l`articolo - Legambiente Pisa
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CON LE MONDE DIPLOMATIQUE + EURO 1,50 SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/ BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158 ANNO XLIII . N. 12 . MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 EURO 1,50 SINISTRA La linea Monti Le buone ragioni di Rivoluzione Civile Alberto Burgio Il premier inaugura la nuova stazione del Tav Torino-Lione tra gli scontri. Poi va a tutta velocità contro il «pifferaio» di Arcore «che incanta i topini» sulle tasse: «Berlusconi una volta l’ho votato anch’io ma ormai è solo un illusionista ringalluzzito» PAGINE 2, 3, 4 SENATO Bersani chiede il disarmo unilaterale agli arancioni Intervistato dal Washington Post, Pierluigi Bersani si dice pronto «a firmare un patto» con Monti, dopo le elezioni, per «riformare e ricostruire il paese». Dal movimento Rivoluzione civile guidato da Antonio Ingroia il Pd si aspetta invece «collaborazione» nelle regioni chiave - Lombardia, Campania e Sicilia - per evitare di perdere la maggioranza in senato. In sostanza, il ritiro «unilaterale» delle liste «arancioni» almeno in due regioni. Altrimenti ripartirà l’offensiva sul «voto utile». Cauto il magistrato candidato premier: «Desistenza? Prematuro parlarne». |PAGINA 2 LAVORO «Un milione di nuovi posti» Il piano Cgil per la sinistra «Un milione di posti di lavoro nei prossimi tre anni». La Cgil è pronta a svelare il suo nuovo «Piano per il lavoro» a una kermesse che si terrà a Roma il 25 e 26 gennaio: invitati a parlare dal palco il segretario del Pd Pierluigi Bersani e il leader di Sel Nichi Vendola. Una sorta di «endorsement» ufficiale al prossimo (almeno auspicato) governo di centrosinistra. Il piano dovrebbe essere finanziato con 80 miliardi di euro da qui al 2015, recuperati da una patrimoniale sui ricchi e un fisco più equo: detassando dipendenti e pensionati. Ripartirebbe subito anche il Pil. |PAGINA 3 LA PROTESTA NO TAV A TORINO/FOTO SECOLO XIX.IT LA NUOVA GUERRA AFRICANA DELLA FRANCIA Parigi intensifica i raid e invia rinforzi in Mali I caccia francesi martellano nel nord del paese le postazioni delle milizie jihadiste, che contrattaccano conquistando Diabali e promettono vendetta: scatta l’allarme terrorismo a Parigi. E i 550 soldati impegnati nei primi quattro giorni dell’«Operazione Gattopardo» diventeranno presto 2.500. In vista degli scontri «di terra» Hollande cerca alleati in Africa disposti a sostenere l’escalation militare e chiede al Consiglio di sicurezza di accelerare il «via libera» all’intervento. Per il presidente primi «benefici politici» sul piano interno: il 63% dei cittadini è con lui. E a sorpresa anche il 68% degli elettori del Front de Gauche si scopre a favore. LEYMARIE, MERLO, SGRENA |PAGINA 7 TUNISIA |PAGINA 6 Due anni fa la scintilla delle rivolte arabe. Ma nel paese c’è poco da festeggiare ANNAMARIA RIVERA È MORTO L’EX BR GALLINARI INTERNET L’incontro di due percorsi La vita ribelle di Aaron Swartz Giovanni Russo Spena Benedetto Vecchi on Prospero Gallinari ho avuto, dall'inizio degli anni '90, un rapporto intenso. Le scelte politiche ed il vissuto di Prospero erano, certo, molto differenti dalle mie scelte. Prospero fondatore e dirigente delle Brigate Rosse; io, comunista pacifista e libertario, che ho sempre pensato il conflitto, anche il più radicale, come totalmente «altro» rispetto alla lotta armata. Eppure ho imparato a comprendere la dignità di Prospero, a maturare rispetto nei suoi confronti. Lo conobbi all'inizio degli anni '90, in una delle frequenti visite in carcere. CONTINUA |PAGINA 14 stato un programmatore talentuoso e un attivista della Rete. Aaron Swartz, si è tolto la vita nella sua New York. Dopo aver sviluppato a 14 anni la piattaforma Rss per la diffusione dei testi su Internet, ha combattuto per la libertà di circolazione dell’informazione assieme a molti altri attivisti. Accusato di aver scaricato «illegalmente» materiale del Mit, rischiava 50 anni di carcere. Voleva che la conoscenza fosse di tutti e non recintata dalle imprese per fare profitti. Non era un eroe, ma solo un figlio del suo tempo. Uno di noi, che aveva deciso di stare dalla parte del torto. CONTINUA |PAGINA 11 C È S e c’è un elemento caratteristico dell’attuale fase politica, questo è la potenza determinante del sistema mediatico. L’Italia, l’Europa, tutto il mondo capitalistico sono nella morsa di una crisi che sta scomponendo le società. Da una parte, la povertà vera. Strutturale, dilagante, senza prospettive di riscatto. Dall’altra, la concentrazione in poche mani di ricchezze immense, intraducibili in misure concrete. In mezzo, aree sociali precarizzate, che vedono messi a rischio i fondamenti stessi della propria condizione di vita: il reddito, l’occupazione, i diritti essenziali. Ma se il quadro è di per sé limpido nella sua violenza, l’opinione pubblica non riesce a farsene un’immagine chiara, e non sa intravedere vie d’uscita. Oscilla tra angosce apocalittiche e attese fideistiche di uomini provvidenziali (si pensi alla santificazione di Monti al momento della sua incoronazione), appesa alla girandola di numeri che le viene quotidianamente propinata. Lo spread, gli indici di Borsa, i tassi di cambio, numeri magici della cabala postmoderna. Quando diciamo che il 99% è contro uno stato di cose voluto dall’1%, ci raccontiamo una favola. Bella, ma, come ogni favola, ingannevole. Di certo la stragrande maggioranza è scontenta e spaventata, ma è anche confusa e disorientata. E non sa a che santo votarsi. La cifra del nostro tempo è questa: la cattura cognitiva dei corpi sociali, imprigionati in una gabbia – davvero un pensiero unico – che ne deforma la visuale, impedendo loro di vedere la situazione in cui si trovano. Non c’è discorso più pertinente di quello che fa Gramsci, nei primi anni Trenta, a proposito dell’«egemonia» come potente strumento di direzione politica. Nella consapevolezza – tratta appunto dalla gestione totalitaria dei mezzi d’informazione – che la produzione di un’immagine univoca della realtà e il convergente occultamento di aspetti rilevanti sono strumenti-chiave dell’organizzazione del consenso «spontaneo» e del controllo autoritario della società. Ora chiediamoci: tale stato di cose incide nella situazione politica italiana di questi giorni? Influisce sulla campagna elettorale in vista del voto politico del 24 febbraio? Incide eccome. A tal punto che soltanto muovendo da questa premessa sembra possibile capire la posta in gioco nelle elezioni. Proviamo a dirla così, con una semplificazione che aiuta a cogliere il punto: sotto gli occhi degli italiani viene quotidianamente squadernato un ricco catalogo di banalità utili ad accreditare l’idea che le maggiori coalizioni politiche (i tre poli, di centrosinistra, centro e centrodestra) divergano tra loro in modo significativo. CONTINUA |PAGINA 15 REPORTAGE DAL GIAPPONE La trappola nucleare oltre Fukushima YUKARI SAITO, MONICA ZOPPÈ l PAGINE 8, 9 INTERVISTA A OLIVIER ASSAYAS Esplosione di cinema nel Maggio francese CRISTINA PICCINO l PAGINA 12 pagina 2 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 LA LINEA MONTI Senato • I democratici hanno chiuso le liste, ma si aspettano un aiuto in Lombardia e Sicilia. Minacciano altrimenti l’offensiva sul voto utile Offerte a destra, appelli a sinistra Bersani è «pronto a collaborare» con il professore dopo le elezioni. Il premier ricambia concentrando i suoi attacchi su Berlusconi. Il Pd ripensa tardi alle aperture di Ingroia: adesso chiede alla nuova lista un disarmo unilaterale in un paio di regioni ROMA I l Pd è «aperto alla collaborazione» con Monti dopo le elezioni, chiuso a quella con «Rivoluzione civile» prima, ma non per questo si fa scrupolo di chiedere ad Antonio Ingroia un grosso, e unilaterale, favore. I sondaggi sono quelli che sono e in tre regioni Bersani vede il rischio di una sconfitta, mentre può perdere al massimo in una tra Lombardia, Campania e Sicilia se non vuole rinunciare a una maggioranza stabile in entrambe le camere. La richiesta è partita con toni ultimativi: se non vuole aiutare Berlusconi, «Rivoluzione civile» deve farsi da parte, almeno in Lombardia e Sicilia, regioni dove secondo i sondaggi non raggiunge la soglia di sbarramento dell’8%. Sebbene venga presentata come una «desistenza», visto il differente meccanismo elettorale rispetto al 1996 - quando si sperimentò la desistenza originale tra Prodi e Bertinotti - e viste soprattutto le liste già chiuse dal Pd, la proposta somiglia più a una richiesta di resa. Ragione per cui è difficile che possa andare in porto, anche se all’interno di «Rivoluzione civile» dipietristi e comunisti italiani consigliano di non lasciar cadere la - tardiva - attenzione dei democratici. E lo stesso Ingroia si muove già da politico consumato: «I nostri primi avversari - ha detto in tv ieri sera - sono il berlusconismo e il montismo. Parlare di desistenza è prematuro». Anche Pierluigi Bersani ha dosato con attenzione le parole, riferendosi però a Monti in una nuova intervista a un grande quotidiano internazionale. Stavolta il Washington Post, al quale il segretario Pd ha assicurato di essere «aperto alla collaborazione» con il professore. Addirittura a «firmare un patto» per «riformare e ricostruire il paese». Poco dopo, anche lui impe- gnato a tempo pieno in campagna elettorale e di nuovo ospite di Porta a Porta, Mario Monti ha deciso di passare all’attacco. Di Berlusconi. «Non sarebbe in grado di tenere sotto controllo lo spread - dice - perché non è credibile né creduto sul piano internazionale». Ma non basta, secondo il presidente del Consiglio, Berlusconi «è il principale responsabile dell’alto livello delle tasse, ha governato otto anni su undici». Le sue promesse insomma, «ricordano il pifferaio di Hamlin». Tutt’altra musica invece quando il professore guarda alla sua sinistra. All’apertura di Bersani stavolta non replica chiudendo, si mantiene prudente e addirittura già vede il segretario del Pd a palazzo Chigi: «Vedremo che cosa avrà da dire Bersani o altri, Bersani è il più verosimile in base ai sondaggi. Noi non saremo mai la stampella di nessuno, vogliamo essere il pungolo di tutti». Il confronto di Bersani con la lista Ingroia invece non è diretto. Dopo settimane in cui il leader Pd si è negato - Ingroia ha raccontato anche di te- Franceschini sonda l’Idv Orlando. Il pm candidato premier: «Desistenza? Prematuro parlarne» lefonate a vuoto - adesso il tentativo di abboccamento è affidato a Dario Franceschini. Che prima dai giornali chiede un ritiro unilaterale degli «arancioni» dalle tre regioni chiave, poi chiama Leoluca Orlando, sindaco di Palermo e uomo Idv nella cabina di regia della nuova formazione, parlando di possibile desistenza. Sa di trovare orecchie attente, ma non tutti dentro Rivoluzione civile hanno la stessa sensibilità. Certo non Rifondazione comunista, che non vuole alcuna collaborazione con i sostenitori del governo tecnico, e nemmeno la fetta di «Cambiare si può» che sta rientrando nel movimento e nelle liste. Discorso diverso per Bonelli dei Verdi, Di Pietro e Diliberto. Che però non hanno una presa assoluta sulla «ditta», prova ne siano le difficoltà registrate da Di Pietro a Milano. Ingroia non è distante da queste disponibilità, in passato era stato lui a tirare per un’apertura a i democratici. Ma non può certo concedere una resa a Bersani in cambio di nulla. Se le liste Pd resteranno chiuse come sono già adesso, anche ad alcune personalità borderline, il minimo che il movimento possa chiedere è un appello pubblico alla collaborazione. Premessa di un’alleanza in parlamento. A quel punto una trattativa sul filo di lana potrebbe forse aprirsi ancora, certo non in Campania dove la presenza del sindaco De Magistris sembra garantire alte percentuali a Rivoluzione civile. Proprio il primo cittadino di Napoli, che a suo tempo auspicava il dialogo con Bersani, adesso si dice «fermamente contrario» alla desistenza, in quanto il nuovo partito deve re- stare «alternativo al polo centrista di Bersani e Monti». Ed è assai probabile che sarà questo l’esito. Anche perché, come ricordato ieri sera ancora in tv da Nichi Vendola, malgrado tutte le parole gentili di Ingroia verso Sel, per il Pd resta forte «il pregiudizio delle recenti polemiche con il Quirinale». Quelle legate all’inchiesta sulle stragi, protagonisti proprio Ingroia e Di Pietro. Senza contare che evitando qualsiasi intesa con Ingroia, il Pd potrà ricorrere a un vecchio classico: l’appello a non favorire Berlusconi nell’urna. Il voto utile, ancora lui. a. fab. PIERLUIGI BERSANI/FOTO LUIGI MISTRULLI EMBLEMA. A DESTRA, NICOLA ZINGARETTI Lombardia/ LA LISTA DI INGROIA SCARICA AGNOLETTO Di Pietro-Cè, due rospi da ingoiare per gli increduli elettori di sinistra Luca Fazio MILANO C i sono due rospetti da ingoiare. Uno più grosso dell’altro. E proprio in Lombardia, dove c’è poco da stare allegri, con il centrodestra più impresentabile e inquisito della storia che nonostante tutto ha ancora tre punti di vantaggio sul candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli (significa rischiare di non vincere anche le elezioni nazionali). Il primo rospo, del tutto incomprensibile, non si può proprio digerire. Si chiama Antonio Di Pietro e in Lombardia è stato blindato da Antonio Ingroia al numero 3 della sua lista Rivoluzione Civile alla Camera, proprio nel collegio di Milano. A farne le spese - ma davvero qui non è solo una questione di poltrone ma di puro masochismo - sarebbe Vittorio Agnoletto, lo storico portavoce dei movimenti «segnalato» all’ex magistrato di Palermo dopo un lungo percorso dall’assemblea milanese di Cambiare si può, la più numerosa d’Italia (Agnoletto ha preso 463 voti su 500 votanti). Però l’ex magistrato ieri, a sorpresa, si è rimangiato la parola data e ora Agnoletto è fuori. Non male come prima apertura di credito ai militanti più fiduciosi di Cambiare si può, che si sono anche spaccati sull’appoggio alla candidatura di Antonio Ingroia. Non ci vuole un fine politico per capire che, qui a Milano in particolare, si tratta di una mossa disastrosa, di un messaggio devastante per gli elettori di sinistra. Ma come? Ingroia toglie il milanese Agnoletto, che rappresenta l’impegno per i diritti civili, il G8 di Genova, i manifestanti, insomma quelli che hanno preso le botte dalla polizia, e al suo posto mette Di Pietro, l’ex poliziotto convertito alla politica, quello che si è opposto all’inchiesta parlamentare sul massacro della Diaz? Questo è il ragionamento che, tra incredulità e sconcerto, sta montando in rete e non solo (cominciano a palesarsi affermazioni del tipo «io Di Pietro non lo voto»). Per Luciano Muhlbauer, candidato alle regionali con la lista Etico a Sinistra di Andrea Di Stefano, «nella memoria di chi ha vissuto Genova è uno schiaffo in faccia, corriamo il rischio di una forte astensione del movimento proprio nella regione cruciale per battere il centrodestra, è una follia». Ieri sera, i vertici del Prc, hanno fatto di tutto per convincere Ingroia a tornare sui suoi passi, anche perché il partito di Ferrero vive (e subisce) con grande imbarazzo questa decisione da dilettanti allo sbaraglio. Il secondo rospetto da ingoiare si chiama Alessandro Cè. In questo caso il mal di pancia dovrebbe venire agli elettori del centrosinistra, anche se nel tempo sono stati abituati a ben altro. Ricordate? Si tratta del leghista «eretico», già ex assessore alla sanità lombarda e poi parlamentare, che a suo tempo abbandonò sia la Lega di Bossi & Maroni che la Regione di Formigoni. Ieri Cè ha presentato la sua lista Lombardi verso Nord per sostenere il candidato del centrosinistra Umberto Ambrosoli, il quale ha subito ricambiato con parole fin troppo affettuose, non proprio una dimostrazione di grande forza: «Nella giunta regionale si è distinto per la sua autonomia di valutazione, dobbiamo dare una una reale responsabilità agli enti locali e questo impegno è condiviso da chi da 20 anni discute di federalismo». Chapeau! Cè, che oggi si dice favorevole alla cittadinanza ai figli degli immigrati, è la stessa persona che negli anni ha saccheggiato tutto il raffinato campionario di insulti leghisti, lo stesso che alla Camera si è distinto per la battaglia contro la fecondazione eterologa, «una prospettiva incivile e disumana». Ma si sa, col tempo si cambia, anche partito, e Ambrosoli deve avere un disperato bisogno di voti. Oggi l’avvocato decide anche sull’ingresso nella coalizione della lista radicale, anche se «ci sono punti in cui non siamo in sintonia, come le posizioni sull’amnistia». Un problema non da poco, visto che la lista radicale si chiama proprio Amnistia, Libertà e Giustizia. CAMPANIA Preti e suore in arancione. I cattolici che fanno il tifo per Rivoluzione civile Negli ultimi giorni hanno fatto un mezzo passo indietro tattico, ma Vaticano e Cei tifano Monti. Qualche vescovo invece, di nascosto, sogna ancora Berlusconi. E Bersani, per non essere scavalcato al centro, ha annunciato urbi et orbi la candidatura di cattolici doc graditi alle gerarchie, come l’organizzatore delle Settimane sociali Edo Patriarca e il direttore dell’Istituto Toniolo (l’Università Cattolica) Ernesto Preziosi. Ma c’è anche una parte del mondo cattolico, lontano dai palazzi del potere e impegnato nel sociale, che si schiera con Rivoluzione Civile di Ingroia. L’annuncio arriva dalla Campania, dove alcuni preti e religiose di base hanno sottoscritto un appello per Ingroia e in particolare per la candidatura alla camera dello storico casertano Sergio Tanzarella, docente alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale (retta dai gesuiti), autore di diverse monografie sulla storia del cattolicesimo, su don Milani, sulla pace e l’antimilitarismo, già deputato con i Progressisti fra il ’94 e il ‘96. Fra gli altri hanno firmato l’appello, diffuso dall’agenzia Adista, il parroco di Mercogliano (Av) don Vitaliano Della Sala, vicino ai movimenti no global; il prete anticamorra don Aniello Manganiello; il gesuita padre Fabrizio Valletti, direttore del Centro Hurtado di Scampia; suor Rita Giaretta, da 15 anni impegnata a Caserta per la liberazione delle donne costrette a prostituirsi dalle organizzazioni criminali e lo scorso anno protagonista di un duro attacco contro Berlusconi e i suoi comportamenti che «offendono e umiliano la donna». Una scelta, spiegano, per «riaccendere le speranze in molti cittadini delusi e sfiduciati» e per «rappresentare le esigenze di un Meridione abbandonato al clientelismo, alla camorra e alla rassegnazione». il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 pagina 3 LA LINEA MONTI Regioni • Il centrosinistra sbarra le porte a Pannella nel Lazio e in Lombardia. Verso il no anche alla lista arancione MARCHIONNE: ADDIO MONTI, ORA FIAT ATTENDE CHI VINCE «La Fiat è filogovernativa per definizione, l’importante è che qualsiasi sia il risultato elettorale ci sia la capacità di gestire il paese». Parlando al salone dell’auto di Detroit, l’ad di Fiat Chrysler Sergio Marchionne non cambia di una virgola la storica linea del Lingotto sul rapporto con la politica: Fiat sta con chi governa. Punto. Ma siccome oggi non è ancora chiaro chi sarà il prossimo presidente del consiglio, l’ad si mantiene più che prudente sulle prossime politiche e non svela per chi voterà né concede endorsement che potrebbero, in futuro, costare cari all’azienda. Nonostante Monti abbia iniziato la sua campagna elettorale poche settimane fa proprio nello stabilimento di Melfi, Marchionne non si sbilancia nemmeno sul Professore: REGIONE LAZIO · Rottura Zingaretti-radicali, i due consiglieri sotto la scure delle regole Pd Daniela Preziosi «S «Sono contento che lo spread sia sceso, dove potevo aiutare il governo di emergenza l'ho fatto in modo aperto e anche a livello internazionale, d'ora in poi però la scelta è degli elettori italiani». E ancora: «Sin da subito ho riconosciuto a Monti la grande capacità di rimettere in piedi un paese in un momento drammatico della sua storia. Ho difeso con tutte le mie forze quell'esperienza di governo, continuo a farlo e lo farò sempre. Poi però adesso s’è aperta una fase diversa, in cui si confrontano i programmi. E su questo la Fiat non ha nulla da dire». No comment anche sull’impegno politico di Passera e Montezemolo: «Candidarsi o meno sono scelte loro in cui io non entro. Io faccio il metalmeccanico e sulla politica italiana sono un pivello». e le cose stanno così, non ci sono margini per allearsi», allargano le braccia i collaboratori di Nicola Zingaretti. Lui, il candidato presidente, si appella ai radicali, «Cambiamo tutto, e tutti ci aiutino a cambiare tutto. Conviene a tutti». Finirà che anche alla regione Lazio - come ormai ovunque - i radicali non saranno alleati del Pd. Il che ha del bizzarro, visto che nel 2010 la radicale Emma Bonino corse da presidente per il centrosinistra, con l’esplicito appoggio dello stesso Zingaretti. A questo giro però l’ex presidente della provincia di Roma ha messo come condizione della corsa alla Pisana «il rinnovo totale» della maggioranza: ovvero il veto su tutte le facce dell’ex opposizione alla giunta Polverini, che non ha offerto grandi performance proprio sul capitolo della levitazione dei fondi ai gruppi sul quale poi è salata la giunta. I radicali avevano contestato e reso pubblica la vicenda, ma non è bastato per guadagnarsi una deroga. «Porteremo alla Pisana tutti neoconsiglieri», spiega Zingaretti, «a un nuovo progetto corrisponde una nuova squadra», e «non perché io pensi che ci sia una loro responsabilità oggettiva» rispetto al caso fondi ai partiti. Altrimenti dovrebbe «pensarlo» anche dei suoi del Pd. Di responsabilità non si parla, il passato, per il Pd, è una notte in cui tutti i mici sono bigi. Grazie a questa «regola» Zingaretti ha stoppato il ritorno alla Pisana degli storici capicorrente del partito laziale, e il rischio di dover nominare in giunta gli ex assessori di Piero Marrazzo. E poco Rinnovamento alla democratica importa se poi alcuni di loro, falciati dalla scure del «rinnovamento» alla regione, abbiano dirottato voti e ambizioni alle primarie e siederanno in parlamento. Così Astorre, che era nell’ufficio di presidenza che ha deciso l’aumento dei soldi ai gruppi e ha anche un’avviso di garanzia per un’indagine sulla proroga di un dirigente regionale; e così Di Stefano, Luccherini, Valentini, Scalia, Moscardelli. Esterino Montino, ex capogruppo, ha fatto un passo indietro ma ne farà due avanti nella corsa a sindaco di Fiumicino; anche Claudio Mancini, dalemiano, si è fatto in- dietro, ma sua moglie è stata paracadutata in Lombardia in quota «Se non ora quando», facendo imbufalire le femministe milanesi. «Io non mi sono ricandidato per scelta politica», spiega Enzo Foschi, il primo - e unico - ex consigliere a farsi da parte senza chiedere compensa. «Noi non abbiamo fatto il disastro della Polverini, ma la nostra cultura di governo è stata assolutamente insufficiente, anche dall’opposizione. Un segnale andava dato. Presto dovremo introdurre l’abitudine a dare valutazioni sul lavoro dei singoli consiglieri». Ma «presto» non è subito: per ora il Pd ha preferito stendere un velo pietoso su tutto il gruppo. E per non dare dei mascalzoni a tutti i suoi, ha dovuto estendere il velo (e il veto) a tutti i partiti della sua futura maggioranza. Intanto dai radicale parte la contraerea. Da domenica Marco Pannella sacramenta contro i candidati presidenti di Lazio e di Lombardia, dove con Ambrosoli si replica uno copione simile. Emma Bonino dalla radio è durissima: quella di Zingaretti «è una scusa umiliante per lui», «sa perfettamente che bene hanno fatto nei loro schieramenti a dire che chi è stato in consiglio regionale con le mani in pasta senza aprire bocca non è candidabile. Ma sa altrettanto bene che parec- chi consiglieri del Pd o loro amici e consorti hanno trovato posizione di sicura elezione alla camera. Se comportarsi bene diventa un peccato da scontare, la dice lunga sulla futura gestione». A Torre Argentina non se l’aspettavano. Il primo incontro con Zingaretti era andato bene. Ma al secondo round, il comitato Zingaretti fa sapere, via sms, che non erano graditi i due consiglieri uscenti. Messaggio chiaro. «Pronto al passo indietro», dice di uno dei due, Giuseppe Rossodivita, «ma umiliarci sulla bandiera della trasparenza è insopportabile». A Zingaretti del resto piaceva poco l’idea di imbarcare una lista ’avversaria’ del Pd alle politiche. E comunque, anche volendo, deroghe non ne può fare, a rischio di riaprire la partita con i suoi. Il che non gli ha impedito di imbarcare l’ex forzista Michele Baldi nella «sua» lista civica. Del resto, si giustificano dal Pd, anche i radicali hanno usato i soldi dei gruppi regionali per pagare il congresso del partito transnazionale del 2011. «È tutto online», replica Rossodivita, «era una sessione su ’regione e diritti umani’, e i relativi incontri preparatori tenutisi a Chianciano». Sarà lui, al momento, a guidare la lista «Amnistia, giustizia e libertà» che correrà da sola nel Lazio. La proposta /IL «PIANO LAVORO»: 80 MILIARDI PER LA CRESCITA La polemica Cgil: «Un milione di nuovi posti con la patrimoniale e un fisco più equo» Mirco Viola ROMA U n grande «Piano per il lavoro» finanziato da 80 miliardi di euro, che potrà portare alla creazione di un milione di posti di lavoro nel prossimo triennio. Lo propone la Cgil: l’anticipazione sul Corriere della sera di ieri, la spiegazione dettagliata verrà fornita nella prossima Conferenza di programma del sindacato, prevista il 25 e 26 gennaio a Roma. Occasione per offrire un nuovo, a questo punto ufficiale endorsement, al prossimo governo (eventuale e sperabile, per la Cgil) dell’alleanza Pd-Vendola: alla Conferenza sono infatti stati invitati a intervenire il segretario del Pd Pierluigi Bersani, il leader di Sel Nichi Vendola, e anche l’attuale ministro per la Coesione sociale Fabrizio Barca, destinato a