quesito 1 - Corte d`Appello di Brescia
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quesito 1 - Corte d`Appello di Brescia
1) Con riguardo al soggetto ricorrente, la giurisprudenza – sotto la vigenza della legge precedente – aveva assunto una certa posizione rispetto alle persone giuridiche, dapprima richiedendo che si discutesse di diritti della personalità e poi facendo cadere tale limitazione. La giurisprudenza della Corte di Cassazione è concorde nel ritenere risarcibile il danno non patrimoniale nei confronti delle persone giuridiche. Infatti, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell’articolo 2 della L. n. 89/01, anche per le persone giuridiche ( e più in generale per i soggetti collettivi) il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è, tenuto conto dell’indirizzo maturato in proposito dalla Corte di Strasburgo, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri, non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del processo subito dagli individui, persone fisiche (v. Cass. Sez. I Civ. 5.04.07, n. 8604. Viene così superato l’indirizzo minoritario secondo il quale la richiesta di ristoro del danno non patrimoniale subito dalla persona giuridica non può, in concreto, avere ad oggetto l’allegazione del mero patema d’animo e della semplice ansia che la procrastinata incertezza sull’esito delle vicende processuali comporta fino all’emanazione della sentenza, dovendo i lamentati danni incidere, per converso, direttamente o indirettamente sui diritti immateriali dell’ente quali quello all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine, alla reputazione. Sv. Cass., sent. n. 12110 del 04 e n. 5664 del 03). In altre parole: se per le persone fisiche il danno non patrimoniale è caratterizzato dai patemi d’animo e dalle ansie per l’attesa di un giudizio protrattosi troppo a lungo, per le persone giuridiche esso è caratterizzato da diversi disagi, che possono andare dal discredito all’immagine, alla credibilità commerciale. È questo il passaggio logico che ha consentito il superamento della posizione che legava, per le persone giuridiche, il diritto al risarcimento del danno alla tematica della lesione dei diritti della personalità. Anche la giurisprudenza della Corte europea ha chiarito il punto. Il danno non patrimoniale, è costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nell’ambito di espressione della propria immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche ce ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica di norma interagisca. Il danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all’ente in via equitativa tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. La questione sopra esposta era stata affrontata e risolta dalla Corte di Strasburgo con la pronunzia Comingersoll S.A. c. Portogallo (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. Grande Camera, 6 aprile 2000 – Comingersoll S.A. V/Portogallo). In tale pronuncia la Corte europea ha ritenuto di non poter escludere che una società commerciale abbia subito un danno diverso da quello materiale in senso stretto e non di meno meritevole di essere risarcito tenuto conto di tutte le possibili conseguenze che il protrarsi oltre misura della durata di un giudizio, possono, in concreto, ripercuotersi sul corretto esercizio della gestione sociale (Case of Sic S.r.l. v. Italy application n 32650/96; Case of Gemina immobiliare S.r.l. v/ Italy, application n. 33943/96 e Case of il Messaggero s.a.s. v/Italia, application n 44508/98). Le persone giuridiche, quindi, sono comunque dotate di una soggettività, anche se transitoria e strumentale, in quanto le situazioni giuridiche a loro imputate sono riferibili ad individui persone fisiche, le quali possono subire dei patemi d’animo da una prolungata e ingiustificata durata del processo. Tale orientamento, affermato per la prima volta con la sentenza 6 aprile 2000, Comirgersoll s.a.c. Portugal, è stato ribadito tutte le volte che una questione simile sia stata sottoposta all’attenzione della CEDU. In particolare, i giudici hanno, con tale pronuncia, ribaltato un orientamento giurisprudenziale interno che ha finora riconosciuto i danni non patrimoniali solo se detti danni consistono in lesioni dei diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità, come possono essere quelli all’esistenza, all’identità, al nome e all’immagine mentre non è stato sinora riconosciuta l’esistenza di un danno morale, quale quello derivante dai patemi d’animo e dai turbamenti per un comportamento illecito. Nell’affermare la validità