Proprietà Intellettuale: Brand Names Bullies
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Proprietà Intellettuale: Brand Names Bullies
Proprietà Intellettuale: Brand Names Bullies “Starbucks mug”, foto di Federico “Smithcam”, licenza CC BY-NC-ND 2.0, www.flickr.com; Siete il proprietario di un caffè in una località della pianura padana che finisce in -ate, e siete felici di aver chiamato la vostra birra artigianale “macinina”. Un giorno ricevete una lettera di diffida della Mulino Bianco che vi minaccia di farvi causa per violazione del diritto di marchio associato alla parola “macina”, parola divenuta proprietà privata della Mulino Bianco di cui esercita tutte le esclusive. Vi mettereste a ridere? Una sorte simile è toccata al proprietario del bar Exit 6, a Cottleville, Missouri. La sua stout, chiamata Frappiccino, è stata oggetto di diffida da parte della Starbucks per violazione delle esclusive riguardanti il nome Frappuccino, il 9 dicembre 2013. Jeff Britton, proprietario dell’Exit 6 è solo uno delle tante vittime di trademark bullying, uno strumento di offesa utilizzato dalle grandi compagnie proprietarie di marchi ai danni dei piccoli imprenditori, e non solo. Cos’è il marchio ? Ho adottato la terminologia anglosassone, trademark, perché l’istituto italiano del marchio differisce sostanzialmente da quello degli Stati Uniti; ma punti di tangenza si hanno nella ratio della materia. Il trademark nasce per tutelare i consumatori, affinché essi non si confondano sulla provenienza di un determinato prodotto, e sulla sua qualità. Il proprietario del trademark è tutelato in via incidentale, ossia concedendogli delle privative su un nome, una lettera o comunque un “segno distintivo” lo si incentiva a mantenere alto il livello qualitativo. Senza il marchio, quindi, non vi sarebbe una spinta a mantenere o migliorare un prodotto, con una ricaduta negativa su ricerca, qualità e mercato in generale. Altro elemento comune è la differenza tra carattere descrittivo del segno e carattere distintivo. Quello che, in origine, si voleva tutelare era il carattere distintivo, ossia il potere del segno di identificare con precisione un determinato bene o produttore e di distinguerlo da altri segni. Così il mulino ad acqua bianco, in un campo di grano maturo identifica con precisione la Mulino Bianco. Il carattere descrittivo è, invece, la capacità descrittiva di un segno: un immagine con un mulino ad acqua non necessariamente identifica un prodotto della Mulino Bianco o la società stessa, ma può essere il luogo di lavoro del proprio bis nonno. Dunque si rileva il valore meramente descrittivo o quello distintivo in base ai contesti in cui i segni sono usati e ai prodotti cui si riferiscono. In teoria un mulino bianco su una confezione di candeggina difficilmente porterà il consumatore ad interrogarsi se la Mulino Bianco produca anche prodotti chimici per la pulizia e la profilassi. Si è affermata però una nuova funzione del marchio, quella attrattiva, concepita per tutelare il proprietario, inserendo il marchio all’interno del patrimonio aziendale. Il marchio tutela l’investimento pubblicitario e lo sforzo economicamente valutabile di crearsi una reputazione e uno spazio proprio nel mercato, andando anche oltre la dimensione merceologica. La Apple ha creato un brand e uno stile di vita o di essere intorno ai suoi prodotti; chi acquista Apple viene catapultato in una comunità che esprime un determinato modo di stare al mondo. Il chiarimento ci serve per spiegarne gli effetti in caso di abuso. Il trademark bullying, il fenomeno Il bully è una persona che abitualmente è minaccioso, arrogante o crudele verso coloro che sono più deboli o piccoli di lui; il trademark bully è colui che usa un’interpretazione di un proprio trademark al fine di colpire i piccoli imprenditori o singoli individui ( Shaming Trademark Bullies, Leah Chan Grinvald, 2011). Il tutto inizia con una lettera di diffida che intima la cessazione dell’uso di un segno associabile ad un proprio trademark, minacciando di passare alle vie giudiziali e