Lavoro e lavoratori della conoscenza quattro aree

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Lavoro e lavoratori della conoscenza quattro aree
Working Paper
Lavoro e lavoratori della conoscenza:
quattro aree di progettazione
economica e sociale per il rilancio della
produttività e competitività e per lo
sviluppo dell’occupazione
Federico Butera
WP7 / 2012
È consentita la copia e la distribuzione a scopo divulgativo e didattico, citando la fonte.
Sono consentite, inoltre, le citazioni purché accompagnate dall'idoneo riferimento bibliografico.
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Lavoro e lavoratori della conoscenza: quattro aree di
progettazione economica e sociale per il rilancio della
produttività e competitività e per lo sviluppo dell’occupazione 1
di Federico Butera2
Sommario
Lo spaventoso livello di disoccupazione e inoccupazione soprattutto giovanile, in Italia e nei Paesi
occidentali, deriva certamente dalla crisi macroeconomica in atto, ma anche da una grave carenza
di politica industriale e sociale: non aver affrontato per tempo la più grande rivoluzione dei sistemi
produttivi e del sistema sociale del secolo, costituita dalla forte crescita del lavoro e dei lavoratori
della conoscenza. Una classe maggioritaria senza rappresentazione, identità, regolazione.
È difficile che manovre di politiche pubbliche (come lavori pubblici, incentivi alle imprese, riforma
del mercato del lavoro, modifiche della fiscalità e altro) – anche quando siano tempestive e
appropriate –, da sole possano produrre gli effetti sperati di riduzione della disoccupazione. È
necessario sopratutto creare nuovo lavoro, sviluppando organizzazioni competitive e ad alto livello
di produttività e potenziando le capacità delle persone a fornire contributi eccellenti.
Abbiamo da anni analizzato il mutamento quantitativo e qualitativo del lavoro nelle società
occidentali: il Novecento dell’industrialismo era stato il secolo degli operai e degli impiegati
esecutivi che avevano sviluppato l’economia, cambiato le città, modificato la struttura sociale,
alterato il modello dei consumi. Oggi, i lavoratori della conoscenza (scienziati, artisti, imprenditori,
manager, professional, tecnici, ma anche operai specializzati, artigiani, venditori qualificati), in
molti Paesi occidentali, sono più numerosi degli operai comuni e degli impiegati esecutivi messi
insieme. Ma il loro lavoro e le loro identità sono poco conosciuti, frammentati in un caleidoscopio di
attività, mestieri, settori, livelli apparentemente diversissimi fra loro: non lo sono e che (come era
avvenuto per gli operai), presentano più elementi comuni che differenze. Ma le istituzioni di
regolazione del lavoro non si sono accorte fino in fondo della loro esplosiva crescita: le scuole, il
mercato del lavoro, l’organizzazione del lavoro sono ancora largamente basati sui modelli del
primo industrialismo.
Di fronte alla crisi occupazionale in corso vi è perfino chi invita i giovani a lasciare la scuola e
andare a bottega dall’idraulico di quartiere. Occorre, invece, di considerare questa trasformazione
dei lavori e dell’istruzione come la principale risorsa per la crescita del sistema economico e per
costituire una società prospera ed equa, se essa sarà guidata, regolata e potenziata come lo fu la
società degli operai e degli impiegati durante la prima rivoluzione industriale. Ma c’è molto lavoro
da fare.
Nel nostro programma di lavoro su “il lavoratori della conoscenza” proponiamo l’apertura,
valorizzazione, supporto, diffusione di piccoli e grandi cantieri di riorganizzazione del lavoro, di
riconfigurazione dei mestieri e delle professioni, di gestione della mobilità e di sviluppo delle
persone, cantieri da aprire nelle imprese, nelle Pubbliche Amministrazioni. Essi possono creare
occupazione qualificata e dar luogo a casi esemplari e best practice che si trasformino poi, in
breve tempo, in nuove conoscenze, nuove regole, nuovi sistemi, nuovi servizi e soprattutto nuova
cultura.
1
© 2012 Fondazione Irso e Federico Butera. Questo lavoro fa parte della più ampia ricerca Lavoro e
lavoratori della conoscenza condotta dalla Fondazione Irso e diretta da Federico Butera. Più ampie e diverse
versioni, insieme ad altri contributi di approfondimento a cui il testo si riferisce, possono essere trovate in F.
Butera, S. Bagnara, R. Cesaria, S. Di Guardo, Knowledge working. Lavoro e lavoratori della conoscenza,
Mondadori Università, Milano 2008 e in G. Gosetti (a cura di), Il lavoro: condizioni, problemi, sfide, Franco
Angeli, Milano, 2011.
2
Federico Butera è ordinario di Scienze dell’organizzazione all’Università di Milano-Bicocca, dopo aver
insegnato all’Università di Roma La Sapienza. È stato Visiting Scholar alla Sloan School of Management del
MIT. Ha fondato e presieduto fin dal 1974 l’Istituto di Ricerca Intervento sui Sistemi Organizzativi, oggi
Fondazione Irso. È Direttore della rivista “Studi Organizzativi”. Ha pubblicato 36 libri e un gran numero di
saggi scientifici e professionali in Italia e all’estero.
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Esiste ormai un vastissimo repertorio di casi e modelli di organizzazione del lavoro di nuova
concezione in Toyota, Google, Apple, Ikea, Nasa, Harvard University, Bethesda Hospital, Ferrero,
Luxottica e in un gran numero di altre imprese e pubbliche amministrazioni anche italiane che
assicurano alta produttività, miglioramento continuo e innovazione .
Ritornano e si diffondono in tutto il mondo casi di organizzazioni del lavoro operativo
(microstrutture) basate su una forte autoregolazione, centrate su cooperazione, comunicazione,
conoscenza, comunità e supportate dalle tecnologie multimediali: i casi raccontati in questi giorni
da Gary Hamel su “Harvard Business Review” e da Federico Rampini su “Repubblica” li stanno
rendendo popolari. Esiste una grande varietà di riconfigurazione di nuove professioni “a banda
larga” come le professione dell’ICT o le professioni sociali che implicano una forte identità
professionale e culturale e al tempo stesso un livello alto di flessibilità e protezione della persona,
veri antidoti alla precarietà. Il repertorio di forme di gestione del lavoro inoltre si è ampliato
enormemente, attivando forme dell’impiego, della retribuzione, degli orari, della configurazione dei
luoghi di lavoro, delle provvidenze accessorie, al work life balance che hanno caratteristiche senza
precedenti. Soprattutto si sono sviluppate , seppur disordinatamente, nuove modalità di
formazione, apprendimento, sviluppo, empowerment rappresentano il nutrimento della principale
fonte di produttività e innovazione, ossia le persone.
Questi progetti , e la cultura che li sottende, possono cambiare non solo le singole aziende e
Pubbliche Amministrazioni, ma possono dare corpo e anima a patti di produttività e ai sistemi di
relazioni industriali che li possono precedere, accompagnare o seguire, un compito molto
complesso che richiede sia a livello locale che a livello generale, la collaborazione di soggetti
economici e istituzionali diversi, quali le associazioni imprenditoriali, i sindacati dei lavoratori, le
istituzioni nazionali e regionali di gestione del mercato del lavoro, la scuola e altri. Per far ciò
occorre però passare da relazioni basate sul conflitto e sulla pura regolazione degli interessi a
quelle centrate su una progettualità condivisa.
Non proponiamo una cosa nuova: gli Stati Uniti d’America si sono consolidati come nazione
sviluppando nuove forme di organizzazione e di professioni e su questo generando un esteso
consenso sociale e così sono anche usciti dalla crisi del 1929 (da taylor-fordismo in avanti); così il
Giappone è uscito dal baratro dopoguerra (adottando e diffondendo la lean production).
L’organizzazione del lavoro e il sistema professionale sono anche alla base del modello di
successo della codeterminazione tedesca, la Mitbestimmung: è ormai condiviso che il sistema
tedesco della Mitbestimmung ha avuto successo non solo perché ha regolato interessi e dato voce
agli stakeholder dell’impresa, ma soprattutto perché ha protetto, incoraggiato e spesso generato
forme di organizzazione e di professioni altamente produttive e competitive. L’oggetto e risultato
veri della codeterminazione tedesca sono progetti realizzati: Volkswagen e Bayer, i tecnici di alto
livello e i facharbeiter, le scuole tecniche e scientifiche di eccellenza e moltissimo altro. La
Mitbestimmung non è importabile in Italia, neanche sotto la pressione di una crisi così severa. .
