppure no? Non ci resta altro, si invochi un diluvio (universale) di fischi. Elena Bartoni LAMANTE INGLESE (Partir) Francia, 2009 Regia: Catherine Corsini Produzione: Michel Seydoux, Fabienne Vonier per Pyramide Productions/ Caméra One/ VMP/ Solaire Production; con la partecipazione di Canal+/ CinéCinéma e in associazione con Cofinova 5 Distribuzione: Teodora Film Prima: (Roma 5-3-2010; Milano 5-3-2010) Soggetto e sceneggiatura: Catherine Corsini, Gaëlle Macé Direttore della fotografia: Agnès Godard Montaggio: Simon Jacquet Musiche: Georges Delerue, Antoine Duhamel Scenografia: Laurent Ott Costumi: Anne Schotte Direttori di produzione: Marc Fontanel, François Pascaud Casting: Brigitte Moidon Aiuti regista: Olivier Genet, Marc Mameaux Coordinatore effetti visivi: Émilie Feret Suono: Olivier Dô Hùu, Benoît Hillebrant Interpreti: Kristin Scott Thomas (Suzanne), Sergi López (Ivan), Yvan Attal (Samuel), Bernard Blancan (Rémi), Aladin Reibel (Dubreuil), Alexandre Vidal (David), Daisy Broom (Marion), Berta Esquirol (Berta), Gerard Lartigau (Lagache), Geneviève Casile (madre di Samuel), Philippe Laudenbach (padre di Samuel), Michèle Ernou (sig.ra Aubouy), Jonathan Cohen (banchiere), Hélène Babu (Dorothée), Mama Prassinos (sig.ra Dubreuil ), Philippe Beglia ( antiquario ), Asun Planas (trentenne), David Faure (capo del personale), Sali Cervià (ragazza alla stazione di servizio) Durata: 85’ Metri: 2330 4 Film n una bella villa della provincia francese del midi, Suzanne, giunta anni prima dall’Inghilterra, vive con il marito Samuel, ortopedico presso la clinica locale e due figli. Suzanne vuole riprendere la sua attività di chinesiterapista, abbandonata al momento di mettere su famiglia; per questo Samuel le attrezza uno studio in un locale abbandonato, affidandolo per la ristrutturazione a una piccola impresa edile di un conoscente. Vi lavora come operaio Ivan, simpatico catalano dal passato un po’ difficile (un anno in galera) e dal presente ugualmente difficile (brutto rapporto con l’ex moglie che a stento gli fa vedere la bambina). In seguito a un banale incidente che impedisce a Ivan di guidare per recarsi in Spagna un giorno dalla figlia, Suzanne si offre di accompagnarlo. È solo un piccolo bacio sfuggente che avviene tra i due in territorio spagnolo ma è quello che basta per far scoppiare tra Suzanne e Ivan una passione sconvolgente al loro rientro in Francia. Suzanne perde del tutto la testa e confessa, non sapendo vivere una vita di menzogne, tutto al marito. Questi, a parte lo sdegno e l’ira per lei, afferma che non la lascerà mai libera perchè è sua moglie e il suo posto è in casa sua con la sua famiglia. Dopo un’ultima scenata a base di schiaffi Suzanne se ne va senza voltarsi indietro. Qui cominciano i problemi. I due amanti infatti sono senza un soldo e ogni loro iniziativa per mantenersi è resa vana da Samuel, uomo potente, ammanigliato in provincia con la gente che conta e quindi fortissimo. Per prima cosa Ivan perde il lavoro nell’edilizia, è il sindaco, amico di Samuel a fargli terra bruciata; Suzanne, a cui è ritirata la carta di credito non riesce neanche a fare la cassiera in un supermercato; insieme tentano di sbarcare il lunario raccogliendo la frutta per i mercati generali. Poi Suzanne decide di dare la svolta: in casa del marito c’è anche molto di suo che le è stato regalato o che lei ha contribuito a comprare, quadri, preziosi etc. È giusto che il dovuto (in fin dei conti un’eventuale causa di divorzio dovrà pure riconoscerle qualcosa) torni in mano sua. Un giorno in cui il resto della famiglia è fuori, Suzanne e Ivan entrano in casa e portano via quadri e oggetti di valore. Samuel risponde senza pensarci due volte e li denuncia: davanti alla casa del ricettatore Ivan trova la polizia, è la fine. Samuel costringe Tutti i film della stagione I Suzanne a scegliere: se ritorna a casa il suo amante sarà libero e così è, anche perchè è lo stesso Ivan ad ammettere che per loro non c’è futuro. Suzanne torna a casa e dopo un periodo in cui vive in famiglia come una malata, più morta che viva, una notte carica un fucile e uccide Samuel nel sonno. Così è davvero tutto finito. anno più volte citato La signora della porta accanto di Truffaut: ma lì c’era tanta, tantissima passione, uno sconvolgimento che poteva sciogliersi unicamente nella morte di entrambi (“nec cum te, nec sine te vivere possum”, ce ne ricordiamo? Non posso vivere né con te, né senza di te), un amour fou inquadrato secondo una disperazione tutta personale, tutta intima, carica di sentimenti, pulsioni e desideri appartenenti esclusivamente alle persone (sappiamo che a Truffaut non interessava il sociale, né piaceva dare alle storie un taglio pubblico, politico, né, tantomeno, ideologico); lo stesso marito tradito della Ardant era un intellettuale, sensibile, innamorato, che si dimostrava, senza alzare mai la voce, smarrito e incapace di comprendere tutta la sofferenza che gli veniva gettata addosso. Qui no, qui il film è duro, violento, è una guerra tra sessi e ceti sociali, in cui l’amore e la passione sono mezzi per far deflagare il conflitto e arrivare alla resa dei conti. Con la passione Suzanne reclama la propria voglia di autodeterminazione e di libertà, sfidando valori e regole di una società borghese che più borghese non si può. Samuel rivendica il suo di- H 5 ritto di proprietà, l’affermazione anche figurativa del proprio status: non chiede alla donna né amore né dedizione, ma le impone di fare e di essere moglie perchè moglie è, ora e per sempre, in casa, nella sua casa, dorata sì, ma di cui nulla le può appartenere. Così nelle scene di sesso, anche prima della crisi, per Samuel è sempre un atto di dominazione da ufficializzare su una preda abbattuta in un territorio di caccia. Per Ivan, invece, la passione e il sesso sono un modo per giocare alla pari, in cui due corpi imperfetti, ma liberi, sono in grado di piacersi, lontano da curve e linee televisivamente smaltate, perchè hanno dalla loro parte la sincerità e la dignità che scambievolmente si regalano. Contemporaneamente, però, il sorriso umano e disponibile di Ivan non può nascondere quello che uno come lui sa da generazioni mentre a una come Suzanne pare assurdo: la forza sempre vincente dell’unica arma che non ha rivali, il denaro. È con il denaro che Samuel piega la situazione a suo favore; è per denaro che i due amanti si dichiarano sconfitti, Ivan per primo, perchè forse ha sempre saputo come sarebbero andate le cose; è a causa del denaro che Suzanne prima ammattisce e poi uccide. Bravissimi i tre interpreti, nella loro violenza, nella loro verità; il cinema francese sa ancora darci passioni ed emozioni che vogliono opporsi al destino, indipendentemente dal prezzo che c’è da pagare. Fabrizio Moresco Film Tutti i film della stagione ALICE IN WONDERLAND (Alice in Wonderland) Stati Uniti, 2010 Regia: Tim Burton Produzione: Joe Roth, Jennifer Todd, Suzanne Todd, Richard D. Zanuck per Walt Disney Pictures/ Roth Films/The Zanuck Company/ Team Todd Distribuzione: Walt Disney Motion Pictures Prima: (Roma 3-3-2010; Milano 3-3-2010) Soggetto:tratto dai romanzi Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio di Lewis Carroll Sceneggiatura: Linda Woolverton Direttore della fotografia: Dariusz Wolski Montaggio: Chris Lebenzon Musiche: Danny Elfman Scenografia: Robert Stromberg Costumi: Colleen Atwood Produttori esecutivi: Chris Lebenzon, Peter M. Tobyansen Produttore associato: Derek Frey Co-produttori: Katterli Frauenfelder, Linda Woolverton Direttore di produzione: Tommy Harper Casting: Susie Figgis Aiuti regista: Katterli Frauenfelder, Sarah Hood, Emma Horton, Brandon Lambdin, Bryn Lawrence, Gregory J. Pawlik Jr. Operatori: Adam Meltzer, P. Scott Sakamoto, Martin Schaer Operatore Steadicam: P. Scott Sakamoto Art directors: Tim Browning, Todd Cherniawsky, Stefan Dechant, Andrew L. Jones, Mike Stassi, Christina Ann Wilson Arredatori: Karen O’Hara, Peter Young Effetti speciali trucco: Bill Myer, Christopher Allen Nelson, Arjen Tuiten Trucco: Corinne Bossu, Leslie Devlin, Tamsin Dorling, Louise Fisher, Susan Stepanian, Emilio Uribe, Patty York Acconciature: Terry Baliel, Paul Gooch, Miia Kovero, Paul Mooney Supervisori effetti speciali: Michael Dawson (UK), Michael Lantieri Supervisori effetti visivi: Craig Barron (Matte World Digital), David Ebner (CafeFX), Ben Grossmann (CafeFX), Michael C. Miller, Sean Phillips, Ken Ralston, Tim Sassoon, Jared James Vest (In-Three Inc), Carey Villegas Coordinatori effetti visivi: Christopher Blasko, E.M. Bowen (New Deal Studios), Shari B. Ellis (SPI), Kristy Lynn Fortier, Wendy Hulbert (CafeFX), Llyr Tobias Johansen, Jeanny Lee, Sarah Mihalec (Sony Imageworks), Kevin Noel, Caprice Ann Ridgeway (CafeFX), Ariane Rosier (CafeFX), Amanda Roth a diciottenne Alice è ospite a una festa nella signorile villa di un fortunato armatore, il quale le ribadisce di non avere sfruttato la morte del padre di lei; di lui Alice ha un fortissimo ricordo, unito a immagini del proprio “viaggio nel Paese delle meraviglie”, le quali stanno ritornandole alla memoria proprio in mezzo a questa situazione. Mentre il figlio del suo ospite sta facendole l’ufficiale dichiarazione di fidanzamento, ella è confusa; si allontana; presso un albero cade in una buca e finisce a testa in giù in una stanza, la cui uscita è una minuscola porticina. Su un tavolo ci sono una chiave e una boccetta, Alice beve e diventa piccolissima; ma lascia la chiave sul tavolo: per fortuna, trova una fet- L (Legend Films), Anthony Ruey (CafeFX), Alessandra Serrano (CafeFX), Beth Tyszkiewicz Supervisore effetti digitali: Danny Braet (CafeFX) Supervisori costumi: Anthony Almaraz (Mocap), Donna O’Neal Supervisori animazione: Marco Marenghi (SPI), David Schaub, James Straus (CafeFX) Animazione personaggi: Chris Endicott (SPI), Dave Hardin, Ken Satchel King (SPI), Andrew Lawson, Nathan McConnel (SPI), Ray Pena (CafeFX), Ana Maria Alvarado, Benjamin Cinelli, Jeremy Collins, Joel Foster, Dave Hardin, Sebastian Kapijimpanga, Michael Kimmel, Pericles Michielin (SPI), Ryan Page, Jim Winquist, Paul Wood Animazione: Wade Hampton (CafeFX), Paul Newberry (CafeFX), Zach Parrish, Ray Pena (CafeFX), Roger Vizard (SPI), Christopher D. Williams, Ryan Yee (SPI), A. Ibrahim Basha, Ian Blum (CafeFX), Rahul Dabholkar, Claudio de Oliveira, Hope Omen Ferdowsi, Robert Fox, Michael Galbraith, Josh Gridley, Jordan Harris, Blake Kenneth Johnson, Ken Kaiser, Claus Pedersen, Sandra Ryan-Moran, Denis Samoilov, Pushparaj Sethu, Keith W. Smith, Liron Topaz, Chris Tost, Carolyn Vale, Jeff Kim, Mike Beaulieu (Sony Imageworks), Jacques Daigle, Derek Esparza Interpreti: Mia Wasikowska (Alice), Johnny Depp (Cappellaio Matto), Helena Bonham Carter (Regina Rossa), Anne Hathaway (Regina Bianca), Crispin Glover (Fante di cuori), Matt Lucas (Pinco Panco/Panco Pinco), Stephen Fry (Ghignagatto), Michael Sheen (Bianconiglio), Alan Rickman (Bruco), Barbara Windsor (Ghiro), Marton Csokas (Charles Kingsleigh), Tim Pigott-Smith (Lord Ascot), John Surman, Peter Mattinson (collaboratori), Lindsay Duncan (Helen Kingsleigh), Geraldine James (Lady Ascot), Leo Bill (Hamish), Frances de la Tour (zia Imogene), Jemma Powell (Margaret Kingsleigh), John Hopkins (Lowell), Eleanor Gecks (Faith Chattaway), Eleanor Tomlinson (Fiona Chattaway), Michael Gough (Dodo), Imelda Staunton (volto degli Alti Fiori), Mairi Ella Challen (Alice a sei anni), Holly Hawkins (donna con il grosso naso), Lucy Davenport (donna con grandi orecchie), Joel Swetow (uomo con la grande pancia), Ethan Cohn (uomo con il grande mento), Richard Alonzo (uomo con la grande fronte), Harry Taylor (capitano della nave), Jessica Oyelowo, Christopher Lee, Rebecca Crookshank, Timothy Spall, Paul Whitehouse Durata: 108’ Metri: 2960 ta di torta, la mangia, cresce e prende la chiave, beve di nuovo e può aprire la porta. Mentre fa queste azioni, sentiamo due voci: “Hai preso l’Alice sbagliata”; “È quella giusta”; sono voci che si ripeteranno alle varie azioni della ragazza; sono quelle dei due personaggi che erano stati inviati a cercarla. E lei ripeterà spesso che “questo è un sogno” e che certo si sveglierà. Alice entra in uno stupendo giardino e, a una tavola imbandita, trova il Cappellaio Matto che con altri personaggi le mostra un rotolo di pergamena dove è scritto che proprio lei deve liberare il paese dal dominio della Regina Rossa e del mostro volante Ciciarampa, che le assicura il potere e le permette di mandare in malora il regno. All’arrivo del Fante di Cuori, cava6 liere della Regina Rossa, tutti fuggono e lei ordina ai suoi di cercare la ragazza. Alice si è persa, ma compare lo Stregatto che la porta del Cappellaio, il quale riesce fortunosamente a farla arrivare dalla Regina Bianca, esiliata nella Rocca Tetra. Per uccidere il Ciciarampa ad Alice serve una spada magica, che riesce a recuperare, sempre aiutata dai personaggi buoni, dalla tana del ghiro; raggiunge, con la Regina Bianca, la sua reggia, Marmorea. Si prepara la battaglia tra i due eserciti e lo Stregatto dice ad Alice che “non si vive per accontentare gli altri” e che nella battaglia sarà sola; ma lei risponde che suo padre sapeva guardare lontano e lei gli somiglia. Così, più che la battaglia, si scatena il duello Film Tutti i film della stagione rocambolesco tra Alice e il mostro, che lei decapita. A questo punto, i soldati rossi si arrendono, la Regina Bianca torna sul trono ed esilia la Rossa. Gli amici chiedono ad Alice di restare, ma lei: “Che bella folle idea; ma non posso, ci sono cose che devo fare”. Esce da dove era entrata, ritrova la situazione di festa che aveva appena lasciato, dice al fidanzato: “Non sei l’uomo giusto per me; questa è la mia vita”. Dice una parola a tutti i familiari; e al suocero: “Con voi devo discutere di affari”. Vediamo così che entra in società con lui e apre nuove vie commerciali, con la Cina: eccola su un veliero in partenza per un viaggio in Oriente. na sequenza di spericolati movimenti di macchina su una specie di città, che è scura, ostile: il computer li elabora frenetico per buttarci direttamente in questo incubo di Alice, la quale ci appare subito dopo, a letto, agitata e consolata dal padre. Sembrerebbe che Burton abbia voluto firmare il film all’inizio: suoni e movimenti e colori sono nel suo gusto. Il regista non poteva mancare di scatenare la sua passione per la narrazione “gotica” in ognuno di questi tre elementi, di cui i primi a colpirci sono i colori esasperati, i quali elaborano quelli che il romanzo di Alice già suggerisce, per i costumi e gli ambienti. Burton ha sviluppato negli anni il suo particolare rapporto con il mondo del cartoon, impiegando la computerizzazione per esaltare, talvolta in modo parossistico, la trasformazione di esseri viventi e di oggetti, per creare movimenti impossibili e situazioni altrettanto impossibili, per esaltare il fantasy gotico e l’avventuroso in modo molto personale. Ma in queste scenografie esasperate, che intersecano luci e colori chiari con luci e colori scuri, quali vicende si realizzano? Vicende mai serene, spesso una guerra continua tra male e bene, con personaggi buoni e personaggi cattivi, mai realistici, neppure quando hanno entrambi sfumature di una qualche verità. Edward mani di forbice ha saputo darci una vicenda dove le diverse psicologie dei personaggi e i loro rapporti sociali erano offerti allo spettatore con una sceneggiatura e uno stile di ripresa perfetti, perché la storia suscitasse una riflessione critica senza danneggiare il racconto. Tra tutti gli altri film di Burton, pochi hanno avuto questo equilibrio, e pure sembrano cercarlo, come questo Alice . Dal sogno plurimetaforico della Alice di Carroll (il film si ispira a entrambi i romanzi su di lei), Burton ha voluto dare una modernizzazione, cercando di mantenere la “ favola “ sono passati 13 anni da quando la bambina ha avuto il sogno del mondo delle meraviglie, che U le ritornava ogni tanto e la realtà è pressante: Alice sta per entrare nella società concreta e non le piace, è infastidita dal fidanzamento e, non è un caso, che compaiano i personaggi del vecchio sogno proprio ora. Ma, anche nel mondo delle meraviglie, non riesce a credere che non sia un sogno, continua a stupirsi di tutto; la sua lontananza è ribadita anche dal fatto che “ ha perso la sua moltezza “, come dice il Cappellaio. Alla fine, tuttavia, rimpiange di non potersi fermare lì, da dove ricava la forza per dire chiaramente che i rapporti sociali non le vanno bene e per fare così l’attività del padre; abbiamo quindi una Alice “di oggi”, che sa fare l’imprenditrice e che segue le orme del padre come potrebbe fare un figlio maschio. Ma questa attualità si realizza in una scena che la suggerisce, non di più; non è neppure ben preparata nel corso del racconto, salvo qualche frase qua e là di Alice e di altri personaggi; la simbolicità che, nel suo che piccolo, ognuno degli abitanti nel mondo delle meraviglie ha si disperde lungo la storia; la “ trovata “ di una Alice che ama la sua adolescenza, ma ne è anche infastidita, una Alice che entra finalmente nel mondo sociale e che vuole essere diversa dai rapporti insulsi che i parenti tentano di crearle non riesce ad approfondirsi (e forse non sarebbe stato davvero possibile farlo), ma anche il mondo pur bellissimo della fantasia finisce per produrre semplicemente la guerra di un eroe che aiuta il gruppo dei buoni a sconfiggere e distruggere quello dei cattivi; che l’eroe sia una eroina e che nel duello finale non abbia quasi nessun aiuto ormai non è una grande novità. Certo, l’avventura funziona come sempre e senza dubbio il fatto di vederci venire incontro le farfalle di un giardino, o i fendenti delle spade in battaglia è un’accattivante novità per grandi e bambini. Danila Petacco LA BOCCA DEL LUPO Italia, 2009 Regia: Pietro Marcello Produzione: Francesca Cima, Nicola Giuliano, Dario Zonta per Indigo Film/L’Avventura Film B.V./La Fondazione San Marcellino Distribuzione: BIM Prima: (Roma 19-2-2010; Milano 19-2-2010) Soggetto e sceneggiatura: Pietro Marcello Direttore della fotografia: Pietro Marcello Montaggio: Sara Fgaier Musiche: Marco Messina, Massimiliano Sacchi per Era Direttore di produzione: Michela Bianchi Suono: Emanuele Vernillo, Riccardo Spagnol Ricerca repertori: Sara Fgaier Interpreti: Vincenzo Motta (Enzo), Mary Monaco (Mary) Durata: 76’ Metri: 2100 7 Film ilm documentario che narra la vita, l’amore e la miseria dei vinti al giorno d’oggi. Ambientato in una Genova affatto turistica, La bocca del lupo si sofferma in particolare sulla vicenda umana e sociale di Enzo, al secolo Vincenzo Motta, quattordici anni di galera alle spalle e un volto da cinema, di quello che non si fa più. Ad aspettarlo pazientemente negli anni, Mary, conosciuta in carcere nella sezione transessuali, con cui condivide un piccolo sogno: una casetta in campagna, un nido d’amore tranquillo. F ietro Marcello (classe 1976), premiato con questo documentario come Miglior Film al 27° Torino Film Festival, si conferma capace di uno sguardo unico e prezioso, come aveva già dimostrato nel precedente Il passaggio della linea, che si era aggiudicato il Premio Pasinetti Doc alla 64° edizione della Mostra del Cinema di Venezia (sezione Orizzonti). Ad attirare la sua attenzione, qui, sono la miseria e le piccole, spesso inarrivabili, ambizioni dei personaggi che vivono ai margini dei margini della società. Li vediamo raccogliersi intorno a un fuoco improvvisato tra le grotte a ridosso del mare, dormire all’aperto, svegliati da un’alba che arriva troppo presto, P Tutti i film della stagione muoversi invisibili e ignorati tra la gente indaffarata della città di Genova, mai così bella e disperata, protagonista quanto le persone in carne e ossa. Il passato e il presente si contendono l’ammirazione dello spettatore, attraverso i filmini, amatoriali e non, realizzati da genovesi di lunga generazione. Impagabile il lavoro di Sara Fgaier (montaggio e ricerca repertori), che con la collaborazione della Mediateca Regionale Ligure (La Spezia) ci regala attraverso immagini scelte la nostalgia di un tuffo spensierato, o di una partenza verso il nuovo mondo, di quel che poteva essere e non è stato, o non è più. Proprio come Enzo, che ha trascorso gran parte della sua vita in carcere, quando poteva essere un divo del cinema, di quei western che non si girano più, o, semplicemente, una persona come tutti gli altri. Casertano, Pietro Marcello si è mosso tra caruggi e crêuze con lo sguardo di un forestiero curioso, e quasi in punta di piedi ha raccontato, in soli 76 minuti, un mondo intero. Per lui la città ligure era esistita, finora, nei ricordi del padre marittimo che da lì si imbarcava, e raccontava al figlio di quella bella città del nord che guardava a sud. Da sempre attento alle realtà marginali – in passato è stato educatore in carcere –, Marcello qui racconta la cronaca di un senti- mento amoroso attraverso una narrazione non lineare, miscelando abilmente passato e presente. Il percorso di Enzo, e di Enzo e Mary, si compone di frammenti: ascoltiamo la loro corrispondenza amorosa registrata su audiocassette ai tempi della prigione prima ancora di vederli nella stessa immagine e scopriamo senza fretta le loro storie personali, fatte di scelte sbagliate e resistenza. Il film nasce da un’idea della Fondazione San Marcellino Onlus, gesuiti di Genova, che da anni assiste in diversi modi la comunità di senza tetto, emarginati, raminghi e indigenti della città ligure. Che uno dei due protagonisti sia un transessuale, ha avuto ben poca rilevanza. L’intento era di raccontare non tanto l’attività della Fondazione, quanto il mondo a cui questa si rivolge, le persone e la città. E il giovane regista ha senz’altro centrato il bersaglio. L’approdo finale, senza stacchi, è di lampante semplicità: Enzo e Mary, finalmente insieme sotto lo stesso tetto (che non è quello del carcere), si raccontano e si stuzzicano e si riesce quasi a toccar con mano il loro amore, mentre i loro tre piccoli cani, animati da un’incredibile vitalità, saltano loro in braccio, festanti. Manuela Pinetti DIECI INVERNI Italia/Russia, 2009 Line producer: Maria Sharabidze (Russia) Direttore di produzione: Nicola Rosada,Irene Abrescia, Marianna De Liso, Alessandro Del Vecchio Casting: Béatrice Kruger, Veronika Mancino Aiuti regista: Ciro Scognamiglio, Andrea Piazza Operatore: Roberto de Franceschi Trucco: Valentina Iannuccilli, Anna Gubareva Acconciature: Donatella Borghesi Suono: Guido Spizzico, Sergei Bubenko Interpreti: Isabella Ragonese (Camilla), Michele Riondino (Silvestro), Glen Blackhall (Simone), Sergei Zhigunov (Fjodor), Sergei Nikonenko (prof. Korsakov), Liuba Zaizeva (Liuba), Alice Torriani (Clara), Sara Lazzaro (Maria Antonietta), Francesco Brandi (Niccolò), Luca Avagliano (Ermanno), Francesca Cuttica (Elena), Roberto Nobile (padre di Camilla), Luis Molteni (dottore), Vinicio Capossela (se stesso) Durata: 99’ Metri: 2740 Regia: Valerio Mieli Produzione: Roberto Bessi, Elisabetta Bruscolini, Elio Cecchin, Lora Del monte, Domenico Maselli per Centro Sperimentale di Cinematografia Production/Rai Cinema/UFC-United Film Company Distribuzione: Bolero Films Prima: (Roma 11-12-2009; Milano 11-12-2009) Soggetto: dal romanzo omonimo di Valerio Mieli Sceneggiatura: Valerio Mieli, Davide Lantieri, Isabella Aquilar, Federica Pontremoli (Supervisione), Andrei Selivanov (Supervisione) Direttore della fotografia: Marco Onorato Montaggio: Luigi Mearelli Musiche: Francesco de Luca, Alessandro Forti Scenografia: Mauro Vanzati Costumi: Andrea Cavalletto Co-produttori: Uliana Kovaleva, Igor Porshnev, Rezo Sharabidze, Roberto Bessi l’inverno del 1999 quando Camilla lascia la sua città per andare a studiare Letteratura russa all’università di Venezia. In una fredda sera sulla laguna, mentre il battello la porta verso la sua nuova casa, Camilla scorge tra i passeggeri un ragazzo dallo sguar- È do un po’ sfacciato, ma sorridente. È Silvestro, un suo coetaneo che decide di seguirla per le calli di Venezia fino a chiederle di essere ospitato per quella notte. Dopo aver superato le prime ore di diffidenza, Camilla tenta un approccio, ma colpita dalla freddezza di Silvestro si al8 lontana. Camilla e Silvestro si ritrovano, quasi per caso, dopo un anno dal loro primo incontro. Colti dalla sorpresa, ma anche da una strana gelosia reciproca, i due ragazzi incominciano lentamente ad avvicinarsi. Ma Silvestro è fidanzato e, nonostante il legame nato tra loro, Camilla sce- Film glie di andare a studiare a Mosca. Tra i due ragazzi incomincia una fitta corrispondenza che li spinge ad aprirsi l’uno all’altro ogni giorno di più. Tornato single e dopo essersi trasferito nella casa lasciata vuota da Camilla, Silvestro decide di raggiungerla in Russia, ma qui scopre che lei è sentimentalmente legata al regista per il quale lavora. Deve passare un altro anno prima che si possano rincontrare. Finita la storia con il regista, infatti, Camilla torna in Italia e va a vivere nella vecchia casa con Silvestro. Il legame tra loro due si intensifica sempre di più, fino al giorno della laurea di Camilla, quando lei si allontana da Silvestro per incontrare per l’ultima volta il suo ex compagno venuto appositamente dalla Russia. Tornata a casa, Camilla scopre che Silvestro ha trascorso la notte con un’altra ragazza. Passano gli anni e Camilla, fidanzata con il migliore amico di Silvestro, aspetta un bambino. La scoperta sconvolge Silvestro al punto di spingerlo verso un ultimo disperato tentativo di dichiararle il proprio amore. Ormai sono passati dieci anni e, fallita la convivenza con il suo compagno, Camilla torna a casa del padre. Dopo averla ritrovata in uno stato di confusione e isolamento, Silvestro decide di allontanarsi da lei anco- Tutti i film della stagione ra una volta. Sarà solo in occasione dell’asta giudiziaria per la vendita della loro vecchia casetta sulla laguna, che i due ragazzi si ritroveranno, questa volta definitivamente. ieci inverni, opera prima del giovane regista Valerio Mieli, fa ben sperare nel futuro del cinema italiano. Co-prodotto da Italia e Russia e acclamato alla sezione Controcampo Italiano del Festival del Cinema di Venezia 2009 (edizione caratterizzata non solo da un red carpet da serata dei Telegatti, ma anche dal numero davvero irrisorio di riconoscimenti alle pellicole italiane), Dieci inverni ci fa sperare che il nostro cinema possa riscoprire la delicatezza delle inquadrature, delle luci, dei volti e degli sguardi, del senso delle parole dette, ma anche dei silenzi, delle atmosfere e di tutti quei dettagli ripresi dalla camera e riscritti sul grande schermo. Dieci inverni non è solo la storia di un amore tra due ragazzi (interpretati da Isabella Ragonese e Michele Riondino), ma è la storia del passaggio alla maturità, alla scoperta dei cambiamenti della vita. È la storia di due che, in fondo, non si perdono mai, ma che vanno avanti tra mille speranze, ma soprattutto con il dubbio e l’incertezza di com- D piere le scelte giuste e di essere adatti l’uno per l’altro. Valerio Mieli ha il merito di raccontare l’amore affidando alla macchina da presa il vero compito di parlare. Sono le inquadrature degli sguardi, dei volti, di Venezia coperta dalla nebbia o di Mosca nella morsa del freddo, del vapore che fuoriesce dalle bocche degli attori e dal dondolio del battello a raccontarci l’amore che nasce, che cambia e che matura fino a superare l’ostacolo delle paure e dell’incomunicabilità. Tuttavia, se da un lato il film ci fa riscoprire il piacere di un cinema puro (anche grazie ai due attori principali sui quali i personaggi sembrano cuciti su misura), dall’altro bisogna ammettere che risultano un po’ troppi i dieci anni in cui si svolge la storia e che forse sarebbe stato preferibile un arco temporale un po’ più breve. Questo avrebbe permesso, quasi sicuramente, di evitare quei vuoti narrativi che si avvertono in alcuni raccordi temporali tra un periodo e l’altro della storia. In alcuni momenti, lo spettatore è spinto a domandarsi, senza avere risposta, cosa è accaduto ai due personaggi nel periodo temporale che non viene raccontato. Marianna Dell’Aquila INVICTUS LINVINCIBILE (Invictus) Stati Uniti, 2009 Regia: Clint Eastwood Produzione: Clint Eastwood, Robert Lorenz, Lori McCreary, Mace Neufeld per Warner Bros. Pictures/Spyglass Entertainment/Revelations Entertainment/Mace Neufeld Productions/Malpaso Productions Distribuzione: Warner Bros. Pictures Prima: (Roma 26-2-2010; Milano 26-2-2010) Soggetto: tratto dal libro Ama il tuo nemico di John Carlin Sceneggiatura: Anthony Peckham Direttore della fotografia: Tom Stern Montaggio: Joel Cox, Gary Roach Musiche: Kyle Eastwood, Michael Stevens (II) Scenografia: James J. Murakami Costumi: Deborah Hopper Produttori esecutivi: Gary Barber, Roger Birnbaum, Morgan Freeman, Tim Moore Direttore di produzione: Tim Moore Casting: Fiona Weir Aiuti regista: Dale Butler, Bongani Dlamini, Peter Dress, Donald Murphy, Vuyo Oyiya, Michael Swan, Marcelleno Trout Operatori: Stephen S. Campanelli, Liz Radley, Michael Snyman Art directors: Tom Hannam, Jonathan Hely-Hutchinson Arredatore: Leon Van Der Merwe Trucco: Christine Beveridge, Natasha du Toit, Raine Edwards, Nancy Hancock, Samantha Katzen, Nadine Prigge Acconciature: Deena Adair, Benson David, Kay Georgiou, Simone Stubbs, Megan Tanner, Francesca Van Der Feyst Supervisore effetti speciali: Cordell McQueen Supervisori effetti visivi: Geoffrey Hancock, Michael Owens Coordinatori effetti visivi: Eva Abramycheva, Manovigianek Jehman, Kerry Joseph (CIS Hollywood), Riley McDougall, Curtis Tsai (CIS Vancouver) Supervisori effetti digitali: Randy Goux, Sean Lewkiw Supervisore costumi: Jayne Forbes, Nick Scarano Interpreti: Morgan Freeman (Nelson Mandela), Matt Damon (François Pienaar), Tony Kgoroge (Jason Tshabalala), Patrick Mofokeng (Linga Moonsamy), Matt Stern (Hendrick Booyens), Julian Lewis Jones (Etienne Feyder), Adjoa Andoh (Brenda Mazibuko), Marguerite Wheatley (Nerine), Leleti Khumalo (Mary), Patrick Lyster (Mr. Pienaar), Penny Downie (Mrs. Pienaar), Sibongile Nojila (Eunice), Bonnie Henna (Zindzi), Shakes Myeko (Ministro dello sport), Louis Minnaar (allenatore delle Antilopi), Danny Keogh (presidente del Rugby), Dan Robbertse (Boer), Robin Smith (Johan De Villiers), David Dukas (capitano dei 747), Grant Swanby (co-capitano dei 747), Josias Moleele (ritrattista), Langley Kirkwood, Robert Hobbs, Melusi Yeni, Vuyo Dabula (guardie presidenziali), Jodi Botha (ragazzo del liceo), Henie Bosman (coach del liceo), Refiloe Mpakanyane ( Jessie), Jakkie Groenewald ( poliziotto di Johannesburg) Durata: 133’ Metri: 3670 9 Film udafrica. L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, leader carismatico che si è battuto contro le leggi razziali, è stato liberato dopo 27 anni di carcere. I cittadini di colore inneggiano per strada davanti al campo di una squadra di rugby di soli bianchi che si sta allenando. Nel 1994 diventa Presidente del proprio paese grazie alle libere elezioni. Arrivato il primo giorno nell’ufficio presidenziale, riunisce tutto il personale e invita i dipendenti bianchi, che avevano già fatto le valigie pensando di essere rimossi, a restare. Poi, per la scorta presidenziale, assume altri bodyguard che si scontrano subito con quelli fedeli di colore. Intanto, tra le sue molte attività, va a vedere una partita della nazionale della squadra di rugby, gli Springbocks, bandita dagli anni ’80 da tutti i campi di gioco a causa dell’apartheid. I tifosi erano nella stragrande maggioranza bianchi e quelli di colore, ai quali veniva destinato un misero settore dello stadio, tifavano solitamente per quella avversaria. Nel match contro l’Inghilterra, Mandela entra nello stadio e va a salutare il pubblico, ma riceve numerosi fischi. La squadra, il cui capitano è François Pienaar, perde malamente, mentre il presidente, nel corso dell’incontro, parla con la sua assistente di investimenti nella politica estera. Per il 1995, il Sudafrica è stato scelto per ospitare i mondiali di rugby. Mandela avverte che questo evento rappresenta una grande occasione per portare avanti il processo di riconciliazione. Mentre ce la sta mettendo tutta per guidare al meglio il Paese e si sta appassionando sempre più a questo sport, la sua vita privata non procede altrettanto bene; una sera ci resta male dopo che la sua domestica gli dice S Tutti i film della stagione che la figlia ha disdetto l’appuntamento per il fine settimana. Alcuni movimenti di cittadini di colore hanno indetto intanto una riunione per cambiare colore ed emblema alla maglia della nazionale. Il Presidente però si presenta e dice a tutti i presenti che si oppone a questa soluzione. Poi, un giorno invita il capitano Pienaar a prendere il té da lui. La squadra intanto va in cerca di maggiore appoggio andando a visitare diversi quartieri e a giocare con i bambini. Mandela, invece, inizia a conoscere sempre meglio la nazionale e ha ormai imparato i nomi di tutti i giocatori riconoscendo i loro volti sul giornale. Il mondiale inizia bene. A Città del Capo, nella prima partita, il Sudafrica batte l’Australia. Poi Pienaard e la squadra vanno a visitare la prigione in cui è stato rinchiuso Mandela e il capitano resta colpito quando entra nella cella occupata da lui. Dopo aver passato il girone a