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S crittori e società MODULI STORICO CULTURALI La rivoluzione industriale e i suoi testimoni La Gran Bretagna: l’«officina del mondo» Le conseguenze sociali dell’industrializzazione Osservazione e denuncia del «sistema di fabbrica» Una denuncia del lavoro minorile La città industriale Contro le macchine: il luddismo La campagna fra realtà e idealizzazione Il sistema tradizionale: la mezzadria La pianura padana, laboratorio di una nuova agricoltura La realtà: «il popolo delle campagne» è nemico del «popolo delle città» L’idealizzazione: la narrativa rusticale 319 MODULO STORICO-CULTURALE MODULO STORICO-CULTURALE La rivoluzione industriale e i suoi testimoni L a rivoluzione industriale e i suoi testimoni Le industrie trasformano l’Europa Geografia europea ell’industrializzazione L’economia europea conobbe una rapida accelerazione intorno al 1830. Fu intorno a quest’epoca che prese avvio l’industrializzazione di alcuni paesi europei: anzitutto il Belgio (separatosi proprio allora dai Paesi Bassi), quindi la Francia e poco dopo talune regioni della Germania e dell’impero asburgico. Peraltro – con la sola eccezione del Belgio, che conobbe uno sviluppo assai sostenuto un po’ ovunque – non si trattò di un processo diffuso e su vasta scala. A svilupparsi furono alcune «isole» economiche, in un contesto generale ancora caratterizzato dal prevalere dell’agricoltura e delle attività manifatturiere più tradizionali. A differenza che in Inghilterra, nell’Europa continentale il «progresso» si mostrò in proporzioni per il momento contenute. Strade, canali e ferrovie ebbero un’espansione notevole, ma non ancora eccezionale; neppure il processo di urbanizzazione risultò impetuoso. Le città industriali – a parte Lione – rimasero per diversi decenni centri di piccola e media grandezza. Il primato della Gran Bretagna Diversa la situazione in Inghilterra, dove una prima «rivoluzione industriale» si era registrata fin dagli ultimi decenni del Settecento. Nei primi decenni del XIX secolo ad apparire in rapida trasformazione è lo stesso paesaggio naturale, oltre al panorama economico e sociale: nelle verdi campagne inglesi si stagliano ciminiere, fonderie e industrie tessili, mentre le città si preannunciano, al visitatore che le raggiunge dalla campagna, attraverso il fumo delle loro industrie. Fu appunto la priorità dell’Inghilterra a giocare in questa fase un ruolo decisivo nel promuovere l’industrializzazzione del resto d’Europa: oltre al fatto che la tecnologia britannica si trasferì sul continente, con il suo patrimonio di macchine e di esperienze concrete, la «sfida» inglese stimolò il rinnovamento tecnologico delle manifatture europee, inducendo i governi a politiche che favorissero lo sviluppo industriale. Come ha scritto lo storico David S. Landes, «emulare l’Inghilterra divenne un imperativo politico, prima ancora che economico». I paesi «secondo comers» L’industrializzazione dei paesi second comers (“giunti per secondi”) mosse i primi passi con modalità diverse da quelle che avevano contrassegnato, in Inghilterra, le fasi iniziali della rivoluzione industriale. Del resto le condizioni economiche, sociali e politiche del continente risultavano meno favorevoli, anche per la presenza d’innumerevoli piccoli Stati e delle loro barriere doganali. Assieme alla scarsa disponibilità di capitali, dovuta al minore sviluppo dei commerci, ciò si tradusse in un consistente intervento degli Stati nell’economia: mentre, per esempio, le ferrovie inglesi furono realizzate da privati, quelle degli altri paesi europei vennero progettate e in parte costruite dai rispettivi governi. Inoltre un ruolo più rilevante che non in Inghilterra lo svolse la produzione del carbone, del ferro e dell’acciaio, anche attraverso fabbriche di maggiori dimensioni. Squilibri e distanze Intorno alla metà dell’Ottocento la geografia dell’industrializzazione europea appare ormai definita nelle sue linee di fondo, persino in quelle regioni dove il fenomeno era soltanto agli inizi. Risultava sviluppata o in via di sviluppo soprattutto l’Europa nordoccidentale, dove più profonde erano state anche le trasformazioni agrarie. I suoi confini scendevano dalla Scandinavia alla Boemia, tagliavano la penisola italiana all’altezza del Po e correvano lungo i Pirenei fino all’Atlantico. Ne erano invece esclusi, almeno in questa fase, la penisola iberica, l’Italia meridionale e l’Est europeo. Intanto il forte ritmo di sviluppo europeo accresceva le distanze rispetto al resto del mondo, con la sola, ma rilevante, eccezione degli Stati Uniti. I riflessi sociali: lo sviluppo della borghesia Le trasformazioni in atto ridisegnarono in profondità anche le strutture sociali. Nella società europea della prima metà dell’Ottocento, si diffusero in misura crescente valori e modelli di comportamento «borghesi», che riflettevano la crescita di gruppi di imprenditori, commercianti e uomini d’affari. Più accentuato in Francia e nel Belgio, dove il peso dei ceti finanziari e imprenditoriali aumentò di pari passo con la loro ascesa economica, tale fenomeno non interessò nella stessa misura gli altri paesi, nei quali essi non erano che piccole minoranze. Il mutamento investì, in ogni caso, anche alcuni tra gli Stati, come la Prussia, in cui le PERCORSI La Gran Bretagna: l’«officina del mondo» Le conseguenze sociali dell’industrializzazione Osservazione e denuncia del «sistema di fabbrica» Una denuncia del lavoro minorile La città industriale Contro le macchine: il luddismo «La città aveva molte grandi strade tutte uguali l’una all’altra, e molte piccole strade ancor più