quesito 1 - Corte d`Appello di Brescia

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quesito 1 - Corte d`Appello di Brescia
1)
Con riguardo al soggetto ricorrente, la giurisprudenza – sotto la vigenza
della legge precedente – aveva assunto una certa posizione rispetto alle
persone giuridiche, dapprima richiedendo che si discutesse di diritti della
personalità e poi facendo cadere tale limitazione.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione è concorde nel ritenere risarcibile il danno non
patrimoniale nei confronti delle persone giuridiche.
Infatti, in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell’articolo 2
della L. n. 89/01, anche per le persone giuridiche ( e più in generale per i soggetti collettivi) il danno
non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere
psicologico, è, tenuto conto dell’indirizzo maturato in proposito dalla Corte di Strasburgo,
conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la
lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi
membri, non diversamente da quanto avviene per il danno morale da lunghezza eccessiva del
processo subito dagli individui, persone fisiche (v. Cass. Sez. I Civ. 5.04.07, n. 8604.
Viene così superato l’indirizzo minoritario secondo il quale la richiesta di ristoro del danno non
patrimoniale subito dalla persona giuridica non può, in concreto, avere ad oggetto l’allegazione del
mero patema d’animo e della semplice ansia che la procrastinata incertezza sull’esito delle vicende
processuali comporta fino all’emanazione della sentenza, dovendo i lamentati danni incidere, per
converso, direttamente o indirettamente sui diritti immateriali dell’ente quali quello all’esistenza,
all’identità, al nome, all’immagine, alla reputazione. Sv. Cass., sent. n. 12110 del 04 e n. 5664 del
03). In altre parole: se per le persone fisiche il danno non patrimoniale è caratterizzato dai patemi
d’animo e dalle ansie per l’attesa di un giudizio protrattosi troppo a lungo, per le persone giuridiche
esso è caratterizzato da diversi disagi, che possono andare dal discredito all’immagine, alla
credibilità commerciale. È questo il passaggio logico che ha consentito il superamento della
posizione che legava, per le persone giuridiche, il diritto al risarcimento del danno alla tematica
della lesione dei diritti della personalità.
Anche la giurisprudenza della Corte europea ha chiarito il punto.
Il danno non patrimoniale, è costituito dalla diminuzione della considerazione della persona
giuridica o dell’ente nell’ambito di espressione della propria immagine, sia sotto il profilo della
incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche ce ricoprano gli
organi della persona giuridica o dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione
da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica di
norma interagisca. Il danno non patrimoniale va liquidato alla persona giuridica o all’ente in via
equitativa tenendo
conto
di
tutte
le
circostanze
del
caso
concreto.
La questione sopra esposta era stata affrontata e risolta dalla Corte di Strasburgo con la pronunzia
Comingersoll S.A. c. Portogallo (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. Grande Camera, 6
aprile 2000 – Comingersoll S.A. V/Portogallo). In tale pronuncia la Corte europea ha ritenuto di
non poter escludere che una società commerciale abbia subito un danno diverso da quello materiale
in senso stretto e non di meno meritevole di essere risarcito tenuto conto di tutte le possibili
conseguenze che il protrarsi oltre misura della durata di un giudizio, possono, in concreto,
ripercuotersi sul corretto esercizio della gestione sociale (Case of Sic S.r.l. v. Italy application n
32650/96; Case of Gemina immobiliare S.r.l. v/ Italy, application n. 33943/96 e Case of il
Messaggero s.a.s. v/Italia, application n 44508/98).
Le persone giuridiche, quindi, sono comunque dotate di una soggettività, anche se transitoria e
strumentale, in quanto le situazioni giuridiche a loro imputate sono riferibili ad individui persone
fisiche, le quali possono subire dei patemi d’animo da una prolungata e ingiustificata durata del
processo. Tale orientamento, affermato per la prima volta con la sentenza 6 aprile 2000,
Comirgersoll s.a.c. Portugal, è stato ribadito tutte le volte che una questione simile sia stata
sottoposta all’attenzione della CEDU. In particolare, i giudici hanno, con tale pronuncia, ribaltato
un orientamento giurisprudenziale interno che ha finora riconosciuto i danni non patrimoniali solo
se detti danni consistono in lesioni dei diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità,
come possono essere quelli all’esistenza, all’identità, al nome e all’immagine mentre non è stato
sinora riconosciuta l’esistenza di un danno morale, quale quello derivante dai patemi d’animo e dai
turbamenti per un comportamento illecito. Nell’affermare la validità dell’interpretazione della
CEDU la Corte di Cassazione ha evidenziato come l’orientamento giurisprudenziale interno abbia
sinora ridimensionato, in maniera drastica, per le persone giuridiche e le organizzazioni collettive in
genere, la possibilità di ottenere l’indennizzo per il danno non patrimoniale in caso d’irragionevole
durata del processo, previsto della legge Pinto, essendo difficilmente ipotizzabile che tale danno
possa tradursi in un pregiudizio diverso da disagi e turbamenti psicologici per le persone preposte
alla gestione dell’ente o per i suoi membri. Al contrario i danni non patrimoniali così prospettati
debbono sempre presumersi e sono superabili solo se l’altra parte dimostra che non si sono
verificati, cosa che per esempio può avvenire se l’azione è infondata, sempre che chi chiede il
risarcimento dei danni sia l’attore, o se gli amministratori o i soci nel corso del processo sono
mutati, in maniera tale che non si è potuto per loro verificare alcun turbamento.
