Energia e alternative

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Energia e alternative
Energia e alternative
Ripartiamo dai territori
per trasformare la società
A cura di Elena Gerebizza - Re:Common
www.recommon.org - [email protected]
Dicembre 2013
Tratto da “Energy Alternatives. Surveying the Territory”
Scritto da Larry Lohmann e Nicholas Hildyard, The Corner House
sulla base di una ricerca di Sarah Sexton, Larry Lohmann e Nicholas
Hildyard. Pubblicato nel Maggio 2013 da The Corner House, Hnuti
Duha, CEE Bankwatch Network, Les Amis de la Terre, Re:Common,
Urgewald, Ecologistas en Accion
Questa pubblicazione è stata realizzata con il sostegno
economico dell’Unione Europea. I contenuti del documento
sono esclusiva responsabilità di Re:Common e non sono
riconducibili in alcun modo alle posizioni ufficiali dell’UE.
“Chi promuove il concetto di crisi energetica crede in una visione peculiare dell’uomo, secondo
cui l’uomo è nato in una dipendenza perpetua
dagli schiavi, che deve dolorosamente imparare
a controllare. Se non ha dei prigionieri da impiegare nella produzione, ha bisogno di macchine che facciano buona parte del lavoro.
Secondo questa dottrina, il benessere di una società si misura sulla base degli anni di scuola di
ciascuno dei suoi membri, e sul numero degli
schiavi energetici che hanno imparato a comandare. Questa visione è comune a diverse ideologie economiche in conflitto tra loro e che vanno
di moda oggi. [...]
La crisi energetica guarda alla scarsità di combustibile per questi schiavi. Io preferisco chiedermi se l’uomo libero ne ha bisogno.”
Ivan Illich, Energia e Equità (1973)
Introduzione
Perché è così difficile dire basta al petrolio e ai combustibili
fossili? È acclarato come sia difficile rinunciare alle automobili, al benessere e ad altre comodità. D’altronde per molti
lasciare l’automobile è praticamente impossibile, anche solo
per andare a lavorare ogni giorno, specie in un contesto dove
il servizio pubblico come alternativa non esiste.
Ma è più di questo a legarci al petrolio. È frequente trovarsi
nella situazione in cui parlare della necessità di mettere fine
alla nostra dipendenza dal petrolio alza un muro tra noi e gli
altri che si esplicita in un interrogativo: “quale sarebbe la tua
alternativa?”.
Questa breve scheda, basata su una ricerca di The Corner House, guarda ad alcuni aspetti centrali nel dibattito sulle cosiddette “alternative” e al diverso significato che la visione di
alternativa può assumere a seconda di chi sia il soggetto a
porsi la domanda, quali siano i suoi interessi e che cosa cerchi
di cambiare ponendosi questo interrogativo.
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1. Alternative a che cosa?
Tutti parlano di alternative. Ne parlano Bob Dudley e Paolo
Scaroni, amministratore delegato l’uno della British Petroleum e l’altro dell’Eni, due delle più grandi multinazionali del
petrolio. Ne parlano primi ministri e capi di Stato, ne parlano
giornalisti, ricercatori, esperti di organizzazioni ambientaliste, contadini, pescatori, semplici cittadini che si ritrovano a
vivere dove qualcuno vuole estrarre petrolio, gas di scisto, costruire una nuova centrale a carbone, un’autostrada, un treno
ad alta velocità, un rigassificatore, un deposito di gas o far
passare un nuovo gasdotto. A volte lo spazio politico per parlare di alternative si limita al “dove” un certo progetto debba
essere costruito. Altre volte al “come”. Altre al sostituire una
centrale a carbone con una a gas.
Difficile che a essere messo in discussione sia il progetto
stesso, o ancora di più la nostra dipendenza dai combustibili
fossili. Una diversa visione dell’alternativa porta a definire
i termini del dialogo in maniera conseguente. Ad esempio,
ricordando che il petrolio è la base di un sistema di relazioni
economiche e produttive che hanno preso la forma da noi
conosciuta proprio perché incentrate sul petrolio stesso. La
nostra società sarebbe strutturalmente diversa se il sistema
di produzione si fosse sviluppato attorno a un’altra fonte di
energia, non “liquida” e trasportabile come il petrolio.