uguali l’una all’altra, abitate da persone uguali l’una all’altra che uscivano ed entravano tutte alla stessa ora, [...] che avevano tutte lo stesso lavoro e per le quali ogni giorno era uguale al giorno precedente e a quello futuro» Da, Tempi difficili, Charles Dickens OBIETTIVI ● ● ● ● ● ● 320 Saper individuare e analizzare nei testi le tematiche più significative legate alla rivoluzione industriale Saper contestualizzare i testi inserendoli nel periodo storico in cui sono stati prodotti o di cui trattano Saper comprendere e interpretare il contenuto dei testi proposti Saper analizzare gli aspetti formali e stilistici dei testi letterari presi in esame riconducendoli al genere di appartenenza Saper individuare il punto di vista del singolo autore intorno alle tematiche comuni ai vari testi Saper rilevare il contributo di ciascun autore in ordine ai contenuti delle tematiche affrontate 321 Scrittori e società ● MODULO STORICO-CULTURALE La rivoluzione industriale e i suoi testimoni La civiltà romantica antiche gerarchie sociali erano rimaste più solide; solo nel sud e nell’est europeo permase quasi intatto il tradizionale predominio dell’aristocrazia fondiaria. Ma anche in queste aree più arretrate lo sviluppo dello Stato moderno e dei suoi apparati burocratici portò a una notevole crescita dei ceti intermedi, in questo caso impiegatizi, e delle professioni liberali (avvocati, medici, insegnanti). L’urbanizzazione forzata La formazione del ceto operaio In questa fase di transizione furono soprattutto le condizioni materiali di vita dei ceti popolari, con il loro peggioramento, a segnalare la compresenza di assetti economici e sociali molto diversificati. Gli ex servi della gleba divenuti braccianti agricoli, e gli operai delle nuove fabbriche, non meno che gli artigiani e i lavoratori specializzati rovinati dalla loro concorrenza, furono doppiamente colpiti dalla crisi del vecchio mondo e dalla crescita del nuovo: persero i benefici dell’uno, prima di poter godere di quelli dell’altro. La diffusione della meccanizzazione dell’agricoltura, concentrata prevalentemente nella grande azienda di tipo capitalistico, determinò un forte esodo di contadini, che lasciarono i villaggi e le cascine per trasferirsi nelle città, in cerca di lavoro: combinato con l’estendersi dell’industrializzazione, il processo stimolò la formazione delle nuove città industriali. Si delineò così un modello urbano che offriva livelli di vita degradati per buona parte dei suoi abitanti, ma che avrebbe comunque avuto nel secolo successivo una straordinaria diffusione in tutto il mondo. Appunto la formazione di un consistente ceto operaio fu l’esito più importante dei processi storici in atto. In modo generico, sono chiamati «operai» tutti coloro che, sprovvisti dei mezzi di produzione forniti dall’imprenditore, lavorano per lui come salariati; ma la categoria conobbe, nel corso dell’Ottocento, forti differenziazioni interne, che corrispondevano ai diversi livelli di specializzazione imposti dal consolidarsi dell’industrializzazione. In ogni caso per lungo tempo le condizioni della classe operaia registrarono un netto peggioramento nella qualità di vita, soprattutto nei decenni iniziali e centrali del secolo, quelli che qui consideriamo: risultava infatti ancora assente o gravemente lacunosa una legislazione sociale che tutelasse il lavoro svolto dall’operaio, ne fissasse un preciso limite orario, salari minimi, condizioni igieniche ecc. L 322 a Gran Bretagna: l’«officina del mondo» Industria come sinonimo di sviluppo L’industrializzazione dell’Europa (e degli Stati Uniti) fu il fenomeno economico-sociale più rilevante dell’Ottocento. Se all’inizio del secolo il continente europeo, con l’eccezione dell’Inghilterra, mostrava ancora il volto di una società agricola, cento anni dopo esso appariva profondamente trasformato: il cuore del sistema produttivo era divenuta l’industria, che da questo momento in avanti diviene sinonimo di sviluppo, sia pure tra molte contraddizioni; mentre il lavoro in fabbrica si avvia ormai a soppiantare quello nelle campagne, nel ruolo di principale produttore di ricchezza. Il ruolo della ferrovia Epicentro dei processi in corso è la Gran Bretagna, l’«officina del mondo», secondo una definizione d’uso allora comune. Forse il simbolo delle profonde trasformazioni in atto è la locomotiva: la nuova macchina in cui si riassumono sia la tecnologia applicata alle esigenze produttive, sia la nuova organizzazione del lavoro e persino i cambiamenti che mutano l’aspetto del paesaggio naturale e sociale, inventata da George Stephenson nel 1814, essa favorì un decisivo incremento della produzione industriale. Anzitutto il ricorso alla ferrovia consentì i collegamenti fra le miniere di ferro e di carbone (oppure i porti dove si raccoglievano i prodotti coloniali, destinati alla lavorazione industriale) e le industrie nelle quali tali prodotti dovevano essere appunto trasformati; inoltre, la ferrovia permise l’abbattimento dei costi legati al trasporto dei materiali e diede un nuovo stimolo allo sviluppo della domanda interna, unitamente al settore tessile, dal quale il processo di meccanizzazione aveva preso le mosse. Il dibattito sociale R Ma lo sviluppo dell’Inghilterra all’inizio dell’Ottocento non fu, semplicemente, una marcia trionfale verso il progresso e la ricchezza. Al dinamismo della classe dirigente e alla crescente disponibilità di capitali degli imprenditori, anche grazie al massiccio sfruttamento delle risorse provenienti dalle colonie, si accompagnavano costi umani altissimi. Turni di lavoro massacranti, assenza, almeno nella prima fase, di