2) Come si giustifica tale posizione rispetto al dettato della legge (vecchia e
nuova) e si può fare un discorso analogo anche con riguardo agli enti pubblici
(territoriali e non)?
Per la prima parte del quesito, si rinvia alla risposta data al quesito 1, per
l’esposizione delle ragioni che motivavano il difetto di tutela per le persone giuridiche e
per i motivi che hanno condotto la giurisprudenza a mutare d’avviso.
Sostanzialmente diverso, invece, è il caso degli enti pubblici.
Ed, invero, per essi non si può ribadire il medesimo discorso proprio in ragione
della loro natura pubblicistica, legata alla funzione connessa all’esercizio di poteri
amministrativi.
Infatti, anche recentemente, Cass. n. 21326/2012 esclude, dal novero degli
“aventi diritto” all’equa riparazione, gli enti pubblici, ed in generale ogni ente o
articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico
potere; infatti, il giudice di legittimità ritiene, alla luce del disposto dell’art. 34 della
Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per il quale «vittime
della violazione» sono esclusivamente «le persone fisiche, i gruppi di individui e le
organizzazioni non governative». Ne segue che l’art. 2 della legge n. 89 del 2001 debba
essere interpretato restrittivamente, e, quindi, la sua area di operatività debba limitarsi ai
rapporti tra le persone individualmente considerate ovvero nelle formazioni collettive da
esse costituite secondo legge.
In senso conforme anche Cass., sez. VI , 03 dicembre 2012, n. 21652, secondo
la quale, ai fini della determinazione dei soggetti aventi diritto all'equa riparazione,
l'espressione contenuta nell'art. 2 della legge n.89/2001 può e deve essere interpretata
restrittivamente alla luce del disposto dell’art. 34 della CEDU che inequivocamente
esclude dal novero degli aventi diritto gli enti pubblici ed in generale ogni ente o
articolazione amministrativa pubblica che, in quanto tale, detiene o esercita un pubblico
potere.
Poiché l’esclusione deriva direttamente dall’esegesi di una norma CEDU, il
fatto che l’art. 2 della legge Pinto sia mutato non pare offrire argomenti per mutare la
soluzione a cui è pervenuta la giurisprudenza costante.
Diversa è anche la motivazione del diniego, legata al peculiare caso che un ente
pubblico detiene o esercita un pubblico potere, situazione assai diversa da quella di
qualsiasi altra persona giuridica di diritto privato.
3) L’atteggiamento della giurisprudenza di fronte al ritardo conseguente all’applicazione di
atti legislativi o comunque normativi, ovvero di provvedimenti discrezionali dell’autorità
amministrativa. Come si spiega tale orientamento rispetto all’agire del giudice che applica la
legge ed al fatto che l’indennizzo è comunque legato ad una violazione del termine ragionevole
del processo riconducibile all’ufficio del giudice adito, per problemi inerenti
all’organizzazione giudiziaria, e dunque solo ad autorità (come gli ufficiali
giudiziari o la forza pubblica) sulle quali il giudice del procedimento possa
realmente svolgere una funzione di indirizzo. D’altronde, l’applicazione della
legge può essere irragionevole?
La nuova disciplina evita un cortocircuito legislativo come quello appena
detto?