Agli inizi degli anni ’70, alcune aziende private (Olivetti, Zanussi e altre) e aziende a partecipazione
statale (Terni, Italsider, Dalmine, Ansaldo, Italimpianti, Montedison e altre) avviarono programmi di
innovazione nell’organizzazione del lavoro soprattutto operaio, con il supporto di parte delle
rappresentanze imprenditoriali (ad esempio, Intersind) e sindacali (la CGIL di Trentin e la Cisl di
Carniti) e con il sostegno delle istituzioni
L’ipotesi di un nuovo patto per la produttività e la competitività, quale quello che viene proposto in
questi giorni di settembre 2012, è indispensabile ma può avere successo se avrà la capacità di
attivare in tempo breve e in tutti i settori e territori un gran numero di progetti di forte miglioramento
della produttività e della competitività delle singole imprese, reti di imprese, cluster, territori , che
siano anche progetto di forte miglioramento della qualità e quantità dell’occupazione, in cui
imprese, sindacati e amministrazioni facciano del loro meglio.
La nostra proposta non è nuova per l’Italia. L’evocazione del modello americano di creazione di
forme innovative di organizzazione venne considerata troppo lontana. L’esperienza giapponese
venne bollata negli anni 80 come troppo culturalmente connotata. Il modello scandinavo di
progettazione condivisa dell’organizzazione del lavoro e il modello tedesco della codeterminazione
vennero contrastate in tutti i modi sia dalla maggioranza degli imprenditori che dei sindacati e non
ricevette supporto da parte delle forze politiche del tempo, fino ad essere archiviato definitivamente
di fronte alla crisi petrolifera, alla strategia della tensione e alla violenza delle Brigate Rosse.
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Si tratta, oggi, di riaprire una stagione di riorganizzazione del lavoro qualificato, suscitando
innovazione nelle soluzioni e nei metodi che partano dal basso e guardino all’impresa o alle
singole amministrazioni in progetti di system design (come proposto negli anni 70 con un gergo
oscuro da chi scrive) o di progetti di“prati verdi” (come con felice espressione fu proposto e
praticato da Mario Consiglio) e da altri manager, consulenti e studiosi . Occorre portare alla luce,
supportare, diffondere esperienze in atto in tutto il paese come illustrato nel nostro programma
Italian Way of doing Industry e da mesi documentato puntualmente da Dario Di Vico (l’Italia che ce
la fa). Su progetti a livello aziendale , entro un framework condiviso, è possibile trovare più
facilmente forme di dialogo sociale strutturato, orientato alla crescita della torta più che non alla
sua distribuzione.
Questa è una sfida profonda per le forze politiche e culturali che si propongono di avere un ruolo di
innovazione: tanto più profonda perché esse nel passato non sono state capaci di fare ciò che la
Germania, gli Stati Uniti, il Giappone, la Finlandia, il Brasile e altri hanno fatto innovando con
l’organizzazione del lavoro imprese e amministrazioni, con il risultato amaro di veder precipitare il
nostro Paese al fondo di tutte le classifiche.
Vi sono quattro aree prioritarie, che rappresentino le molecole per dare vita a progetti per
sviluppare nuovi sistemi di lavoro della conoscenza capaci di rilanciare produttività, competitività e
occupazione: a) l’organizzazione del lavoro della conoscenza; b) la progettazione e la gestione di
professioni nelle organizzazioni; c) la gestione della mobilità e l’employability; d) lo sviluppo
dell’integrità e dell’identità della persona.
1.
Il cambiamento della struttura sociale dei Paesi occidentali: i lavoratori della
conoscenza sono ormai più numerosi di operai, impiegati e contadini messi
insieme
È in atto nei Paesi industrializzati dell’Occidente una straordinaria crescita quantitativa e una
profonda modifica qualitativa delle persone che svolgono lavori ad alta qualificazione nelle
imprese, nella Pubblica Amministrazione e nelle professioni. È una vasta area del mondo del
lavoro in cui sono presenti figure che imprese, governi e studiosi chiamano in vario modo, a
seconda delle diverse prospettive di analisi: personale qualificato, scienziati, manager,
imprenditori, tecnici, specialisti, professional, esperti, professionisti, creativi, artisti, lavoratori
autonomi di terza generazione, lavoratori autonomi di seconda generazione ecc. Noi li chiameremo
knowledge worker, lavoratori della conoscenza oppure professionisti nelle organizzazioni.
La nostra ricerca, attingendo ai dati delle statistiche internazionali di cinque Paesi occidentali
(Francia, Italia, Regno Unito, Spagna e Stati Uniti) aveva rilevato che le figure definite ad alta
qualificazione nel 19971 e quelle censite nel 2007 nelle statistiche internazionali come scienziati,
manager, professional e technician, avevano fatto registrare una sorprendente crescita tra il 1995
e il 2005, dopo essere molto cresciute in tutto l’ultimo cinquantennio.
1995
Italia
Regno Unito
Francia
Stati Uniti d’America
Spagna
Germania
29%
34%
38%
34%
23%
-
2005
41,49%
52,17%
43,71%
38,65%
33,28%
48,19%
Tabella 1 – Scienziati, artisti, manager, professional e technician sulla popolazione lavorativa complessiva
Fonte: per il 1995, Butera, Cesaria, Donati (1997); per il 2005, Butera, Bagnara, Cesaria, Di Guardo (2008).
In Francia e in Italia continuano ad aumentare. Di Guardo (2011) ha rilevato i seguenti valori per il
2008 e i valori di incremento rispetto al 2000.
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Francia
Italia
dati 2008
rispetto al 2000
46,09%
+3,94%
43,13%
+5,27%
Secondo la definizione del Bureau of Census, fanno parte della categoria dei manager: i legislatori,
i dirigenti e gli imprenditori. Fanno parte della categoria dei professional le professioni intellettuali,
scientifiche, di elevata specializzazione e tutte le altre voci professionali nelle attività dei servizi,
ovvero tutte quelle professioni per le quali è richiesto un livello elevato di conoscenza e di
esperienza in ambito scientifico, umanistico o artistico. Fanno invece parte dei technician le
professioni tecniche, ovvero quelle che richiedono conoscenze operative ed esperienza, e che
applicano, seguendo protocolli definiti e predeterminati, conoscenze esistenti e consolidate3.Si
badi bene che questi numeri riguardano la qualificazione delle posizioni di lavoro ricoperte e non
delle persone.
I numeri di queste grandi categorie, inoltre, non ci dicono molto sul grado di valorizzazione
economica, sul prestigio sociale, sulla qualificazione sostanziale. Per esempio in Italia e in Francia
vi è lo stesso numero di posizioni di questo genere, ma abbiamo fonti secondo cui in Francia sono
maggiori la produttività e l’innovatività, il prestigio, il tasso di e la qualificazione sostanziale di
queste categorie occupazionali.
Esse non sono le sole il cui valore è dato dall’impiego e dalla produzione di conoscenze
complesse. Questi dati ci dicono solo quante sono, al minimo, le professioni e occupazioni della
conoscenza. Se volessimo sapere con esattezza quanti sono tutti quelli che operano sulle
conoscenze anche quando il loro output è un prodotto fisico o una transazione commerciale (uno
chef, un artigiano qualificato, un venditore qualificato di apparecchiature tecnologiche, un addetto
all’assistenza qualificata), occorrerebbe sviluppare una ricerca con una concettualizzazione, con
dimensioni analitiche, con dati statistici oggi non disponibili. Qui è sufficiente notare solo che la
struttura dell’attuale apparato statistico internazionale ci dice comunque molto:
–
dai numeri presentati abbiamo sottratto le persone con un titolo di studio inferiore alla
scuola media superiore, per evitare di sovrastimare la categoria dei technician, in cui al momento
sono compresi sia riparatori delle centrali elettriche, sia riparatori di lavatrici. Le cifre indicate sono
inferiori alla realtà anzitutto per l’esclusione di persone con basso titolo di studio perciò, ad
esempio, il commendator Cappellaro, che ha inventato la macchina da calcolo Olivetti e che aveva
la quinta elementare, non sarebbe incluso in questi numeri. Si noti che laureati che non ricoprono
questo tipo di posizioni – ossia un laureato che fa il commesso o l’operatore ecologico – non sono
inclusi in questi dati;
–
le cifre indicate sono certamente inferiori alla realtà anche per un altro motivo: esse non
includono, infatti, le posizioni di lavoro classificate nelle statistiche internazionali come sales,
craft, service, automated systems operator, call center;
–
infine, un numero crescente di lavoratori manuali impiega e genera conoscenze pratiche
non solo in industrie di produzione di piccoli lotti (artigiani), ma anche di produzione di massa.