una regolamentazione adeguata del mercato del lavoro, impiego di forza - lavoro minorile, totale mancanza di norme che tutelassero gli operai in caso di infortuni sul lavoro, tutto ciò provocò un fitto dibattito sociale e anche molte proteste nell’opinione pubblica, che spingeranno infine i governi britannici ad adottare un’embrionale legislazione sociale. PER APPROFONDIRE Un’invenzione decisiva: la locomotiva a vapore e il trasporto su ferrovia Fu nella seconda metà del Seicento che si cominciarono, molto sporadicamente, a realizzare rotaie o guide di legno, su cui erano i cavalli a trainare le carrozze. La rotaia metallica fu usata per la prima volta nel 1738 nel Cumberland (Gran Bretagna); nel 1776 risulta in funzione a Sheffield una strada ferrata costituita da rotaie in ferri angolari, sulle quali correvano veicoli con ruote senza cerchioni. Nel 1801 fu concessa la prima autorizzazione per la costruzione di una ferrovia pubblica, che entrò in servizio tre anni dopo: le vetture erano ancora trainate da cavalli; tale ferrovia, di 16 km, univa Wandsworth a Croydon (Gran Bretagna). Nel frattempo erano nate le prime locomotive a vapore. La costruzione del primo veicolo a vapore si deve al francese J. Cugnot (1770). Ma furono gli inglesi R. Trevithick e Vivian a costruire, ispirandosi a un modello mai realizzato dell’americano O. Evans, la prima locomotiva a vapore (1802); per i loro veicoli essi adottarono rotaie in legno o in metallo, in uso nelle miniere inglesi. John Blenkinsop, per ovviare alla scarsa aderenza delle ruote sulle rotaie, ideò un sistema di ruote dentate che ingranava con una cremagliera (1811). Altrove le cremagliere furono sostituite con stampelle funzionanti come gli arti di un cavallo (sistema W. Brunton). Fu il già citato Vivian a sostituire, per la guida delle ruote, i ferri angolari con barre sporgenti. Su di esse circolavano vetture con ruote munite di cerchioni a gola, e più tardi con un solo bordo dalla parte interna: le moderne strade ferrate sono derivate da questa innovazione. La prima macchina con ruote ad aderenza totale fu realizzata da George Stephenson nel 1814; gli assi erano mossi con catene e ruote dentate, più tardi sostituite da una biella di collegamento esterna. Trevithick utilizzò per primo, per le caldaie, il tiraggio forzato con il vapore di scarico; T. Hackworth nel 1825 dispose i cilindri ai lati della caldaia. In quegli stessi anni Stephenson introdusse il tiraggio forzato nella caldaia tubolare del francese Marc Seguin; la sua locomotiva «Rocket» (razzo), che trainava 12.942 kg alla velocità di circa 24 km/h, comportava già tutti gli elementi essenziali delle macchine moderne, tranne la distribuzione a glifo, introdotta da Stephenson pochi anni dopo. La prima linea a trazione meccanica (in cui il mezzo di trazione era una locomotiva fabbricata da Stephenson) per trasporto pubblico fu aperta all’esercizio il 27 settembre 1825, in Scozia: copriva il percorso fra Stockton e Darlington. Subito dopo si realizzò la linea Liverpool-Manchester (1825-1830). Stephenson migliorò poi la propria locomotiva adottando una migliore distribuzione del vapore e raggiunse così la ragguardevole velocità di 65 km/h. 323 Scrittori e società ● Una nuova urbanistica La crescita dei trasporti urbani nella seconda metà del secolo permise poi alle metropoli di estendersi a macchia d’olio, inglobando i comuni circostanti: si formavano le periferie operaie, nasceva insomma quel modello di grande città – formato da un centro residenziale, commerciale e finanziario e da una periferia industriale e operaia – che costituisce ancora oggi l’ossatura urbanistica di tanti centri europei. Ma perché la città ottocentesca si gonfiò a dismisura? La popolazione vi si riversava perché attirata dalle opportunità d’impiego offerte dalle fabbriche, o, se si vuole, perché espulsa dalle tradizionali lavorazioni della campagna. In breve tempo la città divenne un grande polo di attrazione economica, il vero centro del mercato. Vi si trovavano, oltre a parecchie industrie, gli uffici pubblici e privati, i trasporti, i negozi (e anche i primi grandi magazzini), i servizi, i teatri, i giornali, le case editrici, le università; in città era possibile per i più fortunati trovare un lavoro fisso, per molti altri sbarcare il lunario in qualche modo, sperando d’inserirsi stabilmente, prima o poi, nel mondo del lavoro. Le contraddizioni della modernità La città rappresentava nel modo più chiaro la contraddittoria realtà della società industriale ottocentesca: agli occhi dei contemporanei, essa divenne il simbolo stesso della modernità e dei suoi profondi contrasti. ll progresso, i traffici, la ricchezza si affiancavano alle stridenti disuguaglianze sociali, alla vita degradata dei quartieri operai. Per lungo tempo, cioè sino alla fine del secolo, la mortalità in città, specie la mortalità infantile, rimase più alta che in campagna; mentre nei quartieri borghesi la durata della vita era due volte e mezzo più elevata di quella nei quartieri operai. Qui la vita era resa difficile dall’inquinamento prodotto dalle fabbriche a carbone, dalle miserabili condizioni igieniche e abitative nelle vie putride e malsane, da fenomeni come la prostituzione, la delinquenza, l’alcolismo. Solo negli ultimi decenni del secolo, con la costruzione di efficienti sistemi di fognature, l’illuminazione pubblica a gas e poi elettrica e con gli interventi di risanamento urbanistico, la vita nei centri urbani sarebbe divenuta più accettabile. Lo specchio della realtà Le trasformazioni in corso trovarono un’eco diretta nelle pagine del grande romanzo realistico di metà