La questione è stata oggetto di pronunce della Suprema Corte sin dalle prime applicazioni della
legge Pinto. La giurisprudenza di legittimità è stata sempre costante nell’affermare che la puntuale
applicazione di atti normativi si possa risolvere in un ritardo tale da comportare l’equa riparazione a
carico dello Stato. In particolare, il giudice, nell’accertare la durata del procedimento al fine di
verificarne la ragionevolezza, deve considerare anche il ritardo che derivi dalla doverosa
applicazione di atti normativi in genere, non già per sindacare tali atti, bensì “per apprezzare se la
durata del singolo procedimento, come conformato in base a quegli atti, si riveli in concreto
compatibile con il precetto di cui all’art. 2 della legge n. 89 del 2001 e, tramite questo, con il
precetto di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali”. Così Cass. 26 luglio 2002, n. 11046; Cass. 20 settembre 2002, n. 13768;
Cass. 22 ottobre 2002, n. 14885; Cass. 22 novembre 2002, n. 16502; Cass. 13 febbraio 2003, n.
2148; Cass. 24 febbraio 2006, n. 4208; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2250.
Il ragionamento della Corte muove dalle seguenti considerazioni. Innanzitutto, la legge Pinto non
prevede un diritto al risarcimento del danno, bensì un diritto all’equa riparazione, in coerenza con
l’art. 41 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: si tratta, cioè, di un diritto a
contenuto indennitario e non risarcitorio, che trova conferma nel fatto che la Convenzione non
richiede la configurazione di un illecito ex art. 2043 c.c. In particolare, nello schema normativo
della legge Pinto, il riconoscimento dell’equa riparazione non presuppone necessariamente la
verifica dell’elemento soggettivo a carico di un agente, essendo invece esso collegato
all’accertamento di una violazione della Convenzione. Il diritto all’equa riparazione è, dunque,
determinato da un evento di per se stesso lesivo del diritto alla persona alla definizione del
procedimento in un tempo ragionevole. Si può dire che l’equa riparazione per l’irragionevole durata
del procedimento si configura come obbligazione non ex delicto ma ex lege, e dunque riconducibile
al dettato dell’art. 1173 c.c.
Inoltre, non si può ignorare il contesto entro il quale la l. 89/2001 è stata emanata. Essa è stata
introdotta nell’ordinamento interno per dotare l’Italia di un rimedio invocato a gran voce in sede
europea. Ne consegue che un’interpretazione della norma che escludesse dal suo ambito applicativo
tutte le violazioni cd. ‘di sistema’, ossia tutte le violazioni che fossero conseguenti anche a scelte
legislative che provochino una durata non ragionevole del procedimento, sarebbe non soltanto in
contrasto con la Convenzione, ma addirittura elusiva – afferma la Corte di legittimità nella prima
pronuncia in materia – delle stesse finalità perseguite dal legislatore.
Ancora, è stato ribadito che l’accertamento sull’irragionevole durata non è diretto né a sindacare né
a disapplicare la durata degli atti legislativi, e neppure le scelte che ad essi sono sottese, bensì “a
controllare se la durata del singolo procedimento … si riveli compatibile con i principi della legge
n. 89 del 2001, segnatamente con il precetto di cui all’art. 2 di tale legge e, tramite questo, con il
precetto di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione”.
Questa posizione si rivela compatibile con il dettato della legge Pinto, sia prima che dopo la
riforma. Per quanto attiene alla formulazione pre-riforma, si può ricordare che il comma 2
prevedeva che il giudice, nell’accertamento della violazione, considerasse “la complessità del caso
e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice nel procedimento, nonché
quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione”.
Sul punto, l’interpretazione della Corte di Strasburgo e della giurisprudenza nazionale mostrano
convergenze, ritenendo rilevanti sia l’attività del singolo giudice competente per il caso specifico,
sia del complessivo apparato giudiziario, le cui inefficienze possono essere determinate tanto da
carenze di risorse umane, quanto da una disorganizzazione interna entro cui rientra anche l’attività
delle cancellerie e dei consulenti tecnici.
Il vecchio testo della legge conteneva il riferimento al ‘comportamento’ ossia ad un dato oggettivo,
sicché – osservava la Suprema Corte – “si deve subito notare che già il dettato letterale della norma,
nella sua ampia formulazione, non consente di attribuire ad essa il significato restrittivo identificato
dalla Corte trentina (giudice di secondo grado, n.d.a.), secondo la quale il legislatore avrebbe inteso
riferirsi agli ausiliari del giudice o ad altre autorità amministrative”.
Il dettato riformato della legge non permette di ipotizzare un mutamento interpretativo, risultando
ampliato il novero dei soggetti sottoposti alla valutazione del giudice: “nell’accertare la violazione
il giudice valuta … il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché
quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione”.
4) La rilevanza – ai fini dell’indennizzo – del solo periodo eccedente il termine ragionevole.
Come è stato possibile bypassare la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo?
La legge dell’agosto 2012, che sembra offrire uno strumento tecnico più dettagliato, modifica
qualcosa nell’assetto del regime delle fonti?