Un elemento, questo, di cui non tengono conto diversi filoni di pensiero sviluppati ad esempio nel mondo accademico, in cui si parla di “utilizzo di energia” o di stabilire dei
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limiti al suo impiego, come se l’energia fosse un qualcosa
di astratto e disgiunto dal sistema di produzione necessario a ottenerla. Su questa assunzione si fondano analisi
ed esercizi di combinazione basati su domanda e offerta
di “energia”, sull’intensità del suo utilizzo, sull’aumento
di energia prodotta dalle rinnovabili e riduzione della produzione come variabili necessariamente collegate tra loro
e quindi la cui mutazione porta a risultati consequenziali.
Ciò che accomuna letture di questo tipo è l’assunzione che
l’energia sia un fluido astratto e inanimato che sarà sempre
soggetto a scarsità a causa della “sete” infinita dell’umanità.
La sfida che questa lettura propone riguarda la gestione di
questa “scarsità” in modo da preservare sia l’economia che
l’ambiente. Questa lettura propone spesso di legare la questione anche al controllo delle emissioni di CO2 collegate.
Le politiche energetiche diventano uno strumento per calcolare o controllare i bisogni energetici in un orizzonte di
tempo predeterminato e in un modello ereditato dall’era dei
combustibili fossili; definire le potenziali immissioni di sostanze chimiche derivate dalle diverse fonti di energia; soppesare le potenziali emissioni con la necessità di raggiungere determinati target di emissioni di CO2; fare proiezioni di
risparmio energetico derivato da misure di efficienza; dare
un prezzo alle diverse opzioni e quindi definire il mix di
solare, eolico, geotermico, carbone, petrolio, gas necessario
a “mantenere accese le luci”.
Che domanda, consumo e crescita di energia siano trattate
come variabili a cui imporre un limite o meno, qualsiasi
tentativo di formulare “alternative energetiche” cercando di
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combinare l’uso di energia e la domanda della stessa tende a
cozzare contro forme di organizzazione sociale che mettono
al centro la sussistenza di tutti, e che cercano di decostruire
la contrapposizione tra uomo e natura implicita nell’espressione
“gestione delle risorse naturali”.
Secondo questa lettura, l’unica variabile che non dovrà mai
cambiare è la precondizione di accumulazione e scarsità che
predetermina il nostro sistema economico, finanziario e produttivo.
2. Alternative per chi?
Se invece di partire da un concetto astratto di energia e di
società, partiamo invece da comunità reali e esistenti, vedremo che anche il concetto astratto di “energia” naturalmente
svanirà. La prospettiva di organizzazioni e gruppi di attivisti in Ecuador o in Thailandia si basa su una pianificazione
che non isola la materia energetica come un tema separato,
ma la tratta come parte di quel tutto in evoluzione, specifico di
ciascun territorio, che comprende la politica, l’agricoltura, la
salute, le relazioni familiari, i diritti umani e via di seguito.
Da questa prospettiva, le alternative energetiche si formulano
lontano da chilowatt, biocarburanti e cellule energetiche.
Il punto di partenza non è materia di competenza di esperti energetici. Guardando più da vicino le esperienze come
quelle raccontate dagli attivisti della provincia thailandese di
Prachuab Khiri Khan, o dagli abitanti del villaggio di Huan
Hin Lad nel nord del paese, sembra che le loro domande sulle
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alternative si fondino non tanto sulla questione energetica in
sé, ma su temi ben più complessi legati a cosa sono le loro
comunità e cosa vogliono diventare, a partire dall’unicità della loro storia. Così le comunità con cui lavora Clinica Ambiental in Ecuador si chiedono come promuovere un modello
di agricoltura integrata che non utilizzi il petrolio; che fare
rispetto alla violenza nelle famiglie; come eliminare sostanze
tossiche e la plastica dalla comunità; se le alternative energetiche possono aiutare a rompere la dipendenza dai mercati;
come prendersi cura delle energie personali di ciascuno.
Le comunità ecuadoriane, come quelle thailandesi, si oppongono da decenni rispettivamente all’estrazione di petrolio e
alla costruzione di due mega-centrali a carbone nel proprio
territorio. Di fronte alle domande degli esperti inviati dalle
aziende o dal governo, rispondono riportando il discorso su
come mantenere un’agricoltura che sia produttiva e continuare a permettere agli abitanti della zona di vivere di pesca e turismo, conservando una giusta distribuzione della ricchezza.
3. Alternative e nuove tecnologie
È frequente trovarsi di fronte a tecnici, più o meno esperti,
che parlando di energie rinnovabili affermano che “non è la
tecnologia a mancare, ma la volontà politica, l’attenzione
delle istituzioni e della società necessarie ad avviare il cambiamento”.