un ruolo di spicco nel prossimo esecutivo o comunque ai vertici del Partito democratico. PDL Berlusconi teme il processo Ruby. E le tasse sul «piffero» Ospite di «Porta a Porta», Monti attacca Berlusconi «vecchio illusionista ringalluzzito» che «ha già illuso gli italiani tre volte», «la prima mi sono fatto illudere anch’io» e «certe parole pronunciate da quella bocca mi fanno venire in mente il pifferaio magico che porta i topini ad annegare». Rispondendo a Ilaria D’Amico nel programma «Lo spoglio» su Sky, il Cavaliere allora ribatte: «Non l’ho sentito Monti. Anche lui ha fatto illudere noi: è un bluff e ci siamo caduti tutti. Probabilmente vuole tassarmi anche il piffero». Più che per le tasse, Berlusconi, pur confortato dalla risalita nei sondaggi, è preoccupato per il processo Ruby, «una montatura per diffamare un avversario politico». La sentenza potrebbe arrivare prima delle elezioni. Ieri gli avvocati Ghedini e Longo hanno avanzato un legittimo impedimento di Berlusconi in quanto «capo della coalizione» Pdl-Lega impegnato in una riunione sulle liste e chiesto di fermare il processo per ragioni di «opportunità»: c’è la campagna elettorale. Ma Ilda Boccassini si è opposta: Berlusconi «non è segretario di partito né candidato premier». I giudici hanno poi respinto le richieste perché una riunione sulle liste non è «legata all’attività parlamentare» e riguardo alla sospensione del processo «il Tribunale non può e non deve operare valutazioni di opportunità». Ghedini (e il Pdl in coro) accusa i giudici di essere intervenuti «pesantemente nella campagna elettorale». Per finanziare il piano non si propone di aumentare il debito pubblico – in tempi di «rigore» appare impossibile – ma di rimodulare soprattutto la leva fiscale. Almeno 40 miliardi di euro annui, secondo la Cgil, si possono recuperare attraverso una patrimoniale sulle grandi ricchezze, un aumento Susanna Camusso presenterà il suo progetto il 25 e 26 gennaio. Insieme a Bersani e Vendola dell’imposizione sulle transazioni finanziarie, l’introduzione di tasse ambientali («chi inquina paga»), un «piano strutturale di lotta all’evasione fiscale, contributiva e al sommerso» che impiega oggi 3 milioni di lavoratori. Il nuovo fisco dovrebbe pesare, insomma, meno su dipendenti e pensionati, in modo da liberare oltretutto i consumi, ed essere caricato maggiormente sulle grandi ricchezze. La Cgil propone quindi il taglio di due aliquote Irpef: la prima dovrebbe passare dal 23 al 20%, la terza dal 38 al 36%, oltre ad aumentare le detrazioni specifiche e i sostegni per i carichi familiari. Ma non basta. Secondo la Cgil, altre risorse si possono drenare riducendo la spesa pubblica di 20 miliardi, tagliando tra l’altro 10 miliardi di incentivi alle imprese. Altri 10 miliardi si potrebbero recuperare da un migliore utilizzo dei fondi europei. In circa 4, massimo 5 anni, si potrebbero destinare insomma fino a 80 miliardi per la crescita. Adottando la nuova politica fiscale ed economica, secondo la Cgil si arresterebbe subito l’attuale recessione, invertendo addirittura il segno già a partire dal 2013, e ottenendo tutti segni «più» sul fronte della crescita: il Pil crescerebbe già dell’1,6% nel 2013, per passare poi a un incremento dell’1,5% nel 2014, fino a un +1% che si porterebbe a casa nel 2015. Analogo andamento positivo, il sindacato guidato da Susanna Camusso lo prevede anche per l’occupazione: che non continuerebbe a diminuire, come danno tutti i principali indicatori, ma che invece inaugurerebbe una stagione di ripresa. Anziché diminuire dello 0,4% quest’anno, aumenterebbe al contrario dell’1,5% (portando qualcosa come 350 mila nuovi posti). E segnando lo stesso andamento nei due anni successivi, potremmo avere l’auspicato milione di posti a fine 2015. Dove destinare, nello specifico, gli 80 miliardi previsti? Dai 4 ai 10 miliardi dovrebbero andare alla green economy, all’innovazione manifatturiera, all’efficienza energetica (smart grid), all’agenda digitale, alle infrastrutture; e ancora: a prevenzione antisismica, messa in sicurezza dell’edilizia scolastica, riorganizzazione del piano rifiuti, diffusione della banda larga, percorsi turistici integrati, trasporto pubblico integrato e sviluppo rurale.Tante di queste voci non sarebbero altro che un nuovo impulso ai lavori pubblici, su cui la Cgil punta molto. Dai 15 ai 20 miliardi l’anno dovrebbero andare alla «creazione diretta di lavoro»: assunzioni nel pubblico (molte nei settori su citati), incentivi alle assunzioni e stabilizzazioni nel privato. Con particolare attenzione alle donne e ai giovani. E ancora: manutenzione e bonifica dei siti industriali inquinanti, conservazione del patrimonio culturale, riqualificazione urbana, valorizzazione di parchi e riserve naturali. Tra i 5 e i 10 miliardi, sarebbero da destinare al sostegno all’occupazione e agli ammortizzatori sociali (perché se è vero che la crisi si attutirebbe, certo non verrebbe del tutto eliminata almeno nei suoi effetti). Altri 10-15 miliardi al potenziamento del welfare, e infine ulteriori 15-20 miliardi al taglio delle tasse su dipendenti e pensionati. Lo scambio ineguale Sergio Cesaratto N ella sua non promettente intervista al Financial Times Stefano Fassina, responsabile economia e lavoro del Pd, riafferma la scelta del centro-sinistra di non rinegoziare fiscal compact e pareggio di bilancio e ripropone ai tedeschi lo scambio fra cessione formale a Bruxelles della sovranità di bilancio con il porre fuori calcolo del pareggio gli investimenti pubblici (la cosiddetta golden rule) oltre che con un ruolo più attivo della Banca europea degli investimenti. Fassina sostiene che il centro-sinistra chiederà l’appoggio francese che tuttavia, ognuno sa, tale cessione di sovranità, giustamente, non condividerà mai. Ma perché Fassina già rinuncia a ogni rinegoziazione proponendo cervellotici e irrealistici scambi coi tedeschi senza neppure chiedere un chiaro ribaltamento delle politiche di austerità? (Si veda al riguardo l’ottimo articolo di Lanfranco Turci su l’Unità di ieri). Nel denunciare il torto marcio dei tedeschi avrebbe dalla sua fior di intellighenzia economica internazionale, rintuzzando così le accuse di populismo che Monti gli fa, e anzi lui accusando il professore di incompetenza di fronte alla crisi. E potrebbe poi propugnare un più EurogrupFassina sul Financial autorevole po (il consiglio dei ministri finanziari euroTimes sbaglia ricetta peo) con compiti di coper l’Europa e non ordinamento della politica fiscale, secondo convincerà mai una vecchia proposta nemmeno la Francia francese, dunque politicamente condivisibile da quel paese. I tedeschi non lo vogliono perché sarebbe riaffermare la pari dignità di una politica fiscale europea coordinata con la politica monetaria. Tanto più che essendo poi l’Eurogruppo un organismo politico, esso sarebbe superiore alla Bce. Dulcis in fundo, Fassina ritiene sufficientemente progressista rifiutare il taglio dei salari (la svalutazione interna) per sostenere le esportazioni, ritenendo che il sostegno alla domanda interna sia necessario all’Italia. Ma argomenta poi che questo sostegno sia da ottenersi attraverso una ripresa degli investimenti scambiato con la moderazione salariale. Parla così di «congelamento dei salari». Ma in questo modo siamo precisamente all’idea, contestata da Keynes, dell’incompatibilità fra crescita dei salari reali e investimenti che è al cuore del Montismo. Ma insomma Fassina, davvero vogliamo lasciare a Berlusconi ogni argomento politico ed economico che dia speranza agli italiani? pagina 4 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 SOCIETÀ TORINO · Scontri per la visita del premier che inaugura la nuova stazione di Porta Susa Monti, spot ad alta velocità Marina Della Croce TORINO S i presenta a Torino in piena campagna elettorale per inaugurare la nuova stazione dell’alta velocità a Porta Susa, ma l’accoglienza che Monti trova ad attenderlo non è forse quella che si aspettava. Per motivi diversi, in piazza contro di lui ci sono tutti. A partire da un centinaio di No tav e Cub che lo accolgono con uno striscione dedicato a lui e all’amministratore delegato delle Ferrovie: «Monti e Moretti, truffatori perfetti». E poi: i lavoratori della De Tomaso, militanti della Lega insieme ai Fratelli d’Italia di Ignazio La Russa, ma anche tassisti. Monti viene accolto da urla e fischi, ma lui procede come se niente fosse all’inaugurazione della nuova stazione internazionale trasformata per l'occasione in uno spot elettorale pagato dai cittadini. «Occorre vincere le pulsioni istintive, però devastanti, che talvolta hanno bloccato la realizzazione di infrastrutture che sono importanti per il sistema dei trasporti e la competitività del nostro paese», dice riferendosi alle proteste della popolazioni della valle che da anni contestano la costruzione dell’alta velocità Torino-Lione. Monti parla mentre fuori dalla stazione polizia e no tav si fronteggiano. Tutto comincia quando un gruppo di manifestanti cerca di aggirare lo sbarramento di agenti lanciando oggetti contro le forze dell’ordine che reagiscono con una carica di alleggerimento. A farne le spese sono uno studente, colpito alla testa e portato in ospedale, e un agente, ferito lievemente. Un altro manifestante viene denunciato per resistenza e travisamento. Tafferugli di cui probabilmente Monti neanche si accorge tutto preso com’è a inaugurare la nuova stazione insieme al ministro del Lavoro Elsa Fornero (alla quale i manifestanti gridano ’Vai a lavorare’), al sindaco della città Piero Fassino e al presidente della Regione Cota, quest’ultimo nella comoda veste di leghista di lotta e di governo: «Questa stazione è un passo avanti importante, cambia del punto di vista urbanistico e collega Torino al mondo più velocemente», ha detto Cota cambiando subito tono parlando di Monti. «Questo è il governo che ha aumentato pressione fiscale e fatto politiche sbagliate». Il viaggio elettorale di Monti a Torino non poteva non suscitare pole- FRANCIA-MATRIMONI GAY · Dopo la marea di destra Ora tocca al Parlamento La sinistra in piazza il 27 Anna Maria Merlo PARIGI L LA CONTESTAZIONE DEI CANTIERI TAV IERI A PORTA SUSA A TORINO. A DESTRA, LA PROTESTA CONTRO LA DESTRA A PARIGI miche. «Dietro il progetto della Torino-Lione c’è una ferocia ideologica che nasconde la volontà di sperperare denaro pubblico per un’opera inutile e dannosa e che sarebbe un doppione di una linea ferroviaria esistente e sottoutilizzata», ha detto il presidente dei Verdi Angelo Bonelli. Che chiede: «Ma Monti ha mai letto il progetto della tav in Val di Susa o ha intenzione di fare campagna elettorale solo con slogan? Vicino al tracciato della tav che costerà all’Italia non meno di 16 miliardi di euro, quasi quanto la cifra incassata con l’Imu - ha proseguito Bonelli - esiste già una linea ferroviaria per il trasporto merci potenziata di recente e che viene utilizzata solo per 2,5 milioni di tonnellate quando ha una capacità di 20 milioni di tonnellate. Chi oggi continua a promuovere la tav, offende le famiglie che non ce la fanno più». Dubbi che non sfiorano né il commissario intergovernativo Mario Virano, né il ministro dell’Ambiente Clini. Per il primo, infatti, sulla Tav «non c’è più possibilità di tornare indietro». Per Clini, invece, dietro l’opposizione alla grande opera non ci sarebbero problemi ambientali: «Chi dice questo agita problemi che che non ci sono», ha detto ieri il ministro. LAZIO · A volte ritornano, è Storace il candidato Pdl Adesso è ufficiale: Francesco Storace sarà il candidato di Pdl e Destra alla regione Lazio. L’ex governatore torna così sul luogo del "delitto", avendo guidato la Pisana per cinque anni, fino alla vittoria alle elezioni del 2005 di Piero Marrazzo. Storace lasciò la regione con un buco sanitario tuttora critico di oltre 10 miliardi di euro. Finora il segretario della Destra aveva proposto come sua vice Alessandra Mussolini. Per lui ieri il via libera del Pdl annunciato via twitter e anche l’endorsement della presidente uscente Renata Polverini. Sulla carta, dopo i casi Fiorito e il disastro della giunta di centrodestra, è difficile che Storace possa insidiare davvero Zingaretti. A convincere Berlusconi però è l’ipotesi che con la Destra alleata e l’«election day» politiche-regionali sia possibile anche nel Lazio strappare seggi decisivi per il risiko del prossimo senato. Sul tormentatissimo ritorno alle urne in regione pende ora l’ultimo ricorso al Tar, quello sul taglio a 50 seggi per i prossimi consiglieri decretato in extremis dalla giunta Polverini. Se il tribunale amministrativo dovesse bocciarlo, nel Lazio si potrebbe addirittura votare dopo le politiche. TORINO Protesta nel Cie, immigrati danno fuoco ai materassi Protesta la scorsa notte al Cie di Torino: alcuni immigrati ospiti nella struttura si sono arrampicati poco dopo la mezzanotte lungo le recinzioni ed hanno incendiato alcuni materassi. Le fiamme sono state spente dai Vigili del fuoco. Nel frattempo all'esterno, una ventina di persone, che secondo alcune fonti graviterebbero nell'area dei centri sociali torinesi hanno fatto esplodere dei petardi e issato su un albero uno striscione con la scritta: «Solidarietà con chi si ribella». I manifestanti si sono poi allontanati verso piazza Sabotino, dove sono stati identificati dalla polizia. Intanto a Pavia una trentina di profughi nord africani hanno protestato occupando i binari della stazione e interrompendo la circolazione ferroviaria tra Genova e Milano a partire dalle 13.40 di ieri. I profughi sono arrivati circa un anno fa prevalentemente dalla Libia e sono ospitati in un albergo alle porte di Pavia senza sapere quale sarà il loro futuro. Ieri mattina hanno organizzato un sit in in prefettura per ribadire la necessità di ottenere un fondo di sostegno che permetta loro di muoversi in autonomia: al momento infatti dispongono di un permesso di soggiorno per motivi umanitari e di un titolo di viaggio valido per spostarsi e cercare lavoro in Italia. Poi sono andati in stazione, dove si sono spostati da un binario all'altro bloccando tutta la circolazione dei treni che transitano a Pavia, sulla tratta Milano-Genova. La protesta è finita in serata. a ministra della giustizia, Christiane Taubira, ha affermato che il governo resta «determinato» a far passare la legge che istituisce il matrimonio per tutti e ha escluso il ricorso a un referendum, chiesto dalla destra. I commenti alla forte partecipazione alla manifestazione di domenica sono stati un pò oscillanti, tra chi, come il ministro degli interni Manuel Valls, ha ammesso che «la mobilitazione è stata molto forte, ma questo fa parte del dibattito», e chi, come la ministra della Sanità Marisol Touraine, ha cercato di minimizzare, parlando di una partecipazione «minore di quanto previsto dagli organizzatori». Megaraduno? La «rete» cattolica La battaglia delle cifre ha fatto seguito ai tre cortei paralleli di domenica a Parigi: 340mila persone per la polizia, 800mila per gli organizzatori. Al dilà dei numeri, è stata la più grande manifestazione della destra dall’84 (per la scuola privata) e della prima prova di forza dell’opposizione della presidenza Hollande. Il governo aveva sottovalutato la forza dei cattolici, che, al di là della vetrina «moderna» rappresentata dalla stramba umorista Frigide Barjot, che è stata in prima linea nell’organizzazione, hanno fatto tutto il lavoro: sono i cattolici che hanno raccolto i soldi (pare un milione di euro), organizzato trasporto e servizio d’ordine, chiamato a raccolta i fedeli. Il cardinale di Pari- Roma /NEL MIRINO LE DELIBERE ALL’URBANISTICA Messaggio al sindaco Alemanno «La città non è in vendita» stelle inutilizzato sulla via Prenestina, all’ex clinica Villa Fiorita a Torrevecchia. Nell’appello, infatti, è forte il richiamo al blocco degli sgomberi poroma si mobilita per il diritto alla città. Sabatati avanti dalle forze dell’ordine in seguito a alle to 19 gennaio un vasto schieramento di foroccupazioni. Da quel momento, sono state diverze sociali cittadine scenderà in piazza per se le assemblee e i momenti di confronto cittadiaffermare che «Roma non è in vendita», come reni attorno alla necessità di «riappropriarsi della cita lo slogan della manifestazione che partirà da città» e di riusare il suo patrimonio invenduto, Piazza Vittorio alle ore 15. inutilizzato, abbandonato. Il punto di partenza «Per il diritto al reddito, alla casa, alla salute, aldella mobilitazione è un «pacchetto» di 64 delibelo studio, alla cultura, dentro una città libera e sire in materia urbanistica, la cui discussione è inicura nei diritti di cittadinanza. Dove la sovranità ziata proprio in questi giorni in consiglio comutorni agli abitanti sottraendola alle logiche di pronale. Nuove compensazioni concesse ai costrutfitto del capitale privato». Ampie le rivendicaziotori, cambi di destinazione d’uso come a Casal ni della giornata di protesta. Boccone dove a 220mila metri Ampia anche la mobilitazione di servizi e negozi viene Sabato manifestazione cubi prevista cha ha dato prova di concesso di diventare case, ausé già sabato scorso nel corso mento di cubature come per la contro il «piano di una partecipata assemblea centralità di Romanina, alienacemento», in prima presso il cinema America occuzione e valorizzazione di immopato, nel quartiere romano di bili pubblici come ex depositi linea il movimento Trastevere, dove si sono conAtac, l’azienda di trasporto frontati movimenti per il dirit- per il diritto all’abitare pubblico, o l’area ormai in disuto all’abitare, studenti, centri so da anni dell’ex Fiera di Rosociali, comitati cittadini, associazioni ambientama dove si pensa ad appartamenti di lusso. Molliste come Legambiente e Italia Nostra, moviti i progetti in variante o in deroga alla normativa menti per l’acqua pubblica, lavoratori dei sindavigente. Se sommate, tutte queste delibere «procati di base, tra cui quelli dell’ospedale Cto e di durranno un impressionante consumo di suolo» Acea, la municipalizzata capitolina dell’acqua e che Legambiente Lazio, nel dossier Roma al medell’energia, al centro, nei mesi scorsi, di un tentro cubo ha stimato in oltre venti milioni di metri tativo di privatizzazione, non riuscito, da parte cubi. dell’amministrazione guidata dal sindaco Gianni Per la mobilitazione, la questione urbanistica Alemanno. è centrale ma è legata direttamente a quella dei Una partecipazione, quella dimostrata al cinediritti: «La precarietà, non solo lavorativa e abitama America, solitamente «negata dai processi detiva ma di vita, aumenta in maniera direttamencisionali che interessano l’intera città». In prima te proporzionale all’uso del mattone: non c’è neslinea, quei movimenti per il diritto all’abitare che suno sviluppo immaginabile per una città che lo scorso 6 dicembre occuparono contemporaneusa il proprio patrimonio e il proprio suolo solo amente sette stabili, dall’ex Hotel Congress, un 4 come scambio monetario». Ylenia Sina ROMA R gi, monsignor Vingt-Trois è sceso anche lui in piazza a salutare i manifestanti alla partenza del corteo. Dietro i cattolici, hanno sfilato molti esponenti dell’Ump, a cominciare dal contestato segretario Jean-François Copé, che spera di ritrovare un pò di fiato grazie alla manifestazione, dopo gli scontri interni d’autunno. Un ramo del corteo era del Fronte nazionale e del Blocco identitario. La battaglia adesso passa in parlamento. Anche se ci sarà un nuovo appuntamento in piazza: il 27 ci sarà una manifestazione dei favorevoli al matrimonio per tutti, due giorni prima dell’inizio del dibattito parlamentare. La destra ha già preparato una raffica di emendamenti, circa 800, farà ostruzionismo e avvierà una mozione che chiede il referendum. L’Ump, che si rende conto che la maggioranza dei francesi è favorevole al matrimonio gay, ha l’intenzione di proporre un’«unione civile», più solenne e ampia del Pacs già in vigore, ma che esclude la filiazione, a cominciare dall’adozione, che è invece parte integrante della legge del matrimonio per tutti. Rischia la procreazione assistita A fare le spese della forte partecipazione di domenica potrebbe essere la procreazione medicalmente assistita (pma) per le coppie di donne omosessuali. Già Hollande ha convinto i deputati socialisti a non presentare un emendamento in questo senso (che però verrà presentato dai Verdi), ma la proposta potrebbe venire depennata anche dalla prossima legge sulla famiglia, che dovrebbe venire discussa prima dell’estate. La sottosegretaria alla famiglia, Dominique Bertinotti, assicura che la pma sarà contenuta nella legge sulla famiglia, che dovrebbe, tra l’altro, permettere di dare automaticamente la nazionalità ai bambini concepiti all’estero da cittadini francesi con ricorso all’utero in affitto (oggi fonte di lunghe battaglie giuridiche per queste famiglie) e il riconoscimento del ruolo di «genitore sociale» (diritti per chi si è occupato del bambino senza avere legami biologici o giuridici). Ma l’estensione alle coppie omosessuali del diritto alla pma cambia radicalmente in Francia questa questione: finora si è trattato di una pratica medica destinata alle coppie sterili, domani dovrebbe diventare un nuovo modo per fare dei bambini. Cosa che la società francese, a differenza per esempio di paesi come l’Olanda o il Belgio, non sembra ancora pronta ad accettare. La chiesa cattolica francese ha avuto la preoccupazione di non chiudersi in un’opposizione alla spagnola, dove nel 2005 i cattolici si sono uniti alla destra in uno scontro frontale contro il matrimonio gay voluto da Zapatero. E hanno perso la battaglia. Anche in Francia sul terreno c’è stata la giunzione con la destra e con gli estremisti (politici e religiosi). Un ramo del corteo di domenica ha raccolto i tradizionalisti di Civitas, gruppo che nel passato ha anche fatto ricorso alla violenza (contro opere d’arte o spettacoli teatrali considerati blasfemi). Per Civitas «il ruolo della chiesa è di guidare gli stati perché adeguino la legislazione alla legge naturale». Con Civitas anche la chiesa cattolica ufficiale condivide l’idea che ci sia una «legge naturale» con cui sarebbe in contraddizione il matrimonio gay. Malgrado il fatto che in Francia circa 200mila bambini già vivano in famiglie omosessuali. «La legge non crea nulla di nuovo per quanto riguarda i modelli famigliari - spiega la sottosegretaria Bertinotti – poiché essi esistono già». Ed è quindi prima di tutto una questione di eguaglianza. il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 pagina 5 ECONOMIA Freelance • Il popolo dei consulenti e dei liberi professionisti non è stato risparmiato dalla crisi. Un questionario fa il punto. Tra chi non paga c’è il pubblico: enti di ricerca, locali e università AUTONOMI · Nei dati dell’indagine di Acta emerge una realtà sconcertante, ma ormai «normale» DETROIT/MARCHIONNE SPIEGA IL PROSSIMO STEP «Oggi lavoro gratis» È la nuova partita Iva «Fiat e Chrysler un’unica azienda» 50% SENZA COMPENSO A un autonomo su due viene chiesto di lavorare senza alcuna retribuzione. I settori più colpiti: editoria, archeologia, architettura nel pubblico come nel privato FOTO FRANCESCO CORRADINI-TAM TAM. A DESTRA, L’AMMINISTRATORE DELEGATO DI FIAT E PRESIDENTE/CEO CHRYSLER, SERGIO MARCHIONNE Roberto Ciccarelli C resce la richiesta di consulenze e prestazioni gratuite ai professionisti che lavorano a partita Iva con le imprese private e con il settore pubblico. È uno degli aspetti più significativi dell'analisi condotta dall'Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato (Acta) condotta su un campione di 744 persone (il 52,7% sono donne), residenti al Nord (62,9%), nate tra gli anni Sessanta e Settanta (rispettivamente il 29,8% e il 35,6%). Un lavoratore autonomo su due ha ricevuto nell'ultimo anno una richiesta di lavoro extra e gratuito. Nel 15,9% dei casi emerge una realtà sconcertante, ma sotto gli occhi di tutti: per i committenti, soprattutto enti di ricerca, università, enti pubblici e locali questa richiesta rientra nella normalità. Tra le partite Iva che lavorano nel campo dell'editoria, dell'archeologia e dell'architettura chi non accetta di lavorare gratis, soprattutto per un committente privato, è costretto a fare i conti con la concorrenza del lavoro gratuito. «È un processo in atto da anni – sostiene Anna Soru, presidente di Acta – ma ora sta emergendo in maniera così forte da imporre l'adozione di misure che tutelino i lavoratori, ma anche il mercato. Penso al salario minimo proposto da Juncker, ma rifiutato dalla Cgil, all'equo compenso per i giornalisti. So di essere controcorrente, ma penso che nelle professioni dovrebbero essere ristabilite le tariffe minime eliminate dalle liberalizzazioni negli ordini professionali. Oggi c'è una concorrenza al ribasso così forte da determinare redditi sulla soglia di povertà. Rispetto al reddito minimo, non ho obiezioni ideologiche. In un paese come il nostro dove c'è tanto lavoro nero,prima di istituirlo bisogna vincere la guerra contro l'evasione fiscale, altrimenti si rischia di finire come nell'agricoltura dove tutti hanno la disoccupazione». I ritardi dei pagamenti sono un'altra iattura per gli autonomi. Il 76% degli interlocutori di Acta dichiara di non ricevere mai anticipi, mentre il 18% li riceve raramente e solo il 6% con una certa regolarità. Questa situazione ha provocato un'inflessione dei redditi così netta da rendere difficile anche il sostentamento. Le bollette, l'affitto di un appartamento, di un ufficio o di una postazione in uno studio, il cibo e anche i mezzi di trasporto sono voci importanti nel bilancio di una partita Iva. Il 47,7% denuncia un reddito appena sufficiente rispetto ai parametri medi. I professionisti che subiscono i contraccolpi della crisi sono quelli che lavorano nelle aree creative come la pubblicità, l'editoria e il design. Sicuramente migliore è la situazio- ne di chi svolge attività più tecniche e specializzate nel settore dell'Information technology (Itc), nell'ingegneria oppure nel campo della consulenza di direzione e strategica. Nel 27% dei casi l'apporto di altri redditi familiari è determinante per sostenere un momento di grande difficoltà. Il 12,8% si affida al sostegno della famiglia di origine. Molto più raro è il ricorso ad altri reddi- GESTIONE SEPARATA INPS Cgil alla ricerca dei contributi smarriti Dopo la denuncia sulla gestione opaca dei contributi dei lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata dell’Inps da parte degli assegnisti di ricerca dell’università di Pavia di Gap 11 (ne ha parlato Il Manifesto sabato 12 gennaio), la Cgil prende carta e penna e scrive al presidente dell’ente previdenziale, Antonio Mastrapasqua: «Si tratta di una lesione gravissima a danno di lavoratori precari la cui pensione rischia già di essere molto bassa. - afferma il Segretario Confederale della CGIL, Vera Lamonica - Non solo, questi lavoratori hanno già subito prime ripercussioni: infatti alcuni denunciano di aver ricevuto indennità di maternità e malattia inferiori agli importi spettanti». A Mastrapasqua la Cgil chiede un incontro dove fare chiarezza sulla vicenda «e che vengano adottati interventi urgenti per garantire l'accredito di tutti i contributi pregressi, oltre che futuri». Cgil, Inca e le categorie di riferimento invitano gli iscritti alla gestione separata a recarsi presso i loro sportelli per verificare la propria posizione contributiva. ro. ci. ti da lavoro o a rendite finanziarie (solo il 3,7%). Questo aspetto dimostra che le partite iva, a lungo considerate a sinistra come a destra una figura intermedia tra l'imprenditore e l'evasore fiscale, sono in realtà donne e uomini che vivono del proprio lavoro. Un lavoro che, come e più di quello dipendente o salariato, è soggetto alle paurose oscillazioni della domanda. Cresce anche la pressione sui prezzi, mentre la contrattazione diventa sempre più lunga e sfiancante per il 67,2% degli intervistati i quali, per tutelare la propria professionalità, non accetta i lavori sottopagati. Altri sono stati costretti ad accettarli per timore di essere sostituiti, perdendo clienti. Per mantenere le posizioni, in attesa di periodi migliori, è fondamentale rafforzare il rapporto di fiducia con i clienti, anche se ormai è molto difficile fidarsi dei rapporti verbali. Il 57% dei clienti non si vergogna di «prendere per il collo» i professionisti che non hanno altra scelta che cedere ai ricatti. Una scelta difficile, ma necessaria imposta dalla riduzione dell'acquisto dei servizi o alla cancellazione di attività. Acta si occupa anche del problema delle «false partite Iva». Dall'entrata in vigore della riforma Fornero nello scorso luglio, i committenti hanno inaugurato stratagemmi e vere e proprie astuzie per aggirare le norme stabilite dalla legge. Oltre il 35% prende tempo per rinnovare il contratto, e spesso rinviano i contratti perché non conoscono le conseguenze delle loro decisioni, sempre più spesso chiedono al professionista consigli su come procedere. Per i contratti che prima coprivano 12 mesi e oggi sono concentrati su 8 mesi è stata eliminata la postazione fissa che obbliga all'assunzione. Il campione analizzato da Acta rivela che il lavoro autonomo non risponde necessariamente ai parametri adottati dalla riforma La monocommittenza non è il criterio che distingue una «finta» partita Iva da una «vera». La stragrande maggioranza degli intervistati conferma che il lavoro viene pagato sulla prestazione, non sul tempo dell’impiego. Ai singoli viene lasciata l'autonomia nel decidere se, come e quando lavorare. F iat-Chrysler un’azienda unica, il sindacato fuori dall’azionariato. Dal salone dell’auto di Detroit, Sergio Marchionne traccia il percorso futuro del gruppo automobilistico globale. «Veba non sarà azionista per sempre», dichiara l’ad Fiat e presidente/ceo di Chrysler. Fiat ha già oltre il 58% del capitale di Chrysler, ma il sogno di Marchionne è che le due aziende diventino una sola, così come è avvenuto per Fiat Industrial e Cnh. «Saranno un’unica entità – spiega – ma non so dire dove, come e quando. Se fosse dipeso da me lo avrei fatto prima di Natale. L’obiettivo è quello di creare una sola azienda che produce vetture in tutto il mondo». L’unico ostacolo è il fondo pensione dei lavoratori Chrysler, il Veba, diventato azionista con il 41,5%, e che vuole uscire per bilanciare il proprio portafoglio. Sulla valutazione della quota Veba su cui Fiat intende esercitare l’opzione di acquisto, Marchionne ha aggiunto che «occorre trovare un benchmark. Il processo è in evoluzione». Il fondo dei lavoratori valuta Chrysler 10 miliardi, mentre per Marchionne prima valeva poco più di 4 miliardi, ora circa 6 miliardi. Da qui la contesa sul prezzo. Fiat può acquistare fino al 3,3% di Chrysler da Veba ogni sei mesi tra il 1 luglio 2012 e il 30 giugno 2016, fino a una quota del 16,6%, e Marchionne ha detto di voler comprare. Nel mese di luglio, Fiat ha annunciato che avrebbe esercitato la prima opzione per aumentare la sua quota del 3,3% in Chrysler, portando la propria partecipazione in Chrysler al 61,8% dal 58,5%. Veba ha chiesto 342 milioni di euro, Marchionne ne ha offerti non più di 139. Per un altro 3,3% Marchionne a gennaio ha offerto 198 milioni di dollari. La questione ora giace presso il Tribunale del Delaware, che entro marzo dovrebbe sciogliere la riserva. Nei giorni scorsi però il fondo Veba ha chiesto la registrazione delle azioni Chrysler per poter intraprendere anche la strada della quotazione, qualora il prezzo offerto dal gruppo o imposto dal Tribunale non rispecchi le sue valutazioni. Ma del suo 41,5% di Chrysler, in realtà, a Veba è consentito collocare in Borsa solo il 24,9%, ovvero la parte non soggetta alla call option Fiat. «L’Ipo Chrysler è tecnicamente fattibile tra 9 mesi», ha concluso Marchionne. Pomigliano /DOPO IL REINTEGRO DEI 19 OPERAI FIOM Il Lingotto a muso duro non ritira i licenziamenti Adriana Pollice «L’ azienda non proceda in modo unilaterale», è l’invocazione dei sindacati del sì alla Fiat. Ieri mattina a Napoli fumata nera all’incontro avvenuto nell’ufficio regionale del Lavoro: ultimo giorno per siglare l’accordo relativo alla procedura di mobilità avviata dal Lingotto per 19 operai di Fabbrica Italia Pomigliano, dopo essere stata costretta dal tribunale del Lavoro di Roma ad assumere 19 lavoratori Fiom, discriminati dall’azienda. Cisl, Uil, Ugl e Fismic hanno sottoscritto un verbale di mancato accordo, chiedono una soluzione condivisa. I metalmeccanici Cgil non erano a quel tavolo ma a uno separato, convocato due ore dopo, perché la regione Campania segue il protocollo Fiat senza fare una piega. Il segretario nazionale della Fim, Ferdinando Uliano, spiega: «Abbiamo firmato intese che hanno consentito la ripartenza produttiva dello stabilimento, con l’impegno di Fiat alla ricollocazione di tutti i lavoratori occupati a Pomigliano entro luglio 2013». Nell’impianto campano sono stati assunti in 3.140, di cui 2.150 contrattualizzati Fip e 990 Fiat Group Automobiles, 1.400 sono in cassa integrazione. Fuori dai cancelli attendono di firmare il contratto ancora in 2.400. «Vista la crisi del mercato è difficile pensare che entro i tempi previsti avvenga la ricollocazione dei 1.400 lavoratori in cig – continua Uliano – per questo ritenia- Confermato per ora lo «scambio» con altri 19 addetti: esuberi. Sono 2400 le tute blu in attesa di contratto mo si debba intervenire, non con licenziamenti, ma con risoluzioni che salvaguardino l’intera occupazione del sito campano di Fiat». Soluzioni condivise chiede anche Luigi Mercogliano, segretario regionale Fismic: «Tenuto conto che, secondo la legge, l’eventuale applicazione dei criteri di individuazione prevede l’anzianità di servizio dei soggetti da licenziare, si determinerebbe l’impossibilità per gli stessi ad accedere alle liste di mobilità o ad altri ammortizzatori sociali». Da stamattina la Fiat potrebbe procedere in modo unilaterale, domani però il tribunale di Roma dovrà pronunciarsi sul ricorso fatto dalla Fiom per l’annullamento della procedura: la Fiat non ha dichiarato nessuno stato di crisi, i lavoratori vanno in cig e poi tornano a produrre, quindi non ci sarebbero i presupposti. «Si tratta piuttosto di una rappresaglia», spiega Francesco Percuoco. C’è poi molto da dire anche sul verbale firmato ieri dalle sigle sindacali: «Ho letto il testo – spiega il segretario generale della Fiom di Napoli, Andrea Amendola – e quello che c’è scritto è gravissimo. Hanno messo nero su bianco che in base agli attuali livelli produttivi c’è un’eccedenza di manodopera. Questo significa mettere una pietra sopra alle assunzioni degli altri 2.400 lavoratori, che pure era una delle condizioni per accettare il contratto Fip». Per quanto riguarda i 19 operai che rischiano il posto, Amendola aggiunge: «Cisl, Uil, Ugl e Fismic fanno propria la posizione della Fiat, che individua un unico criterio per procedere al licenziamento, l’anzianità di servizio, quando la legge stabilisce che bisogna considerare anche i carichi familiari e la funzione. L’unico motivo per cui chiedono all’azienda di fermarsi è la mancanza di ammortizzatori perché, essendo stati assunti da meno di un anno, non hanno diritto né alla mobilità né alla cassa integrazione. Con un po’ di ammortizzatori invece sarebbero licenziabili». Intanto i 19 operai, da quando hanno varcato i cancelli, sono tenuti isolati dal resto dei colleghi: nelle aule a fare formazione, la stessa già fatta due anni fa, senza sapere quando torneranno sulle linee e a fare cosa. Chiusi in una bolla, in attesa che l’azienda individui un modo per scaricarli di nuovo. pagina 6 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 INTERNAZIONALE PRIMAVERA 2011 · A due anni dalla cacciata del dittatore Ben Ali c’è ben poco da festeggiare PALESTINA Tunisia, anniversario amaro Dopo il voto israeliano, «roadmap» Ue Il 14 gennaio di due anni fa la scintilla tunisina delle rivolte arabe. La ricorrenza in un contesto di crisi economica, forte malcontento popolare, scontri violenti tra fazioni religiose e politiche e assenza di prospettive SUDAFRICA Scontri tra polizia e braccianti agricoli GENNAIO 2011, RIVOLTA A TUNISI. SOTTO, SIDI BOUZID, MAOHAMMED BOUAZIZI SI DÀ FUOCO. SOTTO, EGITTO, IL RAÌS ALLA SBARRA/REUTERS Annamaria Rivera A due giorni dal secondo anniversario della rivoluzione tunisina, il 12 gennaio scorso, un ennesimo giovane disoccupato si è dato fuoco in pubblico, questa volta a Mnihla, quartiere povero e densamente popolato della periferia di Tunisi. Lo apprendiamo da una velina di due righe, replicata tal quale da tutti i mezzi d’informazione: nessun giornalista, nessuno dei tanto celebrati blogger si è dato la pena di percorrere i pochi chilometri dal centro della capitale a Mnihla per andare a informarsi sulla biografia, la sorte dello sventurato, le ragioni e le circostanze del suo gesto. Ancora suicidi per fuoco Questo suicidio per fuoco è solo il più recente di una lunga serie che ha continuato a snodarsi nel corso della cosiddetta transizione. Esso, tuttavia, non potrebbe essere più emblematico. Proprio qui, giusto due anni prima, il 12 gennaio 2011, era scoppiata una delle rivolte popolari che, partendo dalle regioni dell’interno più povere ed emarginate, sarebbero divenute il sollevamento popolare che ha affossato il regime. A Mnihla e Ettadhamen (che costituiscono un’unica municipalità), i rivoltosi saccheggiarono un magazzino, incendiarono una banca e si scontrarono con la polizia, che uccise due giovani e ne ferì altri. È molto probabile che l’anonimo giovane disoccupato fosse uno di quei rivoltosi. Il che la dice lunga sulla disperazione di massa per la rivoluzione tradita ed espropriata ai suoi protagonisti: la racaille che niente ha guadagnato da un’insurrezione pagata con un pesante tributo di sangue e repressione. Questa «plebaglia», della quale sono parte tanti giovani disoccupati con un livello d’istruzione alto, oggi vive una condizione ancor più intollerabile: colpita dall’aumento vertiginoso della disoccupazione e del costo della vita nonché dall’aggravarsi delle disparità sociali e regionali; emarginata in agglomerati urbani abbandonati al degrado e alla povertà crescenti; stretta nella tenaglia tra il salafismo dilagante nei quartieri popolari e l’arbitrio e la violenza delle forze dell’ordine; sempre pronta, tuttavia, a ribellarsi, con sommosse ricorrenti ed effimere che quasi nessuno è in grado o vuole organizzare. Oppure, quando le organizza, è pronto a sacrificarle sull’altare di qualche accordo col governo di turno. È accaduto a Siliana alla fine di novembre quando, durante un lungo sciopero generale sostenuto dall’Ugtt, la più importante centrale sindacale, la polizia ha ferito e/o acceca- to con fucili a pallettoni quasi trecento manifestanti. Per aver denunciato e condannato fermamente la violenza delle forze dell’ordine, il sindacato ha subìto un attacco alla sua sede centrale, a Tunisi, da parte degli scherani delle cosiddette Leghe di difesa della rivoluzione (in realtà milizie al servizio di Ennahda). Ma subito dopo la sua dirigenza nazionale, come consueto nella storia dell’Ugtt, infine ha ceduto: ha revocato lo sciopero generale nazionale, proclamato poco prima, e lanciato la proposta del dialogo con lo screditato governo provvisorio di Jebali, peraltro formalmente decaduto. «La conquista del bla-bla» Qualcuno ha scritto su Nawaat, uno dei blog più noti e impegnati, che la sola conquista della rivoluzione è stato il bla-bla: «Il piacere gratuito di conversare liberamente, di dire tutto e qualsiasi cosa senza sentirsi spiati». Il che è vero solo parzialmente. Se è innegabile che la rivoluzione ha liberato la parola pubblica e infranto la cappa di paura, è altrettanto evidente che la libertà di espressione è tutt’altro che garantita, come ha denunciato in un rapporto di pochi giorni or sono anche Amnesty International. Si aggiunga che tuttora consuete sono pratiche come la repressione violenta delle manifestazioni, gli arresti illegali, la detenzione in prigioni segrete, perfino lo stupro, la tortura e l’omicidio in carcere e nelle caserme di polizia. Ad apparati repressivi e giudiziari rimasti sostanzialmente gli stessi si è Giuseppe Acconcia I l processo a Mubarak è da rifare. Se il principale successo del movimento sociale che ha coinvolto l’Egitto, a partire dal 25 gennaio 2011, è forse proprio la condanna all’ergastolo dell’ex presidente, la corte di Cassazione ha disposto la scorsa domenica un nuovo processo per Hosni Mubarak, e l’ex ministro dell’Interno, Habib el-Adly. L’84enne rais egiziano si trova dal 27 dicembre scorso nell’ospedale militare di Maadi, in seguito ad una caduta nella prigione di Tora, dove sconta la pena all’ergastolo per complicità nell’uccisione di circa 900 manifestanti durante le rivolte. Lo scorso due giugno, anche el-Adly è stato condannato al carcere a vita, mentre i figli di Mubarak, Alaa, Gamal e sei funzionari del ministero dell’Interno sono stati assolti. Secondo attivisti e forze di opposizione, dietro il nuovo processo, si prepara l’impunità per il vecchio Mubarak, dopo che gli islamisti hanno incassato l’approvazione della Costituzione che sancisce il bando dei politici del Partito nazionale democratico (Pnd) dalla scena pubblica. Sin dal primo giorno di arresti domiciliari a Sharm elSheikh, gli avvocati dell’ex rais hanno tentato di prendere tempo e di umanizzare il «diavolo», rappresentandolo quotidianamente come malato o in fin di vita. Il revisionismo è dietro l’angolo. mesi di prigione per essersi abbracciati per strada. Insomma, a due anni dalla fuga di Ben Ali ben poco c’è da festeggiare in Tunisia. V’è chi è arrivato a scrivere che il secondo anniversario della rivoluzione del 14 gennaio è un giorno di lutto. E gli abitanti di Sidi Bouzid, la città di Mohamed Bouazizi, hanno deciso di boicottarne le celebrazioni. In effetti la ricorrenza cade in un contesto di crisi e d’inflazione economica, di forte tensione politica, di scontri, anche assai violenti, tra fazioni religiose e politiche, di profondissimo malcontento popolare e assenza di prospettive. aggiunto il bigottismo islamista quale strumento statuale di controllo e repressione. A tal proposito basta ricordare tre episodi. Il 28 marzo 2012, Ghazi Beji e Jaber Mejri, due giovani di Mahdia, sono condannati a sette anni e mezzo di carcere (il primo è riuscito a fuggire in Europa, l’altro è in prigione), per aver postato su Facebook immagini e scritti giudicati blasfemi. Fra settembre e ottobre scorsi, una giovane che era stata fermata col suo compagno e stuprata da tre poliziotti, è denunciata e processata per oscenità in luogo pubblico, come ritorsione per aver osato rivelare la violenza subita e accusare i suoi stupratori. Per fortuna, incalzata dall’indignazione e dagli appelli internazionali, la Corte ha deciso per il non luogo a procedere. Infine, è di pochi giorni fa la notizia di una ragazza di meno di vent’anni e del suo altrettanto giovane compagno condannati a due Il Forum sociale a marzo a Tunisi È in questo quadro, tutt’altro che roseo, che si svolgerà a Tunisi, dal 26 al 30 marzo, il 12˚ Forum Sociale Mondiale. In una fase migliore della transizione, la Tunisia era stata scelta a giusta ragione in quanto culla delle «primavere arabe» e paese che vanta un ricco tessuto associativo. Oggi che le cose sembrano volgere verso un esito problematico e incerto, il Forum potrebbe comunque agire da stimolo per una nuova ondata di rivendicazioni e lotte popolari, questa volta organizzate. Purché esso si sottragga al rischio d’essere usato come fiore all’occhiello del nuovo regime. Non è un’ipotesi peregrina: nella tradizione dei regimi tunisini, di quello benalista in specie, v’è l’abilità nel servirsi della retorica dei diritti umani e della «società civile» per accreditarsi agli occhi dell’Europa e delle istituzioni internazionali. Ieri, la polizia sudafricana ha sparato con proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro i braccianti agricoli, in sciopero per il salario nella regione vinicola del Cap occidentale (sud-ovest), dove le violenze sono riprese dopo qualche giorno di calma, seguito alle ripetute proteste. Gli operai - in maggioranza stagionali hanno lanciato pietre contro poliziotti e giornalisti nella città di Villiersdorp. Chiedono il raddoppio del salario minimo giornaliero da 69 a 150 rands (da 6 a 13 euro) per il lavoro che svolgono nella principale zona di produzione vinicola e di frutta e verdura del Sudafrica. Poco prima, la polizia era intervenuta per disperdere un gruppo di manifestanti nella vicina città di De Doorns, epicentro degli scioperi e delle violenze la settimana scorsa. Per via delle proteste, la principale autostrada che collega il Cap a Johannesburg, la capitale economica del paese, è rimasta chiusa per il sesto giorno consecutivo. Durante il fine settimana, sembrava essere tornata la calma nell’attesa delle trattative sindacali: che però non hanno prodotto risultati e i sindacati hanno deciso di proseguire gli scioperi, dichiarati a novembre, e che potrebbero mettere in pericolo le vendemmie. Già la settimana scorsa la polizia aveva tirato proiettili di gomma sui manifestanti che avevano risposto con lanci di pietre. Almeno 125 persone sono state arrestate in tre giorni di scontri. La regione del Cap occidentale fornisce il 60% circa delle esportazioni agricole del paese e dà lavoro a quasi 200.000 operai. SUDAN Rapiti quattro operai cinesi Nella notte tra l’altroieri e ieri, un gruppo di ribelli armati ha rapito quattro operai cinesi che lavoravano alla costruzione di una strada nel Darfur, nell’est del Sudan, una zona sempre in preda a turbolenze e che - negli ulti anni - ha visto una recrudescenza di sequestri ad opera del banditismo tribalista. EGITTO · La sua condanna all’ergastolo era il successo della «primavera» Mubarak, il processo è da rifare L’ex ministro della giustizia, Ahmed Mekky, commentò la sentenza di ergastolo sottolineando come le assoluzioni per el-Adly e i suoi sei assistenti avrebbero aperto la strada al perdono per tutti gli imputati nel processo. A conferma di queste parole, è arrivata lo scorso ottobre la sentenza che ha scagionato i leader del defunto Pnd dalle responsabilità nella «battaglia dei cammelli», il giorno più duro delle rivolte, in cui si scontrarono in piazza Tahrir sostenitori e oppositori dell’ex presidente. Secondo la corte, la maggior parte dei testimoni ascoltati nel processo era politicizzata. E quindi i temibili, Safwat Sherif, ex presidente della Shura, e Fathi Sorour, ex presidente del Moghles Shaab (Assemblea del popolo) sono stati prosciolti. È curioso che si voglia negare proprio la responsabilità della polizia nelle violenze. A quasi due anni dal 25 gennaio 2011, le rivolte egiziane e tunisine possono essere raccontate come l’opposizione alle abitudini umilianti e degradanti dei poliziotti nei quartieri popolari. Da poveri, disoccupati e venditori ambulanti, i poliziotti sono diffusamente percepiti come forza paramilitare che usa torture e violenze. Gli agenti di polizia sono responsabili di controlli sulla riscossione delle tasse, sul traffico, i prezzi degli alimentari nei mercati, la moralità e la difesa dei luoghi pubblici. Per questo, sulle responsabilità nelle violenze, i primi incriminati sono proprio i poliziotti. Il 25 gennaio 2011, al Cairo e Alessandria i manifestanti attaccarono prima di tutto un centinaio di stazioni di polizia, nei quartieri popolari di Helwan, Embaba, Bab al Sharya, Boulaq Dakrur e al-Mattarya. Quando la situazione sul campo apparve fuori controllo, la polizia scomparve, l’esercito decise allora di abbandonare Mubarak al suo destino e di non sparare sulla folla. A quel punto, la tv di stato e la giunta militare per fermare l’occupazione dello spazio pubblico tentarono la carta del panico, puntando sul timore dei baltagi, i criminali. Tutti i manifestanti sono stati descritti come criminali. In realtà il termine baltagi è molto vago, in alcuni periodi storici è stato associato ai salafiti, in quartieri popolari viene ancora riferito a chi collabora o informa la polizia. Il culmine delle violenze è stata la strage di Port Said, lo scorso febbraio, in cui sono stati uccisi 74 sostenitori della squadra dell’el-Ahly, da molti ricordata come la suprema vendetta dei poliziotti contro gli Ultras, tra i protagonisti delle rivolte. Le responsabilità di Mubarak nelle violenze di piazza sono ancora lontane dall’essere dimostrate o accettate unanimemente. Ma i danni che trenta anni di regime hanno portato all’Egitto non si misurano in vittime. L’estensione dei poteri di sicurezza a polizia e forze paramilitari sono state la conseguenza diretta della ritrazione dello stato dallo spazio pubblico, causata dalle misure neoliberali esasperate, promosse da Mubarak negli anni Novanta. Michele Giorgio GERUSALEMME «N on dirò che avrei voluto essere con voi, sono con voi. Vi guardo e vedo il sogno che attraverso le vostre mani è diventato una realtà radicata». Sono parole dello scrittore libanese Elias Khoury, parte del messaggio (e del suo romanzo) inviato ai comitati popolari palestinesi che tra venerdì e sabato avevano dato vita al villaggio di tende «Bab al Shams» su di una collina a Est di Gerusalemme, nel delicato corridoio E1, dove il premier israeliano Netanyahu intende costruire migliaia di case per coloni. Una iniziativa alla quale 500 agenti della polizia di frontiera israeliana hanno messo messo fine domenica, prima dell’alba, arrestando tutti i palestinesi e gli attivisti internazionali presenti a Bab al Shams (i feriti sono stati sei). Netanyahu aveva chiesto lo sgombero immediato delle 20 tende, in nome dell’applicazione della legge israeliana. Legge che procede a due velocità: ridottissima quando si tratta di evacuare i settler israeliani impegnati nella colonizzazione selvaggia della Cisgiordania parallela a quella approvata dal governo; molto alta quando a creare l’avamposto sono i palestinesi. «Dieci, cento, mille Bab al Shams», scandiscono gli attivisti di una’iniziativa che ha mostrato le grandi potenzialità della resistenza popolare palestinese ma anche i suoi limiti. Bab al Shams ha attirato attenzione internazionale (specie sui social network) e riscosso interesse in un buon numero di palestinesi. Ha sperimentato inoltre una modalità di lotta che sembra dare parecchio fastidio all’occupazione israeliana. Allo stesso tempo non ha coinvolto subito e in modo massiccio i grandi centri urbani della Cisgiordania, fondamentali per una mobilitazione popolare duratura. Non aiuta l’atteggiamento dell’Autorità Nazionale di Abu Mazen che da un lato appoggia queste iniziative e dall’altro le contiene, per impedire che possano trasformarsi nella scintilla della terza Intifada palestinese contro Israele. Ambiguo rimane il ruolo dei due grandi partiti di massa: Hamas non crede nella lotta popolare non violenta; Fatah non si fida dei Comitati popolari e stenta a sostenere campagne di cui non può prendere il controllo. Dei 12 km quadrati del corridoio E1 pare si occupi anche la «roadmap» che, secondo quanto riferiva ieri (con allarme) il quotidiano di Tel Aviv Yediot Ahronot, si preparebbe a presentare l’Unione europea subito poco dopo lo svolgimento delle elezioni politiche israeliane del 22 gennaio. Roadmap frutto di una iniziativa di Parigi e Londra e poi adottata dal «ministro degli esteri» dell’Unione, Catherine Ashton, abbastanza diversa, almeno nello spirito, da quella partorita una decina di anni fa dal Quartetto (Usa, Russia, Onu e Ue). Quindi meno condizionata dalle posizioni rigide di Israele. Tra i punti del piano, ha scritto il quotidiano, ci sono la creazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme Est (o parte di essa) come sua capitale, il congelamento di tutte le costruzioni progettate o in corso nelle colonie israeliane in Cisgiordania e lo scambio di territori tra Israele e Palestina. Obiettivi