La versione originaria della legge Pinto (L. 89/2001) ha stabilito il diritto all’equa riparazione per la
durata non ragionevole del processo, precisando che:
- rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole;
- il danno non patrimoniale e' riparato, oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche
attraverso adeguate forme di pubblicita' della dichiarazione dell'avvenuta violazione.
L’art. 2-bis rubricato “misura dell'indennizzo” stabilisce che “Il giudice liquida a titolo di equa
riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per
ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata
del processo”.
Secondo la giurisprudenza sul punto “ai fini dell'indennizzo del danno non deve aversi riguardo ad
ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine
ragionevole di durata” (Cass.14/2008).
Secondo le pronunce della Suprema Corte deve ritenersi infondato l'assunto secondo cui, una volta
superato il termine ragionevole, l'indennizzo debba essere parametrato all'intera durata del
procedimento, prevedendo espressamente l'art. 2 comma 3 della Legge 89/01 che, ai fini in esame,
rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di durata del
processo (Cass. Sentenza 6 febbraio – 3 aprile 2008, n. 8521).
Tale posizione si è da subito posta in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea.
La Suprema Corte ha sottolineato che, anche se per la Corte europea l'indennizzo calcolato in
ragione d'anno debba essere moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni
anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante il terzo comma dell'art. 2 della
Legge 89/01, secondo cui è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine
ragionevole.
Si è sostenuto che detta diversità di calcolo non tocca la complessa attitudine della Legge 89/01 ad
assicurare l'obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo
e pertanto non autorizza dubbi sulla compatibilità di tale norma con gli impegni internazionali
assunti dalla Repubblica italiana mediante la ratifica della Convenzione europea e con il pieno
riconoscimento, anche a livello costituzionale, del canone di cui all'art. 6, paragrafo 1 della
Convenzione medesima (art. 111 comma 2 Cost. nel testo fissato dalla legge costituzionale
23.11.1999 n. 2; Cass. 8714/06).
La nuova normativa del 2012 di fatto conferma l’orientamento inizialmente assunto dalla Suprema
Corte, che risulta essere di totale censura con la giurisprudenza della Corte europea.
In virtù della sovranità di ciascun Stato nazionale la normativa italiana prevale sulla giurisprudenza
europea, anche se occorre considerare che nelle ipotesi di ricorso diretto alla Corte di Strasburgo la
liquidazione – in ossequio alla giurisprudenza comunitaria – sarà calcolata in modo diverso.
1
5) La liquidazione del danno patrimoniale e
spiraglio della vecchia legge e la chiusura della nuova.
la
prova
della
lesione.
Lo
La questione della liquidazione del danno patrimoniale è oggi trasmigrata, ad opera dell’art. 55 del
decreto Sviluppo, nell’art. 2-bis della l. 89/2001, che ha abrogato il comma 3 del precedente art. 2.
È prevista una nuova disciplina per determinare l’ammontare ed i criteri di calcolo dell’indennizzo,
che spetta “per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine
ragionevole di durata del processo”.
Il testo pre-riforma richiamava l’art. 2056 c.c., prevedendo in maniera espressa che la risarcibilità
del danno fosse circoscritta al termine eccedente la ragionevole durata del processo; si stabiliva,
inoltre, per la riparazione del danno extrapatrimoniale, oltre al pagamento di una somma di denaro,
anche adeguate forme di pubblicità della violazione, invece non presenti nella nuova formulazione.
L’art. 2-bis legge Pinto prevede in maniera specifica la misura dell’indennizzo: si tratta di una
somma di denaro compresa tra i 500 ed i 1500 euro per ciascun anno eccedente il termine
ragionevole di durata del processo. In ogni caso, la somma non può essere superiore al valore della
causa (art. 2-bis, co. 3, legge Pinto), ed in una simile eventualità sarà ammesso anche scendere sotto
la soglia dei 500 euro.
Resta immutato il ricorso ai criteri di cui all’art. 2056 c.c. (art. 2-bis, co. 2, legge Pinto:
“L’indennizzo è determinato a norma dell’articolo 2056 del codice civile…”), che nel dettare i
criteri di valutazione del danno ai fini del suo risarcimento rinvia alle disposizioni previste dagli
artt. 1123, 1126 e 1227 c.c.; ad integrazione di questi, vengono introdotti nuovi parametri. Occorre,
infatti, tenere in considerazione anche l’esito del processo a quo, il comportamento del giudice e
delle parti, la natura degli interessi coinvolti, il valore e la rilevanza della causa, anche in
riferimento alle condizioni personali della parte.