Nonostante le buone intenzioni, affermazioni di questo tipo
tendono a riprodurre un approccio alla politica con tendenze
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regressive e limitanti, spesso contrarie alla linea di molti altri
gruppi impegnati nella messa in atto di alternative che siano
realmente trasformative del sistema economico.
Un osservatore più attento riconoscerà come il tema delle
nuove tecnologie venga trattato in maniera distinta da chi
vede la tecnologia come una componente integrante di un
sistema politico e sociale, e da chi la vede come elemento
distinto e a sé stante. La definizione stessa di tecnologia usata
in questi contesti è professionalizzata, astratta e separata dalla
società come un “feticcio”, ovvero come “quella cosa che da
sola può risolvere tutto”, con aspettative del tutto irrealistiche
rispetto al contesto politico e sociale.
È un po’ quanto successe negli anni Sessanta, quando negli
Stati Uniti divenne dominante la visione che la salvezza sarebbe arrivata grazie allo sviluppo tecnologico. I visitatori del
famoso padiglione “Futurama 2” alla fiera mondiale di New
York negli anni Sessanta si sono ritrovati proiettati in una visione del futuro piena di veicoli a sei ruote che percorrevano
la superficie lunare, alberghi sottomarini e macchine divora
alberi che aprivano autostrade nella giungla, il tutto sotto un
cartello che diceva “I have seen the future” (“ho visto il futuro”).
Un futuro che sembrava essere stato creato da macchine, in
cui la tecnologia era autonoma e a sé stante rispetto alla società e nuove invenzioni spuntavano dal nulla a segnare un
cambiamento quasi inevitabile verso una direzione predeterminata.
Dagli anni Sessanta ad oggi, questa visione non se n’è mai andata. La ritroviamo nei modelli usati per definire le politiche
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per contrastare i cambiamenti climatici, che considerano la
tecnologia come una variabile esogena, un qualcosa che emerge, indipendentemente da altri fattori. O in altri documenti
che dicono che il problema delle scorie nucleari “si risolverà”,
che “si troverà” il modo di stoccare la CO2, che l’uso dell’energia “diverrà” più efficiente.
Lo storico sociale David Nye ci ricorda che in realtà le macchine non sono meteore che piovono dal cielo. Al contrario,
vengono adottate e utilizzate in una matrice di relazioni sociali, economiche e politiche che mentre legano e dividono le
persone, allo stesso tempo erodono qualsiasi distinzione tra
tecnologia e società.
Il successo e l’insuccesso di impianti eolici varia incredibilmente da paese a paese, e in alcuni casi da progetto a progetto per ragioni che vanno al di là del tipo di turbina eolica
utilizzata. Se guardiamo al caso dell’eolico, vedremo che in
Germania ha preso piede quasi senza resistenza, mentre negli
Stati Uniti, nel Regno Unito e in altri paesi, inclusa l’Italia,
sono numerose le opere che hanno incontrato una forte resistenza sul territorio.
Per capire il motivo, o almeno una delle ragioni, chiediamoci quanto i territori sentono “propri” i progetti proposti. In
Germania, oltre la metà degli impianti eolici installati appartengono alle comunità, il che significa che si tratta di progetti
che le stesse comunità hanno scelto di costruire, autofinanziandoli e mantenendo la proprietà degli stessi. Al contrario
negli Stati Uniti solo il 2 per cento degli impianti eolici sono
di proprietà delle comunità in cui vengono costruiti, ma sono
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per lo più frutto di investimento di banche, grandi aziende e
hedge funds, ossia investitori esterni che individuano delle località dove costruire progetti di fotovoltaico o eolico cercando poi di convincere i residenti ad accettarli. Così finiscono
spesso per trovarsi a fronteggiare una forte opposizione da
parte delle popolazioni locali.
Se guardiamo al diverso sistema dei trasporti sviluppato negli ultimi decenni negli Stati Uniti e in Europa, vedremo che
sono state delle scelte politiche e non “la tecnologia” a determinare la definizione di due modelli completamente diversi. Negli Stati Uniti i sussidi pubblici sono stati utilizzati per
promuovere un sistema dei trasporti basato sull’uso dell’automobile (investendo risorse pubbliche nella costruzione di
autostrade e facilitando l’acquisto dei veicoli stessi), mentre
in Europa (fino a pochi anni fa) i sussidi pubblici sono stati
orientati verso lo sviluppo di un sistema di trasporti pubblici,
più o meno efficiente, orientato a supplire alle necessità di
trasporto quotidiane della popolazione.