da raggiungere entro il 2013. «Gli europei non sono in grado di obbligarci a raggiungere un accordo, ma possono metterci in imbarazzo» - hanno spiegato a Yediot fonti vicine al governo «È ragionevole pensare che i palestinesi accetteranno un simile documento, per Israele sarà difficile. Ci metteranno all’angolo». Secondo le stesse fonti, il presidente americano Barack Obama potrebbe accogliere l’iniziativa dell’Ue perchè si basa sulla soluzione a due Stati e sul negoziato bilaterale israelo-palestinese. il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 pagina 7 LA MIA AFRICA Mali • I caccia francesi martellano il nord ma nel frattempo gli islamisti conquistano Diabali, più a sud, e promettono vendetta. I 550 uomini impiegati nei primi giorni diventeranno presto 2.500 PARIGI I ribelli Tuareg dell’Mnla (Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad) hanno affermato ieri di essere «pronti ad aiutare» la Francia nell’offensiva nel nord del Mali. La notizia, se confermata e se avrà seguito, potrebbe rappresentare una svolta per l’intervento francese. Anche se l’Mnla già a dicembre si era impegnato a fermare le ostilità contro Bamako, ma poi gli avvenimenti sono andati in tutt’altra direzione e gli Usa hanno già speso 600 milioni di dollari per addestrare dei combattenti Tuareg, che poi hanno disertato con il colpo di stato a Bamako del marzo 2012. Ieri, i combattimenti si sono intensificati. I ribelli islamisti hanno conquistato Diabali, una cittadina a 400 km da Bamako, al di qua della porta OPERAZIONE GATTOPARDO · L’intervento della Francia prosegue. La ricerca di alleati anche SAHEL Bombe e diplomazia Parigi intensifica i raid Ma il terrorismo non si batte così Secondo un sondaggio anche la maggioranza (68%) degli elettori del Front De Gauche approva l’intervento del deserto. I francesi hanno bombardato più a nord, a Douentza (800 km da Bamako), ma i ribelli avevano già abbandonato il terreno. In un bombardamento vicino al confine algerino, il comandante del gruppo Ansar Eddine sarebbe stato ferito, il suo vice, Abdel Krim, ucciso. Dal punto di vista militare, la Francia ha già previsto di ampliare la presenza sul terreno dell’operazione «Serval» (Gattopardo): i 550 uomini impegnati nei primi giorni di bombardamenti diventeranno a breve 2500. Parigi, cioè, prevede ormai scontri a terra. E sul piano diplomatico cerca alleati, in Africa e in occidente. In Africa, la Francia ha ottenuto un tiepido appoggio dall’Algeria, che ha permesso domenica il sorvolo del suo territorio. La Francia ha coinvolto il Ciad, facendo di N’Djamena la principale base delle retrovie, da dove partono i caccia. Dal Burkina Faso partono invece gli elicotteri. Da Dakar, in Senegal, gli aerei spia. Coinvolto anche il Niger, paese della regione che interessa soprattutto, poiché qui Areva estrae l’uranio indispensabile per far funzionare le centrali nucleari francesi. Con la ricerca di appoggi in Africa, la Francia sta correndo il rischio di far entrare in forza nella regione delle sue ex colonie dell’ovest la potenza regionale anglofona nigeriana, che ha promesso 600 uomini per la Cedao, L’IMBARCO DELLE TRUPPE FRANCESI ALL’AEROPORTO DI NDJAMENA: DESTINAZIONE MALI la forza africana che dovrebbe vedere la luce, forse, con la prevista riunione di Addis Abeba del 25 gennaio. Ieri sera, Hollande è andato a Abu Dhabi, dove si tiene una conferenza internazionale sulle energie rinnovabili, per cercare una sponda anche su questo fronte. In occidente, la Gran Bretagna è già scesa in campo con due C17 che forniranno aiuti logistici. Ma per ora non ha inviato truppe. Gli Usa forniranno droni e aerei cisterna. La Germania ha assicurato un «sostegno politico totale» alla Francia: il ministro degli esteri, Guido Westerwelle, ha affermato che «la Germania non lascerà sola la Francia in questa situazione difficile», ma ha promesso solo aiuti logistici, umanitari e medici, mentre il ministro della difesa, Thomas de Maizière, condiziona il supporto di Berlino a «un consenso nazionale in Mali», perché «bisogna fare chiarezza su chi dirige il paese». La Nato, pur appoggiando l’operazione, ha fatto sapere ieri di «non essere implicata». Il mi- nistro degli esteri, Laurent Fabius, ha annunciato ieri pomeriggio una riunione «nel corso della settimana» tra i ministri degli esteri della Ue. A Bruxelles c’è stata una riunione dei servizi della Ue implicati nella prevista missione di formazione delle truppe del Mali: la missione sarà accelerata, ma, ha precisato Bruxelles, «non avrà nessun ruolo di combattimento». Ieri si è tenuta una nuova riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, su richiesta della Francia. Parigi aveva inviato una lettera per chiedere l’accelerazione dell’applicazione della risoluzione 2085, che autorizza la forza internazionale, che dovrebbe vedere una forte presenza di militari africani. In Francia, dopo una riunione all’Eliseo tra i ministri coinvolti, il primo ministro Jean-Marc Ayrault ha ricevuto ieri sera i rappresentanti dei gruppi parlamentari. Per rispondere alle critiche da sinistra (Verdi e Front de Gauche) sull’assenza di dibattito parlamentare prima dell’attacco di venerdì scorso nel nord del Mali, Ayrault ha promesso un dibattito all’Assemblea in tempi brevi, ma senza voto. A causa delle reiterate minacce contro la Francia che provengono dai ribelli islamisti del Mali, le misure antiterrorismo del piano Vigipirate sono state rafforzate sul territorio francese. Secondo un primo sondaggio, il 63% dei francesi approva l’intervento. Sono a favore il 77% degli elettori socialisti, il 63% di quelli dell’Ump e, sorprendentemente, il 68% di quelli del Front de gauche. Al Fronte nazionale i favorevoli sono il 53%. Oggi, il ministro della difesa, Jean-Yves Le Drian presiederà agli Invalides la cerimonia di omaggio al pilota Damien Bolteux, il primo morto francese della guerra del Mali, deceduto nel primo attacco di venerdì. a.m.m. L’ANALISI · Dal rischio Afghanistan al ritorno politico interno, tutti gli interrogativi che pesano sulla scelta del presidente Hollande fa il «duro»: attacco, dunque sono Philippe Leymarie PARIGI L a Francia ha deciso da sola la forma di un intervento militare in Mali per fermare l’avanzata dei miliziani jihadisti (...). Nonostante l’ union sacrée nell’Esagono, e un ampio sostegno internazionale - compreso quello africano - attorno a questa iniziativa del presidente Hollande, degli interrogativi si pongono. Le finalità della guerra: come in Libia, nel 2011, esse sono confuse. Si è sentito di tutto: assicurare la sicurezza dei cittadini francesi all’estero; (...) guerra contro il terrorismo; (...) impedire la presa di Bamako ecc. Se i jihadisti hanno sì cercato di avanzare verso il Sud, non è dimostrato che avessero intenzione di andare fino a Bamako, la capitale (...). Ora si è agli attacchi contro le posizioni di ripiego dei gruppi armati. A quando la "pulizia" del terreno? Le truppe inviate sul terreno: È proprio quello che era stato evitato in Libia nel 2011. E quello che cercano di evitare in generale americani, britannici, ecc. Ma quello che non hanno potuto impedire i francesi in Mali (...). La durata dell’operazione: essa è perlomeno variabile («il tempo che sarà necessario», «diverse settimane», «fino a quando le forze dell’Africa occidentale e l’esercito del Mali non daranno il cambio», ecc.). Ma il tempo non gioca necessariamente a favore di chi interviene, e che può ritrovarsi impantanato, con un’immagine di "occupante" – come è stato in Afghanistan. Gli obiettivi: inizialmente erano i combattenti sulla linea di demarcazione, adesso sono le retroguardie dei movimenti jihadisti nei loro feudi del Nord (...). Qui nulla è stato veramente nego- ziato, discusso, approvato: è a discrezione della potenza che prende l’iniziativa, quasi in clandestinità. Una guerra senza volto e senza immagine (...). Le risoluzioni Onu: sulla loro interpretazione si basa in teoria la legittimità dell’intervento: se ne prende ciò che si vuole con una modalità "di scivolamento", che ricorda anche qui il precedente libico. Così, la risoluzione 2085 del 22 dicembre era imperniata innanzitutto sul necessario negoziato politico, per separare la questione Tuareg (rivendicazione nazionale o comunitaria, paragonabile alla questione kurda) dalla costituzione di poli jihadisti (...) Oggi Parigi pretende di agire all’offensiva nel nord del Mali sotto la copertura di questa risoluzione che autorizzava un negoziato politico e la messa in csmpo di forze dell’Africa occidentale, ma si riservava il via libera militare a un momento successivo (…). Le giustificazioni politiche: sono a geometria variabile, con un lato "grande salto" della sinistra che assicurava, do- po l’elezione di François Hollande, di non volersi più comportare da "gendarme dell’Africa" (...). Ora, anche se la causa sembra piuttosto giusta, la Francia si ritrova nella posizione di agire in prima linea (...), con i suoi propri mezzi, il suo know-how africano tradizionale (che risale ai tempi del colonialismo, in particolare per quanto riguarda la guerra nel deserto). L’immagine rischia di restarle attaccata ancora a lungo, e non mancheranno "amici" della Francia a chiederle d’intervenire SOMALIA · I miliziani pubblicano foto di un soldato francese ucciso I ribelli al-Shabaab sfidano l’Eliseo I miliziani somali al-Shabaab hanno pubblicato su Twitter le immagini del cadavere di un soldato circondato da equipaggiamenti militari. La didascalia alla foto diceva: «Hollande, ne valeva la pena?». Secondo i ribelli islamisti si tratterebbe del «comandante francese ucciso durante il blitz di Bulo Marer», disposto dall’esercito francese (Dgse) nella notte tra venerdì e sabato scorso per liberare l’ostaggio, Denis Allex, agente dei servizi segreti francesi in mano ai ribelli islamisti dal 2009. Il primo ministro di Parigi, Jean Marc Ayrault, ha parlato di «messa in scena odiosa». «La nostra operazione ha fallito ma il governo la rivendica pienamente perché non è compiacente verso i terroristi», ha aggiunto Ayrault. Nell’operazione, un soldato francese era stato ucciso e un secondo militare, rimasto ferito, è ancora considerato disperso. Ieri mattina, il portavoce degli al-Shabaab, Sheikh Abdiasis Abou Mousab, aveva assicurato che avrebbe mostrato le foto dei corpi dei francesi uccisi, uno dei quali morto in seguito alle ferite riportate nel blitz. Mentre il ministro della difesa, Jean Yves Le Drian, aveva confermato la morte dell’ostaggio e l’uccisione di un soldato nell’operazione. «Gli Shebaab si preparano a organizzare una messa in scena macabra e indegna», ha proseguito Le Drian in riferimento alle foto che sono state pubblicate ieri. Tuttavia, secondo gli al-Shaabab, l’agente Allex, catturato a Mogadiscio nel 2009, sarebbe ancora vivo. I ribelli somali hanno annunciato inoltre di aver deciso con «verdetto unanime» la sorte di Allex e hanno assicurato che renderanno pubblica la loro decisione nelle prossime ore. Dal canto suo, il presidente americano Barack Obama in una lettera inviata al Congresso, ha ammesso di aver fornito «un limitato sostegno tecnico» alla fallita operazione francese per liberare l’ostaggio in Somalia. Ma le forze aeree americane, si legge nella missiva, «non hanno preso direttamente parte all’assalto». Il blitz fallito era stato deciso nel mese di dicembre, dopo che il ministro della difesa di Parigi aveva ricevuto informazioni sul luogo di detenzione di Allex. Tuttavia, secondo testimoni, gli insorti erano stati informati preventivamente su un possibile atterraggio dell’elicottero militare francese nel villaggio costiero meridionale di Bulo Marer. Le autorità francesi hanno riconosciuto che la resistenza degli islamisti è stata più efficace del previsto. Nell’operazione sarebbero rimasti uccisi otto somali. giu. acc. nell’interesse di questo o quel Paese. Sul piano militare: (...) effettivi relativamente limitati dai due lati (qualche migliaio), terreno conosciuto (il Sahel) e «libero» (deserto), appoggio sulla rete di basi e di truppe pre-posizionate a Libreville, N’Djamena, Gibuti (che fanno della Francia, più di cinquant’anni dopo le indipendenze, un caso a parte). Se la Francia non si fosse lanciata , nessuno l’avrebbe fatto al suo posto. Essa potrà compiacersi: «Intervengo, dunque sono». Ma dovrà far comprendere che non torna a essere un gendarme regionale, cosa della quale - in realtà - non ha più veramente né i mezzi, né la volontà. Il posizionamento offensivo: questo atteggiamento (già rilevato a proposito della Libia nel 2011, e della Siria nel 2012) fa di Parigi il nemico n˚1 dei jihadisti, il nuovo «grande Satana», col rischio che i suoi cittadini all’estero o le sue installazioni all’estero, in particolare in Africa, diventino potenziali obiettivi; o che vengano presi di mira obiettivi nell’Esagono (...). Benefici politici per Hollande: (...) il presidente «normale» - più rosa che rosso, più socialdemocratico che socialista, piuttosto «moscio» in tutto - vi trova l’occasione di fare il duro, il risoluto, su un terreno sul quale è garantito incontrare un vasto consenso, in un clima di unanimità nazionale. (...) Unica incognita: se dovesse succedere qualcosa agli ostaggi attualmente prigionieri nel Sahel, com’è accaduto per l’operazione condotta sabato scorso in Somalia per liberare l’agente francese (...), che ha avuto l’effetto disastroso che sappiamo. traduzione di Ornella Sangiovanni La versione integrale dell’articolo su www.lemondediplomatique.fr Giuliana Sgrena L a lotta al terrorismo, dall’11 settembre, giustifica ogni avventura bellica. Anche se non si può fermare la spirale del terrore con la guerra: erano iniziati da poche ore i bombardamenti dei caccia francesi in Mali quando è scattato l’allarme antiterrorismo in Francia. All’intervento francese sono seguite immediatamente le minacce del Mojao (uno dei gruppi terroristi che sta occupando il nord del Mali) e c’è da sperare che restino solo minacce. Con l’intervento francese (appoggiato dagli Usa e da altri paesi europei, Gran Bretagna in testa) salta il dialogo tra jihadisti e governo, sponsorizzato dal Burkina Faso che ora, a sua volta, annuncia l’invio di un contingente. L’Ecowas (Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) stava già preparando un contingente di 3.300 uomini, ma il presidente Traoré ha preferito accelerare l’azione militare chiedendo aiuto alla Francia, che ha risposto subito, avvalendosi anche della risoluzione approvata dall’Onu il 20 dicembre scorso. L’attacco in Mali avviene a poche settimane dal viaggio del presidente Hollande ad Algeri, dove parlando di «rispetto delle memorie, di tutte le memorie» aveva cercato di migliorare i rapporti con l’ex colonia. Da mesi l’Algeria è terrorizzata da un’internazionalizzazione del conflitto alle sue frontiere e l’intervento francese apre la strada a un intervento occidentale più ampio. Ma Algeri, cambiando improvvisamente posizione, non ha condannato l’intervento francese, considerando la richiesta del Mali un «atto sovrano» e lasciando intravedere un possibile intervento algerino contro gli islamisti che occupano il nord del paese confinante. Del resto dal Mali partono le azioni di al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), formato nel 2006 dal Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, una frazione dei Gruppi islamici armati algerini. L’intervento francese, annunciato quando era già in corso e senza chiedere l’autorizzazione del parlamento, risponde innanzitutto agli interessi della Francia che in Mali sfrutta le materie prime, principalmente l’uranio. Proprio come era avvenuto nella crisi libica, la Francia si lancia per prima ma non è escluso che venga seguita da altri paesi europei che potrebbero impiegare le forze che stanno ritirando dall’Afghanistan. Peraltro proprio dalla Libia sono arrivati molti jihadisti, che dallo scorso marzo occupano il Mali settentrionale, e anche le armi. Il Mali è un crocevia del traffico di armi e droga, quest’ultima arriva in gran parte dal Marocco passando per il sud dell’Algeria. Il traffico si è ulteriormente arricchito con il business dei sequestri. Ora, l’intervento militare francese probabilmente provocherà una nuova diaspora dei jihadisti, ma sicuramente non la fine del terrorismo. pagina 8 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 REPORTAGE Il Giappone nel KYOTO P DOPO IL DISASTRO · Con il compiacimento dell’Aiea Il governo minimizza e l’atomo torna di moda confonde le due mansioni», commenta la signora Smith. «Siete ancora a Fukushima? Anche i a strategia è sempre la stessa: scaribambini? Ma perché non venite via?». Socare le responsabilità, confondere le no domande logoranti per chi è rimasto idee dando l’impressione che su nella provincia giapponese teatro del disaogni questione ci siano i pareri pro e constro nucleare seguito al terremoto del tro, spingere le vittime a litigare tra loro. 2011. Accentuano il senso di colpa, in parNon registrare dati, non lasciare prove e, ticolare verso i figli. A sentirle ripetere si fiin ogni caso, temporeggiare. È questa la nisce per smettere di portare la maschetattica adottata dalle autorità giapponesi ra, di fare attenzione al livello delle radiaverso le vittime del disastro nucleare di zioni e perfino di pensarci: insomma si coFukushima, mi dice Aileen Miyoko Smith, mincia a far finta di nulla, più che altro fondatrice e direttrice di Green Action, per la sopravvivenza psicologica. Si litiga un’organizzazione non governativa giaptra vittime, in famiglia e tra vecchi amici. ponese, con base a Kyoto, che lavora da Anche quando non si litiga, la reticenza e più di vent’anni contro l’energia nucleare. l’incomprensione tra chi resta e chi è anSecondo Aileen, nel caso di Fukushidato via crescono col passare del tempo; ma vediamo usare le stesse strategie usaeppure fino all’incidente vivevano tutti in te in passato con i malati della sindrome armonia. Né sono necessariamente i più di Minamata, causata dell’intossicazione benestanti quelli che si sono trasferiti per acuta da mercurio contenuto nei rifiuti sottrarre i figli alle radiazioni: molti degli industriali scaricati in mare, di cui i prievacuati di propria iniziativa infatti sono mi casi sono stati risingle mothers, che conosciuti nel 1956. non avevano nulla La denuncia di Aileen Chi meglio di lei da perdere - più libepuò descrivere il Miyoko Smith, fondatrice re da vincoli, senza meccanismo che locasa di proprietà né di Green Action, gora le vittime delun lavoro stabile e lo sviluppo? Nata a ben pagato. organizzazione Tokyo nel 1950 da Intanto il governo non governativa no-nuke centrale e le amminipadre americano e madre giapponese, strazioni locali hanAileen ha lavorato sin da giovanissima no invitato gli abitanti a tornare, facendo a fianco di Eugene Smith, mitico fotoleva sul loro amore per Fukushima. Hangrafo americano poi divenuto suo marino annunciato la sospensione di ogni aiuto. Andarono a vivere a Minamata, nelto finanziario a chi vuole allontanarsi dall’isola meridionale di Kyushu, da dove la provincia, sostenendo che l’allarme è ordenunciarono al mondo non solo la mai rientrato in molte zone grazie agli malattia ma anche i crimini industriali sforzi della decontaminazione. Il beneplae le vicissitudini delle vittime. cito dell’Aiea alle autorità giapponesi è arAnche oggi, prosegue Aileen, vediamo rivato in questo contesto. le autorità minimizzare i danni; estenuare Malgrado ciò, gli ultimi sondaggi effetle vittime affinché rinuncino a lottare per i tuati da un quotidiano locale di Fukushipropri diritti; stabilire criteri tali da riconoma dicono che 3 abitanti nella provincia scere il minor numero possibile di vittisu 4 auspicano la demolizione immediata me. Altri tasselli di questa strategia: evitadi tutti i 6 reattori nucleari ancora esistenre che le informazioni arrivino oltre i confiti sul territorio (oltre ai 4 incidentati, già in ni, e infine organizzare conferenze intervia di smantellamento). Ma questo contranazionali invitando esperti compiacenti. sta con la politica del governo insediato Proprio come la conferenza ministeriale poche settimane fa a Tokyo. Vari ministri organizzata dal governo giapponese e daldel governo Abe hanno già espresso la vol’Agenzia internazionale per l’energia atolontà di riprendere gli affari nucleari, azzemica (Aiea) a Koriyama, nella provincia di rando il progetto di uscire dalla dipendenFukushima dal 15 al 17 dicembre scorso. za entro il 2039 enunciato lo scorso autunL’incontro, con ospiti da 117 paesi e 13 orno dopo discussioni estenuanti. Il cambio ganizzazioni internazionali, ha partorito di rotta è stato accolto bene dall’amminiciò che la società civile temeva: una dichiastratore di un’altra provincia, Fukui, che razione piena di autocompiacimenti che ospita ben 14 reattori in uno spazio costiesdrammatizza la situazione attuale senza ro di meno di 60 chilometri. All’inizio delalcuna attenzione alla popolazione che sul’anno il governatore Nishikawa ha ribadibisce le conseguenze del disastro. to la richiesta di accelerare i tempi di riatti«Fukushima ci ha insegnato la necessivazione dei reattori attualmente fermi per tà di separare l’organo di controllo da controllo e di avviare la costruzione di quello per la promozione dell’energia nuovi impianti, senza risparmiare critiche nucleare, eppure il governo giapponese alle indagini geologiche in corso per verifiha ripreso il vecchio vizio: per minimizcare l’esistenza di faglie attive sotto alcuni zare il disastro ricorre all’autorevolezza reattori che potrebbero decretare la loro internazionale dell’Aiea, un ente che demolizione. Yukari Saito KYOTO L erché la provincia di Fukui insiste tanto sul nucleare, nonostante il disastro visto a Fukushima? Per capirlo, è utile una visita in zona. Con circa 800 mila abitanti in poco più di 4.000 chilometri quadrati, la provincia di Fukui dista circa 500 chilometri dalla centrale di Fukushima Daiichi e si trova nel nord dell’antica capitale Kyoto sul mar del Giappone che lo divide dalla penisola coreana. Mi accompagnano nella visita Naomi Toyoda, fotogiornalista residente in Tokyo, autore di vari libri su Fukushima ed esperto dell’uranio impoverito; e Masaru Ishichi, attivista locale, un signore sui sessant’anni che ci porta in giro con la sua piccola utilitaria. È una giornata di fine dicembre, buia e gelida, con raffiche di vento misto a neve e pioggia. Ma ogni tanto vediamo squarci di cielo celestino («qui l’inverno è sempre così» dice Masaru come se leggesse il nostro pensiero di aver scelto un giorno sbagliato). La prima tappa è Tsuruga Visitor Center, una struttura museale nella centrale nucleare di Tsuruga, con tre reattori di cui uno è in via di smantellamento. Il museo, molto frequentato da gruppi scolastici, offre ricche informazioni rassicuranti e giochi divertenti oltre a una vista panoramica dell’impianto che, ridipinto di recente, si presenta moderno e asettico. In realtà, il reattore numero 1 ha 43 anni ed è tra i più vecchi al mondo ancora funzionante. La sua demolizione, inizialmente prevista per il 2009, è stata rimandata a causa del ritardo della costruzione di due nuovi reattori. Nel frattempo alcuni ricercatori hanno denunciato l’esistenza di diverse faglie attive sotto il complesso, rendendo incerto il futuro della centrale. «La città vive una profonda crisi da quando l’impianto è stato fermato dopo l’incidente di Fukushima, perché tutta l’economia locale gira intorno alla centrale», ci spiega Masaru. «Non c’è una situazione peggiore che non sapere se potranno riattivarlo o dovranno iniziare la demolizione». Perché non si può decidere di smantellarla? È una scelta che offre buone prospettive occupazionali per decenni e darebbe anche il tempo di sviluppare un’economia alternativa al nucleare. «In astratto lo sanno anche loro, ma in concreto non riescono a immaginarlo, non c’è una road map dettagliata», risponde Masaru, e ci racconta la storia della costruzione di questa centrale, la prima nella zona. «Dovete sapere che questa era una zona del tutto abbandonata dalle amministrazioni. Gli abitanti accettarono di ospitare il primo impianto in cambio di una strada asfaltata». Stiamo percorrendo una di queste strade, la statale 27, una corsia per ciascun senso di marcia. Ancora oggi questa è l’unica via principale su cui si verserà tutta la popolazione nel caso di un’emergenza come quella di Fukushima. «Le aziende elettriche, la Japan Atomic Power Company e la Kansai Electric Power Company, seppero ammorbidire la popolazione. Mandavano manodopera e denaro per le feste locali, invitavano le ragazze dei villaggi alle cene con i giovani dipendenti. Con questi e altri espedienti astuti, le compagnie riuscirono a neutralizzare la diffidenza, che all’inizio era molto diffusa nella comunità locale, e a ridurre a minoranza le opposizioni». Costruita la prima centrale, i comuni limitrofi cominciarono a voler ospitare nuovi impianti, attratti dalla prosperità piovuta sul comune di Tsuruga anche grazie ai massicci incentivi pro-nucleare del governo, che divennero la risorsa principale nel bilancio degli enti locali. «Non è che la diffidenza verso il nucleare sia dissipata», precisa Masaru che ha vissuto sempre in queste parti. «Anzi, la gente diceva rassegnata, ‘avremmo fatto a meno del nucleare, se avessimo avuto una miniera d’oro’. Ma, vedete, qui non c’è nulla a parte la pesca». Così spuntarono altri impianti, uno dopo l’altro: negli anni Settanta tre reattori a Mihama, nella bellissima baia all’ovest di Tsuruga, seguiti dalla centrale di Takahama a ovest, con quattro unità realizzate tra il 1979 e 1993 e altri quattro reattori a Ooi, a metà strada tra Mihama e Takahama. Infine all’inizio degli anni Novanta sorse il famoso reattore nucleare autofertilizzante di Monju, in una piccola bellissima baia abitata da 15 famiglie ma senza un accesso asfaltato, sul versante opposto della penisola dove si trova la centrale di Tsuruga. «Anche la decisione su