Ottocento; del resto era proprio il romanzo il genere indubbiamente più portato a rispecchiare (anche in modo critico e problematico) la realtà sociale nel suo complesso. Furono gli scrittori realisti francesi (l’Eugène Sue de I misteri di Parigi, l’Hugo dei Miserabili, il Balzac del grande ciclo della «Commedia umana»: cfr. p. XXX) i primi ad ambientare le proprie vicende tra i diseredati dei quartieri proletari delle grandi città, Parigi in testa. La denuncia sociale 334 MODULO STORICO-CULTURALE La rivoluzione industriale e i suoi testimoni La civiltà romantica Con gli autori dell’Inghilterra «vittoriana» emergono anche i primi espliciti tentativi di denuncia delle situazioni spesso inumane prodotte un po’ ovunque dalla rivoluzione industriale. L’opera più emblematica di questa narrativa inglese alle prese con il nuovo mondo dell’industria rimane il romanzo Tempi Difficili (1854) di Charles Dickens. Ne antologizziamo alcune pagine, ambientate in una città industriale del tutto immaginaria, Coketown; benché frutto della fantasia, la «città del carbone» risulta peraltro così verosimile, nella struttura e nell’aspetto, da poter essere considerata un simbolo della nuova e triste realtà. Meno noto di Tempi difficili, ma non meno intenso, è il romanzo Mary Barton (1848) di Elizabeth Cleghorn Gaskell (1810-1865): una storia drammatica, interamente ambientata nella Manchester delle industrie tessili. Altri autori coevi, come Charles Kingsley (1819-1875) o Alton Locke (1850), che racconta vita e lavoro di una fabbrica di vestiario, offrono squarci significativi di un modo sempre più diffuso (e spesso spietato) di concepire la vita sociale e i rapporti economici. L’Inghilterra di metà dell’Ottocento era un paese già in gran parte industrializzato, mentre in Francia il «decollo» industriale avvenne solo a partire dal 1830 circa: perciò Dickens, come la Gaskell o William Tackeray, ritraggono una situazione sociale in qualche modo consolidata, mentre nei romanzi di Balzac si avverte lo choc di una complessa trasformazione ancora in atto. In Italia, invece, si può parlare di industrializzazione solo dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, e limitatamente alle sole regioni settentrionali; perciò la nostra letteratura realistica si occupa quasi soltanto della realtà dei ceti rurali, nelle forme della «narrativa rusticale». Charles Dickens Coketown da Tempi difficili capitolo 5 ! anno di pubblicazione: Z tematiche: 1854 il triste panorama, naturale e sociale, della nuova città industriale L’AUTORE R Cfr. p. 292 L’OPERA Il romanzo, pubblicato nel 1854, appartiene all’ultimo periodo di Dickens. La critica ai mali della società contemporanea, che nei romanzi precedenti, pur occupando un posto rilevante, rimaneva episodica, rispetto all’azione principale, diviene ora il perno della narrazione. Lo scrittore esamina la società industriale e capitalistica nei vari aspetti, per sottolinearne le caratteristiche più negative. In particolare condanna le conseguenze che il nuovo tipo di mentalità imprenditoriale e utilitaristica ha sul destino degli uomini. Bersaglio specifico della critica di Dickens è il tipo di educazione venuta di moda, basata solo sull’assimilazione passiva di informazioni e definizioni di carattere «scientifico», a danno di spontaneità e creatività. La trama s’impernia sulle vicende della famiglia Gradgrind e del banchiere e imprenditore Bounderby. In particolare viene messa sotto osservazione l’educazione rigidamente «fattuale» impartita da Gradgrind ai suoi due figli, Luisa e Tom: un’educazione che non lascia spazio alla libera espansione della personalità e si traduce in una sterile acquisizione di nozioni matematiche e di «fatti». Questa formazione si rivela fallimentare; il vuoto emotivo e spirituale rende incapaci i due giovani di reagire in maniera corretta alle situazioni e li condanna a un triste destino. Monotonia e ripetitività si estendono anche alla società che sostiene questo tipo di educazione. Ciò risulta evidente dalla descrizione di Coketown, che occupa il capitolo V del romanzo. IL TESTO Il brano costituisce una pausa all’interno del flusso romanzesco. È dedicata a Coketown, la «città del carbone»: un nome generico, usato per indicare una città che riassume in sé tutti gli aspetti negativi dei recenti distretti industriali. 1. Coketown: letteralmente, “città del carbone”. Coketown,1 verso la quale si dirigevano i signori Bounderby e Gradgrind, era il trionfo del fatto; non era contaminata da tracce di fantasia più di quanto non lo fosse la stessa signora Gradgrind. Prima di continuare la nostra musica, suoniamo la nota dominante, Coketown. Era una città fatta di mattoni rossi, o meglio di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere lo avessero permesso; ma, per come stavano le cose, era una città innaturalmente rossa e nera, come il volto dipinto d’un selvaggio. Era una città di macchinari e di lunghe ciminiere, dalle quali strisciavano perennemente interminabili serpenti di fumo, che non si srotolavano mai. C’era un canale nero e un fiume che scorreva, arrossato da tinture maleodoranti, e c’erano enormi blocchi di costruzioni piene di finestre in cui si sentiva tutto il giorno un tintinnio tremolante e in cui il pistone della macchina a vapore andava su e giù con monotonia, come la testa d’un elefante colto da una pazzia malinconica. La città aveva molte grandi strade tutte uguali l’una all’altra, e molte piccole strade ancor più uguali l’una all’altra, abitate da persone uguali l’una all’altra, che uscivano ed entravano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso rumore sugli stessi marciapiedi, che avevano tutte lo stesso lavoro e per le quali ogni giorno era uguale al giorno precedente e a quello futuro, e ogni anno era la copia dell’anno passato e di quello ancora di là da venire. Questi attributi di Coketown erano per lo più inseparabili dal lavoro dal quale essa era mantenuta in vita; a contrasto con questi, si sarebbero potute mettere 335 Scrittori e società ● 2. grazie: bellezze, ornamenti. 