Grazie! - Vicariatus Urbis

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Grazie! - Vicariatus Urbis
Poste Italiane S.p.A. Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 2 DCB - Roma
1-2/2009
Religione
Scuola
Città
R I V I S TA PE R L A S C U O L A D E L L A D I O C E S I D I RO M A
Grazie!
Religione Scuola Città
RIVISTA PER LA SCUOLA
DELLA DIOCESI DI ROMA
Anno XIII (2009) n. 1-2
Sommario
EDITORIALE
Filippo Morlacchi Grazie Don Manlio
3
di Giuseppe Forlai Il contributo di mons. Manlio Asta alla pastorale
6
Direttore responsabile
Angelo Zema
Direttore
Filippo Morlacchi
Consiglio di redazione
Carmine Brienza - Giuseppe Iovino
Alessandro Tarzia - Grazia Palma
Testa
Fotografie
scolastica e all’IRC
Manlio Asta IRC e catechesi.
Un’esperienza italiana di distinzione e complementarità
IdR romani Lettere e testimonianze
S. E. mons. Lorenzo Loppa «Educare con speranza»
12
16
24
Rosario Aurelio - Pina Pinci
Registrazione
MEETING DEGLI IDR - 23-25 APRILE 2009
Tribunale di Roma
Autorizzazione n. 137
del 11.04.1994
Vincenzo Annicchiarico Il Contributo dell’IRC all’educazione dei giovani
Progetto grafico e
impaginazione
Studio PardiniApostoliMaggi
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Via Idrovore della Magliana, 173
00148 Roma
Finito di stampare nel mese di
giugno 2009
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di stampa
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intestato a:
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Catechistico Vicariato di Roma
indicare la causale del versamento
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amministrazione
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00184 ROMA
tel. 06.69886178
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www.diocesidiroma.it/scuola
Card. Angelo Bagnasco L’insegnamento della religione cattolica oggi in Italia.
31
35
Continuità ed innovazione nel quadro
delle finalità della scuola
Mariastella Gelmini L’IRC, una risorsa per la scuola italiana
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TUTTA UN’ALTRA STORIA
Federico Corrubolo Tutto Gesù minuto per minuto
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RIPRESE & DETTAGLI
Andrea Monda Amistad di S. Spielberg (1997)
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LE OPERE E I GIORNI
a cura della Redazione Le opere e i giorni
a cura della Redazione Lettere per pensare
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67
A CLASSI APERTE
Massimiliano Ferragina Spezzettiamo… le nostre aspettative
e Caterina Basile Metodi e strategie di verifica e valutazione
71
NOTIZIE LEGALI E SINDACALI
Angelo Zappelli Tutti al voto (in ordine sparso)
77
DIARIO SCOLASTICO
Giuseppe Forlai Diario scolastico
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MATERIALI E DOCUMENTI
Card. Agostino Vallini
Card. Camillo Ruini
Benedetto XVI
Benedetto XVI
Card. Angelo Bagnasco
Educare con speranza
L’educazione è diventata un paradosso?
Discorso agli Idr italiani
Discorso alla 59ª Assemblea CEI
Prolusione alla 59ª Assemblea CEI
84
87
96
98
100
Editoriale
G
Grazie, don Manlio!
Quel pomeriggio del 22 gennaio scorso ha preso anche me un po’ alla
sprovvista. Mons. Asta – per me e per tanti altri semplicemente “don
Manlio” – ha accolto la richiesta del card. Vallini e, dopo oltre 17 anni di
servizio generoso e di dedizione assoluta al suo servizio, con libera e sofferta obbedienza ha lasciato l’ufficio scuola ed è diventato parroco. Quando,
verso la conclusione dell’incontro nell’Aula Magna dell’Università Lateranense, sua Eminenza ha annunciato la nuova nomina di don Manlio a
san Ponziano, l’assemblea degli IdR, radunata per la consegna della lettera «Educare con speranza», si è alzata tutta in piedi, scoppiando in un
applauso intenso e… perplesso. Sì, perplesso:
perché all’inizio – così almeno mi è parso –
più di qualcuno si è chiesto: ma come farà a
fare anche il parroco? A molti sembrava impossibile, infatti, che don Manlio potesse
abbandonare l’incarico di direttore dell’ufficio scuola. Poi gradualmente il dubbio si è
fatto consapevolezza, e la commozione di
don Manlio ha dissolto le incertezze: ci sarebbe stato un avvicendamento.
Sono passati alcuni mesi, e non posso far
altro che ripetere quanto ho detto quella sera: non c’è condizione migliore che essere il
secondo, quando il primo è bravo. Ormai tutta una serie di incombenze
che lui aveva voluto condividere con me ricadono direttamente sulle mie
spalle. Abbiamo lavorato bene insieme, credo davvero molto bene; per
usare una metafora ciclistica, che a don Manlio piacerà di sicuro, abbiamo lavorato in perfetto tandem. Tutti e due pedalavamo, e di buona lena; a lui però, che conosceva molto meglio di me i percorsi dell’IRC a Roma e in Italia, spettava la responsabilità e l’onere di guidare. E insieme
Grazie,
don Manlio
3
abbiamo percorso un bellissimo tratto di cammino, scoprendo panorami
per me nuovi e affascinanti, con salite faticose, discese in volata e piacevoli soste… Mi sono aggregato alla comitiva dell’ufficio – Pina, Grazia
Palma, Alessandro, Giuseppe – con gioiosa naturalezza; fin da subito
tutti e quattro mi hanno fatto sentire di casa, e l’indiscussa competenza
di don Manlio ci ha fatto lavorare con chiara definizione dei compiti e
sincera soddisfazione.
Basta. Non voglio cedere alla nostalgia. I legami sinceri non si sciolgono
per così poco, e don Manlio rimane per me non solo il maestro che mi ha
insegnato praticamente tutto quello che conosco del mondo della scuola e
dell’IRC, ma anche l’amico e il consigliere sul quale so di poter fare ancora affidamento, oltre che la figura di sacerdote “istituzionale” probabilmente più riuscita che io abbia conosciuto (sì: ho conosciuto parecchi preti santi che erano un po’ originali e carismatici; ma rappresentare l’istituzione e rimanere fino in fondo sacerdoti e uomini non è da tutti…). A
lui va il mio sincero “grazie”, unito – lo sento – a quello di tantissimi
IdR che hanno trovato in lui non solo un responsabile giusto, severo e autorevole, ma anche un padre dal cuore grande e un pastore sapiente. Grazie, don Manlio!
***
4
Il contributo e l’eredità di don Manlio alla chiesa di Roma è dunque il
primo argomento di questo numero di RSC. Don Giuseppe Forlai ne ricostruisce il pensiero proprio a partire dagli editoriali di questa rivista,
affinché la memoria del percorso compiuto non svanisca. Ma abbiamo
poi aggiunto anche una sorta di “epistolario” ideale tra don Manlio e gli
IdR romani: l’ultima lettera che il direttore dell’Ufficio scuola ha indirizzato a tutti loro e, come un dialogo immaginario, alcune testimonianze che delineano un frammento della sua figura.
Questo fascicolo dedica ampio spazio anche al grande evento ecclesiale
dello scorso 25 aprile: il Meeting degli IdR italiani con il Papa. Un breve
resoconto dell’incontro si trova nelle pagine di “Diario scolastico” (p. 82);
ma, quasi per render presenti anche i lettori che non hanno potuto partecipare, abbiamo voluto trascrivere una parte dei discorsi pronunciati in
quell’occasione. Invito tutti in particolar modo alla lettura della relazione del card. Bagnasco (pp. 35-43), che ripercorre con lucidità meticolosa
la storia dell’IRC in Italia, oltre – ovviamente – al discorso pronunciato
dal Santo Padre in Aula Paolo VI (pp. 96-98). Mi sembra senza dubbio
degna di nota anche la penetrante conferenza del card. Ruini sul «paradosso dell’educazione» (pp. 87-95): la Cei ha stabilito che gli orientamenti pastorali italiani per il decennio 2010-2020 si occupino della
questione educativa, e il comitato per il Progetto Culturale, presieduto
dal card. Ruini, ha iniziato da tempo a studiare questa tematica.
Le altre rubriche proseguono come di consueto: la riflessione sul Gesù storico e il ruolo delle tradizioni orali (F. Corrubolo), il film Amistad (A.
Monda), le strategia di verifica nella scuola primaria (Basile & Ferragina)… speriamo che tutto questo possa giovare agli IdR in cerca di aggiornamento professionale e di strumenti didattici.
Prima di chiudere, una parola di gratitudine va a don Rino Zucchero,
che ci ha fatto ridere e sorridere per qualche tempo con la rubrica “Insegnare IRC felici”, e soprattutto a Pasquale Troìa, che per tanti anni è
stato collaboratore stabile di RSC, e che speriamo in futuro possa contribuire ancora, anche se più saltuariamente, alla rivista.
Non mi resta che augurare a tutti gli IdR un’estate serena e riposante. Ci
diamo appuntamento per sabato 5 settembre presso il santuario del Divino
Amore: il card. Vallini presiederà l’eucaristia e ci spronerà a vivere un impegno sempre più generoso a servizio della scuola, degli alunni e della Chiesa.
Filippo Morlacchi
5
Il contributo di mons. Manlio Asta
alla pastorale scolastica e all’IRC
di Giuseppe Forlai
L’importanza di tali asserti è sottolineata e
Mi è stato chiesto di riassumere in quest’arannunciata dallo stesso don Manlio nel suo
ticolo il pensiero di Mons. Manlio Asta, diprimo editoriale del numero di settembrerettore dell’Ufficio Scuola dal 1991 fino al
ottobre 1991 dell’allora Romaierre, ove nelfebbraio di quest’anno, sull’insegnamento
dell’IRC utilizzando come fonte gli editoriale vesti di neo-Direttore dell’Ufficio mette
li apparsi sulla rivista
da subito le carte in
per la scuola della
tavola fissando i
Diocesi di Roma
punti della sua idea
Don Giuseppe Forlai cerca di rintracciare
(prima Romaierre e in
dell’IRC: una comdel
pensiero
di
don
Manlio
il
“fil
rouge”
prensione della scuoseguito Religione
sull’IRC a partire dagli editoriali da lui
la come «comunità
Scuola Città). Solitafirmati sulla rivista diocesana. Emergono,
mente questi testi
educante»; la confescome tratti distintivi, da un lato la necespresentano il contesionalità dell’IR; la
sità di un solido ancoraggio dell’IdR alla
nuto del fascicolo;
persona dell’IdR conon di rado, però, vi
me credente inserito
comunità cristiana, dall’altro la scelta delsono toccati problee inviato dalla cola confessionalità come risorsa positiva e
mi che riguardano la
munità ecclesiale e
non come limite all’azione educativa.
ragion d’essere stessa
figura professionaldell’IRC nella scuola
mente qualificata
italiana. Non si ha qui la pretesa della com(cfr Romaierre, 3/1993, pp. 25-35).
pletezza, bensì quella più semplice di mettere a tema i punti salienti di un magistero
a) L’appartenenza ecclesiale. L’insegnante
che definirei ‘autorevole’ in quanto frutto di
di RC non è un libero pensatore, ma un
quasi diciotto anni di impegno nella pastoservitore di quella verità che ha ricevuto
rale scolastica diocesana.
attraverso un’esperienza di fede fondante
e trasmissibile e gli studi teologici. LiEntriamo nel merito. Da una lettura trasverbertà e appartenenza debbono inconsale degli editoriali si evincono, a mio avvitrarsi nella persona dell’IdR senza schiso, alcuni punti chiave del pensiero di
zofrenie, falsi antagonismi o imbarazMons. Asta, ovvero:
zanti quanto parziali prese di posizione
• l’importanza dell’appartenenza ecclesiale
personali su alcune delle questioni più
dell’IdR;
calde. Il “noi” della fede che l’IdR dice
• la comprensione dell’IRC come azione
all’interno della sua comunità concreta
ecclesiale;
di appartenenza dovrebbe riflettersi sul
• l’identità confessionale dell’insegnamen“noi” valoriale e culturale (mai neutrale!)
to della religione come risorsa per la
che l’insegnante manifesta ai suoi alunni
scuola laica.
presentando la religione cattolica:
6
Codex Sangallensis 341, foglio 40: Crocifissione con Maria e Giovanni (vedi p. 102).
7
quando dice ‘noi’ (e lo deve dire!) intende lui e la comunità cristiana che
ha alle spalle. Questo schieramento di
principio, questa mancanza di neutralità, ricordiamocelo, non è un handicap ma una preziosa risorsa educativa
perché aiuta ogni alunno a mettersi in
una situazione più vera e più libera e
liberante davanti a insegnamento e insegnante (RSC, 2/1995, p. 2).
Ciò non vuol dire che l’IdR si ponga rispetto
al mondo della scuola in maniera frontale
bensì che è in grado di far trasparire la non
conflittualità tra scelte di fondo personali,
aderenza al mondo degli studenti e rispetto
delle regole scolastiche. Don Manlio suggerisce una tale integrazione lumeggiando una
triplice fedeltà:
Continuo, ed affermo che per un docente di religione la triplice fedeltà agli
studenti, alla scuola e alla Chiesa non
sarà neanche avvertita come onerosa
proprio nella misura in cui egli saprà
essere radicalmente fedele alla Chiesa e
ai suoi molteplici modi di prendersi
cura dell’uomo. Come ogni docente,
l’insegnante di religione è un operatore
culturale, e non può non preoccuparsi
della pastorale della cultura (Romaierre,
1/1992, p. 2).
b) L’IRC come azione ecclesiale. Altro asserto fondamentale per don Manlio è la necessità di contestualizzare l’insegnamento
della religione cattolica nella cornice di
una visione pastorale d’insieme. Tale contestualizzazione ha il duplice vantaggio di
rafforzare l’appartenenza dell’insegnante e
nel contempo di responsabilizzare la comunità ecclesiale sull’importanza del
mondo della scuola. Ad una mentalità di
nicchia, che delega la pastorale scolastica
8
ai soli organismi preposti, bisognerebbe
offrire l’opportunità di pensare alla scuola
e nella scuola come ambiente qualificato e
qualificante per una seria pastorale della
cultura. Così don Manlio, tra speranze e
un pizzico di rammarico:
Avvertire e vivere come impegno pastorale la presenza dei cristiani nella scuola
non vuol dire affatto occupazione indebita di uno spazio altrui, ma vuol dire prendere a cuore, da parte dei credenti, il momento formativo e culturale dei nostri ragazzi e dei nostri giovani,
offrendo un contributo specifico e altamente qualificato per la realizzazione
degli obiettivi specifici della scuola. Il
cammino è tutto da percorrere, giacché
nelle parrocchie generalmente la preoccupazione per la scuola è scarsa e non
ve ne è traccia sufficiente nella catechesi, nella predicazione, negli impegni
concreti della comunità, nella pastorale
giovanile (RSC, 2/2000, p. 3).
Il compito di incoraggiare e promuovere, anche senza tentennamenti, la convergenza dei
soggetti della pastorale è soprattutto demandato a chi è preposto alla custodia del fondamentale sguardo d’insieme:
È compito di chi sovrintende ai vari
progetti pastorali controllare che i
molteplici interventi ecclesiali sugli
stessi soggetti non si elidano a vicenda
né si sovrappongano, e prestare attenzione perché i loro effetti si sommino
tra di loro (siano complementari), portando il loro particolare contributo alla missione della Chiesa di evangelizzare (Romaierre, 2/1992, p. 2).
Naturalmente, così ci sembra di capire, il riferimento ai “vari progetti” rimanda alla pasto-
Aula Magna della PUL, 22
gennaio 2009: il card. Vallini
presenta la Lettera sull’educazione e annuncia il nuovo ministero di don Manlio.
rale giovanile parrocchiale e diocesana, alla
catechesi e naturalmente alla pastorale scolastica. È tempo, sembra voler dire don Manlio
(nel contesto della nota descrizione del rapporto IRC – catechesi come “distinti e complementari”), di porre l’attenzione sulla complementarietà senza dimenticare le legittime e
doverose distinzioni. Una complementarietà
che non è certo invito alla confusione metodologica e che andrebbe declinata in maniera
più esistenziale come con-partecipazione della
comunità tutta ad una responsabilità educativa ineludibile.
c) La “C” dell’IR, ovvero: l’identità confessionale. È questo il cavallo di battaglia di
don Manlio: vi ritorna spesso e con forza.
Più che un tema tra i tre quest’ultimo
sembra quasi la trama di fondo di un modo di intendere complessivamente la propria azione di direzione e coordinamento.
La tesi di fondo è nota, oltre che confortata dall’esperienza: solo un insegnamento
confessionale educa realmente; solo un insegnamento confessionale suscita l’interesse
degli studenti. Ciò posto, è evidente che
don Manlio non caldeggi un insegnamento della religione ridotto a mera “fenomenologia comparata”:
Un IRC debole, diluito, assestato su
posizioni neutrali o vagamente culturali e cognitiviste, tradirebbe la sua natura più autentica. Nessuna disciplina
può essere proposta in questo modo
senza tradire le finalità stesse della
scuola (Romaierre, 2/1992, supplemento, p. 1).
Limitarsi a fare una ‘storia delle religioni’ potrebbe condurre a presentare
il cristianesimo come un relitto del
passato, una serie di ‘ricordi di famiglia’ utili al massimo per consolidare –
o viceversa per contestare – un’identità
culturale sempre più appannata (RSC,
1/2006, pp. 6-7).
9
Don Manlio promette
fedeltà al suo impegno
pastorale davanti al cardinale Vicario durante la
celebrazione di inizio
ministero presso la parrocchia di San Ponziano.
Una sottolineatura è necessaria: non solo un
insegnamento della religione ‘neutrale’ non
corrisponde alla stratificazione storico-culturale del nostro paese e alla presenza diffusa
della comunità cristiana, ma non si porrebbe
nemmeno in sintonia con le finalità stesse
della scuola, che sono quelle di trasmettere
delle conoscenze e competenze abilitanti ad
un vivere la cittadinanza in maniera non
astratta ma vitale. Insomma, un IR non confessionale non rispecchierebbe il vissuto sociale e
non abiliterebbe, di conseguenza, ad interpretarlo. Un IR neutrale sarebbe legittimo solo
in una società neutrale: ma quest’ultima non
esiste, come non esistono insegnanti che prescindano dalla loro esperienza e da un seppur
taciuto indirizzo di pensiero. La scuola, sembra chiedersi don Manlio, potrebbe permettersi una lacuna del genere?
Naturalmente non viene qui postulata una
confessionalità dell’IR chiusa e impenetrabile,
bensì un modo di porgere il vissuto della comunità cattolica nella sua incidenza culturale
e nella capacità di promuovere un’identità accogliente. Presente nella scuola laica, cioè
aperta ai valori plurali sottesi al declinarsi della cittadinanza, l’IRC che don Manlio delinea
può fare un vero servizio solo se si emancipa
dalla vischiosità di un “meticciato culturale”,
invero più gridato e propagandato da alcuni
10
che reale, fornendo criteri di valutazione e riscontri culturali radicati nella storia.
Ci piace concludere con una citazione di don
Manlio particolarmente simpatica e velata di
un moderato ottimismo, in cui ci invita a
non chiuderci in posizioni difensive o nel disfattismo, e a promuovere un insegnamento
al contempo consapevole della sua particolarità e fedele al mondo della scuola:
Chi mi conosce sa che ho contestato la
moda di omologare l’IRC totalmente
alle altre discipline scolastiche, ma anche che ho avuto sempre la preoccupazione di mostrare che esso doveva inserirsi pienamente nel progetto della
scuola; ho considerato sciocca la posizione di chi rifiutava per l’IRC il compito di dover proporre in modo serio i
valori del cattolicesimo… ma anche
quella di chi prevedeva per l’IRC quasi
un cammino indipendente e autonomo
all’interno della scuola di tutti: in questo caso, si accetterebbe di stare in una
sorta di riserva. E la storia ci insegna
che nelle riserve indiane ci si sta in attesa di estinguersi (RSC, 4/2003, p. 3).
Per ora la ‘riserva indiana’ è lontana. Sicuramente anche grazie a don Manlio.
Codex Sangallensis 341, foglio 59, Natività (vedi p. 102).
11
IRC e catechesi.
Un’esperienza italiana di distinzione e complementarità
Manlio Asta
Parlo di un’esperienza italiana, perché il rifecare mediante l’accesso alla cultura. Si tratta
rimento sarà sopratdi una formula moltutto a documenti e
to generica ed elastiRiproduciamo una sintesi schematica delinsegnamenti della
ca, perché il concetto
l’intervento pronunciato da mons. Manlio
Diocesi di Roma.
di cultura può camAsta
il
4
maggio
scorso
presso
la
sede
del
Anche quando saranbiare nel tempo. È
Consiglio Europeo a Strasburgo, in occasiono citati interventi
indispensabile che
ne della presentazione della ricerca “IR in
del Papa, preciso che
l’IRC faccia proprie
Europa” (vedi p. 55). I delegati delle disi tratta di pronunle finalità della scuoverse
conferenze
episcopali,
riuniti
in
asciamenti espressi in
la, per evitare che sia
semblea per presentare i risultati della riqualità di vescovo
soltanto collocato ficerca ai rappresentanti del Consiglio, handiocesano: Giovanni
sicamente nella scuono voluto approfondire i risultati del lavoPaolo II ha coniato la
la, completamente
ro
svolto,
avanzando
alcune
ipotesi
per
formula di «IRC diisolato dalle altre diuna migliore interazione tra insegnamento
stinto e complemenscipline. Se l’IRC
tare dalla catechesi»
non riuscisse a entrascolastico e catechesi. Sono state presentate
in un’allocuzione al
re in dialogo con le
le esperienze di Italia, Germania, Irlanda
clero romano fatta in
altre discipline scolae Polonia; mons. Asta ha focalizzato nella
occasione di una trastiche, e fosse totalformula della “distinzione e complementadizionale udienza di
mente autonomo, sarità” lo specifico dell’esperienza italiana,
inizio Quaresima
rebbe solo “ospitato”
suggerendo anche alcune proposte operative
(1981); Benedetto
nella scuola, collocasviluppate a Roma e Milano.
XVI ha usato l’eto in una sorta di
spressione di «emergenza educativa» in un
ghetto o di riserva indiana, in cui si è posti
in attesa di scomparire.
discorso al Convegno diocesano del 2007.
La finalità della catechesi è quella di condurre
alla mentalità di fede. E non si giunge alla
1. Alcune premesse: distinto e com- mentalità di fede, alla capacità di vedere al
plementare, quindi né confuso né realtà come la vede Cristo, senza una robusta cultura. Anche la catechesi fa cultura, ma
separato
vuole interagire soprattutto con le altre attività ecclesiali (liturgia, preghiera, vita moraA) Per evitare la confusione, è necessario aver
le) più che con le discipline scolastiche.
chiaro qual è la finalità dell’IRC e della cateQualcuno ha detto che prima dell’accordo
chesi; per l’IRC, la sua specificità deriva dal
di revisione del Concordato del 1984 la
suo inserimento nella scuola, con la inevitaconfusione tra IRC e catechesi era generalizbile necessità che deve far propria la carattezata, proprio perché vigeva la formula del
ristica fondamentale della scuola, cioè edu12
1930 secondo cui l’IR è “fondamento e coronamento” dell’istruzione; faccio notare
che il problema nasce da una idea di scuola
che accetta e vuole la catechesi in ambito
scolastico, più che di una difficoltà della
Chiesa a tener distinta la catechesi.