dell’interpretazione della CEDU la Corte di Cassazione ha evidenziato come l’orientamento giurisprudenziale interno abbia sinora ridimensionato, in maniera drastica, per le persone giuridiche e le organizzazioni collettive in genere, la possibilità di ottenere l’indennizzo per il danno non patrimoniale in caso d’irragionevole durata del processo, previsto della legge Pinto, essendo difficilmente ipotizzabile che tale danno possa tradursi in un pregiudizio diverso da disagi e turbamenti psicologici per le persone preposte alla gestione dell’ente o per i suoi membri. Al contrario i danni non patrimoniali così prospettati debbono sempre presumersi e sono superabili solo se l’altra parte dimostra che non si sono verificati, cosa che per esempio può avvenire se l’azione è infondata, sempre che chi chiede il risarcimento dei danni sia l’attore, o se gli amministratori o i soci nel corso del processo sono mutati, in maniera tale che non si è potuto per loro verificare alcun turbamento. 2) Come si giustifica tale posizione rispetto al dettato della legge (vecchia e nuova) e si può fare un discorso analogo anche con riguardo agli enti pubblici (territoriali e non)? Per la prima parte del quesito, si rinvia alla risposta data al quesito 1, per l’esposizione delle ragioni che motivavano il difetto di tutela per le persone giuridiche e per i motivi che hanno condotto la giurisprudenza a mutare d’avviso. Sostanzialmente diverso, invece, è il caso degli enti pubblici. Ed, invero, per essi non si può ribadire il medesimo discorso proprio in ragione della loro natura pubblicistica, legata alla funzione connessa all’esercizio di poteri amministrativi. Infatti, anche recentemente, Cass. n. 21326/2012 esclude, dal novero degli “aventi diritto” all’equa riparazione, gli enti pubblici, ed in generale ogni ente o articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico potere; infatti, il giudice di legittimità ritiene, alla luce del disposto dell’art. 34 della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per il quale «vittime della violazione» sono esclusivamente «le persone fisiche, i gruppi di individui e le organizzazioni non governative». Ne segue che l’art. 2 della legge n. 89 del 2001 debba essere interpretato restrittivamente, e, quindi, la sua area di operatività debba limitarsi ai rapporti tra le persone individualmente considerate ovvero nelle formazioni collettive da esse costituite secondo legge. In senso conforme anche Cass., sez. VI , 03 dicembre 2012, n. 21652, secondo la quale, ai fini della determinazione dei soggetti aventi diritto all'equa riparazione, l'espressione contenuta nell'art. 2 della legge n.89/2001 può e deve essere interpretata restrittivamente alla luce del disposto dell’art. 34 della CEDU che inequivocamente esclude dal novero degli aventi diritto gli enti pubblici ed in generale ogni ente o articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico potere. Poiché l’esclusione deriva direttamente dall’esegesi di una norma CEDU, il fatto che l’art. 2 della legge Pinto sia mutato non pare offrire argomenti per mutare la soluzione a cui è pervenuta la giurisprudenza costante. Diversa è anche la motivazione del diniego, legata al peculiare caso che un ente pubblico detiene o esercita un pubblico potere, situazione assai diversa da quella di qualsiasi altra persona giuridica di diritto privato. 3) L’atteggiamento della giurisprudenza di fronte al ritardo conseguente all’applicazione di atti legislativi o comunque normativi, ovvero di provvedimenti discrezionali dell’autorità amministrativa. Come si spiega tale orientamento rispetto all’agire del giudice che applica la legge ed al fatto che l’indennizzo è comunque legato ad una violazione del termine ragionevole del processo riconducibile all’ufficio del giudice adito, per problemi inerenti all’organizzazione giudiziaria, e dunque solo ad autorità (come gli ufficiali giudiziari o la forza pubblica) sulle quali il giudice del procedimento possa realmente svolgere una funzione di indirizzo. D’altronde, l’applicazione della legge può essere irragionevole? La nuova disciplina evita un cortocircuito legislativo come quello appena detto? La questione è stata oggetto di pronunce della Suprema Corte sin dalle prime applicazioni della legge Pinto. La giurisprudenza di legittimità è stata sempre costante nell’affermare che la puntuale applicazione di atti normativi si possa risolvere in un ritardo tale da comportare l’equa riparazione a carico dello Stato. In particolare, il giudice, nell’accertare la durata del procedimento al fine