3. Fatti, fatti, fatti ovunque: i fat- ti, come emerge dai capitoli precedenti e come si precisa proprio in questo brano, sono i cardini della filosofia utilitaristica di Gradgrind e Bounderby, i due industriali che dominano la città. Per loro, esistono solo le cose tangibili e immediatamente utili: i “fatti”, appunto. 4. barbaro clangore: lo scampanìo viene ironicamente definito 5. Camera dei Comuni: la camera elettiva del parlamento inglese. 336 MODULO STORICO CULTURALE La rivoluzione industriale e i suoi testimoni La civiltà romantica quelle comodità che si vanno diffondendo in tutto il mondo e quelle eleganze che concorrono, non chiederemo in quanta parte, a formare la raffinatezza d’una vera signora che potrebbe a mala pena sopportare di sentir nominare questa città. Le altre sue caratteristiche erano volute ed erano le seguenti. Non si vedeva nulla a Coketown che non parlasse severamente di lavoro. Se i membri di una setta religiosa vi costruivano una cappella -come avevano fatto i membri di diciotto sette religiose -ne facevano un pio magazzino di mattoni rossi, dotato qualche volta (ma soltanto negli edifici più ornati) di una campana chiusa in una gabbia sulla cima. L’unica eccezione era la Chiesa Nuova, un edificio ricoperto di stucchi con un campanile quadrato sopra la porta, terminante in quattro corti pinnacoli simili a floride gambe di legno. Tutte le iscrizioni pubbliche in città erano dipinte allo stesso modo, in severi caratteri bianchi e neri. La prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione, il municipio avrebbe potuto essere l’uno o l’altra o tutti e due, o qualunque altra cosa, per quel che appariva dalle grazie2 di quelle costruzioni. Fatti, fatti, fatti ovunque3 nell’aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti ovunque in quello spirituale. La scuola di M’Choakumchild era solo fatti, la scuola di disegno era solo fatti, le relazioni fra padrone e operai erano solo fatti e tutte le cose erano fatti, tra l’ospedale dove si nasceva e il cimitero, e ciò che non si poteva tradurre in cifre o che non si poteva acquistare più a buon mercato o vendere al prezzo più alto, non esisteva e non avrebbe mai dovuto esistere, nei secoli dei secoli, amen. Naturalmente, una città così consacrata ai fatti e così trionfante nella loro affermazione andava avanti bene, non è vero? Ebbene, no, non così bene. No? Oh, povero me! No. Coketown non usciva dalle sue stesse fornaci sotto tutti gli aspetti come oro temprato dal fuoco. Per prima cosa, il mistero più sconcertante del luogo era: chi apparteneva alle diciotto sètte religiose? Chiunque fosse, non era certo qualcuno degli operai. Era stranissimo camminare per le strade la domenica mattina ed osservare come pochi di essi dessero ascolto al barbaro clangore4 delle campane che facevano impazzire i malati e i nervosi, e fossero richiamati dal loro quartiere, dalle loro stanze opprimenti, dagli angoli delle loro strade, dove indugiavano indifferenti, guardando il viavai delle chiese e delle cappelle, come una cosa che non li riguardasse affatto. Non era solo l’estraneo a notare ciò, poiché c’era un’organizzazione nata proprio a Coketown, i cui membri, ad ogni sessione della Camera dei Comuni,5 chiedevano indignati un atto del parlamento che costringesse questa gente ad essere religiosa. Poi c’era la società della Temperanza, che si lamentava che questa stessa gente voleva ubriacarsi e dimostrava con tabelle e statistiche che si ubriacava realmente dichiarando, durante le riunioni per il tè, che nessuna convinzione umana o divina (tranne forse un premio, o una medaglia) li avrebbe indotti ad abbandonare la loro abitudine di ubriacarsi. Poi c’erano il farmacista e il chimico, con altre tabelle, che dimostravano che quando la gente non era ubriaca, prendeva l’oppio. Poi c’era l’esperto cappellano della prigione, con ulteriori tabelle che superavano tutte le tabelle precedenti, che dimostrava che quella stessa gente si riuniva in locali malfamati, ben nascosti agli occhi degli altri, dove ascoltava canti indecenti e vedeva danze indecenti e forse vi partecipava; e dove A.B., che avrebbe presto compiuto ventiquattro anni, condannato a diciotto mesi di prigione, aveva detto (non che fosse mai stato molto degno di fede) che in quel modo era cominciata la sua rovina, poiché egli era perfettamente sicuro che altrimenti sarebbe stato un giovane della più elevata moralità. Poi c’erano il signor Gradgrind e il signor Bounderby, i due signori che stavano camminando verso Coketown, entrambi eminentemente pratici, che avrebbero potuto, all’occasione, fornire ulteriori tabelle derivate dalla loro esperienza personale e illustrate dai casi che essi avevano visto e conosciuto, dai quali appariva chiaramente - insomma, era l’unica cosa chiara in tutto il caso - che questa gente non era niente di buono, signori; che qualunque cosa si facesse per loro, non erano mai contenti né grati, signori; che erano irrequieti, signori; che non sapevano quel che volevano; che vivevano nel miglior modo possibile6 e compravano burro fresco, non volevano caffè che non fosse Moca,7 esigevano i pezzi migliori di carne eppure erano eternamente scontenti e intrattabili. In breve era la morale della vecchia favola per bambini: C’era una volta una vecchia, e viveva soltanto di quel che mangiava e beveva, mangiare e poi bere facean la sua dieta eppur quella vecchia non stava mai quieta. 