La prima conclusione è che, malgrado questi nostri dati non ci dicano da soli esattamente quanti e
quali professioni della conoscenza esistano nei Paesi occidentali, l’aggregato statistico dei
manager, professional, technician ad alto livello di formazione scolastica nel 2005 è altissimo in
tutto l’Occidente (dal 33,28% della Spagna al 52,17% del Regno Unito) ed è il più numeroso di tutti
3
Le categorie incluse in queste classificazioni sono, per esempio, per i manager: legislator and senior
officials, corporate managers e managers of small enterprises; per i professional: physical, mathematical and
engineering science professionals, life science and health professionals, teaching professionals e tutte le
altre voci professional; per i tecnician: physical and engineering science associate professionals e life
science and health associate professionals, office clerks e customer services clerks.
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gli altri aggregati occupazionali, superando ormai gli operai, gli impiegati e i contadini messi
insieme.
Ciò mostra che un cambiamento dei modi di produzione e della struttura sociale nel mondo
occidentale è già avvenuto. Agricoltori, operai, impiegati esecutivi, commessi rimangono categorie
occupazionali estese e della massima importanza: essi non rappresentano però più la classe
sociale centrale non solo perché sono diminuiti di numero, ma perché il modo di produzione
dominante non è più quello centrato sul lavoro di fabbrica, di ufficio, di negozio, di bottega, ma il
lavoro della conoscenza. I modi di produzione e la struttura sociale dei Paesi BRIC sono ancora
prevalentemente centrati sul lavoro operativo a basso costo, su cui essi hanno vinto la
competizione con l’Occidente. Si apre ora la competizione sul lavoro della conoscenza su cui
l’Occidente ha ancora un vantaggio: ma per quanto ancora?
Perché questo vantaggio perduri e generi produttività, prosperità e qualità della vita occorre curare:
–
lo sviluppo di organizzazioni basate sulla conoscenza, capaci di produttività e innovazione,
in cui le persone siano attori e non «posizioni»;
–
lo sviluppo di professioni di nuova concezione.
La crescita di lavori della conoscenza non è destinata a fermarsi, perché è sospinta da fattori
strutturali, da radicali cambiamenti dell’economia e della società. La fenomenale crescita dei lavori
della conoscenza è generata da fattori strutturali fra cui:
–
il progresso delle conoscenze scientifiche;
–
il mutamento dei modi di produzione e di valorizzazione nella società: l’economia della
conoscenza;
–
l’espansione dei settori terziari.
La tendenza all’aumento quantitativo e alla modifica qualitativa del lavoro della conoscenza si
intensificherà ancora. Il Cedefop stima che in Europa, entro il 2020, si diffonderanno all’incirca 7
milioni di lavori in più rispetto alla situazione odierna, nonostante l’attuale periodo di recessione
(saldo fra nuovi posti di lavoro creati e posti di lavoro persi).
In aggiunta, il Cedefop stima che altri 73 milioni di opportunità di lavoro verranno creati per far
fronte alla necessità di sostituire i lavoratori in uscita dal mercato del lavoro o in una fase di
transizione verso un nuovo lavoro. Di conseguenza, il numero totale di opportunità di lavoro è
destinato a crescere nel prossimo decennio. Si prevede che molti dei nuovi lavori saranno
occupazioni caratterizzate da alti livelli di conoscenza e competenza, come manager di alto livello
e tecnici (figura seguente).
Fonte: Cedefop, Febbraio 2010
Figura 1 - Future opportunità di lavoro (EU-27+)
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Fonte: Cedefop, Febbraio 2010
Figura 2 - Cambiamento della struttura occupazionale (EU-27+)
La proiezione rappresentata nella figura precedente suggerisce inoltre che la domanda di
competenze ed abilità richieste (come misurazione della qualificazione formale) è destinata a
crescere nel corso dei prossimi decenni.
È inoltre previsto un declino sostanziale delle occupazioni nel settore primario dell’industria, con
una perdita di circa 2,5 milioni di occupazioni, specialmente nel settore agricolo.
Una perdita di altri 2 milioni di occupazioni è prevista per il settore manifatturiero e della
produzione, mentre l’area che registra e registrerà una crescita di circa 7 milioni di occupazioni è
quella dei servizi, in particolare dei servizi commerciali. Incrementi significativi si attendono anche
nel settore della distribuzione e dei trasporti.
2.
Chi sono i lavoratori della conoscenza: professionisti operanti nelle e con le
organizzazioni
2.1 Una definizione per analizzare e progettare organizzazione del lavoro e
identità professionali
Abbiamo usato il termine lavoro della conoscenza e lavoratori della conoscenza. Il termine
knowledge worker era stato coniato da Peter Drucker nel 1993: noi lanciammo nel 1997 un
«concorso internazionale per trovarne uno migliore», ma il termine si consolidò. I termini
«professionisti aziendali» o «professionisti nelle organizzazioni», coniati da Butera nel 1992, non
hanno avuto lo stesso successo, forse perché ricordavano troppo gli avvocati e i medici
Per noi, lavoratori della conoscenza sono quelli che operano su processi immateriali per i quali la
conoscenza è il principale input e output di processi di lavori, che impiegano diversi tipi di
conoscenza per svolgere il lavoro. Il loro processo di lavoro, cioè, ha per oggetto non materiali e
informazioni, ma conoscenze. Questi lavoratori, grazie alla conoscenza professionale
(esplicita/tacita, esperta/operativa, razionale/emotiva ecc.), alla conoscenza condivisa fra le
persone stesse, l’organizzazione e i sistemi informativi, trasformano input conoscitivi (dati,
informazioni, immagini, concetti, segnali, simboli) in output di conoscenza di maggior valore
(soluzione di problemi, orientamento degli eventi, dati e informazioni arricchite, innovazione ecc.).
Anche chi cura una vigna, chi sorveglia un impianto siderurgico automatizzato, chi guida un
autotreno, chi fabbrica un vaso, usa conoscenze anche molto sofisticate, spesso conoscenze
tacite, ma talvolta anche conoscenze esperte. Ma il valore principale del processo a cui partecipa è
la trasformazione nella composizione chimica, fisica, formale, allocativa di un oggetto in corso di
diventare una merce.
I lavoratori della conoscenza sono quelli che producono conoscenza a mezzo di conoscenza,
accrescendone il valore sociale (offrendo un servizio), il valore economico (creando reddito e
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patrimonio) e il valore intrinseco e diffusivo (che non è appropriabile perché non è una merce,
come dice Rullani).
La criticità di questo 33%-53% di posizioni di lavoratori della conoscenza è che la loro utilità,
produttività, innovatività, non hanno altra prova se non nei processi sociali di valutazione
dell’output di conoscenza: cento anni di sviluppo industriale ci hanno insegnato a valutare la
qualità e il valore di un pomodoro, di un’auto, di un edificio ecc. Ma come valutare la qualità e il
valore di un processo di contabilità, di preparazione di una sceneggiatura, di progettazione di un
dispositivo, di una consulenza ecc.?
Nella categoria dei lavoratori della conoscenza includiamo:
–
anzitutto gli scienziati, i ricercatori, gli insegnanti di tutte le discipline, ossia le professioni
intellettuali studiate, per primi, da Weber e Merton. Sono soggetti formati attraverso percorsi
formalizzati e certificati che hanno come fine quello di sviluppare, generare e disseminare
scienza. Queste sono le figure che gli antichi greci definivano  , «sofòi», ossia sapienti;
–
i membri delle professioni riconosciute (medici, avvocati, notai, ingegneri e architetti
progettisti, giornalisti). Essi erano chiamati dagli antichi greci ò, «demiurgòi», ossia
esperti che lavorano per i clienti. Sono stati studiati a fondo dalla sociologia delle professioni;
–
coloro che svolgono funzioni di governance, cioè appartenenti alle élite studiate, per primo,
da Michels: sono membri di governi centrali e locali, parlamentari, alti dirigenti pubblici, executive
di imprese private, leader professionali, star del mondo dell’arte, dello spettacolo, dello sport
ecc.;
–
gli imprenditori. Essi operano su processi non formalizzati e spesso innovativi e sono
portatori di «distruzione creativa», secondo le parole di Schumpeter. Gli imprenditori delle
piccole e medie imprese, il più delle volte, non hanno studiato in una business school, ma sono
leader che gestiscono processi innovativi. In Italia i destini dell’80% delle persone che lavorano
in piccole e medie imprese sono affidati a queste figure;
–
le figure manageriali intermedie (dirigenti e quadri) che svolgono sempre meno ruoli di
comando ma sempre più di immissione di conoscenze ed esperienze nelle strutture operative, di
coordinamento e di garanzia del raggiungimento di risultati. «Manager professionali» o
«manager integratori» sono figure di responsabili di progetti di innovazione e cambiamento,
generalmente dotati di un elevato livello di qualificazione – laurea o master –, di elevata
posizione formale anche con responsabilità di strutture professionali. È il caso dei project leader,
dei coach, dei team leader o dei process owner ecc.