B) Per evitare la separazione, è necessario ricordare sempre che insegnare una religione è
anche esercizio della libertà di religione; pertanto logicamente per la Chiesa l’IRC rientra nel ministero della Parola. Gli insegnanti
di religione devono aver coscienza di essere
operatori pastorali, professionisti impegnati
a una triplice fedeltà nei confronti di chi si
affida alla loro competenza: non solo gli studenti e la scuola, ma anche la Chiesa stessa.
Sotto questo aspetto, la situazione italiana in
cui la quasi totalità dei docenti di religione
insegna solo religione, è particolarmente positiva.
Va anche ricordato che l’IRC ha alle sue
spalle non solo lo spessore scientifico delle
discipline accademiche di riferimento, ma
anche la comunità cristiana che cerca di vivere quanto lui insegna. Per l’IdR, vivere la comunione ecclesiale in modo pieno fa parte
della sua professionalità.
2. Alcuni possibili modi di realizzare
la complementarità tra IR e catechesi
Un primo possibile modo è quello di affidare la complementarità al soggetto cui sia
l’IRC che la catechesi si rivolgono. In effetti,
nel discorso del 1981 Giovanni Paolo II sottolinea che identico è il soggetto e identico
il contenuto oggettivo, pur con modalità
differente. È il destinatario dell’IR e della
catechesi che, con il suo lavoro personale,
può far sì che l’IR sia una «qualificata premessa alla catechesi» o «una riflessione ulteriore sui contenuti di catechesi ormai acquisiti». Per questa forma di complementarità,
grande attenzione deve essere rivolta ai documenti prescrittivi, e cioè – nell’esperienza
italiana – ai programmi scolastici e ai catechismi nazionali.
In questo contesto, voglio ricordare che nella stagione di attuazione del nuovo IRC dopo l’accordo del 1984, fu il medesimo organismo, l’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI, a curare praticamente in contemporanea la redazione dei nuovi programmi di
religione e la revisione dei catechismi nazionali. Direttore di quell’ufficio era mons. Cesare Nosiglia, ora Vescovo di Vicenza, il quale, come responsabile nella CEEE, ha dato
buon impulso alla ricerca sull’IR in Europa.
Un altro possibile e più stringente modo di
realizzare la complementarità è il coordinamento tra catechisti e insegnanti di religione.
Si tratta soprattutto di conoscere reciprocamente i rispettivi itinerari, per evitare le tensioni e le ripetizioni, ma anche per avvantaggiarsi dell’azione reciproca.
Poiché gli insiemi non coincidono, dato
che l’IRC normalmente riesce a raggiungere un numero maggiore di persone che la
catechesi, e – almeno a Roma – l’IRC precede (può iniziare a tre anni, mentre la catechesi inizia nel migliore dei casi a sei anni, ma più spesso solo a otto), è più ampio
in orario e prosegue anche quando la catechesi che si realizza nelle parrocchie coinvolge un numero esiguo di ragazzi, il criterio che in più di una occasione ho suggerito è quello di «valorizzare gli esiti dell’IRC
nella catechesi», proprio perché la catechesi, più che concentrarsi sulla dimensione
cognitiva, possa curare le dimensioni affettive (per il Signore), di abilitazione al culto,
di vita cristiana. Anche in questo modo, si
può contrastare il rischio del cognitivismo.
L’attuale cardinale Vicario, Agostino Vallini, ha recentemente scritto una Lettera agli
educatori scolastici, al cui interno ha invita13
I parenti di don Manlio
alla S. Messa di ingresso a
S. Ponziano (in primo
piano, la mamma).
to gli Insegnanti di religione ad «attivare
collaborazioni con le comunità cristiane del
territorio e con le parrocchie». Gli strumenti per facilitare questo coordinamento
sono, nell’esperienza romana, l’invio ai parroci dell’elenco degli insegnanti di religione
nelle scuole del territorio parrocchiale e la
successiva organizzazione di riunioni comuni tra IdR e catechisti, proprio per divenire consapevoli di ciò che gli uni e gli altri
realizzano con i loro ragazzi.
In questo modo, la complementarità si realizza non solo nel soggetto, ma è anche presente
intenzionalmente nel progetto pastorale dei
fanciulli e dei ragazzi fatto dalle parrocchie.
È possibile (ed alcuni già lo fanno) far sì che
la complementarità tra IRC e catechesi diventi occasione per realizzare una vera alleanza educativa tra Chiesa e scuola. Si tratta
di una possibilità aperta dalla “autonomia
delle istituzioni scolastiche”, per cui le scuole non sono più un “instrumentum regni” del
governo, né un ufficio periferico dello Stato,
ma una indispensabile ed essenziale funzione di un territorio. In questo contesto, è
quasi inevitabile che tra scuola e Chiesa si
14
realizzi una forma di necessaria collaborazione (il cui caso più evidente è proprio l’IRC);
la consapevolezza che Chiesa e scuola sono
al servizio della crescita umana e spirituale
delle nuove generazioni può dar luogo a una
vera integrazione tra iniziative ecclesiali e
scolastiche.
Alcune possibili figure di alleanza educativa
tra scuola e Chiesa sono:
- l’offerta di progetti da parte della chiesa
locale alla scuola, perché siano inseriti
nel c.d. POF (piano dell’offerta formativa);
- il coinvolgimento delle parrocchie nell’elaborazione del progetto educativo della
scuola;
- la realizzazione di progetti pensati insieme da varie “agenzie educative” presenti
in quel territorio (in alcune zone della
diocesi di Milano, sono stati fatti dei
«patti di corresponsabilità educativa», in
cui sono coinvolte scuole e parrocchie,
per prevenire il c.d. bullismo).
In questi casi, la “alleanza” non è più tra
IRC e catechesi, ma tra progetto educativo
della scuola e progetto pastorale per le nuove
generazioni della Chiesa locale.
Codex Sangallensis 341, foglio 217: La Pentecoste (vedi p. 103).
15
Lettere e testimonianze
Oltre 600 IdR erano presenti nell’Aula Magna della Pontificia Università Lateranense il 22 gennaio 2009, quando il card. Vicario Agostino Vallini ha consegnato alla Diocesi di Roma la Lettera Educare con speranza e ha comunicato la nomina di mons. Asta a parroco. Dopo oltre 17
anni di appassionato servizio, don Manlio ha lasciato l’incarico di Direttore dell’Ufficio per la
Pastorale Scolastica e l’IRC per assumere una diversa responsabilità pastorale nella Chiesa di Roma; lo ha fatto con sincera obbedienza e manifesta commozione, come tutti i presenti ben ricordano. Riportiamo in primo luogo la lettera che egli stesso ha voluto inviare a tutti gli IdR di Roma come saluto e congedo: vi si legge tutto il suo affetto per gli insegnanti e per il mondo della
scuola. La memoria è preziosa, perché consente di comprendere meglio la portata degli avvenimenti e di discernere il disegno, a volte misterioso, della Provvidenza. Seguono alcune brevi testimonianze, lettere, riflessioni più discorsive… tanti piccoli riflessi di un volto familiare. Li presentiamo ai lettori nella consapevolezza che nessun ritratto può esprimere pienamente la persona,
ma che ognuno ne coglie un diverso profilo.
Ad ogni insegnante di religione
cattolica della Diocesi di Roma
Roma, 22 gennaio 2009
Carissimi,
questa è la mia ultima lettera come Direttore dell’Ufficio, perché ho accettato la richiesta del Cardinale Vicario di diventare il parroco di San Ponziano a Talenti, e quindi di
lasciare, dopo 17 anni e 4 mesi, il mio incarico di Direttore dell’Ufficio per la pastorale
scolastica e l’IRC della Diocesi.
Ovviamente, si tratta per me di un distacco
doloroso, anche perché ho vissuto da prete
l’incarico, con il primo compito di voler bene a tutte le persone che in un certo senso
mi erano affidate: gli insegnanti di religione,
i loro alunni, gli altri componenti delle comunità scolastiche… Spesso mi sono detto
che se non avessi provato dolore nel lasciare
i vari servizi ecclesiali che nel tempo mi sono stati affidati, sarebbe stato un chiaro segnale di aver mancato al compito fondamentale di ogni cristiano: quello di amare!
Grazie a Dio, soffro andandomene.
A ognuno di voi voglio confidare che in
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questi anni ogni domenica ed ogni festa ho
celebrato la santa messa «applicandola» per
gli insegnanti di religione, proprio come
ogni parroco tenuto dal diritto a celebrare
«pro populo», per i suoi parrocchiani. Se ho
uno scrupolo, è quello di non essere stato
sufficientemente vicino a chi ha subito lutti
o è stato malato.
Voglio anche assicurarvi che mi sono impegnato a conoscervi e ad avere presenti le vostre situazioni e i vostri desideri. Fino a pochi
anni fa, finite le nomine degli insegnanti, ho
stampato l’annuario e l’ho letto per verificare
se mi ricordavo di ognuno di voi, personalmente. Confesso che in genere, leggendo i
dati dell’annuario, mi sfuggiva il volto solo
di una decina di persone ogni anno, e ovviamente cercavo subito di porre riparo.
Con serena coscienza, oso dire che nelle decisioni che hanno riguardato le persone non ho
mai fatto scelte che non fossero ispirate dal
criterio di ciò che era bene per la Diocesi e per
quel concreto insegnante. Spero che ognuno
di voi possa darmene atto, comprese quelle
quattro o cinque persone che si sono sentite
ingiustamente danneggiate da mie decisioni.
Alcune volte decidere è faticoso e doloroso.
Lascio questo incarico con la certezza di
avervi dedicato le mie migliori risorse
(quanto meno per ragioni anagrafiche, visto che l’ho coperto dai 38 ai 55 anni), ma
anche di essere riuscito nel compito che mi
ero prefisso quando ho cominciato. Sono
andato a rileggermi i miei primi editoriali.
Ho trovato una conferma a una considerazione del mio primo parroco da novello sacerdote: «un uomo di pensiero può prendersi il lusso di cambiare di frequente idea.
Un uomo d’azione deve avere un’idea e
portarla avanti con molta continuità». Io
mi ritengo più uomo d’azione che di pensiero. Volevo trasmettere agli insegnanti di
religione l’idea che la confessionalità dell’IRC era e rimane la migliore soluzione
proprio per la scuola di uno stato laico
(non laicista) e non una situazione transitoria; che l’IRC doveva comprendersi sempre
di più come un’azione ecclesiale; che la storica formula di Giovanni Paolo II dell’IRC
«distinto e complementare» rispetto alla catechesi doveva passare dalla sottolineatura
della distinzione alla piena comprensione
della complementarità. Penso di aver dato
un mio apporto personale per l’avvicinamento a questa consapevolezza diffusa di
tutti questi punti.
Per i prossimi anni, vorrei affidarvi ancora il
compito di rendere sempre più tutti consapevoli del contributo decisivo che l’IRC dà
alla scuola, soprattutto per alcuni aspetti che
meno erano presenti 20 anni fa e che ora sono particolarmente richiesti. Mi riferisco soprattutto al duplice impegno di far maturare
in ogni alunno un’identità accogliente, e di
educare alla passione per la verità: proprio
perché è inevitabile per ogni IdR porre la
questione della verità del Vangelo di Gesù
Cristo, nella matura coscienza di sé e nel
confronto aperto e costruttivo.
Oltre alle decisioni sulle persone, ci sono
state anche le scelte circa l’organizzazione
Il sorriso della gratitudine per tutti gli IdR.
dell’Ufficio e il modello di selezione e formazione dei nuovi insegnanti. Anche in
questo caso, ritengo che il modello impostato nei primi anni di direzione e nel tempo
sempre più cesellato (selettiva prova iniziale,
accompagnamento con il confronto professionale guidato da un tutor per i primi anni
di incarico) si sia dimostrato vincente. Lo
dimostra il fatto che nel tempo più di una
diocesi lo abbia fatto suo.
Un’ultima parola circa i miei preziosi collaboratori. Praticamente tutti sono stati insegnanti di religione prima di entrare in
Ufficio. È stata una caratteristica da me
voluta, che ha permesso di creare un clima
particolarmente cordiale, che tanti hanno
riconosciuto veramente accogliente. A
ognuno di loro: Pina, Grazia Palma, Alessandro, Giuseppe (è l’ordine con cui sono
stati assunti), il mio più caloroso e vivo
grazie.
L’ultimissima parola voglio dedicarla a don
Filippo, che il Cardinale ha nominato nuovo direttore dell’Ufficio. È stato un collaboratore leale, che è riuscito a supplire alcune
mie manchevolezze. Voglio prendermi il
vanto di averlo aiutato a comprendere come
si serve il Vangelo in questo Ufficio del Vicariato. Sarà un Direttore diverso da me, capace di cambiare ciò che è opportuno, per il
miglior servizio alla scuola e alla chiesa romana.
Ogni tanto, pregate per me
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Storia di incontri-scontri
di Alessandro Panizzoli
Conobbi don Manlio alla CEI, quando andai, con i coautori, a perorare la causa di
Universo di segni, il testo di IRC per la scuola media che ha attraversato un’epoca culturale. Fu uno scontro ma in punta di fioretto.
Non mi fece una buona impressione, soprattutto per le osservazioni che muoveva, in
modo poco convinto e contraddittorio.
La seconda volta fu al tradizionale incontro
di inizio d’anno degli IdR, settembre 1990,
nell’aula magna della PUL. Al tavolo c’erano
il card. Ruini, mons. Nosiglia e don Manlio.
Nessuna traccia di don Valentino. Fu subito
chiaro che Valentino si era preso una bella influenza, quella russa, che si cura o nei manicomi o, nel nostro caso, alla Biblioteca Vaticana. Lì stanno bene gli uomini d’azione! Alla
prima e unica occasione in cui fu citato, un
applauso da far tremare i muri si levò dalla
sala. Certe cose non si dimenticano. Don
Manlio fu l’unico a rimanere, per quasi tutto
l’incontro, con gli occhi bassi, quasi a scusarsi
di quella intromissione. I vecchi collaboratori
di don Valentino non furono rimossi e perciò
continuammo a frequentare l’ufficio, a occuparci del bollettino, dandogli l’attuale denominazione Religione scuola città e rinnovandolo nella veste grafica. Profondemmo anche
molte energie per organizzare i due convegni
a Pallanza, ’91 e ’92 – furono poi aboliti –,
invitando persone a noi gradite. Don Manlio
si rese disponibile, accettando le proposte.
Noi avevamo il timore che prima o poi arrivasse l’epurazione, che si scoprissero le carte e
l’insofferenza per quanto fatto fin allora. Ma
niente avvenne di tutto questo, se non nel
lungo termine, quando maturano più naturali ricambi di generazione e cambiano i lineamenti socio-culturali del Paese, delle nuove
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generazioni, delle circostanze politiche, degli
orientamenti pastorali. E quindi i cambiamenti di linea e di persona sono elaborazioni
culturali, e solo indirettamente possono sembrare siluramenti. Quelli erano gli anni in cui
anche nei libri di testo si cercava di far passare
il dettato legislativo per cui l’IRC concorreva
alla formazione dell’uomo e del cittadino e
faceva parte, essendone propulsore, del patrimonio storico, culturale e ideale del popolo
italiano. Tali testi, sponsorizzati dall’ufficio,
continuarono ad essere apprezzati e don
Manlio appoggiò le nuove edizioni in cui si
sosteneva culturalmente l’esigenza di sostenere il dialogo ecumenico e interreligioso con
adeguati nuclei tematici, senza la paura, che
lo aveva attanagliato prima, di fare sincretismo religioso. Se erano paure sue o di altri
non l’ho mai capito. Ho tuttavia avuto la netta impressione che, man mano che procedeva
nel suo lavoro egli maturasse convinzioni più
personali, maggior sicurezza nei giudizi e nelle decisioni e constatasse che la nostra collaborazione era sincera e le osservazioni critiche
erano fondate, non dettate da spirito di rivalsa o da intenzioni non rette.
Così arrivarono importanti novità, quali la
prova selettiva per gli aspiranti IdR, il tutor,
il graduale passaggio dalla differenziazione
alla complementarietà tra IRC e azione ecclesiale e catechesi, all’attenzione ai programmi d’insegnamento. Don Manlio prestò molta attenzione ai programmi. Nel
1995 l’Ufficio scuola pubblicò L’IRC nei curricoli della scuola secondaria superiore, sintesi
dei lavori di un gruppo di IdR che fin dal
’93 aveva lavorato alla stesura di programmi
della s.m.s. che avessero maggior aderenza ai
diversi contesti scolastici superiori, “ripen-
La preghiera di don Filippo per l’amico e il maestro…
sandoli insieme” non a prescindere dagli insegnanti, come don Manlio ebbe a dire e a
scrivere. Ricordo dal momento che ne ho
conservato il verbale, la riunione del
30.06.97 con il prof. Maragliano, responsabile della commissione ministeriale autorizzata dal ministro Berlinguer, ad elaborare
con l’ausilio di “saggi” nei vari campi del sapere, un documento “per la scuola italiana
nei prossimi decenni”. Condividemmo subito il disagio per la censura del sapere religioso. Don Manlio mi incaricò di redigere un
profilo dall’IRC atto a colmare la famosa lacuna. Lo feci con l’aiuto pochi altri. Il documento fu presentato ma la storia, nel frattempo aveva travolto il progetto di riforma
dei cicli scolastici. Condividemmo anche
molte perplessità sulle matrici progettuali
scaturite dal gruppo di lavoro voluto dalla
CEI sulla ipotesi di sperimentazione nazionale
sui programmi di religione cattolica nella prospettiva dell’autonomia scolastica e di nuovi
programmi lavoro, e concordammo anche
una nostra elaborazione di matrici per la
s.m. ad uso della diocesi di Roma.
Passavamo insieme molto tempo a parlare,
organizzare, tentare di precorrere e non solo
rincorrere le varie ipotesi di riforma che si
succedevano, sempre per dare spazio e visibilità all’IRC.
Avevo imparato a voler bene a don Manlio,
penso in modo ricambiato. E a non smettere
mai di parlargli francamente sulle questioni
comuni, come ad es. il criticare la sua scelta,
che rispondeva però ad una superiore disposizione – dalla distinzione alla complementarietà – di spendere tanto tempo ed energie
nel proporre incontri tra parrocchia e insegnanti di religione. Ho mantenuto buoni
rapporti anche quando ho appreso leggendo
RSC di essere stato estromesso dal gruppo di
redazione, senza una sola parola di spiegazione. Ho un solo rammarico: di non essere mai
andato con lui in bicicletta, nonostante, da
appassionato, me lo abbia chiesto molte volte. Devo a don Manlio un ringraziamento
particolare per avermi proposto, illo tempore,
come insegnante all’allora Istituto Caymari,
che è una cosa grande per me; e di avermi
sempre mostrato fiducia e apprezzamento.
Ciao don Manlio. A presto vederci e, chissà,
collaborare ancora!
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Nel segno della fiducia
di Maria Daniele
Mons. Manlio Asta ha sempre considerato
molto seriamente la sua relazione con la
Chiesa ed è sempre stato cosciente del suo
essere testimone di quella comunità ecclesiale a cui appartiene. Arrivato al Vicariato per
obbedienza diciotto anni fa circa, per obbedienza dal Vicariato è ripartito… senza tentennamenti, senza rimpianti, senza mezze
misure.
Certamente questo distacco non è stato per
lui né facile né indolore, ma se bruciasse
nell’amarezza una parte delle molte risorse
di cui dispone, commetterebbe un furto ai
danni del popolo a lui affidato e a cui, certamente, vuole offrire in modo integrale
quanto ha ricevuto dal Signore.
Educare tutti alla fede, cioè ad una relazione
autentica, libera e fedele con il Signore, ma
con il linguaggio più adatto per ciascuno,
per mettere tutti sulla strada verso Dio;
ognuno raggiunto, riconosciuto e toccato
proprio là dove più conta, dove più serve:
questo ha tenacemente voluto e cercato
mons. Manlio Asta nei suoi anni di servizio
al Vicariato, a cominciare dal mondo degli
alunni delle scuole, agli insegnanti, ai suoi
collaboratori. Ha insegnato che l’Amore è
più grande, più bello e più esigente della
Legge, che non esistono dubbi o domande
che non meritino risposta, che non bisogna
aver fretta di arrivare purché si continui a
camminare.
Si è sempre aperto ad un continuo confronto con i colleghi consapevole della necessità
e dell’importanza della partecipazione e
azione di tutti; ha perseguito il sogno di conoscere per nome tutti coloro che il Signore
gli aveva affidato; ha scommesso su questa
comunione e i risultati si sono visti.
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Esempio di fedeltà alle relazioni più semplici
e alla giustizia, convinto della valenza dell’attività di raccordo svolta dal Vicariato, basando ogni sua riflessione sul rispetto delle
cose e della vita per ricostruire relazioni, ha
saputo apprezzare e sostenere i doni e le ricchezze di cui il Signore ha fornito ogni suo
collaboratore tanto da rendere la sua opera
all’interno del Vicariato sempre più articolata ed efficace. È stato un onore lavorare insieme! Che il Fuoco così faticosamente acceso non abbia mai a spegnersi…
Ora il momento richiede di cercare il misterioso incontro tra nostalgia e desiderio, tra il
ricordo delle cose lasciate e la misteriosa ricerca del futuro. Abbiamo tanti motivi di fiducia. Don Filippo saprà portare una ventata di aria nuova, nuovo entusiasmo, nuovo
stile, nuova credibilità, nuove iniziative. E
quante porte si apriranno per coloro che saranno raggiunti e coinvolti! Ci accorgeremo
ben presto di quante varie e molteplici siano
le ricchezze della Chiesa e di quanto sia feconda la fantasia dello Spirito Santo, che
con la stupenda diversità dei Suoi doni realizza l’unico edificio di Dio.
O Israele di Dio, che dispieghi le tue tende
“su tutta Roma”, non temere! Il tuo Custode
non dorme. Veglia su di te, ti guida, ama i
tuoi bambini, conosce le tue pene, ti offre la
sua Parola, spezza per te il suo Corpo. È ancora capace di entusiasmare i tuoi giovani,
di consolare i tuoi afflitti, di perdonare i
tuoi peccati, di riempire il tuo futuro.
Un insolito ritorno
di Silvia Fusco
Da anni ormai non sono più un’insegnante di religione cattolica; raramente, con
una famiglia piuttosto movimentata da
“tenere a bada”, trovo il tempo per ripensare agli inizi della mia carriera d’insegnante.
Avevo appena vent’anni, un diploma magistrale conseguito da privatista fra tanti
altri impegni e degli studi teologici non
ancora conclusi, quando superai la prova
d’idoneità per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole materne ed
elementari della diocesi di Roma. Sostenni
il colloquio orale con don Manlio, il quale
– lo ricordo ancora anche se non nei particolari! – alla mia affermazione che il cristiano comune determinate questioni non
le comprende ma il teologo sì, sorrise paternamente, dicendomi che avevo già acquisito la prosopopea dei teologi!