di verificarne la ragionevolezza, deve considerare anche il ritardo che derivi dalla doverosa applicazione di atti normativi in genere, non già per sindacare tali atti, bensì “per apprezzare se la durata del singolo procedimento, come conformato in base a quegli atti, si riveli in concreto compatibile con il precetto di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 e, tramite questo, con il precetto di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Così Cass. 26 luglio 2002, n. 11046; Cass. 20 settembre 2002, n. 13768; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14885; Cass. 22 novembre 2002, n. 16502; Cass. 13 febbraio 2003, n. 2148; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4208; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2250. Il ragionamento della Corte muove dalle seguenti considerazioni. Innanzitutto, la legge Pinto non prevede un diritto al risarcimento del danno, bensì un diritto all’equa riparazione, in coerenza con l’art. 41 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: si tratta, cioè, di un diritto a contenuto indennitario e non risarcitorio, che trova conferma nel fatto che la Convenzione non richiede la configurazione di un illecito ex art. 2043 c.c. In particolare, nello schema normativo della legge Pinto, il riconoscimento dell’equa riparazione non presuppone necessariamente la verifica dell’elemento soggettivo a carico di un agente, essendo invece esso collegato all’accertamento di una violazione della Convenzione. Il diritto all’equa riparazione è, dunque, determinato da un evento di per se stesso lesivo del diritto alla persona alla definizione del procedimento in un tempo ragionevole. Si può dire che l’equa riparazione per l’irragionevole durata del procedimento si configura come obbligazione non ex delicto ma ex lege, e dunque riconducibile al dettato dell’art. 1173 c.c. Inoltre, non si può ignorare il contesto entro il quale la l. 89/2001 è stata emanata. Essa è stata introdotta nell’ordinamento interno per dotare l’Italia di un rimedio invocato a gran voce in sede europea. Ne consegue che un’interpretazione della norma che escludesse dal suo ambito applicativo tutte le violazioni cd. ‘di sistema’, ossia tutte le violazioni che fossero conseguenti anche a scelte legislative che provochino una durata non ragionevole del procedimento, sarebbe non soltanto in contrasto con la Convenzione, ma addirittura elusiva – afferma la Corte di legittimità nella prima pronuncia in materia – delle stesse finalità perseguite dal legislatore. Ancora, è stato ribadito che l’accertamento sull’irragionevole durata non è diretto né a sindacare né a disapplicare la durata degli atti legislativi, e neppure le scelte che ad essi sono sottese, bensì “a controllare se la durata del singolo procedimento … si riveli compatibile con i principi della legge n. 89 del 2001, segnatamente con il precetto di cui all’art. 2 di tale legge e, tramite questo, con il precetto di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione”. Questa posizione si rivela compatibile con il dettato della legge Pinto, sia prima che dopo la riforma. Per quanto attiene alla formulazione pre-riforma, si può ricordare che il comma 2 prevedeva che il giudice, nell’accertamento della violazione, considerasse “la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice nel procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione”. Sul punto, l’interpretazione della Corte di Strasburgo e della giurisprudenza nazionale mostrano convergenze, ritenendo rilevanti sia l’attività del singolo giudice competente per il caso specifico, sia del complessivo apparato giudiziario, le cui inefficienze possono essere determinate tanto da carenze di risorse umane, quanto da una disorganizzazione interna entro cui rientra anche l’attività delle cancellerie e dei consulenti tecnici. Il vecchio testo della legge conteneva il riferimento al ‘comportamento’ ossia ad un dato oggettivo, sicché – osservava la Suprema Corte – “si deve subito notare che già il dettato letterale della norma, nella sua ampia formulazione, non consente di attribuire ad essa il significato restrittivo identificato dalla Corte trentina (giudice di secondo grado, n.d.a.), secondo la quale il legislatore avrebbe inteso riferirsi agli ausiliari del giudice o ad altre autorità amministrative”. Il dettato riformato della legge non permette di ipotizzare un mutamento interpretativo, risultando ampliato il novero dei soggetti sottoposti alla valutazione del giudice: “nell’accertare la violazione il giudice valuta … il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione”. 