punteggio pieno, sconfigge Samoa ai quarti di finale, la Francia in semifinale e arriva in finale con la temutissima e fortissima Nuova Zelanda. Tutto è pronto per il grande evento allo stadio di Johannesburg. Provoca un po’ di apprensione un jet che arriva radente poco prima del match. L’incontro è tiratissimo e, alla fine, termina 1512 per il Sudafrica. Il paese è in festa. Un bambino di colore che sentiva la partita vicino la radio di una macchina della polizia, alla fine festeggia con gli agenti. Il Presidente attraversa la città in festa. Una frase, tra tutte, rappresenta il suo motto: “Sono padrone del mio destino”. L a Storia, quella realmente accaduta, diventa epica in Invictus. Come se il film fosse tratto da un 10 grande romanzo di formazione, anzi, idealmente da un’immaginaria biografia di Mandela scritta negli anni dopo la sua liberazione nel 1990 e nel corso della sua presidenza, in cui racconta quello straordinario campionato mondiale di rugby. Il cinema di Eastwood trasforma, con una linearità impressionante, tutto quello che inquadra facendo vedere altro, oltre ciò che mostra. Nel corso degli anni è sempre più straordinaria la profondità del suo cinema evidente anche in un’opera come questa, estremamente classica nel racconto, all’interno della quale, però, emerge una dimensione ipnotica che in alcuni momenti oltrepassa la realtà e la trasforma in visione. La finale del Sudafrica con la Nuova Zelanda, caratterizzata anche da quel frammento della danza degli avversari prima della partita, che porta nelle zone di un’attraente ritualità inafferrabile, potrebbe essere una magnifica illusione/ossessione soggettiva di Mandela, portato sullo schermo da Morgan Freeman con una grandiosa aderenza emotiva più che fisica. Più che quello che è accaduto realmente, Eastwood in Invictus sembra mostrare quei mondiali di rugby come una specie di proiezione del desiderio del protagonista, che, proprio in quell’evento, può mettere in pratica il suo disegno politico/umano, incentrato sul perdono e la riconciliazione. Del resto, nel suo cinema, le forme del biopic vengono sempre alterate. Come nel caso di Mandela in questo film, anche la figura di Charlie Parker in Bird sembrava dargli soprattutto l’occasione per una personale riflessione sull’arte (come questo film lo è sulla politica e sulla Storia) e si trasformava in una specie di film notturno, in cui la musica si fondeva nella cupezza dell’oscurità. Ovviamente Invictus è un’esemplare pellicola sportiva e la sua tensione richiama i migliori esempi del genere del cinema degli ultimi 30 anni: da Momenti di gloria di Hudson a Fuga per la vittoria di Huston. Inoltre, colpisce il modo in cui sono filmate le partite di rugby, con piani ravvicinatissimi e la macchina da presa che sembra essere attaccata alle figure dei giocatori, evidenziandone in maniera esemplare la fisicità dello scontro come era avvenuto negli incontri di boxe di quel capolavoro che è Million Dollar Baby. Poi quest’opera rappresenta un altro sguardo sul Sudafrica dopo il didascalico, ma comunque appassionato, Grido di libertà di Attenborough (realizzato nel 1987 quando Mandela era ancora in carcere) e il vibrante ‘viaggio all’inferno’ di In My Country di Boorman, primo film su questo paese dopo l’apartheid. In Invictus c’è tutto Eastwood, che da Mystic River in poi, continua una Film sfida personale con se stesso, realizzando in sequenza grandissimi film senza nessun cedimento, anzi con un’energia che si rinnova ogni volta. Innanzitutto la figura di Mandela potrebbe essere quasi una specie di reincarnazione di Frankie Dunn di Million Dollar Baby e del reduce della guerra di Corea Kowalski di Gran Torino, ma anche di Christine Collins di Changeling, tutti personaggi divisi, separati dalla loro famiglia. Negli altri esempi, l’aspetto è più evidente, qui più nascosto. Basta vedere, però, l’espressione del leader dopo che la sua domestica gli dice che la figlia ha annullato la sua visita del fine settimana, o la sua reazione quando una guardia del corpo bianca gli chiede notizie sulla sua famiglia. Eastwood non calca mai la mano, anzi ha un pudore e un rispetto assoluti nel modo in cui si affaccia Tutti i film della stagione nella sfera privata di Mandela e comunque riesce a restituirne il dolore di una cicatrice mai rimarginata. Resta anche esemplare il modo con cui riesce a costruire la tensione con nulla. All’inizio del film, il protagonista sta camminando quando è ancora buio assieme a due bodyguard e sulla strada c’è un camioncino che sembra pedinarlo, come se gli volesse fare un attentato. In realtà si tratta del distributore dei giornali. Da questo punto di vista vanno ricordati anche la prima uscita di Mandela durante una partita, il jet che sorvola lo stadio e, a livello più umano, il malore che lo colpisce. Tutti dettagli mai estremizzati, ma che restano impressi in maniera indelebile. E poi bastano anche i lampi mélo emozionanti come il ragazzino che festeggia con i poliziotti al termine della partita con la Nuova Zelanda, o lo sguar- do tra Pienaar (ottimo Matt Damon, felice contrasto tra una fisicità esibita e una gestualità tutta in sottrazione) e la sua domestica, alla quale dà il biglietto per la finale, che hanno una potenza emotiva assoluta; come tutto l’ultimo cinema di Eastwood, legato a una classicità perduta di Hollywood, ma anche di sconvolgente modernità. Un cinema che sa convivere da sempre con gli spettri (la visita di Pienaar nella cella dove Mandela è stato rinchiuso per 27 anni è in questo senso esemplare) e che sta ridisegnando in maniera estremamente lucida la storia moderna mostrando gli effetti del passato sul presente in maniera davvero unica. Dove il cinema e il pensiero sono ormai una cosa sola. Unica e indivisibile. Simone Emiliani PIOVONO POLPETTE (Cloudy with a Chance of Meatballs) Stati Uniti, 2009 Regia: Phil Lord, Chris Miller Produzione: Pam Marsden per Sony Pictures Animation Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia Prima: (Roma 23-12-2009; Milano 23-12-2009) Soggetto: dal libro omonimo di Judi Barrett e Ron Barrett Sceneggiatura: Phil Lord, Chris Miller Musiche: Mark Mothersbaugh Scenografia: Justin Thompson Produttore esecutivo: Yair Landau Produttore esecutivo animazione: Andrea Miloro Co-produttori: Lydia Bottegoni, Chris Juen Direttore di produzione: Mary Ellen Bauder Direttore di produzione digitale: Julie Groll Casting: Mary Hidalgo Art director: Michael Kurinsky Effetti: Sony Pictures Iageworks Inc. Supervisore effetti visivi: Rob Bredow in da bambino, Flint Lockwood ha sempre avuto la passione per le invenzioni, dal prototipo di scarpe-spray al traduttore simultaneo per capire il linguaggio delle scimmie; guardato con sospetto dalla comunità e dal padre Tim. Quando l’economia della città, basata sulla lavorazione delle aringhe, entra in crisi e l’intera popolazione è costretta a smaltire tutte le scorte rimaste invendute dei magazzini, Flint cerca un modo per aiutare la sua gente inventando una macchina capace di trasformare l’acqua in cibo. Al momento di essere messo in funzione, il dispositivo finisce però per mandare in corto circuito l’interno sistema elettrico della cittadina e dalla potenza dello scoppio viene catapultato verso il cielo. Im- F Coordinatori effetti visivi: Kristy Lynn Fortier, Amy R. Gordon Supervisore effetti animazione: Carl Hooper Coordinatore animazione: Lia Abbate Supervisore effetti digitali: Daniel Kramer Voci originali: Bill Hader (Flint Lockwood), Anna Faris (Sam Sparks ), James Caan ( Tim Lockwood ), Andy Samberg (Baby Brent), Bruce Campbell (sindaco Shelbourne), Mr.T (Earl Devereaux), Bobb’e J. Thompson ( Cal Deveraux ), Benjamin Bratt (Manny), Neil Patrick Harris (Steve), Al Roker (Patrick Patrickson), Lauren Graham (Fran Lockwood), Will Forte (Joe Towine), Max Neuwirth (Flint da piccolo), Peter Siragusa (Rufus), Angela Shelton (Regina Devereaux), Neil Flynn (produttore del notiziario), Liz Cackowski (insegnante di Flint) Durata: 90’ Metri: 2470 provvisamente iniziano a piovere dal cielo hamburger, polpette e qualsiasi altra pietanza desiderata, che fanno subito la gioia degli abitanti di Swallow Falls e quella di Flint, il quale finalmente si sente apprezzato e amato dai suoi concittadini. Ben presto gli strani fenomeni atmosferici di Swallow Falls catalizzano l’attenzione dei media, mentre il sindaco vede nell’invenzione di Flint nuove prospettive di guadagno e gloria personali. L’ingordigia del sindaco e degli abitanti di Swallow Falls porta ben presto al surriscaldamento del macchinario di Flint che inizia a creare porzioni sempre più grandi e impossibili da smaltire e che ben presto rischiano di seppellire tutta Swallow Falls. Flint decide di bloccare la macchina prima che sia trop11 po tardi e insieme a Sam, giovane meteorologa giunta in città per studiare il fenomeno, e un gruppo di amici fidati si imbarca su una navicella da lui brevettata. Su nella stratosfera, l’invenzione di Flint si è trasformata in una gigantesca polpetta protetta da cibi mutanti e fenomeni atmosferici alimentari. Tutto sembra perduto quando Flint si lascia sfuggire dalle mani il dispositivo USB con sopra il codice di disattivazione della macchina, ma, mentre sulla terra la situazione peggiora di ora in ora con il rischio che una valanga travolta la cittadina, grazie a una sua invenzione di tanti anni prima (all’epoca miseramente fallita), Flint riesce a “imbrigliare” e distruggere la macchina. Tornato in città, Flint è ormai veramente l’eroe Film di tutti, guadagnandosi l’amore di Sam e, per la prima volta, anche il rispetto di suo padre Tim. entre aleggia ancora il ricordo di Up e delle sue meraviglie difficilmente raggiungibili dalla con correnza, arriva nelle sale durante il periodo natalizio il terzo film della divisione specializzata in animazione della Sony Pictures. Pur senza essere dei capolavori, i due film precedenti (Boog e Eliot a caccia di amici e Surf’s up) avevano lasciato intuire delle potenzialità non indifferenti, sia dal punto di vista tecnico sia da quello contenutistico. Piovono polpette rappresenta l’approdo degli esperimenti precedenti della Sony ed è sicuramente uno dei migliori film d’animazione apparsi quest’anno, indirizzato a un target ampio ed eterogeneo e, quindi, più complesso e difficile da accontentare. Piovono polpette si sforza di rappresentare senza cinismo, ma nemmeno autocompiacimento, la difficile realtà dei nostri giorni, nella quale la quantità conta più della qualità, in una società ormai sempre più dominata dal consumo folle e dall’accumulo inutile di risorse. Il bieco sindaco di Swallow Falls (gioco di parole di impos- M Tutti i film della stagione sibile traduzione che rimanda insieme all’ingozzarsi e all’essere sommersi) è la rappresentazione metaforica eppure immediatamente riconoscibile di questo atteggiamento, con la sua ingordigia che aumenta smodatamente di pari passi con l’aumento del suo peso corporeo fino all’obesità. L’invenzione del genio nerd Flint viene prima accolta come soluzione al problema reale della cittadina, ovvero il dover smaltire i quintali di sardine invendute a causa della crisi, per poi trasformarsi in un ennesimo prodotto di consumo nel quale il cibo perde la sua funzione originale di sostentamento e di veicolo di piacere per diventare solo avidità, sfizio, divertimento, portando gli abitanti di Swallow Falls a mangiare non più per fame ma per gola. Rimanendo nei limiti imposti da un genere tradizionalmente indirizzato a un pubblico infantile, Piovono polpette gioca abilmente con una morale più a misura di bambino / pre-adolescente, facendo di Flint un personaggio di immediata identificazione nel suo sentirsi diverso e fuori posto a causa dei propri interessi e, soprattutto, della propria intelligenza, che lo pone in contrasto sia con la famiglia che con la comunità; alla fine, sarà accettato da tutti proprio per questa sua intelligenza, per il suo essere nerd e quindi diverso. Ispirandosi all’omonimo libro illustrato di Judy e Ron Barrett, i registi sono riusciti nel creare un immaginario notevole e di grande effetto, affidandosi anche alla nascente tecnologia 3D, senza abusarne e farne il centro del film. Per chi è abituato a un tratto più realistico, o comunque meno deformante nella creazione grafica dei personaggi, il film risulterà difficilmente godibile, ma il tutto rientra coerentemente nell’ottica della Sony di distaccarsi ove possibile dalla Pixar per creare uno stile proprio e il più possibile riconoscibile. Ottima la scelta italiana di non ricorrere a doppiatori “improvvisati” e dal dubbio richiamo pubblicitario e di affidarsi a seri professionisti. In inglese le voci sono di Bill Hader, Anna Faris, James Caan, Benjamin Bratt, Bruce Campbell e Mister T., il mitico “Pessimo Elemento” del telefilm anni ’80 A-team. Il titolo originale significa letteralmente “nuvoloso con possibilità di polpette”, rifacendo il verso al linguaggio tipico degli annunci metereologici. Chiara Cecchini LONDA (Die Welle) Germania, 2008 Casting: Franziska Aigner-Kuhn, Uwe Bünker Aiuti regista: Hendrik Holler, Matthias Nerlich Art director: Petra Ringleb Arredatore: Tilman Lasch Trucco: Dörte Dogkowitz, Irina Tübbecke-Bechem, Renate Wetzel-Wagner, Mieke Willaert Supervisore effetti visivi: Abraham Schneider Supervisore musiche: Pia Hoffmann Suono: Hans Bramm Interpreti: Jürgen Vogel (Rainer Wenger), Frederick Lau (Tim), Max Riemelt (Marco), Jennifer Ulrich (Karo), Christiane Paul (Anke Wenger), Elyas M’Barek (Sinan), Cristina do Rego (Lisa), Jacob Matschenz (Dennis), Maximilian Vollmar (Bomber), Max Mauff (Jevin), Ferdinand Schmidt-Modrow (Ferdi), Tim Oliver Schultz (Jens), Amelie Kiefer (Mona), Odine Johne (Maja), Fabian Preger (Kaschi), Teresa Harder (madre di Karo) Durata: 101’ Metri: 2750 Regia: Dennis Gansel Produzione: Christian Becker, Peter Schiller per Rat Pack Filmproduktion GmbH/ Constantin Film Produktion/ B.A. Produktion/ Medienfonds GFP Distribuzione: BIM Prima: (Roma 27-2-2009; Milano 27-2-2009) Soggetto: tratto dal romanzo Il segno dell’onda di Morton Ruhe e dal film TV The Wave (1981) di Johnny Dawkins e Ron Birnbach Sceneggiatura: Peter Thorwarth, Dennis Gansel Direttore della fotografia: Torsten Breuer Montaggio: Ueli Christen Musiche: Heiko Maile Scenografia: Knut Loewe Costumi: Ivana Milos Co-produttori: Antonio Exacoustos, David Groenewold, Franz Kraus, Franz Kraus Direttore di produzione: Ulrike Fauth ermania, giorni nostri. In un liceo qualunque tutto è pronto – o quasi – per la settimana dei corsi speciali, durante i quali materie che normalmente non vengono insegnate trovano qualche giorno di notorietà. Per Marco andrà bene quel che sceglierà Karo, la sua G ragazza, mentre altri con sconforto scoprono chiuso l’accesso al corso che interessava di più. Rainer Wenger, insegnante di Storia – ma, cosa per noi italiani insolita, anche di educazione fisica – ha un’idea stramba che gli gira per la testa: un corso sull’anarchia. C’è poco da stupirsi, il prof 12 è un rockettaro che va a scuola con la maglietta dei Ramones e la giacca di pelle nera. La preside lo informa di essere arrivato un po’ tardi, e propone una diversa opzione: una settimana sull’autarchia, il regime di un solo uomo (o di un gruppo ristretto di persone) che usano un Paese a Film proprio piacimento. Proprio malgrado, Wenger accetta. Al primo incontro, molti dei ragazzi appaiono delusi: è il solito seminario sul nazismo, cose di cui hanno sentito parlare fino alla nausea. Alla domanda “Sarebbe possibile, oggi, in Germania, il ritorno di un fascismo?” gli studenti rispondono annoiati, ma anche arrabbiati: non hanno nulla a che fare con le colpe di chi li ha preceduti, loro, è ora di finirla. La discussione prosegue, a suon di definizioni, domande e risposte. Il professore – cui gli studenti si sono sempre rivolti soltanto per nome – esige adesso di essere chiamato “signore”, pretende che si alzi la mano per poter prendere parola, riporta in auge stilemi educativi ormai desueti: alzarsi in piedi per parlare e per salutare rispettosamente un’autorità, insegna a muoversi all’unisono con il resto della classe. “Al potere si arriva attraverso la disciplina e l’obbedienza”, spiega il professore. Kevin, giovane leader di un trio di amici, non ci sta, e va via con i suoi - un po’ recalcitranti in verità -, molti altri sono invece divertiti, affascinati dal nuovo gioco sociale. L’idea di una divisa semplice e uguale per tutti – jeans, camicia bianca e sneaker a buon mercato - viene accolta con altalenante entusiasmo. C’è chi offre al compagno in difficoltà il vestiario adatto che possiede in più, e chi, come l’”etnica” Mona, proprio non può accettare di perdere la propria identità personale e abbandona il corso. Ma c’è anche chi prende la cosa talmente sul serio da fare nel giardino di casa un falò del proprio abbigliamento firmato. Il giorno seguente, l’unica a indossare qualcosa di non omologato, una vivace maglietta rossa, è soltanto Karo. Durante la lezione viene ignorata da professore e compagni di classe. Abbattute le differenze sociali grazie all’uniforme, lo spirito del gruppo si rafforza, tanto che persino Tim e Lisa, generalmente introversi e poco partecipi alla vita di classe, sono un fiume in piena di proposte e interventi. Dopo essersi dati un nome – l’Onda – e un saluto (un gesto sinuoso di braccio e mano) che appartiene soltanto a loro, l’esperimento sociale inizia a uscire fuori dall’edificio scolastico: nottetempo i ragazzi piazzano il loro logo (la stilizzazione di un’onda, per l’appunto) un po’ in tutta la città e sotto varie forme (adesivi, graffiti); Tim, in particolare, dà prova di coraggio arrampicandosi tra gli altissimi ponteggi di un edificio in costruzione per lasciare un segno ben visibile a tutti i cittadini. Mentre il professor Wenger si scontra con la propria compagna proprio a causa del corso, l’indipendente Karo vede Tutti i film della stagione la storia con Marco giungere al capolinea, visto che lui è fomentato dal resto del gruppo a lasciar perdere chi non è come loro, secondo il principio del “chi non è con noi è contro di noi”. L’ex timida Lisa si dà molto da fare per conquistare il ragazzo, ovviamente supportata dagli altri. Durante una partita di pallanuoto, i ragazzi della squadra della scuola, tra i quali troviamo anche Marco e guidati dal solito Wenger, possono contare su una tifoseria strepitosa, tutta in jeans e camicia bianca d’ordinanza e la vittoria arriva facile; la povera Karo non riesce neanche ad accedere al palazzetto dello sport, per via di un integerrimo servizio d’ordine autogestito. È evidente che il movimento non finirà con la fine del corso scolastico: l’Onda si è trasformata in una piena potentissima, e neanche il professore e ideatore, acclamato e idolatrato dagli studenti come un leader – o come una rockstar – sembra possa fare qualcosa per arginarla. Ascolta con attenzione le loro confidenze personali, che raccontano disagi e assurdi comportamenti imputabili all’adesione – o meno – all’Onda e decide di raccogliere in classe, in un compito scritto, ciò che rappresenta per loro il movimento. Durante un’assemblea affollatissima, dopo aver letto alcune frasi degli elaborati, il professore è deciso a dichiarare la fine del movimento, ma a modo proprio: spinge all’estremo gli ideali dell’Onda e promette che non terminerà con la fine del corso, pronunciando frasi da vero dittatore; quando Marco prende parola contro di lui, accusandolo di manipolazione, la situazione precipita pericolosamente verso la rivolta; si arriva a sfiorare l’esecuzione 13 del dissidente davanti alla piccola comunità biancovestita, che però, poco a poco, si rende conto della gravità della situazione. Wenger parla chiaramente con i ragazzi, li invita a tornare a casa a riflettere su quanto è avvenuto. Tim, il più fomentato di tutti, senza dubbio il più disperato, estrae una pistola – ad aria compressa, ma comunque pericolosa – e ferisce un compagno. Poi minaccia il professore, ma comprendendo l’inutilità del gesto la infila in bocca e si suicida. Le autorità portano via Wenger in manette, mentre le ambulanze caricano il ragazzo ferito e il corpo esanime di Tim. La domanda posta all’inizio del corso sulla possibilità di un ritorno della dittatura nella Germana odierna ha prodotto un risultato sconcertante quanto imprevisto, soffocando – chissà quanto definitivamente – ulteriori strascichi dell’incredibile vicenda. ennis Gansel, già regista e sceneggiatore di NaPolA - I ragazzi del Reich, torna ad affrontare i temi a lui cari del totalitarismo e del nazismo e – soprattutto – a interrogarsi sulla possibilità del ritorno di un governo autocratico nel democraticissimo mondo di oggi. In L’Onda – un caso l’omonimia con il movimento studentesco italiano – trova una risposta, e non è né piacevole, né scontata. Punto di partenza – ma si può parlare di una sorta di filiazione – è il romanzo di Morton Ruhe Die Welle (L’Onda, per l’appunto), classico della letteratura per ragazzi e lettura obbligatoria in molte scuole tedesche, a sua volta ispirato a vicende realmente accadute negli Stati Uniti, in California. Nell’autunno del 1967 Ron Jo- D Film nes, docente di storia della Cubberley High School di Palo Alto, sperimenta nella sua classe una ferrea disciplina che limita enormemente le libertà degli studenti. Sorprendentemente, questi ultimi accolgono con entusiasmo la novità, che si protrae per ben cinque giorni – contro la sola giornata prevista – e si estende rapidamente all’intera scuola. Il movimento, denominato “La terza onda”, sarà causa anche di aggressioni fisiche verso i ragazzi che non vogliono partecipare e vedrà verificarsi episodi di fanatismo, tanto da costringere il professore a sospendere l’esperimento in tutta fretta. Quarant’anni dopo, Gansel torna a cercare di capire il fenomeno, traslando nella Germania, che tutti immaginiamo vaccinata ed esente dall’autarchia, il curioso esperimento e immaginando risultati sorprendenti quanto agghiaccianti. La preoccupazione – la tesi – del regista risiede nella comune opinione di ritenere impossibile una ricaduta nel baratro del totalitarismo, di dare per scontato la sanità di una nazione che ha pagato duramente per gli errori commessi, di essere assolutamente certi dell’illuminata maturità democratica raggiunta. E allora instilla dubbi, mostra quanto sia facile ammalarsi ancora oggi della “sindrome dell’uomo al balcone”, propone ai rampolli del Tutti i film della stagione duemila l’allettante nazionalismo “buono”, quello che annulla le differenze sociali, etniche, economiche e religiose, lo stesso che unisce tutti quando gioca la nazionale di calcio e nasconde, dietro tante belle parole, quello che umilia e perseguita i dissidenti. Fin da subito, ci si domanda quanto possa durare un simile giochino. Nel mentre, mai più studenti di serie b e nessun dubbio su cosa indossare per venire a scuola – grazie all’uniforme – e nemmeno brutti voti: copiare dal compagno più bravo è lecito, anzi va incoraggiato, perché fa progredire l’intera classe. La teoria è interessante, la pratica un po’ meno, ma ci cascano quasi tutti. O, meglio, i più deboli, quelli che non perseguono un obiettivo personale, o provengono da una famiglia più o meno disastrata, o si sono sempre nascosti nella massa con abiti griffati e comportamenti omologati. Azzerando i ruoli sociali, anche i timidi, gli emarginati e i bulletti possono ambire a prendere parola e proporre idee, provando l’ebbrezza di essere ascoltati e magari applauditi come dei leader in miniatura. Troppo facile? Fare massa è senz’altro una delle caratteristiche umane, talvolta è un istinto di sopravvivenza, ma seguire senza fiatare istruzioni che vengono dall’altro, e che magari vanno contro la propria coscienza e le proprie convinzioni, è tutt’ora inspiegabile. E mentre c’è chi azzarda parallelismi tra lo spirito di corpo, il nazismo – ma anche il fascismo – e i comportamenti – per esempio di taluni soldati americani nelle “prigioni per terroristi islamici” tipo Abu Ghraib, il film si risolve in tanto fumo e niente più. Tutto è tanto rapido, quasi automatico, oltremodo schematico, come un piatto teorema che si ha fretta di dimostrare. Sia chiaro, senza nulla togliere alle – si presume – nobili intenzioni dell’autore, la sensazione è che si sottolinei in modo eccessivo proprio la facilità con cui si può cadere nell’equivoco dittatoriale e di come gli ingenui adepti si stratifichino con rapidità fino a trasformarsi in corpo, forza e potere dell’uomo di turno al balcone. E, magari, esenti pure da colpe: il background di provenienza come giustificazione per una scelta sbagliata? Per fortuna, in fin dei conti, è soltanto un film, fra l’altro con tutti i meccanismi comportamentali bene in vista. Godibile senz’altro per le ottime interpretazioni delle ragazze e dei ragazzi – ma Gansel è un ottimo direttore d’orchestra, si sa – e, magari, buono come spunto per una chiacchierata. Ma nulla di più. Manuela Pinetti GENOVA (Genova) Gran Bretagna, 2008 Line producers: Phillip Koch, Melissa Parmenter Direttore di produzione: Josh Hyams Casting: Wendy Brazington Aiuti regista: Charlie Reed, Anthony Wilcox Operatori Steadicam: Barney Davis, Julian Morson Interpreti: Colin Firth (Joe), Catherine Keener (Barbara), Hope Davis (Marianne), Willa Holland (Kelly), Perla HaneyJardine ( Mary ), Margherita Romeo ( Rosa ), Alessandro Giuggioli (Lorenzo), Dante Ciari (Fabio), Gherardo Crucitti (Mauro), Monica Bennati (Elena), Kerry Shale (Stephen), Demetri Goritsas ( Steve), Trevor White (Michael), Gary Wilmes (Dan), Kyle Griffin (Scott), Gabriella Santinelli (moglie di Danny) Durata: 92’ Metri: 2520 Regia: Michael Winterbottom Produzione: Andrew Eaton, Michael Winterbottom per Revolution Films/Aramid Entertainment Fund/Film4/Moviola Film och Television AB Distribuzione: Officine UBU Prima: (Roma 16-10-2009; Milano 16-10-2009) Soggetto e sceneggiatura: Michael Winterbottom, Laurence Coriat Direttore della fotografia: Marcel Zyskind Montaggio: Paul Monaghan Musiche: Melissa Parmenter Scenografia: Mark Digby Costumi: Celia Yau Produttore esecutivo: Tessa Ross Co-produttore: Wendy Brazington n seguito a un tragico incidente stradale, in cui ha perso la vita la giovane e bella moglie Marianne e nel quale sono coinvolte anche le due figlie Kelly e Mary, il professore americano Joe (assente al momento della disgrazia) decide di trasferirsi in Italia. Da Chicago parte, in estate, alla volta di Genova, dove accetta un importante incarico e dove inol- I tre può contare sull’aiuto e sul conforto morale di Michelle, una sua ex fidanzata. Il lungo soggiorno nel capoluogo ligure diventa l’occasione per padre e figlie per intraprendere una nuova vita dopo il terribile lutto che li ha improvvisamente colpiti, lontano dai tristi ricordi che li legano a Marianne. Mentre Joe tiene corsi estivi all’università, le due ragazze scoprono la 14 bellezza della riviera di ponente grazie a delle piacevoli e spensierate gite al mare. Oppure trascorrono le loro giornate prendendo lezioni di piano a casa di Mario, che vive nella parte più antica di Genova, fatta di vicoli stretti. È tra queste stradine impervie, caratteristiche del centro storico, che la piccola Mary si perde, cercando di inseguire disperatamente il fantasma di Film sua madre, che le sembra di vedere di continuo in ogni angolo della città. La minore delle due figlie, più sensibile e ancora sconvolta dall’accaduto, prova un lacerante senso di colpa: è infatti convinta di essere la principale responsabile dell’incidente (nel quale è rimasta miracolosamente illesa assieme alla sorella) e non riesce quindi a sopportare la perdita. Invece la più grande Kelly (ha 16 anni e un carattere meno espansivo), tra piccole avventure sessuali e consumo di droghe leggere, si lascia andare alla scoperta di nuove emozioni ed esperienze, sperando forse di poter colmare l’enorme vuoto lasciato dalla scomparsa della madre. el panorama del cinema contemporaneo, per di più minato dalla crisi economica, la parola “versatilità” è un lusso che pochissimi registi possono permettersi. In questa speciale categoria, una specie di riserva indiana (vista la generalizzata tendenza a preferire prodotti di facile presa), è annoverabile senza ombra di dubbio Michael Winterbottom. N Tutti i film della stagione Sempre pronto a sorprendere il suo pubblico con pellicole dai toni e dai contenuti differenti (dall’impegno civile addirittura alla fantascienza), questa volta, l’inglese ripercorre le orme del dramma intimista. Dopo le brillanti prove di Go Now (1996) e With or Without you (1999), torna a misurarsi con le angosce ed i turbamenti che segnano le relazioni interpersonali dei nostri giorni. Sullo sfondo di una Genova formato cartolina, ripresa nei suoi scorci più vissuti e autentici (chiese, monumenti e, naturalmente, i carruggi), una famiglia spezzata si confronta con l’elaborazione del lutto. Un padre e le sue due figlie femmine, con il loro carico di sofferenza ancora vivo e tangibile, si lasciano letteralmente rapire da una città ostile ma, al contempo, complice. Sconosciuta, perché straniera e ancora tutta da esplorare, eppure così sinistramente familiare quando rievoca l’estinta figura materna. Tre solitudini cercano, ognuno a loro modo, di non smarrire la memoria di quella presenza-assenza che nel tempo si fa tormento, benché siano avvinte da tentazioni contrastanti. C’è chi prova a dare a tutti i costi una forma a quel ricordo insostenibile (Mary), chi invece esorcizza il dolore attraverso una lenta scoperta di sé e dei propri desideri di adolescente (Kelly). Peccato, però, che questa storia di espiazione non ispiri alcun coinvolgimento emotivo, rivelandosi piuttosto gelida nella forma e sterile nelle intenzioni. Con Genova, Winterbottom delude purtroppo le aspettative e dimostra che, negli ultimi anni, la sua prolificità creativa non sempre è sinonimo di qualità. Soprattutto quando non è sostenuta da una limpidezza di sguardo e da un’impalcatura narrativa solida e intrigante. Di questa 16esima regia dell’autore britannico, si ricorderanno senz’altro le inconsuete immagini in digitale di una città poco raccontata e rappresentata al cinema, oltre naturalmente alla prova d’attore di un Colin Firth che, sebbene stia attraversando una fase di rischiosa sovraesposizione, rimane sempre una spanna sopra gli altri. I titolo di coda sono accompagnati dai testi di Jovanotti. Diego Mondella NINE (Nine) Stati Uniti/Italia, 2009 Regia: Rob Marshall Produzione: John DeLuca, Rob Marshall, Marc Platt, Harvey Weinstein per The Weinstein Company/ Relativity Media/ Marc Platt Productions/ Lucamar Productions/ Cattleya Distribuzione: 01 Distribution Prima: (Roma 22-1-2010; Milano 22-1-2010) Soggetto: tratto dal musical omonimo (1982) di Arthur L. Kopit (libretto), e Maury Yeston (musiche) ispirato al film 8 e 1/2 di Federico Fellini (1963) Sceneggiatura: Michael Tolkin, Anthony Minghella Direttore della fotografia: Dion Beebe Montaggio: Claire Simpson, Wyatt Smith Musiche: Maury Yeston Scenografia: John Myhre Costumi: Colleen Atwood Produttori esecutivi: Kelly Carmichael, Michael Dreyer, Gina Gardini, Ryan Kavanaugh, Arthur Kopit, Tucker Tooley, Bob Weinstein, Maury Yeston Produttori associati: Jodi Hurwitz, Michael Zimmer Direttore di produzione: Tim Porter Casting: Kate Dowd, Francine Maisler, Razzauti Teresa Aiuti regista: Vicki Allen, Filippo Fassetta, Heidi Gower, Martin Harrison, Luca Padrini, Edoardo Petti, Chris Stoaling Operatori: Chas Bain, Damien Beebe, Russell Kennedy, Operatore steadicam: George Richmond Art directors: Peter Findley, Phil Harvey, Simon Lamont Arredatore: Gordon Sim Trucco: Nicola Buck , Tamsin Dorling, Ana Lozano, Paula Price, Nikita Rae, Maurizio Silvi Acconciature: Tamsin Dorling, Maria Federico, Paula Price, Luca Saccuman Supervisori effetti speciali: Peter Hutchinson, Stephen Hutchinson Coordinatore effetti speciali: Helen Badley Supervisori costumi: Cheryl Beasley Blackwell, Uliva Pizzetti Supervisori musiche: Paul Bogaev, Matthew Rush Sullivan Coreografie: John Deluca, Rob Marshall Canzoni/Musiche estratte: “Cinema Italiano” (eseguita da Kate Hudson) e “Take It All” (eseguita da Marion Cotillard) sono di Maury Yeston; “Quando quando quando” è di Tony Renis Interpreti: Daniel Day-Lewis (Guido Contini), Marion Cotillard (Luisa Contini), Penélope Cruz (Carla), Sophia Loren (madre di Guido), Nicole Kidman (Claudia), Judi Dench (Lilli), Kate Hudson (Stephanie), Stacy Ferguson (Saraghina), Ricky Tognazzi (Dante, il produttore), Giuseppe Cederna (Fausto), Elio Germano (Pierpaolo), Valerio Mastandrea (De Rossi), Remo Remotti (cardinale), Martina Stella (Donatella), Roberto Citran (dott. Rondi), Monica Scattini (direttrice della pensione) Andrea Di Stefano (Benito), Roberto Nobile (Jaconelli), Romina Carancini, Alessandro Denipotti, Alessandro Fiore, Erica Gohdes, Gianluca Frezzato, Paola Zaccari ( assistenti della produzione ), Roberta Mastromichele (Roberta), Francesco De Vito (radiocronista), Francesca Fanti (Dinardo), Enzo Cilenti (Leopardi), Enzo Squillino Jr., Michael Peluso, Jonathan Del Vecchio, Jake Canuso, Eliot Giuralarocca, Tommaso Colognese, Jennifer Iacono (cronisti), Giuseppe Spitaleri (Guido da piccolo), Vincent Riotta (Luigi) Durata: 120’ Metri: 3300 15 Film inecittà 1965. Il famoso regista Guido Contini sta per girare un nuovo film, ma è in piena crisi creativa. Assediato da giornalisti e fotografi, il regista cerca di schivare le domande sui contenuti della sua nuova opera mantenendo un alone di mistero. Svela soltanto che il film si chiamerà Italia e avrà come protagonista la sua attrice-musa Claudia Jensen, da lui diretta per la nona volta. Subito dopo la conferenza stampa, il regista si rifugia all’Hotel Bellavista Terme a Anzio, registrandosi sotto falso nome. Guido telefona alla moglie Luisa chiedendole di raggiungerlo, ma, a sorpresa, arriva nella cittadina la sua amante Carla. Il regista la fa alloggiare in una pensione per evitare che venga notata dai giornalisti. Ma Contini viene rintracciato dal suo produttore che ha convocato la troupe per farlo lavorare al film. Della troupe fa parte anche la sua costumista di fiducia, Lilli, che cerca di dargli dei suggerimenti. Ma Guido continua a sentirsi confuso, smarrito e si confida con un cardinale ospite dello stesso hotel: non è felice e sente di essere alla ricerca di qualcosa. Poco dopo, svegliatosi accanto a Carla, Guido è vittima di una crisi respiratoria. Quella sera il regista va a cena con i suoi collaboratori e durante la serata, a sorpresa, arriva la moglie Luisa, musa ispiratrice dei suoi primi film. Alla donna ora il duro compito di salvare il film, ma anche la vita del marito. Improvvisamente, alla cena, irrompe Carla e Luisa scappa via; Guido porta via Carla di corsa, seccato con la donna che non si sarebbe dovuta presentare a quella serata. Poi il regista va dalla moglie cercando di convincerla che con la sua amante è tutto finito. Quella notte, Guido prova a riavvicinasi alla moglie, ma viene interrotto da una telefonata che lo avvisa che Carla ha tentato il suicidio. Precipitatosi alla pensione, Guido trova Carla disperata che non vuole che lui la lasci. Mentre si allontana dalla pensione, Guido incrocia il marito di Carla. Tornato al suo hotel, il regista non trova Luisa, ma lo aspetta il suo produttore che gli dice che devono tornare a Roma: Claudia, la sua attrice, è arrivata e devono iniziare le riprese del film. Giunto a Cinecittà, Guido telefona alla moglie: vuole che lei sia al suo fianco in sala di proiezione per l’annuncio dell’inizio delle riprese, altrimenti lui non sarà in grado di cominciare. Intanto Claudia Jenssen cerca invano il copione che non esiste. Stufa, l’attrice lascia il set con Guido. Rimasto solo con Claudia, Guido le confessa il momento di crisi che sta passando, i dubbi che lo assalgono, le tante domande che non trovano risposta. Tornato a Cine- C Tutti i film della stagione città, Guido trova Luisa che gli dice per loro due ormai non c’è più speranza. Rimasto solo, Guido sfoga la sua disperazione riflettendo sui suoi comportamenti; poi prende coscienza che non può girare quel film. Ha perso il controllo, ha perso se stesso, ha distrutto ogni cosa che aveva e ora vaga sperduto senza una direzione. In sogno gli appare la madre che lo invita a trovare da solo la strada per salvarsi. A Cinecittà, mentre il set viene smontato, Guido annuncia alla troupe che non ci sarà nessun film. Due anni dopo, Guido è ad Anguillara vicino Roma e si confida con Lilli che gli dice che Luisa ha ricominciato a recitare. Guido confessa che gli manca molto la moglie. Lilli gli consiglia di tornare a Roma e girare un film: non deve smettere di essere bambino, quello è il suo dono e deve usarlo. Contini pensa che l’unico film che potrebbe fare sarebbe quello su un uomo che cerca di riconquistare sua moglie. Guido torna a Cinecittà. Dopo aver spiegato ai suoi due attori protagonisti la scena clou di una riconciliazione, confessa che oggi è come se ricominciasse da capo il suo lavoro. Cala il silenzio. Guido gira il suo nuovo film, Luisa è accanto a lui sul set. “Azione!”