–
i professional, o esperti dotti che o in una situazione di lavoro dipendente o come lavoratori
autonomi. Sono figure dotate di conoscenze teoriche strutturate e spesso certificate, oltre che di
significative esperienze e competenze applicative: contribuiscono allo sviluppo o all’integrazione
di conoscenze, si assumono responsabilità di fornire servizi all’organizzazione e alla clientela.
Fanno parte di professioni emergenti, ma spesso non riconosciute: delle libere professioni
condividono l’elevata formalizzazione dei processi di lavoro complessi, l’impiego di conoscenze
esperte, la deontologia, l’appartenenza a comunità professionali spesso cosmopolite. Ma manca
loro un sistema di licenze, riconoscimenti formali, giurisdizioni esclusive ecc. Il loro lavoro e la
loro gestione costituiscono l’oggetto prevalentemente degli studi sul lavoro qualificato e delle
discipline di human resource management. Tra essi vi sono, per esempio, computer scientist;
–
gli esperti di marketing, figure tecnico-commerciali ad alta qualificazione, ricercatori,
engineer, esperti di finanza e controllo, esperti legali e tributari, consulenti interni ecc.;
–
i tecnici o «esperti pratici», ossia figure con formazione media, ma elevata esperienza
pratica. Essi hanno sia conoscenze tecniche e metodologiche, che conoscenze del contesto
applicativo nelle organizzazioni su cui lavorano. Svolgono attività di risoluzione di problemi o di
realizzazione di processi incerti anche attraverso l’uso di specifica strumentazione. Sono stati
studiati magistralmente da Barley (1996) e da Orr (1996). Fra questi ricordiamo tecnici di
progettazione, tecnici di prodotto, venditori qualificati, tecnici di assistenza clienti, programmatori
ecc. Essi si dividono in due grandi categorie: quelli che risolvono problemi, sulla base di
protocolli ben definiti, impiegando il loro «saper come» (un riparatore di lavatrici, un installatore
di centralini telefonici ecc.), e quelli che lo fanno sulla base di protocolli scarsamente definiti, con
molte eccezioni, e usano una conoscenza formale. Per questo, nelle nostre statistiche abbiamo
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incluso solo laureati e diplomati, non potendo differenziare il grado di definizione e varianze dei
protocolli di lavoro;
–
gli artigiani, i venditori qualificati, gli artigiani, gli operativi qualificati potrebbero essere
inclusi fra i lavoratori della conoscenza, anche se non sono inclusi nelle statistiche che
presenteremo. Per esempio, figure di operativi (classificati come operai o impiegati) possono
rientrare in questa categoria quando hanno conoscenze, esperienze idonee e sufficienti a
controllare e regolare processi di produzione di beni e servizi, risolvendo problemi poco definiti e
con molte varianze.
2.1
È utile identificare una categoria del lavoro così estesa?
I lavoratori della conoscenza hanno una loro interna differenziazione enormemente maggiore di
quella che avevano gli agricoltori, gli operai, gli impiegati. Le ragioni per scegliere una categoria
così numerosa sono molte.
Essi hanno in comune le seguenti caratteristiche:
–
le conoscenze/competenze e la responsabilità di gestire processi di lavoro immateriali e
incerti che hanno come output la valorizzazione della conoscenza. Questi possono essere
processi di creazione artistica, invenzione, ricerca, identificazione dei bisogni, progettazione e
ingegnerizzazione di prodotti e servizi, progettazione e ingegnerizzazione dei processi di
produzione e di erogazione dei servizi, gestione e miglioramento continuo dei processi di
produzione e di erogazione dei servizi, messa sul mercato, controllo economico, controllo
normativo e sociale, trasmissione delle conoscenze, comunicazione, gestione di processi sociali
e moltissimo altro; sono tutti processi immateriali e di valorizzazione della conoscenza;
–
la formazione di base e il continuo sviluppo delle conoscenze possedute (contenuti, knowhow, cultura, ossia sapere, saper fare, saper essere) sono l’ingrediente principale per svolgere il
lavoro;
–
il ruolo, il mestiere, la professione sono in larga misura di proprietà di chi li svolge, a
differenza della tradizione taylor-fordista in cui le persone erano pezzi di ricambio entro
macchine organizzative, mansioni, posizioni in cui l’organizzazione classica definiva i contenuti
di lavoro e collocava «le persone giuste al posto giusto»;
–
il lavoro di questi lavoratori è per lo più quello dei knowledge integrator più che dei
knowledge provider, poiché richiede integrazione di conoscenze disciplinari (tecnologie,
economia, gestione ecc.) e di competenze diverse (leadership, lavorare in gruppo, innovare,
realizzare, rischiare ecc.);
–
il lavoro si svolge per lo più insieme con altri. Nuove forme di cooperazione autoregolata,
condivisione di conoscenze, comunicazione estesa avvengono entro nuove comunità, insieme
professionali e sociali, comunità di pratica, social network supportati da tecnologie ICT e da
applicazioni Web 2.0 come blog e wiki;
–
il lavoro di questi lavoratori è un iceberg: la parte visibile è il ruolo assegnato e agito, la
professione più o meno formalizzata, il sistema delle conoscenze/competenze messe in campo,
l’intelligenza distribuita fra persone e sistemi tecnologici; la parte invisibile – assai più grande – è
il workplace within, ossia l’insieme di potenzialità, conoscenze, abilità, energie, motivazioni
professionali e non professionali delle persone. I soggetti della popolazione dei lavoratori della
conoscenza sono persone vere (che con le loro storie, i loro percorsi, «sporgono»
sull’organizzazione e sui sistemi di gestione) e comunità umane.
2.2 È in corso un radicale ripensamento delle organizzazioni, delle professioni, delle
competenze
L’organizzazione del lavoro e la gestione di queste popolazioni comporta una nuova alleanza tra le
organizzazioni ad alta intensità di conoscenza, i sistemi di professioni aziendali «agite» dalle
persone e il patrimonio di conoscenze ed esperienze delle persone, il workplace within. Il lavoro di
queste figure è una parte delle nuove forme di organizzazione. Presenteremo più avanti il nostro
modello di analisi e progettazione del lavoro della conoscenza. Qui conviene notare che molte
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sono le esperienze che mostrano questa combinazione inestricabile fra organizzazioni di nuova
concezione, nuove professioni, patrimonio individuale di competenze:
–
gruppi di lavoro autoregolati;
–
organizzazioni basate su «intelligenza distribuita» fra persone e sistemi tecnologici
sostenuti dal sistemi di ICT;
–
start-up high-tech basate sulla conoscenza condivisa e dinamica di tutte le persone
coinvolte;
–
democratizzazione dei processi di gestione della conoscenza nelle imprese grandi, medie e
piccole e Web 2.0;
–
professioni aziendali creative e innovative di nuova concezione;
–
international college, comunità di pratica estese, social network ecc.;
–
nuovi curricula delle scuole di management e di alta formazione tecnica;
–
sviluppo di riconoscibili boundaryless career;
–
esperienze di professional e management training centrate sull’innovazione e
sull’internazionalizzazione;
–
nuove frontiere della formazione analogica e on the job.
2.3
Una categoria scarsamente regolata e protetta
I lavoratori della conoscenza non godono dello stesso livello di attenzione, di riconoscimento e di
cura da parte delle istituzioni, delle imprese, delle amministrazioni e delle forze politiche e sociali
che li trattano come un caleidoscopio di categorie, corporazioni, specialismi ecc. Essi, nel loro
complesso, per lo più sono esclusi dai grandi processi di regolazione sociale (la formazione,
l’identità, i sistemi di compensi, i riconoscimenti istituzionali, la cultura) che consentono
pianificazione economica e integrazione. La società «li vede» meno di come vedeva gli operai e gli
impiegati esecutivi.