4) La rilevanza – ai fini dell’indennizzo – del solo periodo eccedente il termine ragionevole. Come è stato possibile bypassare la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo? La legge dell’agosto 2012, che sembra offrire uno strumento tecnico più dettagliato, modifica qualcosa nell’assetto del regime delle fonti? La versione originaria della legge Pinto (L. 89/2001) ha stabilito il diritto all’equa riparazione per la durata non ragionevole del processo, precisando che: - rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole; - il danno non patrimoniale e' riparato, oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche attraverso adeguate forme di pubblicita' della dichiarazione dell'avvenuta violazione. L’art. 2-bis rubricato “misura dell'indennizzo” stabilisce che “Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo”. Secondo la giurisprudenza sul punto “ai fini dell'indennizzo del danno non deve aversi riguardo ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata” (Cass.14/2008). Secondo le pronunce della Suprema Corte deve ritenersi infondato l'assunto secondo cui, una volta superato il termine ragionevole, l'indennizzo debba essere parametrato all'intera durata del procedimento, prevedendo espressamente l'art. 2 comma 3 della Legge 89/01 che, ai fini in esame, rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di durata del processo (Cass. Sentenza 6 febbraio – 3 aprile 2008, n. 8521). Tale posizione si è da subito posta in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea. La Suprema Corte ha sottolineato che, anche se per la Corte europea l'indennizzo calcolato in ragione d'anno debba essere moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il terzo comma dell'art. 2 della Legge 89/01, secondo cui è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Si è sostenuto che detta diversità di calcolo non tocca la complessa attitudine della Legge 89/01 ad assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo e pertanto non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all'art. 6, paragrafo 1 della Convenzione medesima (art. 111 comma 2 Cost. nel testo fissato dalla legge costituzionale 23.11.1999 n. 2; Cass. 8714/06). La nuova normativa del 2012 di fatto conferma l’orientamento inizialmente assunto dalla Suprema Corte, che risulta essere di totale censura con la giurisprudenza della Corte europea. In virtù della sovranità di ciascun Stato nazionale la normativa italiana prevale sulla giurisprudenza europea, anche se occorre considerare che nelle ipotesi di ricorso diretto alla Corte di Strasburgo la liquidazione – in ossequio alla giurisprudenza comunitaria – sarà calcolata in modo diverso. 1 5) La liquidazione del danno patrimoniale e spiraglio della vecchia legge e la chiusura della nuova. la prova della lesione. Lo La questione della liquidazione del danno patrimoniale è oggi trasmigrata, ad opera dell’art. 55 del decreto Sviluppo, nell’art. 2-bis della l. 89/2001, che ha abrogato il comma 3 del precedente art. 2. È prevista una nuova disciplina per determinare l’ammontare ed i criteri di calcolo dell’indennizzo, che spetta “per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo”. Il testo pre-riforma richiamava l’art. 2056 c.c., prevedendo in maniera espressa che la risarcibilità del danno fosse circoscritta al termine eccedente la ragionevole durata del processo; si stabiliva, inoltre, per la riparazione del danno extrapatrimoniale, oltre al pagamento di una somma di denaro, anche adeguate forme di pubblicità della violazione, invece non presenti nella nuova formulazione. L’art. 2-bis legge Pinto prevede in maniera specifica la misura dell’indennizzo: si tratta di una somma di denaro compresa tra i 500 ed i 1500 euro per ciascun anno eccedente il termine ragionevole di durata del processo. In ogni caso, la somma non può essere superiore al valore della causa (art. 2-bis, co. 3, legge Pinto), ed in una simile eventualità sarà ammesso anche scendere sotto la soglia dei 500 euro. Resta immutato il ricorso ai criteri di cui all’art. 2056 c.c. (art. 2-bis, co. 2, legge Pinto: “L’indennizzo è determinato a norma dell’articolo 2056 del codice civile…”), che nel dettare i criteri di valutazione del danno ai fini del suo risarcimento rinvia alle disposizioni previste dagli artt. 1123, 1126 e 1227 c.c.; ad integrazione di questi, vengono introdotti nuovi parametri. Occorre, infatti, tenere in considerazione anche l’esito del processo a quo, il comportamento del giudice e delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa, anche