. n remake? Assolutamente no. Un omaggio? Non proprio, anche se il regista lo ha definito così. Un’ispirazione, più che altro. Così Nine sembra stare all’8 ½ felliniano. Conviene fare chiarezza subito. Il film è l’adattamento per il grande schermo dell’omonimo musical di Broadway, andato in scena per la prima volta nel 1982, scritto da Arthur L. Kopit con musica e parole di Maury Yeston, a sua volta omaggio al grande regista italiano, a cui però il maestro negò l’utilizzo del proprio nome e del titolo del suo capolavoro. “I miei film sono come la mia immaginazione” dice il regista Guido Contini protagonista di questo Nine, ma non è molto fervida quella di Bob Marshall, regista che aveva convinto con il musical Chicago, ma che, questa volta, compie un grande passo falso nel tentativo di portare sullo schermo la crisi creativa e umana di un regista di successo che somiglia molto poco a Federico Fellini se non fosse per quel cognome con cui fa tanto rima. Insomma nulla dell’autobiografia immaginaria e immaginifica, nulla di visivamente straordinario, nulla della vorticosa girandola di immagini, ricordi e sogni come nel capolavoro del regista riminese. E che dire dei temi chiave di quel grande film come l’arte, la morte, la memoria? Brevi accenni piazzati qua e là con sciatteria e superficialità. U 16 Veniamo alle intenzioni dichiarate del regista. Nine dovrebbe essere un omaggio all’immenso Fellini e al suo 8 ½ e comunque un atto d’amore all’Italia (“Un San Valentino all’Italia”). Ed è proprio qui che saltano agli occhi le perplessità più evidenti. Di omaggio a Fellini non si può proprio parlare: si semplifica troppo la figura di Guido Contini regista-protagonista in crisi creativa e umana che cita solo nel nome il Guido Anselmi che fu di Mastroianni in 8 ½, ma, soprattutto, si compie opera di deformazione del suo cinema, della sua poetica, dei suoi amori. La figura del grande regista è banalizzata attraverso una serie di luoghi comuni propri del “fellinismo”: le sue crisi, le sue fughe, le sue insofferenze per le conferenze stampa. Ecco qui Guido Contini, un regista inaffidabile e narciso, con la mente affastellata da domande che non trovano risposta, ‘italianamente’ dipendente da mammà, moglie e amante. Quanto all’atto d’amore nei confronti dell’Italia ci viene da ridere a vedere messi in scena, ancora una volta, una serie di piatti stereotipi del belpaese e dei suoi abitanti: la patria dell’amore per la vita, per il buon cibo, per il sesso, la danza, il canto, il paese della moda abitato da uomini ‘sciupafemmine’, vestiti elegantemente e che se ne vanno in giro su auto rombanti. Un esempio per tutti: il numero della giornalista di moda Kate Hudson (un personaggio assente nel musical originale) che, sfilando in passerella accanto a bellissimi ragazzi, intona il suo personale inno al “Cinema italiano”. Come se non bastasse, nel tentativo di dare un gusto ancora più italiano alla pasticciata salsa, si sono chiamati alcuni volti noti del cinema italiano per mortificarli con una serie di apparizionimacchiette. Eccoli, uno a uno, sfilare, Ricky Tognazzi (l’unico ad avere un ruolo un po’ più consistente degli altri), Martina Stella, Roberto Citran, Valerio Mastandrea. E va da sé che la tempesta di colori, suoni, costumi, canti, balli, ubriaca lo spettatore (e solo a tratti lo affascina) risultando come l’esatto contrario della poetica di un maestro inventore di un cinema inimitabile e sospeso in una bolla onirica che galleggia tra realtà e fantasia (“I miei film sono spesso basati sui miei sogni” amava ripetere). Anche la parata di belle donne non sembra ispirare un granché, eccezion fatta per Marion Cotillard, classe, sobrietà e talento concentrati in un fisico statuario e in un viso perfetto. Quanto a Daniel Day-Lewis, alter ego di Fellini-Mastroianni, bisogna ammettere che, nonostante le indubbie doti recitative, risulta risucchiato nel confusionario marasma, restando prigioniero dell’angoscia che immobilizza non solo il suo Film personaggio ma che finisce per pervadere tutto il film. Tra tanto rumore per nulla; si salva solo qualche numero musicale: la Penélope sexy in guèpiere che si dondola sull’altalena e si muove come una gattina (il suo ruolo fu nell’originale felliniano di Sandra Milo), la Marion elegantissima che canta “Take It All”, la ‘forte’ storia della sua vita e dei suoi amori (e pressoché perfetta e all’altezza del ruolo che fu di Anouk Aimée), Tutti i film della stagione la Stacy Ferguson che indossa i panni della Saraghina, la formosa prostituta che, improvvisando un balletto sulla spiaggia, incantava il giovane Felini in 8 ½. Peccato che la cantante (dalla voce senza dubbio bellissima) si limiti a ‘urlare’ il suo invito alla mascolinità con l’imperativo “Be italian!”. Su Judi Dench nei panni della costumistaconfidente, su Nicole Kidman, trasformata da lifting e silicone che tenta di ‘diveggiare’ nei panni di una star a metà tra Ani- ta Ekberg e Claudia Cardinale e su Sophia Loren nei panni di mammà che appare in sogno, preferiamo sorvolare. La morale è una sola: non tocchiamo i miti per carità, la loro insondabile complessità deve rimanere tale. E ricordiamoci che al cinema non funziona come a scuola ... e un otto e mezzo è meglio che non diventi mai un nove. Elena Bartoni TRA LE NUVOLE (Up in the Air) Stati Uniti, 2009 Trucco: Kimberly Jones, Jeff Lewis, Brad Look, Diane Maurno, Lisa Brockman-Kalz Acconciature: Natasha Allegro, Frances Mathias, Mary Rockwood-Crabtree Coordinatore effetti speciali: William Dawson Supervisori effetti visivi: Justin Jones, Edson Williams (Lola Visual Effects) Supervisori musiche: Rick Clark, Randall Poster Interpreti: George Clooney (Ryan Bingham), Vera Farmiga (Alex Goran), Anna Kendrick (Natalie Keener), Jason Bateman (Craig Gregory), Amy Morton (Kara Bingham), Melanie Lynskey (Julie Bingham), J.K. Simmons (Bob), Sam Elliott (Maynard Finch), Danny McBride (Jim Miller), Zach Galifianakis (Steve), Chris Lowell (Kevin), Steve Eastin (Samuels), Marvin Young (Se stesso), Lucas MacFadden (DJ della conferenza), Adrienne Lamping (Tammy), Meagan Flynn (assistente di volo), Dustin Miles (Ned), Tamara Tungate (hostess), Laura Ackermann (signora al checkin), Meghan Maguire (donna d’affari), Courtney Kling (inpiegato dell’aereoporto), Matt O’Toole (voce del marito di Alex), Alan David (inpiegato dell’Hilton), Erin McGrane (Dianne), Cari Mohr (commissario di bordo), Jerry Vogel (manager di San Francisco), Dave Engfer (tizio dei software), Paul Goetz (commesso dell’auto noleggio), Jeff Witzke, Adhir Kalyan Durata: 108’ Metri: 2960 Regia: Jason Reitman Produzione: Jeffrey Clifford, Daniel Dubiecki, Ivan Reitman, Jason Reitman per Paramount Pictures/ Cold Spring Pictures/ DW Studios/ The Montecito Picture Company/ Rickshaw Productions/ Right of Way Films Distribuzione: Universal Prima: (Roma 22-1-2010; Milano 22-1-2010) Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Walter Kirn Sceneggiatura: Sheldon Turner, Jason Reitman Direttore della fotografia: Eric Steelberg Montaggio: Dana E. Glauberman Musiche: Rolfe Kent Scenografia: Steve Saklad Costumi: Danny Glicker Produttori esecutivi: Michael Beugg, Ted Griffin, Joe Medjuck, Tom Pollock Produttori associati: Ali Bell, Jason Blumenfeld, Helen Estabrook Casting: Mindy Marin Aiuti regista: Sonia Bhalla, Jason Blumenfeld Operatori: Chris Benson, Matthew Moriarty, Mark Schwartzbard Operatore steadicam: Matthew Moriarty Art director: Andrew Max Cahn Arredatore: Linda Lee Sutton yan Bingham è un cinico uomo d’affari, definito un “tagliatore di teste aziendale”, uno che si guadagna da vivere licenziando la gente in giro per gli Stati Uniti, per conto di una società di intermediazione, usata da grandi aziende quando si rende necessario effettuare riduzioni del personale. L’uomo vive perennemente in viaggio (322 giorni l’anno), non ha una vita affettiva e vive tra aeroporti e asettici alberghi a cinque stelle, collezionando in modo quasi maniacale i punti “mille miglia” dell’American Airlines, sua compagnia aerea preferita. Il suo obiettivo è quello di entrare a far parte del prestigioso club dei dieci milioni di miglia, per ricevere la preziosa card di grafite. In R quei venti giorni all’anno che è costretto a rimanere a terra, trascorre le sue giornata in un tristissimo monolocale a Omaha. Di tanto in tanto, tiene delle conferenze per trasmettere agli altri la sua filosofia dell’esistenza: le relazioni umane e tutti gli oggetti che ne costituiscono il necessario contorno sono una peso inutile, un fardello che appesantisce lo zaino della vita e rende solo più faticoso l’andare. Meglio allora vivere liberi come l’aria, tra le nuvole. I bar dell’Hilton diventano il suo campo di conquista; qui infatti conosce Alex, una donna che pare la sua fotocopia al femminile, viaggiatrice incallita ed esuberante, con cui fa a gara a chi ha accumulato più miglia. 17 Ma qualcosa accade, tra un aereo e l’altro. Una giovanissima e rampante collega appena laureata, Natalie, convince il suo capo che viaggiare e licenziare la gente “di persona” comporta enormi costi aziendali per alberghi e biglietti aerei. Sarebbe senza ombra di dubbio più semplice e meno dispendioso farlo per videoconferenza. Questa ipotesi per Ryan costituirebbe una vera rivoluzione e le fondamenta stesse della sua vita ne sarebbero pericolosamente minacciate. Niente più viaggi in aereo, niente più alberghi; nell’orizzonte di Ryan si profilerebbe la terribile prospettiva di mettere radici. Così viene ingaggiato dal suo capo a lavorare insieme a Natalie per dimostrarle i vantaggi del Film “vecchio” metodo, per poterli poi applicare al nuovo. Nel frattempo, l’ideologia del viaggiare leggeri senza casa, senza affetti, senza relazioni se non occasionali, va in crisi per Ryan, perché gli sporadici incontri con Alex si stanno trasformando in qualcosa di serio. In occasione del matrimonio della sorella, l’uomo propone alla donna di accompagnarlo. Durante i preparativi delle nozze, Ryan ha la possibilità di conoscere meglio le sorelle, rese quasi estranee dalla distanza e dal suo stile di vita. Intanto, la giovane Natalie, con estrema freddezza e professionalità, inizia ad applicare le nuove tecniche di videoconferenza e, nonostante le iniziali difficoltà, tutto sembra procedere. È arrivato dunque il momento per Ryan di trovare una sistemazione definitiva in sede, ma l’uomo inizia a convincersi che per Alex sarebbe anche disposto a cambiare vita. Decide di farle una sorpresa e la va a trovare a Chicago, a casa sua. Ma contrariamente alla sue aspettative la trova sposata e con figli. Una donna licenziata da Natalie si suicida e la ragazza, disperata, si licenzia dall’azienda per prendere altre strade. Ryan così torna a volare. iberamente tratto dall’omonimo romanzo di Walter Kirn, Tra le nuvole (Up in the air il titolo originale) è una commedia agrodolce di Jason Reitman, che ci pilota su una rotta costante: l’aridità dei sentimenti. Dopo essere stato presentato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival, il film viene presentato in concorso al Festival Internazionale del Film L Tutti i film della stagione di Roma 2009 e vince il Golden Globe per la migliore sceneggiatura. Il regista di Thank you for smoking e Juno, esplora stavolta con meno cinismo, ma sempre con un sottile e sferzante ironia, un’altra figura professionale decisamente scomoda, capace di strappare sorrisi, ma, soprattutto, momenti di riflessione. Le scene che rimangono più impresse, in cui non si ride affatto, sono quelle dei licenziamenti. Per renderle il più veritiere possibile, Reitman e la sua troupe sono andati per il casting nelle città più colpite dalla crisi, “reclutando” veri neo-disoccupati. In questo modo hanno raccolto le testimonianze commoventi di chi veramente ha perduto il lavoro e ha potuto sfogare le proprie frustrazioni davanti alla telecamera. Quello di Ryan è un lavoro sporco; come può guardarsi allo specchio una volta tornato a casa? E il punto è proprio questo: lui una casa non ce l’ha, tutti i suoi averi entrano in un trolley leggero e maneggevole che non lascia spazio a niente di più pesante di uno spazzolino, qualche cravatta e due camicie. Ryan passa la maggior parte del suo tempo in business class, sospeso in aria ed è forse proprio questa distanza, tra cielo e terra, a consentirgli di non farsi carico di alcuna responsabilità. La sua specialità è spacciare degli ingiusti e crudeli “congedi” per delle imperdibili opportunità di riconquistare i propri sogni e rivoluzionare in positivo la propria vita. Ma lo fa con stile, con formule che attutiscono l’impatto con la realtà e costituiscono quello che nella sua filosofia da venditore egli definisce “limbo”, dove si accompagna la vittima pri- 18 ma di buttarlo nella voragine. Ogni personaggio compie un’evoluzione e un passaggio: la spietata collega si rivela essere una ragazzina impaurita e indebolita da una delusione d’amore e la relazione con la sensuale e seducente manager si risolve in un risvolto stucchevolmente romantico, che però non ha lieto fine. Molto coinvolgente la metafora dello zainetto che Ryan utilizza nelle sue conferenze, durante le quali paragona il carico del bagaglio con il carico umano e affettivo che ognuno di noi si porta dietro. E se all’inizio il suo stile di vita “leggero” viene sbandierato da lui con orgoglio, alla fine arriverà la consapevolezza che qualcosa gli manca, a partire dal legame con la sua famiglia, oltre ovviamente all’esistenza di un “co-pilota”, indispensabile nel viaggio di ognuno di noi. Emblematica, a tal proposito, risulta la sequenza in cui finalmente riesce a raggiungere il record di miglia percorse in aereo e a entrare nell’esclusivo club dei “dieci milioni”, composto da sette persone soltanto. Il momento tanto atteso è sopraggiunto, ma quando il pilota dell’aereo gli chiede cosa provi e da dove venga, Ryan non sa cosa rispondere e tristemente afferma“da qui”. Il film vuole anche far riflettere sulla natura dei rapporti interpersonali e sentimentali, in un’epoca in cui i mezzi a disposizione come chat, sms, sembrerebbero aver moltiplicato le occasioni di scambio e comunicazione tra le persone. Tanto che si può arrivare a interrompere una relazione tramite un sms, o a liquidare una persona tramite un videomessaggio. Il linguaggio diventa sempre più conciso, distaccato, evasivo e multimediale, privandoci di quell’umanità che solo lo scambio diretto con l’altro può darci. Il film funziona grazie alla bizzarra coppia composta da Vera Farmiga e Anna Kendrik, ma soprattutto alla disinvolta e apprezzabilissima interpretazione di un sempre capace George Clooney, che riesce a trasmettere perfettamente anche i risvolti drammatici del suo personaggio, attribuendogli un’eleganza malinconica e un glamour alla Cary Grant. La sceneggiatura (che nei temi ricorda in parte l’italiano Volevo solo dormirle addosso di Cappuccio), la buona regia di Reitman e un finale non smielato, rendono Tra le nuvole un prodotto da grande pubblico, ma anche una pellicola di qualità. Veronica Barteri Film Tutti i film della stagione NIKO. UNA RENNA PER AMICO (Niko - Lentäjän poika) Finlandia/Danimarca/Germania/Irlanda, 2008 Regia: Michael Hegner, Kari Juusonen Produzione: Jaana Hovinen, Petteri Pasanen, Kristel Tõldsepp, Hannu Tuomainen per Cinemaker Oy/ Anima Vitae/ A. Film/ Animaker/ Magma Films Ltd. (I)/ Ulysses/ The Weinstein Company; in coproduzione con Europool/ TV2 Danmark/ Universum Film (UFA e con la collaborazione di Yleisradio (YLE) e ZDF Tivi Distribuzione: Videa-CDE Prima: (Roma 30-10-2009; Milano 30-10-2009) Soggetto e sceneggiatura: Hannu Tuomainen, Marteinn Thorisson Montaggio: Per Risager Musiche: Stephen McKeon Scenografia: Antti Haikala Produttore esecutivo: Marc Gabizon iko è una giovane renna che sogna di volare, come le Forze Volanti, le 8 renne che trainano la slitta di Babbo Natale e di una delle quali ritiene di essere figlio. Lo scoiattolo Julius, suo amico e maestro, lo esorta a credere veramente in se stesso, mentre gli amici lo prendono in giro, perché, nonostante i reiterati tentativi, non riesce a spiccare il volo. Niko vive con la sua mandria nella tranquilla Valle Casa e sa che gli è proibito uscire da lì, per evitare che i famelici lupi scoprano l’esistenza del rifugio, mettendo a repentaglio la vita del gruppo. Nessuno intanto crede alla storia, rievocata da sua mamma Oona, di un eroico padre che vivrebbe colle Forze Volanti sul Monte di Babbo Natale. Per mostrarsi bello agli occhi della renna Willow, sua dolce coetanea, Niko trasgredisce le regole e, accompagnato da lei, va a esercitarsi per il volo alla Collina Palco. Lì vengono scoperti da due lupi smilzi e affamati. I due giovani fuggono; credendo di aver seminato i cacciatori, li conducono invece dritti dritti alla mandria, provocando il ferimento del capobranco. Le renne sono pertanto costrette a intraprendere la marcia per mettersi in salvo. In preda al rimorso e subissato dalle critiche di tutti, che lo reputano un irresponsabile, Niko decide di separarsi dal gruppo, partendo verso il Monte di Babbo Natale, alla ricerca del padre. Julius lo raggiunge per riportarlo indietro, Niko però è risoluto. Frattanto, anche i lupi si mettono in marcia verso il Monte, insieme a Essie, una barboncina viola che s’è smarrita dai suoi padroni e diventa la loro portafortuna. Il progetto è quello di papparsi Babbo Natale e le sue N Co-produttori: Emely Christians, Ralph Christians, Anders Mastrup Line producers: Viola Lütten, Lise Ann Mangino Direttori di produzione: Nick Dorra, Sini Lindberg, Viola Lütten Art director: Mikko Pitkänen Supervisore effetti visivi: Aki Rissanen Supervisore animazione: Henri Leik Voci: Olli Jantunen (Niko), Hannu-Pekka Björkman (Julius), Vuokko Hovatta (Wilma), Vesa Vierikko (Musta Susi), Jussi Lampi (Räyskä), Risto Kaskilahti (Rimppa / Uljas), Minttu Mustakallio (Essie), Juha Veijonen (Raavas), Puntti Valtonen (Hirvas), Elina Knihtilä (Oona) Durata: 80’ Metri: 2200 renne, per divenire i Lupi Volanti, con il loro capo, Lupo Nero, quale novello Babbo Natale, ovviamente con nuove regole: mangiare i bambini. Nell’alternarsi di albe rosa e tramonti, aurore boreali e tempeste di neve, mentre di tanto in tanto nel cielo sfrecciano le Forze Volanti, Niko e Julius proseguono la loro avanzata. A loro si unisce la donnola canterina Wilma, che li salva da un fatale inseguimento dei lupi, provocando una valanga. Nuovamente rincorsi, Niko precipita nel fiume di Sventura Certa, ma Julius e Wilma lo traggono in salvo. E, mentre il giovane dorme, ciascuno dei due racconta la storia della propria vita, e s’innamora un po’ dell’altro. Mentre anche Essie lega con il tenero lupo Specks. La vigilia di Natale, guidati da Wilma, i tre raggiungono il Monte. Julius però è triste, perché teme di perdere Niko, che per ora è la sua famiglia (dopo che i lupi ne hanno divorato zia, moglie e figlia). Superato l’ingresso al Monte, ghiacciato e pieno di insidie, i tre arrivano alla fabbrica di Babbo Natale e all’aeroporto delle Forze Volanti. Wilma e Julius mettono in guardia Niko, perchè suo padre potrebbe non essere un eroe, benché lui lo ritenga tale, quanto piuttosto uno come gli altri. Niko, sordo a questo ammonimento, si posiziona sulla pista d’atterraggio e fa sbandare le renne con la slitta. Quindi le avvisa del pericolo lupi, che avanzano nel labirinto, ma loro non gli credono. Poi racconta la sua storia, ma nessuno ammette di esserne il genitore. Sostenendo che la capacità di volo si trasmette di padre in figlio, le scanzonate renne lo mettono però alla prova. Niko fallisce nel volo e litiga con Ju- 19 lius, accusandolo di non aver mai creduto in lui. Frattanto arrivano i lupi. Le Forze Volanti, per la paura, perdono la fiducia in se stessi e non riescono più a volare. Alle renne codarde si contrappongono dei lupi un po’ maldestri. Niko, per fuggire da Lupo Nero, si arrampica sulla cima di un enorme albero di Natale, fino a caderne. Le renne, sobillate da Julius, che narra loro le fatiche di Niko, riprendono coraggio e, mentre piomba giù dall’albero, lo salvano con la slitta. A essa s’aggrappa però anche Lupo Nero. Julius allora si sacrifica al fine di proteggere il gruppo: sgancia il retro della slitta e precipita nel vuoto con il malvagio Lupo. Per salvarlo dalle sue fauci, Niko riesce finalmente a volare, mettendo poi in fuga i lupi. Avvenuto l’atteso riconoscimento col padre, appare quindi Babbo Natale, che promuove Niko tra le Forze Volanti. Ma, mentre sono in volo per la consegna dei regali, Julius li abbandona e si lancia verso casa. Le renne della mandria non credono a quanto racconta, fino a quando arriva Niko insieme a Wilma. E, poco dopo, le renne con Babbo Natale. Il giovane decide di rimanere col suo gruppo, asserendo: “Mio padre è sempre stato con me” (e indica Julius). Il vero padre, semmai, andrà a trovarlo dopo Natale… Col permesso della mamma – precisa quest’ultimo. Infine Niko, in volo, indica alle renne una radura dov’è cibo a volontà, poi s’immerge in una stella di nuvole. ellicola natalizia per bambini senza grandi pretese, ma davvero molto gradevole e piena di ritmo. E a tratti anche parecchio profonda. Un P Film giovane ardimentoso e maturo si contrappone a delle renne mattacchione e goderecce, da lui ammirate ogni volta che sfrecciano nel cielo. Ma quello è un ruolo, l’essenza è poi ben altra. Lo sintetizza alla perfezione Julius, quando, rivolto al ragazzo che vive nel loro mito, afferma: “Nessuno di questi sciocchi merita di essere tuo padre. Credi di volare e non avere paura”. L’intreccio è assai scorrevole e movimentato, con effetti sorprendenti, come la valanga di neve o le furiose cascate. Notevole anche l’utilizzo del correlativo oggettivo: è nella notte che Niko prende la deci- Tutti i film della stagione sione di partire, una notte al contempo esteriore e dell’anima. Nel rifugio della cosca dei lupi, poi, stalattiti di ghiaccio affilate fungono da parallelo alle loro fauci. La giovane renna Niko percorre un cammino di espiazione all’errore, che è pure un viaggio alle origini della propria storia, con la ricerca del padre. Che forse lo delude un po’. Bisogna tuttavia credere davvero in se stessi e nelle proprie aspirazioni, ma avere fiducia negli altri e confidare nel loro aiuto: quando Niko e Julius in fuga si ritrovano in un antro, innanzi a una parete senza scampo, è Wilma a sal- varli. Ciascuno a sua volta è poi chiamato a immolarsi per gli altri. Nessuno mostra reticenze, in verità. Ed è proprio l’affetto per l’amico che sblocca Niko e lo abilita al volo. Su tutto trionfa quindi la forza dell’amore: la sofisticata Essie rimane con il timido lupo Specks, l’esuberante Wilma con il ruvido Julius, e anche la giovane e bella renna Willow si riavvicina nel finale a Niko. I lupi sono sconfitti e le renne trovano una radura felice: la favola si conclude, ma può ripetersi in eterno. Luca Caruso CRAZY HEART (Crazy Heart) Stati Uniti, 2009 Acconciature: Mary Hedges Lampert, Jennifer Santiago, Geordie Sheffer Supervisore effetti speciali: Scott Hastings Supervisore musiche: Jeffrey Pollack Canzone estratta: “The Weary Kind” di T-Bone Burnett e Ryan Bingham Interpreti: Jeff Bridges (Bad Blake), Maggie Gyllenhaal (Jean Craddock), Robert Duvall (Wayne), Colin Farrell (Tommy Sweet), Ryan Bingham (Tony), Jack Nation (Buddy), Paul Herman (Jack Greene), Tom Bower (Bill Wilson), Beth Grant (Jo Ann), Rick Dial (Wesley Barnes), Debrianna Mansini (Ann), Ryil Adamson (Ralphie), Brian Gleason (Steven Reynolds), Richard W. Gallegos (Jesus/Juan), J. Michael Oliva (Bear), David Manzanares (Nick), James Keane (manager), Anna Felix (barista), Jerry Handy (cowboy), Chad Brummett (ragazzo), José Marquez (anziano ispanico), LeAnne Lynch (infermiera), William Marquez (dottore), Harry Zinn (barista), Josh Berry (guardia), William Sterchi (Pat), Annie Corley (Donna), Blake Williams (avventore bar), Steven Ray Byrd (addetto alla sicurezza di Tommy Swett), Chris Bentley Durata: 112’ Metri: 3070 Regia: Scott Cooper Produzione: T-Bone Burnett, Judy Cairo, Rob Carliner, Scott Cooper, Robert Duvall per Butcher’s Run Films/ Informant Media Distribuzione: 20th Century Fox Prima: (Roma 5-3-2010; Milano 5-3-2010) Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Thomas Cobb Sceneggiatura: Scott Cooper Direttore della fotografia: Barry Markowitz Montaggio: John Axelrad Musiche: Stephen Bruton, T-Bone Burnett Scenografia: Waldemar Kalinowski Costumi: Douglas Hall Produttori esecutivi: Eric Brenner, Jeff Bridges, Michael A. Simpson Line producer: Alton Walpole Direttore di produzione: Alton Walpole Casting: Mary Vernieu Aiuti regista: Sarah Lemon, Chemen Ochoa, Marcia Woske Operatore steadicam: Beau Chaput Art director: Ben Zeller Arredatore: Carla Curry Trucco: Tarra D. Day, Sheila Trujillo ad Blake è un cantante country che ha vissuto troppi anni ‘on the road’, ha alle spalle diversi matrimoni e un numero incalcolabile di bottiglie di whisky. A 57 anni vive ancora sulle strade d’America suonando i suoi vecchi successi in locali d’infimo ordine, per lo più bar o bowling. È spesso ubriaco e rabbioso verso il mondo e la sua fama è in discesa. Il suo manager gli chiede nuove canzoni che non arrivano mai, la migliore cosa che può sperare è aprire i concerti del suo ex allievo Tommy Sweet, che, a differenza del suo maestro, è diventato ricco e famoso. Un giorno, a Santa Fe, dove è atteso per un concerto, alla porta della sua camera d’albergo bussa la giovane giornalista Jean Craddock che gli chiede un’in- B tervista. Tra i due si instaura subito un clima di complicità. Dopo essersi visti di nuovo, i due finiscono a letto insieme. Blake va a fare visita a Jean e conosce suo figlio Buddy, di quattro anni. Pochi giorni dopo, Blake parte per Phoenix, dove, solo per soldi, ha accettato di aprire il concerto di Tommy Sweet. Durante un incontro con il suo ex allievo, i due ricordano come tra loro i rapporti si siano incrinati anche a causa della turbolenta vita privata di Blake. Ora Bad chiede a Tommy di fare un album insieme; ma il giovane non può fare pressioni sulla sua casa discografica e gli chiede di scrivere qualche canzone per lui. Dopo il concerto, Blake telefona a Jean: ha due giorni liberi e pensa di passare da lei a Santa Fe. Messosi in viaggio stordito dall’alcool, ha un incidente. In ospedale 20 un medico lo mette in guardia sul suo stato di salute: il suo alcolismo lo sta distruggendo, deve smettere di bere e di fumare e perdere peso. Blake trascorre sereno la convalescenza a casa di Jean e si affeziona a Buddy. Jean gli chiede di non bere davanti al bambino e l’uomo si impegna a mantenere uno stile di vita più sano. Un giorno, Blake confida a Jean che ha un figlio di ventotto anni che non vede da quando ne aveva quattro e si separò dalla madre. Il ragazzo non lo ha mai perdonato di essere stato un padre assente. Prima di partire per Houston, dove suonerà per quattro mesi, Blake dice a Jean di amarla e la invita ad andare a trovarlo. Jean è titubante, non vuole che suo figlio faccia le spese delle sue scelte sbagliate. A Houston, Blake rivede il suo vecchio amico Wayne Film Kramer, proprietario di un locale e telefona a suo figlio, dal quale apprende che la sua ex moglie è morta da due anni. Il giovane dice di non volerlo vedere e tronca la telefonata. Blake si confida con Wayne, gli racconta di aver spedito una bella canzone a Tommy Sweet e di essere stato costretto a cederla al suo collega per soldi, poi gli parla della telefonata avuta con suo figlio. Poco dopo, Jean gli comunica che avrà alcuni giorni liberi. La donna arriva a Houston con il figlio. Rimasto solo a badare a Buddy in un centro commerciale, Blake si ferma a bere in un bar e perde di vista il bambino. Per fortuna il piccolo viene ritrovato dopo poco ma Jean non può perdonare Blake e sé stessa per avergli affidato suo figlio. Jean riparte immediatamente con Buddy. Distrutto, l’uomo si impegna a smettere di bere: si iscrive agli alcolisti anonimi e si ricovera in una clinica per disintossicarsi. Uscito dalla clinica, ricomincia a comporre, poi va da Jean, le dice di aver smesso di bere e le confessa il suo vero nome, Blake non c’è più. Sedici mesi dopo. Ad un concerto a Santa Fe, Tommy Sweet esegue un bellissimo brano scritto da Blake. Dopo il concerto, Blake incontra Jean che ora è felicemente sposata e scrive per un giornale importante. Blake gli dà una busta con del denaro destinato ai 18 anni di Buddy. Jean è felice di vederlo di nuovo in forma. ra ora! Ci voleva un “cuore pazzo” come quello di Bad Blake, per fargli raggiungere l’ambita statuetta. È anche lui stropicciato, sfatto, ha gli occhi gonfi, puzza di alcool e sigarette, ma non è più il vecchio Drugo. Questa volta Bridges azzecca la giusta armonia musicale per stringere quell’ Oscar per cui è stato candidato già quattro volte. Dopo aver cantato e suonato al pianoforte seducenti cover pop accanto al fratello Beau e alla splendida Michelle Pfeiffer in I favolosi Baker, ora, a distanza di vent’anni, gli tocca in sorte la musica country. Una sorte non facile, un genere musicale particolare, dove non conta molto l’originalità dell’armonia (a dire il vero abbastanza monotona), ma, piuttosto, le parole e l’interpretazione. Ed è proprio qui che Jeff ha saputo eccellere. Con facile gioco di parole si potrebbe dire che il suo Bad è ‘cattivo’ fin nel nome e, per di più, ‘nero’. Blake è un’anima ‘black’, nera in molti sensi. È un’anima