Monju non è stata indolore. Alla fine in quella piccola frazione hanno detto: siamo già circondati dalle centrali ed esposti al rischio; allora, che senso ha resistere rinunciando al beneficio?». Solo Obama ha rifiutato Solo il comune di Obama, situato tra Ooi e Mihama, ha resistito a questa micidiale tentazione e respinto più volte le offerte. Come ha Viaggio nella provincia di Fukui, a nord dell’antica capitale Kyoto, che ospita 14 reattori in meno di 60 chilometri e non riesce a uscire dagli affari nucleari fatto, questa piccola città portuale che nel medioevo fungeva da finestra aperta per la capitale Kyoto rivolta alla penisola coreana? «I pescatori locali erano spaccati in due gruppi», ricorda il nostro autista. «Parlo degli anni Settanta, l’epoca in cui tutti i comuni della zona erano assiduamente corteggiati dalle aziende elettriche. Il leader della cooperativa dei pescatori oppositrice al progetto andò a chiedere al parlamentare conservatore eletto nel nostro collegio se gli sarebbe piaciuto avere davanti a casa una centrale. Alla risposta negativa del deputato, il sindacalista gli comunicò che gli abitanti erano disposti a fare a meno del nucleare se lui avesse potuto garantirgli una strada asfaltata. In numerose occasioni successive, elezioni del sindaco o petizioni di entrambe le parti, gli abitanti hanno espresso volontà nettamente contraria alla costruzione, 13 o 14 mila contro e 3 o 4 mila a favore». Mentre l’auto prosegue sulla statale bordata da cumuli di neve, l’autoradio trasmette le notizie locali: «… dopodomani si riprendono le indagini geologiche sotto la centrale di Ooi. L’anno 2012 era iniziato con la notizia degli stress test per questo impianto vista l’urgenza di riattivarlo per evitare un blackout estivo, ora chiuderemo l’anno con notizie che potrebbero determinare le sorti della centrale». Le esperienze di Fukushima non spaventano Fukui? A quanto pare, il governatore qui non le sente come minaccia seria e immediata, nonostante la forte perplessità espressa dai governatori delle provincie confinanti, Shiga e Kyoto. Su questo punto la posizione di Nishikawa si distingue anche dal suo omologo della provincia di Niigata, che ospita a Kashiwazaki-Kariwa otto reattori della Tepco, la compagnia elettrica proprietaria dell’im- pianto di Fukushima-Daiichi. In Niigata, dopo il forte terremoto del 2007 che rivelò la fragilità della centrale, l’atteggiamento del governatore è diventato molto più cauto – là inoltre gli abitanti hanno recentemente promosso un referendum popolare sul futuro rapporto della provincia con il nucleare. «Ciò non significa che gli abitanti della provincia di Fukui condividano la percezione del governatore», precisa Masaru. «Anche chi non si oppone al nucleare qui ritiene ingiustificabile una concentrazione così alta di reattori sul nostro territorio. E in fondo sa che non si può andare avanti con i rifiuti radioattivi e i combustibili esausti che stanno riempiendo i depositi. Prima o poi saremo costretti ad affrontare questo problema». In realtà, nemmeno il governatore di Fukui è attaccato al progetto nucleare in sé: a creargli la vera dipendenza è il giro di denaro. Nel 2010, su circa 188 milioni di euro di incentivi per gli enti locali che ospitano gli impianti nucleari, oltre il 40% è entrato nella cassa della Provincia (la percentuale sale al 60 % sugli ultimi 24 anni). Insomma: strade, servizi e posti di lavoro si pagano solo con l’atomo in casa. Ooi, la minaccia tra le montagne Dei quattro siti nucleari visitati, il più impressionante è la centrale di Ooi. Dopo aver corso per 15 minuti lungo la costa tortuosa partendo dal centro di Obama, l’auto si ferma in fondo a una stradina che finisce davanti a un minuscolo frangi-onde circondato da piccoli promontori verdi, scuri: sembra di stare sulla riva di un lago tra le montagne. D’improvviso eccolo: dalla nebbia emergono due panettoni grigi, seminascosti dal promontorio di fronte a noi. Durante i dibattiti sulla riat- il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 pagina 9 REPORTAGE lla trappola nucleare FUKUSHIMA DOPO IL TERREMOTO /REUTERS A DESTRA LA CENTRALE COLPITA, IN BASSO PROTESTA ANTINUCLEARE A TOKYO /REUTERS tivazione delle unità tre e quattro di questa centrale, mesi fa, gli abitanti di Obama chiedevano di avere voce in capitolo, perché esposti a un pericolo maggiore e più diretto che gli abitanti del comune di Ooi. Dopo questo sopralluogo il loro terrore si spiega. Riaccompagnandoci alla stazione, Masaru ci chiede consigli per rendere più efficace l’opposizione locale contro il nucleare. Malgrado le numerose difficoltà, lui crede nella possibilità di cambiare la situazione, perché da anni pratica un dialogo maieutico con i sostenitori locali del nucleare: dice che quasi nessuno gli chiude la porta in faccia, trova sempre un terreno comune e sentimenti condivisibili con gli interlocutori. Il fotografo suggerisce di proporre all’amministrazione un’evacuazione simulata nel raggio di 30 chilometri: «Servirà a tutti per rendersi conto del grado di praticabilità, dell’inadeguatezza dell’infrastruttura – se ci fosse un incidente sulla statale 27? Come faremmo a fuggire? – Sarà chiaro l’impossibilità di proteggere tutti. Ditegli inoltre che non potranno ritornare a casa, non per qualche giorno ma per diversi anni! Molti si convinceranno che il denaro del nucleare non vale la vita». La visita a Fukui riporta alla mente il confronto tra la storia di Minamata e le vicissitudini in corso a Fukushima. Aileen Miyoko Smith, fondatrice e direttrice dell’organizzazione non governativa giapponese Green Action, che lavora da più di vent’anni contro l’energia nucleare, non è l’unica a farci notare le somiglianze tra le due esperienze. «Non riconosco nessuna differenza sostanziale tra i casi dell’inquinamento industriale e quello nucleare», dice anche l’avvocato Chuko Kondo che all’inizio degli anni Settanta diresse un collegio difensore delle vittime di un altro caso simile a Minamata, la malattia Itai-itai, scoppiata a Toyama nel Giappone centrale. Fu quel caso a segnare la prima vittoria processuale nella lunga storia di sconfitte subite dalle vittime di inquinamenti industriali che lo sviluppo seminava in varie parti dell’arcipelago. Oggi Kondo, a ottant’anni compiuti, si dedica completamente a due processi contro il nucleare: uno a Fukushima per la difesa dei diritti di evacuazione, l’altro a Kyoto per la sospensione immediata della centrale di Ooi. «I metodi dei carnefici sono sempre uguali, e pure le nostre difficoltà. Se il nostro caso di Itaiitai ha avuto una serie di fortune – i media dalla nostra parte, l’unità delle vittime e l’umanità dei giudici – , per le vittime di Minamata, sparse in area più estesa e fatte litigare tra di loro, la battaglia fu molto più lunga». Il fatto che queste difficoltà aumentino anche a Fukushima, a quasi 22 mesi dal disastro, preoccupa molto Aileen e tanti altri attivisti. Occorre aiutare le vittime senza creare ulteriori lacerazioni in famiglie, nelle scuole, al lavoro e nel tessuto sociale. «I malati di Minamata hanno sofferto e soffrono ancora dopo 50 anni», ricorda Aileen. «Dobbiamo evitare che Fukushima riproduca una simile tragedia senza fine». yukari saito IN VISITA UFFICIALE · Nella zone colpite La decontaminazione è solo di facciata Monica Zoppè FUKUSHIMA S ullo sfondo montagne innevate, boschi e ruscelli in parte ghiacciati. A fondovalle, tra i campi nel riposo invernale, gruppi di case sparse, ognuna con il suo orticello, i vasi di piante e fiori, la bicicletta parcheggiata e il sentiero di accesso che invita alla porta. Solo che non c’è anima viva: tutto è come sospeso. Siamo a Iitate, sui monti che separano i paesi della costa dall’entroterra in cui siede la città di Fukushima. Viaggio con una delegazione internazionale, riunita grazie a un gruppo di associazioni giapponesi contro il nucleare, che ha organizzato Nuclear Free Now!, conferenza globale per un mondo libero dal nucleare. L’occasione l’ha fornita il governo giapponese, che insieme alla Agenzia Onu per il nucleare (Aiea) ha indetto la Conferenza Ministeriale sulla Sicurezza Nucleare (Fukushima Ministerial Conference on Nuclear Safety) con l’intento di tranquillizzare la popolazione e rilanciare il nucleare in Giappone. Tra gli scopi della conferenza Nuclear Free Now! c’è proprio quello di contrastare il tentativo di chiudere il sipario su Fukushima, magari dichiarando il «cessato allarme», e amplificare invece le voci delle vittime locali, i cui problemi sono ben lontani dall’essere risolti. La mia presenza, quale testimone della vittoriosa battaglia refe- rendaria contro il nucleare in Italia, ha anche lo scopo di diffondere fuori dal Giappone la vicenda di queste persone (centinaia di migliaia) che dopo il momento iniziale sono ora lasciate a se stesse, in balia delle istituzioni governative. Prima di partire, alcune raccomandazioni: «Questa zona è soggetta a continue scosse e rilasci di materiale contaminato: se succede qualcosa seguite le istruzioni e usate la maschera per evitare di respirare particelle radioattive. Al rientro stasera pulite bene le vo- FUKUSHIMA stre scarpe e fate una doccia completa, lavando accuratamente soprattutto i capelli a cui possono aderire le particelle». Incoraggiante. Per fortuna il giornale di oggi, insieme alle previsioni del tempo e al tasso di inquinamento, segnala che il livello di radioattività è limitato. Durante il viaggio in pullman, un giovane di Iitate, uno dei paesi evacuati, ci racconta il momento dell’esplosione, i giorni successivi e infine l’evacuazione. Iitate, un paese di circa 6.300 persone, dista oltre 30 chilometri dalla centrale di Fukushima Daiichi, ma si trovava sotto vento ed è stata colpita in pieno dalla piuma radioattiva. I primi ad afferrare la situazione furono i giovani, che hanno cominciato a organizzarsi prima delle raccomandazioni del governo, arrivate con oltre una settimana di ritardo. Le indicazioni, riferisce la nostra guida, furono di allontanarsi dal paese, ma entro il comune di Fukushima, entro un raggio di circa un’ora di spostamento. Tuttavia i rifugi di città erano già occupati dalle vittime del terremoto e dello tsunami, e ci vollero oltre tre mesi per trovare una sistemazione a tutti gli abitanti. Fatto sta che, una volta evacuati, gli abitanti di Iitate si trovano in condizioni difficili: molte famiglie vivevano in grandi case multi-generazionali, mentre i rifugi sono di solito singole stanze sparse in tutta la città. E va ancora bene quando erano almeno vicini di casa. Sono assai frequenti i casi in cui una persona – di solito il padre - è rimasto in zona, dove nonostante il divieto di residenza molte aziende sono ancora attive, mentre madre e figli si sono spostati in aree non contaminate. Questo ha sfaldato il tessuto sociale, sia all’interno delle famiglie che nelle comunità, in cui non c’è accordo su quale condotta tenere. Infatti il governo riconosce un risarcimento agli evacuati, ma solo quelli «autorizzati»; e la situazione potrebbe cambiare a breve, se verranno innalzati i limiti di tolleranza sulle radiazioni e se saranno considerate abitabili alcune aree «decontaminate». Ma è possibile decontaminare un’area di montagna? Il governo giapponese ha inviato le ruspe per asportare i primi 15-20 cm di terreno dai campi coltivati, nella speranza di ridurre la contaminazione e rendere vivibile l’ambiente, ma l’impresa è disperata: si potranno lavare i tetti (col risultato che la polvere radioattiva passa nell’acqua e poi direttamente nella terra), si potrà accumulare suolo contaminato in grandi cumuli (nessuno sa che fine faranno), ma non sarà mai possibile lavare i boschi, i prati, i ruscelli. Per gli abitanti di Iitate la vita come prima è ormai perduta per sempre. Anche la gestione della «decontaminazione ambientale locale» è molto dibattuta: il lavoro stesso di rimozione della terra e lavaggio dei tetti è pericoloso per chi lo conduce, spesso giovani, e molti ritengono che non sia risolutivo di nulla: anche ammesso che alcune aree ben delimitate possano tornare «pulite», la parte fertile del suolo viene rimossa, vanificando anni e anni di coltivazioni spesso biologiche e/o biodinamiche. Infatti, questa comunità di montagna aveva sviluppato un sistema di economia solidale e alternativa grazie anche all’apporto di perso- Chi è rimasto chi è fuggito, quel che resta delle comunità che le autorità tranquillizzano ma non proteggono ne che, un po’ come è successo da noi, lasciavano la vita di città per tornare a un modello più naturale, coltivando la terra, raccogliendo i frutti del bosco e cacciando i cinghiali che abbondano qui, come nei nostri boschi. Era diffuso l’allevamento di mucche di qualità, famose in tutto il Giappone; alcuni avevano galline o anatre, altri coltivavano i campi, lavoravano la legna e fabbricavano oggetti tradizionali. Spesso gli scambi tra paesani avvenivano in natura, secondo un’economia ricca più di qualità che di denaro, e un modello fatto di relazioni tra persone, di amicizie e discussioni, di condivisione di beni come il bosco, i suoi frutti, la legna... Si capisce che per queste persone, finire in alloggi temporanei in qualche periferia senza terra né boschi equivalga alla distruzione della loro vita. Molti oggi soffrono per il fatto di essere lontani dalla famiglia e senza alcuna attività, il disagio di vivere chiusi in un appartamento, loro, abituati al lavoro magari duro, che dava un senso alla loro vita di contadini - senza parlare delle famiglie disperse. Pochi chilometri e qualche valle più in là, la situazione è diversa ma non migliore. Oguni, frazione nel comune di Date, è più vicina alla città di Fukushima, a 55 chilometri dalla centrale esplosa; qui i livelli di contaminazione sono stati evidenziati solo grazie all’intervento di un’associazione francese, in seguito alle cui denunce, e con gravissimo ritardo, le autorità hanno identificato una serie di punti specifici per cui si raccomanda l’evacuazione (Specific Spots Recommended for Evacuation): solo intorno a metà giugno 2011, oltre tre mesi dall’inizio dell’esposizione. Qui alcune case sono state evacuate, mentre altre magari a pochi metri di distanza sono state classificate «vivibili». I criteri adottati dal governo per decretare l’evacuazione di alcuni nuclei familiari comprendono fattori diversi, tra cui la presenza di bambini e il livello di contaminazione. Tuttavia questo ha significato disgregare il tessuto sociale: perché questo «altrove» si può trovare a pochi chilometri come a diverse centinaia. Qui gli abitanti si sono organizzati, hanno acquistato collettivamente uno strumento affidabile per la misurazione della radioattività e hanno compilato una mappa dettagliata della valle. I contadini organizzati portano al centro autogestito i loro prodotti prima di mangiarli o di metterli sul mercato locale. Anche qui però il paesaggio è dominato dai grandi cumuli, coperti di teli blu, sotto i quali è «nascosto» il suolo radioattivo. Quest’operazione è spacciata per «decontaminazione», al punto che alcune aree in cui è stato raggiunto un livello di esposizione minore di 20 millisievert (mS) annui, sono poi dichiarati «puliti». Ma trasferire materiale contaminato da un campo all’altro non risolve il problema, semplicemente lo sposta; d’altra parte anche il livello di 20 mS annui, che corrisponde al massimo ammesso in Italia per i lavoratori esposti per ragioni professionali, non è un livello di sicurezza accettabile per la popolazione. Per questo ci sono associazioni che cercano di organizzare soggiorni per i bambini in aree decontaminate. Infatti, se la provincia di Fukushima conta in totale circa 160.000 sfollati ufficiali, di cui oltre la metà fuori dai confini provinciali, per Iitate, la frazione di abitanti che si sono allontanati è solo dell’11%. Durante la nostra visita ai paesi della provincia di Fukushima, abbiamo incontrato diverse stazioni di misurazione della radioattività, disposte dalle istituzioni per monitorare la situazione. Nella delegazione con cui viaggio, che include esperti provenienti da molti paesi, molti sono attrezzati con contatori Geiger. Ebbene, in tutte le postazioni i dati rilevati dai nostri contatori sono sempre molto superiori, a volte doppi, rispetto a quelli rilevati dagli strumenti ufficiali, che sono spesso posizionati in modo da attutire la radiazione, sopra piattaforme di cemento, magari con lastre isolanti nelle vicinanze. Più che proteggere la popolazione, sembra che la maggiore preoccupazione delle autorità sia «tranquillizzare». E il governo, ci spiegano, sta spendendo cifre enormi in questa operazione: 50 milioni di yen per abitante (circa 440.000 euro). Molti la ritengono un’operazione di facciata, tanto più che anche nelle aree «ripulite» il livello di radioattività è ridotto al massimo del 40%. Con una cifra equivalente, se corrisposta alle famiglie, le persone potrebbero davvero ricostruirsi una vita in un’area pulita, portandosi dietro il bagaglio di un’esperienza che, se ha segnato tutto il Giappone, per gli abitanti della provincia di Fukushima significa avere un nuovo scopo: combattere il nucleare sempre e ovunque. pagina 10 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 CULTURA ARCHEOLOGIA A RISCHIO Quel black out della civiltà Orlando Cerasuolo T ra i vanti della cultura storica del nostro paese vi è senza dubbio la Scuola archeologica italiana di Atene, un’istituzione attiva sin dal 1909. La Scuola, spesso chiamata semplicemente con il suo acronimo Saia dagli addetti ai lavori, promuove da oltre un secolo gli studi archeologici, storici, filologici e architettonici dedicati alle antichità della Grecia e del Mediterraneo centro-orientale e rappresenta la destinazione ideale per gli studiosi italiani e stranieri che conducono ricerche e scavi archeologici in queste zone. Le sue principali attività riguardano la formazione e la ricerca. La Scuola infatti, nella sua sede di Atene, offre un’intensa attività didattica, tenuta da docenti di levatura internazionale, che copre dalla preistoria micenea alla cristianità bizantina, dallo studio delle fonti antiche alla ricerca archeologica, dalla topografia all’analisi architettonica dei monumenti. La ricerca è, sin dalle sue origini, un punto di forza della Scuola: scavi e indagini di superficie, realizzati con le più aggiornate tecnologie e con il coinvolgimento di numerosi istituti universitari italiani, sono stati condotti a Creta, a Lemno, ad Atene, a Sparta, in Acaia e in Messenia, per limitarsi ai progetti più recenti e ancora in corso. I risultati di tutte queste attività sono costantemente rese note grazie ad una notevole produzione editoriale, che ha come elemento chiave il prestigioso Annuario della Scuola - di cui è da poco uscito l’89˚ volume -, ed è arricchita da altre due collane e da una lunga serie di monografie. Uno dei più recenti risultati, in questo ambito, è quello della realizzazione di un primo atlante topografico dei monumenti di Atene nell’ambito della collana di «Studi di archeologia e di topografia di Atene e dell’Attica», fortemente voluto dal professor Emanuele Greco, l’attuale direttore dell’istituto. Inoltre è stato recentemente aggiornato il portale internet della Scuola (www.scuoladiatene.it), in cui possono essere recuperate tutte le informazioni relative alle molteplici attività in corso e dove, tra l’altro, è possibile scaricare in formato .pdf il notiziario della Saia. Per chi frequenta in Italia il mondo dell’archeologia, la Saia rappresenta un istituto di eccellenza, da cui sono passati molti dei più illustri studiosi che oggi portano avanti università e soprintendenze del nostro paese. Un legame particolare esiste con l’Accademia nazionale dei Lincei, uno dei più antichi e prestigiosi centri della cultura europea, che quasi ogni anno mette a disposizione borse di perfezionamento per trascorrere alcuni mesi alla Saia. Sono le borse di studio «Clelia Laviosa», dalla studiosa che con un lascito le ha rese possibili. Ogni anno, una decina tra dottorandi e postdoc, condividendo tutti gli aspetti della vita La Saia, scuola archeologica italiana di Atene, lancia l’appello per la salvezza. È l’istituto di eccellenza, che ha formato le migliori professionalità del nostro paese quotidiana, hanno la possibilità di fare viaggi di studio Grecia e in Asia Minore, assistere a conferenze, visitare mostre, e quindi portare avanti i loro progetti di studio, ciascuno con diversi tagli metodologici e differenti orizzonti cronologici. Per periodi più brevi, la Scuola ospita decine di dottorandi e laureandi di varie università italiane convenzionate con la Saia (come ad esempio Catania, Palermo, l’Orientale di Napoli o la Ca’ Foscari di Venezia, la Sapienza di Roma, Salerno, Padova, Milano), ma anche architetti che si occupano di restauri, conservazione e studio dei monumenti e funzionari delle Soprintendenze archeologiche italiane, che qui possono partecipare a corsi di perfezionamento. La presenza di studiosi stranieri rende l’istituto un’interessante miscela di competenze e di interessi accademici. Il centro della vita alla Scuola è senz’altro la grande biblioteca, che contiene oltre cinquantatremila volumi, tra cui alcune rarità e - ovviamente - le più recenti pubblicazioni italiane di archeologia. Il soggiorno presso la Saia consente di avere accesso anche agli archivi, che tra l’altro conservano alcuni preziosi documenti delle attività eseguite dagli italiani nel Dodecaneso durante il periodo di occupazione militare, cioè tra il 1912 e il 1943, e degli altri progetti condotti da coloro che hanno maggiormente dato impulso all’attività della Scuola, come ad esempio Federico Halbherr, Luigi Pernier, Alessandro Della Seta, Doro Levi e Antonino Di Vita. Benché alcune delle scoperte effettuate dagli italiani in Grecia siano ormai scritte nelle pagi- ne della storia e riconosciute a livello internazionale, a cominciare dalla scoperta della Lunga Iscrizione di Gortina o da quella del celeberrimo Disco di Festo, non tutto ciò che riguarda la Scuola archeologica italiana ad Atene è rose e fiori, e questo nel pieno del quadro delle grandi difficoltà economiche e culturali che vivono sia l’Italia che la Grecia di oggi. La Scuola, come altri istituti culturali, soffre ormai da alcuni anni di una grave crisi. Periodicamente, come i più attenti lettori sapranno, si paventa il rischio di chiusura e si verificano costanti tagli che mettono in grande difficoltà anche la quotidiana gestione dell’istituto. Ciò avviene principalmente a causa dei drastici e deprecabili tagli che da decenni colpiscono i due Ministeri cui è sottoposta la Saia: il Ministero per i beni e le attività culturali (Mibac) e il Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca (Miur). Tra il 2001 e oggi, il finanziamento pubblico alla Scuola è passato da un milione di euro a circa trecentosettantamila euro (che è quanto previsto nella legge di stabilità per il 2013), ben al di sotto di quanto sono le spese vive per il mantenimento della struttura e del personale. Proprio per questo motivo, il direttore della Scuola, pochi giorni fa, ha nuovamente richiamato l’attenzione sul problema e ha lanciato una raccolta firme on-line che è opportuno sostenere (http://firmiamo.it/troppitagli—rischio-chiusura-della-saia). Nella speranza che l’anno nuovo possa vedere un significativo cambio di «rotta», si può chiudere con una nota positiva. Nonostante tutte le difficoltà di cui si è detto, proprio quest’anno si può festeggiare la riapertura della Scuola di specializzazione in beni archeologici presso la Scuola di Atene. Il bando si può trovare nel sito web e scade il 18 gennaio. Si spera, quindi, che i quattro vincitori di tale concorso possano negli anni futuri assistere ad un miglioramento delle condizioni dell’istituto, e della sua considerazione da parte degli amministratori centrali, e che più luminose prospettive si aprano per la gloriosa storia della Scuola archeologica di Atene. INTERVISTA · Parla il direttore Emanuele Greco Lo studio dell’Acropoli non si può monetizzare Or. Ce. E manuele Greco, nato a Taranto il 18 dicembre 1945, è professore ordinario di archeologia classica all’università di Napoli «L’Orientale» e dal 2000 direttore della Scuola archeologica italiana di Atene. Si occupa prevalentemente di topografia e urbanistica del mondo greco e di colonizzazione greca dell’Occidente. La Scuola archeologica italiana di Atene, così come altri prestigiosi istituti culturali del nostro paese, vive periodicamente il rischio di chiusura e da alcuni anni subisce costanti tagli al bilancio. Quali sono le motivazioni ufficiali di tale politica amministrativa? Ma soprattut- Bisogna interrogarsi su cosa dobbiamo chiedere all’antico nell’era dello spread e dell’alta finanza. Anche la politica, con le sue riforme scolastiche, ha molte responsabilità to, la sola dimensione economica di istituzioni come la Saia è sufficiente a valutare i benefici della loro esistenza? Un deputato della Margherita mi disse anni fa, preso dallo sconforto, che evidentemente alla commissione bilancio tagliando i fondi alla Saia pensavano di dare un serio contributo al risanamento del debito pubblico. A parte la battuta, la Corte dei conti, nella sua relazione annuale, chiede in sostanza se valga la pena monitorare un ente così povero la cui utilità sarebbe, oltre tutto, discutibile in base al rapporto costi-obiettivi. Ho protestato ricordando che la Saia non è una fabbrica di bulloni ma forma i giovani archeologi che sono destinati alla tutela del patrimonio dello Stato e alle carriere universitarie, oltre a svolgere e coordinare tutta l’archeologia italiana nell’Egeo… io non sono in grado di monetizzare tutto ciò. A scuola non si studiano più le lingue antiche e la divulgazione culturale, e archeologica in particolare, ha un carattere spettacolare, è priva di domande storiche e di contenuti. La vicenda della Saia sembra paradigmatica della perdita del valore