A differenza degli agricoltori, degli operai, degli impiegati, infatti, essi – soprattutto quando
appartengono all’esercito dei lavoratori autonomi – non hanno sistemi di regolazione comuni che
riguardino:
–
una collocazione nelle organizzazioni (come avveniva per l’operaio nella fabbrica fordista);
–
una modalità di gestione del mercato del lavoro (come avveniva per le dinamiche
occupazionali e salariali degli operai e degli impiegati);
–
la regolazione delle condizioni dell’impiego (norme di diritto pubblico e norme contrattuali
relativamente agli orari, alla sicurezza ecc.);
–
la collocazione nella stratificazione e le dinamiche di mobilità sociale (come avveniva con la
working class e la lower middle class).
2.4
Una categoria a rischio
I lavoratori della conoscenza, per i motivi indicati ai punti precedenti, sono oggi una categoria
sociale a rischio. I rischi, diversamente presenti per i vari segmenti, sono:
–
disoccupazione;
–
sottoccupazione;
–
ampie aree di precarietà;
–
percorsi di carriera obsoleti o assenti;
–
mismatch di ruoli e professioni confusi e strutture organizzative burocratiche;
–
compressione della creatività e innovatività;
–
forte incidenza di persone poco impegnate, poco qualificate, poco motivate;
–
troppo individualistica troppo comportamentale);
–
scarsa identità, nei nomi e nei contenuti delle professioni e dei ruoli, con l’effetto di minare il
senso di identità personale, la erosion of character, di cui parla Sennet.
La tesi del progetto di ricerca e di progettazione è che occorre prendersi cura del lavoro e dei
lavoratori della conoscenza, costruendo cantieri di alta progettualità dell’organizzazione del lavoro,
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della gestione delle persone, della formazione – a cui collaborino forze economiche, istituzionali,
scientifiche – e valorizzando le migliori esperienze italiane e internazionali.
3.
Le priorità di azione
Vi sono quattro aree fondamentali su cui ricondurre a una ragionevole unità le azioni possibili
sull’insieme dei fenomeni e delle problematiche e alcune politiche relative ai lavoratori della
conoscenza visti nel loro insieme: a) l’organizzazione del lavoro della conoscenza; b) la
progettazione e gestione di professioni nelle organizzazioni; c) la gestione della mobilità e
l’employability; d) lo sviluppo dell’integrità e dell’identità della persona.
3.1 L’organizzazione del lavoro della conoscenza: sviluppare
organizzative basate su conoscenza, cooperazione, comunicazione
comunità
La teoria classica aveva formalizzato approfonditamente processi e strutture dell’organizzazione in
modo che essi potessero essere descritti, misurati e si potessero dimensionare le risorse
impiegate e i risultati attesi. Una buona organizzazione era allora quella che funzionava come un
orologio: processi altamente prescritti, attività parcellizzate, coordinamento per programmi e
gerarchia, reparti e uffici come partizioni delle macrostrutture, la gestione delle persone limitata alla
retribuzione e alle relazioni industriali. L’esistenza delle strutture sociali (comunità di lavoro, social
network ecc.) e dei processi sociali (cooperazione, conflitto, potere ecc.) rimaneva celata dietro lo
squinternato concetto di organizzazione informale.
In trent’anni, le moderne organizzazioni si sono evolute da orologi a organismi, da castelli a reti,
per adottare alcune metafore (Butera, 1984; 1990). Si sono sviluppate – in produzione e nei servizi
– unità di processo di concezione nuova chiamate process centred organisation, ossia unità
centrate sui processi come group technology, isole di produzione, CHIM (Computer Human
Integrate Manufacturing Units), UTE (Unità Tecnologiche Elementari) e molte altre. Una grande
varietà di team è andata costituendo la spina dorsale di organizzazioni di servizio (team face-toface e team remoti). Nell’industria e nei servizi sono diventate sempre più importanti le strutture
per il governo e l’innovazione dei processi: process owner, team di progetto, team per il
miglioramento continuo, team di qualità e altri. Nella ricerca, nel lavoro artistico, nell’ingegneria, si
sono diffuse task force, excellence team, extreme team, x-team, che si costituiscono e si
dissolvono in funzione dell’avanzamento del lavoro e del processo di creazione. Queste
organizzazioni temporanee generano e gestiscono processi intermittenti di innovazione,
miglioramento, soluzione di problemi, processi di cambiamento.
Lean organization, Flat organization, Temporary organization, Virtual global village, Self-managing
team, unità di processo autoregolate, imprese di rete: sono solo alcune delle espressioni per
descrivere le nuove forme di organizzazione in cui si sviluppano i processi di conoscenza e in cui
operano i knowledge worker.
I nuovi ruoli trasversali fuori struttura, come i process owner, i knowledge owner, i product
manager, i brand leader, i project leader, i team leader ecc., tendono a sostituire i ruoli manageriali
intermedi e ad assorbire le funzioni di coordinamento e controllo in precedenza svolte dalle
piramidi gerarchiche.
Le organizzazioni delle imprese, della pubblica amministrazione, in generale non hanno ancora,
però, modalità di uso del lavoro della conoscenza mature quanto l’avevano le fabbriche (in cui vi
era forte chiarezza nei processi organizzativi che rendeva chiari i processi di lavoro e le identità
professionali). I processi della conoscenza non possono essere descritti e gestiti come procedure
formali rigide.
Nel lavoro della conoscenza vi sono pochi processi formalizzati. Ma quattro meccanismi rendono
possibile la regolazione di forme anche complesse di organizzazione del lavoro basato sulla
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conoscenza: a) lo sviluppo di comunità umane interne all’organizzazione che creano senso di
identità, condivisione di valori e di scopi; in una parola, organizzazioni che non escludono, ma
includono le piccole società in cui si sviluppa il lavoro della conoscenza; b) l’esistenza e la
rappresentazione di processi di cooperazione in qualche misura autoregolata e condivisa dal
management e dalle persone, processi di cooperazione che sono basati in gran parte sulle
volontà, le competenze, l’interazione delle persone, e che hanno avuto successo in specifici
contesti; c) le modalità concrete di condivisione delle conoscenze fra le persone e i sistemi
tecnologici, modellate in modo da assicurare contemporaneamente la liberazione delle capacità
delle persone di creare, scambiare, immagazzinare le conoscenze dell’organizzazione e usare
queste conoscenze condivise; d) le modalità di comunicazione di dati, fatti, significati all’interno e
all’esterno dell’organizzazione.
Questi quattro elementi possono essere descritti, progettati, sviluppati e misurati secondo il
Modello analitico e progettuale 4C (Butera, 1999): le comunità di lavoro basate su cooperazione
intrinseca, conoscenza condivisa, comunicazione estesa.
La comunità organizzativa ha come primo fondamento un comune sentimento di partecipazione,
interessi condivisi o positivamente mediati, obiettivi in parte comuni, valori condivisi.
L’orientamento ai risultati implica il passaggio dal concetto di comunità intesa come
«organizzazione informale clandestina per proteggere l’individuo» a quello di comunità intesa
come «piccola società per sostenere la crescita e le performance delle persone».
Queste dimensioni dell’agire organizzativo sono presenti in varia misura dove si svolge il lavoro
della conoscenza: esse consentono alle persone di animare i processi e le unità organizzative, di
dialogare e collaborare, di costruire strutture. Il carattere tendenzialmente «olografico» e «aperto»
di unità o nodi, basati sulle comunità che condividono queste proprietà, contiene in sé risorse per
sviluppare autonomamente – ma in relazione ad altre strutture – i processi di conoscenza rilevanti,
per comunicare con la dovuta estensione, per cooperare con autonomia e creatività e attivare
energie professionali.
La cooperazione è la forma di lavoro di molte persone che operano l’una accanto all’altra secondo
un piano, in uno stesso processo lavorativo o in processi differenti, ma connessi, e determina un
grande «aumento della potenza del lavoro». Con un nostro termine, abbiamo chiamato questo tipo
di cooperazione, che nasce con l’industria, cooperazione estrinseca, per distinguerla dalla
cooperazione intrinseca, o autoregolata, che accompagna il lavoro della conoscenza. Barnard
(1938) aveva per primo compreso che la cooperazione fonda l’organizzazione e non viceversa, e
aveva parlato di «organizzazioni come sistemi di cooperazione». Quest’ultima, già apparsa in
alcune forme organizzative preindustriali e riemergente ora nelle organizzazioni di nuova
concezione, implica il lavorare insieme sviluppando piani e azioni condivisi fra i membri che
consentono di decidere insieme – in tutto o in parte – che cosa fare, quando, dove e come
lavorare. È, perciò, una cooperazione socializzata nel contenuto e nella forma. Anche quando gli
obiettivi e i piani generali sono fissati dall’alto, in questo modello di cooperazione vi è una
partecipazione dei membri.