Ho prestato con impegno e soddisfazione
il mio servizio in qualità di insegnante di
religione cattolica nelle scuole elementari
di Roma per due anni, quando, nel 2000,
fui ammessa alla SSIS (Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario)
del Veneto, per conseguire l’abilitazione
all’insegnamento delle lettere nella scuola
media e superiore.
Mi presentai allora in Vicariato per incontrare don Manlio e comunicargli il mio
imminente trasferimento, con il timore di
trovarmi di fronte un rifiuto o, comunque, un certo disappunto. Invece, mi
ascoltò senza proferire parola, poi, di scatto, si alzò, prese un foglio di carta intestata e scrisse una lettera di presentazione per
me destinata alla Curia di Verona. Mi
aiutò e mi sostenne, perciò, nel tracciare
quella che sentivo essere la mia strada, anche se mi avrebbe portato lontano dall’IRC.
Non ho mai saputo le parole che scrisse su
di me, ma, quel che è certo è che, pur
giunta ad ottobre inoltrato, ottenni immediatamente un incarico annuale nelle
scuole superiori della città.
Nello stesso anno, il 2003, in cui sono entrata in ruolo nella scuola superiore, sono
diventata la moglie di un insegnante di religione e non è mai mancata volta che non
abbia chiesto a lui mie notizie.
Oggi è parroco di una parrocchia a Talenti, vicinissimo a dove abito e lavoro; la
mia strada torna, inaspettatamente ed in
modo totalmente nuovo, forse in virtù di
un debito di gratitudine contratto in giovinezza ed ancora da estinguersi, ad incrociarsi con la sua; anzi, paradossalmente, lo
sento più prossimo e a portata di mano di
quando era a S. Giovanni!
Non so come se la caverà in questo nuovo
incarico, ma, certamente, non avrà paura,
pur talvolta con tormento e dispiacere, di
lasciar andare coloro che gli sono affidati
per la strada per la quale il Signore li chiama.
Molti andranno lontano da lui, ma – come è capitato a me – torneranno nei modi
più insoliti e sorprendenti ed io non potrò
non essere con lui nel condividere sia la
trepidazione dell’attesa sia la gioia dei ritorni.
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«O capitano, mio capitano…»
di Grazia Palma Testa
Quando don Manlio entrava in Ufficio la
mattina, lo faceva con passo largo e sicuro. Il
rimbombo sul pavimento di legno della nostra saletta di ingresso lo annunciava, nel silenzio dei telefoni ancora muti e nel corridoio ancora solitario di visitatori. Questo
passo ha dato inizio alle mie giornate per 15
anni. Per questo modo di camminare, sicuro
e forte, dal primo giorno ho chiamato don
Manlio: il Capitano della nave.
In tutti questi anni l’ho osservato lavorare
tanto, con passione, dedizione, competenza.
Integerrimo e appassionato della Verità, non
l’ho mai visto mischiarla, come si dice qui a
Roma.
Un uomo disordinato come pochi. La scrivania era la sede stabile del suo caos creativo.
Perché don Manlio è un uomo creativo, e
come tale poteva inventare le sue soluzioni
ai problemi, che quotidianamente si trovava
di fronte, solo avendo tutte le carte a portata
di mano, in un ordine preciso per lui, sparso
per me che dovevo, poi, ricomporre i documenti per archiviarli.
L’ha sempre caratterizzato uno stile personale molto sobrio, sempre alla ricerca di un altro punto di vista, oltre il suo.
Pur ricoprendo un ruolo di potere per tanti
anni, credo di poter dire che non si sia fatto
plasmare dal potere stesso. Un segnale chiaro me lo fornisce il suo comportamento in
Ufficio quando viene a trovarci. Si muove
tra noi e tra le cose, che sono rimaste tutte
come le ha lasciate (a parte l’ordine che è
notevolmente migliorato nella stanza del direttore!), senza attaccamento o nostalgia dei
vecchi tempi. So che continua ad esserci
amore per le persone e il lavoro, svolto con
tanta passione e competenza, ma non c’è attaccamento.
Ti ammiro per questo, don Manlio.
A me ha insegnato tutto quello che so del
mio lavoro.
Ti sono grata Capitano, mio Capitano.
Una lettera…
di Claudia Bertelli
Caro don Manlio,
in questi giorni non mi hanno voluto abbandonare i sentimenti di comunione e
commozione che abbiamo vissuto giovedì
sera [22 gennaio, n.d.r].
La cosa che mi ha colpito di più è stata la
sua dimostrazione di essere davvero un “uomo di Dio” che ha accettato la nuova nomi22
na nel “dolore”, ma anche nella fiducia e obbedienza. Sono certa che riuscirà a dedicarsi
ai suoi parrocchiani con lo stesso amore, entusiasmo e passione che ha riservato a noi in
questi anni.
La ringrazio per la fiducia che mi ha dato
fin dall’inizio del mio incarico (ero giovane e inesperta) e dell’attenzione che ha
sempre dimostrato per ogni persona e ogni
problema che si presentava (ho ammirato
molto anche la sua volontà di rendere il
suo lavoro il più oggettivo e trasparente
possibile).
Anche se negli ultimi anni la mia famiglia
(ora ho tre figli) e il mio lavoro mi hanno
“assorbita” completamente, riservando poco
spazio alle attività da lei proposte, ho sempre difeso e custodito la mia appartenenza
alla comunità degli IdR con desiderio di
condivisione e di crescita; ho solo il rammarico di avere dimostrato poco questi miei
pensieri e intenzioni.
Pregherò il Signore affinché l’accompagni in
questa nuova missione e la sostenga nei momenti di difficoltà.
La saluto con affetto con l’impegno di rincontrarci.
Claudia BERTELLI
Un Direttore di preghiera
di Raffaella Piazza
È con viva gratitudine che ricordo, come
IdR della scuola dell’infanzia comunale, l’operato di mons. Manlio Asta in questi anni
di suo servizio dirigenziale presso l’Ufficio
per la pastorale scolastica. Mi preme sottolineare la circostanza di far parte della scuola
comunale, perché la sfavorita categoria degli
insegnanti che ne fanno parte (è nota infatti
la nostra paradossale assenza di statuto giuridico) ha sentito concretamente la presenza
di un Direttore che in questi anni non si è
risparmiato nell’azione volta a ottenere per
noi sostanziali miglioramenti contrattuali,
affrontando quelle che immagino siano state non facili discussioni con organi politici
preposti al trattamento della nostra figura
professionale.
Personalmente ho sentito poi la compagnia di mons. Asta nelle numerose parole
affettuose, incoraggianti, mai paternalistiche rivolte alla nostra categoria durante le
varie riunioni.
Talvolta, quando si prospettavano momenti
difficili durante le giornate di lavoro e, poi,
mi accorgevo che molte cose si aggiustavano
straordinariamente da sé, ho pensato: «oggi
mons. Asta deve aver fatto una preghiera
per noi insegnanti». Adesso leggo la sua lettera di congedo dal ruolo di Direttore… e
ne ho conferma.
Don Manlio per me non è stato solo il direttore dell’ufficio scuola,
ma il pastore che accoglie nella Comunità ecclesiale. Grazie.
Danira Cataluffi
23
«Educare con speranza»
S. E. mons. Lorenzo Loppa
Premessa
1. La prospettiva di fondo:
lavorare “in rete”
“Gesù fissò lo sguardo su di lui e lo amò”
Per superare l’emergenza educativa si impone un lavoro “in rete”, cioè (detto con un
«Abbiamo bisogno di uomini
linguaggio teologico) un lavoro che nasca
che tengano lo sguardo dritto verso Dio,
dalla comunione tra soggetti educanti. Per far
imparando da lì la vera umanità…
ciò è necessario incentivare la comunione e
Soltanto attraverso uomini
la corresponsabilità all’interno della stessa
che sono toccati da Dio,
comunità cristiana per renderla luogo di
Dio può far ritorno presso gli uomini»
esperienza d’amore e di visibilità dello sguar(J. RATZINGER, L’Europa nella crisi delle culture,
do di Cristo. In tal modo si potrà creare una
conferenza offerta a Subiaco il 1° aprile 2005).
vera rete educativa le cui maglie fondamentali sono – evidentemente – la famiglia, la
L’aprire il discorso con una citazione bibliscuola e le altre agenzie educative, chiamate a
ca e con un inciso dell’allora Card. Ratzinincontrarsi grazie all’appello della comunità
ger vuole dettare
cristiana stessa.
l’urgenza di fondo
È bene ribadire che
della missione eduun tale lavoro di rete
cativa: quella di reS. E. mons. Lorenzo Loppa, vescovo incarinon deve essere properire educatori che
cato della commissione regionale del Lazio
mosso per motivi
si dicano tali perché
per l’educazione, la scuola e l’università, ilmeramente funzionaraggiunti dallo sguarlustra il compito degli insegnanti cattolici:
li o pratici, ad esemdo di Dio, che nella
lasciarsi illuminare dallo sguardo di Cristo
pio a causa della scarloro azione educativa
e farlo brillare nelle ore di lezione davanti
sità qualitativa e
restituiscano spessoagli occhi dei loro alunni. Non mancano le
quantitativa dei sogre e visibilità a quedifficoltà; ma questo è il tempo della semigetti preposti all’edusto sguardo. Solo
na, non del raccolto…
cazione; si educa in
questo sguardo conrete, cioè in comusente infatti di fornione, per un motivo
mare credenti non meramente ottimisti,
teologico ed ecclesiologico: la Chiesa è mima capaci di quella “grande speranza” (cfr
stero di comunione che scaturisce dalla TriBENEDETTO XVI, Spe salvi n. 27) che, in
nità. Non solo: la comunione come declinaquanto virtù teologale, trova nell’agire fezione ecclesiale della responsabilità trova le
dele di Dio il suo stabile motivo. Educare
sue motivazioni nel modo stesso che Dio ha
alla speranza, dunque, vuol dire in ultima
scelto per interloquire con gli uomini: non
analisi ritrovare in Cristo la certezza di un
individualmente e senza alcun legame tra locompimento non lasciato in balia degli
ro, ma costituendoli come popolo» (cfr Luumori della storia.
men Gentium, n. 9).
(Mc 10,21).
24
Ciò posto ci chiediamo: quale può essere il
contenuto di una missione educativa precipuamente rivolta ai ragazzi e ai giovani? Riprendiamo il n. 31 della costituzione conciliare Gaudium et Spes: «Si può pensare legittimamente che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci
di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza». Fa eco al Concilio il Cardinal Vallini nella sua lettera pastorale Educare con speranza: educare le giovani
generazione vuol dire offrire «le ragioni necessarie per affrontare responsabilmente e
con passione la vita». Ce n’è abbastanza per
riflettere: trasmettere alle nuove generazioni
la fede presuppone che i giovani siano aiutati a stare con sapienza nel mondo, a vivere
“bene” in questo mondo. Non si può educare portando in un altro mondo. Il Vangelo
va offerto come ermeneutica di questa vita
avendo come criterio il Cristo, sapienza incarnata nel mondo che consente al mondo
di trovare la trama segreta della sua ragion
d’essere. Gesù è il detentore di questa sapienza, il «Maestro buono» (cfr Mc 10,17)
che insegna a vivere e a scoprire il proprio
posto nella vita. Solo una educazione che si
incarna, senza illusioni o pretese, svela al
giovane la credibilità dei valori proposti.
2. Il ruolo essenziale del docente
cattolico
Nella compagine ecclesiale il docente cattolico è figura educativa essenziale per la sua
missione nel campo della scuola: egli esercita
quella rara e difficile forma di servizio che è
la carità culturale. La sua responsabilità educativa può essere descritta come compagnia
cordiale sulle strade della vita, tenendo davanti agli occhi l’episodio dei discepoli di
Emmaus (Lc 24,13-35).
Dio si rivela sempre come “Altro” rispetto al
suo popolo; una alterità, però, che non è distanza, ma prossimità. Di conseguenza chiama questo popolo a rendersi responsabile,
chiama ciascun membro della Chiesa a farsi
a sua volta prossimo di tutti, soprattutto
dello straniero o forestiero, del debole o del
povero… Dio stesso è il paradigma dell’umano come responsabilità: Egli ci insegna a
dare la priorità all’altro e non al nostro io, e
che la felicità non proviene dunque immediatamente dalla realizzazione dei nostri
progetti, ma prima di tutto dalla risposta al
bisogno altrui. Così si comporta infatti il
misterioso compagno dei due discepoli sulla
strada di Emmaus: prende l’iniziativa di accostarsi a loro, illumina e riscalda il loro
cuore triste con la sua presenza e la sua parola, ma insieme li rispetta, li lascia liberi e li
promuove nella loro autonomia. Un modello di compagnia cordiale e affidabile.
Per affrontare l’odierna emergenza culturale
il docente cattolico dovrebbe avere nella
propria bisaccia alcuni importanti strumenti:
- competenze e professionalità esemplari: capacità relazionali e comunicative sviluppate a tutti i livelli, non solo con gli studenti, ma anche con i colleghi; gusto della ricerca e attitudine alla formazione
continua; capacità progettuali, valutative,
di lettura critica su ciò che si muove nell’ambito culturale.
- solida speranza che proviene dalla fede
nell’adempimento delle promesse da
parte di Dio, senza temere l’apparente
smentita dei fatti. Speranza che diviene
pazienza operativa e non disfattista: la
pazienza del contadino (cfr Gc 5,7), che
anticipa nella carità il compimento della
storia. L’insegnante che sa sperare e attendere dimostra di essere un vero credente, e suscita così interesse per quanto
insegna grazie alla coerenza tra dottrina
e vita.
25
- comunione con la Chiesa a tutti i livelli: i
docenti cattolici sono chiamati costruire
rapporti di comunione di fiducia, a promuovere con il proprio modo di pensare
e di comunicare quella sintesi tra fede e
cultura tanto auspicata. Sono chiamati
ad essere uomini/donne della Chiesa nella scuola, e – inversamente –
uomini/donne della scuola nella Chiesa,
per costruire con la loro vita personale il
“ponte” tra comunità ecclesiale e comunità scolastica. Il loro è un vero e proprio
ministero di comunione: quello, da un
lato, di rendere visibile il servizio educativo che la Chiesa vuole offrire alle nuove
generazioni, e, dall’altro, quello di presentare le istanze reali dei ragazzi e dei
giovani alla comunità cristiana.
- grande passione educativa per coinvolgere
l’interesse e l’attenzione: “l’educazione è
cosa del cuore” diceva don Bosco. Educare con gli occhi “più vicini al cuore che
alla testa” e soprattutto più vicini al cuore di Dio! «L’autentica educazione… ha
bisogno anzitutto di quella vicinanza e di
quella fiducia che nascono dall’amore…
Ogni educatore sa che per educare deve
donare qualcosa di se stesso e che soltanto così può aiutare i suoi allievi a superare gli egoismi e a diventare a loro volta
capaci di autentico amore» (BENEDETTO
XVI, Lettera sull’educazione). Un tale atteggiamento di interesse e partecipazione
cordiale al cammino di crescita fiorisce
dalla stima e dal rispetto per il mistero
della persona e anche della sua diversità e
dalla fiducia nella santità della vita e nel
futuro. Spesso «alla radici della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita» (ivi). Educare con passione
vuol dire anche reagire contro la diffusione di una mentalità e una forma di cultura «che portano a dubitare del valore
della persona umana, del significato stes26
so della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita» (ivi).
Tutti siamo consapevoli delle tante difficoltà
che presenta oggi il lavoro nella scuola. Ebbene, bisogna imparare a convivere con questi problemi senza scoraggiarsi e senza lasciarsene schiacciare, senza abbandonarsi al
cinismo o al disfattismo («non vale la pena
darsi da fare, tanto non serve a nulla…»). Al
contrario, occorre reagire con un supplemento di preparazione e di qualità dell’insegnamento, confidando nella compagnia di
altri credenti che lavorano con zelo a servizio dell’uomo e di Dio.
3. Davanti all’emergenza educativa,
sempre insieme alla famiglia
L’“emergenza educativa” è legata a numerosi
fattori: il cambiamento sempre più accelerato
del mondo e, concretamente, della società; il
relativismo che rende oltremodo faticosa la
ricerca della verità; il consumismo e una falsa
e distruttiva esaltazione (o, meglio, profanazione) del corpo e della sessualità; la stanchezza delle agenzie educative tradizionali,
che sperimentano un progressivo cedimento
della loro alleanza…
Di conseguenza, sempre più spesso l’impegno educativo si accontenta di mirare alla
trasmissione di determinate abilità operative, svincolate da riferimenti di senso e assiologici, ritenuti troppo impegnativi e problematici; parallelamente, gli educatori cercano
di appagare le nuove generazioni con facili
gratificazioni e modelli di vita effimeri, abdicando al loro dovere di insegnare attraverso la fatica e lo sforzo graduale.
Mentre questo scenario si mette in mostra
sotto i nostri occhi dobbiamo anche constatare che le tre agenzie educative tradizionali (famiglia, scuola, comunità cristiana) non sono
più capaci come un tempo di affascinare e
conquistare i giovani. È sfuggito loro di mano
il primato in campo educativo e, con il primato, anche l’autorevolezza. È urgente restituire
a tali agenzie le cattedre e il ruolo che a loro
compete. Una ‘restituzione’ che diviene credibile solo se si ricolloca l’educare nell’alveo di
una concezione olistica della persona.
Tale impresa si potrà portare avanti solamente
restituendo alla famiglia il diritto nativo di educare le nuove generazioni: «I primi educatori
sono e saranno sempre i genitori» (Card. VALLINI, Lettera Educare con speranza). A seconda
del tipo di scuola – forse in quella dell’infanzia
e nella primaria sarà meno difficile – si può e
si deve tornare ad attuare un circolo virtuoso
tra famiglia, scuola e comunità cristiana che,
sempre nel rispetto delle proprie competenze,
possa portare all’educazione “integrale” «nel
rispetto della libertà e dell’orientamento dei
genitori» (ivi; cfr anche Gravissimum Educationis, n. 3: «I genitori… vanno pertanto considerati come i primi e i principali educatori… Questa loro funzione educativa è tanto
importante che, se manca, può difficilmente
essere supplita»). La grazia del matrimonio sacramentale è anche “grazia di educare”: una
grazia di stato che è conferita ai genitori perché ne facciano un uso responsabile.
4. Testimoni autentici e veri
per un cammino di speranza
Una Chiesa missionaria che vuol comunicare il Vangelo sui terreni del vissuto, perché il
Vangelo diventi cultura, non può trascurare
la scuola. È un anello forte nell’esercizio della speranza siete voi insegnanti cattolici, testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo. E
lo sarete nella misura in cui saprete raccogliere una triplice sfida:
di ordine personale, cioè l’impegno sincero e
costantemente rinnovato di tendere alla santità;
- di ordine pastorale, cioè l’assunzione di
una fattiva corresponsabilità educativa;
- di ordine culturale, cioè la fatica di elaborare un linguaggio capace di trasmettere
la verità evangelica in modo credibile e
comprensibile per l’oggi, ricordando che
l’“alfabeto” per dire il Vangelo è la vita di
tutti i giorni.
Le coordinate concettuali dell’assolvimento
di un tale compito sono dettagliatamente
fornite dal magistero di Benedetto XVI. Il
Santo Padre a Verona, e in altre occasioni,
ha indicato i due grandi assi portanti del suo
ministero:
- la centralità dell’amore di Dio che ci raggiunge personalmente e corporalmente
nell’Eucaristia (cfr Deus Caritas est del
2005 e Sacramentum Caritatis del 2007);
- il rapporto tra ragione e fede nella ricerca
del vero volto dell’uomo e nella ricerca
della verità, espresso dalla parola d’ordine
di «allargare gli spazi della razionalità
umana».
Quale, allora, alla luce di queste due coordinate, il compito che vi attende? Bisogna impegnarsi a dare spessore e visibilità allo
sguardo di Cristo a livello umano. Gesù ha
rivelato il Padre e compiuto le Scritture come uomo. Mentre compie le Scritture e rivela il Padre in quanto uomo, Gesù svolge la
funzione sapienziale e pedagogica di «insegnare a vivere in questo mondo» (cfr Tt
2,18). Insegnare a vivere è insegnare a credere! La “pratica di umanità” di Gesù è straordinaria. Egli evangelizza e chiama attraverso
incontri umanissimi in cui crea uno spazio
di libertà intorno a sé, consentendo a ciascun interlocutore di emergere come soggetto personale e di scoprire la propria dignità e
identità autentica. L’arte di incontrare le persone che i Vangeli attribuiscono a Gesù è un
vero e proprio magistero. Gesù personalizza
ogni incontro: si adatta alle situazioni, non
giudica mai le persone che ha di fronte (si
27
pensi all’adultera perdonata di Gv 8,1-11),
accetta di mettersi in discussione (vedi l’episodio della donna siro-fenicia di Mc 7,2530)… «L’autorevolezza… si acquista soprattutto con la coerenza della propria vita e con
il coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero. L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene» (BENEDETTO
XVI, Lettera sull’educazione, citato anche
nella Lettera del Card. Vallini). Le parole acquistano autorità e autorevolezza quando,
più che toccare la testa, arrivano a toccare il
cuore, come testimonia il citato racconto dei
discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35).
5. Il servizio educativo, un servizio
che abilita
Il compito educativo è svolto in modo autentico solamente se fa crescere, sviluppa autonomia e responsabilità, abilita a cavarsela
da sé e fa “camminare ogni alunno o alunna
con le proprie gambe” – come lo storpio sanato da Pietro presso la Porta Bella del tempio (cfr At 3,1ss). La vera “autorità” (auctoritas) è quella che rende l’altro “autore” (auctor) delle proprie azioni, e quella che fa crescere l’altro (auctor da augeo), sprigionandone le potenzialità nascoste. L’insegnante autorevole sviluppa nei suoi alunni il discernimento critico e la capacità di valutare personalmente le situazioni, potenzia la capacità
di dialogo e di collaborazione, educa alla padronanza sulla propria condotta, conduce a
saper stare con gli altri responsabilmente e
attivamente… La crescita personale degli
alunni, a cui egli mira, indirizza ciascuno a
compiere il passaggio costante e graduale
“dall’isolamento alla solitudine”, “dall’ostilità all’ospitalità”, “dall’illusione alla speranza”, “dal risentimento e dall’amarezza ad una
vita grata e gratuita” (J.H. Nouwen).
Ma educare è anche un servizio alla verità: la
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verità senza sconti su Dio, l’uomo, la vita
con il suo bagaglio di sofferenze e di gioie…
Insegna a comporre la fede e la ragione, l’umano e il divino, il naturale e il soprannaturale. Perché la vita è proprio una misteriosa
mescolanza di tutto questo, e riconoscere che
le cose stanno così è un servizio alla verità.
Educare significa anche svolgere un servizio
alla libertà: perché non esiste un’autentica libertà senza il rispetto delle regole e senza disciplina. Un servizio – quest’ultimo – tanto
delicato quanto urgente.
Questo molteplice compito educativo può
realizzarsi efficacemente solo nel contesto di
una sana laicità, che non implichi né chiusura alla Trascendenza né una falsa neutralità
rispetto a quei valori morali che sono alla
base di una formazione autentica della persona (amore alla vita, alla giustizia, alla verità… rispetto della legalità, del bene comune… apertura fiduciosa verso il futuro e la
vita nel suo insieme…). In sintesi, l’obiettivo dell’insegnante cattolico e di ogni vero
educatore è la piena promozione dell’alunno
in tutte le sue dimensioni personali: intelligenza, libertà, interiorità.