Il giudice, per accertare la violazione del termine ragionevole, dovrà in primis verificare se il
ricorrente era parte nel giudizio presupposto, o almeno erede della parte deceduta, non essendo
possibile proporre domanda di equa riparazione al soggetto che sia rimasto estraneo al
procedimento. Il giudice dovrà verificare se la sentenza che ha definito il processo sia passata in
giudicato, prevedendo l’attuale art. 4 legge Pinto che la domanda venga proposta entro sei mesi dal
momento in cui la decisione che conclude il giudizio sia divenuta definitiva. Il giudice dovrà
verificare che la parte soccombente non sia incorsa nei casi di negligenza, lentezza o abuso ex art.
2-quinquies, dovrà verificare se il processo ha subito sospensioni o interruzioni, ex art. 2-quater; in
generale il giudice dovrà considerare il comportamento di tutti gli organi giudiziari, come
cancellieri e ufficiali giudiziari.
Successivamente, a differenza di quanto accadeva nel vigore della vecchia legge, il giudice dovrà
quantificare il periodo del superamento del termine ragionevole della durata del processo,
computandolo – per quanto attiene al processo civile – alla data di notifica della citazione o del
deposito del ricorso introduttivo.
Si può dire che, diversamente da quanto accadeva in precedenza, al giudice è dato il compito non
soltanto di stabilire se lo Stato debba pagare in conseguenza del suo omissivo comportamento
nell’organizzazione della giustizia, ma anche di computare l’ammontare dell’indennizzo facendo
puntuale riferimento a tutti i presupposti. Si vuole evitare che siffatto ammontare sia stabilito in
modo arbitrario ed approssimativo, mediante una valutazione equitativa che, per propria natura,
resterebbe sottratta al giudice di legittimità, trattandosi di una questione di merito.
Inoltre, per accertare la responsabilità dello Stato, al giudice è richiesto di valutare anche la
responsabilità soggettiva dell’autore dell’illecito, sia essa dolosa o colposa, svolgendo un’indagine
rigorosa sul comportamento posto in atto dai protagonisti del processo.
È certo che la riforma della legge Pinto abbia imposto che il periodo di incidenza del termine non
ragionevole sia computato con una misura matematica e tecnica, così sottraendolo alla
discrezionalità del giudice, che, ai sensi del nuovo art. 2, co. 2, è tenuto a valutare anche l’oggetto
del procedimento e la complessità del caso.
In questo senso, si può dire che oggi il giudice è tenuto ad accertare che siano presenti due elementi,
uno oggettivo ed uno soggettivo. Il primo elemento inerisce alla complessità del caso, e richiede che
il giudice svolga un’indagine fattuale sull’eventuale complessità – di fatto e di diritto – della
questione. Quanto al secondo profilo, esso riguarda un fatto colposo di natura soggettiva, ossia il
comportamento delle parti e del giudice, nonché di qualunque soggetto che sia chiamato a
concorrere o a contribuire alla definizione del giudizio.
In questo senso va, dunque, intesa la ‘chiusura’ della nuova legge, che appare più restrittiva sotto il
profilo della discrezionalità del giudice. In ogni caso, pare conservare valore la posizione della
Suprema Corte a Sezioni Unite, secondo la quale “in tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2
della legge 24 marzo 2001, n. 89, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non
automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui
all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re
ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della
violazione –, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione … deve ritenere
sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze
particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente”
(Cass., SS.UU., 26 gennaio 2004, n. 1338). Si tratterebbe di una lettura conforme non soltanto alla
ratio emergente dai lavori preparatori, ma anche alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e al
tenore dell’art. 41 Cost., che tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della
persona, sulla scia di quanto previsto dall’art. 6 della Convenzione
6) L’evoluzione della problematica dell’abuso del processo fra vecchio e nuovo
rito.
Dal punto di vista processuale, si osserva che al rito camerale – previsto dalla Legge Pinto – è stato
sostituito il rito sommario – risultante dalle modifiche introdotte con legge 134/12, sulla falsariga
del procedimento per ingiunzione.
Il presidente della corte d'appello, o un magistrato della corte a tal fine designato, provvede sulla
domanda di equa riparazione con decreto motivato da emettere entro trenta giorni dal deposito del
ricorso.
Si applicano i primi due commi dell'articolo 640 c.p.c.
Se accoglie il ricorso, il giudice ingiunge all'amministrazione contro cui è stata proposta la domanda
di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza
la provvisoria esecuzione.
Nel decreto il giudice liquida le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento.