del classico nelle società di oggi, in Italia come in Europa. Ciò sembra paradossale visto che le difficoltà sono economiche, ma hanno radici nella crisi culturale, di valori e di priorità.... il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 pagina 11 CULTURA A ROMA VANNO IN SCENA LE GIORNATE VIETNAMITE Mostre, libri, convegni, film, forum sulla cooperazione. Dalle bellezze naturalistiche alla lotta per la libertà, dagli anacardi all’eccellenza industriale, la storia del Vietnam è più volte passata anche per l’Italia. Dal 16 al 23 gennaio tutti avranno modo di scoprire in prima LE PITTURE DEL SARCOFAGO DI HAGHIA TRIADA (XIV SECOLO A.C.); LA GRANDE ISCRIZIONE DI GORTINA (PRIMA METÀ DEL V SECOLO A.C.); LA SFINGE IN TERRACOTTA DA UNO DEI SANTUARI DELL'ISOLA DI LEMNO (VI SECOLO A.C.) TROVATA NEGLI SCAVI DEGLI ITALIANI È IL SIMBOLO DELLA SAIA. persona le mille sfaccettature di questa civiltà grazie alle Giornate Vietnamite in Italia: in occasione del quarantesimo anniversario dell’apertura delle relazioni diplomatiche tra Vietnam e Italia, l’Ambasciata della Repubblica Socialista del Vietnam in Italia ha, infatti, organizzato, in collaborazione con enti e associazioni italiani, una serie di eventi che animeranno la Capitale. Il calendario di attività sarà aperto il 16 gennaio dalla mostra alla sede nazionale della Cgil sulle solidarietà italiana negli anni ’60 e ’70 a sostegno del Vietnam e dall’esposizione di quadri di pittori contemporanei vietnamiti ospitata dalla sede della Provincia di Roma. INTERNET · Il suicidio di Aaron Swartz, programmatore e attivista L’enfant prodige che aveva sfidato le major della Rete linguaggio europeo dei diritti. Ma la presidenza di Obama mette in secondo piano la questione della Rete. La crisi economica sta mettendo in ginocchio gli Stati Uniti e a Washington pensano bene di non inimicarsi nessuno nell’olimpo dell’alta tecnologia. Obama guarda infatti a Apple, Google e Facebook come un possibile volano per la ripresa americana. Convinzione che, a tutt’oggi, è stata smentita dalla realtà. Google sta ancora cercando di capire come muoversi in una realtà che vede la convergenza tra telecomunicazioni e informatica. Apple ha perso il suo guru. Il debutto in borsa di Facebook si è rivelato un flop. Obama però ha compreso che la Rete è diventato un potente medium e lo ha utilizzato tantissimo nella campagna per il secondo mandato. Aaron Swartz è diffidente, anche se dà il suo contributo. È più interessato a condurre la battaglia contro un progetto di legge chiamato Sopa – Stop Online Piracy Act -. Lavora a fianco di Lawrence Lessig, prende la parola in vari sit-in organizzati in giro per gli Stati Uniti. Il suo volto esile, allungato, ma sempre sorridente diventa noto anche a chi non è un attivista digitale. Nei suoi speech invita a passare all’azione. Fra le scoperte storiche effettuate dagli italiani in Grecia, la «Lunga Iscrizione» di Gortyna e il Disco di Festo Lei tocca il cuore della sciagura. Cominciamo dalla pessima divulgazione fondata solo sul mistero e le scempiaggini derivate. Certo, scontiamo anche una perdita di attenzione verso la storia antica di cui sono responsabili in primis gli addetti ai lavori che non sanno trasmettere il senso delle loro ricerche in sintonia con le pulsioni culturali del nostro tempo, lasciando il compito di divulgare agli imbonitori televisivi. E poi, diciamolo, anche la nostra classe politica con le varie riforme scolastiche, ha le sue responsabilità. Negli anni ’70-’80 quando esplose l’attenzione per l’archeologia come scienza antropologica e fonte di storia economica e sociale, al Bobo di Staino stralunato dal diverso orientamento della ricerca storica (niente Orazi e Curiazi, Muzio Scevola etc.) la figlia chiese se avesse studiato la storia antica su Novella 2000. Negli anni seguenti questa attenzione è venuta scemando a favore dei federalismi, delle identità etniche e della storia di genere. Bisogna interrogarsi su cosa dobbiamo chiedere all’antico nell’era dello spread e dell’alta finanza. A qualcuno interessa ancora conoscere la storia dell’Acropoli di Atene o esplorare il fascino eterno dei frontoni di Olimpia? La Saia ha una funzione formativa di tipo post-universitario. Nel quadro della disoccupazione e del precariato generale che affrontano i neo-laureati, come giudica la preparazione universitaria antichistica, con una sempre maggiore divisione tra archeologia da campo e carriera accademica? Altro tema di centralità assoluta che ha agganci evidenti con tutte le altre sfere della formazione con il loro rapporto con il mercato del lavoro. Di sicuro sappiamo cha a fronte di un ricercatore universitario lo Stato ha bisogno di almeno 10, se non di più, funzionari preposti alla tutela. Forse sarebbe ora di intervenire con una programmazione più rigorosa, evitando il localistico proliferare delle scuole di specializzazione che sfornano centinaia di specializzati (a volte anche troppo rapidamente specializzati) destinati solo alla disoccupazione. Al tempo della riforma (la 382 del 1980) io ero tra i pochi contrari a quella separazione; almeno a livello della formazione generale sono sempre dell’opinione che un archeologo debba avere una solida preparazione culturale di base (che comprende le lingue classiche!)... le differenze vanno definite dopo. Lei vive direttamente la realtà greca e guardare al di fuori del proprio orto può sempre essere utile. Cosa ci può insegnare l’esperienza ellenica nella gestione del patrimonio archeologico, ad esempio in merito ad archeologia preventiva, apertura dei siti, allestimenti museali, permessi di studio, autorizzazioni di scavo? Per rispondere bisogna tener conto innanzitutto delle specificità elleniche, a cominciare dal numero degli abitanti (dieci milioni loro, sessanta noi). Questo determina una forte centralità della gestione, a volte eccessiva, anche se si tiene conto delle differenze di grandezza. In Grecia l’archeologia è un affare di Stato, gelosamente amministrato e regolato da leggi assai rigide, tutto sommato giuste e mirate al contenimento di quella che il nostro Pallottino chiamava la libido effodendi. Di recente si sono forniti anche di strumenti legislativi sull’archeologia preventiva, anche se le tecniche di scavo praticate a cominciare dalle scuole straniere sono molto tradizionali. È invece più che apprezzabile la capacità di organizzare mostre con grande efficacia comunicativa come quella sul relitto di Anticitera al Museo nazionale di Atene. È ovvio che in tempi di crisi l’attenzione maggiore sia rivolta a quei grandi siti (Acropoli, musei di Atene, Delfi, Olimpia etc.) produttori di ricchezza grazie al turismo di massa. Quasi mai si riconosce al patrimonio culturale un valore di risorsa non delocalizzabile e alla fruizione turistica una valenza strategica di primaria importanza, con grandi potenziali economici. Non a caso l’articolo 9 della nostra Costituzione affianca la tutela del patrimonio alla promozione della cultura. Siamo oggi in periodo di agende e di campagne elettorali, che politiche culturali suggerisce al prossimo governo? Dolenti note perché mai in nessun campo come quello dei beni culturali esiste tanta distanza tra la elaborazione di modelli, denunce, progetti ed aspirazioni e la pratica politica. Basta leggere la stampa quotidiana per rendersene conto. Prepariamoci: nella campagna elettorale sentiremo dire le solite panzane sul patrimonio culturale dello Stato che ha il 60, no il 70, no il 75 % di quello mondiale, und so weiter come direbbe la Cancelliera. Fino al 22 febbraio a mezzanotte. Poi verrà, come sempre il buio: per altri cinque anni. La critica al Mit DALLA PRIMA Benedetto Vecchi C’è sempre una zona d’ombra in un suicidio. Non bastano a spiegarlo né lettere d’addio, né le parole degli amici più cari, dei familiari. L’unica cosa certa è che qualsiasi ragione per non togliersi la vita perde valore agli occhi di chi ha deciso di aprire una porta, per chiuderla definitivamente alle proprie spalle. Aaron Swartz, enfant prodige dell’informatica e attivista della Rete si è ucciso negli Stati Uniti. In molti si sono affrettati a dire che negli ultimi mesi era depresso, nonostante la notorietà e un ragguardevole conto in banca, dopo che a quattordici anni aveva sviluppato un programma per la distribuzione dei contenuti in rete (Rss, «Read simple Syndacation» o più precisamente «Rdf Site Summery»), che consente di non solo di poter aggiornare un sito, ma di poter conoscere commenti, variazioni a un contenuto pubblicato in Rete. Aaron di anni ne aveva ormai ventisei, ma la sua giovane vita ha sempre viaggiato a «mille». Capelli lunghi, viso esile e un sorriso che colpiva per la sua solarità, Swartz ha cercato di trasformare in realtà il motto della Rete: «The information want to be free», l’informazione vuole essere libera. La gallina dalle uova d’oro Entrato all’Università di Stanford, lascia le austere aule del campus perché preferisce lavorare. Ha un nome ormai noto nella Silicon Valley o la 128 route di Boston, i due centri sinonimo di alta tecnologia. Il suo ingresso nel mondo del lavoro passa attraverso la fondazione di una piccola impresa di software, la Infogami, che si vuol specializzare nella memorizzazione e gestione di testi digitali. Dopo un anno, i finanziatori del progetto invitano Swartz ha fondersi con Reddit, società specializzata nella raccolta di news con una forte connotazione «sociale» o «comunitaria». L’operazione non decolla e la fusione si rivela meno remunerativa di quanto potessero sperare i suoi protagonisti. Per quasi un anno, il sito messo nato dalla fusione ha pochissimi «frequentatori», che cominciano però a salire quando Swartz prende in mano le redini del progetto. Dopo un anno il sito arriva ad avere oltre un milione di contatti. Il calendario ha girato da poco tempo la boa del nuovo millennio. La Rete parla il linguaggio dei social network e di Internet come medium con la capacità di inglobare i vecchi media – giornali, tv e radio -. Il nodo dei contenuti è essenziale: chi riesce a sbrogliarlo, può diventare la gallina delle uova d’oro. Facebook vuol diventare quell’impresa; anche Google ambisce a ciò, forte di una base pressoché inarrivabile di utenti quotidiani; Apple ha assaporato il miele dell’iTunes e parla sempre più frequentemente di volere vincolare gli utenti a un’impresa che fornisce di tutto per stare in Rete – programmi e accesso ai contenuti -. Sono imprese che hanno «modelli di business » tra loro differenti, tutti si affannano per far profitti con lo sciamare in Rete. È in questo contesto che Aaron Swartz collabora a Wikipedia, dimostrando l’affidabilità delle voci scritte da «volontari». Entra in contatto con Lawrence Lessig, il giurista che ha sviluppato la licenza Creative Commons per la distribuzione «aperta» di software, musica, testi, film. Tra il docente di Harvard e poi di Stanford e Swartz c’è forte empatia. Discutono molto su come organizzare campagne di sensibi- Accusato di aver scaricato materiali del Mit, rischiava 50 anni di carcere lizzazione per contrastare la fobia proprietaria sulla Rete. Swartz non è però un teorico. Guarda con simpatia la prima candidatura di Barack Obama. Lo appoggia pubblicamente. Ma rimane nel backstage nel contribuire alla prima campagna presidenziale del leader afroamericano. Nei primi mesi del primo mandato spera che Obama mantenga fede agli impegni presi durante la campagna eletorale: nessun inasprimento delle leggi sul copyright e maggiore attenzione al diritto di accesso alla Rete come diritto universale, direbbe un esperto del compassato Negli Stati Uniti, a differenza dal vecchio continente, la libertà di accesso alla riviste scientifiche e alla biblioteche digitali è un argomento che sta a cuore sia degli attivisti, ma anche di una parte significativa della comunità scientifica. Inoltre, molte delle ricerche condotte nei campus ricevono, sia pur indirettamente, finanziamenti pubblici. Pagare per accedere ai testi pubblicati è considerato «poco etico». Swartz sa che uno dei maggiori centri di ricerca del paese, il Mit, pubblica riviste e ha biblioteche digitali a pagamento. Da qui la scelta di scaricare tutti i file della biblioteca digitale Jstor del Mit e renderli pubblici. Un gesto che costa a Swartz pochi giorni di prigione. Uscirà nel 2011 su cauzione. Giuristi, ricercatori, scienziati si schierano a suo favore. Il Massachussets Institute of Technology decide alla fine che non lo perseguirà in tribunale. Non la pensa così la polizia, che qualifica il gesto di Swartz come criminale e pericoloso per la società più o meno come un omicida, uno stupratore. Lessig invita Obama a ricorrere alla Corte suprema: il presidente statunitense ha scelto però il silenzio. Alla prima udienza le accuse vengono confermate: Swartz rischia cinquanta anni di prigione per un processo che doveva svolgersi il prossimo aprile. Chi lo avvicina parla di un giovane sempre più depresso. Sta lentamente scivolando in un buco nero. Ieri la notizia del ritrovamento del corpo nella casa di Brooklyn. Il primo reperto della polizia parla di suicidio per impiccagione. Il sorriso di Swartz si è così spento. L’omaggio viene dalla Rete. Lessig lo chiama figlio, i suoi familiari puntano l’indice contro la polizia e il Mit. Migliaia di messaggi si diffondono di nodo in nodo per la Rete. Anonymous «defaccia» alcuni siti del Mit; a New York la veglia funebre si è trasformata in un happening per la libertà di circolazione e diffusione della conoscenza. Non era un eroe. Solo un figlio del suo tempo, che ha deciso di stare dalla libertà di circolazione delle informazioni e della conoscenza. Uno di noi, che senza clamore è stato anche dalla parte del torto. pagina 12 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 VISIONI Intervista • Olivier Assayas parla di «Qualcosa nell’aria», nelle nostre sale giovedì. Gli anni Settanta in Francia tra autobiografia, scoperta del cinema, invenzione del mondo Cristina Piccino ROMA S ul banco Gilles incide la A di anarchia mentre il professore legge un passo di Blaise Pascal: «Tra noi e l'inferno o tra noi e il cielo c'è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo». Gilles e i suoi amici la vivono a perdifiato. Siamo all'inizio degli anni Settanta, nella provincia francese, il Maggio 68 è ancora lì, sogno vitale di un'utopia, gesto reale di una possibile rivoluzione. Gilles, Christine, Jean Pierre, Alain, Maria sono liceali che hanno fatto propria l’«aria» (e la sfida) del tempo: la politica, la lotta contro l’ordine poliziesco, le scoperte della vita. Libertari contro i dogmi del partito comunista, diffidente nei loro confronti, dei genitori, del sistema... In una manifestazione a Parigi proibita dalla prefettura (siamo nel 1971) un ragazzo, Richard Deshayes, anarchico, perde un occhio per un colpo di granata sparato dalle brigate speciali in piena faccia. Il movimento dei liceali scende in piazza, Gilles e gli altri si scontrano coi trotzkisti che vogliono assorbirli nello schematismo ideologico .. Après Mai, tra i migliori titoli dello scorso concorso veneziano, arriva nelle nostre sale (giovedì prossimo, in 35 copie, distribuisce Officine Ubu), un film appassionante in cui il regista, Olivier Assayas, ripercorre un’epoca chiave della nostra Storia tra autobiografia e l’autofinzione di una sincera prima persona. Dietro alla figura di Gilles, il protagonista, è facile intuire lo stesso Assayas: l’aspirazione di fare film, i dischi (Syd Barrett, MC5, Kevin Ayers), le letture (Simon Leys, Ashbury, Debord), la passione per la pittura. Protagonista è dunque la generazione più giovane del Maggio, a cui Assayas (classe 1955) appartiene, cresciuta in quel- Maggio 68, racconto amoroso della giovinezza «Vivevamo un momento di assoluta libertà e di caos creativo. Ma il dogmatismo politico ha creato barriere, è diventato anche un dogmatismo dell’immaginario» l'epoca di battaglie, cambiamenti ma anche disillusioni in cui ogni scoperta, un libro, un film, un incontro erano un pezzo di vissuto, qualcosa di intimo e insieme collettivo, un personale/politico che affermava uno stare al mondo. Gilles ha una ragazza Laure, bella e magrissima, che lo lascia per andare a Londra regalandogli Gasoline di Gregory Corso. Poi c'è Christine, che sembra non dubitare mai dell'impegno nella sua dolce fermezza, il primo bacio con lei è nella sala bu- ia (barthesiana seduzione laterale) davanti allo schermo. Gilles è irrequieto, vorace, da Gli abiti nuovi di Mao, critica alla Rivoluzione culturale cinese, a Orwell ai situazionisti e Deleuze, ogni lettura è una rivelazione. Alla battaglia politica alterna lunghi momenti di solitudine lavorando ai suoi quadri. Più che un film «storico» però Qualcosa nell’aria è (quasi) un romanzo di formazione, il racconto della giovinezza coi suoi slanci e i suoi errori, come sempre nel cinema di Assayas, radicati profondamente nell'epoca che affronta. Ed è questa la sua magia, e la sua libertà, che permette al regista di evitare la retorica della «ricostruzione» filtrata dal presente. È invece il cinema la lente attraverso la quale il movimento di quel tempo scorre, tra gli omaggi cinefili, Rossellini e il suo Viaggio in Italia, e lo scontro interno al movimento che diviene lo scontro tra l’idea di un fare cinema «impegnato», appiattito sulla realtà, e quello di un cinema che il mondo, appunto, lo reinventa. L’immaginazione al potere. Ne parliamo con Olivier Assayas, nel passato anche critico per i Cahiers du cinéma, arrivato a Roma insieme a due dei suoi splendidi attori, complici ineguagliabili in questa avventura, tutti non professionisti a parte Lola Creton (vista in Un amore di gioventù di Mia Hansen Love; da Clément Metayer, Carole Combes, India Salvor Menez, Félix Armand... UNA SCENA DA «QUALCOSA NELL’ARIA»; A DESTRA, I PROTAGONISTI, LOLA CRÉTON E CLÉMENT MÉTAYER; ACCANTO, IL REGISTA OLIVIER ASSAYAS «Dopo Carlos (storia del terrorista internazionale, ndr) avevo voglia di un film intimo, di raccontare la storia della mia vocazione, perché sono diventato regista e non pittore, come volevo in un primo tempo. Poi, scrivendo la sceneggiatura, mi sono accorto che quel che veniva fuori era la storia della mia generazione cresciuta negli 70 che sono stati un grande momento di libertà, di caos creativo e di anarchia. Ed è proprio quell’energia creativa diffusa, che si è esplicata nell’arte, nella musica, nella vita sociale e nella politica, ciò che di quegli anni ancora colpisce come un unicum irripetibile». Possiamo anche dire che «Qualcosa nell’aria» lega il Maggio 68 al racconto di una giovinezza, come già accadeva in uno dei suoi precedenti film, «L’Eau froide»? In un certo senso sì anche se con sfumature molto diverse. Tra i due film c’è stato un breve racconto, Une adolescence dans l’aprés-Mai (2005) che è ancora differente, ed è senz’altro il più autobiografico perché la scrittura costruisce una relazione a sé con l’autobiografia che mi ha permesso di riconciliarmi con quel periodo. Quando ho girato L’Eau froide ero ancora a disagio con tutto ciò che lo rappresentava, le atmosfere, i colori, i vestiti. AprésMai invece è completamente immerso in quegli anni, volevo anzi restituirne visivamente e sensorialmente l’atmosfera. Gilles, il protagonista, che è un po’ il suo alter ego, ama Debord e vorrebbe dipingere. Poi, come lei, arriva al cinema ... Però sono sempre debordiano come a diciassette anni quando ho conosciuto oltre a Debord la scuola di Francoforte, Marcuse... Forse è stata la solitudine a spaventarmi nel lavoro dell’artista, come dice il personaggio del film. Ricordo le ore solitarie nel mio studio con le mie ossessioni: non lo sopportavo anche se dipingere era una qualcosa di vitale per me. Il cinema invece è un’arte che ha bisogno di una dimensione collettiva, e io volevo esplorare quello che avevo intorno, spingermi più lontano. Non ho mai pensato al cinema in modo introspettivo, al contrario è per me uno strumento con cui avanzare nella comprensione del mondo, che mi ha portato a girare in altri paesi come l’Asia. E al centro del suo film c’è il cinema. Il diverso modo di interpretare l’immaginario, tra rappresentazione della realtà, impegno e invenzione sembra riflettere anche le diversità del movimento e di lettura del 68. È una questione centrale nel film, anzi direi che questa dialettica ne è stato il punto di partenza. Ci sono qui due aspetti distinti.La delflagrazione del Maggio 68 in Francia, e della Summer Love in America, è un momento culturale di bellezza e di utopia. Un momento di assoluta libertà, di caos quasi anarchico in cui viene messo in discussione tutto, ovviamente anche le strutture politiche tradizionali. Nel dopo-Maggio, la militanza almeno in Francia, si struttura in piccoli partiti molto rigidi, e se l’energia creativa del Maggio 68 sul piano artistico significava una reinvenzione del mondo, il dogmatismo politico dell’estrema sinistra nel dopo-Maggio ha prodotto anche un dogmatismo nella pratica del cinema. C’è un vero e proprio antagonismo tra la controcultura del Maggio francese o anche americana o inglese e il dogmatismo politico di un certo documentario sociale dell’epoca. Che, retrospettivamente, ha un suo valore, allora infatti non esistevano canali televisivi o di informazione che parlassero delle fabbriche e degli operai, ma era però molto diverso da un desiderio cinematografico. Mentre tornava a quegli anni, le è capitato di porsi delle domande sul presente, su cosa ne è stato di quell’energia, di quella voglia di cambiamento? La militanza e l’impegno politico negli anni Settanta, specie subito dopo il Sessantotto, appartenevano alla maggioranza se non alla totalità della gioventù. In questo senso possiamo dire che è stata una rivoluzione riuscita perché ha trasformato nel profondo il paesaggio culturale, le relazioni, il modo di rappresentarsi ... Il fallimento è stato invece sul piano della politica e credo che la causa principale di questo sia stato il terrorismo. Ciò che accadeva in Italia, in Germania, in Giappone ha spaventato tutti. Anche laddove come in Francia è stato meno forte, si è diffusa la stessa paura, e soprattutto l’idea che in quell’utopia ci fosse qualcosa di sbagliato. La realtà è entrata con violenza nel sogno e a un certo punto il divario tra queste due dimensioni è diventato troppo forte, incolmabile. Ci parli del suo lavoro con gli attori, che sono bravissimi. Come ha costruito il rapporto tra loro e i personaggi del film? Tutti i personaggi sono ispirati a figure reali, e scrivere il film mi ha anche permesso di riflettere meglio su alcune dinamiche del tempo. Per esempio il ruolo delle donne e il machismo che c’era nel movimento, i maschi erano i militanti e le ragazze avevano invece un ruolo secondario nonostante condividessero lo stesso grado di educazione politica. Da qui è nato il femminismo. Gli attori sono per me essenziali, e una volta scelti - il casting segna una tappa cruciale della lavorazione - cerco che le cose accadano, che tra il personaggio e il protagonista si crei una relazione. E questa può essere molto diversa dalle idee astratte che avevo prima del processo di lavoro anche se deve rispondere all’immagine complessiva. È importante perciò creare l’ambiente giusto intorno ai personaggi, specie se è un storico come questo, e da qui lasciarli interpretare. il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 pagina 13 VISIONI VASCO ROSSI L’annuncio lo ha direttamente postato su Facebook. Il rocker di Zocca torna ad esibirsi dal vivo, dopo i due anni di standby dovuti alla malattia e alle ricadute che avevano fatto temere il peggio. «Le date - annuncia - saranno a giugno e vi verranno comunicate presto!». Nel frattempo Vasco Rossi è in studio di registrazione dove sta completando un brano che sarà pubblicato a fine mese. JON FINCH L'attore britannico Jon Finch, interprete shakespeariano, è morto all'età di 71 anni. Scarsa ma intensa la su attività su grande schermo, i suoi principali ruoli furono quelli in «Macbeth» di Roman Polanski (1971), «Domenica maledetta domenica» (1971) di John Schlesinger, e, l'anno seguente, in «Frenzy» di Alfred Hitchcock. Ultima apparizione al cinema, ne «Le Crociate» di Ridley Scott. GOLDEN GLOBE Affleck con Argo «beffa» Spielberg L IL CAST DI «REVOLUTION» NELL’EPISODIO PILOTA, A DESTRA BEN AFFLECK TV · Da stasera alle 21.15 su Steel la nuova serie prodotta da J.J. Abrahms «Revolution», l’America ha staccato la spina... Nefeli Misuraca P er quanto gli italiani possano amare la mamma, la lasagna e la casa che le contiene entrambe, non hanno mai elaborato una parola comparabile a quella inglese di «home». Per noi la casa è sempre il focolare domestico, per gli americani, invece, quello che chiamano home è soprattutto il luogo che non c’è – che non c’è ancora, che non c’è più –, un luogo da trovare, da costruire e, soprattutto, quello a cui tornare. È sempre l’eterno tema di una perduta età dell’oro, di una terra promessa e mai raggiunta, o raggiunta e poi perduta a ossessionare l’America. Per gli americani del villaggio globale home è divenuto il mondo, la terra messa in pericolo dalle minacce all’ambiente (come testimonia il popolarissimo documentario cinematografico Home dedicato proprio alla Terra in pericolo), e sempre più Il pianeta è senza energia e niente è più come prima. Così gli uomini ripensano la vita opere televisive, ultimamente, si sono riferite a come sarà il pianeta terra. Le opere che descrivono il mondo che verrà sono di due generi, che convergono l’uno verso l’altro e hanno inventato questo strano ibrido: il docu-fiction. Come Life After People, per esempio, il docu-fiction dell’History Channel Life After People che consta di una serie di documentari che tentano di riprodurre attraverso tecniche digitali l’aspetto del mondo dopo una repentina scomparsa dell’uomo, in cui il documentario si mescola alla messinscena narrativa per atti- IN ONDA «Bread and roses», il cinema militante di