Tradizione, memoria, poesie di vita e di vino a

Transcript

Tradizione, memoria, poesie di vita e di vino a
 CAFFÈ LETTERARIO
Angelo Mamprin presenta: Tradizione, memoria, poesie
di vita e di vino a Binago
mercoledì 13 marzo 2013 ore 21.00 c/o bar Bracchetti – via Roma, 40 «Vorrei tanto abbandonare la tradizione, ma come essere vivente con le radici nella terra dove sono nato, sono, contraddizione di me stesso, un tradizionalista» (W.A. Göethe)
1 Il dialetto lo si impara da piccoli o non lo si impara più. Ho avuto il piacere di avere la madre da generazioni binaghese ed il padre di origine veneta, quindi sin da piccolo ho imparato spontaneamente il nostro dialetto e anche il dialetto veneto. Eravamo nella prima infanzia tutti ricchi. A un certo punto capitò che un tale disse alle nostre mamme che occorreva la lavatrice e prima ancora il frigorifero. Ci siamo accorti che eravamo poveri. Il nome Binago ha il toponimo che deriva da “bina”, ovvero doppio filare, ovviamente di viti. Prove‐
nendo da Malnate verso Solbiate, sulla sinistra vediamo la collina del Roccolo, ancora tutt’oggi in buona parte circondata da terrazze. Residui di terreni terrazzati li troviamo anche alla Baia, al Dos, in Vigna Doria, in via del Bozzente. Ormai questi terrazzi portano solo il ricordo delle vigne che qui avevano dimora. Praticamente Binago era circondata da vigne. Dev’essere stata davvero d’oro la vigna che c’era nella Vigna Doria, quando il vecchio Bracchetti ci rincorse perché avevamo rubato qualche grappolo d’uva… Mi sono fatto la pipì addosso per lo spa‐
vento e a mia madre, quando mi ha detto «Ta set tüt bagnà», ho risposto «Sem andà alla boza a giugà». Quando, all’età di cinque anni circa, in chiesa con mia nonna chiedevo di cosa significasse «Tantum ergo Sacramentum», mi rispondeva «Tas e prega». Alla mia nuova richiesta mi diceva «Al vör dì: canta ul merlo sul furmentùn, tas e prega». Quando il prete diceva «Deus in adiutorium meum in‐
tende. Domine ad adiuvandum me festina», a una nuova richiesta di traduzione, mia nonna, oltre all’eterno «Tas e prega», forse stanca della mia curiosità, mi diceva «Al vör dì: andém in sü, Vitori, che nün s’inténdum. Sé, dòna, a vegnarù sü duman matina». Mi sono accorto negli anni successivi che mia nonna la sua gran fede me la dimostrava con tre sole parole: «Tas e prega». Il latino era obbligatorio per la bocca ma non per il cuore. Nel silenzio trovavano, come adesso, il Dio misericor‐
dioso che parlava con loro. Al principio il vino di Binago è una collina. Favonio e Tramontana curvano foglie che non sono ancora quelle della vite, piegano steli che non sono ancora quelli del grano. Sul soffione e sul sambuco passano nuvole e il sereno. In primavera il fruscio della faina fa sussultare il fagiano che cova tra l’ortica e l’erba mora e, dove un giorno maturerà l’uva, cade la ghianda e si spalanca il riccio della castagna. Al principio il vino di Binago è un piccone e una mazza portati in spalla un’ora prima dell’alba. È il cuneo di ferro da conficcare in sabbie più dure del sasso, è quel solco che attraverso la collina del Roccolo come un’immensa culla scavata nell’argilla, ove vengono adagiate radici di viti appena nate. È l’accetta che taglia nel ceduo a luna vecchia il palo di castagno che darà il via al primo filare. Al principio il vino di Binago è il potare da un sole all’altro con le mani screpolate dai geli della Gala‐
verna, quando sotto la vigna dormono ancora la talpa e il riccio. È salire la collina con i mazzi di vimini tagliati nella ceppaia a riva al ruscello della Val di Rame, messi nel mastello affinché diventino teneri prima di legare il tralcio al ferro e alla canna. Al principio il vino di Binago è alzarsi alla cinque per andare a zappare gramigna e girasole, è rivoltare la terra tra i filari dopo aver tolto i germogli superflui dal legno vecchio e aver legato con la ginestra quelli che porteranno frutto. 2 Ma solo per un giorno il vino di Binago è un profumo dolce, tra il limone e la magnolia, quando sulla collina volano sciami d’api perché è fiorita la vite e sbocciano i primi grappoli. In quel meraviglioso giorno di maggio tutta Binago è un alveare… In certi anni non c’era tempo per soffermarsi ad annusare simili profumi perché c’è da spandere il verderame e dare lo zolfo. Hanno visto la peronospora e il bruco che di notte saliva il tralcio per divorarne le gemme. E allora vagano come fantasmi gli “uomini blu” gettando il veleno con il fazzoletto stretto tra i denti affinché il veleno non contamini anche loro. Invece una volta, quando spandevano il verderame, cantavano e bevevano direttamente dalla bottiglia senza nemmeno lavarsi la bocca perché il verde‐
rame era una medicina non solo per l’uva, ma ti guariva anche dai tagli che ti facevi col falcetto. Solo contro la tempesta non c’è rimedio. Quando tra San Giovanni e Sant’Anna, che segnano gran‐