persa, vaga negli abissi di un cuore infranto, fatto a pezzi e disilluso, il suo volto stanco è stato preso a pugni dalla vita, i suoi occhi sono resi ancor più gonfi dal troppo E Tutti i film della stagione alcool e dal troppo fumo. Come ‘l’ariete’ dal volto tumefatto di Mickey Rourke, wrestler distrutto dalle troppe sconfitte esistenziali (lo scorso anno la sua ruvida prova di attore e di uomo fu insignita del Golden Globe e della nomination all’Oscar), quello di Bridges è una specie di cowboy che è andato a dormire troppo tardi per molti anni, triste cantore dei suoi stessi dolori, colpi inferti agli altri e a sé stesso. La cornice è quella dell’America polverosa di motel e stazioni di servizio in mezzo al nulla di tanto cinema a stelle e strisce (quello che ha dato vita a un vero filone definito da alcuni del “post – Easy Rider”). Impossibile non farsi venire alla mente le atmosfere ‘on the road’ di certo cinema di Ashby o Altman. Proprio impossibile. E tra bar, dove alla sera si fa musica o bowling scalcinati e anonimi centri commerciali di oggi (dove un bambino si può facilmente smarrire) scorre l’esistenza misera di un uomo in cerca prima di tutto di se stesso. Lo accompagnano nel viaggio tante caratterizzazioni, forse un po’ troppo scontate, dell’America di provincia, ma nobilitate da un’ottima squadra di attori. Due sopra tutti. Una bella ragazza vera e virtuosa come Maggie Gyllenhaal (anche il suo personaggio con un carico di scelte sbagliate alle spalle), una della realtà più piacevoli del giovane cinema americano capace di convincere sia nei panni della Secretary sexysadomaso sia in quelli della compagna del duro Cavaliere oscuro Batman nell’omonimo blockbuster e la presenza carismatica di Robert Duvall, autentico rappresentante dell’America ‘on the road’ (qui anche produttore, completamente a suo agio nel ruolo di spalla di un personaggio che richiama molto da vicino il suo cantante country di Tender Mercies – Un tenero rin- 21 graziamento ruolo che valse anche a lui l’Oscar). E poi ciliegina sul dolce, il bel Colin Farrell che appare e incanta cantando, senza nome accreditato nei titoli, arricchendo il quadro di una presenza sempre magnetica. Ispirato al romanzo di Thomas Cobb, il film è diretto dall’esordiente Scott Cooper e impreziosito dall’ottimo apporto musicale del famoso compositore T-Bone Burnett (autore fra l’altro delle musiche di Fratello dove sei? dei Coen) e dal chitarrista e compositore Stephen Bruton (morto prematuramente alla fine della produzione del film). Su tutti i brani, svetta “The Weary Kind” scritto da Burnett con la star del country Ryan Bingham (Oscar migliore canzone). Ma, al di là dei suoi interpreti, il film procede con qualche lungaggine di troppo, verso un risultato che sa di già visto. Le pecche maggiori sono in quella serie di stereotipi che un racconto del genere non poteva non inanellare: la giovane donna che ha fatto troppi errori con un figlioletto che ha la stessa età di quello abbandonato dal protagonista padre-e-marito fallito, l’ex allievo che è diventato una star, ma che sa tendere una mano al momento del bisogno, il vecchio amico saggio che è sempre una buona spalla su cui riversare sensi di colpa e volontà di redenzione. Non c’è una deriva distruttiva senza ritorno anche grazie a loro. E il modello già visto tante volte al cinema, ahinoi, si ripete, anche se opportunamente si evita lo zuccheroso finale. Ma meno male che c’è il nostro Jeff. La sua personale parabola? Un viaggio di andata e ritorno nella provincia americana di un attore mai troppo divo (per fortuna ce ne sono ancora). E un percorso circolare sembra chiudersi. Un viaggio iniziato con quell’Ultimo spettacolo del 1971 di Film Peter Bogdanovich (stesso clima e stessa ambientazione provinciale e prima nomination all’Oscar per Bridges), proseguito tanti anni dopo insieme ai Coen con una variante, ricca di inimitabile humour, dello stesso ‘tipo umano’ in un bowling (appun- Tutti i film della stagione to) di provincia e concluso qui, in giro per l’America a bordo di uno scassato pick-up a cantare in locali dimenticati da Dio, con un cappello da cowboy calcato a coprire le troppe rughe e una vita bruciata da troppo alcool, fumo e donne. Un bel viaggetto tutto sommato. Stereotipi o no, il vero e unico vincitore è lui e lo sarebbe stato anche senza statuetta tra le mani. Elena Bartoni AN EDUCATION (An Education) Gran Bretagna, 2009 Casting: Lucy Bevan Aiuti regista: Paul Cathie, Joe Geary, Tom Mulberge, Tom White Art director: Ben Smith Arredatore: Anna Lynch-Robinson Supervisore effetti speciali: David Payne Coordinatore effetti visivi: Edward Randolph (Baseblack) Supervisore costumi: Amanda Keable Supervisore musiche: Kle Savidge Interpreti: Carey Mulligan (Jenny), Peter Sarsgaard (David), Alfred Molina (Jack), Cara Seymour (Marjorie), Matthew Beard (Graham), Dominic Cooper (Danny), Rosamund Pike (Helen), Emma Thompson (preside), Olivia Williams (signorina Stubbs), Amanda Fairbank-Hynes (Hattie), Ellie Kendrick (Tina), Sally Hawkins (Sarah), Kate Duchene (insegnante latino) Durata: 100’ Metri: 2750 Regia: Lone Scherfig Produzione: Finola Dwyer, Caroline Levy, Amanda Posey per BBC Films/ Wildgaze Films/ Finola Dwyer Productions/ Endgame Entertainment Distribuzione: Sony Pictures Releasing Italia Prima: (Roma 5-2-2010; Milano 5-2-2010) Soggetto: tratto dalle memorie della giornalista Lynn Barner Sceneggiatura: Nick Hornby Direttore della fotografia: John de Borman Montaggio: Barney Pilling Musiche: Paul Englishby Scenografia: Andrew McAlpine Costumi: Odile Dicks-Mireaux Produttori esecutivi: Douglas Hansen, Nick Hornby, Wendy Japhet, Jamie Laurenson, James D. Stern, David M. Thompson Direttore di produzione: Ciara McGowan wickenham, Londra 1961. Jenny Miller ha 16 anni, è una studentessa graziosa, intelligente, frequenta il college e si prepara per l’ammissione a Oxford, dove intende studiare lettere. Un pomeriggio, dopo la lezione di violoncello, la ragazza attende il bus alla fermata, mentre diluvia. Accosta una Bristol spider bordò e un simpatico trentenne le offre un passaggio. Si chiama David, è ebreo, oltremodo garbato e affascinante. Il giorno dopo, l’uomo le fa recapitare a casa una cesta di fiori, poi i due si incontrano per strada e lui la invita a un concerto di musica classica e a cena. David si presenta a casa di Jenny, conosce i suoi genitori, Jack e Marjorie, e fa breccia nel loro cuore, perché è arguto, simpatico e sa lusingare tutti. Così introduce Jenny ai suoi amici: Helen, bella e superficiale e Danny. La ragazza è vispa e appare curiosa di conoscere tutte le cose del mondo, mentre sogna la vita di Parigi. David e company sono felici di portarla con loro a un’asta d’arte e poi per un weekend a Oxford. La notte, Jenny e David dormono insieme, ma sono molto pudichi: lei vuole attendere i 17 anni. Il giorno dopo, invece, è costretta a fuggire dalla cittadina insieme alla comitiva in maniera sbrigativa e quasi brutale. Jenny ci resta male e sta per abbandonare i suoi nuovi amici, ma poi David la adula: lei è intelligente, porta cultura. Il mestiere di David è quello di accompagna- T re famiglie di neri nei palazzi londinesi, facendo così sloggiare le impaurite vecchiette che vi risiedono. Ora lui le prospetta due modelli di vita: se rimane a casa, le canzoni francesi alla radio, le traduzioni di latino... Se invece va con lui: ristoranti, viaggi, concerti, film... “Questo è quello che siamo, Jenny”, così si divertono. Jenny riflette che la sua vita, prima, era noiosa, lei non aveva fatto nulla. Con David invece è molto avvincente. Anche suo padre Jack osserva che non ci si annoia mai con David, che lei è fortunata a conoscerlo, a differenza di Graham, ragazzo imbranato che le fa la corte in maniera maldestra. Poiché al college si diffondono le voci sulle frequentazioni di Jenny, la preside la convoca, ammonendola che rischia di perdere l’opportunità di sostenere gli esami finali. S’avvicina intanto il compleanno di Jenny, 17 anni. David la riempie di regali e la invita a Parigi, città della quale lei adora la cultura, i libri, i film, la musica. Jenny è radiosa, incantata, sulle note di Juliette Greco. E a Parigi decide di perdere la verginità. Al rientro a scuola, ha un duro scontro con miss Stubbs, l’insegnante di lettere, che la vede cambiata, non più interessata allo studio, all’impegno, ma ai nuovi valori inculcateli da David. D’altronde – ribatte Jenny – a che serve studiare, se poi si finisce a correggere temi sgrammaticati in un liceo di periferia? David la porta alle corse dei cani, poi in un club a ballare. Quindi le chiede: “Mi vuoi sposare?”. Jenny è in 22 crisi: a cosa è servito studiare così tanto? La rassicura il padre Jack, notando che David non le avrebbe chiesto di sposarlo se fosse stata ignorante. Felice della proposta, a Jack non interessa che la figlia abbandoni gli studi cui finora si è dedicata strenuamente, purché si sistemi. Jenny cambia allora prospettiva: studiare comporta noia e fatica, David le offre invece bei film, musica, viaggi, divertimento... Una sera stanno andando a cena tutti e quattro, David, Jenny e i suoi genitori, ma la ragazza scopre in auto lettere intestate al Signor e alla Signora Goldman: David è sposato. Lei ha lasciato la scuola per lui, cosa farà adesso? David sostiene che chiederà il divorzio. Ma poi, mentre Jenny attende che lui entri in casa per comunicare ai suoi genitori la verità, l’uomo fugge via. Jenny si reca a casa di Helen e Danny, poi in quella di David, dalla quale esce la moglie, incinta e con un bambino per mano. Vedendo Jenny, la donna capisce, se ne rammarica, il marito fa con tutte così. Jenny se la prende coi suoi. Poi piange, ma ha la forza di tornare dalla preside: per la vita che vuole non esistono scorciatoie. Quindi va a casa di miss Stubbs, per chiedere aiuto. Arriva infine la lettera da Oxford: Jenny è stata accettata all’università. Il film si conclude così con l’inizio dell’impegnativo studio sui libri. Mentre Jenny racconta fuoricampo che un ragazzo che ha conosciuto Film Tutti i film della stagione a Oxford (un ragazzo vero, questa volta!) la invita a Parigi e lei accetta entusiasta, desiderosa di visitare la capitale francese, come se non vi fosse mai stata. ella vita non esistono scorciatoie e, per chi può, l’istruzione (An education) risulta fondamentale, per quanto costi fatica, o forse proprio per questo. Ma la formazione salva, oltre che dalle apparenze di una vita frivola, anche dalle ingenuità che si possono commettere, quando ci si lascia abbagliare dalle lusinghe di un individuo scaltro e del bel mondo che prospetta. Jenny lo apprende a sue spese. Nel film sono infatti posti a confronto due opposti modelli di vita: quello borghese, mediamente conservatore, che conosce l’importanza del sacrificio e il valore del denaro e del risparmio; quello invece sbruffone, impenitente, animato da un’impertinente volontà di potenza e di affermazione e che, mediante il denaro, può concedersi tutti i lussi che desidera, fin quasi a comprare anche gli affetti. Jenny è sedotta, è tradita, ma fa in tempo ad arrestare la corsa e a riprendere con coraggio e umiltà la propria direzione, prediligendo il faticoso studio accademico alla vagheggiata ‘università della vita’, alla quale sostiene di essersi formato il brillante David in una delle prime scene, quando i due si conoscono. L’uomo è riuscito a mettere in crisi la vita fino a quel momento tranquilla e contegnosa di una ragazza piccolo borghese. Jenny si trasforma, è meno timida, più curiosa, viziosetta. Anche il suo aspetto muta: appare infatti acconciata come una novella Audrey Hepburn. Alla domanda sul suo passato, ‘A cosa è servito lo studio?’, subentra in Jenny quella sul proprio futuro, in un’inversione di pensiero, ‘A cosa servirà studiare ancora?’. Tanto c’è David che assicura il benessere e i divertimenti di una vita sempre al top. Anche i genitori di lei sono abbagliati dall’uomo, ritenendolo ben introdotto nell’alta società, ove coltiva buone conoscenze, che erano in fondo la loro massima aspirazione da borghesi; poi è un tipo divertente, estroverso, amabile. Un’eccessiva ostentazione di doti che rasentano la perfezione, ma servono piuttosto a celare un retroscena non limpido: David non è un uomo libero e, dalla battuta della moglie alla vista di Jenny, si apprende che è avvezzo a frequentare le ragazzine. Jenny, in sostanza, non è la prima né l’unica. David affascina Jenny prospettandole l’offerta a profusione di quanto lei, fino a quel momento, in una vita di tranquillità – che a posteriori giudica ingiustamente di noia – aveva potuto solo desiderare: Oxford, Parigi, film, concerti, balli, divertimenti, la N libertà. Ma i traguardi occorre conquistarli, non piovono gratuitamente dal cielo, a meno che non vi si celi dietro l’inganno. La sceneggiatura, firmata dallo scrittore Nick Hornby, si basa sulle memorie autobiografiche della giornalista Lynn Barber, comparse in un articolo sulla rivista letteraria inglese Granta. Tipica atmosfera anglosassone, piovosa, grigia, di un sobborgo inglese agli albori degli anni ’60, le cui ambientazioni e gli interni sono ricreati fedelmente. Anche la musica contribuisce a rendere vivido il clima dell’epoca, esaltando la bravura sia individuale che corale degli interpreti. Un affresco che ritrae con delicatezza il cruciale passaggio dall’adolescenza alla maturità, l’educazione sessuale, i sogni, le ambizioni, le scelte, le delusioni di una ragazza semplice e volitiva, le fatiche per non tradire se stessa, la solitudine delle decisioni importanti, i disaccordi e le contrastanti visioni del mondo, il miraggio della serenità di una meta che si traduce in inganno, gli abbandoni e le difficili riconquiste; insomma: tutta la fatica del vivere. Luca Caruso LA CASA SULLE NUVOLE Italia, 2009 Regia: Claudio Giovannesi Produzione: Andrea Costantini, Giorgio Magliulo, Hamid Basket per Centro Sperimentale di Cinematografia/Isatituto Luce/Rai Cinema/Shooting Stars Distribuzione: Istituto Luce Prima: (Roma 8-5-2009; Milano 8-5-2009) Soggetto e sceneggiatura: Claudio Giovannesi, Francesco Apice, Matteo Berdini, Filippo Gravino Direttore della fotografia: Tommaso Borgstrom Montaggio: Giuseppe Trepiccione Musiche: Claudio Giovannesi, Enrico Melozzi Scenografia: Alessandro Vannucci Costumi: Giovanni Addante Direttori di produzione: Gianluca Chiaretti, Nicoletta Maggi Aiuti regista: Luca Dal Canto, Federico Marsicano Operatore steadicam: Matteo Carlesimo Suono: Valentino Giannì Interpreti: Adriano Giannini (Michele Raggi), Paolo Sassanelli (Franco Vitale), Emilio Bonucci (Dario Raggi), Emanuele Bosi (Lorenzo Raggi), Ninni Bruschetta (Bellini), Faten Ben Haj Hassen (Amina), Tara Haggiag (Sara), Manuela Spartà Durata: 96’ Metri: 2840 23 Film n un casolare alla periferia di Roma, vivono due fratelli, Michele e Lorenzo Raggi: l’uno introverso e solitario, alleva cani di razza, l’altro ventenne musicista jazz, sogna New York e il successo americano. Una mattina, vedono invadere casa da un uomo e la sua troupe di periti: è stato tutto venduto dal loro legittimo proprietario, il padre Dario scomparso da 12 anni, dovranno perciò sgomberare al più presto. Affranti e arrabbiati, i due ragazzi non si arrendono e decidono di andarlo a cercare per riprendersi la casa dove hanno sempre vissuto. Seguendo le poche tracce che hanno, Michele e Lorenzo arrivano fino in Marocco, a Marrakech, dove imparano a conoscere quel padre che gli si è negato per così tanto tempo e a prendere coscienza del sentimento del loro essere fratelli. Michele, cresciuto con la responsabilità del fratello maggiore, è oppresso dal senso del dovere. Ha conosciuto bene il padre prima che li abbandonasse e nutre per lui un profondo rancore, misto a immensa nostalgia. Nel viaggio, imparerà a dare spazio alle emozioni. Lorenzo il minore, è al contrario affascinato dalla figura del padre, I Tutti i film della stagione dalla sua energia e dal suo anticonformismo. Quando era piccolo ha idealizzato Dario vedendolo andare via, ora è felice di poterlo riabbracciare. Un’esperienza on the road di tre italiani in Nord Africa, nel coinvolgente e complesso scenario della comunità magrebina. ilm riconosciuto di interesse culturale dal Ministero dei Beni Culturali e dello Spettacolo, La casa sulle nuvole è un lungometraggio che nasce dalla motivazione di raccontare la fuga di un uomo dall’occidente verso il sud. La sceneggiatura parte da una documentazione fatta, negli ultimi due anni, sugli italiani residenti in Marocco e dall’analisi emerge il risultato sui padri di questa generazione: uomini che hanno vissuto la propria formazione culturale e morale negli anni ’60 e ’70, nel proseguimento del sogno rivoluzionario e di ricerca di modelli alternativi di vita, ritrovandosi poi con la paura dei sentimenti e la difficoltà a integrarsi nel corpo della società. Claudio Giovannesi, giovane regista del Centro Sperimentale, per esprimere il passaggio generazionale, costruisce la trama su tre tipologie chiave: il gallerista, il ri- F storatore e l’artista, vittime e creature eccezionali al contempo, che hanno respinto il ritorno alla normalità, rifiutando di inserirsi nella società borghese della cultura occidentale, continuando a vivere il proprio sogno e la propria irresponsabilità in una cultura straniera. I due ragazzi, inconsapevoli figli di questa generazione, vanno a cercare il padre e si imbattono nell’artista un po’ hippy, pieno di slanci e contraddizioni. È qui che inizia il vero legame, con l’alterità paterna ritrovata, con il confronto di un passato lontano e l’accettazione di un uomo prima che di un padre. Al regista interessa il contatto con la diversità attraverso la scoperta, l’esplorazione del viaggio; ma è un viaggio geografico, antropologico, introspettivo. Le profondità psicologiche che stanno a cuore a Giovannesi, sono però toccate di rado, e la presenza di alcuni personaggi “connettivi” come Amina, ad esempio, risultano essere ingombranti piuttosto che conferire atmosfera epica alla storia. Giannini e Bonucci sono talmente bravi che questo film una stroncatura cocente proprio non la merita. Tania Di Giacomantonio LOURDES (Lourdes) Austria/Francia/Germania, 2009 Costumi: Tanja Hausner Direttori di produzione: Laurence Farenc, Bruno Wagner Casting: Markus Schleinzer Aiuto regista: Georg Mayrhofer Effetti speciali trucco: Frédéric Balmer, Alexis Kinebanyan Trucco: Maya Benamer, Silvia Pernegger, Martha Ruess Acconciature: Loli Avellanas Suono: Uwe Haussig Interpreti: Sylvie Testud (Christine), Léa Seydoux (Maria), Bruno Todeschini (Kuno), Elina Löwensohn (Cécile), Irma Wagner (Pilgerin), Gilette Barbier (Hartl), Gerhard Liebmann (Nigl) Durata: 99’ Metri: 2700 Regia: Jessica Hausner Produzione: Philippe Bober, Martin Gschlacht, Susanne Marian per ARTE/ Canal+/ Coop 99/ Essential Filmproduktion GmbH/ Société Parisienne de Production/ Thermidor Filmproduktion/ Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF)/ Österreichischer Rundfunk (ORF) Distribuzione: Cinecittà Luce Prima: (Roma 11-2-2010; Milano 11-2-2010) Soggetto: Géraldine Bajard, Jessica Hausner Sceneggiatura: Jessica Hausner Direttore della fotografia: Martin Gschlacht Montaggio: Karina Ressler Scenografia: Katharina Wöppermann na casa d’accoglienza per malati, pellegrini a Lourdes alla ricerca di pace spirituale e di una possibile guarigione. Cècile, una donna di mezza età energica e autorevole, volontaria dell’Ordine di Malta, comunica il programma delle visite e delle funzioni religiose al suo gruppo di malati. Invita tutti alla solidarietà reciproca e alla collaborazione: ci sarà alla fine un premio per il “miglior pellegrino”. Christine è una giovane donna, minuta e graziosa, colpita dalla sclerosi a placche, da tempo blocca- U ta nella sua sedia a rotelle. Viene accudita da Maria, una bella giovane volontaria, che la accompagna in ogni spostamento, la nutre, la lava e la mette a letto, più per senso del dovere che con vera partecipazione umana. Christine condivide la stanza da letto con la signora Hartl, un’anziana molto religiosa, tristemente sola. Il primo giorno, il gruppo visita la grotta dell’apparizione della Madonna, poi si aggira per le strade piene di negozi di souvenir e, infine, viene condotto al luogo delle abluzioni. Christine racconta alla sua ac- 24 compagnatrice la sua vita sconvolta dalla malattia, il vuoto che la circonda e il suo desiderio di condurre una vita “normale” e di riallacciare rapporti sociali. Confessa che il viaggio a Lourdes è motivato dal suo desiderio di svolgere una vita attiva, più che dalla speranza di guarire o dalla Fede. Maria a sua volta svolge la sua attività di volontaria per dare un senso alla sua vita. Ma è al contempo sensibile agli sguardi d’interesse che le dedica Kuno, un volontario maturo, di bell’aspetto nella sua divisa di foggia militare. Il giovane sacer- Film dote responsabile del gruppo gioca a carte con Kuno e con un volontario più anziano, dall’aria scettica e disincantata. Maria viene invitata insieme a una compagna a passare la serata assieme da un coppia di giovani volontari. Sylvie osserva con invidia i maneggi dei quattro giovani. Il giorno dopo, le due ragazze rievocano ridendo la serata, noncuranti del fatto che uno degli uomini sia sposato. Durante una cerimonia, Maria abbandona momentaneamente Christine e la signora Hartl la porta in prima fila per ricevere la solenne benedizione, nella speranza di un qualche intervento divino. Cécile rimprovera la volontaria per la sua mancanza e Christine per la sua supposta ambizione. Durante una passeggiata, Kuno flirta con Maria, sotto lo sguardo tristemente invidioso di Christine. Il volontario scettico racconta al sacerdote una barzelletta banale un poco blasfema, mentre in un documentario televisivo un uomo racconta la propria guarigione miracolosa. Durante la confessione, Christine esprime tutta la sua rabbia per la sorte che le è capitata:”Perché proprio a me?”. Si susseguono abluzioni con l’acqua miracolosa, preghiere e omelie con annunci di speranza, una foto di gruppo. Mentre addobba il salone per la festicciola finale, Cécile ha un malore, forse un ictus, e viene portata via in barella. Durante l’ultima notte, Christine inopinatamente sente tornare le forze e riprende a camminare da sola. Fra lo sguardo ammirato e invidioso degli altri malati, viene portata in infermeria dal sacerdote per ottenere la certificazione del miracolo, ma il medico spiega che la sclerosi è soggetta a fasi alterne di latenza e di peggioramento. Nel frattempo, un’altra giovane malata che aveva dato segni di miglioramento è ripiombata in uno stato catatonico, nella disperazione della madre; si viene a sapere che Cécile è fra la vita e la morte. Christine, più volte applaudita in pubblico, è piena di speranza nel futuro e sogna addirittura di mettere su famiglia. Partecipa addirittura a una passeggiata in montagna e avvicina Kuno, che confessa il suo turbamento e il suo timore di “farle male”. Osservati da lontano dalla signora Hartl, i due si appartano e si scambiano un bacio. Durante la festa finale, Christine viene premiata come “miglior pellegrino dell’anno”. Un vecchio in carrozzella commenta amaro: “Domani saremo ancora soli”. Poi si aprono le danze e Christine invita Kuno a ballare e si offre al suo tenero abbraccio. Ma, improvvisamente, ha un mancamento e cade a terra. Dopo averla soccorsa, l’uomo si allontana con una scu- Tutti i film della stagione sa. Si fa del karaoke. Risuonano le note della canzone “Felicità”, intonata da Maria. Christine osserva la scena con un sorriso amaro e si risiede sulla sua sedia a rotella, nuovamente aiutata dalla signora Hartl. ourdes è il terzo lungometraggio dell’austriaca Jessica Hausner (Vienna, 1972), già premiata al suo esordio nella sezione Un Certain Regard a Cannes 2003 con Lovely Rita, un inquitante ritratto di un’adolescente ribelle e solitaria. La Hausner ha una scrittura rigorosa e apparentemente astratta (dichiara infatti che un suo modello è Dreyer), con momenti inaspettati di fredda ironia alla Kaurismaki. Il film sin dalla sua presentazione in Concorso a Venezia 2009, ha provocato vivaci polemiche (specie da parte cattolica, malgrado il premio ecumenico SIGNIS) e prese di posizione preconcette. Evidentemente i temi della malattia, della morte, dei miracoli e della Fede toccano nervi scoperti sia nei credenti (che hanno accusato il film di anticlericalismo) sia negli agnostici (che paradossalmente hanno scoperto nel film una vena agiografica e fideistica). È il classico esempio di come la propria posizione ideologica e culturale impedisca la serena e corretta lettura di un film. Lourdes non prende posizione sui temi anzidetti, ma si limita a documentare la ricerca, confusa, incerta e contraddittoria dell’uomo attorno alle domande anzidette, fondative della nostra esistenza. Film di interrogativi, non di risposte. La Hausner osserva i suoi personaggi, rappresentanti di una povera, ma reale nella sua sofferenza, umanità, rimanendone a debita distanza. I corpi e i volti sono ripresi in campo medio o in piano americano, raramente in mezzo primo piano. Persino la terribile inquadratura finale (Christine che torna a sedersi nella sua carrozzella-prigione) L 25 ci mostra la protagonista di profilo, in una luce incerta che non permette di cogliere la vera natura e il senso del suo sorriso. I personaggi sono immersi in un acquario di luce soffusa, con prevalenti toni grigi e azzurrini, percorsi dalle accensioni del rosso delle divise dei volontari. Nessun tentativo di penetrare le psicologie dei protagonisti, se non per vaghi accenni (un fidanzamento interrotto, un matrimonio infelice…). Ciò che conta sono i fatti, la dipendenza dei personaggi dalla loro malattia, la loro ricerca di “senso” – non solo e non tanto religiosa, ma anche relazionale –, accomunati da una solitudine esistenziale, descritta dalla regista come una sorta di cappa di vetro contro cui sbattono senza riuscire a superarlo. La Hausner ha introdotto elementi di mistero in questa ricerca, attraverso barriere alla visione o ellissi: i personaggi non sanno cosa si nasconde dietro la tenda delle abluzioni, salvo poi scoprire che si tratta di un banale rito di versamento di un bicchiere d’acqua “santa” sulla testa; la statua della Madonna nella grotta o sull’altare della Messa non viene mai mostrata, ma lasciata significativamente fuori campo; lo stesso bacio furtivo fra Christine e Kuno viene visto confusamente dalla signora Hartl, né sappiamo cosa avviene poi oltre la cortina degli alberi. Ma anche all’interno di una singola inquadratura ci sono elementi perturbanti e ambigui. Ad esempio, proprio nel momento in cui il fotografo invita il gruppo al sorriso prima di scattare Cécile si copre il viso, quasi a nascondere una sua vera natura che tiene nascosta (in altre occasioni la vediamo infatti sistemare in segreto il suo parrucchino, falla dolorosa sulla sua maschera di perfezionismo). Anche narrativamente prevale il partito preso della sospensione e dell’interruzione: non sapremo mai nulla di definitivo sulla sorte dei diversi personaggi (e non solo di Christine). Film La Hausner, che si dichiara atea, affida al conflitto fra le domande pressanti dei malati e le risposte del sacerdote, gli snodi più inquietanti del film. La signora Hartl gli chiede, ad esempio, cosa bisogna fare per guarire e il sacerdote le risponde che bisogna prima “guarire l’anima”, risposta che lascia perplessa la donna. In un’altra occasione, cita San Paolo che era contento delle sue sofferenze perché lo avvicinavano a Cristo. Alla domanda fondamentale dello scettico Tutti i film della stagione sul perché Dio ha scelto di guarire Christine e non altri il sacerdote risponde con la classica formula sulla libertà e l’onniscenza divina. Ma si tratta sempre di risposte un poco preformate e “burocratiche”, che non placano l’ansia di verità e lo scetticismo di coloro che pongono le domande. La Hausner non si addentra in questioni teologiche, descrive piuttosto l’insufficienza di risposte umane al Mistero. Se il vero tema è la ricerca di felicità dell’uomo, anche in questo caso il breve e falso idillio vissuto da Christine non è certo una possibile soluzione dei suoi problemi esistenziali. Amarissimo e cupo, nella sua banalità, il testo della canzone (“Felicità”, appunto, di Al Bano) che accompagna l’inquadratura finale: “Felicità/è tenersi per mano andare lontano/la felicità/è il tuo sguardo innocente in mezzo alla gente/la felicità/è restare vicini come bambini la felicità, felicità”. Flavio Vergerio IO & MARILYN Italia, 2009 Produttori esecutivi: Alessandro Calosci Direttore di produzione: Nicoletta Maggi, Mauro Maggioni, Francesco Trifirò Effetti: Renato Longi, Alessandro Salomone Suono: Alessandro Bianchi Interpreti: Leonardo Pieraccioni (Gualtiero Marchesi), Rocco Papaleo (Arnolfo), Massimo Ceccherini (Massimo), Francesco Pannofino (maresciallo), Biagio Izzo (Pasquale), Suzie Kennedy (Marilyn), Marta Gastini (Martina), Luca Laurenti (Petronio), Barbara Tabita (Ramona), Francesco Guccini (psichiatra), Alessandro Paci, Gianna Giacchetti, Luis Molteni, Niki Giustini,Francesco Brandi Durata: 96’ Metri: 2640 Regia: Leonardo Pieraccioni Produzione: Leonardo Pieraccioni per Levante Film in collaborazione con Medusa Film e con il supporto di Mediateca Regionale Toscana e Toscana Film Commission Distribuzione: Medusa Prima: (Roma 18-12-2009; Milano 18-12-2009) Soggetto: Giovanni Veronesi Sceneggiatura: Leonardo Pieraccioni, Giovanni Veronesi Direttore della fotografia: Mark Melville Montaggio: Stefano Chierchiè Musiche: Gianluca Sibaldi Scenografia: Francesco Frigeri Costumi: Claudio Cordaro ualtiero è un manutentore di piscine, da poco separatosi dalla moglie Ramona. La donna ha recentemente intrecciato una relazione con Pasquale, circense dallo sguardo magnetico, che segue in tournè come sua assistente, trascinando anche la figlia Martina. Per poter incontrare la figlia, Gualtiero è così costretto a fare ogni volta diversi chilometri. Come se non bastasse, osservando la ex assieme a Pasquale, ha di recente compreso che è ancora innamorato di lei. Una sera, assieme alla vicina Iolanda e ai suoi più cari amici Petronio e Massimo, coppia gay che gestisce una pasticceria, decide di fare una seduta spiritica. Il gruppo, per volere dello stesso Gualtiero, chiama la donna più bella che sia mai esistita: Marilyn Monroe. Apparentemente non accade nulla, tranne un guasto momentaneo alla luce. Gli amici lasciano Gualtiero da solo, a cui finalmente appare il fantasma dell’attrice. Credendola una ladra, chiama i carabinieri; giunti sul posto, non trovano nulla in quanto solo lui può vederla e sentirla. Gualtiero viene portato in centrale, dove viene rilasciato poco dopo con la promessa di non fare più niente di stupido. Marilyn tenta di spiegargli che è tutto vero e che è giunta da lui G perché l’ha chiamata col cuore. Il fantasma, che gli resterà accanto solo per un periodo di tempo limitato, osserva la vita di Gualtiero, dall’affetto che lo lega alla figlia all’amore per Ramona. Credendosi ormai pazzo, Gualtiero inizia una terapia psicoanalitica, con tanto di analisi di gruppo, dove conosce lo stravagante Arnolfo. Il nuovo amico tenta di spiegargli che è tutto vero e che è addirittura possibile fotografarla utilizzando il flash dell’autovelox: l’intento funziona, ma vengono arrestati dai carabinieri. Gualtiero nuovamente rilasciato, capisce finalmente che è tutto reale. Marilyn diventa la sua amica e confidente che tenta di aiutarlo nel riconquistare Ramona. Sembra che tutto funzioni alla perfezione, ma quando Gualtiero sta per chiederle nuovamente di sposarlo durante una cena a due, scopre che la donna sta per sposarsi con Pasquale. Vedendolo così depresso, Marilyn, per dimostrargli che chi amiamo resta sempre accanto a noi, gli mostra con una magia una piazza che è gremita dai tanti fantasmi di epoche diverse; poi sparisce. Massimo tenta di convincere Gualtiero a non andare alle nozze di Ramona, anche se Martina ha chiesto esplicitamente la sua presenza: decide comunque di andare. Durante il ricevimen26 to, Martina lo accusa di non essere stato abbastanza coraggioso e di non aver mai tentato veramente di riconquistare la madre. Ferito nell’orgoglio e avendo capito che è lei la donna più importante della sua vita, sfida Pasquale: dovrà, dandogli le spalle, lanciargli i coltelli avendo il suo corpo come bersaglio. Martina guarda spaventata, ma con orgoglio, suo padre. È passato del tempo e Gualtiero è rimasto ferito alla gamba. Ora si trova a casa di Arnolfo che è riuscito a chiamare Marilyn. Gualtiero è giunto per salutare la sua amica. l merito di Leonardo Pieraccioni è quello di tentare nuove strade. Con Io & Marilyn affronta addirittura una commedia romantica dal vago sapore fantasy, accostandosi a film americani come Se solo fosse vero. La differenza con i cineasti d’oltreoceano è che riescono a osare molto di più. Il regista toscano, infatti, non affonda il pedale come dovrebbe sfruttando al massimo la potenziale idea. Quel vago sentore d’innamoramento di Gualtiero per Marilyn (quale uomo in fondo non si innamorerebbe di lei?) poteva essere maggiormente sviluppato, così anche le situazioni comiche fra lui, Marilyn ed i vivi; senza dimenticare