6. La scuola cattolica, espressione
organica della pastorale
È ben vero che «una speciale missione, in
questo ambito, spetta agli educatori che
operano nelle scuole cattoliche» (Card. Vallini, Lettera Educare con speranza).
Duplice è il contributo che le scuole cattoliche possono offrire all’educazione delle nuove generazioni. Da un lato, sono chiamate a
fornire ai ragazzi e ai giovani un apparato di
conoscenze che consenta loro di inserirsi
adeguatamente nel mondo del lavoro e nella
società. Soprattutto però sono chiamate a
presentare una visione del mondo solidamente orientata in senso cristiano. Si richie-
de per questo un progetto educativo dal
profilo ben definito, ispirato chiaramente ai
valori evangelici e sinceramente condiviso da
tutta la comunità educante.
Voglio ribadire perciò la necessità di consolidare l’identità ecclesiale della scuola cattolica.
Essa vive nel cuore della Chiesa, e della chiesa locale, come vero e proprio soggetto ecclesiale, che condivide la missione di «comunicare il Vangelo nel mondo che cambia», con
un lavoro educativo in cui si fondono in bella armonia non solo la fede e la cultura, ma
la fede, la cultura e la vita. Ogni scuola cattolica è chiamata ad essere luogo di esperienza ecclesiale, sentendosi parte organica dell’azione pastorale della comunità cristiana, e
non un “settore a parte”. Anzi, semmai si
tratta di uno spazio di evangelizzazione particolarmente prezioso e degno di attenzione.
7. Gli IdR, “uomini e donne
della sintesi”
Parlare onestamente del ruolo dell’IdR significa in primo luogo riconoscere i problemi
reali dell’«ora di religione», che – per dirla
con don Abbondio – è il classico vaso di
coccio tra vasi di ferro. Quali sono le difficoltà strutturali dell’IRC? Senza dubbio una
certa precarietà, dipendente dalle fluttuazioni delle motivazioni degli alunni, che ne
fanno un insegnamento in qualche modo
soggetto al “gradimento” degli studenti e
delle loro famiglie. Ma anche i contenuti disciplinari sono fonte di difficoltà: si tratta
infatti di contenuti assai impegnativi, che richiederebbero quindi un tempo più congruo
e disteso per essere approfonditi – sicuramente maggiore della singola oretta a settimana prevista nella secondaria.
C’è poi una difficoltà legata alla missione
specifica dell’IdR. Oltre alla testimonianza,
richiesta anche agli altri docenti cattolici,
sulle sue spalle incombe infatti il compito di
presentare in maniera articolata il messaggio
cristiano in modo che ne risalti la sua credibilità! Sarebbe incompleta un’educazione
che rimanesse muta davanti ai grandi problemi della vita e, soprattutto, davanti alla
sua dimensione religiosa. Non l’educazione
alla fede è infatti l’intento dell’IdR – ciò che
avviene piuttosto nel contesto ecclesiale della catechesi e della mistagogia – ma una
presentazione attenta e obiettiva della religione cattolica nel suo aspetto contenutistico, come contributo essenziale alla ricerca
della Verità che ogni persona cosciente e responsabile è chiamata a mettere in opera.
In tal modo l’IRC contribuisce anche, e non
è superfluo notarlo, a sviluppare personalità
ricche di interiorità, dotate di forza morale,
aperte ai valori civili della solidarietà, della
giustizia e della pace, capaci di fare un uso
maturo e responsabile della propria libertà…
Questa apertura a tutta l’esperienza umana,
compresa la dimensione interiore e spirituale,
è forse il cuore della missione educativa dell’IdR. Suo impegno precipuo è quello ricordare
alla scuola che non deve trascurare colpevolmente il mondo degli affetti e dei valori, ma è
chiamata a prestare adeguata attenzione anche alla dimensione più squisitamente “umana” e religiosa dell’esistenza. In tal modo
l’IRC contribuirà a plasmare una cultura entro la quale abbia un posto riconosciuto e rispettato anche la religione: per i fatti che interpreta, per i valori che indica, per l’apertura
alla Trascendenza verso cui orienta.
L’IRC è dunque sia una risorsa per la scuola,
di cui valorizza l’ampio orizzonte di professionalità, sia una espressione dell’impegno
della Chiesa per il mondo. Si pone così al
crocevia tra fede e cultura, vangelo e storia,
cercando di elaborare una visione sintetica
dell’esperienza umana. Ma ancora di più
ogni singolo IdR è chiamato a porsi davanti
agli alunni come modello di sintesi equili29
brata tra le diverse istante e dimensioni della
vita. In tal senso, la scelta di diventare IdR si
configura, più che come “professione”, come
una vera e propria “vocazione”: una vocazione nutrita di spiritualità cristiana, di appartenenza ecclesiale, di apostolato laicale, in
vista della formazione di personalità unificate attorno alla Verità.
Il profilo migliore della missione dell’IdR
ci viene forse fornita dall’apostolo Pietro:
«adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a rispondere a chiunque vi
domandi ragione della speranza che è in
voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e
rispetto, con una retta coscienza…» (1Pt
3,15-16). Questa è la sua missione, questa
la meta – ardua, ma possibile – del suo impegno.
Conclusioni
Chi sono dunque, o almeno chi dovrebbero
essere i docenti cattolici? Essenzialmente
maestri di sapienza e di vita: icone, certo
imperfette, ma non sbiadite, dell’unico
Maestro. Per questo si richiede un “supplemento d’anima”, per restituire slancio, speranza ed entusiasmo ai ragazzi di oggi, troppo spesso spenti o sfiduciati. Educare, cioè
dischiudere gli orizzonti del futuro, è il capolavoro della speranza.
Desidero concludere queste mie riflessioni
ricordando quanto ho scritto nella lettera
pastorale diffusa per lo scorso Natale: «A
noi, adulti nella fede, il compito e l’onore
di dare visibilità allo sguardo di Cristo,
senza perdersi in mugugni, lamenti e recriminazioni, senza indulgenza alle delusioni
e alle stanchezze! Perché non è tempo di
raccogliere, ma di seminare. Non è il momento di chiudere, ma di ricominciare
sempre, servendo la Parola, anche in tempi
difficili come i nostri». Se fosse tempo di
raccolta, ci sarebbe da disperarsi, anche – e
forse soprattutto – nel campo della scuola;
ma è tempo di seminare: allora, forza, con
l’aiuto di Dio!
Mons. Loppa pronuncia il suo intervento al Convegno dei docenti cattolici del Lazio (28 marzo 2009)
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Il Contributo dell’IRC
all’educazione dei giovani
di Vincenzo Annicchiarico
sciplina diventa espressione di una risorsa
Eminenza Rev.ma, Card. Angelo Bagnasco,
non solo per la Scuola, ma per l’intera SoIllustrissimo Ministro, Dott.ssa Mariastella
cietà, giacché va incontro ai bisogni culturali
Gelmini, Autorità, Relatori ed Esperti, cari
ed educativi degli
Responsabili diocesaalunni e delle loro fani IRC e Insegnanti
miglie, mostrando
di religione cattolica.
Il saluto di don Vincenzo Annicchiarico,
così un impegno
Sono lieto di dare il
Responsabile del Servizio Nazionale per
educativo per la piebenvenuto a ciascuno
l’IRC della CEI, ha aperto i lavori del
na realizzazione delin quest’evento storiCongresso
preparatorio
al
Meeting
degli
l’uomo.
co ed indimenticabiIdR (23-25 aprile 2009), ha presentato,
Durante l’anno paole, giacché culminerà
come una ouverture d’opera, i temi fondalino, nel bimillenario
nell’incontro del Sanmentali dell’evento: il riferimento paolino,
della nascita dell’Ato Padre Benedetto
l’appartenenza
ecclesiale,
la
dimensione
postolo, secondo una
XVI con gli Inseculturale dell’IRC, l’eccedenza dell’educamirabile intuizione
gnanti di religione
zione sull’istruzione, la confessionalità, la
del Santo Padre, abcattolica d’Italia. La
sintesi spirituale delle competenze.
biamo l’opportunità
nostra iniziativa viedi guardare a Paolo
ne realizzata dal Seranche come modello
vizio Nazionale per
per l’insegnante di religione cattolica, sol’IRC in collaborazione con il Servizio Naprattutto quando questo mostra la sua capazionale per il Progetto Culturale e si colloca
cità di dialogo con la cultura a lui contemnel contesto dell’anno paolino.
poranea e propone la forza interpretativa
della Parola di Dio rispetto all’esperienza reL’Apostolo Paolo modello di vita per ligiosa umana. Egli non nasconde la gioia
della sua appartenenza ecclesiale e la passiol’insegnante di religione cattolica
ne per l’uomo che in Cristo trova il suo orizzonte di senso.
Lo slogan del Meeting «Io non mi vergogno
L’insegnante di religione cattolica non è unidel Vangelo» (Rm 1,16) – L’Irc per una cultucamente un “professionista” della scuola, ma
ra a servizio dell’uomo, intende richiamare,
è anche un credente, espressione di quella
da una parte, la portata umana del Vangelo,
appartenenza ecclesiale che dice il suo huispiratore della civiltà dell’amore nell’attuale
contesto socio-culturale; dall’altra, l’IRC comus culturale e la sua passione educativa.
me disciplina scolastica a servizio della perNaturalmente, quando a scuola presenta
sona umana e della sua crescita integrale. La
Gesù di Nazareth lo fa dal punto di vista
cura e la competenza dell’insegnante di relistorico e culturale, utilizzando le metodologione cattolica nello svolgimento di tale digie e il linguaggio consoni alle finalità della
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Meeting degli IdR:
la cantante Tosca
Don Vincenzo Annicchiarico, responsabile nazionale IRC intervistato da Lorena Bianchetti
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scuola; allo stesso tempo, però, non nasconde di ritenere personalmente che in Gesù di
Nazareth si è rivelato pienamente il Figlio
del Dio Vivente: l’Insegnante di religione
cattolica è un uomo e una donna che crede a
quel Gesù di cui parla in modo storicamente
fondato, senza per questo imporre il proprio
credo ai suoi alunni.
Gli alunni potranno apprezzare questo stile
educativo, giacché è evidente, sanno con chi
hanno a che fare, ovvero con un insegnante
rispettoso degli altri e dei loro sistemi di significato, e allo stesso tempo trasparente circa il proprio “essere”.
L’IRC, come disciplina scolastica, aiuta a riflettere sul senso globale della vita e fa guardare con fiducia verso un’esistenza che si sviluppa in una prospettiva progettuale; soprattutto, oggi, questo è tanto più importante,
in un contesto generale di gravi preoccupazioni circa l’educazione.
Benedetto XVI, infatti, durante il IV Convegno ecclesiale di Verona (2006), ha sottolineato che l’educazione della persona è questione fondamentale e decisiva, per la quale
è necessario risvegliare il coraggio delle decisioni definitive1.
L’IRC, nella scuola, offre alle giovani generazioni la possibilità di conoscere la tradizione
culturale e spirituale in cui si innesta la loro
vita a prescindere dalla loro adesione di fede.
Consente di raggiungere competenze religiose attraverso la comprensione e l’interpretazione di molti aspetti socio-culturali, artistici, valoriali, i quali trovano il loro signifi-
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cato solo alla luce della tradizione cristianocattolica, che a sua volta ha segnato la storia
e ancora vive e opera diffusamente nella società di oggi.2
Come in ogni disciplina scolastica, gli obiettivi di apprendimento dell’IRC tracciano
un percorso fondamentale per raggiungere le
finalità formative della scuola. Appare ovvio,
allora che l’incontro con la religione non si
esplicita unicamente nella sola dimensione
cognitiva o informativa, infatti, queste si
possono trovare in qualsiasi enciclopedia o
dizionario. Allo stesso modo il comprendere
non si accontenta delle informazioni e delle
conoscenze, ma cerca di penetrare e cogliere
i valori e i significati, di cui la religione è
espressione manifesta e vissuta dalle persone
che credono nel Dio di Gesù Cristo.3
L’IRC per l’educazione dei giovani
Il contesto e l’orizzonte dell’IRC è certamente l’educazione.4
Se la persona umana, nel momento delicato
della sua crescita e del suo sviluppo, necessita di una speciale cura educativa, questa deve riguardare la persona, nelle sue molteplici
dimensioni che la riguardano, anche in
quella religiosa e spirituale. La proposta educativa dell’IRC consiste, quindi, nell’offrire
alle giovani generazioni, con modalità differenziate secondo la specifica fascia d’età, la
caratteristica risposta cristiano-cattolica in
relazione alla ricerca identitaria, alla vita re-
Cfr. BENEDETTO XVI, Rendete visibile il grande “si” della fede. Discorso al Convegno, in: Una speranza per l’Italia. Il Diario
di Verona, Supplemento ad Avvenire del 02.12.2006, p. 19.
Cfr C. ESPOSITO, Quella sorgente di vita che attraversa i secoli. Tradizione, in: Una speranza per l’Italia. Il Diario di Verona,
Supplemento ad Avvenire del 02.12.2006, p. 149.
Cfr CEI-SERVIZIO NAZIONALE PER L’IRC (a cura), Nella scuola a servizio della persona. La scelta per l’IRC, Leumann (TO)
2009, p. 10.
Cfr BENEDETTO XVI, Discorso per la consegna alla diocesi di Roma della Lettera sul compito urgente dell’educazione,
23.02.2008.
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lazionale, alle scelte valoriali, alla complessità della vita reale ed alle più radicali domande di senso, proponendo uno specchio
di confronto rispetto al quale la persona può
liberamente orientarsi e definirsi.
Anche la visione della scuola, sottesa alle Indicazioni Nazionali per il Curricolo, guarda
alla persona nella sua originalità; si legge infatti che «lo studente è posto al centro dell’azione educativa in tutti i suoi aspetti: cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici,
etici, spirituali, religiosi» 5. Nel delicato processo formativo della persona, sempre secondo le Indicazioni, è possibile porre le basi per
lo sviluppo di un’adesione consapevole a valori condivisi e di atteggiamenti cooperativi e
collaborativi che costituiscono la condizione
per praticare la convivenza civile.6
La recente ricerca sull’IR in Europa, nonostante vi sia un diverso rapporto tra lo Stato
e le singole denominazioni religiose, ha fatto
emergere come nella quasi totalità dei Paesi
membri la tendenza, espressa in molteplici
modi, sia quella di valorizzare la dimensione
confessionale dell’IR, perché nell’accezione
“confessionale” è implicito il concetto di appartenenza culturale e dunque dell’identità
di un popolo. 7
È inoltre acquisito da tempo, nel nostro
contesto, il concetto che l’insegnante di religione cattolica è “uomo/donna della sintesi”; egli è tale sul piano della mediazione
culturale e del servizio educativo, giacché
favorisce la sintesi tra fede e cultura, tra
Vangelo e storia, tra i bisogni degli alunni e
le loro aspirazioni profonde.8 La ricerca della sinergia sul territorio, a cui la scuola è
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chiamata e che investe ogni docente nella
sua responsabilità, per l’insegnante di religione cattolica significa creare ponti e alleanze educative tra comunità educante scolastica e comunità educante ecclesiale, promuovendo, dentro la scuola, progetti educativi rispettosi dell’integrale formazione
della persona umana.
L’insegnante di religione cattolica è un insegnante motivato da una forte spiritualità,
intesa anzitutto come vita cristiana (cfr Rm
1,6; 1Cor 1,24ss; 7,20; Gal 3,27), capace di
prendere sul serio la sintesi tra fede e cultura, Vangelo e storia. Si tratta di una spiritualità ricca di atteggiamenti evangelici e
profondamente umani, che aiutano l’insegnante a realizzarsi nella scuola con una specifica identità. Tale consapevolezza fonda la
padronanza di tutta una serie di competenze
che spaziano dalla competenza disciplinare,
didattica, progettuale e organizzativa, alla
competenza valutativo-formativa e comunicativo-relazionale.
Egli, è “testimone” della vita, non è estraneo
a nessuno, sa stare con gli altri, con gli alunni, con i genitori degli alunni, con i colleghi
perché con essi si confronta e riflette al fine
di migliorare le proprie competenze educative e metterle al servizio di ogni bambino,
fanciullo, ragazzo, giovane che incontra nella scuola. È dunque la vita che ci sta a cuore,
ad essa è finalizzato il nostro impegno perché tutti quelli che incontriamo possano viverla pienamente.
Con queste parole conclusive, Vi ringrazio
per l’attenzione e auguro a tutti un buon
Congresso!
Cfr MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE, Indicazioni per il curricolo, p. 43-44.
Ibid., p. 17.
Cfr CEI-SERVIZIO NAZIONALE PER L’IRC, L’Insegnamento della Religione risorsa per l’Europa. Atti della ricerca del CCEE,
Leumann (TO) 2008.
Cfr CEI, Insegnare Religione Cattolica oggi. Nota pastorale, Roma 1991, n. 23.
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L’insegnamento della religione
cattolica oggi in Italia.
Continuità ed innovazione nel quadro delle finalità della scuola
di S. Em. Card. Angelo Bagnasco
la Legge Casati (1859) prevedeva l’insegna“Io non mi vergogno del Vangelo”. È il titolo di
mento della religione nella scuola elementaquesto Meeting degli IdR che si celebra nelre, e poi la Riforma
l’anno Paolino e duGentile del 1923, che
rante il quale avremo
La lunga relazione del cardinale Presidente
gli assegnava un’iml’occasione di incondella
CEI
ha
riassunto
con
precisione
e
luportante collocaziotrare il Santo Padre,
cidità l’iter storico dell’IRC in Italia, dal
ne, ma sarà il Consuccessore di Pietro. È
Concordato lateranense, alla sua revisione,
cordato Lateranense
una forte “ambientaalla graduale evoluzione per essere sempre
del 1929 e poi la sua
zione ecclesiale” per
al
passo
con
i
tempi.
L’IRC
confessionale
modifica del 18 febun incontro nel quale
non è catechesi, perché «è chiamato a interbraio 1984 a dare sosiamo chiamati a ripretare la storia e a proporre orizzonti di
stanza alla storia delflettere sul contributo
senso» e contribuisce alla formazione intel’insegnamento della
della Chiesa italiana
grale
della
persona.
Garanzia
della
buona
Religione cattolica in
alla formazione delle
qualità dell’IRC è la cura costante da parte
Italia.
nuove generazioni, atdegli IdR per la propria professionalità, che
I due concordati
traverso l’Insegnadiviene così vera e propria testimonianza
hanno due prospettimento della religione
cristiana
nel
mondo
della
scuola.
ve differenti che pocattolica nella scuola.
tremmo riassumere
Un servizio, quello
così: il primo del 1929, ha la prospettiva di
dell’IRC, nel quale si realizza con passione
un insegnamento religioso obbligatorio,
l’impegno di tanti uomini e donne, insegnanti
considerato come «fondamento e coronamendi religione cattolica, in gran parte laici. Un
servizio che chiede professionalità specifiche e
to dell’istruzione pubblica» (art. 36); il seconche, per la Chiesa italiana, che cammina sulla
do, del 1984, contiene la proposta di un
strada tracciata dal Concilio Vaticano II, si
IRC curricolare, offerto a tutti, assicurato
configura come via proficua di collaborazione
«nel quadro delle finalità della scuola» (art.
con lo Stato «per la promozione dell’uomo e
9), con il diritto per gli studenti o i loro geper il bene del Paese», come recita l’Accordo di
nitori di scegliere se avvalersene o non avvarevisione del Concordato Lateranense (1984).
lersene.
L’IRC, secondo quest’ultima prospettiva si
caratterizza, come scrivono i Vescovi italiani
nella Nota del 1991, come «servizio educati1) Un insegnamento che viene
vo a favore delle nuove generazioni» e contrida lontano
buto alla crescita globale della persona, ofFin dall’inizio della storia del Regno d’Italia,
ferto a tutti, nella scuola di tutti.
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All'Accordo di revisione del 1984 ha fatto
seguito, il 14 dicembre 1985, l'Intesa tra il
Presidente della CEI ed il Ministro della
Pubblica Istruzione e nell’anno scolastico
1986-’87 l’avvio del nuovo sistema che riconoscendo l’IRC, “disciplina scolastica”, ne
sancisce la piena curricolarità. L’introduzione del diritto di scelta dell’IRC, e dunque
l’aver fatto appello alla responsabilità educativa dei genitori e la possibilità di scelta da
parte degli studenti, ha avuto nel corso degli
anni un esito fortemente positivo, tanto che
ancora oggi si registra una grande adesione
all’IRC.
2) Una svolta, seguendo il Concilio
Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha contribuito a riconsiderare in modo complessivo il rapporto tra la Chiesa e le “realtà temporali”, riconoscendo ad entrambi i valori
loro propri, e la giusta autonomia; grazie a
questo cambio di mentalità e di visione
delle cose, si è avviato così un processo di
rinnovamento dello stesso modo di considerare l’insegnamento religioso nella scuola
pubblica italiana più rispondente alle nuove sensibilità che andavano delineandosi
nella cultura italiana, sviluppando anche
una nuova coscienza democratica e politica.
Nello svolgersi di questi anni, molti sono
stati i cambiamenti che hanno modificato
tutta la società: infatti, la proclamazione
della Repubblica e l’entrata in vigore della
Costituzione Italiana, con l’inclusione nell’art. 7 dei Patti Lateranensi ha introdotto
un nuovo orizzonte dei rapporti tra Stato e
Chiesa; intanto viene abrogato il concetto
di religione di Stato, mentre si va sviluppando una cultura caratterizzata dal pluralismo e dalla libertà religiosa.
Anche la scuola affronta molti cambiamen36
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ti per rispondere al progressivo affermarsi
di una scolarizzazione di massa, approfondendo sempre più l’importanza del proprio
compito educativo per lo sviluppo della vita dei singoli cittadini e per lo sviluppo
culturale ed economico del paese.
Anche la Chiesa, che non è estranea al
mondo, e da sempre impegnata sul versante educativo, si sente fortemente coinvolta
in questo processo di cambiamento culturale, sociale e religioso.
È illuminante qui ricordare come il documento Gravissimum educationis (GE), dopo
aver affermato che alla famiglia spetta primariamente il compito educativo e che la
Chiesa ha il dovere di educare in modo del
tutto “speciale” (n. 3), afferma, ai nn. 4 e 5
che tutti gli uomini di qualunque razza,
condizione ed età, in forza della loro dignità di persona, hanno il diritto inalienabile a una educazione che risponda al proprio fine, alla propria indole, alla cultura e
alle tradizioni del loro paese, e insieme
aperta a una fraterna convivenza con gli altri popoli, al fine di garantire la vera unità
e la vera pace sulla terra. L’educazione, continua la GE, è indispensabile che abbia come fine la promozione della persona umana in tutte le sue dimensioni in vista del
bene della società civile.
La scuola, dunque, in forza della sua missione, mentre con cura costante fa maturare le
facoltà intellettuali, promuove lo sviluppo
della capacità di giudizio, mette a contatto
del patrimonio culturale acquisito dalle passate generazioni, promuove il senso dei valori, prepara la vita professionale e, generando
un rapporto di amicizia tra alunni di indole
e condizione diversa, favorisce la disposizione reciproca a comprendersi.