pronosticando risarcimenti ben oltre le vostre capacità economiche, e forse degli eredi dei vostri eredi. Ora voi avete avviato un’attività con un mutuo strappato ad una banca, avete una famiglia da sfamare e qualche dipendente da retribuire; il bully fa leva sulla vostra paura di dover pagare, oltre a sfruttare le asimmetrie informative e le vostre scarse risorse. Leah Chan Grinvald rileva come in una grande compagnia, all’arrivo di una diffida vi siano una serie di organi diversi che esaminano, pronosticano, agiscono e prendono iniziative, mentre un fioraio dovrà fare tutto da solo. L’aspetto peculiare è che il trademark bullying si svolge a livello stragiudiziale, ben poche volte si giunge davanti ad una corte: è un gioco psicologico di probabilità. Perchè non ci si ribella? Innanzitutto per mancanza di informazione, la quale è la leva fondamentale su cui il sistema di intimidazione fa affidamento. Sono in pochi a conoscere a fondo la legge, i tempi processuali e le astuzie extragiudiziali. David Bollier e Leah Chan Grinvald spiegano come il bully, di fronte alla mancanza di una reazione forte continua a spingere fino a dove può, come uno schiacciasassi. Il secondo muro con cui ci si deve confrontare è la mancanza di denaro per fare fronte alle spese processuali; senza un’assistenza gratuita fornita da fondazioni per i diritti civili, le vittime possono solo crollare. Qualora si decidesse di adire ad una corte, le probabilità di vittoria sono contrarie alle vittime, dato il bassissimo numero di precedenti. Le corti non hanno degli strumenti generali per determinare la violazione o meno di un trademark, ma decidono di volta in volta in volta in base alle prove e ai documenti presentati dalle parti, e ogni corte si riserva il diritto di giudicare liberamente rispetto alle precedenti interpretazioni. Non solo, ma le corti d’appello tendono ad esaminare ex novo tutto il procedimento, arrivando a decisioni completamente differenti da quelle delle corti inferiori, e conseguentemente corrompendo la possibilità di fondare una linea guida utile per il sistema dei precedenti. Nel momento in cui un avvocato si lanci nella mischia però ha ben poche frecce al suo arco; gli appigli legali sono davvero minimi e si riducono al fair use, al contenuto del trademark law e appellarsi al Primo emendamento. Esiste un notevole gap tra il diritto di natura legislativa e il common law nel trademark law, e questa lacuna non è colmata da nessuna autonomous defence (L.C.Grinvald) ossia da nessuno strumento giudiziale che non costringa le corti a lunghi e costosi esami, spesso confusionari e poco precisi. Ora immaginate di essere giunti alla fine, di aver speso tempo, denaro, pazienza ed energie, di aver saltato tutti i fossi giuridici e giurisdizionali; la corte vi ha dato ragione, si è trattato di un eccesso nei vostri confronti e vi crogiolate nella soddisfazione e magari nella speranza di un risarcimento. Il vostro desiderio di giustizia dovrà limitarsi a rimanere un sorriso amaro, dato che, difformemente dal copiright law, e dal nostro ordinamento, non esistono contromisure sull’abuso nel trademark law. La paradossale sensazione è che l’ordinamento sia in favore dei grandi proprietari di privative. Le armi di Davide, rimedi giudiziali Lo scontro tra individui e grandi proprietari di trademark appare sempre più come uno scontro tra Davide e Golia. I “proiettili giudiziali” sono alquanto smussati e poco efficaci. E’ vero che le corti distrettuali sono tenute a “imporre penali verso gli avvocati o i clienti che presentano ricorsi con contenuti impropri, non supportati o privi di sostanza” (Irina D. Manta) ma è raramente applicato. Se si vuole provare una condotta vessatoria è assolutamente necessario un lungo e dispendioso processo. La legge Anti-SLAPP è uno strumento esercitabile per proteggere le libertà democratiche e di parola, per impedire che il dilungarsi del processo possa essere usato per colpire la parte economica più debole, oltre a garantire un risarcimento a fine processo relativo alle spese processuali