Blackler propone una classificazione dei tipi di conoscenza impiegati nelle organizzazioni e dei tipi
di organizzazione che si sono finora sviluppati. L’autore inglese classifica le conoscenze delle
persone in embrained knowledge (le conoscenze professionali, le capacità cognitive e concettuali,
il «sapere che»); embodied knowledge (l’azione orientata, il «saper come», le conoscenze che si
acquisiscono, anche implicitamente, nelle operazioni quotidiane); encultured knowledge (il
processo di condivisione della cultura, il sistema di ideologie, credenze e valori condivisi che si
crea all’interno di un’organizzazione). Egli distingue le conoscenze proprietarie dell’organizzazione
in embedded knowledge (la conoscenza che risiede nelle procedure, nelle routine, nei sistemi
operativi) e in encoded knowledge (la conoscenza che risiede nei segni e dei simboli, nei libri e nei
manuali).
La tradizionale contrapposizione fra conoscenze oggettivate e reificate (che divengono proprietà
dell’organizzazione) e conoscenze delle persone (che le organizzazioni tradizionali hanno
storicamente tentato di codificare e ridurre), nelle organizzazioni di nuova generazione sembra
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declinare decisamente verso una visione che stimola, invece, la sinergia e la convergenza di ogni
tipo di conoscenza. Nell’organizzazione del lavoro della conoscenza si dà valore e si sviluppa la
conoscenza condivisa, che include l’impiego simultaneo e condiviso di:
–
tutte le forme di conoscenze: quelle embedded ed encoded e quelle embrained, embodied
ed encultured;
–
tutti i tipi di conoscenze delle persone: sia quella esplicita che quella tacita (Nonaka,
Takeuchi, 1995), che quella contestuale (Brown, Collins e Duguid, 1989);
–
tutti i processi del conoscere (knowing).
La comunicazione che ha luogo nelle organizzazioni centrate sulla conoscenza è basata in
misura crescente sulla trasmissione di informazioni, dati e immagini con il supporto delle
tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La comunicazione è sempre un «agire
umano», un «agire comunicativo», secondo la terminologia proposta da Habermas (1981). La
comunicazione è l’agire umano orientato a trasferire informazioni, segni, simboli e significati lungo
canali e con mezzi di varia natura da un emittente – che è usualmente un soggetto individuale o
collettivo il quale ha bisogno che il suo messaggio venga inteso e condiviso – a un ricevente – che
è usualmente un soggetto individuale o collettivo che arricchisce la propria capacità se acquisisce
a fondo il messaggio per elaborarlo secondo i propri interessi – (Butera, 1993).
La comunicazione, nelle sue molteplici proprietà, è fattore fondante di nuove strutture e comunità
organizzative:
–
nelle organizzazioni orientate al cliente è l’essenza stessa del servizio interno ed esterno;
–
nelle organizzazioni centrate sui processi è il principale dispositivo di sensemaking: essa
consente la comprensione e il controllo dei processi di realizzazione, il passaggio della persona
da controllato a controllore dei processi;
–
nelle organizzazioni basate su team è l’elemento costitutivo: i team richiedono ai propri
membri di comunicare per cooperare, per controllare le varianze, per intraprendere azioni
correttive, per raggiungere risultati;
–
nello sviluppo di professioni aziendali è uno strumento chiave nel rapporto fra le prescrizioni
di ruolo e il ruolo effettivamente agito fra i membri dell’organizzazione e il cliente. Lo sviluppo
delle conoscenze è poi consentito da un’efficace ed estesa struttura di comunicazione;
–
nei processi di miglioramento e di innovazione è il prerequisito di qualunque forma di
partecipazione;
–
nelle applicazioni Web 2.0, tecnologia e social network diventano inestricabili: le comunità
si costruiscono sulla base delle comunicazioni.
3.2 Il disegno e la gestione dei ruoli e delle professioni nelle organizzazioni:
verso le professioni flessibili4
Di fronte alla valorizzazione della conoscenza nei processi di lavoro, si appannano le tradizionali
forme di descrizione, regolamentazione, formazione del lavoro, le carriere verticali, i percorsi
codificati di formazione. Per i lavoratori a più alto livello di qualificazione vi è la possibilità di una
crisi di identità.
Scompaiono le mansioni. Emergono nuovi ruoli professionali (copioni, più che forme codificate di
attività), nuove professioni nelle organizzazioni (ruoli, contesti, riconoscimenti istituzionali o non di
competenze) per dare all’individuo maggiore identità professionale e identificare i diversi ruoli
organizzativi che può ricoprire nella sua attività lavorativa. Ma essi sono ancora scarsamente
definiti e riconoscibili. Il lavoro sembra dissolversi nell’aria.
L’idea di professioni nelle organizzazioni basate su processi di conoscenza (Butera, 1992; 1995)
scaturì in parte dalle professioni liberali impegnate nelle organizzazioni (medici ospedalieri,
insegnanti, giornalisti, architetti di studi di architettura, avvocati di studi legali, consulenti di società
di consulenza ecc.) e fu adottato e testato sia in altri casi in cui mancava una tradizione di
professione liberale (come ricercatori, manager professionali, professional nelle organizzazioni,
tecnici qualificati, esperti di dominio, attori, ballerini, piloti di aereo, sportivi professionisti), sia nei
casi di emergenti indefinite professioni (designer, event manager, channel manager, change
management expert, manager of innovation, local development facilitator). L’idea fu quella non di
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generare nuove professioni formalizzate, ma di riconoscere «cosa le persone fanno
effettivamente» (Abbott, 1998), descriverle e gestirle dinamicamente.
Le professioni organizzative sono caratterizzate da quattro dimensioni:
–
processi di lavoro basati sulla conoscenza;
–
ruoli (caratterizzati da eccellenza nella execution dei processi, risultati e relazioni);
–
dominio professionale (basato su conoscenze estese, abilità esercitate, competenze);
–
aspetti istituzionali comunicati e condivisi (norme deontologiche; riconoscibilità della
professione; standard professionali; sistemi di certificazione per accedere e sviluppare; modelli
per la carriera e lo sviluppo professionale).
Esiste una professione (organizzativa o liberale) se essa fa riferimento a qualche grado di:
–
teorie e tecniche di riferimento;
–
deontologia verso il cliente, l’organizzazione, il pubblico;
–
autonomia e discrezionalità, basate sull’assunzione del rischio delle proprie decisioni;
–
talento;
–
reputazione e notorietà nell’organizzazione e presso i clienti;
–
curriculum scolastico;
–
standard professionali;
–
comunità professionale locale e internazionale;
–
formazione sul lavoro.
Le nuove professioni nelle organizzazioni hanno molti elementi in comune con le professioni
tradizionali: teorie e tecniche, codici deontologici, cursus formativo, carriera basata sulla
reputazione ecc. Ma hanno anche moltissime differenze, perché manca loro il riconoscimento
giuridico e la struttura corporativa. Esse sono una struttura produttiva oltre che un’istituzione e un
sistema di gestione e identità sociale.
Una professione organizzativa è un insieme costituito da una struttura produttiva, da
un’istituzione sociale centrata su un lavoro, un’attività, un ruolo, e da un sistema di identità
sociale.
Nella stampa ridisegnare
in modo che le frecce
arrivino all’insieme
PROFESSIONE
ORGANIZZATIVA, invece
che partire da esso
Figura 3 – La professione organizzativa
Perché la professione è un sistema di produzione di servizi? Ogni specifico sistema
professionale è costituito da un’idea di servizio, ossia una concezione di servizi professionali offerti
agli utenti attraverso forme di lavoro e di organizzazione, mercato, culture specifiche idonee a
realizzare un servizio. Il termine stesso «professionista» proviene dal latino «profiteor», dichiararsi
in pubblico, ossia promettere un servizio a chi ne necessita.
Perché le professioni sono un’istituzione sociale? Le professioni tradizionali del medico,
dell’avvocato, del notaio diventano quello che sono (sistema, struttura o istituzioni) solo
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nell’Ottocento, ma le attività relative e molti altri attributi delle professioni esistevano già ad Atene,
Roma, Firenze. Le professioni hanno avuto uno sviluppo straordinario nel Novecento, con le
professioni liberali centrate sui servizi alle persone e con quelle centrate sull’applicazione della
scienza e della tecnologia, in particolare alla progettazione. I professionisti nel secolo XX hanno in
parte operato entro lo schema dell’esercizio individuale e in parte entro le organizzazioni: è tipico il
caso del medico libero professionista e ospedaliero. In generale, le professioni sono sempre state
in competizione fra loro (il medico internista o lo psicologo?), con le organizzazioni (Le Corbusier o
la grande società di costruzioni?) e con i prodotti (l’agente di viaggio o la propria automobile?).