Essa, inoltre, costituisce come un centro alla cui attività e al cui progresso devono insieme partecipare le famiglie, gli insegnanti, le varie associazioni culturali, civiche e
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religiose, la società civile e tutta la comunità umana.
Nel 1971, l’Ufficio Catechistico Nazionale,
con una Nota, porrà in evidenza l’esigenza
di rinnovamento dell’insegnamento della
religione cattolica, quale contributo importante per lo sviluppo di tutto l’uomo e per
la formazione della personalità degli
alunni1. Si dà avvio, così, ad una nuova riflessione sull’insegnamento della religione e
la sua configurazione scolastica, si approfondiscono le ragioni pedagogiche e
culturali, da una parte richiamando lo sviluppo integrale della personalità affidato alla scuola e nel cui complesso va inteso anche l’ambito religioso, dall’altra sottolineando il fatto che la scuola deve poter offrire gli elementi fondamentali per conoscere il fenomeno religioso, così importante
nella storia dell’umanità.
L’evolversi della società e comunque dello
sviluppo culturale, sia nelle istituzioni scolastiche sia nella Chiesa – specialmente con
l’esperienza del Concilio Ecumenico Vaticano II – porterà al superamento dell’IR
ereditato dal Concordato Lateranense, che
lo aveva definito «fondamento e coronamento», per lasciare lo spazio ad un nuovo profilo, cioè un IRC che si specifica «secondo le
finalità della scuola». Cresce, infatti, in tutto il tessuto sociale, la consapevolezza della
necessità di un insegnamento della Religione cattolica come disciplina pienamente inserita nel quadro delle finalità della scuola
di tutti, una scuola nella quale si pone al
centro la persona nella sua integralità e nella sua totalità, dunque si fa strada la concezione personalista già intravista e anticipata
dal Concilio Ecumenico Vaticano II.
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3) Al servizio della persona
nella scuola
Nel 1984, dunque, l’IRC, assume a pieno titolo il profilo di disciplina scolastica, e si caratterizza come insegnamento della religione
“cattolica” e non semplicemente di una storia delle religioni, ovvero insegnamento di
quella religione che ha profondamente segnato la cultura italiana ed europea, e allo
stesso tempo è riconosciuta parte integrante
del patrimonio storico del popolo italiano.
Gli elementi fondamentali del nuovo profilo
dell’IRC scolastico sono quelli che scaturiscono naturalmente dalla dimensione religiosa dell’essere umano, vale a dire gli interrogativi su Dio, sull’interpretazione del
mondo, sul significato e sul valore della vita,
sulla dimensione etica dell’agire umano. L’alunno, dunque, potrà familiarizzare con la
realtà della religione cristiana nella sua tradizione cattolica, cogliendone la valenza educativa e progettuale. Come in ogni disciplina scolastica, l’apprendimento degli obiettivi
dell’IRC sono un percorso fondamentale per
raggiungere le finalità formative della scuola.
Per questo l’incontro con la religione non
potrà restare al solo livello cognitivo delle
informazioni; ma dovrà essere capace di far
cogliere i valori e i significati, che le persone
che credono nel Dio di Gesù Cristo, manifestano con le loro scelte di vita, e con tutto
quel patrimonio religioso, letterario, artistico e etico con cui veicolano e rivestono le
loro espressioni religiose, anche nelle tradizioni, nella pietà popolare…
L’IRC non richiede di per sé che l’alunno
aderisca personalmente al credo religioso cristiano, ma che conosca, studi e percepisca il
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1
La Nota afferma che non si può «tralasciare di rendere agli alunni un servizio adeguato per il risveglio, l'interpretazione e la
maturazione del senso religioso». E specificatamente, a proposito dell’insegnamento religioso si sottolinea che, in una “scuola formativa” appare «legittima, anzi doverosa» l’istituzione «di un servizio adeguato per lo sviluppo critico e la maturazione del
senso religioso» (UCN, Nota sull’insegnamento della religione nelle scuole superiori, Roma, 1971, n. 5).
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significato dei valori che scaturiscono da
questa fede, riconoscendo che si tratta di valori generalmente vissuti e condivisi e che
nel nostro Paese sono parte integrante del
patrimonio storico culturale, capace di sviluppare attraverso gli interrogativi di senso,
nuove sensibilità, in ordine alla ricerca della
giustizia e della verità, per tutti gli uomini.
L’IRC, inserito «nel quadro delle finalità della
scuola», concorre al pieno sviluppo della personalità dell’alunno, in un scuola che sia in
sintonia con i principi della Costituzione Italiana. Per gli alunni e gli studenti credenti che
si avvalgono dell’IRC la comprensione della
religione e del cristianesimo si riferisce ugualmente alle proposte e alle risposte, al significato o alla rilevanza che la religione ha per essi, alla ripercussione sui problemi personali e
sociali; mentre per gli studenti che hanno altro credo religioso o si riferiscono ad altri sistemi di significato, conoscere e comprendere
la religione cristiano-cattolica significa anche
comprendere meglio la cultura italiana, cioè
la cultura nella quale si vive. Inoltre potrebbe
significare comprendere le persone che vivono coerentemente la fede cristiana. E questo
anche in vista di promuovere una mentalità
accogliente, al fine di una serena convivenza
civile nel quadro di una società pluralista.
A ben guardare, possiamo dire che l’IRC arricchisce e completa la personalità dell’alunno poiché tale insegnamento, proprio per la
sua nativa vocazione è chiamato a interpretare la storia e a proporre orizzonti di senso,
pertanto offrendo un contributo originale e
specifico al percorso educativo delle giovani
generazioni, anche con lo scopo di ricercare
il significato della scelta e dell’esercizio di
una professione.
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L’IRC, nella sua peculiarità “cattolica”, dunque “confessionale”, secondo quanto afferma il Concordato del 1984 – «in conformità
alla dottrina della Chiesa» – più che un problema nella laicità dello Stato, diviene una
“risorsa” per la Scuola che in questo caso,
realizza con la Chiesa, una vera e propria
“alleanza educativa”!2.
La ricerca europea sull’insegnamento della
religione, svoltasi tra il 2005 e il 2007 su
proposta del CCEE, e culminata con la
pubblicazione del volume L’insegnamento
della religione risorsa per l’Europa, conferma
che l’orientamento di fondo è quello dell’apprezzamento del modello italiano dell’IR
che, pur riconoscendo e tutelando la libertà
di coscienza degli alunni avvalentisi, offre
una proposta disciplinare ben definita nell’alveo della religione cristiana nella confessione cattolica con l’intento di perseguire le
finalità istruttivo-educative della Scuola.
Per questo la “confessionalità” non può essere vista come una complicazione o un intralcio all’esercizio della laicità, bensì essa costituisce una garanzia di identità, un impegno
per un insegnamento che non sia “a-situato”, cioè fuori contesto, ma al contrario che
sia “radicato” in una tradizione viva, capace
a sua volta di vivificarlo continuamente, e
farlo progredire, in un costante confronto
con la realtà.
Credo sia questo che vogliono le famiglie
italiane, giacché l’ultima statistica del 2008,
effettuata dall’Osservatorio socio-religioso
del Triveneto per conto del Servizio Nazionale per l’IRC della CEI, ci conferma che
l’IRC è scelto dal 91,1% degli studenti italiani. Per tutti questi motivi è stato necessario aggiornare i programmi, essenzializzare i
———————————————————
2
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Un insegnamento che fosse “non confessionale” renderebbe il fatto religioso un elemento non legato all’esperienza di vita
delle persone riducendolo a teoria religiosa “disincarnata” dalla realtà e dalla concretezza dei vissuti, incapace, di fatto, di
dare un reale contributo alla comprensione della stessa cultura italiana con il suo ampio e diffuso patrimonio etico, storico,
letterario e artistico…
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contenuti, sperimentare nuove modalità didattiche, sempre in collaborazione con il
Ministero della Pubblica Istruzione. Ciò anche in vista delle riforme che si prefiguravano già sul finire degli anni ’90 e, ultimamente, confluite nella modalità delle nuove
Indicazioni Nazionali per il Curricolo, nel
rispetto delle innovazioni apportate dal legislatore, che ha dovuto tenere conto delle
istanze e degli obiettivi formativi che si sono
dati gli Stati membri dell’Europa.
È di questi giorni un altro impegno della
Conferenza Episcopale Italiana per assicurare, contestualmente all’entrata in vigore della riforma nei diversi ordini e gradi di scuola, in riferimento all’IRC e naturalmente
d’intesa con il MIUR, ulteriori Indicazioni
Nazionali per il Curricolo aggiornate e aderenti all’impianto generale del nuovo sistema scolastico italiano anche nell’orizzonte
europeo.
Ci auguriamo che all’impegno leale e costante della Chiesa, in tutti questi anni, nel
disegnare il nuovo profilo dell’IRC, possa
corrispondere anche da parte delle Istituzioni governative il pieno riconoscimento scolastico dell’identità dell’IRC, con il superamento di alcune residue e contraddittorie limitazioni.
Abbiamo detto che l’IRC, declinato secondo
le finalità della scuola, propone la visione
dell’uomo nella sua totalità e lo presenta a
partire dal dato biblico.
In particolare, nel Vangelo di Giovanni troviamo la valorizzazione dell’umano, nonostante la sua caducità, operata dal Verbo che
si è fatto carne, cioè essere debole e mortale
(cfr Gv 1,14). L’Evangelista afferma che lo
Spirito è realtà vivificante, mentre la carne è
impotente. Così anche l’Apostolo Paolo con
il vocabolo carne sottolinea la creaturalità e
finitezza strutturale dell’uomo: afferma che
la vita di Cristo si manifesta «nella sua carne
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mortale» (2Cor 4,11). Per questo l’Apostolo
può affermare che la sua attuale esistenza
«nella carne» è dunque vissuta da credente
nel figlio di Dio (cfr Gal 2,20). Ed è ancora
per tale ragione che possiamo dire che l’uomo è un essere unificato da una scintilla divina; è essere vivente perché ha ricevuto da
Dio, fonte della vita, il soffio vitale. L’uomo
vivificato dallo «spirito» divino è persona
che si rapporta a Dio (cfr Ez 11,19-20;
36,26-28).
Paolo, dunque, all’uomo “carnale”, contrappone l’uomo “spirituale”, animato dallo Spirito di Dio: esso non ha un corpo, ma è un
corpo vale a dire persona incarnata e aperta
alla comunicazione con il mondo, gli altri e
Dio.
Quindi l’uomo come “corpo” è essere relazionato al mondo trascendente, in particolare a Cristo e a Dio. Per l’Apostolo la dimensione religiosa dell’uomo si esprime nell’essere “uno”, ovvero un soggetto impegnato
nella sua totalità, nella sua costitutiva incarnazione terrena, incamminato verso il cielo.
Credenti e non credenti, ricorda la Costituzione pastorale Gaudium et Spes al n. 12, sono generalmente concordi nel ritenere che
tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e a suo
vertice. Ma che cos’è l’uomo? La Gaudium et
Spes si sofferma anzitutto sulla convinzione
di fede che l’uomo è stato creato «a immagine di Dio», dunque capace di conoscere e di
amare il proprio Creatore, e che fu costituito
da Dio sopra tutte le creature terrene quale
signore di esse, per governarle e servirsene a
gloria di Dio.
Benedetto XVI afferma che «oggi un ostacolo particolarmente insidioso all’opera educativa è costituito dalla massiccia presenza,
nella nostra società e cultura, di quel relativismo che, non riconoscendo nulla come
definitivo, lascia come ultima misura solo il
proprio io con le sue voglie, e, sotto l’appa39
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Tra le personalità intervenute al Meeting, il sindaco
Gianni Alemanno e l’assessore alle politiche educative
Laura Marsilio.
La bella testimonianza del
giornalista Francesco Giorgino.
Il Santo Padre saluta l’assemblea festante
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renza della libertà, diventa per ciascuno una
prigione, perché separa l’uno dall’altro riducendo ciascuno a ritrovarsi chiuso dentro il
proprio “Io”. Dentro ad un tale orizzonte relativistico non è possibile, quindi, una vera
educazione: senza la luce della verità, prima
o poi ogni persona è infatti condannata a
dubitare della bontà della sua stessa vita e
dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli
altri qualcosa in comune» (Discorso all’apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di
Roma, 6 giugno 2005).
È dunque meravigliosa e davvero importante, ricorda la GE al n. 5, la vocazione di tutti
coloro che, collaborando con i genitori nello
svolgimento del loro compito e facendo le
veci della comunità umana, si assumono il
dovere di educare nelle scuole.
Una tale vocazione esige speciali doti di
mente e di cuore, una preparazione molto
accurata, una capacità pronta e costante di
rinnovamento e di adattamento. A questo
proposito, Benedetto XVI afferma che educare «non è mai stato facile, e oggi sembra
diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità
educative. Si parla perciò di una grande
“emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i
nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un
senso alla propria vita. [...] Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non
sarebbero più capaci di educare? È forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio
di non comprendere nemmeno quale sia il
loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti
o dei giovani, che pur esistono e non devo-
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no essere nascoste, ma anche un’atmosfera
diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della
persona umana, del significato stesso della
verità e del bene, in ultima analisi della
bontà della vita» (Lettera alla Città ed alla
Diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008).
L’IRC, con il suo contributo specifico, pienamente inserito negli obiettivi dati dalle
Indicazioni nazionali, evidenzia come nel
progetto educativo della scuola sia opportuno partire dai bisogni e dalle esperienze,
nonché porre attenzione alla dimensione socio-politica nel suo senso più alto. È necessario far emergere il superamento della giusta apposizione fra umano e religioso e far
risplendere come il Vangelo sia sorgente perenne di una umanità ricca e di un umanesimo veramente plenario e integrale.
4) La “scommessa” sui docenti
Perché possa verificarsi tutto quanto detto
finora, la Chiesa ha fortemente investito per
una autentica e profonda formazione degli
insegnanti di religione cattolica, che in questi anni sono stati i veri protagonisti del processo di innovazione del nuovo profilo dell’IRC. Una “scommessa”, in particolare, giocata sulle corde della professionalità scolastica e sul “servizio educativo”, senza mai trascurare la profonda dimensione di appartenenza alla comunità ecclesiale, dalla quale
gli insegnanti di religione cattolica traggono
linfa vitale per animare dal di dentro il loro
servizio educativo.
L’insieme degli insegnanti di religione cattolica, costituisce oggi una compagine professionale ben amalgamata, e proprio negli ultimi anni ha registrato profondi e positivi
cambiamenti, grazie soprattutto al contributo dei laici e di quei sacerdoti e religiosi che,
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impegnati “a tempo pieno”, hanno consolidato la loro presenza nella scuola, apportando idee e originalità creativa, condividendo
con gli altri colleghi l’impegno educativo finalizzato «alla promozione dell’uomo e del
cittadino».
Una tappa molto importante, per il riconoscimento della professionalità scolastica, è
stata l’emanazione della Legge riguardante il
nuovo stato giuridico (2003), con la configurazione del ruolo, che ha visto tutti gli insegnanti di religione, con almeno un servizio continuativo di quattro anni, accedere
ad un concorso pubblico bandito per titoli
ed esami (scritto e orale), come avviene per
gli altri docenti della scuola italiana.
Nei fatti, questa esperienza ha messo in luce
la solida preparazione e formazione degli insegnanti di religione cattolica, che in questo
caso hanno avuto il riconoscimento pubblico e formale della loro professione docente.
La nuova situazione peraltro ha consolidato
la scolasticità dell’insegnamento.
Le Legge sul nuovo stato giuridico era attesa
da tanti anni, dato che lo Stato aveva dichiarato di voler dare una nuova disciplina dello
stato giuridico sin dal 1985, in occasione
dell’Intesa firmata dal Ministero della Pubblica istruzione e la Conferenza Episcopale
Italiana.
In attesa che lo Stato codificasse le intenzioni dichiarate nel 1985, la Conferenza Episcopale Italiana ha promosso in tutto il territorio nazionale una serie di azioni impegnative al fine di qualificare e aggiornare il personale docente, sia per quanto riguarda la
preparazione iniziale negli Istituti Superiori
di Scienze Religiose, sia per quanto riguarda
la formazione in servizio, nonché lo sviluppo professionale di chi era già in servizio,
mediante differenti corsi a livello nazionale e
locale, anche in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della
Ricerca.
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La professionalità, correttamente intesa,
non è certo solo la padronanza di conoscenze e competenze legate ai processi di apprendimento scolastico. Non può prescindere, infatti, da un’avvertita intenzionalità
educativa che accompagna una profonda e
radicata motivazione interiore che è alla base anche di una spiritualità vissuta. Queste
caratteristiche sono condizioni essenziali
perché l’opera del docente sia in grado di
fermentare positivamente l’ambiente scolastico e proporsi come una vera risorsa per
l’intera scuola.
E l’esperienza concreta, che abbiamo potuto
registrare in questi anni, dice come gli insegnanti di religione cattolica, con le loro
competenze, siano apprezzati nei contesti
scolastici in cui operano, risultando punti di
riferimento anche per i colleghi delle altre
materie condividendo con loro la passione
educativa.
L’insegnante di religione cattolica è, nella
scuola, “segno” visibile che rimanda alla comunità cristiana, cioè la comunità che vive
la fede, nella quale egli è profondamente inserito, anzi ne è l’espressione viva e riconosciuta anche giuridicamente mediante l’istituto dell’idoneità che gli dà l’approvazione
documentale dell’appartenenza ecclesiale.
Questo riconoscimento non si sovrappone
né tanto meno contrasta con il quadro scolastico educativo, bensì lo rafforza e lo precisa, garantendo meglio la dignità professionale e morale dell’Insegnante di religione
cattolica.
L’idoneità, certamente, non è paragonabile
a un diploma che abilita ad insegnare correttamente la religione cattolica. E a questo
proposito, la Nota dei Vescovi del 1991,
tuttora valida nei suoi aspetti fondamentali, che presto potrà essere riproposta arricchita di quelle riflessioni attente al nuovo
contesto scolastico, spiega che l’idoneità
ecclesiastica «non si sovrappone, né tanto
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meno contrasta» con la prospettiva dell’IRC curricolare3.
Preparazione culturale e professionale, intenzionalità educativa, forte legame con la
comunità: questo è il profilo sostanziale degli insegnanti di religione cattolica, uomini e
donne cui la Chiesa italiana sente di dover
essere profondamente grata; perché essi svolgono una professione che è tra le più alte e
allo stesso tempo realizzano la loro vocazione, vocazione che si pone al servizio della
persona, un servizio educativo non facile ma
nello stesso tempo appassionante e decisivo,
e oggi sempre più prezioso, verso le giovani
generazioni. Lo abbiamo dichiarato anche al
Convegno di Verona (2006) che la Chiesa
realizza il suo impegno educativo anche avvalendosi dell’impegno profuso nella scuola
dagli insegnanti di religione cattolica.
Nel 1991 avevamo tracciato un identikit dell’insegnante di religione cattolica e lo avevamo definito come «uomo della sintesi», sottolineando, con questa caratterizzazione, il suo
trovarsi su crinali diversi, tra fede e cultura,
Vangelo e storia, tra comunità ecclesiale e
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scuola, tra aspirazioni e bisogni degli alunni.
Ancora oggi questa definizione trova concretezza nell’esperienza di vita di tanti insegnanti di religione cattolica, che – come recita il
titolo di questo Meeting – non si vergognano
del Vangelo, anzi lo testimoniano con una
passione educativa coraggiosa e coerente.
La loro professionalità, spesa nel servizio alle
persone, cioè ai bambini, ai ragazzi e ai giovani che abitano la scuola che persegue le
sue finalità educative e formative, è autentica testimonianza, anche, di una Chiesa che,
nello spirito del Concilio Ecumenico Vaticano II, rifugge dai privilegi, non vuole per sé
rendite di posizione, ma cerca di “farsi carne”, di immergersi nella pasta come lievito
per promuovere la persona umana, e “fare
nuove tutte le cose”: siamo sempre più convinti che il cristianesimo con la sua presenza
cattolica, come pensiero, come cultura, come
esperienza politica e sociale, è un fattore fondamentale e imprescindibile nella storia del
Paese, e con la sua forza è in grado di animare le molte culture che oggi vi coabitano, al
fine di promuovere la civiltà dell’amore.
———————————————————
3
L’idoneità «non è paragonabile a un diploma che abilita ad insegnare correttamente la religione cattolica. Essa stabilisce tra
il docente di religione e la comunità ecclesiale nella quale vive un rapporto permanente di comunione e fiducia, finalizzato
ad un genuino servizio nella scuola» (Nota CEI, Insegnare religione cattolica oggi, Roma 19 maggio 1991, n. 22).
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L’IRC, una risorsa per la scuola italiana
di Mariastella Gelmini
ferma la validità delle soluzioni adottate
Anzitutto grazie per l’invito e saluti a Sua
con l’Accordo del 1984 e il buono stato dei
Eminenza, il Cardinale Angelo Bagnasco,
rapporti con la Chiesa cattolica.
al Responsabile del Servizio Nazionale
Come è noto, rispetto al Concordato del
IRC, don Vincenzo Annicchiarico, agli In1929, che definiva
segnanti di Religione
l’insegnamento della
presenti, ai Direttori
religione «fondadegli uffici diocesani
L’intervento del Ministro dell’Istruzione,
mento e coronamenper l’Insegnamento
dell’Università e della Ricerca, pronunciato
to dell’istruzione
della Religione cata braccio e rilevante soprattutto per la sua
pubblica», il Contolica.
valenza simbolica, ha individuato nell’IRC
cordato dell’84 ha
Non c’è alcun dubnon un peso supplemen-tare per le finanze
attribuito nuovi sibio che l’insegnascolastiche, ma una risorsa educativa apgnificato all’IRC,
mento della religioprezzata da famiglie e studenti – come
motivandone la prene a scuola sia indichiarisce il dato numerico degli avvalentisi
senza nella scuola
spensabile strumento
– e capace di sviluppare e arricchire l’umacon due ordini di ardi formazione per i
nità dei fu-turi cittadini.
gomenti: il valore
giovani, soprattutto
della cultura religioper la conoscenza
sa e il patrimonio storico del popolo italiadei principi del cattolicesimo che fanno
no che risulta caratterizzato dai principi del
parte del patrimonio storico del nostro
cattolicesimo. Questo nuovo IRC si è anPaese.
dato a collocare «nel quadro delle finalità
Non solo: lo studio della religione offre
della scuola», assumendone metodi e mocontenuti e strumenti specifici per una letdalità operative.
tura della realtà storico-culturale in cui i
L’IRC è una disciplina scolastica a tutti gli
nostri ragazzi vivono, viene incontro ad esieffetti, essendo dotata di propri programmi
genze di verità e di ricerca del senso della
di insegnamento, di specifici libri di testo e
vita, contribuisce alla formazione della codi insegnanti qualificati.
scienza morale e offre elementi per scelte
Lo Stato laico, essendo incompetente in
consapevoli e responsabili.
materia religiosa, si avvale in proposito delVoglio smontare qui alcuni luoghi comuni.
la collaborazione della Chiesa cattolica per
Nel 2008 l’Insegnamento della Religione
garantire l’affidabilità scientifica e l’autenticattolica (IRC) è stato scelto da una larga
cità dottrinale dei contenuti insegnati.
maggioranza, cioè dal 91,1% delle famiglie
Ma l’Insegnamento della Religione cattolie degli alunni. Un dato che sale al 91,8 %
ca non è, ovviamente, una forma di indotse si tiene conto anche di quanti frequentatrinamento né un insegnamento riservato
no scuole cattoliche.
solo ai cattolici. Si è andato definendo –
A venticinque anni dalla revisione del Congrazie all’opera intelligente di tanti insecordato Lateranense, insomma, l’IRC nelle
gnanti di religione – come occasione di
scuole italiane gode di buona salute e con44
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confronto aperto e libero su tematiche fondamentali per la vita e per le scelte che i
giovani devono compiere.