Ken Loach sbarca in California Su La 7 torna «Saving Hope», la nuova serie targata Ctv e Nbc, interpretata da Erica Durance (Smallville). Prodotta da Ilana Frank e David Wellington, segue le vicende della dottoressa Alex Reid (Durance), la cui vita personale e professionale viene sconvolta quando il suo fidanzato, Charlie finisce in coma. «Amabili resti» di Peter Jackson (2009) è la proposta in seconda serata - ore 23.10 - di Italia 1. Dal best seller di Alice Sebold, la «vendetta» dello «spirito» 14enne Susie Salmon, violentata e uccisa, che cercherà di trovare pace per sé, suo padre e tutti i suoi cari. Su Rai4 alle 21.10 «Bittersweet life», dove un capobanda sospetta il tradimento della compagna con un altro uomo. Sontuosa la regia del coreano Kim Jee-woon, affascinante il protagonista (Lee Byiun-hun). «Bread and roses» - La7d ore 23.10 - vede un inusuale Ken Loach ambientare un suo film in California, ma il tema è sempre quello del lavoro, che magari c’è ma è supersfruttato. Come accade ad alcuni immigrati reclutati da una ditta di pulizie. Con Elpidia Carillo e Adrien Brody. rare nuovo pubblico, e serie tv che, viceversa, usano uno sfondo documentaristico. A loro volta le fiction hanno assunto una valenza quasi documentaristica. Una straordinaria quantità di serie sul classico scenario da day after con forti influenze dai sogni elettrici di Philip K. Dick, specie quelli di Cronache del dopobomba. I parametri sono sempre gli stessi: per un motivo spesso oscuro la terra perde la tecnologia e perdendo la tecnologia perde l’ordine costituito che su questa si reggeva, dunque tutto quello che lo rendeva un “mondo moderno”; un esiguo manipolo di uomini cerca modi di sopravvivenza in un ambiente dai tratti primitivi; la necessità di scoprire cosa sia accaduto si mescola a quella di salvare uno o più dei membri di maggiore importanza del gruppo. Lost, la creatura-parametro televisivo di J.J. Abrahms, che è madre e matrice di tutte queste serie del dopobomba, è anche quella in cui è meno importante lo sfondo documentaristico. Invece Jericho, per esempio, ha raccontato in uno stile curiosamente simile a quello da Far West i tentativi di un paesino di riorganizzarsi dopo un’esplosione nucleare che li ha tagliati fuori dal mondo. E ancora il jurassico flop di Spielberg Falling Skies del 2011, nonché del suo curioso Terra Nova. Il problema di molte di queste serie, tuttavia, è che non si concertano sull’elemento che sarebbe il più interessante, e cioè come facciano gli uomini a sopravvivere in una città invasa dagli zombie o in subcontinenti in cui non c’è più acqua potabile – tutti questi aspetti vengono messi in secondo piano e la narrazione si concentra su aspetti narrativi spesso tan- Rai1 6.45 UNOMATTINA Attualità 10.00 UNOMATTINA OCCHIO ALLA SPESA Rubrica 10.25 UNOMATTINA ROSA Attualità 11.00 TG1 Informazione 11.05 UNOMATTINA STORIE VERE Rubrica 12.00 LA PROVA DEL CUOCO Varietà 13.30 TG1 - TG1 ECONOMIA Informazione 14.10 VERDETTO FINALE Attualità 15.15 LA VITA IN DIRETTA Attualità 18.50 L'EREDITÀ Gioco 20.00 TG1 Informazione 20.30 AFFARI TUOI Gioco 21.10 DON MATTEO 8 Telefilm 23.30 PORTA A PORTA Attualità 1.05 TG1 NOTTE CHE TEMPO FA Informazione Rai2 13.00 TG2 GIORNO Info 14.00 SELTZ Rubrica 14.40 SENZA TRACCIA Telefilm 15.25 COLD CASE Telefilm 16.10 NUMB3RS Telefilm 17.00 RAI PARLAMENTO ELEZIONI 2013 Att. 18.00 RAI TG SPORT - TG2 Informazione 18.45 SQUADRA SPECIALE COBRA 11 Telefilm 19.35 IL COMMISSARIO REX Telefilm 20.30 TG2 - 20.30 Info 20.55 CALCIO, COPPA ITALIA: TIM CUP QUARTI DI FINALE INTER - BOLOGNA Evento sportivo (Dir.) 23.00 TG2 - TG2 PUNTO DI VISTA Informazione 23.15 I VISITATORI ALLA CONQUISTA DELL’AMERICA FILM con Jean Reno a sorpresa è che il plurinominato, sponsorizzato Lincoln di Steven Spielberg - che per l’occasione domenica a Los Angeles aveva uno sponsor d’eccezione come Bill Clinton a presentarlo - non ce l’ha fatta a vincere il Golden Globe. Incoronato al Beverly Hills Hotel - dove si è svolta la cerimonia - è stato Argo, il film di Ben Affleck che racconta la storia vera di una riuscita operazione dei servizi segreti americani durante la rivoluzione khomeinista in Iran. «È un film per tutti, non solo per un pubblico americano - sottolinea Affleck dopo aver ritirato il premio- Non è fatto con l'idea di trasmettere un messaggio politico o di insegnare qualcosa; volevo raccontare i fatti e lasciare poi libero il pubblico di riflettere sul tema del film con la speranza di toccare le corde delle persone». A parziale risarcimento per Spielberg, la vittoria di Daniel Day Lewis come «attore protagonista». Anne Hathaway - è miglior attrice non protagonista per il (breve) ruolo dell'operaia Fantine ne Les Miserables, adattamento in musical dell’opera di Hugo, dove si è imposto anche Hugh Jackman, miglior attore brillante. Nel corso della serata condotta da Tina Fey e Amy Poehler, con l’appendice del coming out di Jodie Foster di cui parliamo a fianco, due premi anche per Django Unchained, di Tarantino, Christoph Waltz migliore attore non protagonista, e lo stesso Tarantino per la migliore sceneggiatura originale. Un Golden Globe per il discusso Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, conferito a Jessica Chastain come «migliore attrice drammatica». Miglior film straniero - ed è probabile che sia l’antipasto degli Oscar - a Michael Haneke con il suo Amour. Adele, vince per la migliore canzone originale con Skyfall, tema dell’ultimo 007. I Golden globe per la tv hanno visto l’affermazione per il secondo anno di Homeland, che si aggiudica i 3 premi maggiori: miglior serie tv drammatica, miglior attrice (Claire Danes) e miglior attore protagonista (Damian Lewis). La seconda stagione andrà in onda in esclusiva per l'Italia su Fox (canale 111 di Sky) dal 30 gennaio, ogni mercoledì alle 21. Due i premi conquistati da Girls, lanciato da Mtv Italia (canale 8 del Dtt) miglior serie nella categoria Comedy e Musical e miglior attrice di serie Comedy e Musical a Lena Dunham. to triti da essere quasi ridicoli. Viviamo in un mondo elettrico, dice la voce fuori campo all’inizio di ogni episodio di Revolution – la nuova serie partita il 17 settembre negli Usa e che approda ogni martedì da stasera alle 21.15 su Steel (bouquet Mediaset Premium), e vi facciamo affidamente per ogni cosa. E poi l’elettricità è scomparsa e tutto ha smesso di funzionare. Non eravamo preparati a tutto questo. La paura e la confusione hanno portato il panico. I più fortunati sono riusciti a lasciare le città. Il governo è crollato, l’acqua e il cibo sono diventati introvabili…». Prodotto da J.J. Abrahms, Revolution risente molto dell’influenza di Lost: la derivazione è molto chiara nel presentare un mondo in cui gli uomini devono reinventare il modo di sopravvivere, ma, contrariamente alla serie più seguita degli ultimi dieci anni, Revolution ha, pur nel suo approccio distopico, la natura di un documentario. Tutto ciò che accade nel telefilm è probabile – e, purtroppo, anche prevedibile – e tutto ciò che accade è ritratto in un ambiente documentaristico. Revolution, per esempio, ha un’eroina prevedibilmente carina invece di un eroe, Tracy Spiridakos, che è però altrettanto inespressiva. La recitazione Rai3 12.00 TG3 Informazione 12.25 TG3 FUORI TG Attualità 12.45 LE STORIE - DIARIO ITALIANO Attualità 13.10 Prima tv LENA Soap 14.00 TG REGIONE - TG3 Informazione 15.10 LA CASA NELLA PRATERIA Telefilm 16.00 COSE DELL'ALTRO GEO Documentario 17.40 GEO & GEO Doc 19.00 TG3 - TG REGIONE Informazione 20.00 BLOB Varietà 20.10 COMICHE ALL'ITALIANA Documenti 20.35 UN POSTO AL SOLE Soap 21.05 BALLARÒ Attualità 22.50 TRIBUNE ELETTORALI - INTERVISTE Attualità 23.30 VOLO IN DIRETTA Varietà Rete4 12.55 LA SIGNORA IN GIALLO Telefilm 14.00 TG4 Informazione 14.45 LO SPORTELLO DI FORUM Real Tv 15.30 Prima tv Mediaset RESCUE SPECIAL OPERATIONS Telefilm 16.35 MY LIFE Soap 16.50 UN NAPOLETANO NEL FAR WEST FILM con Eleanor Parker 18.55 TG4 Informazione 19.35 TEMPESTA D'AMORE Soap 20.30 WALKER TEXAS RANGER Telefilm 21.10 ... ALTRIMENTI CI ARRABBIAMO! FILM con Terence Hill, Bud Spencer 23.30 I BELLISSIMI DI R4 Rubrica 23.35 COMMANDO FILM con Arnold Schwarzenegger Il vero coming out è voltare pagina Giulia D’Agnolo Vallan N on surrealmente kolossal come Clint Eastwood con sedia alla convention repubblicana, ma quasi altrettanto spiazzante e magnifico nelle verità della sua confusione, il discorso di Jodie Foster (sei minuti e più, quasi senza respirare ma privo di un’esitazione) è stato il momento più alto della settantesima cerimonia dei Golden Globes –meglio di Bill Clinton (accolto da una standing ovation), venuto a presentare Lincoln che poi però non ha vinto. Il discorso con cui l’attrice/regista ha accettato il premio alla carriera della Hollywood Foreign Press è stato alto non perché Foster ha fatto per la prima volta in pubblico un riferimento alla sua omosessualità, cosa risaputa da anni, e che lei non ha mai cercato di nascondere. Ma perché questa grandissima star del mistero trasparente, che protegge con ferocia la sua privacy senza però lasciar trapelare di volerla «difendere», ha optato per un coming out più totale, completo. Disegnato secondo le sue regole. E che ha lasciato tutti a chiedersi cosa voleva dire. Ma, soprattutto, cosa farà adesso. Gli amici (Mel Gibson e Robert Downey Jr, perché come Liz Taylor, Foster ama chi cammina sull’orlo del baratro), i figli (da sempre immuni agli obbiettivi dei paparazzi, ma che domenica sera sorridevano al tavolo del Beverly Hilton), l’ex compagna Cydney Bernard («la mia ex partner in amore, ma la mia miglior amica in assoluto da 20 anni. Sono così orgogliosa della nostra famiglia moderna»), una madre forse malata («so che sei da qualche parte dietro a quegli occhi blu»)… Foster li ha citati e ringraziati tutti…svuotando in pochi minuti un potenziale da decenni da tabloid. «No, questa sera non ascolterete un grande discorso di coming out. Perché quello è successo secoli fa, nell’età della pietra», ha anche detto. E ancora: «ma non piangete perché il mio reality è così noioso…. Ho dato tutto ciò che avevo da quando ho 3 anni. 47 anni sono un reality lungo abbastanza». «Questa mi sembra la fine di un’era e l’inizio di qualcosa di nuovo. Eccitante e pauroso. E adesso?», ha aggiunto in chiusura. Quello che succederà adesso Jodie Foster non lo ha specificato. E forse non lo lo sa neanche lei. Il suo non sembrava un discorso di addio alla carriera. Quanto il segno di una determinazione di cambiare (qualcosa) rimanendo più che mai fedele a se stessa. del cast è sommaria (sguardi corrucciati in primo piano che qualche nota musicale deve riempire di drammaticità), e l’intera vicenda è scritta tristemente con poca grazia. Durante la ricerca del fratello rapito dalla Milizia che ha preso il potere sulla terra, la Spiridakos («Charlie») incontra prima suo zio – che si rivela essere l’originale ideatore della milizia ora pentito, poi una ribelle dalla pelle particolarmente lucida ma dai modi che tradiscono un quoziente intellettivo basso. L’unica cosa interessante della serie è che, di fatto, i protagonisti sono dei terroristi e non si tirano indietro quando devono compiere delle imboscate o mettere a repentaglio la vita di altri civili. Del resto Revolution non si lascia sfuggire nessun fraintendimento, storico, ideologico o culturale che sia, incluso quello secondo cui la frase «il fine giustifica i mezzi» sia stata veramente scritta da Machiavelli. Insomma, in Revolution si torna a parlare di casa (genitori morti e fratello da ritrovare), di una casa che non c’è più, di case fisicamente distrutte dalla guerra, di case impossibili perché nessuno riesce veramente a intrecciare rapporti che costruiscano una famiglia, che è poi, forse, la traduzione più giusta della parola «home». Canale5 8.40 LA TELEFONATA DI BELPIETRO Rubrica 8.50 MATTINO CINQUE Attualità 11.00 FORUM Real Tv 13.00 TG5 Informazione 13.40 BEAUTIFUL Soap 14.10 CENTOVETRINE Soap 14.45 UOMINI E DONNE Talk show 16.15 AMICI Reality show 16.55 POMERIGGIO CINQUE Attualità 18.50 AVANTI UN ALTRO Gioco 20.00 TG5 Informazione 20.40 STRISCIA LA NOTIZIA Attualità 21.10 JODIE FOSTER Prima tv Mediaset VI PRESENTO I NOSTRI FILM con Ben Stiller, Teri Polo 23.15 50 VOLTE IL PRIMO BACIO FILM con Adam Sandler 1.10 TG5 NOTTE Info Italia1 8.45 EVERWOOD Telefilm 10.35 E.R. - MEDICI IN PRIMA LINEA Telefilm 12.25 STUDIO APERTO Informazione 13.00 SPORT MEDIASET Notiziario sportivo 13.40 CARTONI 14.55 Prima tv FRINGE Telefilm 15.45 WHITE COLLAR Telefilm 16.30 CHUCK Telefilm 18.05 LA VITA SECONDO JIM Telefilm 18.30 STUDIO APERTO Informazione 19.20 C.S.I. Telefilm 21.10 NEXT FILM con Nicolas Cage, Julianne Moore 23.00 Prima tv Mediaset AMABILI RESTI FILM con Rachel Weisz 1.25 SPORT MEDIASET Notiziario sportivo La7 11.00 L'ARIA CHE TIRA Attualità 12.20 TI CI PORTO IO... IN CUCINA CON VISSANI Rubrica 12.30 I MENÙ DI BENEDETTA Rubrica (R) 13.30 TG LA7 Informazione 14.05 GAMBIT - GRANDE FURTO AL SEMIRAMIS FILM con Shirley MacLaine 15.50 Prima tv La7 IN PLAIN SIGHT Telefilm 16.50 IL COMMISSARIO CORDIER Telefilm 18.50 I MENÙ DI BENEDETTA Rubrica 20.00 TG LA7 Informazione 20.30 OTTO E MEZZO Attualità 21.10 GREY'S ANATOMY Telefilm 23.00 Prima tv SAVING HOPE Telefilm 23.55 OMNIBUS NOTTE Attualità Rainews 18.30 TRANSATLANTICO Attualità 19.00 NEWS Notiziario 19.25 SERA SPORT Notiziario sportivo 19.30 IL CAFFÉ: IL PUNTO Attualità 20.00 IL PUNTO ALLE 20.00 Attualità METEO Previsioni del tempo (all’interno) 20.58 METEO Previsioni del tempo 21.00 NEWS LUNGHE Notiziario 21.26 METEO Previsioni del tempo 21.30 VISIONI DI FUTURO Attualità 21.56 METEO Previsioni del tempo 22.00 VISIONI DI FUTURO Attualità 22.26 METEO Previsioni del tempo pagina 14 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 COMMUNITY REGGIO EMILIA LAZIO Martedì 15 gennaio, ore 18 LA VIA DELLA COCA LA VIA DELLA COCA Paolo Berizzi presenta il libro inchiesta «La bamba» (Dalai). Intervengono Elsa Gati e Paolo Mezzana. Si tratta di un reportage firmato da un giornalista di inchiesta e da un fotoreporter. Un collage di storie nato da testimonianze sul campo e frutto di un lavoro di ricerca nei luoghi della cocaina. Intervengono Elsa Gati e Paolo Mezzana. ■ Via V. E. Orlando, 78, Roma Martedì 15 gennaio, ore 20.30 NON SIAMO JAMES BOND Presso il cinema Kino (via Perugia, 34), sbarca, in contemporanea al cinema Apollo 11 (c/o Itis Galilei, via Conte Verde, 51), il film «Noi non siamo come James Bond», di Mario Balsamo e Guido Gabrielli, recentemente vincitore al Torino Film Festival del Premio della Giuria presieduta da Paolo Sorrentino. A entrambe le presentazioni interverranno il regista del film Mario Balsamo, il regista e direttore della Scuola Volontè, Daniele Vicari e il Presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia, Stefano Rulli. Alle ore 20 il saluto all’Apollo 11, mentre al Kino i tre presenteranno il film alle ore 20.30; gli incontri post-proiezione si terranno, sempre alla presenza di Balsamo, Vicari e Rulli all’Apollo 11 alle 21.15 e al cinema Kino alle ore 23.45. ■ Roma LOMBARDIA Sabato 19 gennaio, ore 21 SERATA ARRIGIONI Organizzata alla Camera del Lavoro la serata «Restiamo umani: in ricordo di Vittorio Arrigoni». L’evento prevede una rappresentazione teatrale del gruppo Ibuka Amizero «...Abbiamo un antenato marinaio?», parole , voci e teli colorati legati alla striscia di Gaza e alla figura di Vittorio. A seguire Egidia Beretta, madre di Vittorio, presenterà, insieme a Massimo Cirri, il suo libro «Il viaggio di Vittorio». ■ Camera del Lavoro Metropolitana, Corso di Porta Vittoria, 43, Milano PUGLIA Mercoledì 16 gennaio LA PRATICA DELLE DONNE Si apre domani (16 gennaio-22 febbraio) il Festival dei Saperi e delle pratiche delle donne. Nel segno di Carla Lonzi. Figura di forza e intelligenza politica, nonché apprezzata critica d'arte, Carla Lonzi ha dato vita al gruppo milanese di Rivolta femminile. Quest'anno il Festival affiancherà alla riflessione sui Saperi quella relativa alla Pratica, intesa come ricerca di uno scambio equilibrato fra conoscenza e condizione materiale, soggettiva e collettiva. Maggiori informazioni e programma all’indirizzo web: www.cdcdonne.com ■ Sala Conferenze Centro degli Studenti, Università di Bari, piazza C. Battisti, Bari TOSCANA Mercoledì 16 gennaio, ore 16.30 CICALE OPEROSE Incontro con Anna Santoro, autrice del libro «La nave delle cicale operose. Una narrazione» (ed. Robin,2012 collana La biblioteca di domani). ■ Centro Donna Liliana Paoletti Buti, largo Strozzi 3, Livorno UMBRIA Venerdì 18 gennaio, ore 17,30 ERESIA CRISTIANA Presentazione del libro di Alessio Passeri «L'eresia cristiana di Pier Paolo Pasolini. Il rapporto con la Cittadella di Assisi» (Mimesis Edizioni). ■ Libreria Musica & Libri, via S. Costanzo 16, Bastia Umbra L’ex Br stroncato da un infarto dona le proprie cornee P rospero Gallinari è morto ieri mattina a Reggio Emilia, in seguito a un arresto cardiaco, mentre si accingeva a raggiungere la fabbrica dove lavorava come operaio addetto agli imballaggi. Il malore è giunto improvviso ma non inaspettato. Da molti anni Gallinari era affetto da una grave cardiopatia che gli aveva procurato più di un infarto e qualche ischemia. Per questi motivi si trovava agli arresti domiciliari nella propria abitazione (con il permesso di uscita per motivi di lavoro) dove continuava a scontare la condanna ai numerosi ergastoli che aveva subito per la sua militanza nelle Brigate Rosse. Di questa organizzazione, Prospero Gallinari è stato uno dei dirigenti più conosciuti e rappresentativi. Era nato a Reggio Emilia nel 1951, da famiglia contadina e comunista, e aveva partecipato a tutte le vicissitudini di quel gruppo dell’”appartamento”, che incarnava l’elemento di congiunzione fra la tradizione della rivoluzione tradita, diffusa nell’ambiente resistenziale del PCI, e quella della contestazione radicale confluita nella lotta armata all’indomani della rottura del ’68. Inoltre, aveva ricoperto ruoli operativi e dirigenti nella struttura delle Brigate Rosse, durante il periodo del sequestro Moro e della più ampia diffusione dell’organizzazione clandestina. Arrestato una prima volta nel 1974 a Torino, era evaso dal carcere di Treviso all’inizio del 1977. La sua militanza successiva si svolse essenzialmente a Roma, la cui “colonna” diresse fino al momento della seconda cattura, avvenuta nel 1979 a seguito di una sparatoria con la polizia, da cui uscì gravemente ferito alle gambe e alla testa. Le deposizioni dei pentiti lo indicarono non solo come un componente del nucleo che gestì l’azione di via Fani e il sequestro del dirigente democristiano, ma anche come l’autore materiale della esecuzione di Aldo Moro. Solo nel 1994, a seguito della pubblicazione del libro-intervista realizzato da Carla Mosca e Rossana Rossanda con Mario Moretti, Brigate Rosse. Una storia italiana, lo stesso Moretti si assunse la responsabilità diretta dell’uccisione del Presidente della DC. La cosa fece scalpore. Ma Gallinari non aveva mai ammesso o disconosciuto l’addebito dell’azione, considerando fuorviante la questione delle responsabilità individuali, nell’ottica della più tradizionale militanza comunista. Nel frattempo, in carcere, era intervenuto il peggioramento delle sue condizioni fisiche, a seguito del primo infarto subito già nel 1983. Erano gli anni del declino della forza delle organizzazioni clandestine, delle grandi campagne di arresti e delle prime espressioni dei movimenti di dissociazione. In questo contesto, Gallinari rimase fino all’ultimo un militante in servizio permanente effettivo. Condivise le traversie dell’ultima parte della vicenda delle BR, la cui storia dichiarò conclusa soltanto nel 1988, dopo il debellamento delle due frazioni in cui la sua organizzazione risultava a quel tempo divisa. Grazie a una campagna in favore della sua scarcerazione, nella quale risultarono impegnati il manifesto e numerosi esponenti politici e culturali della sinistra, uscì in libertà per motivi di salute nel 1996. Dopo alcuni anni venne però trasferito agli arresti domiciliari, dove tuttora si trovava. Nel 2006 pubblicò presso la casa editrice Bompiani il libro Un contadino nella metropoli, che sottotitolò semplicemente Ricordi di un militante delle Brigate Rosse. Volle scrivere queste memorie da solo, senza edulcorazioni o sensazionalismi giornalistici, fedele agli ideali di vita che aveva appreso fin da bambino. Ha lasciato disposizioni per il trapianto delle cornee. La data dei funerali è ancora da stabilire. VENETO Sabato 2 febbraio FOLK FEST Dal 2 febbraio al 16 mazo si tiene la diciottesima edizione del Vo’on the Folks. Una rassegna dedicata alla world music che dal 1996 porta a Brendola (Vicenza) un variegato caleidoscopio sonoro con artisti provenienti dai cinque continenti, presentando alla Sala della Comunità musiche, colori e culture diverse, unite nel nome della libertà espressiva. con Rondeau De Fauvel (Italia – sabato 2 febbraio), Buda Folk Band (Ungheria – sabato 16 febbraio) Hevia (Spagna – sabato 2 marzo) e Tannahill Weavers (Scozia – sabato 16 marzo). La cornamusa asturiana di Hevia, l’elettronica medievale dei Rondeau de Fauvel, le sonorità mitteleuropee dei magiari Buda Folk Band e la secolare tradizione celtica degli scozzesi Tannahill Weavers danno vita al Vo’ on the Folks 2013. ■ Sala della Comunità - Brendola (Vi) il manifesto CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE benedetto vecchi (presidente), matteo bartocci, norma rangeri, silvana silvestri, luana sanguigni il nuovo manifesto società coop editrice REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE, 00153 Roma via A. Bargoni 8 FAX 06 68719573, TEL. 06 687191 E-MAIL REDAZIONE [email protected] E-MAIL AMMINISTRAZIONE [email protected] SITO WEB: www.ilmanifesto.it TELEFONI INTERNI SEGRETERIA 576, 579 - ECONOMIA 580 AMMINISTRAZIONE 690 - ARCHIVIO 310 POLITICA 530 - MONDO 520 - CULTURE 540 TALPALIBRI 549 - VISIONI 550 - SOCIETÀ 590 LE MONDE DIPLOMATIQUE 545 - LETTERE 578 iscritto al n.13812 del registro stampa del tribunale di roma autorizzazione a giornale murale registro tribunale di roma n.13812 ilmanifesto fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 07-08-1990 n.250 DIR. RESPONSABILE norma rangeri CONCESSIONARIA ESCLUSIVA PUBBLICITÀ poster pubblicità srl SEDE LEGALE, DIR. GEN. 00153 Roma via A. 