Perché le professioni sono anche sistemi di identità? Perché definiscono la «giurisdizione», i
percorsi formativi, le condizioni di ammissione e di sviluppo, i compensi, i riconoscimenti economici
e sociali e molto altro. La varietà e l’incertezza dell’attività professionale trovano una piattaforma di
identità sociale nella struttura della professione. È ciò che consente di rispondere alla domanda
«che lavoro fai?».
In sintesi occorre sviluppare visibili e dinamici sistemi professionali che superino il modello
molecolare delle competenze (uno strumento che assomiglia al caleidoscopio più che a uno
strumento di governo), sistemi professionali cioè che assicurino produttività, regolazione sociale e
identità delle persone.
3.3
Occupazione Mobilità e employability: verso una vera flexsecurity
Occorre sviluppare sistemi gestionali e di forme di mercato del lavoro che proteggano le persone,
formino competenze ampie e articolate in grado di assicurare la capacità di evoluzione e di
adattamento, sviluppino capacità di percorrere sentieri flessibili interfunzionali e orizzontali,
aumentino la costituzione del career capital, ossia l’insieme delle competenze professionali, di
quelle apprese durante il periodo scolastico, di quelle on the job e in situazioni di apprendimento
non lavorativo.
La mobilità di chi ha un lavoro è quella cha ha luogo nelle:
–
carriere verticali (lotta per la scalata) e orizzontali (lotta per la continuità – Weick, 1969);
–
carriere entro una rete (per esempio mobilità in un distretto industriale);
–
carriere entro un dominio professionale (carriera professionale codificata);
–
carriere entro e fuori una industry;
–
carriere entro lo stesso o un diverso modello di impiego;
–
carriere locali e globali;
–
carriere omogenee e disomogenee;
–
carriere continue e discontinue.
La carriera verticale nella stessa organizzazione è stata tradizionalmente la successione di
posizioni ordinate secondo una precisa gerarchia di prestigio, attraverso cui una persona si muove
in una sequenza ordinata (Wilensky, 1964). È un processo continuo di ascesa verso posizioni di
crescente autorità e responsabilità. Declina in tutto il mondo e viene sostituita da altre forme di
carriera.
La carriera orizzontale entro una stessa organizzazione è, per esempio, accumulazione di
conoscenze, competenze, reputazione e reimpiego in processi di crescente complessità (crescita
professionale). Emergono boudaryless career, carriere sviluppate fra funzioni, settori, livelli, assetti
professionali, sistemi di compensi molto diversi. Un esempio più estremo sono le protean career,
ossia le carriere sviluppate reimpiegando la stessa base professionale su più organizzazioni entro
un processo gestito dalla persona (Hall, 1976). Esiste la sequenza dinamica delle esperienze di un
individuo nel tempo senza modelli (Tolbert, 1996). Ma questi percorsi spesso non sono compresi
dalle persone, dalle organizzazioni, dalle istituzioni. Il futuro del lavoro diviene allora nebuloso.
L’involontarietà della perdita del posto di lavoro crea una mobilità drammatica che è emergenza
ma potrebbe diventare carriera. Perché si sviluppino carriere senza confini (di chi ha lavoro e di chi
lo ha perso) è necessario, secondo Bagnara e Kieselbach (1998):
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–
un continuo adattamento alle trasformazioni dei contenuti di lavoro, del mercato del lavoro,
delle caratteristiche delle persone sia in fase di occupazione che di fronte alla perdita di posti di
lavoro;
–
arricchire le competenze personali attraverso sentieri flessibili interfunzionali e orizzontali;
–
aumentare la costituzione del career capital, ossia l’insieme di competenze, apprese
durante il periodo scolastico, on the job e in situazioni di apprendimento esterne a quelle
professionali;
–
formare competenze ampie e articolate in grado di assicurare la capacità di evoluzione e di
adattamento;
–
costruire l’immagine, i contenuti, la formazione, il supporto gestionale e personale per
gestire percorsi interni ed esterni all’impresa, assicurando empowerment e stabilità alle persone
e produttività alla loro professione (professioni aziendali – Butera, 1995).
Viene spesso usato il termine employability, che non va utilizzato per descrivere in modo
indifferenziato sia la nuova mobilità del lavoro professionale (fenomeno positivo) che la gestione
della perdita del posto di lavoro (fenomeno drammatico). Employability può essere però un’unica
strategia attiva che valorizza le professioni, previene la disoccupazione e riconfigura i percorsi sul
mercato del lavoro.
I percorsi professionali e personali interaziendali, interoccupazionali, intergenerazionali dei
knowledge worker possono seguire i sentieri di una carriera senza confini, soprattutto per le
professioni chiave e indefinite, come le seguenti:
–
Professioni forti emergenti
• Analisti finanziari;
• Computer scientist;
• Project manager.
–
Professioni deboli emergenti
• Manager of innovation;
• Professionisti dello sviluppo del territorio;
• Change management expert;
• Architetti di processi di internazionalizzazione.
–
Lavori in bilico fra il degrado/l’obsolescenza e la professionalizzazione:
• Professionisti dei call center;
• Manutentori;
• Addetti alle attività turistiche di front-office;
• Operatori di attività stagionali (eventi sportivi, moda, fiere ecc.).
3.4 L’integrità e l’identità della persona: la qualità della vita come risorsa delle persone,
delle organizzazioni, della società
Si prospetta un quadro di estrema complessità per le persone sottoposte a un flusso di
informazioni, comunicazioni, processi economici, processi sociali a cui le strutture e le comunità
tradizionali non fanno più barriera e che precipitano sulla persona. Il lavoro non è più una
protezione, ma un flusso di eventi caratterizzati da cambiamenti e da incertezze. La persona
assume per certi aspetti una figura (potente e inquietante) di Atlante che sostiene tutte le variabilità
(esterne, organizzative, professionali, occupazionali e personali), che però può franare sotto il
peso di questa complessità e diventare preda dell’«angoscia della libertà» di cui parlava Sartre.
Per rafforzare lo sviluppo delle conoscenze e contrastare il senso di dissoluzione di questa fase di
profondo e rapido cambiamento, diventa centrale il rafforzamento dell’identità profonda delle
persone.
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Una prospettiva di difesa e azione è quella dell’«energia vitale e dell’integrità della persona» di cui
siamo debitori agli scrittori del personalismo europeo e agli studiosi del movimento della quality of
working life (Davis, Emery, Trist, Thorsrud).
L’integrità della persona e delle persone o qualità della vita deve essere il centro di questo
processo di ridefinizione del lavoro e dei lavoratori della conoscenza. L’integrità fisica delle
persone è un primo parametro fondamentale. Mettere al centro della progettazione e gestione
d’impresa la salvaguardia dell’integrità fisica delle persone è un problema che si deve e si può
risolvere, non solo con le norme e le azioni penali, ma anche e soprattutto con la prevenzione
ottenuta attraverso appropriati interventi sui processi e sull’organizzazione.
Figura 4 – Qualità della vita e del lavoro
L’integrità cognitiva è un’altra dimensione fondamentale della qualità della vita di lavoro: oggi vi
sono persone di 40 o 50 anni esposte a una innovazione tecnologica forte e drammatica, che sono
disorientate. La progettazione tecnologica deve assumere criteri di ergonomia cognitiva che
servano a mantenere al lavoro le persone al più lungo possibile (Bagnara, 2006).
È importante anche proteggere un’altra dimensione della qualità della vita di lavoro: l’integrità
emotiva. Fatica mentale, tensione, nevrosi, psicosi, stress sono in molti casi co-generati da
un’organizzazione del lavoro inadeguata. Andiamo verso condizioni in cui alle persone sarà
richiesto molto di più: proprio per questo diviene cruciale il problema di come si può evitare che la
gente si deprima, che sia sottoposta a stress a causa del sovraccarico emotivo.
Il quarto criterio è l’integrità professionale: le persone hanno bisogno di riconoscere la propria
identità professionale, di proteggere il valore della propria esperienza, di predisporsi ad
apprendere delle cose nuove. Quindi bisogna aumentare e rendere chiari competenze, ruoli,
formazione, sviluppo, sicurezza del lavoro.
L’integrità sociale è assai importante. Chi lavora in un piccolo paese dell’Emilia, esce dal lavoro e
si trova con gli amici, vive bene, mentre chi lavora nelle grandi metropoli come Milano o come
Roma può sentirsi sradicato nelle relazioni sociali, per la distanza, per la fretta, per i turni ecc.