in riferimento alle condizioni personali della parte. Il giudice, per accertare la violazione del termine ragionevole, dovrà in primis verificare se il ricorrente era parte nel giudizio presupposto, o almeno erede della parte deceduta, non essendo possibile proporre domanda di equa riparazione al soggetto che sia rimasto estraneo al procedimento. Il giudice dovrà verificare se la sentenza che ha definito il processo sia passata in giudicato, prevedendo l’attuale art. 4 legge Pinto che la domanda venga proposta entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il giudizio sia divenuta definitiva. Il giudice dovrà verificare che la parte soccombente non sia incorsa nei casi di negligenza, lentezza o abuso ex art. 2-quinquies, dovrà verificare se il processo ha subito sospensioni o interruzioni, ex art. 2-quater; in generale il giudice dovrà considerare il comportamento di tutti gli organi giudiziari, come cancellieri e ufficiali giudiziari. Successivamente, a differenza di quanto accadeva nel vigore della vecchia legge, il giudice dovrà quantificare il periodo del superamento del termine ragionevole della durata del processo, computandolo – per quanto attiene al processo civile – alla data di notifica della citazione o del deposito del ricorso introduttivo. Si può dire che, diversamente da quanto accadeva in precedenza, al giudice è dato il compito non soltanto di stabilire se lo Stato debba pagare in conseguenza del suo omissivo comportamento nell’organizzazione della giustizia, ma anche di computare l’ammontare dell’indennizzo facendo puntuale riferimento a tutti i presupposti. Si vuole evitare che siffatto ammontare sia stabilito in modo arbitrario ed approssimativo, mediante una valutazione equitativa che, per propria natura, resterebbe sottratta al giudice di legittimità, trattandosi di una questione di merito. Inoltre, per accertare la responsabilità dello Stato, al giudice è richiesto di valutare anche la responsabilità soggettiva dell’autore dell’illecito, sia essa dolosa o colposa, svolgendo un’indagine rigorosa sul comportamento posto in atto dai protagonisti del processo. È certo che la riforma della legge Pinto abbia imposto che il periodo di incidenza del termine non ragionevole sia computato con una misura matematica e tecnica, così sottraendolo alla discrezionalità del giudice, che, ai sensi del nuovo art. 2, co. 2, è tenuto a valutare anche l’oggetto del procedimento e la complessità del caso. In questo senso, si può dire che oggi il giudice è tenuto ad accertare che siano presenti due elementi, uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo elemento inerisce alla complessità del caso, e richiede che il giudice svolga un’indagine fattuale sull’eventuale complessità – di fatto e di diritto – della questione. Quanto al secondo profilo, esso riguarda un fatto colposo di natura soggettiva, ossia il comportamento delle parti e del giudice, nonché di qualunque soggetto che sia chiamato a concorrere o a contribuire alla definizione del giudizio. In questo senso va, dunque, intesa la ‘chiusura’ della nuova legge, che appare più restrittiva sotto il profilo della discrezionalità del giudice. In ogni caso, pare conservare valore la posizione della Suprema Corte a Sezioni Unite, secondo la quale “in tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione –, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione … deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente” (Cass., SS.UU., 26 gennaio 2004, n. 1338). Si tratterebbe di una lettura conforme non soltanto alla ratio emergente dai lavori preparatori, ma anche alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e al tenore dell’art. 41 Cost., che tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona, sulla scia di quanto previsto dall’art. 6 della Convenzione 6) L’evoluzione della problematica dell’abuso del processo fra vecchio e nuovo rito. Dal punto di vista processuale, si osserva che al rito camerale – previsto dalla Legge Pinto – è stato sostituito il rito sommario – risultante dalle modifiche introdotte con legge 134/12, sulla falsariga del procedimento per ingiunzione. Il presidente della corte d'appello, o un magistrato della corte a tal fine designato, provvede sulla domanda di equa riparazione con decreto motivato da emettere entro trenta giorni dal deposito del ricorso. Si applicano i primi due commi dell'articolo 640 c.p.c. Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all'amministrazione contro cui è stata proposta la domanda di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento. Se il ricorso è in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare opposizione a norma dell'articolo 5-ter. Il ricorso, unitamente al decreto che accoglie la domanda di equa riparazione, è notificato per copia autentica al soggetto nei cui confronti la domanda è proposta. Il decreto diventa inefficace qualora la notificazione non sia eseguita nel termine di trenta giorni dal deposito in cancelleria del provvedimento e la domanda di equa riparazione non può essere più proposta. La notificazione ai sensi del comma 1 rende improponibile l'opposizione e comporta acquiescenza al decreto da parte del ricorrente. Il decreto che accoglie la domanda è altresì comunicato al procuratore generale della Corte dei conti, ai fini dell'eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell'azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento. **** La lite temeraria come abuso del processo La regolamentazione delle spese processuali è tradizionalmente ispirata alla regola della soccombenza, che ha un significato obiettivo, dovendosi guardare solo al fatto che siano o non siano state accolte alcune o tutte le ragioni fatte valere in giudizio: le spese non rappresentano quindi un danno, bensì un costo. Questa regola può essere resa più rigorosa, e trasformata nel suo fondamento giuridico, fino ad assumere i caratteri propri di un autentico risarcimento dei danni: è la fattispecie della responsabilità aggravata dell’art. 96 c.p.c. che configura un fatto illecito. Le ipotesi di lite temeraria sono state sempre qualificate dalla pregnanza dell’elemento soggettivo, e per questo considerate ipotesi speciali di responsabilità civile. Solo nell’ultimo ventennio l’istituto viene oggettivato e ricondotto all’abuso del processo, categoria che per lungo tempo è apparsa estranea all’ordinamento, e anzi, intimamente configgente con una concezione liberale del processo civile, fondata sul dispiegamento del tutto libero delle attività di difesa tecnica realizzabili ad opera degli avvocati. La nozione ha avuto difficoltà ad affermarsi, almeno fino alla riforma costituzionale del 1999, che ha dato luogo alla riformulazione dell’art. 111 Cost., e all’attuazione del principio della ragionevole durata del processo, con la l. n. 89/2001. 1 In via di estrema sintesi, l’abuso del processo è ravvisabile quando un’iniziativa giudiziaria non corrisponde ad un concreto interesse della parte, che, eventualmente protetto sul piano sostanziale dall’ordinamento, venga utilizzato dalla stessa al solo fine di arrecare danno o molestia ad altri. Sicché il diritto di difesa non può essere inteso in termini assoluti, quanto al suo esercizio: ove al termine del processo dovesse risultare che la parte, ben consapevole del suo torto, ha agito per spirito di emulazione o ha resistito con intenti dilatori o defatigatori, questa situazione sarebbe rivelatrice di un abuso del diritto di difesa in giudizio e perciò di un comportamento illecito. La legge, nel prendere atto di questa illiceità, la pone a fondamento di un risarcimento dei danni, equiparandovi la colpa grave. L’insoddisfacente formulazione della nuova norma è foriera di dubbi interpretativi. In primo luogo, la norma appare indeterminata nei presupposti, giacché se può essere comminata in ogni caso a chiusura di una lite, l’appartenenza al contesto dell’art. 96 sulla responsabilità processuale aggravata evoca in modo stringente le condizioni previste dai commi che precedono, in particolare riguardo alla connotazione dell’elemento soggettivo, con la prospettiva di imbattersi nelle rilevate difficoltà probatorie che tradizionalmente la giurisprudenza ha frapposto alla condanna al risarcimento per lite temeraria. Dal problema ora accennato discende anche l’impossibilità di una soddisfacente qualificazione della natura della norma, se riconducibile ad una responsabilità aquiliana, con tutte le regole che le sono connesse, o da essa si distacchi per rappresentare, puramente e semplicemente, una misura afflittiva. Il criterio di liquidazione è rimesso all’equità del giudice, e disancorato da ogni parametro, sicché, onde evitare che per reprimere l’abuso si commettano altri abusi, s’impone l’individuazione sistematica di criteri atti a tracciare linee applicative a sussidio della liquidazione. Tanto più che il carattere officioso della condanna contrasta con i principi fondamentali della giurisdizione civile, giacché deroga al principio della domanda, di cui all’art. 112 c.p.c. Lo iato che da più parti si è voluto riconoscere nell’espressione in ogni