Se il ricorso è in tutto o in parte respinto la domanda non può essere riproposta, ma la parte può fare
opposizione a norma dell'articolo 5-ter.
Il ricorso, unitamente al decreto che accoglie la domanda di equa riparazione, è notificato per copia
autentica al soggetto nei cui confronti la domanda è proposta.
Il decreto diventa inefficace qualora la notificazione non sia eseguita nel termine di trenta giorni dal
deposito in cancelleria del provvedimento e la domanda di equa riparazione non può essere più
proposta.
La notificazione ai sensi del comma 1 rende improponibile l'opposizione e comporta acquiescenza
al decreto da parte del ricorrente.
Il decreto che accoglie la domanda è altresì comunicato al procuratore generale della Corte dei
conti, ai fini dell'eventuale avvio del procedimento di responsabilità, nonché ai titolari dell'azione
disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento.
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La lite temeraria come abuso del processo
La regolamentazione delle spese processuali è tradizionalmente ispirata alla regola della
soccombenza, che ha un significato obiettivo, dovendosi guardare solo al fatto che siano o non
siano state accolte alcune o tutte le ragioni fatte valere in giudizio: le spese non rappresentano
quindi un danno, bensì un costo. Questa regola può essere resa più rigorosa, e trasformata nel suo
fondamento giuridico, fino ad assumere i caratteri propri di un autentico risarcimento dei danni: è la
fattispecie della responsabilità aggravata dell’art. 96 c.p.c. che configura un fatto illecito. Le ipotesi
di lite temeraria sono state sempre qualificate dalla pregnanza dell’elemento soggettivo, e per
questo considerate ipotesi speciali di responsabilità civile.
Solo nell’ultimo ventennio l’istituto viene oggettivato e ricondotto all’abuso del processo, categoria
che per lungo tempo è apparsa estranea all’ordinamento, e anzi, intimamente configgente con una
concezione liberale del processo civile, fondata sul dispiegamento del tutto libero delle attività di
difesa tecnica realizzabili ad opera degli avvocati. La nozione ha avuto difficoltà ad affermarsi,
almeno fino alla riforma costituzionale del 1999, che ha dato luogo alla riformulazione dell’art. 111
Cost., e all’attuazione del principio della ragionevole durata del processo, con la l. n. 89/2001.
1
In via di estrema sintesi, l’abuso del processo è ravvisabile quando un’iniziativa giudiziaria non
corrisponde ad un concreto interesse della parte, che, eventualmente protetto sul piano sostanziale
dall’ordinamento, venga utilizzato dalla stessa al solo fine di arrecare danno o molestia ad altri.
Sicché il diritto di difesa non può essere inteso in termini assoluti, quanto al suo esercizio: ove al
termine del processo dovesse risultare che la parte, ben consapevole del suo torto, ha agito per
spirito di emulazione o ha resistito con intenti dilatori o defatigatori, questa situazione sarebbe
rivelatrice di un abuso del diritto di difesa in giudizio e perciò di un comportamento illecito. La
legge, nel prendere atto di questa illiceità, la pone a fondamento di un risarcimento dei danni,
equiparandovi la colpa grave.
L’insoddisfacente formulazione della nuova norma è foriera di dubbi interpretativi. In primo luogo,
la norma appare indeterminata nei presupposti, giacché se può essere comminata in ogni caso a
chiusura di una lite, l’appartenenza al contesto dell’art. 96 sulla responsabilità processuale
aggravata evoca in modo stringente le condizioni previste dai commi che precedono, in particolare
riguardo alla connotazione dell’elemento soggettivo, con la prospettiva di imbattersi nelle rilevate
difficoltà probatorie che tradizionalmente la giurisprudenza ha frapposto alla condanna al
risarcimento per lite temeraria. Dal problema ora accennato discende anche l’impossibilità di una
soddisfacente qualificazione della natura della norma, se riconducibile ad una responsabilità
aquiliana, con tutte le regole che le sono connesse, o da essa si distacchi per rappresentare,
puramente e semplicemente, una misura afflittiva. Il criterio di liquidazione è rimesso all’equità del
giudice, e disancorato da ogni parametro, sicché, onde evitare che per reprimere l’abuso si
commettano altri abusi, s’impone l’individuazione sistematica di criteri atti a tracciare linee
applicative a sussidio della liquidazione. Tanto più che il carattere officioso della condanna
contrasta con i principi fondamentali della giurisdizione civile, giacché deroga al principio della
domanda, di cui all’art. 112 c.p.c. Lo iato che da più parti si è voluto riconoscere nell’espressione in
ogni caso che apre il dettato della nuova disposizione, le attribuisce un obiettivo preciso, quello di
porre un freno alle controversie che, sebbene non temerarie, siano comunque prive di reale
contenuto e semplicemente esplorative o intimidatorie. Potrebbe opinarsi un’intenzione del
legislatore di allontanare la condanna del nuovo terzo comma dell’art. 96 dalle ipotesi tradizionali
di responsabilità processuale aggravata perché, ai fini della comminatoria della stessa, non è
necessario che la parte vittoriosa abbia subito un danno a causa del processo, tanto più che
l’iniziativa può essere officiosa, e non tiene conto dell’atteggiamento psicologico della parte
soccombente.