di citare i momenti alla I Film Cyrano de Bergerac. Insomma il fantasma di Marilyn, al contrario di come appare anche dal titolo stesso del film, è decisamente poco presente. Un vanto del percorso di Pieraccioni è quello di aver abbandonato il solito ragazzo impacciato e timido che corteggiava disperatamente la bellona di turno, come nel fortunatissimo successo di Il ciclone, affrontando ora matrimoni in crisi e divorzi; il regista ha ben intuito che sarebbe risultato assurdamente ridicolo continuare sulla stessa china. Altra scelta di riguardo quella di abban- Tutti i film della stagione donare il campanilismo delle storie precedenti, in favore di una torre di Babele, fra cui compare non solo il dialetto toscano, ma anche il napoletano e il romano. Inevitabile, comunque, quella continua aria da eterno Peter Pan che pervade l’intera pellicola e non contribuisce a far elevare il film ad un grado successivo rispetto ai precedenti. Il film non decolla, si sorride a mala pena. Banalità su banalità vengono centellinate durante la pellicola, che non arriva completamente al cuore del pubblico. Un unico momento di vera emozione, a cui contribuisce anche la colonna sono- ra evocativa e i costumi, è quando Marilyn mostra a Gualtiero i fantasmi di personaggi storici del passato che continuano a camminare per le strade delle città senza che i vivi se ne rendano conto. Il cast artistico è ben assortito fra comici e attrici provenienti dal teatro. Un po’ assurda, Suzie Kennedy: Marilyn più bambola che artista. Da sottolineare sicuramente la giovane Marta Gastini; qui interprete di Martina, che è un potenziale artistico da sfruttare e coltivare. Elena Mandolini A SINGLE MAN (A Single Man) Stati Uniti, 2009 Regia: Tom Ford Produzione: Tom Ford, Andrew Miano, Robert Salerno, Chris Weitz per Artina Films/Depth of Field/ Fade to Black Productions Distribuzione: Archibald Film Prima: (roma 15-1-2010; milano 15-1-2010) Soggetto: tratto dal romanzo Un uomo solo di Christopher Isherwood Sceneggiatura: Tom Ford, David Scearce Direttore della fotografia: Eduard Grau Montaggio: Joan Sobel Musiche: Abel Korzeniowski, Shigeru Umebayashi Scenografia: Dan Bishop Costumi: Arianne Phillips Co-produttore: Jason Alisharan Casting: Joseph Middleton Aiuto regista: Brian Avery Galligan Operatori: Chris Blauvelt, Cedric Martin Operatore Steadicam: Cedric Martin Art director: Ian Phillips Arredatore: Amy Wells 962, Los Angeles (California). Il professore inglese George Falconer ha da poco perso in un incidente stradale il suo compagno Jim, al quale era legato sentimentalmente da ben 16 anni. Vive di nostalgia, nel ricordo continuo di questo amore e non riesce più a trovare stimoli per andare avanti e guardare al futuro con ottimismo. Vorrebbe addirittura farla finita, ma ne non ha il coraggio. Trascorre le sue giornate tra le aule del college e la sua casa nel più totale isolamento. Non cerca compagnia ed evita di fare vita mondana. L’unica persona di cui si fida è Charley, una sua cara amica di vecchia data, anch’ella inglese, da sempre innamorata di lui. La donna, che è stata appena abbandonata dal marito, cerca in George un po’ di consolazione. Durante una cena a 1 Trucco: Kate Biscoe, Elaine L. Offers, Gigi Williams Acconciature: Cydney Cornell, Alan D’Angerio, Marie Larkin, Michael White Supervisori effetti visivi: Seb Caudron, Dan Schmit Supervisore costumi: Jonny Pray Supervisore musiche: Julia Michels Interpreti: Colin Firth (George), Julianne Moore (Charley), Nicholas Hoult (Kenny), Matthew Goode (Jim), Jon Kortajarena (Carlos), Paulette Lamori (Alva), Ryan Simpkins (Jennnifer Strunk), Ginnifer Goodwin (Mrs. Strunk), Teddy Sears (Mr. Strunk), Aaron Sanders (Tom Strunk), Keri Lynn Pratt, Jenna Gavigan, Alicia Carr (segretarie), Lee Pace (Grant), Adam Shapiro (Myron), Marlene Martinez (Maria), Ridge Canipe, Elisabeth Harnois (adolescenti), Erin Daniels (cassiera di banca), Nicole Steinwedell (Doris), Tricia Munford (cassiera), Ryan Butcher (pedone), Brad Benedict (giocatore di tennis), Jon Hamm (voce di Hank Ackerley), Patrizia Milano (membro della facoltà), Mimi Page (ragazza al party), Sarah Smick (cassiera della libreria), Don Bachardy Durata: 101’ Metri: 2605 casa di Charley, i due ricordano i bei tempi passati ballando e lasciandosi andare a qualche bicchiere di troppo. Una sera, mentre è seduto in un locale a bere, incontra Kenny un studente che vorrebbe approfondire la sua conoscenza. Dopo aver fatto una nuotata insieme, George lo porta a casa sua per farlo asciugare, dargli dei vestiti nuovi e continuare la conversazione. Il ragazzo, giovane e fisicamente attraente, sembra disponibile a “offrirsi” al suo insegnante, ma questo ultimo ha ancora nella sua mente vivido il ricordo del compagno scomparso prematuramente. La notte stessa Falconer viene sorpreso da un infarto fulminante e muore. S entirsi vecchi e inutili a poco più di cinquanta anni e, oltretutto, essere considerati degli “invisibili” 27 per il fatto di appartenere a una minoranza come quella omosessuale è il prezzo da pagare per un “Old man” come George Falconer, l’antieroe del romanzo di Cristopher Isherwood Un uomo solo (1964). Bisogna subito precisare, però, che tutto questo accadeva agli inizi degli anni Sessanta, nell’America puritana e kennedyana, in piena Guerra Fredda (lo scenario è quello della crisi dei missili di Cuba). Siamo lontani anni luce da quei giorni, se si tiene conto di quanto si sia allungata l’età media della vita. E, soprattutto, se pensiamo a quali proporzioni abbia assunto negli ultimi decenni il movimento gay, al punto da trasformarsi in una vera e propria lobby, non meno influente e capillare di quelle economico-finanziarie. Eppure, al di là dell’anacronistico contesto socio-culturale, l’opera prima dello Film stilista Tom Ford è stata una delle poche sorprese positive del 66esimo Festival di Venezia, dove era presente in concorso. E non solamente per merito del suo eccezionale interprete Colin Firth (straziato dietro quel suo volto algido e imperturbabile da un tormento senza fine), che è stato giustissimamente premiato con la Coppa Volpi per la migliore performance maschile. Chi riesce ad andare oltre la superficie fredda e calligrafica di un film confezionato come se fosse un abito griffato (sembra che tutti i personaggi, rigorosamente lindi e tirati a lucido, siano appena usciti da una pubblicità, quella appunto del brand Tom Ford, che ha ovviamente curato il guardaroba dei suoi “attori-modelli”), troverà un fondo di verità che non conosce tempo, né tanto meno steccati sessuali. Il dramma, delicato e intimista messo in scena dal raffinato ex disegnatore della Maison Gucci, è un sentito elogio all’amore eterno e alla fedeltà. E poco importa se i protagonisti di questa passione spezzata soltanto da un tragico incidente, ma comunque “rivissuta a distanza” attraverso ripetuti flashback, sono due uomini. Sopravvivere al compagno/a di tutta una vita è un dolore indicibile che fa venire a chiunque il fiato corto, è una perdita che non ammette risarcimento. Neppure se ti capita di incontrare un sosia messicano di James Dean di nome Carlos, da cui il professore è attratto per la sua abbacinante bellezza e non in quanto oggetto del suo desiderio. Oppure un allievo dal fascino efebico, la cui carne giovane ed immacolata è una tentazione del diavolo. Ma, allo stesso tempo, anche una àncora di salvezza piovuta da cielo sottoforma di angelo. A tal proposito, risulta molto indovinata la scelta del diciottenne Nicholas Hoult, il quale riesce a circonda- Tutti i film della stagione re il personaggio di Kenny di un sottile alone di ambiguità. A Single Man non segue alla lettera il testo originale di Isherwood (è infatti piuttosto difficile rendere sul grande schermo un racconto impostato sul monologo interiore), tuttavia ne conserva la sua essenza spirituale. La riflessione sulla solitudine come scelta di vita per farsi abbracciare meglio dal dolore trova il suo sbocco naturale nella scoperta della bellezza delle piccole cose, ultima possibilità di riappacificarsi col mondo prima della definitiva dipartita. La dialettica fra il buio delle tenebre e la purezza della luce (interiore) è otti- mamente visualizzata mediante la fotografia di Eduard Grau. Questa ultima vira dal plumbeo grigiore delle prime scene (che corrispondono al periodo di massima depressione di Falconer culminato in un goffo ed improbabile tentativo di suicidio) al trionfo del colore: George incontra in banca la figlia della sua vicina di casa, Jennifer, una leggiadra creatura, a cui non aveva mai rivolto la giusta attenzione. Un altro elemento che si discosta dal romanzo è, probabilmente, il personaggio di Charley. Il regista riesce a renderlo maggiormente complesso e attraente grazie alla presenza di Julianne Moore. La migliore confidente del protagonista rappresenta un po’ il suo specchio: in George, la bellissima donna di mezza età, rivede tutta la sua solitudine e il suo bisogno d’amore frustrato dopo anni passati a rincorrerlo senza successo. I due vecchi amici si ritrovano uno accanto all’altro, pudicamente, senza invadere i rispettivi campi. Con la consapevolezza di essere due anime in pena, rassegnate a un destino senza nome, silenzioso. E il silenzio che si respira nel corso di una sola giornata delle loro esistenze non dà scampo. Neppure quando è rotto dalle struggenti musiche del giapponese Umebayashi, lo stesso compositore che ha lavorato in tanti film di Wong Kar-Wai. Diego Mondella VIDEOCRACY-BASTA APPARIRE (Videocracy) Svezia/Danimarca/Gran Bretagna/Finlandia, 2009 Regia: Erik Gandini Produzione: Axel Arnö, Erik Gandini, Mikael Olsen per Atmo Media Network/ Zentropa Entertainments/ Sveriges Television (SVT) in collaborazione con BBC Storyville/ Danish Broadcast Corporation/ YLE Co-Productions Distribuzione: Fandango Prima: (Roma 4-9-2009; Milano 4-9-2009) Soggetto e sceneggiatura: Erik Gandini Direttori della fotografia: Manuel Alberto Claro, Lukas Eisenhauer Montaggio: Johan Söderberg Musiche: Krister Linder, David Österberg, Johan Söderberg Produttore esecutivo: Kristina Åberg Produttore associato: Ann-Louice Dahlgren Aiuto regista: Iacopo Patierno Art director: Martin Hultman Suono: Hans Möller Interpreti: Silvio Berlusconi, Flavio Briatore, Fabrizio Corona, Lele Mora, Simona Ventura (se stessi) Durata: 85’ Metri: 2200 28 Film n un paesino del profondo nord c’è un ragazzone, operaio in una fabbrica, che da anni si “allena” per diventare la sintesi perfetta tra Jean-Claude Van Damme e Ricky Martin, ideale “cantante-combattente” pronto alla ribalta definitiva, quella che solo il piccolo schermo può regalarti. Peccato però che finora, dopo un’infinità di provini, il massimo che sia riuscito ad ottenere è stato partecipare a innumerevoli programmi solamente come “pubblico plaudente”: “Per le ragazze è più facile avere una possibilità, basta accettare i soliti compromessi”, dirà più avanti, sconsolato. Come lui, sparsi per il belpaese, migliaia e migliaia di coetanei hanno compreso che al giorno d’oggi quello che conta davvero è apparire: ragazzine sculettanti accennano balli improvvisati in centri commerciali che ospitano il “Veline tour”, ragazzoni depilati (“tronisti” e aspiranti tali) fanno la siesta a bordo vasca in Costa Smeralda nella villa tinta di bianco di Lele Mora, il più potente “agente televisivo” italiano, amico del premier e nostalgico mussoliniano. Tutto nacque poco più di trent’anni fa, in un bar lombardo da dove – a tarda notte – casalinghe annoiate si spogliavano in diretta sulle prime televisioni private locali: quello che sembrava un esperimento senza futuro ha progressivamente scatenato una rivoluzione (s)culturale senza precedenti. Che combacia giocoforza con l’era berlusconiana; dominante sulla creazione e il I Tutti i film della stagione controllo delle immagini, capace di influenzare come non mai lo sviluppo, la crescita e i contenuti della televisione commerciale italiana. “Basta apparire”: lo sa Lele Mora, ne ha fatto un manifesto Fabrizio Corona, da carnefice a “vittima” e nuovamente carnefice (“Mi danno 10000 euro per andare in discoteca e dire quattro cavolate”) di un sistema che ha provato a liberarsene, trasformandolo dapprima in martire e poi a “nuovo modello” di riferimento. In quella che, a tutti gli effetti, è diventata la più terrificante delle “videocrazie”. P resentato come Evento Speciale congiunto alla Settimana della Critica e alle Giornate degli Autori nell’ambito della 66. Mostra di Venezia, Videocracy (già capace di suscitare clamore prima del Festival a causa del “boicottaggio” di Rai e Mediaset, contrarie a trasmettere sulle proprie reti il trailer del film) porta sul grande schermo l’inquietante attualità del nostro medium principe, la televisione, “scatola magica” – come la chiama Lele Mora – “davanti alla quale si ritrovano le famiglie e se compari lì dentro diventi subito popolare”. Realizzato da Erik Gandini (nato a Bergamo ma trasferitosi in Svezia ormai più di venti anni fa), il documentario – se è vero come è stato scritto da più parti, poco accurato nell’analisi di un approfondimento che avrebbe dovuto indagare sul come e sul perché, in 30 anni, si sia arrivati a questo – offre però più di uno spunto per una riflessione sull’oggi che, passo dopo passo, non può non fare i conti con qualcosa di molto prossimo all’orrore, suggerito anche dall’incalzante mix di materiali d’archivio, immagini rubate e testimonianze live: il potere delle immagini, la macelleria di corpi e l’abbrutimento dei cervelli, la convinzione che solo apparendo in televisione “hai possibilità di rimorchiare, perché se dico che faccio l’operaio…”, il burattinaio (Lele Mora) e il nuovo Robin Hood Fabrizio Corona (“rubo ai ricchi per dare a me stesso”), vittime prima di altri di un narcisismo ai limiti del patologico (con il primo sorridente a mostrare un video sul telefono cellulare con stemmi nazifascisti al canto di Faccetta nera e il secondo nudo come mamma l’ha fatto davanti allo specchio), l’eminenza grigia a capo dell’intero sistema e a capo del nostro Governo, tutto è messo lì – rimostrato – per ricordarci quanto già sappiamo (è vero), ma che troppo facilmente abbiamo etichettato come br utalmente (a)normale. E che, in una deriva ormai spogliata di chissà quali speranze, ci fa ritrovare nuovamente imbambolati di fronte a ondeggianti fondoschiena in cerca di ribalta. Sudditi bramosi dell’ennesimo sorriso da parte del monarca della nostra unica, e amata, videocrazia. Valerio Sammarco LA BATTAGLIA DEI TRE REGNI (Chi bi/Red Cliff) Cina, 2008 Regia: John Woo Produzione: Terence Chang, Sanping Han, John Woo per Beijing Film Studio/China Film Group/Lion Rock Productions Distribuzione: Eagle Pictures Prima: (Roma 23-10-2009; Milano 23-10-2009) Soggetto: dal romanzo Romance of the Three Kingdoms di Guanzhong Luo Sceneggiatura: John Woo, Khan Chan, Cheng Kuo, Heyu Sheng Direttore della fotografia: Yue Lü, Li Zhang Montaggio: Robert A. Ferretti, Angie Lam, Hongyu Yang Musiche: Tarô Iwashiro Scenografia: Timmy Yip Costumi: Timmy Yip Produttore esecutivo: Xiaofeng Hu Produttore associato: Dong-ming Shi, Lori Tilkin, Todd Weinger, Jianshai Xu, Dong Yu Co-produttori: Zilong Guo, Bing He, Chin-Wen Huang, Wu Kebo, Woo-Taek Kim, Sirena Liu, Masato Matsuura, Zhong- lun Ren, Zhan Teng, Jianqiu Wang, Shoucheng Yang, Xiaoming Yan, Dong Yu, Qiang Zhang Line producers: Xiaofeng Hu, Rick Nathanson Casting: Jie Cheng Aiuti regista: Thomas Chow, Richard L. Fox, Fei Wong Art director: Eddy Wong Supervisori effetti visivi: Brennan Doyle, Craig Hayes, Ray McIntyre Jr., Jesh Murthy, Kevin Rafferty Coordinatori effetti visivi: James Dornoff, Anna Fields, Stéphane Paradis, Stacey Pothoven, Yimi Tong Interpreti: Tomy Leung Chiu Wai (Zhou Yu), Takeshi Kaneshiro (Zhuge Liang), Fengyi Zhang (Cao Cao), Chen Chang (Sun Quan), Wei Zhao (Sun Shangxiang), Jun Hu (Zhao Yun), Chiling Lin (Xiao Qiao), Shido Nakamura (Gan Xing), Yong You (Liu Bei), Ba Sen Zha Bu (Guan Xing), Yong Hou (Lu Su), Philip Hersh (Voce dell’Imperatore Han), Tong Jiang (Li Tong), Jia Song (Li Ji), Dawei Tong (Sun Shucai), Qingxiang Wang (Kong Rong), Jinsheng Zang (Zhang Fei), Jingwu Ma (Uomo anziano), Chun Sun Durata: 150’ Metri: 3580 29 Film ina, 208 d.C. La dinastia Han è ormai in declino e il paese sta trovando un momentaneo periodo di pace dopo guerre sanguinose. L’ambizioso primo ministro, Cao Cao, sempre più assetato di potere, convince l’imperatore Han Xiandi che manipola come un burattino, di attaccare i regni del Sud. Vede infatti che in loro si stanno rinfocolando dei fermenti di rivolta. Una volta raggiunto lo scopo, il suo obiettivo è quello di usurpare il trono e insediarsi come il dominatore di una Cina unificata. Cao Cao organizza, così, una campagna militare di ingenti proporzioni. Dichiara guerra al regno di Xu, dominato da Liu Bei che è anche lo zio dell’imperatore. Questi manda il suo consigliere militare, Zhuge Liang, a parlare con Sun Quan, sovrano del regno Wu, nel tentativo di convincerlo a unire le forze. Giunto sul posto, il messaggero conosce anche Zhou Yu, Vicerè di Wu e i due decidono di collaborare in questa difficile alleanza. Cao Cao, dopo aver appreso che i due regni si sono alleati, s’infuria e attacca con circa 800.000 soldati e 2.000 navi a sud. Il suo esercito si stabilisce nella Foresta Crow, sulla sponda opposta di Red Cliff (le Scogliere Rosse), sul fiume Yangtze, dove gli alleati hanno stabilito la loro base. A un certo punto della guerra, i due regni del Sud, pur uniti, sembrano spacciati. I viveri scarseggiato e gli uomini sono in enorme inferiorità numerica rispetto a quelli comandati dal Primo Ministro. Zhou Yu e Zhuge Liang devono, a questo punto, ricorrere alla loro intelligenza e alla loro esperienza militare per capovolgere la situazione. Attraverso alcuni stratagemmi, riescono a fingere di essere attaccati dall’esercito di Cao Cao e riescono così a soffiargli molte munizioni composte da C Tutti i film della stagione frecce. Inoltre, il Primo Ministro decide di attaccare col vento a favore. L’astuzia e l’esperienza di Zhuge Liang gli permettono però di comprendere che, nel corso della notte, ci sarà un cambio di direzione. Si deve cercare di far ritardare l’attacco agli uomini di Cao Cao. Ed è così che l’affascinante moglie di Zhou Yu, senza il permesso del marito, decide di recarsi dal Primo Ministro (che è sempre rimasto affascinato da lei) e gli fa perdere tempo facendogli bere il suo thé. Tutti questi elementi porteranno i regni del Sud a prevalere nella battaglia d Red Cliff, che cambierà per sempre la storia della Cina. on un budget di 80 milioni di dollari, è il kolossal più costoso della storia del cinema cinese e segna il grande ritorno dell’hongkonghese John Woo, dopo una trasferta statunitense con luci e ombre con due grandi film (Face/Off e Mission: Impossible 2), oltre all’attraente e poco compreso Paycheck. Ed è proprio da quel film, realizzato nel 2003, che la carriera del cineasta sembrava essersi improvvisamente arenata, considerando che dopo si è messo in luce solo con l’episodio di All the Invisible Children. Con quest’opera, invece, riprende forma il suo cinema sensoriale e fiammeggiante, capace di unire l’epica al melodramma, l’azione diretta alla messa a punto delle strategie di guerra. La vicenda è realmente accaduta nel 208 d.C. ma è diventata popolare con Il romanzo dei tre regni scritto da Luo Guanzhong, che venne pubblicato nel XIII° secolo e nel quale molti eventi vennero distorti per renderli di maggiore effetto. Il cinema di Woo gli ridà forma attraverso uno sguardo personale, sempre riconoscibilissimo (l’uso del ralenti, l’immagine della colomba che vola), ma che, al tempo stesso, si inserisce nelle traiettorie del genere anche C 30 attraverso imponenti scene di massa, campi lunghi (potentissimi quelli delle flotte navali) e le geometrie realizzate con la supervisione di Corey Yuen, nelle quali sembrano disegnarsi nuove composizioni visive in questi continui passaggi dal piano generale, dalla visione d’insieme a quello più particolare, spesso legato al destino di un individuo. Certo, anche questo film è debitore delle traiettorie tipiche del wuxiapian (il cinema di cappa e spada) che, dopo King Hu, ha ripreso forma in Oriente grazie ad Ang Lee (La tigre e il dragone) e Zhang Yimou (Hero, La finestra dei pugnali volanti). Al di là, però, di certe soluzioni stilistiche usate quasi come dei giochi acrobatici, non sembra che Woo, con La battaglia dei tre regni, voglia far prevalere la componente formale, anche se è di grande fascino. Tutt’altro. Il suo film è una descrizione imponente e avvolgente: circa due ore e mezza serratissime senza un attimo di tregua che in certi frammenti sembra rendere omaggio anche al cinema di Sergio Leone. Già l’apertura sui titoli di testa, con i volti dei protagonisti sulla cartina della Cina, danno l’idea di un’opera più leggendaria che bellica, caratterizzata anche dalla presenza ricorrente di sfumature rosse sui volti della moglie del vicere, dell’inseguimento nella polvere, o le luminosità dell’incendio che divampa nel finale che esaltano in pieno le forme del cinema d’avventura con uno stile sempre riconoscibilissimo e con una furia visiva ed anche visionaria incontrollabili. Ma tutta l’opera è un incontrollato viaggio indietro nel tempo, dove Woo si appropria di spazi e tempi lontani per adeguarli al proprio ritmo, alla propria velocità. Lo scontro tra Cao Cao e i due regnanti della Cina del Sud assume quasi le dimensioni noir, in cui questi personaggi potrebbero apparire come la reincarnazione di boss malavitosi, tipici del genere. Le espressioni, i fasci di luce sulle loro facce, lo sfondo scuro sono simili. Ma Woo trasporta questa traiettorie, le ricicla e le reinventa, dando a La battaglia dei tre regni un incredibile potenza proprio nel contrasto tra le maestose scene d’azione e le ombrosità dei protagonisti, due dei quali, Tony Leung e Takeshi Kaneshiro, si ritrovano dopo Hong Kong Express (1995) di Wong Kar-wai. Tutto ciò avviene fino all’esplosiva parte finale, un autentico concentrato di sapienza tecnica e istinto da parte del cineasta hongkonghese. Ciò è mostrato nel tentativo da parte di Zhuge Liang di far ritardare l’attacco decisivo agli uomini di Cao Cao, visto che il verso del vento cambierà. Si parte dal dettaglio della goccia d’acqua che cambia direzione e si arriva alla visita della moglie di Zhou Yu che va dal Primo Ministro e cerca di guadagnare tempo facendogli bere del thé. È un continuo contrasto tra accele- Film razioni e rallentamenti con la velocità che, come spesso avviene nel cinema di Woo, cambia in continuazione. Quando è in forma, il regista non si confronta con i generi. Tutti i film della stagione Piuttosto sono i generi che vengono plasmati e manipolati dallo sguardo del cineasta. La battaglia dei tre regni poteva essere ambientato in qualunque luogo e in qualunque epo- ca. Ma, sin dall’inizio, Woo lo marchia già in modo indelebile. Simone Emiliani IL MI$$IONARIO (Le missionnaire) Francia, 2009 Regia: Roger Delattre Produzione: Luc Besson per Europa Corp./TF1 Films Production/ CiBy 2000/Rhône-Alpes Cinéma. Con la partecipazione di Canal+ e TPS Star e in associazione con Sofica Europacorp Distribuzione: Eagle Pictures Prima: (Roma 19-2-2010; Milano 19-2-2010) Soggetto e sceneggiatura: Philippe Giangreco, Jean-Marie Bigard Direttore della fotografia: Thierry Arbogast Montaggio: Julien Rey, Yves Beloniak Musiche: Alexandre Azaria Scenografia: Hugues Tissandier Costumi: Olivier Bériot Produttori esecutivi: Eric Bassoff, Olivier Doyen Direttore di produzione: Gregory Barrau Aiuti regista: Bastien Blum, Martin Blum, Vincent Canaple opo sette anni, Mario esce di prigione per buona condotta, ma più duro di prima. Fuori, ad attenderlo, ci sono i suoi due ex amici, intenzionati a farsi consegnare la loro parte della refurtiva, dal momento che solo lui sa dove siano custoditi i gioielli rubati durante la rapina che ha comportato il suo arresto. Lo minacciano, incendiandogli poi l’auto e la casa. Mario, che è stato il solo dei tre a scontare la pena, è deciso a scomparire per una decina di giorni dalla circolazione. Va quindi in chiesa a trovare Patrick, il suo caricaturale fratello prete. Quest’ultimo lo fa travestire da sacerdote e lo invia in uno sperduto paesino, come seminarista. Gli consegna un rosario, gli fa promettere di evitare turpiloquio, oscenità e violenza, infine gli intima: “E niente testate!”. Nel paesino, tuttavia, il parroco, padre Etienne, è appena morto e Mario viene accolto dal sindaco e dai cittadini come nuovo parroco, rimanendone spiazzato. Una notte, intenzionato a fuggire, ruba una bici, ma per via s’imbatte nella polizia e soccorre Mohammed, un vecchio arabo incidentato, che in seguito avrà modo di esprimergli la sua gratitudine. Poi si ubriaca coi gendarmi, diventandone sodale e ottenendone un’amicizia e un rispetto incondizionati. Mario telefona dunque a Patrick, impartendogli le istruzioni per recuperare la refurtiva occultata nella tomba di loro padre. Patrick, da parte sua, lo orienta sul modo in cui celebrare i funerali di padre Etienne. Ma D Operatore: Gil Pannetier Operatore Steadicam: Loïc Andrieu Supervisore effetti speciali: Georges Demétrau Coordinatore effetti speciali: François Philippi Coordinatori effetti visivi: Émilie Feret, Elodie Glain Interpreti: Jean-Marie Bigard (Mario), Doudi Strajmayster (Patrick), Thiam Aïssatou (Nadine), Jean Dell (capitano gendarmeria), Michel Chesneau ( sindaco del villaggio), Benjamin Feitelson (Roger), Jean-Gilles Barbier (André), Sidney Wernicke (Padre Philibert), Philippe Faure (vescovo), François Siener (Giancarlo), Alaa Oumouzoune (Abdel), Lucie Lucas (Sarah), Arthur Chazal (Lucien), Cécile Breccia (Sandy), Jacky Nercessian (signor Golgenberg), Julia Molkhou, Alban Lenoir, Liina Brunelle, Camille De Pazzis Durata: 90’ Metri: 2460 poi la linea cade e Mario è costretto a parlare a braccio, cavandosela bene, in fondo. I parrocchiani lo ammirano e non gli concedono tregua. È con loro al bar, poi per confessare una donna perde la corriera che lo porterebbe a Nizza, ove dovrebbe riunirsi con Patrick per andare dai ricettatori. Mena il violento marito della donna e, in cambio, si fa prestare l’auto da lei, ma finisce fuoristrada ed è la gendarmeria a soccorrerlo. Frattanto telefona Patrick, che è alla corte di Giancarlo, il ricettatore. Mario se lo fa passare al telefono, confidando che il fratello, pur sembrando un deficiente, in realtà è un killer pericolosissimo. Sicché, dopo una lunga unilaterale trattativa, Giancarlo accorda di pagargli 6 milioni di euro per i gioielli (a fronte del milione e mezzo che Mario reputava già sufficiente). Mentre Mario si ravvede, diventa più saggio e resiste anche alla tentazione della bella barista del paese, Patrick al contrario, con tutti quei soldi, impazzisce, finendo in mano a tre avvenenti escort, a furia di champagne, cocaina e spese folli. In paese, intanto, è sabato mattina, e Mario confessa i fedeli a modo suo. D’improvviso arriva però il vero nuovo parroco, padre Philibert, giovane e severissimo. Mario lo picchia e lo fa arrestare, poi lo mena anche la polizia. In paese arriva anche Nadine, la bella compagna di colore di Mario, pedinata dagli sgherri. La fama di Mario si è diffusa in paese e viene chiamato a risolvere la questione dell’amore tra 31 una ragazza ebrea e un giovane musulmano. I genitori del ragazzo arabo si oppongono al matrimonio, ma poi spunta Mohammed, il nonno del ragazzo, che è l’anziano precedentemente soccorso da Mario. E, proprio su richiesta di Mario, impone al figlio di accondiscendere alle nozze del nipote. Si approssima l’epilogo: Padre Philibert, sconvolto, si reca dal vescovo, che lo invita alla calma e intende verificare personalmente la situazione. Mario trascorre una notte d’amore con Nadine, quindi ha inizio la mattina della resa dei conti: dopo 20’anni si celebra un matrimonio e la piazza è addobbata a gran festa. Arriva il vescovo coi suoi sacerdoti. Arriva Patrick su un’auto sportiva insieme alle ragazze. Arrivano anche gli sgherri. In sacrestia, Mario da’ un pugno a Patrick, poi si fa consegnare i soldi. Vorrebbe quindi filarsela, lasciando il fratello a celebrare, ma Nadine gli fa notare che tocca a lui. Il vescovo si accomoda in prima fila, tra i padri dei due ragazzi. Mario si affaccia in chiesa, accolto da applausi da stadio, e celebra il matrimonio tra Abdel e Sarah. La sua omelia è una lezione sull’amore e la diversità come una ricchezza. Patrick, seduto in fondo alla chiesa, si commuove. Quindi lo scioglimento in sacrestia. Spuntano gli sgherri con le pistole puntate e Mario, accontentandoli, consegna loro 500 mila euro a testa. Entra il vescovo e fa ordine tra i due ‘preti’: Mario deve togliere l’abito e Patrick rein- Film dossarlo. Gli sposi escono felici di chiesa, mentre echeggiano i rintocchi festosi delle campane, suonate da un chierichetto, cui si uniscono un bimbo musulmano e uno ebreo. Infine, Patrick va in missione in Africa, ove celebra le nozze di Mario e Nadine. L eggero, spassoso, accattivante, una commedia brillante con attori perfettamente calati nei ruoli. Bella la fotografia e coinvolgenti le musiche, che dettano il ritmo di questo film vivace e molto divertente, nel quale si dipanano brindisi, cazzotti, parolacce e battute esilaranti. In un processo a doppio fronte, che corre parallelo, ma per sensi inversi, assistiamo, da un lato, all’assunzione dei doveri sacerdotali da parte di un ex galeotto e al loro contemporaneo rinnegamento dall’altro, a opera di suo fratello prete. Se infatti Mario, il duro, uscito in anticipo di galera, che vive ancora nel terrore di essere nuovamente arrestato e paradossalmente diviene intimo amico della polizia, abbraccia, pur se a modo suo, gli obblighi che il suo temporaneo stato sacerdotale gli impone, dall’altra Patrick è tentato dalle seduzioni del mondo e a esse cede in pieno. Il film si sviluppa e corre pertanto tra questi due poli, alternando le varie situazioni che vedono protagonisti i due fratelli: Mario, ‘prigioniero’ del paesino ove si è rifugiato, su consiglio del fratello, immerso nelle varie vicissitudini della parrocchia e dei suoi fedeli; Patrick, al contrario, che gira in lungo e in largo tra negozi ricercati e alberghi di lusso in località esclusive, con in tasca quanto Mario gli ha virtualmente consegnato: i gioielli e quindi i soldi. È una contaminazione reciproca… Provvederà il vescovo a fare ordine alla fine, e ciascuno dei due fratelli uscirà più arricchito e più consapevole di sé dall’esperienza trascorsa, prima di tornare alla propria vita. Un epilogo felice, in cui ogni vicenda si risolve, nessuna storia Tutti i film della stagione rimane in sospeso, lasciando così tutti contenti. Gli sgherri, dalle cui intimidazioni prende avvio l’intreccio narrativo che si sviluppa nella pellicola, con la fuga di Mario sotto mentite spoglie, lo raggiungono nel suo esilio ancor più minacciosi ed agguerriti. Ottengono tuttavia la loro parte di bottino e possono lasciarlo in pace. Mario va in Africa, terra della sua amata Nadine e lì i due si sposano. Patrick, dopo un violento sbandamento dovuto a quell’infinità di denaro che si è trovato improvvisamente in mano, torna alle sue funzioni ministeriali e celebra le nozze del fratello. Forse quelli a cui va peggio sono i parrocchiani del ridente paesino francese, che per pochi giorni hanno assaporato la guida di un parroco dai modi sbrigativi e rudi, inesperto di faccende di Chiesa, ma che parla in maniera franca e veramente col cuore, oltre che con i cazzotti. Amato, al punto che qualcuno esclama: “Se tutti i sacerdoti fossero come lui, il mondo sarebbe migliore”. E che tra i vari frame sa lanciare anche alcuni messaggi importanti, profondi. Mario riconosce onestamente che il matrimonio misto non è di certo una lezione per la Chiesa… Lo è tuttavia per l’umanità, in quanto le diversità non devono mai essere considerate un problema, quanto piuttosto una ricchezza. A suggello di quest’insegnamento, si assiste alla scena forse più bella, nel concludersi del film, dopo la celebrazione delle nozze, con la piazza riccamente addobbata in una radiosa mattina di sole e con tutti gli abitanti presenti. Ce la offre il simpatico chierichetto, che corre gioioso a suonare le campane a festa, ma, minuto com’è, vola su è giù appeso alla corda, come un angioletto. Accorrono quindi un bimbo musulmano ed uno ebreo per aiutarlo a tornare a terra, ma sono sospinti in aria anche loro, nella forza di un abbraccio che nel film non ha termine né confini religiosi o ideologici. Una sola parola: bellissimo! Luca Caruso IL FIGLIO PIÙ PICCOLO Italia, 2009 Regia: Pupi Avati Produzione: Antonio Avati per Duea Film in collaborazione con Medusa Film Distribuzione: Medusa Prima: (Roma 19-2-2010; Milano 19-2-2010) Soggetto e sceneggiatura: Pupi Avati Direttore della fotografia: Pasquale Rachini Montaggio: Amedeo Salfa Musiche: Riz Ortolani Scenografia: Giuliano Pannuti Costumi: Steno Tonelli Direttori di produzione: Cristina Bravini, Gianfranco Musiu Aiuti regista: Alvise Barbaro, Roberto Farina, Raphael Tobia Vogel Effetti visivi: Justeleven Suono: Piero Parisi Interpreti: Christian De Sica (Luciano), Laura Morante (Fiamma), Luca