dine, il cielo si oscura, la grossa nuvola nera orlata di bianco rotola e bolle. Allora qualcuno prende la pietra “sfolgorina” che ha trovato facendo lo scasso nella vigna, pensando che protegga contro il fulmine. Qualcun altro, invece, prende l’ulivo benedetto e accende il falò nell’aia… E le donne piangono. E i galli fanno lo stesso verso come quando vedono il falco. E s’alza d’improvviso il vento. E al primo tuono cade una grandine gelida che in cielo ha già rotto i voli degli storni e ucciso la rondine e il codirosso dal petto turchese. S’abbatte su vigne ancora calde di sole, tenute fino a quel momento come un bambino, nutrite, protette, cullate. Come un’immensa frusta distrugge il lavoro di un anno e anche di quello che viene. E ruscella un’acqua gelida dai solchi, trascinando grappoli, foglie, rami, veleno, ghiaccio. Qualcuno non ce la fa più: strappa le viti e ci mette granoturco. Qualcun altro, invece, le taglia filo terra affinché l’anno successivo rinascano e quello che verrà ancora diano nuovo frutto. L’ultima vendemmia fatta a Binago risale al 1971, quando nella vigna della Sciraga, proprietà di Sil‐
vano Cappello, s’andava a raccogliere l’uva per pigiarla direttamente nella sua cantina situata in un cortile dell’ex convento. Come si sa, affinché il mosto diventi vino, occorre un certo periodo di tempo, diciamo circa due mesi. Il Silvano non aspettava tanto tempo: ce lo faceva bere dopo appena quindici giorni. Ovvia‐
mente era d’un dolce quasi stucchevole, ma il Silvano Cappello, l’Achille Botta, l’Alberto Ughetta, l’Andrea Banchi, il Carlo Poletti e il sottoscritto lo bevevano con delizioso piacere, accompagnato dall’immancabile tagliere di salumi e sottaceti vari. Cominciava a diventare vino buono, come dicevamo, dopo circa due o tre mesi, e rimaneva ottimo per circa un mese. Poi, man mano, andava ad assomigliare sempre di più all’aceto e meno al vino. Noi, pian piano, smettevamo di berlo, ma il Silvano, imperterrito, se lo beveva fino all’ultima goccia. E quando tornano a crescere i funghi tra le radici della quercia e del castano, sono le barbere che sfilano trionfanti e vanno sotto nuvole chiare di ottobre per le vigne che si stanno tingendo dei colori stremati d’autunno, ma nel riverbero delle foglie che si stanno appassendo si notano trasparenze purpuree di vetri cattedrali. 3 Eccolo finalmente quel grappolo reciso dal tralcio, costato tanta fatica, scampato alle gelate d’aprile, alle muffe di settembre, conteso al bruco che di notte saliva il tralcio per divorarne il cuore, sfuggito alle insidie del ragnetto rosso, sottratto alla peronospora, liberato dalla gramigna, risparmiato dalla tempesta: adesso trabocca dalle gerle che fan la spola dalla cantina alla vigna, seguite da uno sciame di vespe. Quel fitto ronzare attorno ai racimoli densi di zucchero è il segno delle annate trionfali, quando nella piazzetta della pesa rimangono appiccicate sul rizzato chiazze di mosto e in fondo alla vigna i cacciatori trovano, nella cesta dimenticata, grappoli che paiono appena colti. S’aspetta una serena giornata di inizio dicembre, dopo la festa dell’Immacolata, quando c’è il venti‐
cello sottile che proviene dalla montagna, per fare il primo travaso di quello che ormai è diventato vino. I vulcani si stanno pian piano spegnendo, la fermentazione del mosto è terminata. Naturalmente è il patriarca colui che spilla dalla botte il primo bicchiere e lo porta verso la luce per contemplare quelle filigrane di porpora che solo il tempo arricchirà di rossi cinabri e fastosi rubini. In esplorazione al suo olfatto per sentire quei profumi che solo la sua terra gli sa dare, dove anche d’inverno matura il limone, quando per segrete alchimie nascoste sotterranee trasformeranno il ferro in viola, il magnesio in speziato, il boro non diventerà nient’altro che profumo di tabacco e il profumo di prugna, forse, deriverà dallo zinco… Di nuovo alza verso la luce quello che ormai è diventato un calice con il mignolo all’infuori come per le grandi occasioni, i fedeli astanti in liturgico silenzio stanno a guardare. Il patriarca ammicca con gli occhi: il profumo promette. Poi ne beve un poco, ma il suo, più che un bere, è un pensoso sciac‐
quio perché sta meditando alla fatica costata per fare questo vino, quando doveva alzarsi di notte perché la vacca partoriva il vitello e il figlio partito per militare non poteva dare una mano per far fieno e per i lavori nei campi. Finalmente il patriarca sorride. In un verbo racchiude il cuore di cento e mille poemi: c’è. E beve d’un fiato. Se vogliamo salvaguardare il nostro dialetto, dobbiamo purtroppo rivolgerci al vicino Canton Ticino, che lo fa imparare alle scuole elementari. Famosa la traduzione che un bambino dette quando la maestra chiese cosa significasse la parola “quadrèl”: il bambino rispose: «È un modo di nuotare che va verso il fondo». Un altro bambino, per tradurre “pincirö d’üga”, disse: «È mia mamma quando mi dice “Scòrla ben ul pincirö quan te fa la pipì”». Nella nostra memoria sono impresse non solo le parole, i silenzi, ma anche gli stupendi tramonti che abbiam sempre visto da piccolini; la memoria olfattiva che ci ricorda i profumi dei “scusà” delle nostre nonne, che avevano sentori di verdure, di sapone di Marsiglia, di “cervelé”, di erba tagliata. Si sa, vorremmo tanto abbandonare la tradizione, ma anche noi non ce la facciamo e – stiamo pur certi – queste storie insite in noi le vorremmo vivere anche ai nostri giorni. Con un’altra frase di Göethe terminiamo questo incontro: «Di fronte a tanta evidente superiorità, l’unica difesa possibile è l’amore». 4