caso che apre il dettato della nuova disposizione, le attribuisce un obiettivo preciso, quello di porre un freno alle controversie che, sebbene non temerarie, siano comunque prive di reale contenuto e semplicemente esplorative o intimidatorie. Potrebbe opinarsi un’intenzione del legislatore di allontanare la condanna del nuovo terzo comma dell’art. 96 dalle ipotesi tradizionali di responsabilità processuale aggravata perché, ai fini della comminatoria della stessa, non è necessario che la parte vittoriosa abbia subito un danno a causa del processo, tanto più che l’iniziativa può essere officiosa, e non tiene conto dell’atteggiamento psicologico della parte soccombente. In giurisprudenza, si evidenzia: “Il comportamento processuale di una parte soccombente che espone due prospettazioni giuridiche opposte, in due distinti giudizi, è connotato da mala fede e configura un’ipotesi di abuso del processo” (Trib. Verona, sentenza, 28 febbraio 2014) Frazionamento della domanda In una prima pronuncia le sezioni unite (10 aprile 2000 n. 108) hanno statuito che "è ammissibile la domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante dall'inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale, con riserva di azione per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall'ordinamento e rispondente ad un interesse del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla difesa delle proprie ragioni". Secondo il ragionamento della Suprema Corte, ad evitare l'abuso è consentito che sia riscontrabile un interesse di chi lo pone in essere e l'assenza di un pregiudizio ingiusto a carico dell'altra parte. 2 Con sentenza le Sezioni Unite (15 novembre 2007, n. 23726) rovesciano completamente la soluzione data con la prima. Alla luce del quadro normativo nel frattempo evolutosi, soprattutto grazie alla novellazione dell'art. 111 cost., ritiene di poter affermare che, nonostante l'interesse non necessariamente emulativo del creditore-attore, resta comunque la lesione del principio di correttezza e buona fede. Per di più la parcellizzazione giudiziale del credito si pone in contrasto con il "precetto inderogabile del giusto processo" e innesca un effetto inflattivo che si pone in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo, "per l'evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della relativa durata". Insomma l'art. 88 c.p.c. nel quale è sancito il dovere di lealtà e probità deve essere letto in connessione con il nuovo comma 2 dell'art. 111 cost. "nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della "ragionevolezza della durata" del procedimento e della "giustezza" del "processo", inteso come risultato finale...., che "giusto" non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione dell'attribuzione al suo titolare della potestas agendi". A conclusione del ragionamento sopra sommariamente riassunto la Cassazione enuncia - quasi di passaggio - la parte più rivoluzionaria della sua decisione: il frazionamento (contestuale o sequenziale) di un credito unitario si risolve in abuso del processo che, come tale, si pone come "ostativo all'esame della domanda". Il colpo d'ala della Cassazione sta non solo nell'aver individuato il limite all'interesse anche non meramente emulativo oltre che nella violazione del principio (privatistico) di corretezza e buona fede, in quello (pubblicistico) del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso, ma anche nell'aver enunciato il principio secondo il quale la domanda introdotta in modo abusivo è inammissibile. In altre parole la sanzione contro l'abuso del processo è stata individuata non già nella responsabilità aggravata, ma nell'inammissibilità-irricevibilità, che consente di dare protezione anche all'efficienza dell'amministrazione della giustizia, intesa nel suo complesso. Scelta di un rito in luogo di un altro Il fatto che il ricorso al rito sommario dipenda da una scelta totalmente discrezionale dell'attore fa sì che questo possa abusare della sua facoltà a danno del convenuto, senza che il giudice possa intervenire per evitare l'abuso. Più precisamente il convenuto, che si vede "espropriato" dei normali termini a difesa (90 e 180 giorni a seconda che risieda in Italia o all'estero), non gode di nessuna forma di rimessione in termini nel caso in cui il giudice riporti la controversia sui binari della cognizione piena, nella quale le preclusioni maturate al momento della costituzione continuano ad operare. Non sarebbe infatti sostenibile che la parte sia incorsa in una decadenza per causa ad essa non imputabile come richiede il nuovo comma 2 dell'art. 153. In altre parole, l'attore, in perfetta malafede (sapendo cioè che la causa non si presta ad essere trattata in modo sommario), può costringere il convenuto a preparare le sue difese nel ristretto termine di trenta giorni (neppure liberi) piuttosto che in quello ordinario di novanta giorni o addirittura di centottanta se risiede all'estero. 