6. nel miglior modo possibile: detto, ovviamente, con ironia. Solo i signori Gradgrind e Bounderby possono pensare che la gente di Coketown se la passi così bene. 7. Moca: qualità di caffè molto pregiata. 8. piccoli Gradgrind: Luisa e Tom, figli dell’industriale, della cui educazione il romanziere si è precedentemente occupato. 9. in non cale: in nessuna considerazione. 10. fantasia... luce: un qualche desiderio nascosto, che lottava per farsi largo ed essere realizzato. 11. M’Choakumchild: il maestro. È possibile, mi domando, che ci fosse qualche analogia fra il caso della popolazione di Coketown e il caso dei piccoli Gradgrind?8 Si può forse dire a qualcuno di noi, in pieno possesso delle sue facoltà e che conosca bene i numeri, che uno dei principali elementi dell’esistenza della classe lavoratrice di Coketown era stato deliberatamente disprezzato e tenuto in non cale9 per decine e decine di anni? Che c’era in loro una qualche fantasia anelante ad esser portata alla luce10 invece di lottare oscuramente? Che esattamente in proporzione al fatto che essi lavoravano per lunghe ore monotone, cresceva in loro il desiderio di qualche sollievo fisico - qualche distrazione che incoraggiasse il buon umore e desse sfogo all’allegria - qualche festa riconosciuta, non fosse altro che per ballare onestamente al suono emozionante di una banda musicale - qualche festosa riunione in cui non ficcasse il naso nemmeno M’Choakumchild11 e che questo desiderio doveva esser soddisfatto com’era giusto, o altrimenti si sarebbe inevitabilmente volto al male, finché non fossero revocate le leggi della creazione? da Tempi difficili, trad. A. Valori Piperno, Mursia Chiavi di lettura ● Il significato del testo Nella descrizione di Coketown c’è tutta la disumanità di un luogo che sembra sorto per sbaglio, ma che, visto da vicino, manifesta un’organizzazione quasi scientifica. La città vive su una fabbrica che è in gran parte inseparabile dalle case, ed è stata concepita in funzione di essa, non dei suoi abitanti. Per questo, a Coketown, tutto è uguale, livellato, omologato; per questo la città risulta tanto brutta, così brutta che qualsiasi vera signora [...] potrebbe a mala pena sopportare di sentir nominare questa città. Solo una fantasia perversa ha potuto progettare strade e case e uffici tutti uguali (tanto che la prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, e l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione, e il municipio avrebbe potuto essere o l’uno o l’altro). Una città simile non può che essere disumana, lontanissima dai desideri e dalle attese che gli individui dovrebbero nutrire nei confronti del luogo in cui risiedono. E infatti gli stessi abitanti di Coketown non sembrano neanche persone, ma macchine, abituate a ripetere all’infinito gli stessi movimenti. La denuncia di Dickens emerge fin dalla descrizione di case e palazzi. E si fa esplicita laddove annota che, se Coketown (e la gente che la abita) è tanto triste, sporca e annerita da fumo e carbone, ciò accade per consentire a quella stessa vera signora, come ironicamente e amaramente il romanziere sottolinea, quelle comodità che si vanno diffondendo in tutto il mondo e quelle eleganze che concorrono [...] a formare la raffinatezza. ● Lo stile È abbastanza piano e scorrevole, facilitato anche da un’ironia che si mantiene sempre leggera, anche nei punti in cui l’autore rende palese la propria amarezza. Riscontriamo diversi interventi diretti da parte del narratore: all’inizio del brano (suoniamo la nota dominante); alla fine della prima sequenza: amen); nel breve passaggio di raccordo fra la prima e la seconda sequenza: Naturalmente… Oh, povero me!. Si veda anche il mi domando che introduce la lunga serie di commenti finali in forma di interrogazioni retoriche. Lo sguardo critico e severo del narratore è però sempre presente a orientare il giudizio e l’esatta comprensione del lettore. Dei vari mezzi usati, il più frequente è quello della ripetizione simmetrica di sostantivi, aggettivi e costruzioni sintattiche: per esempio: grandi strade tutte uguali l’una all’altra, e molte piccole strade ancor più uguali l’una all’altra, abitate da persone uguali l’una all’altra). Vi sono inoltre similitudini (come la testa d’un elefante colto da una pazzia malinconica) e metafore (interminabili serpenti di fumo). Anche i colori (nero e violaceo su tutto) sono utilizzati per connotare l’estraneità e l’artificialità di un luogo simile. Tutti questi artifici hanno lo scopo di sottolineare, al di là del tono che resta lieve, il messaggio fondamentale del testo: la monotonia e la ripetitività uccidono i sentimenti, la fantasia e l’umanità dell’uomo, e gli spalancano un avvenire di alienazione. 337 Scrittori e società ● MODULO STORICO-CULTURALE La rivoluzione industriale e i suoi testimoni La civiltà romantica vo, fino ad allora lungo, laborioso e complesso, si riduceva a una serie di movimenti meccanici, che l’operaio doveva semplicemente alimentare o controllare nel loro anonimo svolgimento. Laboratorio Comprensione complessiva 1. Nella descrizione di Coketown c’è tutta la disumanità di un luogo che sembra sorto per sbaglio, tanto è brutto; visto da vicino, però, esso manifesta un’organizzazione quasi scientifica. Spiega perché. 