Questa contrapposizione non è inevitabile.
Riforma dell’impresa e riforma delle città devono essere interconnesse, avendo la persona al loro
centro: impresa-rete e città-rete possono convergere in un’azione virtuosa (Perulli, 2000).
L’ultimo punto, e il più importante di tutti, è l’integrità del sé. Essa non è la somma di tutto quanto
abbiamo detto prima. Se c’è un attacco all’integrità emotiva o all’integrità cognitiva, se ci sono dei
turni impossibili, una persona potrebbe non sapere più neanche chi è. Ma anche quando nessun
altro parametro di integrità sia stato violato potrebbero esserci casi in cui la persona non riconosca
il proprio (o i propri) sé. Era quello che Durkheim chiamava anomia, che Marx chiamava
alienazione e che Mounier e Maritain attribuivano a un mancato autoriconoscimento di sé come
persona. È la erosion of character, il deterioramento della personalità di cui parla Sennet.
Il riconoscimento di sé non è contemplazione ma, per un verso, mobilitazione di energie per
l’autodifesa dell’integrità di tutte le dimensioni della persona e, per altro, per la valorizzazione e
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l’affermazione di sé vincendo la «lotta per il reale» e la «padronanza dell’azione», come dice
Mounier (1949, pp. 71-72):
Tutte le psicologie sono destinate a sfociare in una singolarità drammatica, perché la vita psicologica è una
vita fatta non di astrazioni verbali o fisiologiche ma di avvenimenti legati fra loro, il cui attore è una persona
concreta ... Ogni fatto psicologico è un avvenimento in prima persona ... È inseparabile da una storia, da un
significato, da una valorizzazione personale.
Il concetto di persona (invece che quello di individuo, soggetto, ruolo) è legato a tre dimensioni
centrali dei processi che abbiamo evocato: la centralità e assolutezza dell’uomo, la relazione con
la comunità e la relazione con sé. Sul primo punto, come chiarisce Abbagnano, «gli esseri
ragionevoli sono chiamate persone perché la loro natura li indica già come fini in se stessi, vale a
dire come qualcosa che non può essere adoperato come mezzo».
La relazione con l’«altro» è la seconda dimensione del concetto di persona: «polo di tutta la vita
intenzionale attiva e passiva e di tutti gli abiti che crea» (Husserl), «rapporto con il mondo»,
«dominio delle possibilità di azione» (Scheler), l’«esserci» (Heidegger).
«La persona è data solo laddove è dato un poter fare che non si fonda solo sul ricordo delle
sensazioni occasionate dai movimenti esterni e dalle esperienze attive ma precede l’agire
effettivo» (Scheler).
La relazione con sé è un’altra caratteristica della persona: «La persona è un essere intelligente e
pensante che possiede ragione e riflessione e può considerare se stesso in diversi tempi e luoghi;
ciò che fa attraverso quella coscienza che è inseparabile dal pensare ed essenziale a esso»
(Locke).
«Il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio io, lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli
esseri della terra» (Kant).
L’idea di abilitazione personale, o empowerment, della persona che riproponiamo si allontana
dall’uso fatto della letteratura manageriale che allude prevalentemente a un trasferimento
dell’incertezza dalle strutture agli individui. In primo luogo, abbiamo assunto che il problema dello
spostamento del locus of control da fuori a dentro (Sutherland e Cooper, 1990) e quello
dell’aumento della capacità di coping a crescenti situazioni stressanti o ansiogene (Catino,
Bagnara, Bergamaschi et alii, 2002) rappresentano un doppia richiesta (1) di praticabilità di nuove
e più flessibili strutture organizzative basate sui processi e (2) di soddisfacimento di bisogni di
valorizzazione delle persone. L’abilitazione personale o empowerment della persona è:
[…] il processo attraverso il quale un individuo o un gruppo di individui migliorano la propria abilità e
abilitazione ad agire individualmente e in cooperazione con gli altri per controllare i processi di lavoro,
influenzare positivamente le strutture e migliorare le performance di un sistema socio-tecnico e la propria
stessa integrità della vita, grazie alle proprie condizioni congiunte di forza e sanità fisica, livello di
comprensione e competenza, stabilità emotiva, abilità professionali, integrazione sociale, fiducia in se stessi
(Butera 1995).
3.5
Un modello di analisi e progettazione del lavoro della conoscenza
La Fondazione Irso ha sviluppato un modello (Butera e Di Guardo, 2009) che descrive e progetta il
lavoro della conoscenza sulla base di tre dimensioni chiave, ciascuna in continuo mutamento, in
forte relazione fra loro e fortemente associate a variabili esterne: il Ruolo, la Professione, la
Persona al lavoro.
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contesto organizzativo
di riferimento
caratteristiche
occupazionali
Identità
Professionale
RUOLO
PROFESSIONE
Sviluppo della Persona
nel Ruolo
ruolo agito
Sviluppo del Ruolo
oltre la Persona
Sviluppo di Carriera
entro e fuori l’organizzazione
PERSONA
storia, traiettoria personale
e sistema sociale
Figura 5 – Il modello di analisi e progettazione del lavoro (© Fondazione Irso)
Queste dimensioni possono essere analizzate, sviluppate, progettate come abbiamo fatto in
numerosi lavori 4.
L’analisi e il presidio delle tre dimensioni del modello non sono tuttavia sufficienti a comprendere e
a progettare il lavoro; occorre infatti analizzarne ed ottimizzarne le mutue relazioni, siano esse
positive e/o critiche. La relazione tra Ruolo e Professione definisce l’Identità Professionale, ovvero
la capacità che le persone hanno di riconoscere una relazione tra quello che esse fanno oggi, hic
et nunc, nell’organizzazione e la collocazione di ciò in una esistente o possibile professione.
La seconda interazione si attiva quando una Persona fa evolvere il Ruolo formale nel quale ha
prestato la propria opera e lo afferma. Infine, nella relazione tra Professione e Persona si evidenzia
l’esistenza delle possibilità di Sviluppo di Carriera entro e fuori l’organizzazione, entro e fuori dal
percorso di una specifica professione (mobilità in una singola organizzazione e in una broad
profession oppure mobilità interorganizzativa e mobilità interprofessionale).
Le tre dimensioni del modello si originano fuori da uno specifico contesto e da un esteso ambiente
organizzativo e societario. Il Ruolo, infatti, è una parte del Contesto Organizzativo di riferimento,
che evolve rapidamente distruggendo e creando ruoli; la Professione è una porzione del mercato
del lavoro caratterizzato da peculiari Caratteristiche Occupazionali, che attribuisce valori e
compensi in base a dinamiche socio-economiche che trascendono la professione; la Persona al
lavoro è la punta dell’iceberg della persona nella sua totalità, nella sua Storia, traiettoria personale
e sistema sociale.
3.6
Due classi di proposte di azione
In sintesi, le proposte che emergono dall’analisi condotta sono:
1.
Per le organizzazioni (imprese e Pubbliche Amministrazioni)
–
progettare e sviluppare processi di lavoro, organizzazione del lavoro, professioni della
conoscenza, con nuovi modelli e nuovi metodi;
–
sviluppare comunità professionali e di pratica senza confini;
–
sviluppare programmi di formazione che potenzino capacità di cooperazione intrinseca,
conoscenza condivisa, comunicazione estesa per ciascun contesto e in ogni organizzazione del
lavoro (meno specialismo e più stare sul campo);
–
introdurre nuovi sistemi di identificazione, classificazione e professional placing, basati
sull’individuazione di un limitato numero di professioni di base (broad profession), più che su un
grande numero di job e task molto dettagliati;
4
Si fa riferimento, in particolare, a: Cinti P. (a cura di), Prendersi cura: indagine sulle professioni sociali,
FrancoAngeli, Milano, 2011; Professioni dell’ICT, Working paper Fondazione Irso, 2009; Knowledge owner
nell’industria petrolifera, Working paper Fondazione Irso, 2009.
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–
attivare processi collaborativi tra istituzioni, organizzazioni e sistemi educativi per dare
nuova forma alle carriere;
–
attivare processi di partecipazione al miglioramento e all’innovazione.
2.
Per le istituzioni, i governi, i sistemi educativi
–
rimuovere i vincoli che impediscono la mobilità positiva;
–
sviluppare un sistema unitario di rilevazione di professioni e mestieri;
–
sviluppare un sistema unitario di informazione e valutazione dei risultati dell’università e
della scuola;
–
sviluppare nuove forme di formazione, di alternanza scuola/lavoro, di life-long education;
–
supportare carriere senza confini;
–
attivare e sostenere moderni
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