Lo storico David Noble ricorda che nel Ventesimo secolo un
sistema specifico di macchinari automatizzati è stato scartato
perché lasciava il controllo della produzione nelle mani di
operai specializzati, invece che nelle mani di manager o programmatori. Per questo, secondo Noble, trattare la tecnologia
come auto-definitasi e indipendente dal potere sociale, invece
che come un qualcosa a cui danno forma le istituzioni, le
idee, i gruppi sociali che operano nel contesto del conflitto
di classe, rischia di far deragliare il potenziale uso liberatorio delle tecnologie alternative, addirittura trasformandole in
strumenti più sottili di dominazione.
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Lo sviluppo di qualsiasi oggetto tecnologico guardato in retrospettiva può essere facilmente considerato inevitabile. Anche se, come ricorda l’editorialista del New York Herald Tribune Joseph Kaselow, in un confronto sulla robotizzazione
del settore manifatturiero, “serve un sacco di duro lavoro da
parte di un sacco di persone molto dedicate per far succedere
l’inevitabile”.
Di fatto, non c’è stato nulla di inevitabile nello sviluppo dei
motori a combustione interna per le automobili: nei primi del
Novecento la maggior parte delle automobili in circolazione
erano infatti a vapore oppure elettriche, le macchine a benzina erano le meno diffuse anche perché sia le pompe di benzina che i meccanici capaci di ripararle erano pochi. É servito
Henry Ford e la sua produzione di massa di automobili a
benzina a basso costo per dare il via allo sviluppo dell’industria dei servizi necessaria. E lo sviluppo di quell’industria dei
servizi ha fatto fuori le altre. Nel 1920 esisteva un sistema di
servizi esteso solo per automobili a benzina, mentre le altre
in poco tempo scomparirono.
Guardare alla tecnologia come un qualcosa di indipendente
e astratto dalla società non racconta la storia delle relazioni
politiche necessarie a garantire sussidi per la ricerca e lo sviluppo di una determinata tecnologia a discapito delle altre.
Manca la campagna promozionale costruita per creare e far
emergere il “bisogno” di quel determinato prodotto. Manca
la storia delle infrastrutture fisiche che devono essere costruite prima che una certa tecnologia possa prendere piede, come
anche la storia delle mazzette, delle modifiche nella legislazione, delle esenzioni definite prima della concessione dei
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permessi e prima che prestiti e investimenti vengano concessi.
Manca anche la storia del complesso negoziato tra aziende,
burocrati e persone comuni che danno forma all’utilizzo di
un certo tipo di macchina e delle campagne di relazioni pubbliche che devono essere definite per gestire il dibattito sulle
stesse.
Le conseguenze sono una narrativa sulle alternative fondata
su una generale ignoranza critica, visioni irreali del futuro, e
una generale debolezza nella costruzione delle alleanze necessarie a rompere la dipendenza dai combustibili fossili.
Parlare di tecnologia, politica o scienza come di concetti neutrali va nella stessa direzione. E non è un caso che la costruzione
di questi concetti interdipendenti e poco radicati sia contestata in maniera più forte dai commoners – ovvero comunità
che vivono e si organizzano attorno a regole fondate sui beni
comuni – nel Sud del mondo e da realtà più svantaggiate che
vivono nel cosiddetto Nord, perché interferiscono con i percorsi politici che queste stesse comunità stanno perseguendo.
Questa costellazione di astrazioni semplificate fornisce un
vocabolario utile per uffici di pianificazione energetica e
grandi organizzazioni ambientaliste che lavorano per ingraziarsi governi e tecnocrati. Ma le comunità che soffrono gli
effetti dell’estrazione energetica, del bruciare combustibili
fossili, di servizi energetici distribuiti in maniera iniqua, sono
più orientate a trattare la scienza, la tecnologia e la politica
come incarnate l’una nell’altra. Per loro, si tratta di tecnopolitica,
e non è neutrale.
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Nel mondo reale non esiste una comunità che stia cercando
di fermare la costruzione di una centrale a carbone che possa
permettersi di trattare la centrale come “uno degli strumenti
intercambiabili per soddisfare la domanda di energia”. Per
loro l’unica possibilità è analizzare la centrale – assieme alla
“domanda” che la giustifica – come l’istanza integrata di un certo tipo di politica.
Le mega centrali non solo necessitano di un’infrastruttura politica associata con l’estrazione centralizzata delle risorse, ma
anche di un tipo di conoscenza escludente e mega investitori
finanziari che cercano un ritorno molto alto per i loro investimenti. Esse non possono funzionare senza rinforzare una politica
dell’ineguaglianza. La loro economia spinge i pianificatori a
costruirle in territori dove, a loro giudizio, le comunità non
riusciranno a fermarli, o dove la resistenza locale può essere
contenuta o addirittura sfruttata; gli studi che ne giustificano
la costruzione si fondano su necessità nella migliore ipotesi
opache, che favoriscono la corruzione e la costruzione di centri di potere tra le burocrazie dell’apparato pubblico-privato.