2. Perché Dickens sottolinea così tanto il fatto che luoghi e persone, a Coketown, appaiono tutti “uguali”? Analisi del testo 3. La descrizione di Coketown è articolata in due lunghe sequenze in cui il narratore si dedica all’analisi delle caratteristiche urbanistiche e ambientali della città e del tipo di vita che in essa si svolge. Rintraccia tali sequenze nel testo. 4. Fai un elenco degli aggettivi che Dickens utilizza in questo brano: quali ti sembrano utili, quali indispensabili e quali, invece, superflui nella narrazione? Riflessioni 5. L’uso delle domande retoriche e l’ironia che traspare nella presentazione dei vari modi in cui gli abitanti di Coketown trascorrono il tempo libero conferiscono al brano l’aspetto di un sermone tenuto da un predicatore. Sei d’accordo? In che senso possiamo – se possiamo - parlare di tono da «predicatore»? Per la relazione 6. Hai mai visto dal vivo un luogo che ricordi in qualche modo Coketown? Se sì, prova a descriverlo. Esamina anche il contesto sociale ed economico entro cui si pone. Per discutere e confrontare 7. Sottolinea nel testo un passaggio, a tuo parere, particolarmente negativo; proponi un’alternativa più «umana» a esso. Confronta poi le tue scelte con i compagni. C Un nuovo protagonista, la macchina Da strumenti passivi a esseri estranei e dispotici 338 I «fracassatori di telai» La meccanizzazione del lavoro, come sappiamo, procedette speditamente anzitutto in Inghilterra; non fu dunque un caso che proprio in Inghilterra si manifestarono i primi tentativi di resistenza ai nuovi processi produttivi, di fronte ai quali l’operaio si sentiva indifeso ed esposto a qualsiasi violenza. Fu l’operaio tessile inglese Ned Ludd – una figura in parte storica e in parte leggendaria – l’animatore e il leader di un violento movimento di rivolta che tra 1811 e 1817 cercò di opporsi con la forza alla massiccia introduzione di telai meccanici. I ribelli entravano nottetempo nelle fabbriche più moderne, dove appunto distruggevano le macchine; molte volte si scagliarono non solo contro le macchine, ma anche contro i loro inventori e perfezionatori. L’obiettivo politico del movimento di Ned Ludd era esplicito: i «luddisti» avrebbero deposto le armi e messo fine alla loro furia distruttrice, solo se la Camera dei Comuni avesse approvato una legge con cui i capitalisti erano obbligati a distruggere tutti i nuovi macchinari ruba-lavoro; doveva essere inoltre abrogata l’altra legge che sanzionava con la pena di morte i cosiddetti «fracassatori di telai». Tutte le sommosse furono represse nel sangue, nonostante i rivoltosi non avessero mai compiuto atti di violenza nei confronti della popolazione. L’esercito ristabilì l’ordine anche a costo di violare i sacri principi dell’Habeas Corpus del 1679, il documento storico che tutelava ciascun cittadino inglese, indipendentemente dalla sua condizione socio-economica, dal pericolo di arresto arbitrario. Famoso è rimasto il processo di massa (con 164 imputati e 13 condanne a morte) celebratosi per l’assalto notturno del 1812 alla manifattura Cartwright, nella contea di York. Paure diffuse Il movimento capeggiato da Ned Ludd fu la punta estrema di un disagio diffuso in tutte le regioni industrializzate del continente. Si possono citare i casi simili della distruzione del battello a vapore di Papin compiuta dai barcaioli della Fulda (un fiume della Germania occidentale) o la distruzione del telaio meccanico di Jacquard, consumata dai setaioli di Lione. Ma soprattutto in Inghilterra la diffidenza nei confronti del macchinismo era diffusa non solo tra gli operai ma anche nell’opinione pubblica. Molti imprenditori tradizionali vedevano infatti nelle macchine una minaccia per le loro imprese. Concreto era anche il timore di veder rialzate le tasse per finanziare le misure anti-povertà, con le quali il Parlamento cercava di tener sotto controllo la questione sociale, che si faceva via via più esplosiva. ontro le macchine: il luddismo Durante la lunga età preindustriale, durata molti secoli, i lavoratori hanno utilizzato strumenti di lavoro man mano più sofisticati (coltelli e armi, vanghe e aratri, torni e telai) per compiere più agevolmente le proprie operazioni. La rivoluzione industriale impose però nuovi protagonisti, le macchine. Con la loro capacità d’incorporare dentro i propri meccanismi quote sempre maggiori di lavoro «vivo» – cioè di lavoro svolto manualmente dagli operai – esse venivano a rappresentare un progresso tecnico straordinario. Grazie alle macchine le attività del passato potevano essere praticate molto più velocemente (in un’economia orientata al profitto, il risparmio di tempo e di denaro – sotto forma di salari da pagare agli operai – costituisce un fattore decisivo) e con maggior precisione. Inoltre le macchine costituivano di per sé un modo per sostituire gli operai in carne ed ossa: docili macchinari, silenziosi e ubbidienti, precisi e impersonali, in grado – se controllati e alimentati dall’uomo – di continuare a produrre senza interrompersi mai, erano indubbiamente preferibili, dal punto di vista dell’imprenditore, a individui spesso turbolenti, in lotta per strappare migliori condizioni di vita e di lavoro o un aumento di salario. Tutto ciò modificava in modo radicale il rapporto tra uomo e macchina. Quest’ultima diventava non più solo uno strumento passivo nelle mani del lavoratore, ma la protagonista assoluta della civiltà industriale. Un primato di fronte al quale l’operaio si è dovuto piegare, accettandone il dominio, modificando i propri ritmi e le modalità di lavoro. Nel giro di pochi decenni, dunque, la percezione dei lavoratori mutò completamente. Le macchine, viste in precedenza come fedeli compagni di lavoro, come un’appendice tecnica dell’uomo, da lui dipendente e sottomessa alla sua volontà, erano