In giurisprudenza, si evidenzia:
“Il comportamento processuale di una parte soccombente che espone due prospettazioni giuridiche
opposte, in due distinti giudizi, è connotato da mala fede e configura un’ipotesi di abuso del
processo” (Trib. Verona, sentenza, 28 febbraio 2014)
Frazionamento della domanda
In una prima pronuncia le sezioni unite (10 aprile 2000 n. 108) hanno statuito che "è ammissibile la
domanda giudiziale con la quale il creditore di una determinata somma, derivante
dall'inadempimento di un unico rapporto, chieda un adempimento parziale, con riserva di azione
per il residuo, trattandosi di un potere non negato dall'ordinamento e rispondente ad un interesse
del creditore, meritevole di tutela, e che non sacrifica, in alcun modo, il diritto del debitore alla
difesa delle proprie ragioni".
Secondo il ragionamento della Suprema Corte, ad evitare l'abuso è consentito che sia riscontrabile
un interesse di chi lo pone in essere e l'assenza di un pregiudizio ingiusto a carico dell'altra parte.
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Con sentenza le Sezioni Unite (15 novembre 2007, n. 23726) rovesciano completamente la
soluzione data con la prima.
Alla luce del quadro normativo nel frattempo evolutosi, soprattutto grazie alla novellazione dell'art.
111 cost., ritiene di poter affermare che, nonostante l'interesse non necessariamente emulativo del
creditore-attore, resta comunque la lesione del principio di correttezza e buona fede. Per di più la
parcellizzazione giudiziale del credito si pone in contrasto con il "precetto inderogabile del giusto
processo" e innesca un effetto inflattivo che si pone in contrasto con il principio della ragionevole
durata del processo, "per l'evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la
possibilità di contenimento della relativa durata".
Insomma l'art. 88 c.p.c. nel quale è sancito il dovere di lealtà e probità deve essere letto in
connessione con il nuovo comma 2 dell'art. 111 cost. "nel senso del suo allineamento al duplice
obiettivo della "ragionevolezza della durata" del procedimento e della "giustezza" del "processo",
inteso come risultato finale...., che "giusto" non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del
processo per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse
sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione dell'attribuzione al suo titolare della potestas
agendi".
A conclusione del ragionamento sopra sommariamente riassunto la Cassazione enuncia - quasi di
passaggio - la parte più rivoluzionaria della sua decisione: il frazionamento (contestuale o
sequenziale) di un credito unitario si risolve in abuso del processo che, come tale, si pone come
"ostativo all'esame della domanda".
Il colpo d'ala della Cassazione sta non solo nell'aver individuato il limite all'interesse anche non
meramente emulativo oltre che nella violazione del principio (privatistico) di corretezza e buona
fede, in quello (pubblicistico) del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso, ma anche
nell'aver enunciato il principio secondo il quale la domanda introdotta in modo abusivo è
inammissibile.
In altre parole la sanzione contro l'abuso del processo è stata individuata non già nella responsabilità
aggravata, ma nell'inammissibilità-irricevibilità, che consente di dare protezione anche all'efficienza
dell'amministrazione della giustizia, intesa nel suo complesso.
Scelta di un rito in luogo di un altro
Il fatto che il ricorso al rito sommario dipenda da una scelta totalmente discrezionale dell'attore fa sì
che questo possa abusare della sua facoltà a danno del convenuto, senza che il giudice possa
intervenire per evitare l'abuso.
Più precisamente il convenuto, che si vede "espropriato" dei normali termini a difesa (90 e 180
giorni a seconda che risieda in Italia o all'estero), non gode di nessuna forma di rimessione in
termini nel caso in cui il giudice riporti la controversia sui binari della cognizione piena, nella quale
le preclusioni maturate al momento della costituzione continuano ad operare. Non sarebbe infatti
sostenibile che la parte sia incorsa in una decadenza per causa ad essa non imputabile come richiede
il nuovo comma 2 dell'art. 153.