E così via. Se i burocrati non sono in grado di sostenere una
discussione sul livello di razzismo o colonialismo incorporati nel cemento e dell’acciaio necessario a costruirle, o nei
concetti economici ortodossi come “la curva dell’offerta di
energia”, “la scarsità energetica”, e via discorrendo, le comunità che resistono a questi mega progetti sono spesso pronte e
desiderose di affrontare questi aspetti per niente neutrali.
Accanto a una visione politica e tecnologica “neutra” sulla
costruzione di una mega centrale a carbone in Thailandia, è
utile prestare attenzione alla lettura degli abitanti della pro-
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vincia di Prachuab Khiri Khan, che si oppongono alla stessa.
Secondo loro, senza equità politica e sociale, quando tecnocrati e economisti parlano di neutralità, è come se chiedessero a “un adulto e un bambino di entrare in un ring per un
incontro di boxe uno contro l’altro, sotto gli occhi di un arbitro che si assicuri che tutte le regole vengano rispettate...”.
Avendo visto le proprie vite violate da scelte “neutrali”, per
gli abitanti di questi villaggi qualsiasi scelta di questo tipo
non ha senso se non è accompagnata da giustizia.
4. Sull’efficienza energetica siamo
d’accordo, giusto?
Molte proposte di “alternative” energetiche vedono nell’efficienza energetica uno strumento per ridurre nell’immediato
la domanda di energia, far durare di più le riserve o rendere
inutile l’espansione degli impianti esistenti. L’agenzia internazionale per l’energia (IEA) è tra le istituzioni più autorevoli
ad assumere un rapporto di uno a uno tra efficienza energetica e riduzione della domanda. Un’assunzione che altri mettono in parte in discussione, magari limitandosi a dire che
misure di efficienza energetica possono contribuire a ridurre
la domanda, ma senza specificare di quanto.
Come spiega bene l’economista statunitense John Polimeni,
questa visione lineare è spesso collegata alla visione di una
certa ortodossia economica sull’efficienza del prezzo nel determinare il cambiamento. Ovvero i prezzi dell’energia aumenterebbero al diminuire della disponibilità della risorsa usata
per produrre energia, che sia petrolio o gas. Questa relazione
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tra domanda e offerta dovrebbe dare un segnale al mercato
a favore di investimenti in nuove tecnologie che dovrebbero
ridurre il consumo di energia. Nel lungo periodo queste innovazioni dovrebbero favorire un utilizzo meno intenso di
energia nelle case e nelle industrie. Il tutto migliorerebbe la
situazione ambientale, riducendo il consumo di risorse senza
intaccare la crescita economica.
Non è una sorpresa quindi che la sopra nominata IEA suggerisca investimenti pubblici in efficienza energetica, sottolineando con soddisfazione che questo permetterà alle grandi
multinazionali del settore qualche anno in più per costruire
nuove centrali e impianti a carbone, petrolio o gas prima di
raggiungere il temuto tetto di un aumento della temperatura
globale di due gradi centigradi.
Anche per molte organizzazioni ambientaliste, chiedere interventi in efficienza energetica sembra essere una ovvia e non
opinabile misura tecnica che dovrebbe essere inclusa in qualsiasi piano energetico.
Tuttavia esistono altre letture del problema, fondate su osservazioni storiche dell’economia, ad esempio quella di George
Monbiot, che propongono un approccio più sfumato a politiche incentrate sull’efficienza energetica.
Una delle complicazioni risulta essere molto spesso la scala
delle analisi: molte merci o processi che sembrano efficienti
rispetto una certa unità di tempo o spazio, non lo sono rispetto un’altra. Così un’automobile disegnata per avere massima
efficienza nel percorrere un chilometro in un minuto, potreb-
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be essere estremamente inefficiente nel percorrere quello stesso chilometro in paragone con altri veicoli disegnati per viaggiare a velocità più bassa. Così gli agro-combustibili possono
essere presentati come efficienti nel far funzionare un motore,
ma divengono estremamente inefficienti quando si considera il
loro ciclo di vita completo, finendo spesso per richiedere più
energia di quanta ne producano. Una prospettiva geograficamente e storicamente “informata” tende a mettere in dubbio
l’idea che l’efficienza energetica possa essere trattata come
una componente di per sé efficace di un programma di alternative, astratta dal più complesso sistema della società industriale in cui il risparmio energetico è pensato.