Per questo è un settore fondamentale per la
scuola, una vera e propria risorsa. L’esperienza dimostra che anche chi non condivide la fede cattolica partecipa alle lezioni di
religione per acquistare una migliore conoscenza della cultura in cui si va ad inserire.
La facoltatività dell’IRC – come ha riconosciuto anche la Corte Costituzionale – garantisce il più completo rispetto della libertà di coscienza di tutti e supera qualsiasi
obiezione.
Del resto è ai dati che dobbiamo guardare,
per capire che queste non sono solo parole.
Come è noto l’IRC è disciplina curricolare
ma facoltativa, che gode di un livello di
adesioni sostanzialmente stabile. Nell’anno
scolastico 2007-2008 la percentuale di coloro che si sono avvalsi dell’IRC è la seguente (dati CEI):
Scuola dell’infanzia
Scuola primaria
Scuola secondaria di I gr.
Scuola secondaria di II gr.
Media generale
94,1
94,6
92,7
84,5
91,1
Nel corso degli anni si è registrata solo una
lieve flessione, che risulta più accentuata
soprattutto nella scuola secondaria superiore (dove la scelta di avvalersi o non avvalersi dell’IRC è affidata agli stessi studenti) e
nei grandi centri urbani del Centro-Nord.
L'Insegnamento della Religione cattolica,
nel corso degli anni, inoltre, ha seguito
puntualmente l’evoluzione normativa e ordinamentale della scuola italiana per quanto riguarda il proprio impianto didattico.
Dopo i programmi introdotti a seguito del
mutato assetto concordatario negli anni
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1986-’87, sono state stipulate specifiche intese tra il Ministro dell’Istruzione e il Presidente della CEI, con cui sono state approvate e adottate Indicazioni didattiche aggiornate per ciascun ordine e grado di
scuola.
È inoltre in corso una sperimentazione relativa al primo ciclo di istruzione e nei
prossimi mesi si prevede di giungere ad un
definitivo assetto didattico per questa disciplina in tutti gli ordini e gradi di scuola,
coerentemente con gli indirizzi assunti dal
sistema scolastico nazionale.
Tutto ciò in attuazione del principio concordatario che vuole l’IRC inserito a tutti
gli effetti nel quadro delle finalità della
scuola e dunque in evoluzione parallela con
essa.
Ma al di là del quadro normativo, voglio
ribadire la mia convinzione che la scelta
della religione a scuola è una opportunità
per crescere in umanità. Un bambino e un
giovane che non se ne avvalgono hanno sicuramente meno possibilità di vedere la
realtà nella sua complessità.
È a scuola, dopo che nella famiglia, che si
decide il destino personale di ogni giovane.
E questa consapevolezza non può che spingerci a rinnovare il nostro impegno nel favorire l’educazione ai principi cattolici delle giovani generazioni, come punto fermo
di ogni autentico sviluppo sociale e culturale.
L’IRC è l’insegnamento dei valori, perché si
pone al centro di tutto la persona umana,
la sua dignità, e impartisce principi come la
fede, la speranza, la carità. La solidarietà.
Oggi, poi, io lo vedo anche come uno dei
pochi reali strumenti di integrazione: in una
società sempre più connotata in senso multietnico e multiculturale, l’IRC può aiutare
gli stranieri presenti nel nostro Paese ad av45
M E E T I N G
D E G L I
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L’aula Paolo VI gremita di IdR provenienti da tutta Italia…
… e di IdR romani (anche se molti sono “acquisiti”!).
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vicinarsi e a comprendere i nostri valori e le
nostre tradizioni, segnati dalla presenza di
uno specifico patrimonio storico e artistico,
permeato dallo spirito cristiano.
La scuola italiana sta vivendo un momento
intenso di trasformazione, con cambiamenti anche profondi per rispondere alle domande di formazione e di educazione dei
ragazzi e degli adolescenti, maschi e femmine.
Vogliamo ragazzi e ragazze coscienti delle
loro opportunità, responsabilità e compiti.
La scuola è il luogo nel quale gli allievi crescono, imparano a conoscersi, a conoscere
il mondo e a dialogare con gli altri, preparandosi alla vita. Ciascuno deve avere consapevolezza delle proprie radici, giungendo
– attraverso i momenti dell’analisi – a una
sintesi personale, libera e responsabile, capace di proiettarsi verso il futuro. E quale
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disciplina trova maggiormente questa sintesi se non l’insegnamento della religione?
Conoscere le proprie radici significa conoscere anche le religioni che hanno plasmato
la civiltà occidentale, insieme al cristianesimo, che ne è stata una delle anime più
profonde e significative.
La scuola italiana deve valorizzare questi
percorsi secondo le proprie finalità e deve
far diventare questa istanza culturale e formativa un diritto di cittadinanza per consentire a ogni persona di realizzarsi qui e
ora, nella società occidentale italiana, guardando anche alle prospettive più grandi
dell’Europa e del mondo.
Per questo gli insegnanti di religione hanno
un compito cruciale, unico. Loro, portatori
di passione educativa, sono una risorsa essenziale per formare i cittadini di domani.
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T U T T A
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S T O R I A
Tutto Gesù minuto per minuto
di Federico Corrubolo
Bisogna tenere sempre “oliata” la cosiddetta
questione del «Gesù storico». Il bravo IdR lo
sa bene: puntualmente infatti trova i suoi ragazzi accesi di entusiasmo per l’ultima trovata dell’esperto di turno (più o meno in buona fede, quasi mai veramente preparato) il
quale ha scoperto non si sa bene cosa, ma
che insomma i Vangeli sono inattendibili e
il cristianesimo è una bufala, quindi ve lo
diciamo noi come sono andate davvero le
cose.
È un filone che “va” molto e soprattutto
vende molto. In genere l’esperto di turno
presenta documenti attendibili ed imparziali
tipo Vangeli apocrifi (tutti rigorosamente
meno antichi dei “nostri”), qualche frustulo
di papiro, un vaso di coccio o un’antefissa di
terracotta i quali dimostrano inoppugnabilmente che Gesù non era affatto il Messia,
ma un falegname ebreo che non c’entrava
niente e – per motivi politici – è diventato
una sconvolgente “idea-forza” che regge da
venti secoli la storia d’Occidente e non solo.
In questo baluginare di rivelazioni clamorose (sempre dopo la pubblicità, sia ben chiaro), ogni tanto qualche buon libro rimette
ordine. L’opera di James D. G. Dunn Gli albori del cristianesimo1 affronta tutte le principali questioni legate alla vita di Gesù, alla
sua missione ed alla storicità ed affidabilità
dei Vangeli. Consigliamo senz’altro di scorrere almeno il primo di questi tre grossi volumi, che nell’originale inglese suona Jesus
remembered: un titolo che è tutto un programma e spazza via da solo un po’ tutto il
ciarpame sensazional-anticlerical-giornalistico tipico dei media quando parlano di religione.
Il prof. Dunn – come ogni studioso che si
rispetti – ripercorre brevemente tutte le
principali teorie scientifiche sul problema
della storicità dei Vangeli. Il principio è
sempre lo stesso: i Vangeli sono fonti inaffidabili perché i loro autori erano credenti e
quindi manipolarono la realtà per trasmettere le loro convinzioni. Occorre perciò
“saltarli” e cercare di risalire al “Gesù storico” per altra via: apocrifi, cocci, antefisse,
papiri ecc… Questa impostazione è giunta
al capolinea, non perché non abbia fatto
fortuna, ma, al contrario, perché ne ha fatta
troppa: le ricostruzioni “scientifiche” del
Gesù storico sono una selva lussureggiante e
soprattutto disperatamente contraddittoria.
Per citare qualche esempio “realmente esistito”: si va dal predicatore spaziale, al giovane imprenditore che amava andare a teatro; dall’uomo affascinante con un debole
per le donne di Magdala, all’anarco-insurrezionalista radicale. Il tutto inoppugnabilmente dimostrato con metodo rigorosamente scientifico, al punto tale che al giorno d’oggi non sappiamo più come uscire da
un ginepraio inestricabile di ricostruzioni
“scientifiche” del Gesù storico, una più assurda dell’altra. Che fare ?
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James D.G. DUNN, Gli albori del cristianesimo. La memoria di Gesù, 1 Fede e Gesù storico; 2 La missione di Gesù; 3 L’acme della
missione di Gesù, Brescia, Paideia, 2006-2007, traduzione di F. Ronchi; edizione originale Christianity in the Making, Eerdmans, Grand Rapids, 2003. L’originale inglese, di ben 1019 pagine è stato ripartito in tre tomi nella traduzione italiana, ma
si presenta come il primo volume (!) di una trilogia, che vorrebbe «fornire una rappresentazione e un’analisi integrata, sia storica e teologica sia sociale e letteraria, dei primi centovent’anni più o meno di cristianesimo (27-150 d.C.)» (p. 24).
T U T T A
U N ’ A LT R A
Secondo Dunn ci vuole un mutamento di
prospettiva. Dobbiamo uscire dal modello
di riferimento del Vangelo come testo scritto, fissato in una edizione (o meglio recensione) e copiato da un codice all’altro fino
ai giorni nostri: questo va più o meno bene
per l’Odissea, l’Eneide o la Divina Commedia, ma non per i Vangeli. Per almeno
due-tre generazioni i Vangeli furono racconti orali “eseguiti” più o meno come fossero musica durante le riunioni o le feste
dei villaggi di Galilea, Giudea e Samaria.
Soltanto dopo furono scritti. La tradizione
orale ha le sue leggi: la conservazione della
veste originale del racconto è il suo principio fondamentale, alla cui applicazione collabora tutto il villaggio, come ogni etnologo
africano sa bene. Mentre i particolari variano negli elementi accessori del racconto, nei
punti essenziali non è permesso innovare né
aggiungere nulla e se qualcuno ci si prova
viene bruscamente corretto da tutta la comunità degli ascoltatori, che assume un
ruolo di garanzia e di vigilanza. La tradizione orale insomma, è una cosa rudimentale
ma tremendamente seria. E ha tutta l’aria
anche di essere efficace.
Non è una cosa difficile da capire, nemmeno nel nostro mondo ipertecnologico: chi
c’era provi a raccontare ai nipoti Italia-Brasile dei mondiali del 1982. Per conto mio
conservo poche cose essenziali, assolutamente esatte: Barcellona, stadio Sarrìa, 5 luglio
1982. Nello stadio l’erba era tagliata a forma
di bandiera brasiliana. Pareggiare non ci bastava, per arrivare in semifinale dovevamo
per forza vincere; marcatori nel primo tempo Rossi e Socrates al 10’ (una bordata che
sollevò un polverone di gesso bianco sulla linea di porta); nel secondo tempo Rossi, Falcao (che urlava come un forsennato) e ancora Rossi, di rapina, con una girata fulminea.
“Nonno” Dino Zoff salvò sulla riga un’incornata di un’attaccante brasiliano a cinque
S T O R I A
minuti dalla fine. Controllate pure, vedrete
che è tutto giusto: sono passati ventisette anni e non ho rivisto la partita in TV neppure
una volta dall’inizio alla fine. Se mio nipote
volesse fissare i ricordi di suo zio non avrebbe che da scrivere sotto dettatura questo mio
racconto: ne verrebbe fuori una pagina epica
e grandiosa, imprecisa nei particolari secondari (il nome dell’attaccante brasiliano dell’incornata) ma assolutamente fedele e precisa nei punti essenziali.
Esattamente questo è il cambio di “pattern”
che ci richiede Dunn a chi si accosta allo
studio dei Vangeli. Leggerli oggi non vuol
dire più accostarsi ad un documento da “disincrostare”, ma mettersi in ascolto di ciò
che la prima generazione cristiana ricordava
di Gesù così come se lo ricordava, tenendo
fissi gli elementi essenziali e lasciando fluttuare quelli poco importanti. Un lavoro di
rielaborazione che in realtà era iniziato già
durante la vita stessa di Gesù, quando gli
apostoli si trovavano insieme e discutevano
tra di loro cercando di capire che tipo era
questo galileo che gli aveva preso tutta la vita. Non è difficile immaginare i loro dialoghi: «non ti ricordi come ha detto quella
volta… Forse intendeva così e cosà…»; «no,
un attimo, quell’altra volta che ha fatto quel
miracolo poi ci ha spiegato che… », e cos’
via. Insomma Gesù non spiegava tutto di sé:
un po’ sì, ma poi lasciava agli apostoli la fatica di capire.
Il risultato di questo lavoro venne trasmesso
a voce, con entusiasmo e attenzione molto
maggiori di quelli riservati ad Italia-Brasile:
chi aveva conosciuto il falegname Galileo
veniva a sapere che era risorto, voleva sapere,
voleva capire. Nei Vangeli abbiamo la “registrazione” di queste esecuzioni orali, più o
meno diverse a seconda dell’uditorio ma assolutamente coincidenti nei punti essenziali
ed immutabili. (Per tornare ai mondiali
dell’82 un pubblico di giardinieri avrà molto
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T U T T A
U N ’ A LT R A
gradito la notizia dell’erba del campo tagliata a forma di bandiera brasiliana, mentre un
gruppo di vecchi friulani avrà voluto riascoltare più volte le gesta eroiche di “Nonno”
Dino Zoff, loro conterraneo: ma insomma,
sempre tre a due è finita…).
Il tono forse scanzonato può aver irritato il
benevolo lettore? Allora, seriamente: il volume di Dunn ci mette davanti in modo
scientifico una verità tutto sommato abbastanza ovvia. Il racconto della vita e della risurrezione di Gesù non ha seguito vie strane
e inedite della comunicazione umana: la
buona notizia si è inizialmente diffusa nel
più povero dei modi, cioè il racconto a voce.
Né è il caso di immaginare che si sia necessariamente diramata solo dopo la Pasqua:
Gesù aveva fortemente impressionato i suoi
e chi lo incontrava, fin da vivo, fin da prima
della sua risurrezione. Non è difficile immaginare lo stupore e la meraviglia di chi, dopo
S T O R I A
averlo ascoltato chiedeva ai suoi vicini: ma
chi è ? da dove viene ? Tu lo conosci ? Chissà
in quanti villaggi c’era gente che avendo visto un giorno Gesù che passava poi voleva
sapere che fine aveva fatto, specie dopo che
sarà venuta a sapere che era risorto…
Non è strano che a qualcuno sia venuto in
mente di prendere appunti ascoltando qualche “vecchia gloria” di quegli anni epici ed
eroici… Specie se quel qualcuno era magari
Pietro o Giovanni, che hanno visto coi loro
occhi e toccato con le loro mani.
S’era trattato in fin dei conti di una grande,
eroica partita che ancora oggi, dopo 2000
anni desideriamo tanto sentirci raccontare.
Gli elementi decisivi ci sono tutti, oggi come allora: Gesù è risorto, la morte è vinta. E
come sono andati i fatti, dalla notte del Gestemani fino all’alba di quel mattino, il primo giorno dopo il sabato, lo sappiamo minuto per minuto…
La facciata e l’interno della chiesa abbaziale dei ss. Vincenzo e Anastasio durante
il ritiro degli IdR (Tre Fontane, 21 marzo
2009). Le linee sobrie dell’edificio facilitano il raccoglimento e la ricerca dell’essenziale: un posto ideale per il silenzio e la
preghiera.
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D E T T A G L I
Amistad
di S. Spielberg (1997) USA, 152 min.
(con Morgan Freeman e Anthony Hopkins)
di Andrea Monda
Ancora una volta un film di Spielberg; dopo
The Terminal ora è la volta di un'altra pellicola considerata “minore” dalla critica cosiddetta ufficiale, ma ricca di significati e stimoli adatti ad una discussione con le classi
superiori all’interno di un corso di religione
cattolica.
Amistad è un film del 1997, che non conobbe un gran successo né di pubblico né di critica ma che invece mostra un autore ormai
maturo e più che mai esperto nell’uso della
macchina da presa. Realizzato all’interno
della cosiddetta “trilogia umanistica” (tra
Schindler’s list del ’93 e Salvate il soldato
Ryan del ’98) questo film sembra fare la figura della “cenerentola” tra le due grandi
pellicole dedicate al secondo conflitto mondiale, ma in realtà non sfigura minimamente
al confronto. Il film è molto lungo, due ore
e mezza, e per certi versi varrebbe la pena
mostrarlo interamente ai ragazzi, ma la mia
attenzione ora si vuole concentrare solo su
una sequenza. Però, innanzitutto, brevemente, la trama.
Una storia di libertà
Il film racconta la storia vera della nave spagnola Amistad che nel 1839 diventa scena
della violenta rivolta degli schiavi africani
che costringono gli spagnoli rimasti vivi a
virare verso l’Africa. Sei settimane dopo avvistano un’isoletta e con una piccola imbarcazione raggiungono la terraferma per rifornirsi d’acqua. Arriva però anche una nave
americana che sentendo le grida degli spagnoli attacca i neri, che vengono nuovamente messi in catene e portati in America. La
questione ben presto si complica perché non
si sa a chi appartengano questi schiavi; vengono portati davanti al giudice dove si viene
a sapere che potrebbero essere o di proprietà
della Spagna (si è mobilitata persino la regina Isabella II, facendo pressioni sul presidente degli Stati Uniti, Martin Van Buren)
oppure di due loschi figuri che presentano
in tribunale un contratto d’acquisto di questi schiavi firmato a l’Avana. La vicenda dei
prigionieri diventa di dominio pubblico e si
fa avanti un giovane avvocato, il signor
Baldwin, a difendere la causa degli schiavi
africani, sollevando la questione dell’importanza del fatto se questi siano nati oppure
no come schiavi. Secondo Baldwin, infatti,
se sono nati liberi non sono da considerare
schiavi e quindi merce da vendere. Attraverso l’aiuto di un traduttore Baldwin si fa raccontare tutta la storia dal capo degli africani,
il fiero Cinqué (si legge Sinchè) che nella sua
terra era il capo del villaggio. Il primo grado
del processo è vinto da Cinqué e dall’avvocato Baldwin ma gli sconfitti ricorrono in
appello. A questo punto Baldwin è costretto
a scrivere all’ex-presidente John Quincy
Adams, abolizionista, il quale dopo qualche
titubanza accetta di aiutarli. Molto intenso è
l’incontro tra il vecchio ex-presidente e Cinqué. Grazie all’arringa tenuta da Adams, anche la Corte Suprema emette la sentenza a
favore degli schiavi. Il film termina con la liberazione della Fortezza degli schiavi a Lom51
R I P R E S E
boko nella Sierra Leone e con le didascalie
informative su quello che accadrà negli anni
successivi: l’elezione di William Henry Harrison come nono presidente degli Stati Uniti, la Guerra di secessione e Cinqué che ritorna in Africa, ma non trova la sua famiglia, probabilmente ridotta in schiavitù.
Il film è molto bello e lo spettatore rimane
incollato allo schermo anche per scoprire
come andrà a finire il tormentato processo
degli africani della Amistad. Quando mostro
ai miei studenti la sequenza che ora illustrerò, avverto sempre il loro rammarico nel
non vedere anche il resto del film.
Libertà e fede
La sequenza che presento dura nove minuti
e si riferisce al momento fondamentale del
processo di primo grado (nel menù del DVD
è la scena n. 13, dopo un’ora e 28 minuti e
fino a un’ora e 37 minuti). In aula gli schiavi sono tutti assiepati sui banchi degli imputati, la tensione nell’aria si taglia con il coltello, il regista mostra alcune immagini senza sonoro, ad amplificare il senso dell’ansia e
dell’attesa che penetra dappertutto nella sala
del tribunale affollata all’inverosimile, fino a
quando la tensione scoppia allorché il fiero
leader degli schiavi ribelli, Cinqué si alza e
inizia a gridare in una lingua tanto scorretta
quanto efficace, seguito poi dagli altri, la
frase: «Date a noi liberi» (Give is us free, in
originale). Gli schiavi vengono messi a tacere ma il giovane giudice che deve emettere la
sentenza è rimasto senz’altro impressionato:
la scena successiva lo ritrae che si incammina lungo i banchi di una chiesa vuota, si inginocchia davanti all’immagine del crocifisso e prega per avere saggezza nel giudizio
dell’indomani. E la mattina dopo ecco il
giudice affermare che questi uomini sono
nati in Africa liberi e fa dunque arrestare i
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D E T T A G L I
due spagnoli che li volevano loro schiavi e li
dichiara liberi tra le grida (di tripudio e di
protesta) dei presenti.
È una sequenza molto intensa, che sottolinea incisivamente la tragedia della schiavitù
e la drammaticità della lotta per la libertà,
ma non è questo il motivo per cui io la mostro agli studenti delle classi superiori. C’è
infatti, all’interno di questa sequenza principale, che chiamo per facilità A, un’altra piccola sequenza (la sequenza B) che si intreccia con la prima, in cui si dimostra tutta la
bravura e anche l’afflato spirituale di Spielberg e che si rivela molto importante ai fini
dell’IRC: la sequenza del dialogo tra Cinqué
e Yamba. Qui di seguito riporterò ampi
stralci di questo dialogo (ma ovviamente un
testo trascritto riduce di molto l’impatto
della scena del film).
Yamba è uno degli africani che, per caso, si è
trovato nelle mani una copia della Bibbia e
per curiosità si è messo a sfogliarla. Lo si vede durante il processo intento a girare le pagine soffermandosi ovviamente sulle immagini che illustrano la storia della salvezza
(non conosce infatti la lingua inglese). Dopo
la burrascosa udienza che precede il giorno
della sentenza, ritroviamo Yamba intento a
“leggere” la Bibbia negli spazi malsani della
prigione (una specie di grotta sotterranea)
dove, fino al termine del processo, sono stati
incatenati i presunti schiavi dell’Amistad.