Zingaretti (Bollino), Nicola Nocella (Baldo), Sydne Rome (Sheyla), Massimo Bonetti (Pilastro), Marcello Maietta (Pilastro), Manuela Morabito (Betty Chirone), Fabio Ferrari (Sainati), Alessandra Acciai (Dina Diasporro), Alberto Gimignani (Carosi), Giulio Pizzirani (Amadei), Vincenzo Failla (Notaio Gabutti), Gisella Marengo (Elvira Bagdikan), Emanuele Salce (Organizzatore), Cristian Marazziti (Vicesindaco), Massimiliano Varrese (Capitano Taddei), Aurora Cossio (Zoe), Pilar Abella (invitata), Maurizio Battista (Nazareno), Matilde Matteucci (Roberta), Tiziana Buldini (Carlotta Morè), Simone Arcese (conduttore radio), Luciano Luminelli (inviato), Pino Quartullo (elicotterista), Omar Pedrini (musicista) Durata: 100’ Metri: 2750 32 Film state 1992, Bologna. Il matrimonio di Luciano Baietti e Fiamma, già genitori di due bambini di pochi anni, si consuma frettolosamente. Appena il tempo di un brindisi nei bicchieri di plastica e il taglio della torta su i tavoli di un camper ambulante. Poi lo sposo, in compagnia di un eccentrico contabile appena uscito dal convento, dopo aver fatto firmare alla sua novella sposa un mazzo di documenti con i quali la donna gli intesta i suoi beni, parte lasciandola in lacrime. Diciotto anni dopo, i due bambini sono cresciuti: il maggiore, Paolo, lavora come cameriere in un locale del centro e odia quel padre scomparso nel nulla; il figlio più piccolo, Baldo, buono e generoso, studia cinema al Dams e vive modestamente con la mamma, preoccupandosi che la madre prenda quotidianamente farmaci per la depressione. Fiamma, sola per scelta dall’abbandono del marito, insieme all’inseparabile amica hippie americana Sheyla, sbarca il lunario nel patetico tentativo di avviare una carriera musicale, improvvisando improponibili concerti new age. La donna, incapace di vedere le malefatte dell’ex marito, ha cresciuto i due figli nel culto della figura paterna, e nella convinzione che, prima o poi, quell’uomo sfuggente ed egocentrico sarebbe tornato per migliorare la loro vita. Nel frattempo, nella campagna laziale, Luciano fa la bella vita nella sua lussuosissima villa: con i soldi dell’ex moglie e i consigli del fidato consulente Sergio, freddo calcolatore e mente pensante della Baietti Enterprise, è presidente e responsabile di una holding che vive di loschi traffici, di immagine, società fantasma ed evidenti raccomandazioni. Tuttavia i tempi si fanno difficili e gli appoggi iniziano a vacillare. I successi di Luciano e dei suoi corrotti collaboratori, veri o presunti, infatti vengono messi alle corde dalle indagini sempre più fitte della Guardia di Finanza. L’idea per uscirne puliti è trovare un prestanome ingenuo e inesperto su cui scaricare la responsabilità delle situazioni più compromesse. Qualcuno facile da raggirare con la promessa di false ricompense. Così con la scusa delle seconde nozze con una ricca romana politicamente in vista, Luciano richiama la prima moglie, ancora profondamente innamorata di lui, per invitare Baldo, il figlio più piccolo, come testimone di nozze. A lui sarà affidata la “patata bollente”. Baldo è un bonaccione alle prese con le crisi esistenziali, innamorato della proiezionista di una sala cinematografica e con il sogno di realizzare “da grande” un film splatter. Una volta arrivato dal padre, il ragazzo si sen- E Tutti i film della stagione te carico di emozioni e aspettative che in breve vengono smentite. Nell’arco di poche ore, Baldo davanti a tutta la commissione viene investito della carica dirigenziale, ma anche portato a conoscenza della situazione tragica della società. Il povero ragazzo capisce di essere stato raggirato e prova ad andarsene, ma facilmente torna sui suoi passi nell’illusione di poter finalmente veder realizzato il suo film, con i soldi della società. Nella speranza di un futuro migliore per lui e la sua famiglia Baldo rivela alla madre la situazione, che si adopera subito per acquistare quell’appartamento che da tempo non riusciva a pagare. Tuttavia, durante le sfarzose nozze di Luciano, irrompe la polizia con un mandato di cattura a suo carico. Tutto ormai è irrimediabilmente compromesso e la Baietti Enterprise precipita nella fossa. Baldo e la madre tornano alla loro vita di sempre. Grazie alle sue numerose conoscenze, Luciano è ammesso agli arresti domiciliari e non avendo più una casa, né un impero economico da gestire, ormai depresso e senza speranze, è accolto da Fiamma e da Baldo nella loro umile dimora. vati chiude la sua personale trilogia dedicata ai padri, dopo Il papà di Giovanna e La cena per farli conoscere con una pellicola che fa un ritratto cinico dell’Italia di oggi, che omaggia senza indugi la “comedy amara” degli anni Sessanta e Settanta. Disegnando un paese allo sfascio, così paradossalmente attuale da metter paura, Il figlio più piccolo rappresenta il terzo padre, quello più indecente di tutti, il più infame. Da una parte c’è una figura così meschina ed eticamente vergognosa, pronta a sfruttare l’amore altrui, della ingenua moglie, prima, e del fi- A 33 glio, mai realmente cresciuto, dopo, pur di salvare la pelle. Quindi parliamo di un mondo squallido e arrivista, dove non contano più i sentimenti, i valori morali o il buon senso, ma vige la religione della “roba” verghiana. Dall’altra c’è l’idealismo e la purezza dei buoni sentimenti, la speranza di credere e portare avanti i propri sogni, senza nuocere a nessuno. La società contemporanea si riduce a un contrasto fra furbi avvoltoi e incalliti sognatori, fra chi ha fatto sì che corruzione e volgarità diventassero i soli valori e chi ha lasciato passivamente che ciò accadesse, perché incapace di comprendere i cambiamenti in atto. Pur avendo quasi una quarantina di film all’attivo, Pupi Avati, anche nel momento in cui tutti sembrava avessero qualcosa da dire, non ha mai propriamente perseguito un progetto di cinema “politico”; svezzatosi con horror e commedie grottesche, col tempo il suo sguardo si è interessato sempre più spesso alla storia e al reale, ma senza mai prendere una decisa posizione. Questa volta il filtro con cui manteneva le distanze pare essersi assottigliato e il regista si schiera dalla parte dei perdenti, dei genuini. Impietoso, invece, appare il confronto con gli aspetti più crudeli della realtà; eppure, anche nel suo film più cinico, forse un po’ di pietà la concede anche ai cattivi. Impeccabile a dirigere i suoi attori il maestro porta sullo schermo un Christian De Sica finalmente lontano dalle sue interpretazioni vacue e prive di spessore dei cinepattoni natalizi. Niente smorfie da maschera commediante, questa volta pacato e serio nei panni di un uomo distrutto dalla propria vita, fatta di illegalità e compromessi. E supera la prova abbastanza bene; ora è da vedere se seguirà le amabili orme dell’indimenticato padre, o conti- Film nuerà a perdersi dietro ai successi da botteghino. Al suo fianco una piagnucolosa Laura Morante, non lontana dai suoi classici ruoli, nei panni di una madre “stupidina” (così è chiamata da Luciano), un semi- Tutti i film della stagione esordiente Nicola Nocella, credibilissimo nell’interpretare Baldo, il figlio più piccolo, un emotivo dal cuore grande e, soprattutto, un eccellente Luca Zingaretti, chiamato nel ruolo originale del manipolatore sen- za scrupoli e ex frate Sergio, detto il “Professore”, vero cervello della società e braccio destro di De Sica. Veronica Barteri IL RICCIO (Le hérisson) Francia/Italia, 2009 Regia: Mona Achache Produzione: Anne-Dominique Toussaint per Les Films des Tournelles/ Eagle Pictures/ France 2 Cinéma/ Pathé/ Topaze Bleue Distribuzione: Eagle Pictures Prima: (Roma 5-1-2010; Milano 5-1-2010) Soggetto: liberamente tratto dal romanzo L’eleganza del riccio di Muriel Barbery Sceneggiatura: Mona Achache Direttore della fotografia: Patrick Blossier Montaggio: Julia Grégory Musiche: Gabriel Yared Scenografia: Yves Brover-Rabinovici Costumi: Catherine Bouchard Direttore di produzione: Pascal Ralite Casting: Michael Laguens Aiuti regista: Fabrice Camoin, Julie Duhayot, Florent Sauze Operatore Steadicam: Valentin Monge l numero 7 di rue de Grenelle, la portinaia Renée Michel osserva l’andirivieni e le vite degli inquilini di questo condominio di lusso della dorata alta borghesia parigina. Vedova, scorbutica, sciatta, apparentemente ignorante e teledipendente dal peggior trash catodico, Madame Michel è in realtà una coltissima autodidatta, appassionata lettrice dei romanzi di Tolstoj e entusiasta spettatrice dei film di Ozu. Ma questa sua seconda natura non è l’unico segreto che Madame Michel nasconde dietro la porta della sua guardiola. Qualche piano più su vive un’esistenza altrettanto nascosta e misteriosa ai più la giovane Paloma, lucido critico della mediocrità che la circonda in famiglia e fuori, la quale ha deciso di togliersi la vita il giorno del suo tredicesimo compleanno, stanca di fingersi e nascondersi. Renée e Paloma si incontreranno e si scopriranno grazie all’arrivo nel palazzo di un nuovo inquilino, l’elegante e raffinato giapponese Monsieur Kakuro Ozu, la cui presenza aiuta finalmente le due ad aprirsi alla vita. Il sogno si interrompe bruscamente, quando Renée, dopo tanto tempo di nuovo pronta ad amare e a lasciarsi amare da Ozu, finisce investita da un camion davanti l’ingresso del palazzo. La morte di Renée riporta bruscamente Paloma alla realtà della vita, distogliendola dai suoi propositi suicidi e avviandola all’età adulta. A Art director: Patrick Schmitt Arredatore: Thierry Rouxel Trucco: Didier Lavergne Acconciature: Cédric Chami Supervisori effetti visivi: Kevin Berger, Bruno Sommier Coordinatore effetti visivi: Berengere Dominguez Suono: Jean-Pierre Duret, Amaud Rolland, Nicolas Naegelen Interpreti: Josiane Balasko (Renée Michel), Garance Le Guillermic (Paloma Josse), Togo Igawa (Kakuro Ozu), Anne Brochet (Solange Josse), Ariane Ascaride (Manuela Lopez), Wladimir Yordanoff (Paul Josse), Sarah Lepicard (Colombe Josse), Jean-Luc Porraz (Jean-Pierre), Gisèle Casadesus (Madame de Broglie), Mona Heftre (Madame Meurisse), Samuel Achache (Tibère), Valérie Karsenti (madre di Tibère), Stéphan Wojtowicz (padre di Tibère) Durata: 100’ Metri: 2750 C i sono libri che sembrano fatti apposta per essere trasposti sullo schermo (e alcuni di essi vengono ruffianamente scritti proprio per sfruttare il successo e la notorietà del cinema) e altri che invece sembrano “condannati” a rimanere per sempre sulla pagina stampata. L’inaspettato successo editoriale della scrittrice francese di Muriel Barbery (un successo in Italia dovuto principalmente al passaparola fra i lettori che avevano scoperto questo piccolo gioiello) aveva tutte le carte in regola per diventare un prodotto cinematografico appetibile, ma, al tempo stesso, sembrava quasi tradimento della delicatezza e del riserbo del libro, dei suoi personaggi, del suo stile di scrittura. Ci son voluti quasi quattro anni dall’uscita in Francia della prima edizione perché si decidesse alfine di tentare l’avventura di portare sullo schermo L’eleganza del riccio, anche se i diritti cinematografici erano stati acquistati ancora prima del grande successo editoriale. A spuntarla è stata una giovane regista esordiente, l’attrice Mona Achache (vista recentemente in Verso l’Eden di Costa-Gravas), innamoratasi del libro anche lei in tempi non sospetti, dopo aver letto, per caso, la quarta di copertina in libreria. Dopo un’iniziale apprezzamento, in seguito all’uscita del film Muriel Barbery ha pubblicamente disconosciuto il film 34 della Achache, colpevole di non rispettare lo spirito del romanzo e di averne diperso l’eleganza, non solo nel titolo che la Barbery non ha consentito di utilizzare. La Achache si appropria con rispetto ma autorità del libro e lo rielabora cinematograficamente riuscendo a evitare quelle che sono le pastoie degli adattamenti di libri francesi fatti da registi francesi, tra silenzi e malinconie trés chic, ma spesso molto di maniera. Nella sua trasposizione nessuna sottigliezza, nessuna sfumatura, nessun sussurro viene disperso né tantomeno enfatizzato, grazie a una regia intelligentemente visibile e attenta, realistica e visionaria al tempo stesso (come i disegni di Paloma che prendono vita sullo schermo). A tratti quasi favolistico, il film mantiene l’ironia di alcuni passaggi della Barbery senza dimenticare però il senso di morte che alleggiava nelle pagine del libro fino alla tragedia finale, brusca e inaspettata. Le piccole libertà traspositive che la Achache si concede non turbano affatto il senso del testo, se questo era il timore paventato dalla Barbery e dei fedelissimi del libro. Il diario cartaceo che la piccola Paloma redige quotidianamente e nel quale essa annota tutti i propri pensieri sul mondo che la circonda e sugli adulti che popolano la sua vita nel condominio di Rue de Grenelle si trasformano, nel film, in un diario visivo gra- Film Tutti i film della stagione zie a una videocamera che Paloma utilizza per osservare e scandagliare la realtà che la circonda, nella quale scopre l’eleganza nascosta della portinaia Renée. Distanti per età, educazione, condizione sociale, Paloma e Renée sono due facce della stessa medaglia, egualmente chiuse al mondo esterno grazie a una corazza fatta di pregiudizi e apparenza e tutte e due proiettate verso un’intimità fatta di libri, passione, cultura, ma, soprattutto, dialogo e ascolto reciproco. Meraviglioso il terzetto protagonista, a partire della veterana Josiane Balasko (Non tutti hanno la fortuna di avere avuto genitori comunisti, altro ritratto di donna complesso e introverso), insieme alla giovane esordiente Garance Le Guillermic e all’attore giapponese Togo Igawa (L’ultimo samurai). Chiara Cecchini GENITORI & FIGLI: AGITARE BENE PRIMA DELL´USO Italia, 2010 Regia: Giovanni Veronesi Produzione: Aurelio De Laurentiis, Luigi De Laurentiis, Luigi De Laurentiis Jr., Giulio Gallozzi per Filmauro Distribuzione: Filmauro Prima: (Roma 26-2-2010; Milano 26-2-2010) Soggetto e sceneggiatura: Giovanni Veronesi, Ugo Chiti, Andrea Agnello Direttore della fotografia: Tani Canevari Montaggio: Marco Spoletini Musiche: Andrea Guerra Scenografia: Luca Merlini Costumi: Gemma Mascagni lberto è un professore di italiano al liceo, progressista e alla mano, sposato con Rossana e padre di Gigio, un ragazzo di vent’anni. Il rapporto con quest’ultimo è molto conflittuale, in particolare quando Gigio svela ai suoi l’intenzione di presentarsi al provino del “Grande fratello”. Alberto sembra non voler assecondare il figlio nel suo desiderio di entrare nel mondo dello spettacolo, ma lo esorta invece a essere responsabile, non perdendo tempo dietro a idee futili e senza fondamento. Gigio, a sua volta, è convinto che il padre, malgrado vada in giro con la moto, faccia leggere i testi di De André a scuola e scriva su Facebook, non sia affatto “moderno”. Tra gli alunni di Alberto c’è Nina, una quattordicenne dallo sguardo disincantato, più matura, perchè in maniera intelligente riesce a distinguersi dal gruppo dei propri coetanei. A Produttori esecutivi: Maurizio Amati Aiuti regista: Edoardo Petti Trucco: Elisabetta Emidi Acconciature: Massimo Gattabrusi Supervisore effetti visivi: Giuseppe Squillaci Interpreti: Chiara Passarelli (Nina), Michele Placido (Alberto), Luciana Littizzetto (Luisa), Silvio Orlando (Gianni), Margherita Buy (Rossana), Max Tortora (Mario), Elena Sofia Ricci (Clara), Vittorio Emanuele Propizio (Patrizio), Piera Degli Esposti (Lea), Andrea Fachinetti (Gigio), Matteo Amata (Ettore) Durata: 110’ Metri: 3050 In occasione del tema dato da Alberto alla classe dal titolo: “Genitori e figli: istruzioni per l’uso”, la ragazza coglie l’occasione per aprire il suo cuore e parlare con qualcuno della sua famiglia. Sua madre, Luisa, è una caposala d’ospedale, in gamba e senza troppi scrupoli; mentre Gianni ha lasciato moglie e figli per andare a vivere su una barca. Nina ha anche un fratellino di otto anni, Ettore, che manifesta momenti di rabbia e razzismo ai danni dei suoi compagni di scuola. Entrambi i genitori hanno una relazione clandestina: Gianni con Clara, amica della moglie e Luisa con il collega Mario. Dopo aver descritto i suoi, Nina racconta di sé, delle sue amiche, della tanto attesa prima serata in discoteca, delle uscite con i ragazzi più grandi e del suo primo, goffo, innamoramento per un buffo e simpatico compagno di scuola. All’improvviso, per motivi di salute, dopo 35 vent’anni Nina incontra anche la nonna, ex giocatrice professionista di poker arrivata dal nulla e mai frequentata a causa di dissidi familiari. Alberto, leggendo il tema di Nina, viene a sapere che la ragazza conosce suo figlio e sa molte più cose lei che lui e la moglie messi insieme. Intanto la ragazza trascorre del tempo in ospedale con la nonna e sembra subito andarci d’accordo, tanto che la donna arriva a prestare alla nipotina la casa per andare a consumare la “sua prima volta”. Dopo qualche giorno, la nonna muore e Nina, il fratello e i genitori si ritrovano a trascorrere una giornata insieme sulla barca del padre. Al di là di ogni previsione, si ritrovano a scherzare e ridere in acqua come una famiglia felice. Gigio dopo essere andato via per l’ennesimo litigio, non supera il provino e ritorna a casa, ma la situazione non sembra essere cambiata. Film eronesi questa volta abbandona la struttura a episodi per raccontare un’unica storia principale, divertente e ironica, quella di Nina, una quattordicenne alle prese con i problemi familiari, la crisi adolescenziale e la scoperta dell’amore. Verrebbe spontaneo pensare che Genitori e figli: agitare bene prima dell’uso sia indirizzato alle generazioni “facebookare”, anche in base alla locandina del film. In realtà, Veronesi estende la sua visuale e prescrive un “manuale per famiglie”. Non famiglie medie o allargate come si usa oggi, ma un nucleo familiare ristretto, quello che si unisce quando un bambino di otto anni si rivela spietatamente razzista e che scoppia con la sua rovente forza negativa nelle situazioni di contrasto verbale. Della serie cambiano le tendenze, i costumi e gli oggetti di discussione, ma non i sentimenti e i valori. La voce-off della protagonista, a partire da un compito in classe di italiano, ci rende partecipi della sua vita, facendocela spiare come tanti voyeur dal buco della serratura. L’Italia che ci viene presentata è desolante e senza ideali, tutto è basato sui reality, l’immagine e gli stereotipi. Un’amarezza di fondo induce lo spettatore a una riflessione profonda che riguarda il rapporto tra generazioni diverse e tra padri e figli. Adulti e giovani alla fine si ritrovano nel film letteralmente a dare “i numeri”, in maniera casuale, piuttosto che usare la parola. Il problema di fondo sta, dunque, nella totale mancanza di comunicazione. Le proiezioni che vengono fatte dai genitori sui figli non coincidono quasi mai con le loro aspirazioni future, là dove tradizione e linguaggi moderni non vanno di pari passo. V Tutti i film della stagione Il regista non prende mai una posizione netta e lascia che i personaggi si scontrino in un conflitto senza soluzione, accarezzando temi attuali come il mondo dei reality o il sesso “take-away”. Eppure Veronesi sceglie di dare la parola a una adolescente fuori dal coro, che riesce in parte a distinguersi dai propri coetanei, e a lei affida il suo messaggio salvifico. Il microcosmo in cui vive la protagonista, infatti, si trova a metà strada tra l’adeguamento ai canoni vuoti del gruppo e quella distanza necessaria per capire le giuste regole da seguire. Nel confronto gli adulti non ne escono certo bene, spesso troppo distanti o impegnati per tenere le redini di una famiglia. Piuttosto che un modello, con le loro scappatelle segrete, rappresentano invece un esempio da condannare. Una pellicola prodotta dalla coppia De Laurentiis non poteva che esibire un cast quantomeno brillante. A costellarlo, numerosi attori italiani apprezzati del cinema come Michele Placido, Silvio Orlando, Margherita Buy, Elena Sofia Ricci e presenze note nel panorama televisivo come Luciana Littizzetto e Max Tortora, per finire con nuovi volti per la prima volta sullo schermo, come Chiara Passarelli e Andrea Fachinetti (figlio di Ornella Muti). La Littizzetto nei suoi tanti ruoli di madre, moglie e amante nevrotica è esilarante come sempre, mentre Michele Placido e Silvio Orlando si calano a perfezione nei rispettivi panni di professore alternativo e padre bambinone. Veronica Barteri MINE VAGANTI Italia, 2010 Regia: Ferzan Özpetek Produzione: Domenico Procacci per Fandango/ Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Prima: (Roma 12-3-2010; Milano 12-3-2010) Soggetto e sceneggiatura: Ferzan Özpetek, Ivan Cotroneo Direttore della fotografia: Maurizio Calvesi Montaggio: Patrizio Marone Musiche: Pasquale Catalano Scenografia: Andrea Crisanti Costumi: Alessandro Lai Supervisore alla produzione: Claudio Zampetti Organizzatore generale: Gianluca Leurini Direttore di produzione: Roberto Leone II Aiuti regista: Alberto Caviglia, Gianluca Mazzella Operatore: Luigi Andrei Suono:Marco Grillo Canzone estratta: “Sogno” (musica di Marco Giacomelli e Fabio Petrillo; testi di Ilaria Cortese e Nicoletta Strambelli in arte Patty Pravo) cantata da Patty Pravo Interpreti: Riccardo Scamarcio (Tommaso), Nicole Grimaudo (Alba), Alessandro Preziosi (Antonio, fratello di Tommaso), Lunetta Savino (Stefania, madre di Tommaso), Ennio Fantastichini (Vincenzo, padre di Tommaso), Elena Sofia Ricci (zia Luciana), Ilaria Occhini (nonna di Tommaso), Bianca Nappi (Elena, sorella di Tommaso), Daniele Pecci (Andrea), Carolina Crescentini (nonna da giovane), Massimiliano Gallo (Salvatore), Paola Minaccioni (Teresa), Emanuela Gabrieli (Giovanna), Giorgio Marchese (Nicola), Matteo Taranto (Domenico), Carmine Recano (Marco), Gianluca De Marchi (Davide), Mauro Bonaffini (Massimiliano), Gea Martire (Patrizia), Giancarlo Montigelli (Brunetti), Crescenza Guarnieri (Antonietta) Durata: 110’ Metri: 3200 36 Film ecce. Tommaso, figlio minore della famiglia Cantone, fa ritorno nella sua città natale dopo diverso tempo. Ad attenderlo c’è la sua numerosa famiglia, nota in città e proprietaria di un pastificio: la nonna ribelle e intrappolata nel ricordo di un amore perduto; la mamma Stefania, molto dipendente dalle apparenze borghesi; il padre Vincenzo, uomo all’antica; l’eccentrica zitella zia Luciana che sembra vivere in un mondo tutto suo; il fratello maggiore Antonio che, nei piani dei Cantone, deve essere affiancato da lui nella gestione dell’azienda di famiglia; la sorella Elena che aspira a un destino diverso rispetto a quello della casalinga. Tornato a casa, vorrebbe confessare alla sua famiglia che è omosessuale, che è legato a un compagno e che ha aspirazioni letterarie, ma non trova il coraggio. In città, conosce poi Alba, ragazza di buona famiglia dal carattere eccentrico, che scorrazza in città con la sua auto a velocità sostenuta. Durante una cena ufficiale organizzata per sancire il nuovo corso aziendale e alla quale partecipano anche Alba e il padre, è invece Antonio che dichiara a tutti di essere gay. Gli effetti sono devastanti: il fratello di Tommaso viene espulso dalla direzione dell’azienda e buttato fuori di casa; Vincenzo, invece, ha un collasso e viene ricoverato in ospedale. Tommaso, quindi, deve aspettare ancora per rivelare la verità e assecondare gli oneri familiari. Nel corso dei giorni, il rapporto con Alba diventa sempre più stretto e nasce tra loro un affetto sincero. Una volta, poi, che Vincenzo è stato dimesso, i Cantone devono affrontare il compito più arduo: le chiacchiere della gente. Accade così che un giorno Vincenzo va al bar con Tommaso e mette su una sceneggiata mettendosi a ridere a voce alta. Un’altra volta, invece, la madre affronta a viso aperto una donna maldicente. A complicare ulteriormente la situazione arriva il compagno di Tommaso assieme ad altri suoi amici che devono però fingere di essere eterosessuali. Tommaso sembra ormai chiuso in una via senza uscita. Ad aiutarlo c’è sempre la nonna, sua vera alleata da sempre. Che una notte decide di abbuffarsi di dolci... L Tutti i film della stagione Lecce diventa quasi come l’isola greca di Kalokairi di Mamma mia!, uno spazio chiuso dove tutto può succedere. L’arrivo dei potenziali tre padri della protagonista nel film di Phyllida Lloyd con Meryl Streep è simile, per esempio, a quello del compagno di Tommaso con i suoi amici nella casa dei Cantone, diventando potente elemento destabilizzante. Così come gli squarci in esterni nella città, o la bella scena sulla spiaggia danno, come in quell’altra pellicola, la stessa impressione di illimitata ariosità. Dopo la brutta parentesi di Un giorno perfetto, Ferzan Ozpetek torna ai temi suoi più congeniali (come quello della coesistenza nella diversità) e porta sullo schermo un’altra famiglia allargata dopo quelle, per esempio, di Le fate ignoranti e Saturno contro. Si sposta da Roma al Salento, ma mantiene stretto quel contatto fisico con i luoghi, che ha l’intensità, non solo nel modo di filmarli, ma anche di recuperarne la tradizione e la memoria, di quelli del suo film più riuscito prima di questo, La finestra di fronte. E, come in quell’opera, recupera un grande attore del cinema italiano del passato (lì Massimo Girotti, qui Ilaria Occhini, che dopo l’intensa prova di Mar nero con cui è stata premiata a Locarno come miglior attrice, mostra di saper tenere egregiamente anche il passo della commedia) e non è un caso forse che siano proprio i loro personaggi ad avere un rapporto così stretto con i dolci. La famiglia Cantone, estremizzandone il lato grottesco, potrebbe idealmente uscire da quelle di Wes Anderson. Il rapporto stretto con la terra, in questo caso la Puglia, richiama invece il miglior cinema di Rubini regista, da Tutto l’amore che c’è a L’anima gemella fino a finire a La terra. Ozpetek lascia progressivamente precipitare in un universo incantato e magico, tenendo però ben a i colori e la frenesia del musical Mine vaganti. E non dipende soltanto dalla presenza di una ricca colonna sonora che comprende brani come, per esempio, 50mila o Sogno di Patty Pravo. Ma sono proprio i movimenti dei personaggi che vengono come assorbiti da un ritmo vorticoso, da una velocità impazzita, da una follia contagiosa e sorprendentemente innaturale, dove le loro stesse parole disegnano una partitura musicale apposita. H 37 saldo il rapporto con la commedia all’italiana. E, sotto questa angolazione, Mine vaganti è il film che più gli si avvicina. Per due essenziali motivi. Il primo è la precisa caratterizzazione dei personaggi in una pellicola dal respiro corale, nella quale emergono (oltre alla bravura della Occhini) uno scatenato Ennio Fantastichini, una dolente Lunetta Savino, un’intensa Nicole Grimaudo (la figura di Alba è tra quelle più sfuggenti e affascinanti) e soprattutto Riccardo Scamarcio che conferma una crescita notevole nella capacità di saper affrontare ruoli differenti. La seconda invece riguarda lo stretto rapporto tra la vicenda e la vita di provincia. Per certi aspetti, Lecce in Mine vaganti richiama, sia pure alla lontana Treviso in Signore e signori di Germi, soprattutto nel contrasto tra ciò che avviene realmente all’interno delle famiglie e l’apparente esteriorità borghese. E la stessa figura di Alba, che si cambia le scarpe e corre con l’auto in città, può idealmente rappresentare la reincarnazione di quelle figure, quasi un rapidissimo frammento di un ‘sorpasso’ in chiave femminile. Certo, nel film ci sono anche delle forzature, come gli squarci visionari iniziali e finali, dove si sottolinea il rapporto stretto della nonna con il proprio passato. E forse è proprio questo passato che si deposita dentro il film, che è faticosamente, trattenuto e aspetta di esplodere. Qui Ozpetek da l’impressione di calcare troppo la mano, cercando di spingersi ancora oltre. Ma Mine vaganti mostra che il cinema del regista ha ripreso comunque la sua marcia in modo spedito. E anche i suoi limiti appaiono, a questo punto, lievi rispetto alla incontenibile allegria di una commedia sull’omosessualità trascinante, che diventa una festa davvero contagiosa. Simone Emiliani Film Tutti i film della stagione DONNE SENZA UOMINI (Zanan-e bedun-e mardan) Germania/Austria/Francia, 2009 Costumi: Thomas Oláh Produttore associato: Shoja Azari Line producers: Peter Hermann, Bruno Wagner Casting: Lisa Olah, Markus Schleinzer Aiuto regista: Amine Lamriki Arredatore: Shahram Karimi Interpreti: Pegah Ferydoni (Faezeh), Arita Shahrzad (Fakhri), Shabnam Tolouei (Munis), Orsi Tóth (Zarin), Navíd Akhavan (Ali), Mina Azarian (Zinat), Bijan Daneshmand (Abbas), Rahi Daneshmand ( soldato ), Salma Daneshmand ( ospite ), Tahmoures Tehrani (Sadri), Essa Zahir (Amir Khan) Durata: 95’ Metri: 2600 Regia: Shirin Neshat. Con la collaborazione di Shoja Azari Produzione: Susanne Marian per Coop99 Filmproduktion/ Essential Filmproduktion GmbH/ Société Parisienne de Production Distribuzione: BIM Prima: (Roma 12-3-2010; Milano 12-3-2010) Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur Sceneggiatura: Shirin Neshat, Shoja Azari Direttore della fotografia: Martin Gschlacht Montaggio: George Cragg, Jay Rabinowitz, Julia Wiedwald, Patrick Lambertz, Christof Schertenleib, Sam Neave Musiche: Ryuichi Sakamoto, Abbas Bakhtiari Scenografia: Katharina Wöppermann eheran, estate del 1953. In Iran è in atto una violenta contestazione contro la presenza di una petroliera inglese, colpevole di aver bloccato l’attività di una raffineria locale. Mentre la popolazione manifesta il suo dissenso marciando nelle strade, il governo caccia via i diplomatici britannici dal Paese. Le sanzioni per le importazioni dal Regno Unito gettano l’Iran in una situazione di crisi economica senza precedenti. Intanto la tensione politica e sociale sale sempre di più, fino al punto in cui si arriva a paventare perfino un imminente colpo di stato militare: gli americani (appoggiati dagli inglesi) vogliono infatti destituire il Primo Ministro democraticamente eletto, Mohammad Mossadegh, e restaurare lo Scià Reza Pahlavi al potere. Sullo sfondo di questa tumultuosa pagina di storia, quattro donne, appartenenti a classi diverse della società, tentano di ribellarsi in tutti i modi al potere maschile e di emanciparsi nella sfera privata. Quasi tutte le loro esistenze sono però segnate da un destino tragico o di sofferenza. Munis, costretta a quasi trenta anni a vivere imprigionata in una stanza e a frequentare solamente gli uomini imposti dal dispotico fratello, finisce per suicidarsi gettandosi dal tetto della sua casa. Anche l’amica Zarin, che fa la prostituta, viene ritrovata morta, in un ninfeo. Faezeh, per aver sbirciato dentro un bar viene inseguita e violentata da due sconosciuti per strada. Infine, la ricca e raffinata Fakhri, sposata con Sadi (un ufficiale dell’esercito), viene ripudiata dal marito perché non riesce a soddisfare le sue esigenze di uomo. Cerca quindi conforto in un vecchio amico Abbas, un intellettuale a cui piace contornarsi di artisti. Quando la donna organizza una festa T riceve la visita inaspettata dei militari. Questi ultimi, dopo aver perquisito tutta l’abitazione per stanare gli oppositori, si siedono al tavolo al posto degli invitati. Come se non fosse accaduto nulla, la padrona di casa si mette a cantare per i nuovi “ospiti”. distanza di quasi sessanta anni da quella sofferta vicenda tutta al femminile messa in scena dall’esordiente Sharin Neshat, la situazione in Iran non sembra aver compiuto molti passi in avanti. Ieri come oggi, purtroppo, la donna è vittima di un forte ostracismo che non conosce pietà. Lo dimostra, ad esempio, l’episodio della brutale uccisione di Neda, la giovane e bella ragazza di Teheran morta durante gli scontri tra polizia e oppositori del presidente Ahmadinejad nel giugno del 2009. Sarà per questo che negli ultimi anni, chi ha avuto la possibilità, soprattutto scrittrici e intellettuali (da Azar Nafisi a Marjane Satrapi, solo per citarne alcune), è fuggito da una realtà divenuta troppo stretta, se non addirittura asfissiante. Dalle maglie di una “censura” morale, sociale e culturale ancor prima che artistica: Munis viene minacciata dal fratello con un laconico «Se esci di casa ti taglio le gambe!», mentre Fakhri subisce l’umiliazione del marito che rivendica con la forza il diritto di prendere un’altra donna in matrimonio. Se tutto questo oggi appare possibile, negli anni Cinquanta non era neppure lontanamente immaginabile. Il silenzioso grido di dolore di queste quattro eroine ante litteram che sfidarono l’ideologia maschilista dell’Islam (nel film la separazione dei ruoli è quanto mai netta: le donne piangono nei cori, gli uomini pregano inginocchiati) è rotto da un tale senso del pudore che arriva a sfocia- A 38 re perfino nell’ossessione e nell’allucinazione. La prostituta Zarin, dopo essere scappata dai suoi clienti “senza volto”, si sfrega la pelle con la spugna al punto da farsi volutamente del male. L’autolesionismo e la conseguente scelta del suicidio (come nel caso di Munis) venivano visti all’epoca come le uniche forme di liberazione possibile da un prostrante stato di servitù. Ciò che oggi muove indignazione e porta all’aperta contestazione di un modello di (non) vita (la stessa regista si è messa a capo di un movimento chiamato “rivoluzione verde”) non è altro che l’ideale proseguimento di quelle battaglie private portate timidamente avanti dalle protagoniste di Donne senza uomini. Non a caso, il film è dedicato a tutti coloro che dal 1906 al 2009 sono morti in Iran per aver difeso la libertà, la democrazia e i diritti umani. E ancora oggi sappiamo quanto questi ultimi siano calpestati nelle società islamiche. Il messaggio lanciato coraggiosamente dalla video-artista iraniana appare insomma piuttosto chiaro, tanto che il suo monito di straordinaria attualità ha conquistato anche la giuria del Festival di Venezia 2009, che lo ha premiato con il Leone d’argento per la regia. Quello che invece lascia un po’ perplessi è il “come” viene veicolato un così nobile e appassionato messaggio che - ricordiamo - è tratto dal romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur. Le immagini, per quanto liriche e suadenti, scorrono sullo schermo con lentezza ed eccessiva macchinosità, facendo sprofondare lo spettatore in una condizione di noioso e prolungato torpore dal quale è difficile riprendersi. Lunghe ed estenuanti panoramiche su boschi rigogliosi, sovrastati da alberi giganteschi che impediscono alla luce di penetrare. E ancora Film giardini attraversati da ameni corsi d’acqua, laghetti e ninfei ben curati che rimandano a un ipotetico Eden. Il tutto prende magicamente vita, malgrado l’atmosfera mesta e luttuosa (Faezeh rinviene sottoterra il corpo di Munis ancora intatto!), grazie a una fotografia trasognante, estremamente rarefatta, quasi eterea, che non può non solleticare lo sguardo dello spettatore ed esaudire il suo piacere di assistere a un film come se si trovasse davanti a una serie di affreschi d’ispirazione bucolica. Sono molte le scene che rapiscono e, allo stesso tempo, lasciano di stucco per l’esagerato virtuosismo delle inquadrature. Fra tutte, quella del suicidio che apre e chiude la storia come a sancire la struttu- Tutti i film della stagione ra circolare di un destino irreparabile: il lancio (a lungo meditato) della donna vestita di nero dal tetto della propria casa assomiglia a un volo infinito fra le nuvole. For- se, soltanto in aria si può sperare di essere finalmente liberi. Diego Mondella LUOMO CHE VERRÀ Italia, 2009 Regia: Giorgio Diritti Produzione: Simone Bachini, Giorgio Diritti per Aranciafilm/ Rai Cinema Distribuzione: Mikado Prima: (Roma 22-1-2010; Milano 22-1-2010) Soggetto: Giorgio Diritti Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Giovanni Galavotti, Tania Pedroni Direttore della fotografia: Roberto Cimatti Montaggio: Giorgio Diritti, Paolo Marzoni Musiche: Marco Biscarini, Daniele Furlati Scenografia: Giancarlo Basili Costumi: Lia Francesca Morandini Organizzatore: Franco Pannacci Produttore associato:Tania Pedroni Direttori di produzione: Ferdinando Cocco, Franco Pannacci Aiuti regista: Francesca Lattanzi, Icaro Lorenzoni, Manuel Moruzzi Operatori: Andrea Legnani, Roberto Mezzabotta, Fabrizio Vicari Operatore Steadicam: Andrea Zoli 943/1944. La piccola Martina ha 8 anni ed è l’unica figlia di una coppia di umili contadini che vive in un paesino alle pendici di Monte Sole (una trentina di chilometri a sud di Bologna). La bambina ha smesso di parlare qualche anno prima, quando il suo fratellino è morto dopo pochi giorni di vita. La sua mamma ora è di nuovo incinta e lei trascorre le sue giornate all’aria aperta e in solitudine aspettando e sognando il “nuovo” bambino. Nel frattempo, però, l’inverno si fa sempre più difficile e la guerra mette a dura prova la resistenza della piccola comunità emiliana. La povera gente del posto si ritrova stretta tra le brigate partigiane del comandante Lupo, e i nazifascisti che avanzano ogni 1 Trucco: Amel Ben Soltane Acconciature: Daniela Tartari Supervisore effetti speciali: Paolo Galiano Coordinatore effetti speciali: Franco Galiano Supervisore effetti visivi: Stefano Marinoni Suono: Carlo Missidenti Interpreti: Maya Sansa (Lena), Alba Rohrwacher (Beniamina), Eleonora Mazzoni (signora Bugamelli), Claudio Casadio (Armando), Greta Zuccheri Montanari (Martina), Stefano “Vito” Bicocchi (signor Bugamelli), Orfeo Orlando (Il Mercante), Diego Pagotto (Pepe), Bernardo Bolognesi (partigiano Gianni), Stefano Croci (Dino), Zoello Gilli (Dante), Timo Jacobs (ufficiale medico SS), Germano Maccioni (Don Ubaldo), Taddhaeus Meilinger (capitano SS), Francesco Modugno (Antonio), Maria Grazia Naldi (Vittoria), Laura Pizzirani (Maria), Frank Schmalz (ufficiale Wehrmacht), Tom Sommerlatte (ufficiale SS), Raffaele Zabban (Don Giovanni) Durata: 117’ Metri: 3250 giorno di più. Nella notte tra il 28 e il 29 settembre del 1944 finalmente nasce il bambino e poche ore dopo le SS iniziano un rallestramento senza precedenti. Gli abitanti del paese si rifugiano in chiesa ma vengono ben presto raggiunti e fucilati dai soldati tedeschi. Questo vero e proprio eccidio, in cui persero la vita circa 770 civili (in maggioranza donne, bambini e anziani), verrà ricordata come la strage di Marzabotto, dal nome del comune a cui appartiene la maggior parte del territorio. ella trepidante attesa che nasca il fratellino, la piccola Martina fantastica sull’arrivo di qualcuno che finalmente le farà compagnia. Ma i monti emiliani, ai tempi della guerra, nascondo- N 39 no anche l’alba di un nuovo mondo. Dietro quel bellissimo ed enigmatico titolo – appunto L’uomo che verrà – è riposta probabilmente la speranza di un messia, di un salvatore che sottragga l’umanità ferita al giogo della sofferenza (la liberazione degli alleati è imminente). E forse ancora, l’auspicio di una generazione disposta a infondere valori come la pace, l’amore e la sana convivenza tra i popoli. È attraverso lo sguardo tenero e spaurito della bambina (l’esordiente Greta Zuccheri Montanari è protagonista di una prova di incredibile intensità) che assistiamo al crescente orrore di un conflitto tanto atroce quanto inspiegabile. Giorgio Diritti, alla sua opera seconda dopo il convincente Il vento fa il suo giro Film (2005), colloca la macchina da presa ad altezza di fanciullo per narrare il lento ma inesorabile avvicendarsi delle stagioni. E non solo quelle climatiche, scandite dai cicli di una natura impervia e silenziosa, come quella che fa da sfondo all’Appennino. Ma anche quelle dell’uomo. Durante quei lunghi e interminabili mesi che portano al massacro di centinaia di innocenti, un’intera comunità si compatta prima mediante la solidarietà poi attraverso l’orgoglio e la paura. Ma la violenza e l’odio infettano qualsiasi ambiente e coscienza, perfino le più incontaminate, e ci ricordano che la lotta per la sopravvivenza sposta ogni giorno di più i limiti dell’umana abiezione. Ecco allora che pure il partigiano inizialmente incapace di premere il grilletto, dinnanzi al nemico, può trasformarsi in un freddo omicida (anche di Tutti i film della stagione questo fatto di sangue è testimone impotente Martina). I germi del Male, con annessi i suoi folli e imprevedibili disegni, covano insomma anche tra le borgate e i casolari delle tranquille vallate del bolognese. Almeno quanto, circa trenta anni prima nei länder tedeschi, si consumavano i primi atti di barbarie contro la dignità della persona (vedi il Nastro bianco di Michael Haneke). Con ciò non vogliamo certo paragonare l’austera e geometrica pellicola del regista austriaco a quella di Diritti che, piuttosto, potrebbe avvicinarsi sia come genuinità di ispirazione, sia come rappresentazione di un “sacro” realismo quotidiano alla poetica di Ermanno Olmi (con cui l’autore ha collaborato al progetto Ipotesi Cinema). Il riferimento d’obbligo è L’albero degli zoccoli (1978). Ma se con questo capola- voro L’uomo che verrà condivide in parte la volontà di raccontare una porzione di civiltà rurale scomparsa che parla ancora il dialetto, vive a contatto costante con la terra, con gli animali, con le tradizioni e la fede, il confronto si esaurisce nel momento in cui tutto ciò diventa narrazione. Gesti, episodi di vita contadina e frammenti di intimità familiare vengono scrupolosamente descritti (forse con tempi fin troppo dilatati...) senza che però acquisiscano una dimensione epica, come invece avveniva nelle migliori storie olmiane. Rimangono comunque impressi nella mente le facce di questi umili lavoratori, stremate dalla fatica e dal sudore: Lena, Armando e Beniamina – come tanti altri personaggi interpretati da validissimi attori non professionisti – portano il nome rispettivamente di Maya Sansa, Claudio Casadio (al suo debutto sul grande schermo) ed Alba Rohrwacher. Questa ultima, col suo volto pittorico dal vago fascino antico, dimostra, ancora una volta, un carattere e una grazia senza pari, di cui il cinema italiano dovrebbe andar fiero. Vincitore del Gran Premio della Giuria Marco Aurelio d’Argento al IV Festival Internazionale del Film di Roma, la pellicola di Diritti costituisce senza dubbio un capitolo importante del nostro “cinema di memoria”, facendosi portatrice di una testimonianza morale che ci si augura non rimanga inascoltata. Un esempio, insomma, di tragedia civile, in cui la Storia mostra il suo lato più nefasto, senza per questo dimenticare l’umanità e la sensibilità di chi si è opposto fino all’ultimo e con coraggio alla banale e delirante logica della forza. Diego Mondella BACIAMI ANCORA Italia, 2010 Aiuto regista: Francesco Vedovati Operatore: Emiliano Leurini Operatore steadicam: Alessandro Brambilla Trucco: Alessandro Bertolazzi, Marta Roggero Acconciature: Giorgio Gregorini Suono: Gaetano Carito Interpreti: Stefano Accorsi (Carlo), Claudio Santamaria (Paolo), Pierfrancesco Favino (Marco), Vittoria Puccini (Giulia), Sabrina Impacciatore (Livia), Giorgio Pasotti (Adriano), Marco Cocci (Alberto), Daniela Piazza (Veronica), Primo Reggiani (Lorenzo), Francesca Valtorta ( Anna), Adriano Giannini (Simone), Valeria Bruni Tedeschi (Adele), Sara Girolami (Sveva), Andrea Calligari (Matteo) Durata: 140’ Metri: 3840 Regia: Gabriele Muccino Produzione: Domenico Procacci per Fandango/ Mars Distribution in collaborazione con Medusa Film Distribuzione: Medusa Prima: (Roma 29-1-2010; Milano 29-1-2010) Soggetto e sceneggiatura: Gabriele Muccino Direttore della fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Claudio Di Mauro Musiche: Lorenzo Cherubini “Jovanotti”, Paolo Buonvino Scenografia: Eugenia F. Di Napoli Costumi: Gemma Mascagni, Angelica Russo Organizzazione: Gian Luca Chiaretti Direttore di produzione: Michela Rossi Casting: Francesco Vedovati 40 Film arlo e Giulia, dopo anni di tradimenti, lotte, ma anche amore si sono separati. Giulia ha ritrovato la serenità con un nuovo compagno, mentre Carlo ha una vita sentimentale costellata da tante conquiste, ma nessuna vera relazione. Marco e sua moglie Veronica vivono un momento di crisi. La coppia cerca disperatamente un bambino che tarda ad arrivare. La frustrazione per la mancata maternità porta Veronica a svagarsi sempre di più fuori dalle mura domestiche con grande disappunto di Marco. Livia, dopo essere stata abbandonata con un figlio da Adriano, partito per il sudamerica, intraprende una relazione con Paolo. La donna dopo la cocente delusione è, però, molto cauta e non permette all’uomo di condividere la vita con lei e, soprattutto, con il suo bambino. Un giorno Adriano ritorna. Sono passati dieci anni e la rimpatriata con gli altri amici è l’occasione per condividere, come in passato, pensieri e speranze per il futuro. Carlo comprende che è ancora innamorato di Giulia. Prova in tutti i modi a riconquistarla, ma la donna impaurita cerca di allontanarlo il più possibile, fino a quando, una sera, cede e passa la notte con lui. Giulia si rende presto conto dello sbaglio e si ripromette di non cascarci più, ma rimane incinta. Nonostante gli sforzi per tenere nascosta la gravidanza, Carlo lo viene a sapere. Intanto Marco viene lasciato dalla moglie che si trasferisce a casa di un fotografo. Grazie a quest’uomo, Veronica, sembra aver ritrovato la felicità coronata anche C Tutti i film della stagione dall’arrivo di una gravidanza. Il fotografo, però, non ha nessuna intenzione di diventare padre e costringe la donna ad andare via di casa. Marco, disperato, accoglie con gioia il ritorno della moglie ed è pronto ad assumersi il ruolo di genitore del nascituro. Anche Adriano ritrova il suo senso paterno, ma Livia e suo figlio non sono pronti ad accettarlo . Durante un trasferta di lavoro, allora, incontra Adele, una giovane madre separata con dei figli e con lei inizia una felice storia d’amore. Paolo, invece, sopraffatto dagli psicofarmaci e incapace di comprendere i rifiuti di Livia, si uccide con un colpo di pistola. Gli amici distrutti dal dolore si riuniscono all’obitorio per l’ultimo saluto. Giulia, dopo il funerale, realizza cosa vuole dalla vita, lascia il compagno e corre da Marco per ricucire la loro storia. abriele Muccino, dopo la fortunata esperienza americana, ritorna a narrare emozioni nostrane con il sequel di L’ultimo bacio. A dieci anni dall’uscita nei cinema, il regista ha ancora voglia di raccontare, analizzare, quei personaggi che con la loro “immaturità generazionale” hanno, per alcuni versi, fatto da apripista a tutta una serie di dissertazioni sulla crisi d’identità dei trentenni. Muccino non poteva lasciare le cose a metà, doveva pagare il debito d’onore verso Carlo e i suoi amici che gli hanno regalato un inaspettato e, forse, eccessivo successo. Da queste premesse, o forse, da un’attenta valutazione di mercato, nasce Baciami ancora. Il treno, però, è ormai passato. G Se il regista, infatti, si è lasciato incantare dagli “ozi hollywoodiani”, i suoi personaggi non hanno perso tempo, hanno iniziato a correre come schegge impazzite alla ricerca della loro personale felicità fra carceri colombiane, droghe, pistole, letti sconosciuti...Impossibile cercare di riprenderli nel loro moto folle. La stessa macchina da presa tentenna e sobbalza, incapace di cogliere il momento e, spesso, l’emozione. A quarant’anni il peggio sembra passato, ma è solo un falso bagliore che precede l’acquazzone che si scatena sulle vite di vecchi bambini. Lo scorrere del tempo, l’esperienza, infatti, non hanno tolto l’insicurezza anzi, se possibile, hanno esacerbato le dinamiche malate del precedente episodio. Ma se nel passato c’era un velo di speranza, in questa nuova pellicola è totalmente assente, sostituito da una paura di fondo che svanisce miracolosamente in un finale rassicurante, ma forzato. Muccino ha scelto la strada più semplice, ha proposto al suo pubblico una storia familiare, conosciuta e per questo più facile da apprezzare. Ma, nel suo ritorno alle origini, si è dimenticato di infondere spessore a dei personaggi che si svuotano già alle prime battute e che, per quanto realistici, sono un po’ lontani dai quarantenni moderni. La generosa interpretazione degli attori, (Pierfrancesco Favino e Sabrina Impacciatore sicuramente i migliori), però, riesce in parte a coprire questi strappi, rendendo le due ore di spettacolo quasi accettabili. C’è di peggio! Francesca Piano MENO MALE CHE CI SEI Italia, 2009 Produttori esecutivi: Luigi Patrizi, Matteo De Laurentiis, Antonella Iovino Oraganizzatore generale: Roberto Todeschi Produttore delegato: Francesca Longardi Operatore: Emiliano Leurini Operatore steadicam: Emiliano Leurini Suono: Antonio Barba Interpreti: Claudia Gerini (Luisa), Chiara Martegiani (Allegra), Alessandro Sperduti (Gabriele), Guido Caprino (Giovanni), Teresa Mannino (Barbara), Clotilde Sabatino (Silvia), Marco Giallini (Federico), Stefania Sandrelli (nonna di Allegra), Angelo Campolo Durata: 106’ Metri: 2900 Regia: Luis Prieto Produzione: Marco Chimenz, Giovanni Stabilini, Riccardo Tozzi per Cattleya/ Focus Features International (FFI) Distribuzione: Universal Prima: (Roma 27-11-2009; Milano 27-11-2009) Soggetto: tratto dal romanzo omonimo di Maria Daniela Raineri Sceneggiatura: Maria Daniela Raineri, Federica Pontremoli Direttore della fotografia: Patrizio Patrizi Montaggio: Cecilia Zanuso Musiche: Pasquale Catalano Scenografia: Sarah Webster Costumi: Francesca Leondeff llegra, studentessa diciassettenne di un liceo di Roma, è innamorata di Gabriele ma non riesce a concretizzare ciò che desidera perchè la vita la chiama presto a ben altri A compiti: padre e madre muoiono in un incidente aereo e la lasciano sola ad abitare dai nonni in campagna. Inaspettatamente, la ragazza, grazie a uno sguardo alla posta elettronica del pa- 41 dre, scopre l’esistenza della sua amante Luisa e, spinta da improvvisa decisione, la cerca, la conosce e instaura con lei una bella amicizia. Anche Luisa è molto disponibile verso di lei, i ricordi che, in fin dei Film conti, le uniscono e le fanno decidere di vivere insieme. L’ultimo anno di scuola si rivela presto denso di avvenimenti e significati per il futuro: Allegra riesce a fare l’amore con Gabriele, ma la gelosia patologica che prova per lui la porta a interrompere più volte la storia con il ragazzo; fino a che lei si ritrova una sera in un locale, stordita dall’alcol e dalle pasticche, in balìa sessuale di alcuni amici di Gabriele. A mala pena Allegra esce viva da quella situazione e da un incidente d’auto mentre torna a casa e decide, con l’aiuto di Luisa, di spazzare via le angosce pregresse e di dedicarsi unicamente alla preparazione degli esami. Intanto Luisa ha male interpretato l’incontro con Giovanni, giornalista in carriera: il rapporto di una notte la lascia incinta e sola, poiché Giovanni, dopo avere sfruttato un momento di solitudine della stessa Allegra portandosela a letto, si trasferisce definitivamente a Parigi. È tempo per le due donne di diventare, finalmente, adulte: Allegra supera brillan- Tutti i film della stagione temente gli esami e riprende con Gabriele una storia che dovrebbe rivelarsi più matura; Luisa si tiene il suo bel bambino appena nato per condurre con lui un’esistenza più responsabile. uis Prieto, regista, proviene dalla fotografia, dal documentario, dal cortometraggio; è un figlio del suo tempo quindi e di questo e della sua interprete ufficiale, cioè la televisione, usa il codice linguistico adatto a portare sullo schermo questa storia di giovani e meno giovani che ci lascia perplessi. Non consideriamo infatti solo una scrittura che può essere capita e apprezzata da un pubblico che ha letto i libri di Moccia, ne ha visto i film tratti (Prieto ha diretto nel 2007 “Ho voglia di te”) e partecipa a incontri televisivi correnti; ma siamo convinti di avere visto, più che altro, un contenitore/frullatore dove è messo di tutto: morti e incidenti d’auto, anche il gatto dura poco, appena preso finisce bello e spiattellato sull’asfalto; scuola, amori, amoretti, amorazzi; locali da sbal- L lo, sesso, alcol e droga: insomma sorriso e pianto e, su tutto, la grande coltre della dabbenaggine e della superficialità. Tutto è assorbito, appunto frullato, dagli interpreti senza che mai diano l’impressione di percepire realmente il lato di un dramma perchè pronti a passare al successivo, nella durata di uno spot o di una apparizione televisiva. In questo modo, così, tutto si appiattisce, risulta convenzionale in un festival di banalità, nonostante non fosse male l’idea di partenza e cioè l’amicizia tra le due donne, pallido ricordo di quello che un tempo erano, nel bene e nel male gli esseri umani. Così questa povertà di espressione non agita, non produce tensione né scalda il cuore, in una configurazione arida di sentimenti e di slanci veri, una promozione televisiva, ripetiamo. Solo la Gerini é bella e vera, si batte con le unghie e con i denti per mostrare e rendere autentici la sua sofferenza e la sua felicità. Fabrizio Moresco POPIELUSZKO-NON SI PUÒ UCCIDERE LA SPERANZA (Popieluszko. Wolnosc jest w nas) Polonia, 2009 Supervisori effetti visivi: Jakub Knapik Suono: Maria Chilarecka, Tobias Fleig, Rainer Heesh Interpreti: Adam Woronowicz (Padre Jerzy Popieluszko), Zbigniew Zamachowski (Ireneusz, operaio siderurgico), Marek Frackowiak ( Padre Teofil Bogucki, parroco ), Joanna Szczepkowska (Roma), Radoslaw Pazura (Piotr), Wojciech Solarz (Florian), Krzysztof Kolberger (Padre Kanclerz), Martyna Peszko (Marysia), Agata Piotrowska Mastalerz (Pubblico Ministero), Beata Fido (Suor Krystyna), Marta Lipinska (Janina), Maciej Pietrzyk (marito di Janina), Kazinierz Kaczor (Laniecki), Joanna Jezewska (Barbara Sadowska), Jozef Glemp (se stesso) Durata: 149’ Metri: 4090 Regia: Rafal Wieczynski Produzione: Julita Swiercz Wieczynska per Focus Producers Co/Polski Instytut Sztuki Filmwej/Film Commission Regione Masovia Distribuzione: Rainieri Made SRL Prima: (Roma 19-10-2009) Soggetto e sceneggiatura: Rafal Wieczynski Direttore della fotografia: Grzegorz Kedzierski Montaggio: Marek Ciszewski Musiche: Pawel Sydor Scenografia: Andrzej Kowalczyk Costumi: Alicja Hornostaj, Adam Kocemba Arredatore: Magdalena Widelska n bambino, figlio di contadini cattolici nella povera provincia polacca del secondo dopoguerra, assiste alla nascita della Repubblica Popolare di Polonia, l’inizio ufficiale della sovietizzazione della nazione polacca. Quel bambino è Jerzy Popieluszko, futuro martire della resistenza al regime comunista. Nel 1967 Jerzy è impegnato nel servizio di leva, ma ha già scelto la sua strada: arruolato nell’unità militare per seminaristi, si distingue per i gesti di libertà contro ogni vessazione. Dieci anni più tardi, Jerzy Popieluszko è un anonimo sacerdote nella periferia di Varsavia. Nel corso della prima visita di Giovanni Paolo II in Polonia, il paese è agitato da scioperi diffusi. Alle richieste U di un gruppo di scioperanti il parroco risponde inviando il giovane prelato, che si trova così a celebrar messa in mezzo ai seguaci di Lech Walesa, capo del movimento operaio cattolico e futuro fondatore del sindacato indipendente Solidarnosc. Il sacerdote guadagna la stima degli operai e ne sposa la causa, restando al loro fianco per tutta la durata dello sciopero. Inizia in questo modo l’amicizia e lo stretto rapporto tra Popieluszko e gli operai di Varsavia. L’impegno concreto del sacerdote a difesa dei diritti dei suoi fedeli va sempre più stabilmente affiancando la cura delle loro anime. Nel 1981, la polizia “taglia la testa a Solidarnosc” arrestando i vertici del sindacato. Ai nuovi scioperi risponde l’esercito che assedia la fabbrica frequen42 tata da Popieluszko; all’assedio seguono altri arresti e infine un processo farsa. Il giovane sacerdote, ancora una volta, cerca di sostenere e consigliare gli operai coinvolti e le loro famiglie. Il convento che Popieluszko ha scelto come luogo d’incontro e di preghiera per la comunità dei suoi, diventa rifugio per i dissidenti e i perseguitati politici. La messa in onore di Maria Vergine Madre della Polonia è l’occasione per chiedere al Cielo e allo Stato la libertà (che nelle richieste formali veniva individuata nei tre punti della sospensione della legge marziale, la ricostituzione della libertà di stampa e il riconoscimento del diritto di costituire sindacati indipendenti e autonomi). Mentre cresce il numero di fedeli che si raccoglie intorno alla casa e Film alla parrocchia di Popieluszko, l’ostilità dei quadri comunisti s’inasprisce ed esplicita. Le funzioni religiose alla preghiera aggiungono ormai costantemente l’attività politica clandestina; il vescovo di Varsavia, spinto dalle crescenti pressioni della polizia, invita il sacerdote alla moderazione. Nel maggio del 1983, il figlio adolescente di una collaboratrice di Popiluszo è arrestato nel corso di una manifestazione e massacrato di botte. Il corteo che si snoda per le strade della città dietro la bara del giovane precede di appena un paio di settimane la seconda visita del Papa in Polonia. Popieluszko subisce sempre più pesantemente il controllo della polizia che ora lo segue in ogni suo spostamento. Dopo un breve periodo di riposo trascorso in clandestinità, il sacerdote pianifica un grande pellegrinaggio operaio al santuario mariano presso Czestochowa. I funzionari che lo perseguitano ottengono d’interrogare Popieluszko. Le false prove rinvenute nel corso della successiva perquisizione a casa del prete ne motivano l’arresto. Il carcere però dura poco. Dopo il rilascio, il nome di Popieluszko si ritrova in cima alla lista dei sacerdoti “indesiderati” e se da una parte l’uomo riceve il sostegno e la solidarietà di molti - tra i quali anche il Papa -, dall’altra le minacce di morte iniziano a moltiplicarsi. I suoi gli consigliano con insistenza di rifugiarsi fuori del paese, ma lui rifiuta con fermezza riuscendo a realizzare il suo progetto. A Czestochowa non ci sono incidenti, ma, poco tempo dopo, l’auto nella quale ormai Popieluszko viaggia sempre scortato da tre dei suoi più stretti collaboratori, subisce un tentativo d’attentato. Un settimana più tardi tre funzionari del ministero degli interni rapiscono il sacerdote. Dieci giorni dopo, il 30 ottobre del 1984, il ca- Tutti i film della stagione davere di Jerzy Popiluszko riemerge dalle acque della Vistola. La didascalia finale ricorda la data d’inizio del processo di beatificazione, avviato nel 1997. n tempi di caotica ripolarizzazione dei fronti ideologici, di ricerca da parte delle vecchie istituzioni di nuovi modelli forti, di nuovi miti che generino nuova adesione, di tanto in tanto qualche inconsapevole nostalgico pensa ancora al cinema come fenomeno culturale di massa. Il caso di un film biografico come questo fornisce l’occasione per alcune rapide riflessioni. Quando ci si appresta a ricostruire per il grande schermo la traiettoria biografica che ha condotto la vicenda d’un individuo qualunque a diventare storia di un personaggio eleggibile a riferimento di rilevanza pubblica sovranazionale, ci si trova davanti a un bivio: da una parte il cinema inteso come strumento di comunicazione lineare, veicolo d’informazioni schematizzate e di nozioni semplici, strumento didattico univoco e paternalistico; dall’altra il cinema come dispositivo complesso, produttore di relazioni implicite e nuove tra le cose, di relazione onesta e democratica con il pubblico, soprattutto di conoscenza delle cose attraverso la loro rappresentabilità non esaustiva. Già nel 1988 la polacca Agnieszka Holland si era confrontata con la storia del prete di Solidarnosc, realizzando, a pochi anni dall’uccisione del sacerdote, un film dalle grandi dimensioni produttive e dal notevole afflato epico/politico che sceglieva di concentrarsi su un segmento più ristretto della biografia di Popieluszko, concedendo spazio a una messa in scena più ricca. I Rafal Wieczynski - polacco anche lui, regista certo meno noto e meno esperto della collega - ritenta l’impresa a più di venti anni di distanza con meno risorse a disposizione, ma certo non senza aspirazioni altrettanto grandi. Nel complesso il film che ne vien fuori è di certo troppo lungo, anche e soprattutto per la maldestra gestione degli abbondantissimi materiali biografici scelti dal regista per la sua narrazione. Rapsodico, disperso e ripetitivo per tutta la prima metà, il racconto inizia a portare a segno qualche colpo solo nelle ultime e più concitate fasi, quelle che riprendono gli ultimi mesi della vita del protagonista. Il problema più grosso però è altrove. Rafal Wieczynski infatti non riesce a compiere una scelta netta davanti al succitato bivio. Così alla retorica ridondanza di didascalie eccessivamente e disordinatamente presenti lungo tutto il film, si oppongono scene narrative ricche d’inutili dettagli e prive delle necessarie coordinate storiche. Senza scegliere tra narrazione allusiva e simbolica e ricostruzione esatta, storicamente e politicamente avvertita, il film si accontenta di proporre la vicenda di Jerzy Popiluszko, ricostruendola in una messa in scena grossolana e per questo debole, come memoriale della resistenza che fu, come dimostrazione ideologica e superficiale del ruolo del cattolicesimo e della chiesa cattolica nell’Europa democratica del presente, come certificato di credito da esigere alla cassa dell’egemonia politica e culturale. L’ennesima occasione persa per un onesto e serio discorso sul vero ruolo della cultura cristiana in un mondo davvero democratico. Silvio Grasselli VALUTAZIONI PASTORALI Alice in Wonderland – n.c. Amante inglese (L’) – complesso / problematico An Education – consigliabile / problematico Anno Uno – futile / volgarità Baciami ancora – consigliabile / superficialità Battaglia dei tre regni (La) – consigliabile / problematico Bocca del lupo (La) – consigliabile-problematico / dibattiti Casa sulle nuvole (La) – consigliabile / problematico Concerto (Il) – consigliabile / brillante Crazy Heart – n.c. Dieci inverni – consigliabile-problematico / dibattiti Donne senza uomini – consigliabile / problematico Figlio più piccolo (Il) – consigliabile / problematico Genitori & figli: agitare bene prima dell’uso – consigliabile / superficialità Genova – consigliabile / problematico Invictus – L’invincibile – consigliabile / semplice Io & Marilyn – consigliabile / semplice Lourdes – consigliabile-problematico / dibattiti Meno male che ci sei – futile / superficialità 43 Mine vaganti – complesso / superficialità Missionario (Il) – futile / brillante Niko – Una renna per amico – n.c. Nine – consigliabile / semplice Onda (L’) – consigliabile-problematico / dibattiti Popieluszko – consigliabile / realistico Piovono polpette – consigliabile / semplice Riccio (Il) – consigliabile / problematico Single Man (A) – complesso / problematico Tra le nuvole – consigliabile / brillante Uomo che verrà (L’) – raccomandabile / problematico Videocrazy – Basta apparire – complesso-superficialità / dibattiti Film Tutti i film della stagione TUTTO FESTIVAL VENEZIA 2009 A cura di Flavio Vergerio Con il contributo di Marzia Gandolfi, Simone Emiliani, Luisa Ceretto, Silvio Grasselli I festival si giudicano a partire dalla loro capacità di promuovere la diversità e di porre all’attenzione della critica e dei massmedia il cinema di “qualità”, quel tanto (poco) che resiste all’omologazione del mercato. Per capire, in questa prospettiva, come è andata quest’anno a Venezia può essere utile rileggere l’Introduzione al Catalogo della Mostra, scritta come sempre da Marco Müller con l’ambizione di fare il punto sulla situazione della produzione nel mondo. Il Direttore insiste innanzitutto nell’affermare che il cinema oggi attraversa ed è contaminato da altre arti e altri linguaggi: “Il cinema è ormai anche altro dal cinema : un insieme di idee, forze, proprietà, capacità, miti, storie che attraversa i film (...) e che attraversa la nostra storia...”, Il cinema oggi pretende di rappresentare e analizzare la contemporaneità, affrancandosi dal passato come storia e come pratica artistica. Ma oggi, afferma Müller, gli autori più consapevoli stanno ripensando profondamente questa posizione estetica: “(...) a datare dalla fine dell’episodio postmoderno, i cineasti hanno fatto fatica a rimettersi dal trauma inconfesso che rappresenta, nonostante tutto, la rinuncia a voler cercare un’origine, rifarsi a una tradizione”. Il cinema oggi sembra volersi confrontare e reinventare il passato, utilizzando archetipi narrativi, stili, strumenti e codici diversi e purtuttavia mantenendo una profonda e intima fedeltà alla sua natura, difficile da definire, fra magia e rapporto dialettico con la realtà. La crisi economica ha forse ridotto gli spazi di creatività di cineasti “autori”, che tuttavia a Venezia, secondo Müller, sarebbero stati significativamente presenti. Il cinema che Venezia intende promuovere dovrebbe muoversi fra “emozione e conoscenza”, sottratte alla “confisca che ne fa di continuo il mondo dell’informazione-comunicazione”. Queste intenzioni teorico-programmatiche hanno dovuto confrontarsi con le possibilità reali di reperire sul mercato opere capaci di emozionarci e di produrre conoscen- za. E la raccolta è stata problematica, se non un poco deludente, specie se dobbiamo far riferimento alla selezione maggiore, il Concorso. La delusione maggiore è venuta dai quattro film italiani, di cui salverei solo l’intenso (ma convenzionale) film di Francesca Comencini e il thriller psicologico dell’esordiente Giuseppe Capotondi (che tuttavia ripete un poco prevedibilmente le regole del genere). Il puntuto e preoccupante (per l’orrore mediatico rappresentato) Videocracy di Eric Gandini purtroppo era relegato alla Settimana della Critica. Giustificato il Leone d’Oro all’israeliano Lebanon per la passione civile con cui viene denunciato l’orrore della guerra, meno il Leone d’argento a Donne senza uomini dell’iraniana Shirin Neshat, film femminista con qualche compiacimento estetizzante. Le grandi autorialità di Akin, Herzog, Solondz e Romero non aggiungevano nulla di nuovo alla loro carriera, apparendo come “belle” esercitazioni piuttosto che il frutto di una rinnovata ricerca personale. Rimandiamo a una seconda visione il giudizio su Mr. Nobody del belga Jaco Von Dormael, oggetto misterioso nel suo barocchismo eccessivo, che affronta il tema complesso delle teorie sull’origine dell’universo fra creativismo ed evoluzionismo. Discorso a parte andrebbe fatto sui film dei nostri amati Jacques Rivette e Claire Denis, considerati a torto dai più opere minori, ma che rappresentano una summa delle ossessioni tematiche e visive dei due grandi registi. Le vere opere innovative nella loro misteriosa