È famoso a questo proposito il paradosso di Jevons, secondo
cui “supporre che un uso più economico di un combustibile porti a una riduzione dei consumi è frutto di una chiara
confusione di idee. E’ vero l’esatto contrario”. Non si contano i tentativi da parte di economisti ortodossi di quantificare il cambio nei consumi derivato da interventi di efficienza
energetica, a livello individuale o su scala nazionale. A seconda delle assunzioni, il grado di annullamento dei risultati
di interventi di efficienza energetica dovuti a un successivo
aumento dei consumi di energia varia dal 5 al 200 per cento.
Risultati questi che da soli bastano a mettere in discussione
l’esistenza di una relazione lineare tra miglioramenti nell’efficienza energetica e una riduzione dei consumi di energia.
Ma altri pensatori ci spingono oltre, per arrivare al cuore del
messaggio che deriva dal paradosso di Jevons, e che ha a che
fare con il modo in cui evolvono le società industriali nel loro
insieme. Per loro la domanda non è se una famiglia ameri-
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cana media con un tostapane più efficiente tosterà più fette
di pane al giorno, oppure acquisterà un secondo tostapane
da posizionare in camera da letto. La vera domanda è se e
come dei miglioramenti di efficienza energetica in un settore
dell’economia o in una tecnologia specifica aumentano l’utilizzo di energia nella società industriale nel lungo periodo. Si
ragiona cioè sul ruolo dell’efficienza energetica nel cambiare
le matrici dell’economia, al punto che l’effetto complessivo è di
aumentare la scala e il tempo del sistema nel suo insieme.
In una società industriale, un miglioramento nell’efficienza
mette a disposizione più risorse non solo per il consumo, ma
anche per l’investimento. Un miglioramento che avviene in
un qualsiasi settore dell’economia non lascia il resto invariato,
ma tende ad essere utilizzato per espandere la scala della produzione e accelerare il turnover. Così materiali più leggeri per
la costruzione degli aerei hanno portato a un aumento degli
aerei in circolazione e li hanno resi più veloci, con una più
alta concentrazione di risorse (e potere) nelle mani di sempre
meno persone. La diffusione della telefonia cellulare e di internet non ha significato meno viaggi, e quindi meno strade
o automobili.
La velocità nel trasferimento del denaro o degli spostamenti
aerei può essere aumentata, ma per la maggior parte delle
persone i trasferimenti e la burocrazia si prendono sempre
più tempo e energie.
In questo senso vediamo che un miglioramento dell’efficienza in qualsiasi settore non può essere letto come positivo a
prescindere. Al contrario, potrebbe addirittura divenire una
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spinta ad accelerare processi distruttivi e quindi un problema
per chi sul territorio si impegna a promuovere delle alternative realmente trasformative del sistema economico e produttivo.
5. Aprire uno spazio per trasformare
la società
Governi e istituzioni per la lotta alla povertà collegano interventi rivolti a garantire (almeno sulla carta) l’accesso all’energia con il miglioramento delle condizioni di vita, soprattutto
nei paesi più poveri. In nome di questo assunto sono state finanziate, con risorse pubbliche e private, centinaia di migliaia
di grandi opere che sarebbero dovute servire a portare “energia” non solo alle aziende petrolifere, a quelle attive nell’estrazione di minerali, o a multinazionali varie, ma anche alle
popolazioni più povere, a partire da quelle che vivono sui
territori dove si estrae petrolio, si costruisce una grande diga
o una centrale a carbone. Ma come diceva Ivan Illich più di
trent’anni fa, “ogni tentativo di sostituire una merce universale con un valore vernacolare, ha portato non a eguaglianza
ma a una gerarchica modernizzazione della povertà”.
Così l’accesso a “servizi energetici” può servire ai piccoli
contadini per sviluppare i sistemi di irrigazione solo se gli
stessi hanno accesso alla terra e all’acqua in primo luogo, e
non devono negoziare o combattere con chi possiede le risorse per assicurarsi la sopravvivenza. La stessa “energia” può
aiutare le persone a conservare il cibo grazie alla refrigerazione solo se hanno cibo da conservare e un frigorifero in cui
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metterlo. Così l’energia elettrica può servire a completare la
scuola dell’obbligo fornendo luce per studiare nelle ore serali,
ma solo a chi può permettersi di pagare le bollette, i libri e
le tasse scolastiche. Può aiutare a creare posti di lavoro, ma
anche distruggerne altri, dove le macchine rimpiazzano il
lavoro manuale o aumentano lo sfruttamento dei lavoratori
allungando le giornate lavorative. O laddove la costruzione
del mega progetto energetico finisce col distruggere i mezzi
di sostentamento delle persone che vivono sul territorio. Insomma, l’argomento secondo cui espandere la produzione di
energia permette “a tutte le barche di stare a galla” è uno
dei preferiti degli economisti ortodossi, ma funziona solo per
quelli che innanzitutto hanno delle barche su cui salire...