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Bargoni 8, 00153 Roma IBAN: IT 30 P 05018 03200 000000153228 copie arretrate 06/39745482 [email protected] Tutti gli appuntamenti: [email protected] STAMPA litosud Srl via Carlo Pesenti 130, Roma - litosud Srl via Aldo Moro 4, 20060 Pessano con Bornago (MI) chiuso in redazione ore 21.30 tiratura prevista 52.031 La morte di Prospero Gallinari Di seguito due capitoli tratti dal libro di Prospero Gallinari «Un contadino nella metropoli» ricordi di un militante delle Brigate Rosse edito da Bompiani nel 2006 «Ha da gnir sbafioun...» L a città assorbe il luglio ’60, e l’esito delle lotte alle Reggiane, con morti, licenziamenti e numerose condanne al carcere per chi aveva combattuto e sofferto in quei conflitti. Viene ripulita anche la Direzione locale del Partito, secchiana e controllata a stento dal centro nazionale durante i primi anni del dopoguerra. La Reggio comunista si riduce progressivamente a una zona nella quale il malessere politico viene vissuto singolarmente da tantissimi vecchi compagni che si sentono traditi. Traditi gli ideali, tradite le speranze, traditi gli sforzi che, durante la Resistenza e negli anni immediatamente successivi, tanto erano costati e dei quali resta in mano ai militanti di base o agli “epurati” solo un pugno di mosche. Spesso questa rabbia non esprime proposte o nuovi orizzonti politici, ma solo mugugni, accuse di tradimento rivolte ai burocrati delle nuove classi dirigenti delle cooperative e del Partito... «chian fat carera» (che hanno fatto carriera). «Ha da gnir sbafioun », ha da venire baffone (Stalin) è la conclusione di molte discussioni. Eppure sono recriminazioni dotate di enorme importanza per noi giovani, che le ascoltiamo con avidità. Sentire questi uomini parlare della Resistenza e dei suoi valori, apprendere dell’espulsione che i partigiani avevano subito dai posti di spicco nelle aziende e negli uffici dello stato, capire che quei posti erano stati riconsegnati agli individui che li avevano amministrati durante il fascismo e la Repubblica di Salò, è impressionante. Ascoltare la vicenda delle grandi fabbriche del Nord, difese dalla Resistenza col sangue dei suoi combattenti, e poi riconsegnate a imprenditori che, quasi sempre, come Valletta, avevano collaborato attivamente col regime fino al 25 aprile del ’45, infiamma la nostra indignazione. La stessa Costituzione, pur essendo il risultato di una mediazione tra le forze politiche dell’immediato dopoguerra, viene invocata davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie, per sottolineare come le sue parti autenticamente democratiche e “progressive” siano bellamente ignorate dai governi in carica. Eccolo il malumore che porta questi compagni anziani a parlare di Resistenza tradita. Un malessere ostinatamente argomentato, ma che, poi, lascia la loro vita nel disagio e nell’impotenza... in attesa di tempi migliori. Per noi giovani, invece, quei tempi migliori già albeggiano. Forse non in Italia o nel piccolo recinto reggiano in cui continuiamo disciplinatamente a militare, ma senza dubbio in quel mondo delle lotte comuniste e anti-coloniali, di cui apprendiamo le novità dalle letture e dalle discussioni fatte in sezione o alla Casa del Popolo. Diviene contraddittoria e opaca la luce dell’URSS, dopo le trasformazioni causate dal XX Congresso e in seguito all’esito della crisi dei missili a Cuba. Sale l’ascendente della Cina maoista, i cui sviluppi (condizionati come siamo dalle posizioni del Partito) cogliamo però ancora parzialmente. Sono invece il dispiegarsi ROMA, 1987. AULA BUNKER DEL FORO ITALICO, PROCESSO MORO-TER ALLE BRIGATE ROSSE/FOTO STEFANO MONTESI del filo rosso della Rivoluzione cubana e la possente spinta anti-coloniale del Terzo Mondo, a entusiasmarci senza riserve. C’è lo schiaffo della Baia dei Porci, quando, nel 1961, l’esercito cubano respinge l’attacco dei mercenari anti-castristi. C’è la rivoluzione che si estende in America Latina e in Africa. Le guerre di liberazione del Congo, dell’Algeria, dell’Angola, della Guinea-Bissau, producono eroi politici quali Patrice Lumumba, Agostinho Neto o Amilcar Cabral. Capiamo che è giusto lottare e che è possibile vincere. E, su tutto, dal 1964 in poi, inizia a svettare l’interesse per quella parte del Sud-Est asiatico che porta il nome di Vietnam: una terra in cui era già stata vinta una importante battaglia contro il colonialismo francese. L'eroismo di quel popolo, tuttavia, de- ve ancora misurarsi con la piovra più grande dell’imperialismo, quella americana. Un conflitto per la vita e per la morte, che, negli anni seguenti, porterà i vietnamiti a divenire la luce di tutti i movimenti e di tutte le speranze rivoluzionarie. Anche per noi, per l'Occidente, saranno anni in cui la ruota della storia prenderà a girare a velocità particolare. RICORDO Il pacifista e il brigatista, colloqui di umana tenerezza DALLA PRIMA Giovanni Russo Spena Soffriva molto di patologia cardiaca, ma rifuggiva da autocommiserazioni e vittimismi. Nacquero settimanali discussioni, tra due percorsi di vita differenti. Da un lato un pacifista che riteneva il cortocircuito della lotta armata un sostitutismo, una espropriazione dei movimenti, la prospettazione implicita (nel raccordo tra mezzi e fini) di una società comunista autoritaria. Dall'altro una persona che aveva sacrificato la vita propria ed altrui scegliendo la lotta armata, convinto che fosse l'unico mezzo per il fine rivoluzionario. Una scelta di cui non si pentiva (aborriva benefici giudiziari e penali), da cui non si dissociava strategicamente. Ma riteneva la lotta armata sconfitta, finita; diceva spesso: «è una storia che non c'è più; quella di oggi è un'altra storia». Ricordo quei colloqui, a volte aspri, con umana tenerezza. In essi si articolava la complessa grammatica di quell'«album di famiglia» di cui parlò Rossana. Avvertivo che, comunque, Prospero faceva parte della mia storia, pur nei diversi vissuti comunisti. Io giovane universitario che andava a scuola di lotta di classe dai delegati di fabbrica dell'Italsider di Bagnoli e dell'Alfa Sud; Prospero, giovane comunista proletario cresciuto in una sezione reggina del Pci emiliano. Mi preme qui ricordare che la cosa che lo faceva incazzare (l'unica, che io ricordi) era la dietrologia (nata intorno al processo Moro) che descriveva la lotta armata come eterodiretta, proiezione di apparati dello Stato italiani o stranieri. E l'uccisione di Aldo Moro come azione voluta dalla Trilaterale, all'interno della quale i brigatisti erano stati solo manovalanza incolta ed inconsapevole. Mi ripeteva spesso: «Abbiamo fatto certo molti errori, anche di incomprensioni ed ingenuità, come il non aver compreso fino in fondo l'importanza delle accuse di Moro prigioniero ai poteri istituzionali, ma sempre fummo autonomi, non eterodiretti». Intorno a Gallinari (e Ricciardi) nacque un'ampia e difficile iniziativa garantista che vide Rossana Rossanda, il manifesto, molti intellettuali battersi perché la pena carceraria venisse sospesa per la grave malattia, che rendeva insopportabile la condizione di detenzione. Ponemmo un tema rilevante dello Stato di diritto, l'«habeas corpus», la fedeltà alla concezione costituzionale della pena: risocializzazione, non vendetta di Stato. Alla fine Prospero uscì dal carcere. Ebbe un primo infarto qualche anno fa. Quando ero, per assemblee a Reggio o dintorni, veniva a trovarmi. Ma ora parlavamo di politica, di conflitti, di sindacato, di organizzazione dei movimenti. I rancori, le demonizzazioni personali sono pessima politica, che non va confusa con giudizi storici e politici pur molto differenti. Anche per questo Prospero mi manca. il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 pagina 15 COMMUNITY Dopo cinque anni, usciamo dalle catacombe SESSUALITÀ Edoardo e Diletta, la diversità tranquilla Andrea Bagni Chiediamoci anche oggi (come faceva Gramsci negli anni ’30), quanto incide sulle elezioni la produzione di un’immagine univoca della realtà. Utile a nascondere quel che è in gioco con il voto (occupazione, reddito, istruzione, salute), e a confondere, con differenze marginali, quel che in realtà unifica i tre grandi schieramenti in campo (austerità e fiscal compact). Per questo è importante scegliere a sinistra la lista antiliberista, senza indulgere a un sentimento "grillino" di antipolitica Q DALLA PRIMA Alberto Burgio L’attenzione pubblica è deviata con cura verso questioni di dettaglio (dalle regole delle primarie all’interscambio trasformistico tra l’uno e l’altro polo), mentre si nasconde che in queste elezioni è in gioco la vita stessa – l’occupazione, il reddito, la salute, l’istruzione – di decine di milioni di cittadini. Agli italiani è così impedito di vedere l’essenziale: il fatto che tutte le maggiori forze politiche concordano sulla lettura della crisi e sulle ricette per affrontarla. E che per questa ragione esse hanno convintamente sostenuto Monti per oltre un anno, rivendicando come necessarie misure che hanno esasperato le ingiustizie (tagliando pensioni, salari e servizi), colpito diritti (l’articolo 18), depresso l’economia e aggravato la situazione debitoria del paese, senza scalfire di un millimetro rendite e grandi patrimoni (anzi, procurando loro ulteriori benefici). Non è forse così? Del centrodestra e del Terzo polo lo sappiamo sin troppo bene. Con una mano demagogicamente deprecano le conseguenze della crisi (è necessario lisciare il pelo all’elettorato), con l’altra arraffano i dividendi delle politiche di «austerità»: l’anarchia del mercato, lo strapotere dell’impresa, la libertà di evadere o eludere il fisco, la privatizzazione delle risorse e delle istituzioni – non ultime le scuole, tanto care al Vaticano, che in queste elezioni gioca un ruolo determinante a sostegno di Monti e del fido Casini. E il centrosinistra? Diciamo le cose come stanno: non è lo stesso Bersani a ripetere, un giorno sì e l’altro pure, che austerità e rigore non si toccano, salvo farfugliare che cercherà di ridurre il tasso di iniquità delle decisioni di Monti (sino a ieri in predicato di atterrare sul Colle col suo beneplacito)? Il Pd non considera forse irrinunciabili le norme – dal pareggio di bilancio al fiscal compact – che daranno al prossimo governo, chiunque lo dirigerà, un alibi di ferro per perseverare nella macelleria sociale? Il segretario democratico non vede nel «libero mercato» la panacea per la fantomatica crescita? Non procla- ma che l’articolo 18 va bene così come l’ha conciato la professoressa Fornero? E non definisce con orgoglio il proprio partito come il più europeista, il che non significa soltanto Maastricht e Lisbona, ma anche Merkel, Barroso e la dittatura del debito? Quanto a Sel, la firma in calce alla carta d’intenti ha messo in mora ogni buon proposito e riduce le parole del suo leader a un fiato di voce. Sel si è impegnata a seguire le decisioni del Pd e i suoi dirigenti sanno che al dunque dovranno attenervisi. Per disciplina e «senso di responsabilità». Insomma, il «rigore» piace a tutti, o quasi. Non piace a Grillo, ma il suo movimento vede la degenerazione finanziaria solo per massimi sistemi, senza coglierne le drammatiche ricadute sul terreno dei diritti del lavoro. Non piace soprattutto a Rivoluzione civile, che dell’anti-montismo fa la sua bandiera. E qui il discorso chiama in causa noi, la sinistra coerentemente antiliberista e per ciò stesso esterna ai tre poli della «strana maggioranza» del cosiddetto governo tecnico: partiti, sindacati, associazioni e movimenti ancora vivi ma stremati dopo cinque anni di trionfante bipolarismo coatto e di lotte combattute alla macchia, con risorse minimali e nel silenzio della «grande» informazione. Rivoluzione civile è ad oggi la sola forza di qualche rilievo che ponga un discrimine netto: rifiuto del neoliberismo (cioè primato del lavoro e dei suoi diritti, secondo quanto prescrive la Costituzione), fine della sovranità del capitale finanziario (spesso colluso con le mafie), restituzione dello scettro alla cittadinanza. Certo, nemmeno questo progetto è immune da pecche, ma di sicuro la critica di essere subalterno alla teologia del libero mercato non può essergli rivolta. Il programma di Rivoluzione civile parla di diritti del lavoro e solidarietà; di scuola e sanità pubbliche; di lotta alle mafie e di questione morale; di laicità e parità di genere; di disarmo, di libera informazione e di difesa dell’ambiente. C’è in questo decalogo qualcosa che non va, o manca qualcosa di essenziale? Senonché la proposta di Ingroia incontra anche a sinistra riserve e freddezza. La cosa è sorprendente, e forse per capirne le ragioni non basterebbero gli strumenti tradizionali dell’analisi politica. Limitiamoci alle obiezioni fondamentali. Basta coi magistrati in politica, si dice. E poi: Ingroia non si è sbarazzato dei partiti, è fissato con la mafia, è (o aspira a essere) anche lui un leader, nel segno della personalizzazione della politica. Tutto ciò è, francamente, paradossale. È paradossale che si accusi la magistratura di protagonismo, invece di prendersela con quei settori della «società civile» che latitano, in tutt’altre faccende affaccendati. E lo è altrettanto – degna del peggior grillismo – l’accusa di non respingere i partiti della sinistra, come se in tutti questi anni essi non avessero fatto il possibile per sostenere movimenti e lotte. Chi poi lamenta una monomania antimafia, dove crede di vivere? Forse presta fede alla rassicurante favola della «criminalità organizzata», e ignora che mezza Italia è governata da un doppio Stato che decide, ricicla, fa politica a tutti gli effetti, sequestrando la democrazia di questo paese. Soltanto l’ultima delle critiche sembra avere qualche fondamento. Ma poiché la personalizzazione della politica è un sintomo grave della transizione post-democratica in corso da un trenten- Camminare sulla Shoah L’inciampo della memoria ROMA La memoria è dura come una pietra. Sampietrini rivestiti di una placca d’ottone incastonati a via Arenula 41, di fronte al portone di alcuni deportati ad Auschwitz. L’idea delle «memorie d’inciampo» è dell’artista tedesco Gunther Demnig, a cura di Adachiara Zevi. Foto Vincenzo Tersigni-Eidon nio, proprio per questo non è giusto farne carico all’ultimo arrivato, né pretendere che una proposta politica appena nata vi si sottragga, rinunciando all’unico strumento in grado di darle in tempi brevi un minimo di visibilità. Allora, cerchiamo di non guardare fissi il dito che invano indica la luna. Sono cinque anni che la sinistra italiana attende di uscire dalle catacombe. E se è certamente vero che il voto di febbraio non risolverà tutti i problemi – ché anzi il duro lavoro comincerà dopo – è altrettanto indubbio che senza un successo di Rivoluzione civile la sostanziale morte della sinistra politica in Italia sarebbe, per lungo tempo, una certezza. È singolare che tanti sembrino non capire che oggi un’esigenza prevale su tutte le altre: unire le opposizioni di sinistra contro Monti e i suoi eredi, più o meno progressisti. Far sì che tornino a pesare le ragioni del lavoro, dei giovani, delle donne e del Mezzogiorno, antitetiche a quelle di tutti coloro che hanno governato in questi decenni, nel segno della sovranità del mercato. Ora, sul filo di lana, ci si presenta una possibilità per riuscirvi. Una possibilità – l’ultima – che sarebbe davvero imperdonabile sprecare. uando mi è capitato di sentire le ragazze e i ragazzi parlare delle loro storie sentimentali, dei loro rapporti di coppia (che cominciano prestissimo e subito coinvolgono le famiglie – con mio notevole stupore) sono stato spesso colpito dalla rappresentazione femminile dei ragazzi-che-non-si-innamorano, che vogliono "soltanto quello", che non parlano dei loro affetti profondi. Che non parlino ci credo, me ne accorgo anch'io, anche a partire dai testi da scrivere in classe. C'è una specie di autocensura. Forse anche un'autodifesa: quello che conta davvero non si può mettere in piazza a scuola, dove è questione di voti e sopravvivenza, mica di vita. Ma questa è una lettura ottimistica. Perché mi sembra ci sia anche una sorta di analfabetismo maschile dei sentimenti. La mancanza di un codice accessibile e condiviso – ammesso dalla comunità universale dei maschi – per dirli. E allora "esporsi" sarebbe clamoroso, non si può fare, tutti ti guarderebbero. E però che i ragazzi non si innamorino mi sembra una sciocchezza. Che abbiano tutta questa spavalderia sessuale, impensabile: casomai oggi sono le ragazze – almeno per quello che posso giudicare dal mio osservatorio, una scuola superiore con netta prevalenza femminile – decisamente più sicure e protagoniste dal punto di vista anche della sessualità e della seduzione. Per i ragazzi spesso è il gruppo maschile che funziona da soggetto collettivo e da guscio protettivo. E credo sia anche in questa insicurezza di fronte alla nuova libertà femminile la radice di molta violenza, in particolare di branco. Le comunità danno e tolgono (soprattutto agli altri/e), non sono semplici da maneggiare. Però poi ogni tanto arrivano anche segnali in controtendenza rispetto a certe chiusure, esclusioni, bullismi. Perlomeno in queste scuole miste e non di frontiera, dove la presenza delle ragazze addolcisce in parte almeno il mondo. Edoardo in prima aveva fatto subito un grande effetto. Nella settimana iniziale di scuola tutti sapevano, insegnanti e studenti, l'intera sua vita: la famiglia separata, la mamma pallosa, il padre lontano «che non si vede mai e vorrebbe comandare», il nuovo uomo della mamma, amicone. Lui con un sacco di acciacchi di salute, narrati con tutti i dettagli clinici, anche quelli un po' imbarazzanti. Un tipo teatrale e creativo, dai risultatati scolastici così così perché di quei creativi che gli fa fatica ritornare su quello che fanno: la cura delle cose, il labor limae, lo studio metodico, non sono per loro. In terza si mette con Diletta, una tipetta niente male della sua classe. Capelli ogni due mesi di colori diversi, fosforescenti quasi – modello Losey, Il ragazzo dai capelli verdi. Tagli asimmetrici, una volta tutti da una parte, qualche mese dopo dall'altra. Sopra ritti. Bella coppia. Poi lui va sei mesi via dall'Italia per un progetto europeo che non ricordo come si chiama. Vuole mettersi alla prova. Al ritorno però il mondo grande mette in crisi le micro-relazioni di un tempo. Lui è cambiato, lei pure. Come deve essere in fondo. E non si tratta solo della relazione. Diletta scrive in un testo che ora ha una storia, un'adolescente come lei con cui si trova molto bene. Io sottolineo il solito errore, le dico, lo sai che non ci vuole l'apostrofo sull'articolo maschile. Lei dice sì, lo so, però quella è proprio una ragazza profe, la mia amica, stiamo insieme da un po' e va tutto bene finalmente. Io chiedo scusa per la sfiducia, ho pensato subito a un problema di ortografia invece che a un non-problema di sessualità. E però mi colpisce la naturalezza tranquilla. La mamma, poi, nell'ora di ricevimento, mi dice che la figlia l'ha proprio detto durante un attivo di classe, a tutte e tutti. Ha fatto outlet, come dice Zalone. Ci teneva. La signora precisa che lei non è come sua figlia, e forse vuol dire che non è colpa sua, ma conclude che se è felice insomma pazienza. Il colpo di scena è che anche Edoardo adesso sta con un ragazzo e anche lui l'ha detto pubblicamente, me lo racconta l'insegnante di ginnastica. In gita, scherzando, dico a Diletta, Diletta non è ci hai fatto una croce sopra perché pensi che tutti i maschi sono come quello lì, lui è un caso particolare. Lei ride e dice, lo so profe, ma ne ho provati anche altri. Anche lui è stato con altre ragazze dopo, ma non è roba per noi. Sono due tipi così, che provano. La cosa che mi ha colpito e mi è sembrata bella è questa leggerezza del loro discorso. Hanno parlato in un attivo di classe (almeno lei, lui non sono sicuro) quando di solito è un gran casino e si parla solo di dove andare in gita, con chi, di che dire al professore che massacra la classe di compiti e voti. Me li immagino loro due che parlano delle loro nuove storie. Non avranno detto che si amano o roba del genere perché non ce li vedo a usare parole così grandi. Anche per loro scatta un'autocensura (sacrosanta tutto sommato) rispetto al rischio della retorica. Lei con i capelli ritti di tutti i colori, lui che fa battute o straparla delle sue malattie. Mi piace immaginare che nell'attivo si sia fatto silenzio, ma non un religioso silenzio. Non la sacralità che cancella il naturale e umano. E poi tutta la classe che avrà detto, Va be' state con altri due. Ma che diciamo in consiglio a quello di tedesco. E chi fa la lista per le merende. Piccole rivoluzioni crescono. Inattese e grandi. pagina 16 il manifesto MARTEDÌ 15 GENNAIO 2013 L’ULTIMA storie POPEYE/BRACCIO DI FERRO, «CIRCONDATO» DAI MANIFESTI DI RIVOLUZIONE CIVILE Nicolò Martinelli «N on pensi di essere un po’ troppo grande per i cartoni animati?». Chi di noi non si è mai sentito rivolgere questa frase, magari da un genitore o da un nonno che sì, magari li riteneva pure carini, ma pur sempre roba da infanti. Il mondo degli adulti è dominato da problemi lavorativi, tasse, scelte politiche ed economiche, dove, a detta di qualcuno, non c’è spazio per la fantasia. Poi sono arrivati i manga, i Simpson e via dicendo. Fumetti e cartoni, certo, ma dotati anche di contenuti per adulti, e in alcuni casi anche di forte critica sociale. Emblematica è in questo senso la serie animata South Park, una violenta critica alle contraddizioni della società americana. Nel disco Libertà obbligatoria del 1976, Giorgio Gaber cantava di come si possa fare politica con i fumetti. A quanto pare qualche sostenitore della Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia ha preso alla lettera questo suggerimento, e sen- Cartoon za farsi sfuggire l’occasione, ha dato il via ad una campagna via internet che utilizza i supereroi come testimonial d’eccezione. Nell’era del web 2.0, la comunicazione attraverso internet ha assunto un’importanza fondamentale nelle campagne elettorali. Che sia ideata da costosi professionisti o da semplici militanti dotati di fantasia, il fine di una campagna virale è quello di impressionare positivamente gli utenti della rete allo scopo che essi facciano circolare l’informazione. Alcune hanno un grande successo, come quella che ha portato all’elezione di Barack Obama. Altre si rivelano dei clamorosi flop, come il video, ispirato allo spot pubblicitario del formaggio Panda, della passata campagna di tesseramento ai Giovani Democratici, in cui un giovane dai modi bruschi faceva dispetti a coloro che decidevano di non rinnovare la tessera, in modo simile all’orso protagonista della pubblicità. Il principio alla base di questa tecnica comunicativa è «che se ne parli bene o se ne parli male, purché se ne parli». Principio molto ben conosciuto da Silvio Berlusconi, che in questi anni ha costruito la propria immagine anche grazie ai continui attacchi dei propri avversari politici, diventando onnipresente nel dibattito politico italiano. Chi invece fatica in questa operazione D’ELEZIONE I SUPEREROI PROTAGONISTI DELLA POLITICA SU WEB 2.0 Gaber in «Libertà Obbligatoria» cantava di come si possa parlare alla società con i fumetti. Forse parlava con qualche anticipo della famiglia «politicamente scorretta» dei Simpson, ma a quanto pare qualche sostenitore della Rivoluzione Civile di Ingroia lo ha preso alla lettera, dando il via a una campagna via internet che utilizza i personaggi delle strip come testimonial di eccezione è la sinistra, che oramai da 5 anni lamenta di una scarsissima attenzione dei mass-media nei propri confronti, in un circolo vizioso di oscuramento mediatico e risultati elettorali deludenti. E del resto il richiamo proveniente dall’Agcom parla da solo: a fronte del tempo dedicato ai due principali partiti, lo spazio dedicato a forze quali Rivoluzione Civile è stato ben più modesto, magari relegato alla mattina o alla tarda notte. Con pochi soldi e uno scientifico oscuramento mediatico rispetto alle altre coalizioni in campo, la Rivoluzione Civile di Ingroia tenta quindi la carta di parlare al cuore degli elettori. E per infiammare i cuori, cosa c’è di meglio dei fumetti e dei cartoni animati, che hanno segnato l’in- capace di sollevare temi importanti quali il riassetto idrogeologico del territorio, la lotta alla criminalità organizzata e alla speculazione edilizia, fino alle battaglie del mondo del lavoro. Una rivisitazione in chiave fumettistica di quella «semplicità che è difficile a farsi» di cui parlava Bertolt Brecht, e di una sequenza di immagini semiserie che illustrano un programma politico molto meglio di tante parole. Non è la prima volta che il binomio di fumetti e lotta politica viene utilizzato con successo, basti pensare all’enorme diffusione che hanno avuto le maschere di V per Vendetta con l’esplosione del fenomeno Anonymous, il collettivo di hacker-attivisti che in modo simile a questo vendicatore mascherato attacca all’improvviso i centri nevralgici del potere economico e politico mondiale. Non è un mistero invece, che l’estrema destra abbia tentato più volte di appropriarsi di Capitan Harlock, il celebre pirata spaziale protagonista dell’omonimo manga, nonostante i contenuti veicolati dal fumetto non abbiano nulla a che spartire con il fascismo. Anche qui la lotta è stata dura, contro gruppi e collettivi di sinistra, che per non lasciare Capitan Harlock in mano alla destra, lo hanno utilizzato essi per primi quale simbolo di lotta contro la guerra e il neoliberismo, come dimostra, tra le altre, l’esperienza di RadioHarlock, web radio versiliese legata ai gruppi giovanili della sinistra. Questo a dimostrazione che la politica si fa anche attraverso la costruzione dell’immaginario collettivo, di quella cultura nazional-popolare di cui parlava Gramsci. Ed è innegabile che la cultura fumettistica, rientri esattamente in questa categoria. Certo, a questa battaglia possono essere mosse critiche, tra cui, fanzia di milioni di persone? Le storie narrate quasi sempre hanno al centro protagonisti umili e squattrinati, che grazie ad un’intelligenza fuori dal comune, imprevisti superpoteri, o un semplice colpo di fortuna, riescono a superare mille difficoltà. In poche parole, personaggi che rappresentano quel quarto stato che compare sul simbolo della lista di Ingroia, che si ergono a paladini degli sfruttati e degli oppressi, quasi a voler comunicare una similitudine con l’ex-magistrato palermitano, a suo modo un eroe dell’antimafia. Accade così che il corrucciato nano Brontolo, minatore sessantenne colpito dagli effetti della riforma Fornero, decida di votare Rivoluzione Civile perché non sopporta l’idea di dover andare in pensione a 70 anni. Oppure che dire dello sfortunato Zio Paperino, che nonostante i propri 40 anni, è costretto a svolgere lavori umili e precari per mantenere i tre nipotini? Desidera un lavoro fisso che gli è negato dalle leggi Treu e Biagi e dalla manomissione dell’art. 18, e voterà Ingroia nella speranza che le assunzioni a tempo indeterminato diventino la normalità. SUPERMAN «Il nucleare non è una scelta sicura», dice lo spensierato Homer Simpson, responsabile della sicurezza in una centrale atomica. E La corte d'appello ha dato ragione alla Warner, sentenzianproprio come nella serie anido che nella causa del 2008 contro la famiglia del creatore mata di Matt Groening, diedi Superman, Jerry Siegel, la DC Comics sosteneva a ragiotro parvenze di utilità delne la validità dell'accordo stretto nel 2001 con la famiglia l’energia nucleare, si nasconSiegel. È l'opposto di quanto aveva deciso il giudice nel de solo la bramosia di profit2008, permettendo ai Siegel di tenere i diritti di alcune ti del perfido signor Burns. caratteristiche chiave del personaggio di Superman, incluso Questo fenomeno, rigoroil costume, il personaggio di Clark Kent, la storia delle sue samente non ufficiale e parorigini come descritto nelle prime edizioni di Action Comitito dal basso per evidenti racs. Con questa decisione, quindi, è stato confermato definigioni di diritto d’autore, fa tivamente che la Warner Bros, (che possiede la DC Comics) affidamento su una rete di è la sola proprietaria di Superman e di tutte le sue incarnamilitanti che di propria zioni. Gli eredi dei co-creatori di Superman non riavranno spontanea iniziativa creano quindi la proprietà di alcun elemento legato al supereroe. immagini con i più svariati personaggi e le diffondono attraverso i social network, non ultima, quella di chi ritiene poco nocosa che rende molto arduo ad eventuabile «strumentalizzare» per interessi eletli censori identificare una fonte univoca torali, personaggi al di sopra delle parti, a cui addossare la responsabilità di evenquali gli eroi dei fumetti. È una diatriba, tuali violazioni del copyright. quella sulla neutralità dell’arte, che è vecPassando da Thor, il supereroe Marchia quanto il mondo. Ma per chi fa polivel che combatte mafia e corruzione tica per passione, come gli anonimi milicon il suo temibile martello magico, per tanti che hanno dato origine a questa arrivare al nonno di Heidi, montanaro e campagna, la neutralità è sinonimo di inconvinto militante No Tav, la campagna differenza. E si sa, a sinistra c’è chi gli invirale della lista Rivoluzione Civile appadifferenti li odia. re da subito accattivante e ironica, ma La Warner vince la battaglia legale contro gli eredi. È tutto suo
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BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158