sostenute. Ma non è riconosciuta da tutti gli stati federati, e opera solo a livello statale, il che significa che in appello essa non verrà presa in considerazione. Le armi di Davide, rimedi extragiudiziali Irina D. Manta propone di potenziare le competenze del PTO ( Patent and Trademark Office) trasformandolo in un filtro. Chi volesse registrare un trademark dovrebbe pagare una tassa, ma dovrebbe pagare una sorta di caparra anche nel momento in cui volesse inviare una diffida ad un altro soggetto; a questo punto il PTO valuterebbe se la richiesta ha motivo di sussistere e in quel caso la deferirebbe alla normale catena giudiziale e invierebbe la diffida al presunto reo, in caso contrario tratterrebbe la penale. Strumento presente e utilizzato è invece lo shaming, consistente nel pubblicizzare un comportamento che la morale o l’opinione pubblica considera riprovevole per costringere un soggetto dal desistere da quella condotta. Una moderna forma di investimento è quella sulla reputazione, la quale serve a creare una clientela soddisfatta che agisca come agente pubblicitario a sua volta, e si concretizza anche con l’adozione di un’immagine impeccabile in maniera da permettere che il consumatore voglia immedesimarsi con il messaggio che la compagnia vuole dare. L’evoluzione del diritto di marchio che tutela questo capitale psicologico immateriale, ne è una derivazione. Lo shaming coinvolge il soggetto da colpire, la condotta considerata errata e la comunità che si identifica con il soggetto; lo scopo è produrre un senso di vergogna nella comunità dei clienti in modo da allontanarli e nullificare l’investimento fatto, colpendo così direttamente la base sui cui si sostanzia, ormai, il trademark. Gli strumenti sono vari, dall’uso dei social network, alle magliette, ad eventi e campagne di protesta e l’incitamento al boicottaggio. Un esempio è la campagna contro la Nike, rea di utilizzare manodopera minorile nel Sud Est Asiatico. Più curioso è però il caso della McFest, festa di beneficenza organizzata da Lauren McClusky, e ostacolata dalla catena McDonald’s. La catena di fast food è famosa per portare tutti i suoi avversari in tribunale, ma la campagna di shaming costrinse McDonald’s a pagare una transazione di 40.000$ al fine di far cambiare nome alla festa. Lo shaming ha il pregio di essere poco costoso in relazione all’assistenza necessaria, dato che spesso ha una matrice volontaria, riduce o elimina i costi di una lite giudiziaria e porta pubblicità all’iniziativa o all’attività della vittima. Ovviamente perché una campagna di questo genere abbia successo è necessario che la vittima e il carnefice siano credibili e che la situazione possa toccare nel profondo la comunità pubblica. E questi sono i primi limiti, che si accompagnano con la non sempre sicura riuscita dell’impresa e con il rischio di costi notevoli in caso di denuncia per diffamazione. E’ necessario non spingersi troppo in là, in modo da non trasformare una protesta legittima in qualcosa di eccessivo e che trasformi l’apparente carnefice in vittima a sua volta. Un notevole limite lo pone anche la previsione di un copyright sulla lettera di diffida o in generale sui documenti inviati alla vittima, che quindi non possono essere pubblicati e resi noti, togliendo un notevole strumento di shaming. In Italia abbiamo un caso che si ricollega a questo tema: Greenpeace, nel promuovere una campagna contro l’Enel per l’uso del carbone come fonte di energia, mandò delle false bollette, usando i segni distintivi della società energetica. Il giudice romano, pur rigettando il ricorso per diffamazione, emanò un’ordinanza al fine di far cessare le turbative relative all’uso improprio del marchio da parte di Greenpeace. Enel usò quindi il proprio diritto di marchio ridimensionare la campagna promossa da Greenpeace. come strumento per Lo stato dell’arte in Italia In Italia questo fenomeno è maggiormente controllato. Innanzitutto è codificata un’ipotesi di abuso ed è la registrazione di un marchio in malafede, ma sono presenti anche degli strumenti atti a prevenire