Ritornando in Thailandia, i progetti di vita degli abitanti della
provincia di Prachuab Khiri Khan nascono dalla resistenza alle
politiche energetiche del governo thailandese che, come molti altri,
si giustifica dicendo di dover “espandere i servizi energetici”
per far fronte alla “domanda”. In Sudafrica, come documentato da David A.McDonald, i programmi di “ristrutturazione energetica” generano benefici enormi per una minoranza
di persone, perpetuando la povertà, la malattia, l’esclusione
sociale e la distruzione ambientale a danno della maggior
parte dei cittadini. In un recente seminario sull’energia tra
comunità del Perù, della Colombia e dell’Ecuador, un contadino ecuadoriano della regione al confine con la Colombia ha spiegato: “la mia comunità non ha energia elettrica,
ma non vogliamo che lo Stato la installi. Lo farebbe solo alla
condizione che anche altri progetti vengano costruiti, cosa
che danneggerebbe la comunità, come nel caso dell’estrazione di petrolio. Così noi ci ritroveremmo a spendere buona
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parte delle nostre entrate risicate in bollette. Con l’elettricità
arriverebbero la televisione e altre “trappole” per i nostri figli.
Quel tipo di energia non ci serve perché nella nostra comunità abbiamo energia che otteniamo dal coltivare il nostro cibo,
dal curarci con le piante medicinali e dal mantenere le nostre
abitudini”.
“Distribuire energia” su scala industriale non è come distribuire le monete contenute in un vaso. Il concetto astratto di energia, prodotta in maniera industriale e centralizzata, è esso
stesso collegato a una dinamica di ineguaglianza crescente.
Questa energia – monolitica, uniforme, accumulabile in vaste
quantità e eternamente “scarsa” – si oppone in maniera intrinseca a un altro tipo di energia – intrecciata, concreta e parte dei territori, quale il diritto alla vita di tutti gli esseri viventi.
Come diceva Ivan Illich, più la nozione di “scarsità” dei servizi energetici diviene dominante, meno spazio rimane per
quella energia che è bene comune. Secondo Illich, “l’idea che
la disponibilità di energia pulita e in abbondanza sia la panacea per i mali della società, che equità e consumo di energia
possano essere correlate in maniera indefinita in presenza
delle giuste condizioni politiche, ignora la distinzione tra beni
comuni e risorse e la creazione della scarsità”.
Rifiutare il concetto di scarsità è un possibile punto di partenza per chiedersi quali interventi siano realmente capaci di
aprire uno spazio politico per costruire delle alternative che
siano anche trasformative della società. Guardare al territorio, a
partire da una ridefinizione dei bisogni, è la scelta di numerose comunità nel mondo. Questo approccio porta a proposte
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“alternative” radicalmente diverse tra loro, nella natura e negli
obiettivi che si pongono. Capire questo dovrebbe allertare gli
attivisti e portarli a fare attenzione alle conseguenze di strategie “riformiste” che potrebbero danneggiare gli sforzi di altri
gruppi e comunità.
Cinquant’anni fa, lo scrittore tedesco Andre Gortz ha identificato quelle che lui stesso ha definito “riforme che non sono riformiste” come delle alternative da perseguire, perché aprono
uno spazio per la contestazione, rafforzano i movimenti popolari, identificano e definiscono le contraddizioni strutturali
in maniere che mantengono viva la lotta per una trasformazione strutturale della società.
Per le organizzazioni abituate a intervenire in processi istituzionali, è comodo pensare che ci deve essere sempre qualcosa di utile che si possa fare all’interno di questi processi, per
sostenere i gruppi e le comunità che stanno fuori. Purtroppo
non è sempre così, e molte delle riforme proposte da questi
gruppi sono “riformiste” e finiscono col ridare vita e potere
alle proposte delle grandi multinazionali, minando i processi
alternativi di trasformazione reale costruiti in migliaia di comunità che interpretano i concetti di “energia”, “risparmio
energetico”, “giustizia”, “diritti” in maniera radicalmente diversa da quella di ministeri e istituzioni internazionali.