ora guardate come esseri estranei e tirannici, come un nuovo strumento di dominio e sfruttamento, che finiva per cancellare per sempre i margini di autonomia e di realizzazione che ancora sussistevano nel lavoro artigianale e nella bottega. Tanti lavori del passato, ricchi di esperienza e di saggezza artigianale, divenivano superflui e anacronistici; l’intero processo produtti- Movimento Luddista Contro le macchine dei calzettai Volantino del 1° gennaio 1812 ! anno di pubblicazione: Z tematiche: 1812 polemica contro la recente meccanizzazione del lavoro L’AUTORE Ned Lud o Ludd era un operaio del Leicestershire, che nel 1779 avrebbe distrutto delle macchine per la produzione di calze. Si tramanda di lui che fosse dotato di grande carisma; autoproclamatosi capo dell’esercito dei «Riformatori di Ingiustizie», morì, sembra, sul patibolo. La sua esistenza in realtà è tutt’altro che certa; in ogni caso i capibanda del “luddismo” si richiamarono a lui come a un personaggio effettivamente vissuto, fregiandosi dell’appellativo di generale o di re Ludd. Partito da Nottingham, il movimento luddista si accanì particolarmente contro il settore dei berrettifici e dei calzifici, nell’Inghilterra settentrionale e orientale. IL TESTO Leggiamo questo volantino luddista, firmato dal mitico «Ned Ludd» dalla «foresta di Sherwood», sede delle imprese di un altro famoso brigante medievale, Robin Hood, che rubava ai ricchi per restituire ai poveri. 339 Scrittori e società ● La civiltà romantica Mentre per la carta concessa dal defunto sovrano Carlo II i fabbricanti di calze e maglie a telaio hanno diritto di rompere e distruggere ogni telaio a macchina che produca articoli in modo fraudolento e sleale e di distruggere tutti i prodotti di maglieria fabbricati in tal modo, e mentre un gruppo di persone intriganti e senza princìpi ha ottenuto che fosse approvata una legge con la quale è stato decretato che le persone entrate a forza in una fabbrica, in un negozio, in un luogo di lavoro, per rompere o distruggere i telai venissero giudicate colpevoli di crimine, e poiché siamo convinti che tale legge venne ottenuta per i più egoistici e fraudolenti motivi e attraverso manovre elettorali, e che l’onorevole Parlamento della Gran Bretagna fu ingannato sui motivi e le intenzioni delle persone che ottennero tale legge, per tutte queste ragioni noi, fabbricanti di calze e maglie a telaio, dichiariamo la legge suddetta nulla e priva di qualsiasi effetto, poiché con l’approvazione di questa legge degli imbroglioni sono stati messi in grado di produrre la merce in odo fraudolento e sleale, con discredito e rovina del nostro mestiere. E noi perciò dichiariamo a tutti i produttori di calze e a tutti i proprietari di telai che romperemo e distruggeremo ogni tipo di telaio che produca i seguenti articoli spurii e ogni qualsivoglia telaio che non paghi il prezzo regolare fino a ora stabilito dai Mastri e dai Lavoranti.... Scritto di mio pugno il primo gennaio 1812 Dio protegga il Mestiere Ufficio di Ned Ludd - foresta di Sherwood da La rivoluzione industriale, Sei, Torino, 1981 Chiavi di lettura ● Il significato del testo Il testo testimonia la resistenza opposta dai calzettai all’introduzione dei telai meccanici. I calzettai reclamano il loro diritto a continuare a produrre calze di buona qualità con i metodi tradizionali: reclamano perciò anche il diritto di distruggere «ogni telaio che produca articoli in modo fraudolento e sleale e di distruggere tutti i prodotti di maglieria fabbricati in tal modo». Essi si appellano a una legge di re Carlo II, che imponeva la distruzione delle calze di cattiva qualità. È significativo questo richiamo alla situazione del XVII secolo, quando ancora le antiche tracce dell’organizzazione corporativa gravavano sull’economia britannica. La situazione, però, all’inizio dell’Ottocento era cambiata in profondità e in modo irreversibile: nessun operaio poteva rivendicare i diritti delle antiche corporazioni senza scontrarsi frontalmente con gli interessi dei produttori tessili. ● Il contesto Quella del luddismo, come ha chiarito la ricerca storica, più che una posizione di ottuso conservatorismo rappresenta una reazione e un’esasperata difesa nei confronti di innovazioni tecniche che mettevano in pericolo occupazione e professionalità. Va aggiunto comunque che la fiera opposizione di fronte alle macchine non giungeva a cogliere le potenzialità positive del macchinismo: liberazione da lavori faticosi e inumani, creazione di nuovi posti di lavoro, attraverso l’aumento della domanda indotto dalla riduzione dei prezzi resa possibile, a sua volta, dalla lavorazione meccanizzata. Laboratorio Comprensione complessiva 1. Le macchine sono interpretate come portatrici di sventura, come fonte di disoccupazione e miseria. Perché? Analisi del testo 2. ISpiega il richiamo alla foresta di Sherwood. 3. I luddisti entrano in polemica diretta oppure no con il Parlamento? Qual è la loro posizione? Riflessioni 4. Ned Ludd ha avuto una sorte davvero singolare; dal nome di questo umile operaio tessile inglese è nato un movimento sociale di prima importanza. Spiegane in una breve relazione le ragioni e gli sviluppi, collocandolo nello scenario della rivoluzione industriale di primo Ottocento. Approfondimenti 5. IPensa alle innovazioni tecnologiche degli ultimi anni: ce n’è qualcuna chi ti intimorisca o ti sembri pericolosa, o inaccettabile? In generale, ritieni che le macchine costituiscano una minaccia o una risorsa per il lavoro umano? Motiva le tue risposte e confrontale con l’opinione dei tuoi compagni. 340
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