3 Si può ritenere che basti ad evitare l'abuso il sistema previsto dal codice in funzione di repressione dei comportamenti contrari ai doveri imposti dall'art. 88 c.p.c. e cioè quello delle spese di cui gli artt. 91 ss.? Sinceramente, a me sembra che al quesito si debba dare risposta negativa e che un'efficace tutela contro l'abuso anche nel caso segnalato sia invece quella indicata dalle sezioni unite con la sua pronuncia del 2007. Se infatti si parte dal presupposto secondo il quale la domanda proposta in modo abusivo, perchè in contrasto con i canoni della correttezza e della buona fede, non può essere presa in considerazione, è giocoforza concludere che il ricorso proposto secondo il rito sommario di cognizione quando l'attore non può ignorare che è indispensabile un'istruzione non sommaria, va dichiarato inammissibile, non essendo altrimenti evitabile la lesione che ne deriverebbe al convenuto. Si tratterebbe insomma di un caso di inammissibilità della domanda, per essere stata la stessa proposta con modalità che l'hanno resa abusiva, che andrebbe ad aggiungersi agli altri, specificamente previsti dall'art. 702-ter. Per concludere è il caso di dare conto di un recente intervento legislativo che, ponendosi l'espresso obiettivo di impedire un particolare tipo di abuso, spesso perpretrato nell'ambito delle controversie di lavoro, ha tradotto in norma di legge le indicazioni fornite dalla Consulta e lo ha fatto in maniera particolarmente drastica. L'abuso è quello consistente dalla frantumazione del contenzioso di massa, determinata dalla proposizione di cause separate nelle quali ogni singolo lavoratore fa valere un diritto identico a quello facente capo ad un numero indeterminato di suoi colleghi o, addirittura, fa valere il suo diritto in modo frazionato. Per evitare il proliferare di tali cause, già in precedenza, erano stati introdotti strumenti quali l'art. 151, comma 1, disp. att. c.p.c., modificato con legge n. 40/2006, secondo il cui tenore, nel contenzioso in materia di lavoro e previdenza sociale, la riunione di cause connesse, anche per identità di questioni, non può, ma "deve essere sempre disposta dal giudice", salvo ipotesi eccezionali, e gli artt. 420-bis c.p.c. e 64 d.lgs n. 165/2001 i quali dispongono che le questioni di validità-interpretazione dei contratti collettivi nazionali, attraverso un particolare iter, possano essere risolte dalla Corte di cassazione con una decisione diretta ad orientare, sia pure in maniera non vincolante, anche giudici diversi da quello che ha emanato la sentenza impugnata, che si trovino a risolvere la stessa questione. E' chiaro però che le norme appena richiamate servono per contenere la proliferazione - per così dire - fisiologica delle cause seriali, ma non per evitare gli abusi che, nel contenzioso del lavoro e della previdenza sociale, dipendono il più delle volte da un intreccio perverso tra l'interesse dei difensori a far lievitare i loro compensi e quello dei giudici a "fare statistica". Tanto più che il "deve" riferito dall'art. 151 disp. att. alla riunione dei procedimenti è fatto corrispondere dalla giurisprudenza della Cassazione (Cass., 11 febbraio 2004, n. 2649) ad un potere discrezionale, dal cui mancato uso non derivano conseguenze di sorta. Per stroncare questo genere di spirale i commi da 7 a 9 del d.l. n. 112/2008 prevedono che, in materia previdenziale, a fronte di una pluralità di domande o di azioni esecutive che frazionano un credito relativo al medesimo rapporto (accessori compresi), il giudice deve disporre la riunione anche d'ufficio e, in mancanza, deve essere dichiarata l'improcedibilità delle domande successive alla prima e la nullità dei pignoramenti successivi al primo. E' vero che la disposizione sopra riportata tocca il fenomeno delle cause di massa solo di striscio, nel senso che non si applica alle domande autonome e tuttavia legate da un vincolo di connessione (anche impropria), ma solo a quelle nelle quali sono fatte valere più "frazioni" della medesima 4 obbligazione, tuttavia è altrettanto vero che per queste ultime la legge, sia pure in un settore delimitato, compie un ulteriore passo avanti nella direzione indicata dalla Corte costituzionale. 5