Queste stesse comunità sono parte di un movimento mosso
dalla solidarietà e contribuiscono a un processo di messa in
discussione collaborativa e di azione progressiva che tocca le
premesse di base di un sistema di tecnopolitica che va a svantaggio di altre comunità e non solo della propria.
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Si tratta di comunità che non chiedono ad altri di risolvere i
loro problemi, ma che collaborano tra loro perché mega progetti che nessuno vuole non siano semplicemente trasferiti in
un altro posto. Come diceva l’attivista brasiliano Chico Mendez, nel corso delle battaglie si viene articolando la comprensione che non stiamo combattendo solo per noi stessi, ma
per l’umanità intera, e che questa “universalità” è una parte
centrale e non incidentale della nostra battaglia, che senza
universalità non avrebbe molto senso.
Un esempio attuale è quello del verbo spagnolo yasunizar,
sempre più diffuso in America Latina. Deriva da Yasuni, la
regione dell’Amazzonia ecuadoriana i cui abitanti combattono da decenni contro l’estrazione di petrolio in quello che
è un parco nazionale e una delle aree a più alta biodiversità
del pianeta.
Con il sostegno di numerose organizzazioni e di gruppi della
società civile ecuadoriana, queste comunità hanno elaborato
una proposta che non è semplicemente di resistenza all’estrazione, ma che guarda alle possibilità di costruire una società
post-petrolio coordinando diverse idee di altri gruppi, come
quella di auto-riabilitazione promossa dall’organizzazione
ecuadoriana Clinica Ambiental.
Il concetto base riguarda la costituzione di un fondo a cui tutti i governi possano contribuire, a partire da quelli industrializzati, a compensazione del debito ecologico accumulato nei
secoli dall’Ecuador, e non come pagamento per la riduzione
delle emissioni, o per i servizi ambientali forniti dal parco di
Yasuni.
Ripartiamo dai territori per trasformare la società
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Yasunizar significa quindi diffondere questo approccio in altri contesti, non come applicazione di una formula universale, o per
moltiplicare le iniziative per mantenere il petrolio nel sottosuolo, ma nella logica di costruire un’alleanza di movimenti
che nascono da storie di resistenza specifiche, orientate a costruire una civilizzazione post-petrolio e a scoprire e sviluppare in itinere la propria identità.
Quando queste comunità parlano di “energia” o di “diritti”,
lo fanno con un’accezione diversa dai governi o dalle istituzioni internazionali, al punto da non sapere da dove partire
per spiegare la differenza. Così è chiaro che lo scopo della
domanda, di fatto aggressiva, “quale sarebbe la tua alternativa?”, non è quello di ottenere una risposta, ma al contrario
è precludere qualsiasi risposta “vera”. In altre parole, precludere la possibilità di aprire a una discussione sull’alternativa
reale, ben al di là della mega opera in costruzione contro cui
una comunità ha organizzato la propria resistenza.
Permettere che questa discussione avvenga significherebbe
aprire uno spazio per parlare del modello economico scelto
da una o più comunità, degli interventi a loro avviso necessari e del come realizzarli anche e semplicemente contando
sulle proprie forze e capacità.
Significherebbe confrontarsi sul perché un determinato intervento viene visto come trasformativo in un contesto, e quali
sono le variabili da intaccare per aprire questo spazio di trasformazione reale in un territorio. Significherebbe parlare di
alternative al petrolio mettendo in discussione il sistema di
produzione e le relazioni di potere su cui il sistema economi-
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Energia e alternative
co incentrato sul petrolio si fonda, permettendo un confronto
reale sulle alternative che sarebbe la premessa necessaria per
iniziare dai territori la costruzione di una società diversa organizzata attorno ai commons, rispettosa di tutti, e fondata su
principi di equità e giustizia e su un rapporto armonico con
l’ambiente. Come dicono le comunità ecuadoriane, sarebbe
il primo passo per guardare oltre e uscire dalla civilizzazione del
petrolio.
Ripartiamo dai territori per trasformare la società
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Energia e alternative
Energia e alternative
Superare il concetto astratto di energia, prodotta in maniera
industriale e centralizzata, significa affrontare la dinamica di
ineguaglianza crescente che ne fa parte.
In tutto il mondo le comunità sono alla ricerca di pratiche
alternative in grado di affrontare i nodi centrali del modello
economico, produttivo ed energetico attuale. Così facendo
permettono di realizzare interventi finalizzati a trasformare la
società.
[email protected]
www.recommon.org