A vederlo leggere, Cinqué lo rimbrotta: «È
inutile che fai finta di leggere, tanto non c’è
nessuno che ti sta guardando», gli dice, forse
irritato dell’atteggiamento dell’amico. Ma
Yamba gli risponde prontamente: «Non sto
fingendo, sto finalmente cominciando a capire». Cinqué gli si avvicina e Yamba lo introduce e lo guida, come in una vera catechesi, attraverso la storia biblica, ovviamente
una storia ripercorsa attraverso le illustrazioni piuttosto che attraverso le parole, quasi
una Biblia pauperum. Così vediamo Yamba
R I P R E S E
che gli mostra alcune illustrazioni di strage e
distruzione tratte dall’Antico Testamento
commentando: «La loro gente ha sofferto
più della nostra, le loro vite erano piene di
sofferenza». Poi si vede la scena della Natività di Gesù e Yamba intuisce che: «Poi nacque Lui e tutto cambiò». «Lui chi è?» chiede
Cinqué (ponendo così la domanda decisiva
di ogni uomo che da 2000 anni incontra il
Vangelo) ed è bella la risposta di Yamba:
«Non lo so, ma ovunque vada è seguito dal
sole» (indicando l’aureola attorno al volto di
Cristo). Prosegue la descrizione di Gesù:
«Qui cura la gente con le sue mani…»;
«…la protegge» (l’illustrazione è quella dell’adultera di Gv 8); «Gli portano i bambini»,
«Può anche attraversare il mare» (qui è evidente l’emozione dei due africani, catturati
nel caldo paese africano e condotti attraverso l’oceano, in un’altra parte sconosciuta del
globo). «Poi accadde qualcosa» dice Yamba e
il montaggio del film passa alla sequenza A
mostrandoci l’ombra del giudice che cammina dentro la chiesa verso il crocifisso; «Fu
catturato, accusato di qualche crimine. Lui è
qui con le mani legate» (l’illustrazione mostra il processo di Gesù davanti a Pilato).
Cinqué subito osserva: «deve aver fatto certo
qualcosa», ma la risposta di Yamba è struggente: «Perché? Noi che cosa abbiamo fatto?», al che lo spettatore non può non rimanere indifferente: è perfetta l’identificazione
della figura di Cristo con quella di tutti quei
“poveri Cristi” dei giovani africani buttati
ingiustamente in catene nel carcere americano. Yamba aggiunge, mostrando l’immagine
del Golgota con le tre croci: «Qualunque cosa fosse, era grave abbastanza per farlo uccidere». Cinqué è senz’altro scosso ma di fronte all’immagine di Cristo morto in croce
non può far altro che dire: «È solo una storia, Yamba!». Al che l’amico non si scompone, gira le pagine e mostra l’illustrazione della deposizione dalla croce dicendo: «Ma,
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D E T T A G L I
guarda! Non è la fine. La sua gente prese il
corpo giù da questa… da questa… cosa» e
disegna in aria con la mano una croce, proprio nel momento in cui il perfetto montaggio del film mostra il giudice che si fa il segno della croce davanti al crocefisso. Yamba
continua la sua “catechesi” teso a mostrare al
suo capo ancora “scettico” come la storia di
Cristo sia in perfetta simbiosi con la loro
storia: «Lo hanno portato in una grotta; avvolto in una stoffa come noi». È la scena
della sepoltura, ma lo spettatore, guidato
dalle parole di Yamba, non può fare a meno
di non vedere i giovani africani, chiusi in
quella grotta-prigione e avvolti in rozze coperte senza pensare alla naturale identificazione tra le due storie, quella biblica e quella
dei lettori della Bibbia. «Pensavano fosse
morto» continua Yamba, «ma poi apparve di
nuovo davanti alla sua gente» (la Bibbia è
aperta alla pagina delle apparizioni di Cristo
ai discepoli). «E parlò loro. E infine si alzò
in cielo» e tutti guardano verso l’alto: i personaggi ritratti all’interno dell’illustrazione,
che guardano verso Cristo assunto in cielo;
Yamba e Cinqué che alzano istintivamente
gli occhi al cielo, copiando il gesto dei discepoli; e infine si vede il giudice assorto in
preghiera davanti al crocifisso, ma la telecamera riprende la scena da terra, per cui il
Cristo crocifisso sembra lanciato verso il cielo (a significare che il Cristo assunto è lo
stesso Cristo crocifisso e quello crocifisso è
quello risorto e assunto). «Qui è dove va l’anima quando muore» intuisce con lo sguardo felice Yamba e spiega all’amico indicando
il cielo raggiunto da Gesù: «Qui è dove andiamo noi quando ci uccidono», ancora una
volta lo stesso messaggio: in ogni uomo c’è
Cristo, la storia dell’uomo e quella di Cristo
sono intrecciate, innervate una nell’altra.
Cinqué ormai non può non essere toccato, e
guarda Yamba che termina il suo racconto
per immagini con un suo “giudizio finale”:
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R I P R E S E
«Non sembra tanto brutto», e le pagine che
indica sono due, quella della crocifissione
(con i tre corpi appesi alla croce) e quella
della stessa scena ma dopo la deposizione,
con le tre croci vuote; dopo la morte la resurrezione, cioè: è una storia di sofferenza e
dolore, ma è una storia bella, che ha senso,
che va oltre ogni apparenza e aspettativa,
che dà speranza. Ed è la speranza il sentimento che anima i prigionieri africani la
mattina dopo quando, incatenati davanti
agli sguardi dei curiosi, sfilano per le vie della città per recarsi al tribunale dove si svolgerà l’epilogo della loro drammatica vicenda: speranza di giustizia e liberazione. La telecamera del regista si sofferma ovviamente
anche su Cinqué e Yamba, i due autori dell’intenso dialogo a carattere religioso ed
evangelico: Cinqué è sempre fiero mentre
cammina, sempre pronto a incoraggiare i
suoi, da buon capo del villaggio, mentre
Yamba lo vediamo che sembra distrarsi per
uno strano spettacolo che vede svolgersi oltre i tetti delle case (è un colpo di genio del
regista): ecco che, dietro gli alti edifici del
porto della città, si intravedono i tre alberi
di una grande nave, ma la nave non si vede,
dal punto di visuale di Yamba quello che appare sono solo tre grandi croci, vuote, proprio come quelle dell’ultima illustrazione
appena vista. Con commossa partecipazione
e intensa speranza Yamba riceve come un segno che lo rincuora, confermandolo nella
“fede” appena conosciuta attraverso quella
strana storia che “non sembra tanto brutta”.
Dio libera l’uomo attraverso il Figlio,
Gesù Cristo, uomo dei dolori
Se il tema del film è quello della giustizia e
della libertà, la scena che ho voluto estrapolare e che spesso mostro ai miei alunni ci
rinvia direttamente al testo biblico e al con54
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D E T T A G L I
cetto del Dio che libera l’uomo ma attraverso l’Incarnazione, facendosi Egli stesso uomo come noi. Il Dio cristiano è un Dio
“credibile”, proprio perché ha il volto umano, perché ha assunto tutta la fragilità dell’uomo, redimendola. È un messaggio
profondo, anche complesso, ma che la rapida ed efficace scena del film Amistad è capace di rendere accessibile a chiunque. Il tema
quindi si sposta di qualche grado, non più
un film sulla libertà (questo è il tema della
sequenza A), ma il piccolo inserto (sequenza B) è tutto sul tema dell’evangelizzazione.
Come arriva e come far arrivare la parola
del Vangelo a chi non ha mai sentito parlare
di Cristo? Con il sistema della storia per
immagini, si potrebbe dire della Biblia pauperum, il film dell’ebreo Spielberg stimola
lo spettatore ad una bella e seria riflessione,
che ci porta a dire, tra l’altro, che quello
dell’uomo dei dolori è il volto di Cristo che
forse più di ogni altro fa breccia nel cuore
di ogni uomo. Forse è il dolore ciò che accomuna tutti gli uomini come osservava
Umberto Galimberti, un intellettuale certamente non allineato su posizioni cattoliche,
su la Repubblica nel 2002, parlando (ed elogiando) la tenacia con cui Giovanni Paolo
II mostrava al mondo il suo volto e il suo
corpo piegato dalla sofferenza; così come
un’altra autrice certamente non “schierata”
come la scrittrice Natalia Ginzburg che, sulle pagine dell’Unità nel 1986 confidava: «A
me dispiace che il crocifisso scompaia da
tutte le classi. Mi sembra una perdita… Il
crocifisso è il segno del dolore umano. Il
crocifisso fa parte della storia del mondo.
Prima di Cristo nessuno aveva mai detto
che gli uomini sono tutti uguali e fratelli…
Gesù Cristo ha portato la croce, e a tutti
noi è accaduto di portare sulle spalle il peso
di una grande sventura». È questo il senso
della scena di Amistad che ho cercato di
riassumere.
L E
O P E R E
E
I
G I O R N I
Le opere e i giorni
a cura della Redazione
Conferenza Episcopale Italiana Servizio Nazionale per
l’IRC (a cura), L’insegnamento della religione risorsa per l’Europa. Atti della ricerca del Consiglio delle
Conferenze Episcopali
d’Europa, LDC,
Leumann 2008, libro + Cd Rom, pp. 461, € 40,00, ISBN
978-88-01-04116-3.
Il volume riporta gli Atti e il materiale vario
raccolto durante la ricerca sull’insegnamento
della religione in Europa svoltasi tra il gennaio del 2005 e il novembre del 2007; ricerca e relativo convegno voluti dal Consiglio
delle Conferenze episcopali d’Europa
(CCEE) per iniziare un comune cammino
di confronto e scambio di idee tra operatori
del settore all’interno dei rispettivi organismo ecclesiali nazionali. Il volume è così
strutturato:
• documenti sulla fase preparatoria della
ricerca (pp. 13-19);
• interventi del primo incontro CCEE sull’IR svoltosi a Roma il 10 luglio 2006
(pp. 23-64), nel contesto del quale l’intervento del sottosegretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica
Mons. Zani (Formare l’uomo europeo. Le
sfide della scuola) fornisce un’acuta analisi
dei rischi sottesi ad alcune politiche europee di formazione;
• i rapporti nazionali sulla condizione dell’IR in ventinove paesi europei (pp. 67304), che hanno il pregio di fornire un
quadro sinottico di notevole rilievo al fi-
ne di prender coscienza di una situazione
alcuanto variegata: l’IR confessionale è
presente in diciannove paesi (e nelle regioni francesi di Alsazia e Mosella); il
non confessionale è presente in cinque
(tutti protestanti); in Francia, Bielorussia
e Bulgaria l’insegnamento è assente. Di
questa seconda parte segnaliamo in specie il quadro sintetico offerto da Andrea
Porcarelli (pp. 298-304) e la griglia comparativa (pp. 278-297);
• i contributi teorici elaborati da uno staff
di esperti in base ai dati della ricerca (pp.
307-386). Di questa sezione vogliamo
segnalare due relazioni: quella di Sergio
Cicatelli (Il contributo dell’Ir alla formazione dell’identità personale e delle competenze sociali, pp. 321-333) perché prende
in considerazione la crescente realtà degli
insegnamenti interconfessionale; e quella
di Etienne Verhack (Belgio), segretario
generale del Comitato Europeo per l’Insegnamento Cattolico, su L’insegnamento
religioso nelle scuole cattoliche dell’Europa
(pp. 361-374) soprattutto per la franchezza con cui vengono esaminati gli effetti dell’insegnamento dell’IR sulla formazione umana e culturale degli studenti
e gli ostacoli posti dai governi e dall’ambiente all’IR;
• il materiale dell’incontro finale tenutosi a
Roma dal 20 al 30 novembre 2007 (pp.
397-445). In questa sezione è contenuto
il documento finale L’insegnamento della
religione una risorsa per l’Europa (pp. 432437) del quale riportiamo due passaggi:
«Le Chiese cattoliche d’Europa avvertono
la presenza di un clima culturale spesso
sfavorevole all’Insegnamento della religio55
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ne nelle scuole. In molti paesi è presente
il dubbio sulla legittimità dell’esistenza
stessa dell’Insegnamento della religione
nella scuola perché vien detto, nel clima
culturale emergente, che la religione è
una questione privata» (par. 2.3., p. 435);
«Particolare attenzione è avvertita dalle
Chiese d’Europa per scegliere, formare ed
aggiornare gli insegnanti di religione, offrendo loro un particolare accompagnamento spirituale e percorsi di formazione
continua… È poi anche avvertito il bisogno di gruppi e di associazioni in cui poter dialogare sulle tematiche della loro
spiritualità e professionalità e sui contenuti del loro insegnamento» (par. 3.2., p.
435). Il documento finale nel quinto paragrafo dedicato alle conclusioni, propone alcuni indiscutibili punti fermi: necessità di valorizzare il ruolo della famiglia
nel sostegno all’IR; la convinzione che
l’IR può legittimamente essere proposto
agli allievi indipendentemente dalle fede
religiosa per il suo valore formativo umano e culturale; la constatazione che l’IR
confessionale risponda meglio all’esigenze
attuali poiché mette i giovani in contatto
con una realtà vivente e verificabile e non
semplicemente con un insieme di credenze livellabili sulla sola dimensione intellettuale.
In breve: il volume ripone il suo valore soprattutto nel fornire dati numerici e situazionali sull’IR nei diversi paesi europei. Escludendo la relazione di Mons. Zani si avverte
però la mancanza di un contributo più approfondito e puntuale sull’evoluzione dell’IR
in Europa. Manca, a nostro avviso, anche
una riflessione sul rapporto tra valori religiosi
e travagliata questione delle “radici cristiane”
dell’Europa, o almeno una contestualizzazione di esso. Ciò sarebbe stato utile per leggere
i dati forniti sullo sfondo di motivazioni politiche e culturali più ampie (G. Forlai).
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CEI, Servizio Nazionale
per l’IRC (a cura di),
Nella scuola a servizio
della persona. La scelta
per l’IRC, Leumann
(TO), Elledici, 2009,
pp. 158, € 18,00, ISBN
978-88-01-04275-7.
Il volume, curato dal Servizio Nazionale della CEI – impegnato a seguire in modo permanente i problemi per l’IRC nella scuola e
a elaborare strumenti e sussidi per l’aggiornamento degli IdR – e scritto a più mani, si
propone di fare il punto sull’IRC in Italia.
Esso si «offre come occasione di stimolo e di
riflessione a quanti hanno a cuore il presente
e il futuro dell’insegnamento della religione
cattolica in Italia» (p. 6). Dopo una breve
presentazione da parte del Card. Angelo Bagnasco, il libro si articola in quattro ampi
capitoli:
1. Per una cultura a servizio della persona
2. 1993-2008: Quindici anni di dati sull’IRC nelle scuole statali
3. Il contributo dell’insegnante all’identità
dell’IRC
4. L’insegnamento della religione, una risorsa per l’Europa.
Il primo capitolo, redatto da don Vincenzo
Annichiarico, responsabile del Servizio Nazionale per l’IRC della CEI, evidenzia il
contributo che l’IRC (in possesso di tutti gli
strumenti e i linguaggi propri della scuola,
pienamente inserito nelle sue finalità e promosso da seri e capaci professionisti) può offrire alla cultura scolastica e l’apporto decisivo che detto insegnamento può offrire ai
giovani nella definizione del loro personale
orizzonte di senso e nella costruzione del loro personale quadro di valori.
Il secondo capitolo è scritto da G. Antonio
Battistella, Alessandro Castegnaro e Dario
Olivieri, tre statistici che da quindici anni
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hanno messo a servizio dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto (di cui Castegnaro è direttore) la loro professionalità, lavorando all’elaborazione statistica dei dati relativi all’IRC e agli IdR, agli alunni avvalentisi
e non, all’ora alternativa, ai libri di testo,
ecc. Essi illustrano con grande chiarezza i risultati delle loro ricerche analizzando le tabelle statistiche che fotografano la condizione dell’IRC in Italia.
Il terzo capitolo è curato da Sergio Cicatelli,
esperto di IRC e consulente del Servizio Nazionale per l’IRC stesso. Cicatelli ripercorre
e rilegge tutta la storia dell’IRC partendo
dall’idea che il Concordato del 1984 ha dato
a questo insegnamento un carattere di disciplina sostanzialmente “debole” (aggettivo
che Cicatelli riprende da L’ora debole di C.C.
Canta), perché il nuovo Concordato, tra le
altre cose, «si sofferma ampiamente sul nuovo regime di facoltatività, dal quale ci si attendeva un sensibile calo di partecipazione
[…, pone] il divieto di ricorrere a voti e di
sottoporre ad esame gli studenti, [e impone]
l’uso di una scheda separata di valutazione»
(p. 120). Quindi Cicatelli ricostruisce l’annosa questione dello stato giuridico, attraverso i dibattiti parlamentari e i vari provvedimenti, fino ad arrivare alla legge 186/03 e
alle conseguenze (cfr p. 132) che essa ha
prodotto sull’insegnamento stesso, sui docenti, sulla Chiesa, sullo Stato.
Il quarto e ultimo capitolo è redatto da Alberto Campoleoni, coordinatore del progetto “IR in Europa”, che riferisce e interpreta i
risultati di una ricerca promossa dal Consiglio della Conferenze episcopali d’Europa
(CCEE) e dalla CEI (vedi la recensione precedente). La ricerca, condotta da numerosi
delegati delle chiese di Europa, testimonia
l’importanza che per le Chiese riveste l’azione educativa dell’IRC, considerato ovunque
una risorsa per l’Europa e per la formazione
dei giovani europei e come possibile prota-
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gonista della realizzazione di un autentico
processo di unificazione e integrazione dei
popoli. In appendice a questo capitolo è riportata, a cura di Loretta Recrosio, una sintesi dei dati della ricerca stessa.
Il libro esamina le problematiche passate e
attuali dell’IRC attraverso quattro capitoli
ben calibrati, offre molteplici spunti di riflessione, consente di rileggere la storia dell’IRC con grande lucidità e con il giusto distacco dalle vicende passate e proietta una
nuova luce sul suo futuro (G. P. Testa).
Laura Mentasti – Cristiana Ottaviano, Cento
cieli in classe. Pratiche,
segni e simboli religiosi
nella scuola multiculturale, Edizioni Unicopli,
Milano 2008, pp. 251,
€ 15,00, ISBN 97888-400-1290-2.
Non capita frequentemente di imbattersi in
libri seri che trattino con pacatezza e
profondità temi di stringente attualità, e solo apparentemente di nicchia, come quello
della presenza dei simboli religiosi nella
scuola. Laura Mentasi, esperta in processi
formativi, e Cristiana Ottaviano, professore
associato di sociologia dei processi formativi,
ci offrono un testo ricco di informazioni
raccolte nelle scuole, di documentazione
(anche sitografica), di testimonianze di persone che nel mondo dell’istruzione si misurano realmente con il problema della multiculturalità e dei suoi simboli. Vogliamo prima di tutto presentare la struttura del libro
con i rispettivi contenuti e in chiusura offrire alcune considerazioni.
Il primo capitolo prende spunto dalla vicenda nostrana della rimozione del crocifisso
dalla scuola di Ofena, in provincia dell’Aquila, e dall’affaire du voile in Francia, per racco57
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gliere le varie opinioni e tendenze culturali
intorno ad un contenzioso tra laici, cattolici
e atei devoti, tutt’altro che risolto, che ha per
oggetto la presenza di simboli religiosi nello
spazio pubblico. Il secondo capitolo mette
sul piatto la scelta laica e non identitaria sancita dall’Unione Europea attraverso il Trattato di Lisbona del 2008 (sostitutivo del contestatissimo Trattato costituzionale europeo del
2004): si fa notare che in tale testo la laicità è
declinata soprattutto nei termini di apertura
alla multiculturalità e di equiparazione di
tutte le credenze (religiose e filosofiche), con
un voluto silenzio intorno alle radici giudaico-cristiane, finalizzato dalla volontà politica
di non ancorarsi a principi assoluti. È questa,
lo diciamo subito, un’idea di laicità confusa e
svuotata delle sue radici cristiane e illuministe; un’idea di laicità ‘frontale’: ethos statale di
fronte a valori religiosi. Ci chiediamo se non
sia più valido un modello di laicità ‘inclusivo’: valori religiosi colti all’origine della laicità (come, tra l’altro, suggerisce mons. Rino
Fisichella nel suo libro Identità dissolta,
Mondadori, Milano 2009). Con il terzo capitolo Mentasi e Ottaviano lasciano sullo
sfondo le grandi questioni per introdurci nel
vissuto della scuola italiana attraverso una serie di interviste ad operatori e docenti. Così
le Autrici: «In generale, nei nostri interlocutori c’è comunque la convinzione che la
scuola non possa e non debba proibire la
presenza di segni e simboli: la soluzione “alla
francese” – che, in nome della laicità, intesa
come proclamazione della “a-religiosità” dello Sato, vieta qualsiasi manifestazione e/o
ostentazione di appartenenze religiose – viene, più o meno esplicitamente, criticata da
tutti» (p. 104). Il quarto capitolo fornisce
uno spaccato statistico sulla presenza dei minori stranieri in Italia rilevandone anche l’appartenenza religiosa: si scopre così che gli albanesi nelle scuole italiane rappresentano il
15,5% degli scolarizzati stranieri, seguiti da
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rumeni (13,6 %) e marocchini (13,5 %).
Naturalmente le percentuali variano sensibilmente a seconda delle regioni (gli albanesi
sono per lo più concentrati in Puglia). Sulle
appartenenze religiose non possiamo usufruire di dati statistici; ciononostante, date le
provenienze, si può ragionevolmente supporre che la religione musulmana sia la più presente (Albania e Marocco sono paesi a maggioranza islamica). Come viene vissuta questa presenza nel quotidiano scolastico? È l’interrogativo del quinto capitolo che restringe
la visuale alle esperienze didattiche condotte
nelle scuole di Bergamo e Brescia, ove gli
studenti stranieri superano abbondantemente la soglia del 10% (con in testa i boliviani
per Bergamo e gli albanesi per Brescia). E se
nel bergamasco l’esperienza più seguita per
favorire l’integrazione è quella dei mediatori
culturali, il circuito bresciano offre iniziative
più articolate e di complessa gestione: si va
dai poli di prima accoglienza nelle scuole, al
“progetto di alfabetizzazione e preservazione
della cultura d’origine” per donne e minori,
passando per il mediatore linguistico-culturale. Ma al di là delle iniziative si constata
che le difficoltà vengono superate per lo più
«grazie a un’esperienza ormai consolidata del
corpo docente» (p. 139).
Il sesto capitolo si immerge decisamente nel
tema del libro: il pluralismo religioso e i simboli delle religioni nello spazio delle scuole
bergamasche e bresciane. Ed è tra queste pagine che si possono attingere importanti
considerazioni. Prima fra tutte: il problema
del pluralismo religioso non è ancora sufficientemente coscientizzato perché il “fatto
religioso” in genere tende a restare in secondo piano rispetto ad altri elementi pragmaticamente parlando più urgenti (ad esempio
l’integrazione linguistica). In secondo luogo
l’occasionalità con la quale gli alunni sollevano con curiosità domande al docente circa
abitudini o segni religiosi altri «impone di
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abbandonare una rigida logica programmatoria, per sviluppare invece la capacità di gestire l’imprevisto, di adattare il proprio lavoro alla situazione che si crea di volta in volta»
(p. 145). I problemi legati al crocifisso in
classe (che sia appeso o meno) sembrano non
suscitare grande enfasi, mentre il problema
dell’alimentazione regolata da convinzioni
religiose viene risolta con menù alternativi.