irriducibilità provenivano, ancora una volta, dall’Estremo Oriente. Ahasin Wetei (Tra due mondi) del cingalese Vimukthi Jayasundara racconta l’infinita guerra civile dello Sri Lanka immergendola in un racconto mitico; Lola del filippino Brillante Mendoza ci immerge nel pulsare brulicante di un ghetto ove due anziane signore arrangiano i conti di un omicidio nell’indifferenza della giustizia. Altri film interessanti erano rintracciabili, ma visionabili con difficoltà per mancanza di 44 tempo, nelle altre sezioni e per questi rimando agli altri servizi. (f.v.) IL CONCORSO Tante luci e poche ombre sul cartellone della 66esima edizione del Festival di Venezia, che pur non presentando film imprevedibili, nella storia e nella messa in scena, è percorso sotto pelle da una corrente elettrica, da una voglia irrefrenabile di fare cinema e di squadernare le carte. Sorprende allora l’eleganza garbata del racconto e la perfetta orchestrazione di volti e sentimenti del debuttante Tom Ford, celebre stilista statunitense che ha rilanciato le case di moda Gucci e Yves Saint Laurent. A single man, trasposizione del romanzo omonimo di Christopher Isherwood, è impeccabile come un paio di Oxford lucidate a specchio. Sospeso dentro l’ultimo giorno di un uomo e dentro la perfezione formale del suo décor, il film di Ford è un mélo intessuto di atti mancati e infiniti (rim)pianti. Un professore inglese di letteratura perde in un incidente il compagno amato da sedici anni. Incapace di reagire al lutto e all’afflizione, riordina carte, oggetti e sentimenti e decide di togliersi la vita con un colpo di pistola dentro l’America degli anni Sessanta, minacciata da Cuba e dai suoi missili nucleari. A single man è un film di oggetti, colori, spazi, suoni, che funzionano come “luoghi” in cui le vite si incrociano e si separano, in cui il desiderio ha lavorato e continua a lavorare, raccontando dentro un frammento tutte le storie (d’amore) possibili, tutte le storie del mondo. Idealmente prossimo all’uomo solo di Ford è il protagonista di Persécution, magnifico film di Patrice Chéreau. Daniel è un giovane uomo in corso d’opera, come gli appartamenti in cui lavora in solitudine e silenzio, sviluppando un’idiosincrasia per l’assenza e affrontando il vuoto nel tentativo ostinato di trasformarlo in pieno. Dopo Gabrielle, dramma “da camera” sul “ritorno” a casa di una moglie fedifraga, il regista francese si concentra sulla vita in progress di un perse- Film guitato persecutore, dentro Parigi, a braccia aperte e spalle girate, come il suo protagonista in credito d’amore. Separarsi dalle proprie ossessioni e da una vita ideale è doloroso, ma il film di Chéreau (di)mostra che la separazione può essere (anche e addirittura) una benedizione, necessaria a riprendere la capacità di sentire e di vivere. Lasciare una persona o una casa ci pone al cospetto del sentimento della mancanza, un vuoto che contiene però l’atto creativo e generativo della (ri)costruzione di una nuova visione del domani. Orfano del mondo e della compagna è pure il padre di Viggo Mortensen lungo La strada e dietro al carrello di John Hillcoat. Trasposizione del romanzo di Cormac McCarthy, il film del regista australiano colloca la relazione padre-figlio dentro un mondo estremo, un ambiente post- apocalittico di cui non si saprà mai niente, se non le informazioni contenute nello sguardo, nel pensiero o nel sogno dei protagonisti. Viggo Mortensen, ancora una volta emotivamente aderente alla situazione drammaturgica, è un padre “sempre in campo” scandito da urgenza e dolcezza, è un genitore che si racconta, evocando nei flashback “ a colori” momenti intensi di vita “navigata”, è ancora fonte di (in)formazione e conoscenza per quel figlio che trasforma nell’epilogo da oggetto passivo di “cure” a soggetto emancipato, avanzato, civilizzato. Un figlio che si ingigantisce nella sua presenza e dentro l’ultimo primo piano che lascia fuori campo l’America, un mondo dove gli spietati sopravvivono ma dove si può (ancora) scegliere di abbandonare la vita o di restare in vita. A scampare la morte provano anche i quattro giovani soldati di Lebanon, arruolati nelle Forze Armate israeliane durante la Prima Guerra del Libano. Vincitore del Leone d’oro, il film di Samuel Maoz riesce a mantenersi in equilibrio, a governare l’orizzonte del discorso e l’inferno della sua messa in scena, l’alto e il basso, la battaglia e l’annientamento umano. Claustrofobico e trincerato Lebanon guarda alla guerra attraverso il mirino-obiettivo di un artigliere che, idealmente prossimo al Piero di De Andrè e al tenente Ottolenghi di Lussu (e Rosi), rifiuta in lacrime e indisciplinato di uccidere e di uccidersi. Come gli idealismi, gli ufficiali nel film servono a “cacciare innanzi i soldati”, lasciati morire da una nazione assediata e in crisi nonostante la promessa che nessuno sarebbe stato abbandonato. Il film dell’esordiente regista israeliano impone un’ulteriore riflessione sulla politica d’Israele e sulle conseguenze che questa ha sul suo stesso tessuto sociale ma riapre anche il discorso sui soldati e sulla quotidianità del fronte. Maoz carica un carro armato di esplosivo e giovani militari con molta paura e poco esperienza, rapportando un dramma collettivo alla coscienza individuale e mostrando l’impossibilità di sfuggire alle responsabilità, sia che si appartenga al fronte di guer- Tutti i film della stagione ra, sia che si assista al conflitto dalle retrovie. Dentro e fuori dal corazzato, a pagare il prezzo della costante aggressione nei confronti del mondo sono i civili dei Paesi aggrediti e i suoi stessi soldati, prima educati ai principi della democrazia e poi mandati a combattere sul piano e sul “campo” dell’ingiustizia. Samuel Maoz sceglie un punto di vista inedito e “intestino” pur restando ancorato alle forme del genere, war movie e impegno civile, giocando sulla recitazione di attori formidabili, sui loro volti e sui loro corpi, veicoli di emozioni e di un deragliamento emotivo progressivo. Quattro uomini in guerra in Libano e quattro donne in campo nella Tehran degli anni Cinquanta, dove provano a sopravvivere come possono ai loro destini tragici e determinati (da padri e fratelli). Trasposizione (sur)realista e magica del romanzo omonimo di Shahrnush Parsipur, Donne senza uomini segna il debutto alla regia di Shirin Neshat, intensa e sensibile artista iraniana che ha scelto di vivere e lavorare in America. Il film presenta una costruzione circolare per cui tutto torna inevitabilmente allo stesso punto e nulla si modifica davvero. Il cerchio è creato dai vari segmenti narrativi: quattro donne, quattro storie di isolamento e di esclusione che si intrecciano attraverso gli spostamenti delle protagoniste, agitate tanto e inutilmente per ritornare nel buio da dove venivano. Munis, Faezeh, Fakhiri e Zarin si muovono in un cerchio limitato dagli uomini e la lunghezza del loro raggio d’azione è determinata dalla cultura iraniana. Soffocate in una struttura chiusa, perfetta e senza vita dalla crudeltà dello sguardo maschile, le donne senza uomini di Shirin Neshat sono private di ogni diritto e non hanno diritto alla felicità. Niente speranza e niente abbandono, è impossibile lasciarsi andare per chi è costretto a essere sempre vigile, prudente e misurato. Donne senza uomini è spasmodico nella ricerca formale che vorrebbe illustrare l’oppressione, renderla intollerabile, rimbalzarci contro e rialzarsi. Perdonati e perdonabili alcuni momenti di autocompiacimento, l’opera prima della Neshat apre e chiude lo sguardo su un mondo cristallizzato dove l’uomo occupa fisicamente e politicamente ogni spazio e dove le donne hanno solo gli sguardi per narrare le loro (non) vite. Debutti e cinema d’autore convivono in perfetto equilibrio sulla laguna veneziana. Quello che resta sul fondo è il cinema italiano, “doppie ore” e “grandi sogni” da dimenticare, eccetto Lo spazio bianco di Francesca Comencini, abitato da una single woman, la mamma “in attesa” di Margherita Buy. Trasposizione viva e necessaria del romanzo omonimo di Valeria Parrella, Lo spazio bianco è il luogo fisico e la condizione emotiva in cui è costretta la protagonista, mamma di una bimba nata prematuramente da una relazione occasionale. Francesca Comencini, madre e autrice, si muove sensibile sul limitare della 45 soglia che separa la vita e la morte, sapendo, come la sua puerpera, che è già (e non ancora) troppo tardi per quella creatura obbligata all’incubatrice e costretta alla lotta (per la vita). Fuori dallo spazio bianco la vita scorre e corre Napoli e l’inarrestabile continuità del reale. Dentro il reparto prematuri, Maria “accompagna” la sua bambina “incompiuta” fino alla fine della gravidanza, patendo la distanza a cui è sottoposta e il distacco che la allontana dalla realtà. . Una riflessione intelligente su cosa comporti oggi il vissuto della maternità, una possibile via per raccontare la consapevolezza e la complessità del materno ma soprattutto la ricaduta sociale della gravidanza sulle donne. Trascurabile pure la Sicilia di Tornatore che debuttò nel suo ideale (e blasonato) Nuovo cinema Paradiso, si incarnò nell’uomo delle stelle e nelle curve morbide (e vagheggiate) di Maléna fino a infilare la “porta del vento” e un secolo di storia di e in Baarìa, un film e un paese abitati da un modesto pecoraio che alleva figli, fantasticando di armi e cavalieri. Dopo la parentesi sconosciuta, una combinazione di melodramma, fiaba e mistero, Tornatore (ri)torna in Sicilia e gira un film epico, ovvero la dimensione congeniale a tutto il suo cinema. Con Baarìà il regista siciliano riprende a fare il cinema evocativo e nostalgico, pieno di dolly e carrelli, note e personaggi, corse e voli, didascalismi e certezze impossibili da riempire con la fantasia. Perché Baarìa sfrutta con grande abilità artigianale tutti i più classici stereotipi del genere. Niente sorprese, nessuno spaesamento, nessuna fatica, puro piacere di riconoscere il già (leggendario) noto. Dunque imbellire, eufemizzare, monumentalizzare la Sicilia fino a renderla immediatamente inconsistente e intelligibile agli americani e ai ministri della cultura, con la sua trama “bella”, perché epica, perché romanzesca. Baarìà non legge la realtà sotto la scorza, la rende piuttosto più morbida e inafferrabile, coperta dalla vernice degli stereotipi e dai temi musicali di Ennio Morricone. Marzia Gandolfi FUORI CONCORSO C’è una significativa presenza del cinema statunitense nelle pellicole presentate fuori concorso al 66° Festival di Venezia. Tre nomi soprattutto erano di forte richiamo (Joe Dante, Steven Soderbergh, Oliver Stone), un altro (Antoine Fuqua) è conosciuto soprattutto come regista di film d’azione e l’ultimo (Grant Heslow), che ha alle spalle una carriera come attore e si è messo in luce come sceneggiatore di Good Night and Good Luck di Clooney, è alla sua opera prima. Tra questi, non va dimenticata la trasferta italiana del newyorkese Abel Ferrara con Napoli Napoli Film Napoli. A festival concluso, il film migliore del gruppo è Brooklyn’s Finest di Fuqua che vede protagonisti tra agenti del 65° distretto (Richard Gere, Don Cheadle, Ethan Hawke) in lotta con i propri demoni. Il regista ritrova l’intensità dell’ottimo Training Day (2001) costruendo un poliziesco intenso e serrato dove la metropoli rappresenta uno sfondo decisivo come in alcuni imprenscindibili cult degli anni ’70 come Il braccio violento della legge (1971) di Friedkin e Serpico (1973). Non delude affatto le attese Joe Dante con The Hole, un thriller in 3D, che riesce a creare una potentissima tensione attraverso un elemento fondamentale, il buco di un seminterrato trovato da due fratelli che si sono trasferiti nella nuova abitazione assieme alla loro vicina di casa. Dante guarda con nostalgia al B-movie e questo film richiama l’intensità di Piraña (1978) con quell’ipnotismo proprio della visione cinematografica di Matinée (1993). Attrae, pur nella sua discontinuità, The Men Who Stare at Goats di Grant Heslov, tratto dal romanzo di Jon Ronson, in cui un reporter, reduce dal fallimento del suo matrimonio, si unisce ad una forza speciale dell’esercito militare (il New Earth Army) e a un suo enigmatico operatore che utilizza poteri paranormali per sconfiggere i nemici. Si tratta di un’operazione folle e scatenata, alla quale bisogna completamente lasciarsi andare più con l’istinto che con la testa, piena di momenti riusciti (i due protagonisti con l’auto riescono a prendere l’unico sasso nel deserto) e dove in mezzo a un bel cast (George Clooney, Ewan McGregor, Kevin Spacey) spicca uno straordinario Jeff Bridges. A lasciare perplessi è invece il troppo acclamato The Informant! di Steven Soderbergh su un biochimico (Matt Damon) che decide di collaborare con l’FBI e testimoniare contro la multinazionale per cui lavora. Il regista statunitense, paradossalmente, sembra a più agio con un cinema narrativo (il dittico di Che, Erin Brockovich) piuttosto che con questa compiaciuta sperimentazione finto indipendente di esibita autorialità. Lo stesso Abel Ferrara, con Napoli Napoli Napoli, malgrado la decisiva collaborazione dell’ex-detenuto Gaetano Di Vaio, filma una realtà presente ma distante dal suo sguardo, dove a una corretta parte documentaria s’intrecciano frammenti di fiction molto forzati nei quali si sente il meccanismo della rappresentazione ma non scorre il sangue, quello che invece permea i suoi – quelli si – personalissimi e sofferti noir statunitensi. Oliver Stone infine, con South of the Border, realizza un documentario in cui riflette ancora una volta sulla manipolazione della stampa. Nel gennaio 2009 parte per il Venezuela per intervistare il presidente Hugo Chávez e da lì il viaggio prosegue per parlare con gli altri sei presidenti del continente sudamericano. La tesi è chiara, l’indagine è propria dei film d’inchiesta ma il regista alla fine, per convincere della sua teoria, Tutti i film della stagione utilizza visivamente e dialetticamente dei mezzi simili a quelli del suo principale bersaglio, cioè i mass-media americani. I film fuori competizione hanno attraversato altre aree geografiche oltre a quella statunitense. L’Italia è stata presente con L’oro di Cuba di Giuliano Montaldo, che approfondisce i momenti più importanti della storia cubana a 50 anni dalla rivoluzione e Le ombre rosse, di Francesco Maselli, compiaciuto opera politica piena di metafore sul presente che è l’esempio di un cinema vecchio ormai di 30 anni e incapace di guardare davvero la realtà del paese, sbirciato solo attraverso le finestre dei salotti borghesi dove si ritiene che lì si produca la vera cultura. Di produzione italiana anche il documentario Prove per una tragedia siciliana di Roman Paska e John Turturro dove l’attore italo-americano torna nella terra dei nonni materni, la Sicilia appunto, per recuperare le proprie origini. Restano poi più gli effetti visivi e sonori piuttosto che una consapevole riflessione sull’horror in Rec 2 degli spagnoli Jaume Balaguerò e Paco Plaza, realizzato a due anni del primo Rec e che riparte proprio da lì, da quel palazzo condominio e popolato da strani episodi. Altre produzioni sono state infine presenti in questa sezione come la Cina (Chengdu wo ai ni di Fruit Chan e Cui Jian), l’India (DEV. D e Gulaal di Anurag Kashyap, Delhi – 6 di Rakeysh Omprakash Mehra), l’Egitto (Ehky ya Shahrazad di Yousry Nasrallah), la Danimarca (Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn) e il Giappone (il cartoon Yonayona pengin di Rintaro). Simone Emiliani GIORNATE DEGLI AUTORI La sezione collaterale Giornate degli autori, giunta alla sua sesta edizione, vuole essere la libera espressione della produzione indipendente, in qualche modo sul modello della Quinzaine des réalisateurs di Cannes e come tale è diventata anche e soprattutto terreno di confronto sui problemi di finanziamento, produzione e distribuzione del cinema italiano. Quest’anno nei dibattiti aperti si è tenuto vivo il problema dei tagli al FUS, il diritto d’autore e la pirateria informatica, la salvaguardia e la conoscenza del patrimonio storico del cinema italiano (il progetto “Cento film”). La selezione presentava 14 film lungometraggi narrativi, 4 documentari e 5 corti, oltre ad alcuni eventi speciali (rivisitazione della copia restaurata de I magliari, uno dei film meno visti di Francesco Rosi, un omaggio alla spiritosa cartoonist lettone Signe Baumane). I lungometraggi presentavano un panorama (soprattutto) europeo senza particolari clamori e originalità linguistiche, ma solidamente ancorato al tempo e alla società presenti, spesso con sincerità di accenti e sicurezza narra- 46 tiva. Un cinema privo di bellurie approntate per il pubblico labile e un poco snob dei festival, ma per una programmazione in sale ancora frequentate da spettatori capaci di curiosità e partecipazione civile. Su tutti si imponeva Honeymons del serbo Goran Paskaljevic, autore dell’indimenticabile La polveriera (1998), una sorta di anti-Kusturica per la sua posizione antinazionalista ed europeista. Due giovani coppie, una albanese, l’altra serba, si lasciano alle spalle un retaggio di odi etnici che si manifestano ancora in cerimonie nuziali in cui i padri covano violenza e desideri di vendetta. Tentano di emigrare in altri Paesi europei, l’una verso l’Ungheria, l’altra verso l’Italia, ma incontreranno alle frontiere ottusità burocratiche, razzismo sotterraneo e manifesto, pregiudizi culturali. Paskaljevic ci immerge in un’atmosfera kafkiana disperante, in una terra di nessuno fatta di squallide stazioni ferroviarie e di fatiscenti centri di “accoglienza” ove la nostra fiducia nell’integrazione fra i popoli europei viene messa a dura prova. Cella 211 dello spagnolo Daniel Monzon è un solido e angoscioso film carcerario che riscrive molte regole del genere. Un giovane poliziotto nei suoi primi giorni di servizio si trova, per un incidente, fra i detenuti in rivolta in una prigione di massima sicurezza in cui dettano legge uomini dell’ETA e ergastolani pluriomicidi. La coinvolgente successione degli avvenimenti sconvolge giudizi morali e ruoli sociali dei personaggi. Il film diventa progressivamente una riflessione sul potere e sul significato politico della struttura penitenziaria. Anche L’orda dei giovani francesi Yannick Dahan e Benjamin Rocher, dietro le apparenze dell’horror-film, costituisce un efficace invito a riflettere sul rapporto problematico fra le “forze dell’ordine” (qui costituito da un gruppo di poliziotti corrotti) e una banda di pericolosi delinquenti. Il conflitto non nasce dalla volontà di affermare la giustizia, ma di vendicare un collega assassinato. Lo scenario viene sconvolto e problematizzato da masse di morti-viventi che si scatenano contro poliziotti e delinquenti, che sono costretti a fare fronte comune, in un equilibrio problematico che irride ogni regole di civile convivenza. Il film è caratterizzato dalla messa in scena di un cupo eccesso di effettacci grandguignoleschi, corrispettivo formale di una posizione “politicamente scorretta”. Più prevedibile, ma comunque utile e lodevole, la denuncia della terribile pratica dell’infubulazione attuata ai danni di milioni di donne musulmane, proposta da Desert Flower dell’americana di origine tedesca Sherry Horman. Si tratta della “storia vera” della modella somala Waris Dirie, fuggita dal suo paese per non subire un matrimonio imposto dalla famiglia. Dopo penose peripezie la donna, divenuta famosa nella swinging London, si trova in- Film trappolata nel suo nuovo ruolo di donna-immagine, corpo comunque da “vendere”, sia pure simbolicamente. Il suo riscatto avviene solo quando decide di farsi portavoce della voce di dolore delle sue invisibili compagne di sventura. Cinema “buonista” fatto per anime belle, si dirà, eppure dotato di autentica forza civile e capace di coinvolgerci nella irrisolvibile “doppiezza” della protagonista. La selezione proponeva un gruppo di film dedicati al rapporto problematico fra genitori e figli. Il più pregnante mi è apparso Je suis heureux que ma mère soit vivante di Claude e Nathan Miller, amaro ritratto di un ventenne adottato, alla disperata ricerca della vera madre. Ricerca terapeutica perché il disagio psichico si risolve solo quando la ritrova, scopre con orrore che la donna non ha alcuno spessore umano e tenta di ucciderla. Nel teso e angosciante Apan (L’ape) dello svedese Jesper Gamslandt è il padre, un istruttore di scuola guida, a tentare inutilmente di elaborare il lutto per la morte del figlio, che lui stesso ha procurato accidentalmente. Difficile impresa, una scommessa vinta, appare Francia dell’argentino Adrian Caetano, ove una bambina handicappata psichica osserva con dolore e acutezza di sguardo i genitori separati in casa. Documentari e corti testimoniavano l’esistenza di territori inesplorati in cui il cinema-industria raramente si addentra e che pervicacemente invece autori di ricerca si ostinano a percorrere, anche solo per ottenere una programmazione alternativa o un passaggio televisivo in terza serata su canali tematici. E’ il caso di L’amore e basta di Stefano Consiglio, un efficace montaggio di interviste a coppie gay che descrivono i problemi di convivenza quotidiana, i rapporti psicologici, insomma la “normalità” della condizione di vita omosessuale piuttosto che la solita ricerca di pruderies o la denuncia delle immancabili violenze e censure di una società perbenista. Flavio Vergerio SETTIMANA DELLA CRITICA Anche quest’anno la Settimana della Critica ha presentato un nutrito programma di opere di cineasti emergenti, riconfermando l’attenzione verso l’espressione autoriale, non commerciale. Per la ventiquattresima edizione, il premio è stato assegnato al film iraniano Tehroun (Tehran, Francia 2009) di Nader T. Homayoun, il cui impianto narrativo poggia su un linguaggio asciutto, essenziale, quasi una sorta di pedinamento zavattiniano. Un uomo vaga per le strade della capitale con un bimbo in braccio, “preso in affitto”, e chiede l’elemosina. Ai passanti, per impietosirli, racconta di aver perso la moglie e di chiedere un aiuto per poter sfamare il figlio. Tutti i film della stagione Ma un giorno, il piccolo viene rapito da una donna e per il protagonista ha inizio un viaggio negli inferi, in quella città tentacolare che è Teheran, chiamata, in dialetto, Tehroun. Nato e formatosi in Francia, Homayoun fa ritorno in Iran per girare un’opera dura ma convincente, che restituisce un’immagine ben lontana dal lirismo di certi capolavori iraniani, pensiamo a Bashu di Bahram Beizai o ancora a Il corridore di Amir Naderi. Pellicole dove l’infanzia costituiva il nucleo narrativo, dove era presente una speranza, una visione positiva. In Tehroun, invece, l’infanzia è negata, anzi, sfruttata e il ritratto che ne esce è quello di una società che non fa distinzioni di età. Un universo privo di colore, buio, sotterraneo, che si muove tra prostituzione, traffico di bambini e strozzinaggio. Dallo sguardo severo sulle contraddizioni dell’Iran contemporaneo, al lirismo della pellicola coreana sui moti del cuore. Con Cafè Noir (Corea, 2007, 197’) il critico Jung Sungli esordisce nella regia, con un’opera di centonovantasette minuti, densa di richiami e di citazioni letterarie. Si tratta di una singolare e riuscita trasposizione di due capolavori della letturatura mondiale, I dolori del giovane Werther di Goethe e Le notti bianche di Dostoevskij. La pellicola è divisa in due parti: nella prima, il protagonista è un professore che vaga per le strade di Seul, nel tentativo disperato di riconquistare il cuore della sua amata, una donna sposata e giovane madre. A sua volta l’uomo è amato da una collega di scuola, di cui ignora le attenzioni. Nella seconda parte il protagonista incontra, del tutto casualmente, una ragazza, la quale gli racconta le sue disavventure amorose, non prima di essersi fatta promettere che l’uomo non si innamori di lei, ma che, al contrario, prometta amore fraterno. Una struttura narrativa inconsueta, che nel trarre linfa vitale dai due romanzi non dimentica, sul piano linguistico, citazioni cinematografiche, prime fra tutte le pellicole del “collega”, Park Chan-Wook. Se alcune scene suscitano, quasi involontariamente, ilarità amara, non è da meno, la “commedia” diretta dallo svedese Jörgen Bergmark, che sin dal titolo evoca un ossimoro, il tentativo di costituire un manuale di istruzioni per l’uso, quando è fin troppo evidente che si tratti di una situazione contraddittoria che non ha risoluzione, gestire razionalmente i sentimenti. Firmata da Jörgen Bergmark, co-sceneggiatore di Kitchen Stories del norvegese Bent Hamer, Una soluzione razionale (Det enda rationella, Germania/Svezia, 2009, 104’) è un insolito esperimento che ha per protagonisti due coppie. Erland lavora nella cartiera di una cittadina industriale insieme al suo miglior amico, Sven-Erik. Nel tempo libero dirige, con sua 47 moglie May, una scuola matrimoniale, che consiste in un gruppo di discussione serale presso la locale Chiesa Pentecostale. Ad una festa Erland conosce Karin, la donna che Sven-Erik ha appena sposato, e ne è subito attratto. Tra i due nasce una relazione ed Erland elabora una soluzione razionale per risolvere la questione. Tutti e quattro devono sedersi attorno ad un tavolo, per esaminare con calma la situazione. Ma se a parole una risoluzione al problema sembra fattibile, l’esperimento, messo in pratica, li metterà a dura prova. Un film svedese, di bergmaniana memoria, girato in stile Dogma, che ha il suo punto di forza nell’interpretazione eccellente dei suoi attori. Allieva del Famu, la celebre scuola di cinema praghese, dove si sono diplomati alcuni tra i più famosi autori del Nova Vlna, il nuovo cinema cecoslovacco degli anni Sessanta, Mira Fornay esordisce con Volpi (Lištièky, Repubblica Ceca, Slovacchia, Irlanda, 2009, 83’). Alzbeta e Martina sono due sorelle slovacche emigrate a Dublino. Martina cerca di aiutare la sorella minore a trovare una sistemazione nella capitale irlandese nella speranza che, come lei, riesca ad integrarsi. Al contrario, Alzbeta, sembra incapace di trovare un equilibrio, una stabilità, insofferente verso la sorella e verso tutti i propri conterranei. Un amore/odio che lega in maniera indissolubile le due giovani donne in un gioco al massacro, dove riaffiorano ombre di un passato doloroso fin troppo a lungo taciuto e rimosso. La mdp si muove in uno spazio urbano notturno, poco ospitale e infestato da animali selvatici che attaccano bidoni della spazzatura alla ricerca disperata di cibo; sono le volpi del titolo del film, che restituiscono egregiamente la sensazione di precarietà, di rifiuto e di solitidune di cui è pervasa la pellicola. Luisa Ceretto ORIZZONTI La sezione Orizzonti dovrebbe, per suo stesso statuto, proporre esempi di ricerca e di sperimentazione, dovrebbe insomma rappresentare lo spazio più “sperimentale” della mostra veneziana. Nell’anno in cui forse sono mancate grandi illuminazioni, alcuni dei film migliori dell’intero festival si sono visti proprio in Orizzonti. A cominciare dalle conferme di grandi nomi come Wiseman, Sokurov, Greenaway. Del primo abbiamo visto La Danse. Le Ballet de L’Opèra de Paris, lungometraggio documentario che osserva e ricompone il lavoro nascosto dietro la rinomata tradizione di spettacoli e performance di una delle più prestigiose compagnie e scuole di ballo al mondo. Senza il consueto gusto per lo svelamento degli scricchiolanti ingranaggi dell’Istituzio- Film ne, Wiseman si mette a osservare ballerini e dirigenti, insegnanti e matricole alternando alle scene di lavoro quotidiano stralci dagli spettacoli messi in scena dalla compagnia. Di Aleksadr Sokurov invece Venezia ha mostrato Citaem blokadnuju knigu - Reading Book of Blockade, un film prodotto e realizzato in occasione della messa in onda di un reading organizzato per la radio nazionale in coincidenza con l’anniversario dell’assedio di San Pietroburgo, episodio tra i più traumatici nella storia della Russia Sovietica. Nonostante l’impianto sia ridotto al minimo – e forse proprio in grazia di questa scelta – le parole tratte dall’omonimo testo di Granin e Adamovich che, nella metà degli anni Sessanta raccolsero e riscrissero i diari dei superstiti, si animano e dispiegano la loro dirompente carica narrativa. The Marriage segna una tappa ulteriore nel viaggio di studio, scoperta e divulgazione che Greenaway ha intrapreso da qualche anno ormai, proponendosi di ri-visitare nove dipinti tra i più celebri e rappresentativi dell’iconografia pittorica occidentale e che dovrebbe avere termine tra non molto con la video performance dedicata alla Cappella Sistina, in San Pietro, a Roma. Come nella vecchia lanterna magica, Greenaway accompagna la proiezione in presenza, alternando la propria spiegazione narrativa proferita dal palco accanto alla schermo, a brevi brani video nei quali Le nozze di Cana del Veronese viene attraversato e percorso da fasci di luci Tutti i film della stagione vistosamente artificiale, bagliori, tagli luminosi dal forte sapore atmosferico. Nessuno dei tre film sarà ricordato negli annali. E se in nessuno sembra esserci l’affondo del discorso di uno dei tre grandi autori, d’altra parte tutti e tre sono discreti esempi, dimostrazioni pratiche, testimonianze di laboratorio di come tre autori grandi per merito e per anagrafe vogliano e sappiano confrontarsi con le sempre più vaste possibilità offerte dal cinema digitale: per Wiseman la possibilità di girare di più e più comodamente, per Sokurov forse quella di inseguire ancora una volta le misure e l’indentità del cinema anche quando sembra essere un’altra cosa; per Greenaway la potenza creativa, l’opportunità di dare piena concretezza alle sue geniali e onanistiche immaginazioni vagamente eretiche. Altri film hanno punteggiato il programma della sezione; film piccoli ma pieni di cose preziose. Come Paradiso, esordio nel lungometraggio di finzione per il documentarista, direttore della fotografia e sceneggiatore Hector Galvez. Una ben misurata mescola di commedia e di dramma, di gag e azioni violente, tra la disperata speranza dei ragazzi e la rigida rassegnazione degli adulti che vivono a pochi chilometri da Lima, sbattuti in una baraccopoli in mezzo alla polverosa e desolata Val Paraiso. Per avere una prova ulteriore che dalla lezione del documentario possono venire grandi ottenimenti anche per il cinema di messa in scena è sufficiente scoprire la perfetta gestione che Galvez riesce a mantenere nella regolazione della distanza tra m.d.p. e personaggio, sempre trovando la giusta soluzione, sempre stabilendo la giusta relazione tra obiettivo o profilmico. E di buon cinema documentario se ne è visto parecchio. Pensiamo soprattutto al giovane tedesco Romuald Karmakar che in Orizzonti ha portato il suo inusitato lungometraggio su uno dei più apprezzati e discussi dj del mondo, Ricardo Villalobos. Quello che inizialmente sembra limitarsi a essere ritratto un po’ noioso d’un solido professionista della musica diventa lentamente un vitalistico affresco sulla sessualità, la tecnologia, l’arte e l’industria, sul gusto di un’epoca e di una società. Villalobos armeggia nel suo studio, circondato da macchinari bizzarri e misteriosi, tra pile di dischi e buffe casse acustiche; poi Karmakar lo segue in discoteca, durante alcune delle sue performance live. Dai racconti su un sintetizzatore analogico e modulare a quelli sulle origini africane del rito della danza a base binaria e comunitaria, dai fili sottili tesi a legare insieme arte, gioco, produzione e performance seriale agli esperimenti d’ibridazioni sonore il film trascorre impercettibilmente dal cine-ritratto al film saggio, riuscendo a compiere la parabola del proprio discorso anche grazie a un acuto uso dell’understatement cinematografico. Silvio Grasselli IL RAGAZZO SELVAGGIO è l’unica rivista in Italia che si occupa di educazione all’immagine e agli strumenti audiovisivi nella scuola. Il suo spazio d’intervento copre ogni esperienza e ogni realtà che va dalla scuola materna alla scuola media superiore. È un sussidio validissimo per insegnanti e alunni interessati all’uso pedagogico degli strumenti della comunicazione di massa: cinema, fotografia, televisione, computer. In ogni numero saggi, esperienze didattiche, schede analitiche dei film particolarmente significativi per i diversi gradi di istruzione, recensioni librarie e corrispondenze dell’estero. Il costo dell’abbonamento annuale è di euro 25,00 - periodicità bimestrale. SCRI VERE di Cinema direttore Carlo Tagliabue SCRIVERE DI CINEMA Ogni anno nel nostro paese escono più libri riguardanti il cinema che film. È un dato curioso che rivela l’esistenza di un mercato potenziale di lettori particolarmente interessati alla cultura cinematografica. ScriverediCinema, rivista trimestrale di informazione sull’editoria cinematografica, offre la possibilità di essere informati e aggiornati in questo importante settore, segnalando in maniera esaustiva tutti i libri di argomento cinematografico che escono nel corso dell’anno. La rivista viene inviata gratuitamente a chiunque ne faccia richiesta al Centro Studi Cinematografici, Via Gregorio VII, 6 - 00165 Roma Telefono e Fax: 06.6382605. e-mail: [email protected] 48
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