gli abusi come limitazioni alla registrazione ed esercizio del marchio (art 12,13,21 Codice di Proprietà Intellettuale), la previsione della volgarizzazione del segno distintivo, ossia quando quel segno medesimo entra a far parte della cultura della comunità (es: la classica forma della bottiglia di vino era prima un segno distintivo ma si è andata via via volgarizzando e ora è entrata a far parte del nostra cultura), la decadenza per non uso e la previsione di una convalida. Entro un termine prestabilito per legge è richiesto al proprietario di diritti di marchio convalidare e accertare l’uso delle proprie privative. Il problema si può però avere nel caso in cui vi sia una apertura da parte dell’Unione Europea, con conseguente abbassamento delle tutele minime, e di una uniformazione con il sistema statunitense, cosa peraltro nell’aria. Dunque è un problema attuale, e non necessariamente così distante da noi. Conseguenze dell’abuso dei diritti di proprietà intellettuale David Bollier, nel suo Brand Name Bullies esamina le conseguenze sociali dell’uso alterato delle privative connesse ai diritti di proprietà intellettuale apprezzando una serie di situazioni assolutamente contrastanti con i fondamenti democratici dei nostri ordinamenti. Un uso prevaricante su delle parole (che a bene vedere sono dei segni) può portare alla negazione del diritto di critica e di opinione. La Mattel ingaggiò battaglia con gli Acqua per la famosa canzone Barbie Girl, argomentando che la canzone gettava il prodotto in una cattiva luce oltre al fatto che la parola Barbie e tutte ciò che si ricollegava ad esso erano sotto privativa. Per fortuna il giudice federale rigettò il ricorso, altrimenti non avremmo mai conosciuto quella canzone. Concludendo è interessantissima la dissertazione che D. Bollier fa sul public domain, non riferendosi al “dominio pubblico” ma alla categoria dei “beni comuni”, introducendovi anche tutti quei beni immateriali non direttamente suscettibili di valutazione economica come la cultura e il folklore. Il public domain è spesso considerato come una terra di nessuno, dove i beni non hanno proprietario, e dove è possibile di appropriarsi di qualsiasi cosa; questa è un’idea erronea, il public domain è dominio pubblico strictu sensu,ossia proprietà di tutti. Con l’allungamento del periodo di decadenza del copyright si è sottratto al public domain tutto quell’insieme di personaggi Disney che hanno e avrebbero ancor di più, arricchito la nostra cultura. Per dare un’idea basti pensare che all’alba del web Eric Eldred adattò i classici delle letteratura per ragazzi in un antelucano sito internet, ma con l’estensione del copyright fu costretto a sottrarre alla rete, e quindi al metodo di diffusione delle informazioni più rapido e di maggior utilizzo, tutto il suo lavoro. Si denuncia un’appropriazione ( Bollier parla di furto) della cultura popolare, ma anche una condotta ostile alla libera informazione, alla trasparenza, alla libertà di informazione, all’insegnamento, alla ricerca, al libero mercato e alla democrazia, e tutto per un abuso legittimato dagli ordinamenti o non sufficientemente sanzionato. E il Frappiccino? Jeff Britton quale strumento ha usato per difendersi? Lo shaming? Oppure ha affrontato Starbucks fino ad una epica sentenza, rivoluzionaria o reazionaria, dopo uno scontro che verrà immortalato sugli schermi come quello dell’uomo della pioggia? Britton ha risposto alla diffida inviando un assegno da 6$, quanto aveva guadagnato con la vendita della sua stout, e proponendo di cambiarne il nome in Phrappaccino. L’arma dell’ironia è sempre affilata, in ogni tempo. Bibliografia: David Bollier, Brand name bullies, Ed. Wiley, 2005, Hoboken, New Jersey. Leah Chan Grinvald, Shaming Trademark Bullies, In Saint Luois University School of Law- Legal Studies Research Paper Series, N° 2011-01. Sitografia: http://ssrn.com/abstract=2106916 Trademark Bullies, 2011 Irina D. Manta, Bearing Down On Appunti e Slide: Daniela De Pasquale in riferimento al convegno tenutosi a Torino Incontra il 6 Novembre 2013.