In altre parole, l'attore, in perfetta malafede (sapendo cioè che la causa non si presta ad essere
trattata in modo sommario), può costringere il convenuto a preparare le sue difese nel ristretto
termine di trenta giorni (neppure liberi) piuttosto che in quello ordinario di novanta giorni o
addirittura di centottanta se risiede all'estero.
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Si può ritenere che basti ad evitare l'abuso il sistema previsto dal codice in funzione di repressione
dei comportamenti contrari ai doveri imposti dall'art. 88 c.p.c. e cioè quello delle spese di cui gli
artt. 91 ss.?
Sinceramente, a me sembra che al quesito si debba dare risposta negativa e che un'efficace tutela
contro l'abuso anche nel caso segnalato sia invece quella indicata dalle sezioni unite con la sua
pronuncia del 2007.
Se infatti si parte dal presupposto secondo il quale la domanda proposta in modo abusivo, perchè in
contrasto con i canoni della correttezza e della buona fede, non può essere presa in considerazione,
è giocoforza concludere che il ricorso proposto secondo il rito sommario di cognizione quando
l'attore non può ignorare che è indispensabile un'istruzione non sommaria, va dichiarato
inammissibile, non essendo altrimenti evitabile la lesione che ne deriverebbe al convenuto. Si
tratterebbe insomma di un caso di inammissibilità della domanda, per essere stata la stessa proposta
con modalità che l'hanno resa abusiva, che andrebbe ad aggiungersi agli altri, specificamente
previsti dall'art. 702-ter.
Per concludere è il caso di dare conto di un recente intervento legislativo che, ponendosi l'espresso
obiettivo di impedire un particolare tipo di abuso, spesso perpretrato nell'ambito delle controversie
di lavoro, ha tradotto in norma di legge le indicazioni fornite dalla Consulta e lo ha fatto in maniera
particolarmente drastica. L'abuso è quello consistente dalla frantumazione del contenzioso di massa,
determinata dalla proposizione di cause separate nelle quali ogni singolo lavoratore fa valere un
diritto identico a quello facente capo ad un numero indeterminato di suoi colleghi o, addirittura, fa
valere il suo diritto in modo frazionato.
Per evitare il proliferare di tali cause, già in precedenza, erano stati introdotti strumenti quali l'art.
151, comma 1, disp. att. c.p.c., modificato con legge n. 40/2006, secondo il cui tenore, nel
contenzioso in materia di lavoro e previdenza sociale, la riunione di cause connesse, anche per
identità di questioni, non può, ma "deve essere sempre disposta dal giudice", salvo ipotesi
eccezionali, e gli artt. 420-bis c.p.c. e 64 d.lgs n. 165/2001 i quali dispongono che le questioni di
validità-interpretazione dei contratti collettivi nazionali, attraverso un particolare iter, possano
essere risolte dalla Corte di cassazione con una decisione diretta ad orientare, sia pure in maniera
non vincolante, anche giudici diversi da quello che ha emanato la sentenza impugnata, che si
trovino a risolvere la stessa questione.
E' chiaro però che le norme appena richiamate servono per contenere la proliferazione - per così
dire - fisiologica delle cause seriali, ma non per evitare gli abusi che, nel contenzioso del lavoro e
della previdenza sociale, dipendono il più delle volte da un intreccio perverso tra l'interesse dei
difensori a far lievitare i loro compensi e quello dei giudici a "fare statistica". Tanto più che il
"deve" riferito dall'art. 151 disp. att. alla riunione dei procedimenti è fatto corrispondere dalla
giurisprudenza della Cassazione (Cass., 11 febbraio 2004, n. 2649) ad un potere discrezionale, dal
cui mancato uso non derivano conseguenze di sorta.
Per stroncare questo genere di spirale i commi da 7 a 9 del d.l. n. 112/2008 prevedono che, in
materia previdenziale, a fronte di una pluralità di domande o di azioni esecutive che frazionano un
credito relativo al medesimo rapporto (accessori compresi), il giudice deve disporre la riunione
anche d'ufficio e, in mancanza, deve essere dichiarata l'improcedibilità delle domande successive
alla prima e la nullità dei pignoramenti successivi al primo.
E' vero che la disposizione sopra riportata tocca il fenomeno delle cause di massa solo di striscio,
nel senso che non si applica alle domande autonome e tuttavia legate da un vincolo di connessione
(anche impropria), ma solo a quelle nelle quali sono fatte valere più "frazioni" della medesima
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obbligazione, tuttavia è altrettanto vero che per queste ultime la legge, sia pure in un settore
delimitato, compie un ulteriore passo avanti nella direzione indicata dalla Corte costituzionale.
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