Più delicata la questione delle festività religiose cattoliche che determinano anche la sospensione dell’attività didattica. In quest’ambito la diversità tra un istituto scolastico e
l’altro è marcata e solitamente gestita dai docenti: si va dal silenzio, a momenti di festa
svuotati di contenuti religiosi, a qualche raro
tentativo di spiegare il significato culturale e
storico della festività. Per ciò che riguarda la
scelta dell’IRC, si oscilla tra il 50% e il 75%,
ma il dato non può essere preso come demarcazione categorica di appartenenza religiosa: se è vero che solitamente i professanti
altre fedi non frequentano l’ora di religione
cattolica, una quota non irrisoria sceglie di
avvalersene, e d’altra parte anche alcuni genitori cattolici iscrivono i figli ad attività alternative perché considerano l’IRC inutile ai fini di una crescita nella fede. Arriviamo finalmente alle conclusioni delle Autrici. In forza
dei risultati della ricerca si può affermare che
la situazione italiana sia particolare rispetto
alla Francia (ove l’IR manca del tutto, a presunta tutela della “laicità” della scuola), alla
Spagna (mantenimento dell’insegnamento
ed affiancamento in futuro di una disciplina
che proponga i pilastri di un’etica laica) o alla Gran Bretagna (dove si moltiplicano esperienze di multifaith religious education). In
Italia l’insegnamento della religione riveste
ancora un ancoraggio confessionale marcato
e i problemi legati al velo o al crocifisso non
sembrano così decisivi come la stampa vuol
far credere. Ciò non vuol dire che la situazione non cambi o non debba cambiare. Da più
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parti si chiede una revisione dell’IRC e un’assunzione più consapevole del pluralismo religioso destinato a crescere nei prossimi decenni. È questo il punto nodale per le due ricercatrici: l’urgenza di elaborare percorsi didattici interculturali e religiosi non sporadici.
Ma se nella programmazione curriculare non
si accentua la rinnovata importanza del “fatto religioso” in sé, allora anche l’integrazione
tra fedi cade nell’occasionale e il problema
viene lasciato alla buona volontà dei docenti.
Se non si assume questo punto di vista ampio la pluralità delle fedi, più che una risorsa,
rischia di suscitare ostacoli e incomprensioni;
così le Autrici: «Il tema della valorizzazione
della multireligiosità a scuola, infatti, non è
risolvibile nel dibattito sulla conservazione,
introduzione o rimozione di segni religiosi in
contesti pubblici … quanto piuttosto attraverso l’adozione di prassi di conoscenza, innanzitutto, e poi di confronto dialogico…
sulla presenza di pratiche e segni religiosi» (p.
230). A tal proposito si potrebbe ampliare
l’assunto con la lettura del bel lavoro di Paolo Gomarasca, Meticciato: convivenza o confusione? (Marcianum Press, Venezia 2009).
Prima di concludere questa recensione vogliamo porgere due considerazioni. Prima di
tutto dalla ricerca si apprende che tutto il
clamore suscitato dai media intorno alla
questione della presenza o meno nelle scuole
dei simboli religiosi è volutamente esagerato:
la scuola italiana ha ben altri problemi, forse
più legati alla solidità strutturale dei muri ai
quali eventualmente attaccare il crocifisso!
In secondo luogo il testo sottolinea giustamente la radice del problema che non è prima di tutto nell’insegnare una determinata
religione bensì nel riconoscere legittimità e
spessore al senso religioso e al “fatto religioso” nella cultura contemporanea, cultura che
ha visto ripresentarsi in maniera inaspettata
e sorprendente il ritorno delle religioni sullo
scenario mondiale (nel bene e nel male), in
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barba alle profezie di desacralizzazione selvaggia degli anni ’70 e ’80 del Novecento.
Le religioni sono un fatto vissuto prima ancora che un oggetto di studio. In tal senso
Cento cieli in classe ha la pecca di non accennare al rapporto inversamente proporzionale
tra secolarizzazione e nuova religiosità: mentre si de-sacralizzano i simboli e linguaggi
tradizionali delle fedi emerge un tipo di senso religioso più interiorizzato e relazionale/comunitario forte che, se può, evita
lo spazio pubblico e/o politico. Ma l’approccio del libro è sostanzialmente sociologico;
pertanto questo limite è sicuramente superabile (G. Forlai).
Giuseppe Lorizio, Le
frontiere dell’Amore.
Saggi di teologia fondamentale, Lateran University Press, Città del
Vaticano 2009, pp.
362, € 25,00, ISBN
978-88-4650-642-9.
Mons. Giuseppe Lorizio, ordinario di Teologia fondamentale nella Facoltà di Teologia
della Pontificia Università Lateranense e Preside dell’ISSR “Ecclesia Mater”, offre in
questo volume una preziosa raccolta di saggi
occasionata da conferenze tenute in vari seminari e convegni. Non si pensi però che
una tale occasionalità vada a scapito dell’organicità della proposta. Lorizio – chi ne è fedele lettore lo sa – ha una sua linearità garantita da assunti ermeneutici di indubbio
quanto esplicito sapore rosminiano. Sono
proprio questi assunti unificanti che consentono di leggere anche Le frontiere dell’Amore
senza disperdersi. Lorizio ha la carità intellettuale, non abituale tra i teologi di professione, di fornirci le linee guida della raccolta
nel Prologo (in terra), pp. 7-12: innanzi tutto
i saggi si pongono in una terra di confine,
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connaturale e strutturante la teologia fondamentale, tra cultura filosofica contemporanea e credibilità della Rivelazione; la frontiera viene continuamente forzata con “Amore”, cioè nell’ottica di una Carità che si dona
e di cui, per dirla con Rosmini, l’uomo non
è mero fruitore ma ancor più “ospite”. E qui
bisogna intendersi: Lorizio propone una metafisica agapica originata dall’ontologia della
gratuità: l’essere non si dice semplicemente
come “essenza” o come “relazione”, bensì come gratuità. La Caritas, essenza di Dio, non
si coglie nella fissità di una onto-teologia ma
nemmeno (ed è questo il punto forza dell’Autore) in una sostanza che si declina semplicemente nella simmetria della relazione,
ove si dice “Io” solo dopo aver detto “Tu”.
Se così fosse la riduzione della Caritas al capriccio dell’interlocutore umano sarebbe
inevitabile. L’Amore che abita le frontiere è
invece gratuito, e quindi asimmetrico, ma
non per questo distante, asettico. C’è un afflato barthiano in questo. Lorizio declina
una Caritas che salvaguarda il trascendente
ma che proprio per questo può essere colta
solo dentro la solitudo dell’interiorità. Apparente contraddizione; in realtà il gratuito è
tale per scavalcare le secche di una deriva
estetica o moraleggiante e per ‘cadere’ proprio lì dove l’essere di ogni persona è detto
come indicibile alterità: intimior intimo meo.
Nella metafisica agapica di Lorizio si danno
convegno Rosmini e ancor più Duns Scoto
con la loro definizione di ‘persona’ quale sostanza individuale di natura razionale che
non può essere raccontata se non dall’Amore, poiché solo l’Amore abbraccia senza
soffocarlo il dramma individuale del singolo
che Lorizio ha ben presente come ci suggerisce la citazione di un verso della poesia Sacchi a terra per gli occhi di Clemente Rebora
(più degno figlio del beato roveretano), posta all’inizio del volume: «…la cosa capita
non redime la cosa sofferta».
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Ecco dunque Le frontiere dell’Amore aprirsi
nel primo capitolo all’ineludibile problema
della marginalità del sapere teologico nell’ambito del mondo cittadino e universitario
(Il sapere della fede nel villaggio globale. Dimensione “secolare” della teologia nella e per la
città, pp. 13-55). Marginalità che Lorizio
legge come occasione per uscire da una certa
autoreferenzialità del sapere teologico e che
coglie in triplice versione: marginalità geopolitica a fronte dell’appiattimento delle culture sulla nuova ideologia omogeneizzante
della globalizzazione; marginalità credente e
ritorno del sacro che impone di affrontare
senza contrapposizioni fede e religione; marginalità epistemologica che invita a registrare
la contraddizione in ambito europeo tra una
teologia marginalizzata, in quanto portatrice
di una forma del sapere, e una filosofia che
sempre di più si esercita in problematiche
religiose. Le pagine a seguire ci conducono
sul terreno del nomadismo (Il pensiero nomade come figura del pensiero credente nella
tradizione ebraico-cristiana, pp. 57-95). Dal
comprendersi “arameo errante” del pio israelita all’uomo moderno che supera la fortezza
gnoseologica del cogito cartesiano per aprirsi
ad una coscienza ridimensionata dell’Io (e la
psicanalisi ha fatto il suo ulteriore lavoro!) si
guadagna alla riflessione teologica uno spazio per l’esistenza dell’Altro e degli altri.
“Esodale” è dunque la teologia che supera la
metafisica sostanzialista, l’idolo a favore della distanza direbbe Marion, per mettere a tema un pensiero di Dio inclusivo e non
escludente, di un Dio capace di ‘muoversi’
per intercettare lo smarrimento dell’uomo
viatore. Se Dio si muove verso il nomade in
quanto amore includente, allora, la sua ‘rivelazione’ al viandante altro non sarà che un
gesto di ‘carità’: la saldatura tra la costituzione dogmatica Dei Verbum e l’enciclica di Benedetto XVI è conseguentemente posta in
atto nel terzo e quarto capitolo (La rivelazio-
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ne dell’Amore. Per una rilettura della Dei Verbum in prospettiva agapico-trinitaria, pp. 97133; Il nome di Dio è amore. La dimensione
teo-logica della Carità, pp. 135-158).
A partire dal quinto capitolo Lorizio lascia
gli argomenti più propriamente fondativi
per applicare la metafisica agapica ad alcune
questioni teologiche che hanno animato le
acque della teologia del XX secolo: il rapporto tra naturale e soprannaturale (I due
volti dell’unica rivelazione, pp. 159-196), che
si chiude con una interessante ricognizione
del pensiero di Rosmini sull’opera deificante
della grazia; la categoria ontologica e antropologica del “trascendentale” in riferimento
agli assunti di K. Rahner, (siamo nel sesto
capitolo, Il “trascendentale” nella teologia del
XX secolo. Bilancio e prospettive, pp. 197219), ove Lorizio esterna il suo originale
contributo nel declinare il trascendentale (e i
classici trascendentali della metafisica) mediante il triplice linguaggio dell’alterità
(apertura nativa alla forma reale dell’essere),
dell’interiorità (coscienza della scintilla divina di verità nelle mente dell’uomo), della
gratuità (in riferimento al darsi del bello e
del buono nella vita della grazia e nella forma morale dell’essere).
I capitoli dal settimo al nono affrontano con
un taglio sapienziale e attento alla temperie
culturale i tre trascendentali (vero, buono e
bello) in relazione all’esistenza credente. A
nostro parere le riflessioni ivi contenute danno molto a pensare anche per la loro ricaduta pastorale. Riguardo al vero (La verità della
fede. Oltre i falsi dilemmi. Verso la santità della ragione, pp. 221-260), l’Autore si propone
di superare le false alternative della fede contro ragione, della verità contro la libertà,
della verità contro la carità, e lo fa, dopo
averle stimmatizzate, nella prospettiva dell’ontologia trinitaria rosminiana. Trattando
del buono, declinato dalla libertà dell’atto
credente (La libertà della fede. Oltre la ridu61
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zione etica dell’adesione credente, pp. 263293), Lorizio prende spunto per evidenziare
un rischio tutt’altro che sopito, cioè quello
di ridurre la vita di fede a mera morale:
«Non possiamo quindi dimenticare che la
fede, includendo l’etica, la relativizzi richiamandola al suo ordine originario» (p. 268).
Ciò posto, con il capitolo sul bello (La bellezza della fede. Oltre la deriva estetizzante
del credere, pp. 295-326), si fa emergere l’altro rischio della vita credente, ossia quello di
ridurre la fede a ‘ornamento’ dell’esistenza.
Il correttivo alle derive, inutile dirlo, è quello che si apprende dalla nota circuminsessione dei trascendentali: non c’è bontà senza
verità, non c’è bellezza autentica che sia isolata dal vero e buono. Lorizio si congeda dal
lettore con un ultimo capitolo dedicato, direbbe Rosmini, alla carità più alta, quella
spirituale. Ed è dunque il tema della testimonianza offerta agli uomini che conclude
la raccolta dei saggi (Epilogo. Testimoniare il
fondamento. Il senso teologico della martyria,
pp. 327-348). Testimonianza non di una fede generica ma del fondamento agapico,
cioè del saper soffrire di Dio per noi, che interpella la conoscenza e la razionalità. Affidabile e non assurdo, sebbene paradossale,
apparirà allora il paradigma strutturale di
ogni esistenza di fede, quale appunto è la
martyria.
Questa la lezione di Lorizio. Lezione che è
rimasta fedele alle frontiere del pensiero
contemporaneo (basta dare uno sguardo all’Indice dei nomi per averne conferma) e alla
fatica del vivere che è, in ultima analisi fatica
del pensare “la cosa capita”. Ma albergando
in frontiera si può cogliere l’eco dell’Amore
nascosto nella struttura dell’essere. Quell’amore di Cristo che, per riprendere e parafrasare il seguito della citazione reboriana posta
all’inizio del volume, “non lascia senza bacio” la parola di chi cerca il fondamento (G.
Forlai).
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Rosino Gibellini,
Breve storia della teologia del XX secolo,
Morcelliana, Brescia
2008, pp. 184, €
14,00, ISBN 978-88372-22789.
La conoscenza della
teologia rischia spesso
di realizzarsi in modo
astorico e decontestualizzato. Se lo studio
della filosofia nei licei si riduce infatti perlopiù ad una pedante “storia della filosofia”,
senza poi un corrispondente approfondimento speculativo delle diverse questioni, lo
studio della teologia incappa invece non di
rado nel vizio opposto: si limita cioè alla
presentazione dei grandi temi dottrinali,
senza un adeguato ancoraggio alle matrici
culturali e storiche del pensiero dei diversi
autori. La compendiosa ricognizione storica
dei principali teologi cristiani del Novecento
realizzata da Rosino Gibellini rappresenta
un prezioso strumento – seppure limitato al
XX secolo – per compensare questa generalizzata carenza. L’autore, dopo aver consegnato alle stampe e alle biblioteche un’imponente ed apprezzata opera di analogo titolo e contenuto (La teologia del XX secolo,
Queriniana, Brescia 1992, ampliata con
un’Appendice nel 2007, traduzione in otto
lingue), con questo saggio ha voluto offrire
ad un pubblico meno specialista i risultati
generali della sua ricerca. Il volume si articola in 38 brevi medaglioni, ciascuno dei quali
tratteggia il profilo biografico e teoretico di
un teologo, oppure riassume gli elementi
più rilevanti di una corrente del pensiero
cristiano recente. Da von Harnack a De Lubac, da Guardini a Boff, da Daniélou a Dupuis, i protagonisti della teologia del Novecento vengono presentati con precisione e
concisione (ogni ritratto è racchiuso in duetre paginette) e la loro proposta teoretica
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può essere meglio compresa e apprezzata
proprio a partire dal contesto e dallo sviluppo storico. L’attenzione ecumenica non si limita ai nomi “imprescindibili” dell’universo
protestante di lingua tedesca, ma si estende
al mondo ortodosso e a tutti i contesti teologicamente più rilevanti, sia in senso geografico (teologia africana, asiatica, ecc.) che culturale (teologia nera – distinta da quella africana per il suo contesto sociale –, liberazionista, femminista, ecc.). Un succinto Bilancio provvisorio (pp. 163-168) individua quattro modelli fondamentali del fare teologia
novecentesco: teologia della Rivelazione,
teologia della rilevanza esistenziale del discorso cristiano, teologia della svolta politico-pratica e teologia mondializzata nell’età
della globalizzazione: lasciamo alla lettura
diretta di queste pagine l’intrigante compito
di decifrare queste acute prospettive di sintesi. Completa l’opera un’originale e simpatica
appendice, intitolata La biblioteca teologica
del XX secolo: vengono citate, secondo l’anno
di pubblicazione, le pietre miliari della teologia del Novecento, in una panoramica internazionale sorprendente e illuminante. Si
consiglia la lettura del volume a tutti gli IdR
che vogliano abbracciare in una sintesi equilibrata il contributo caratteristico dei maggiori protagonisti della complessa “sinfonia
teologica” del secolo scorso (F. M.).
E. Salmann, Scienza e
spiritualità. Affinità
elettive, EDB, Bologna 2009, pp. 84, €
6,70. ISBN 978-8810-60504-2.
Per un IdR, aggiornarsi non è un optional. Non si può insegnare con passione e
competenza se non si continua a studiare, se
non si legge, se non si coltiva la propria inte-
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riorità. Per chi ha fatto dell’insegnamento e
della scienza una “professione” (così si suona
il titolo di un famoso saggio di Max Weber
– La scienza come professione –, ma non si dimentichi che il termine originale Beruf indica anche, e forse soprattutto, la “vocazione”!) la cura del proprio mondo interiore
non può prescindere dalla dimensione intellettuale. Questo esile fascicolo del monaco
benedettino Elmar Salmann rappresenta un
invito a coltivare una “spiritualità dello studio” che faccia incontrare la mente ed il
cuore, individuando le affinità elettive tra il
lavoro scientifico e l’interiorità orante. Solo
da questo incontro, ossia da un’assimilazione
profonda e spirituale dei contenuti teologici,
può nascere l’IdR efficace. Non basta infatti
essere “esperti di religione”: occorre cercare
Dio e diventare esperti di Lui – per quanto
possibile. E siccome il buon Dio ci ha donato anche l’intelligenza, non basta cercarlo
con tutto il cuore e con tutta l’anima, ma ci
vuole anche «tutta la mente» (cfr Mt 22,37).
In due brevi saggi (il primo corrisponde al
titolo del volumetto, il secondo è intitolato
La magia della lettura, già pubblicato nel
2007sulla rivista benedettina Erbe und Auftrag), l’autore ci fa innamorare dello studio,
sdrammatizzandone la fatica ed esaltandone
il fascino, ma non risparmia un severo esame di coscienza agli studenti, o studiosi, divenuti docenti: «Quale tipo di professionalità, di oggettività critica, di curiosità positiva mi caratterizza?… Mi spetta il denaro che
ricevo?… Imparo qualcosa mentre insegno?…». La «lode al limite», la «sfida» che il
testo pone al lettore, il «processo creativo»,
il«segreto della scrittura ammaestrata» sono
solo alcuni degli intriganti motivi di queste
pagine, nelle quali – come mi ha confidato
l’autore stesso – si trova un vero distillato
dello stile salmanniano. In poche pagine, un
autentico “integratore energetico per il cervello”, da consigliare come cura ricostituente
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alla fine dell’anno scolastico, per recuperare,
in un baleno, la voglia di mettersi a riflettere
appassionatamente con Dio e su Dio (F. M.).
Osservatorio SocioReligioso Triveneto,
Apprendere la religione.
L’alfabetizzazione religiosa degli studenti che
si avvalgono dell’insegnamento della religione
cattolica”, a cura di
Alessandro Castegnaro,
EDB, Bologna 2009,
pp. 257, € 21,60,
ISBN 978-88-10-60610-0.
Che cosa sanno i ragazzi e i giovani di oggi
della religione, e in particolare di quella cristiana cattolica? È proprio vero che la nostra
società si caratterizza per una crescente ignoranza religiosa, che le nuove generazioni anticipano? Sono interrogativi quanto mai attuali, che si inseriscono all’interno di una
più ampia riflessione sulla presunta crescente secolarizzazione delle nostre società, dell’incipiente “eclissi del sacro” profetizzata
qualche decennio fa e della più generale depressione culturale a cui stiamo assistendo
negli ultimi tempi. Le coordinate entro cui
si muove questa pubblicazione ne fa uno
strumento utile per attivare una riflessione
ad ampio raggio. Le informazioni sono riportate con criteri scientifici e rigorosi. Il testo è facilmente consultabile, i risultati sono
commentati con chiarezza, anche se non
manca talvolta quella sensazione di relativa
aridità tipica di ogni studio statistico.
L’indagine, promossa dalle diocesi del Triveneto, «si è posta in primo luogo come una
verifica dei livelli di alfabetizzazione religiosa
posseduti dai ragazzi che si avvalgono dell’IRC» (p. 10). È stata condotta in Veneto,
coinvolgendo le classi terminali della scuola
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secondaria di primo e secondo grado. Agli
studenti sono stati somministrati test contenenti domande appartenenti a cinque ambiti tematici: bibbia, vita di Gesù, Chiesa, vita
cristiana, religioni.
Le istruzioni per l’uso a beneficio del lettore
sono chiare ed oneste: lo studio non intende
valutare i risultati ottenuti sul piano educativo e non si propone nemmeno di verificare
quale sia il livello di apprendimento degli
studenti. Piuttosto la ricerca è partita dall’idea che se un certo insieme di conoscenze,
ritenute fondamentali, non sono presenti
negli intervistati, certamente si può concludere che nemmeno l’IRC è stato in grado di
fornirle. È bene inoltre precisare che i test
somministrati non ci danno indicazioni dirette circa la qualità professionale degli IdR
e neppure ci aiutano a quantificare con precisione l’influenza dell’IRC sulle conoscenze
religiose degli studenti, in quanto non è
possibile distinguere l’influsso delle differenti fonti da cui tali conoscenze possono provenire.
I risultati definitivi dei test sui livelli di alfabetizzazione religiosa sono moderatamente
soddisfacenti e consentono un certo ottimismo. Tuttavia sorgono alcune considerazioni. Innanzitutto sui limiti dell’indagine che,
ripetiamo, è stata svolta nel solo Triveneto.
Ciò significa che sarebbe improprio estendere tout court il risultato sul piano nazionale.
Poi dobbiamo rilevare l’impossibilità di utilizzare la ricerca per riflettere su alcuni
aspetti fondamentali dell’IRC, come la sua
incidenza effettiva sulle conoscenze dei contenuti del cattolicesimo.
Detto ciò, emergono dallo studio elementi
confortanti circa l’impatto formativo dell’IRC sugli studenti, i quali mostrano apprezzamento per l’insegnamento che viene
vissuto come un tempo di crescita e maturazione. L’ora di religione è considerata uno
spazio privilegiato per acquisire valori e dare
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senso alle esperienze umane, attraverso le
lenti del messaggio cristiano. Infine, e forse
è questo il dato più rilevante, emerge una richiesta ben precisa degli studenti avvalentisi
dell’IRC: che i «contenuti della materia vengano affrontati adeguatamente e al contempo l’insegnante sappia mostrarne l’incidenza
di valore per la vita umana e civile» (p. 174).
(G. Iovino).
Fondazione Giovanni
Agnelli, Rapporto sulla
scuola in Italia 2009,
prefazione di J. Elkann,
Laterza, Roma-Bari
2009, pp. XXIII-266,
€ 25,00, ISBN 97888-420-8833-2.
Volete un libro serio
sulla scuola italiana di
oggi? Eccolo. Non le solite inchieste giornalistiche che raccontano solo i casi eclatanti
che “fanno notizia” e poi trascurano la situazione reale. La Fondazione Giovanni Agnelli
di Torino da oltre 40 anni si adopera per interpretare il cambiamento della società e gli
scenari del futuro in Italia. «Oggi i suoi programmi guardano ai nodi critici della scuola
e dell’università, nella prospettiva di un rinnovamento del sistema dell’istruzione» (risvolto di copertina). E in questa ricerca, due
sono i dati decisivi ed inquietanti: l’acuirsi
del divario nel rendimento effettivo – non
nella valutazione scolastica – tra Nord e
Sud, e la riduzione della mobilità sociale,
con una sostanziale incapacità di riconoscere
e valorizzare il talento e il merito degli studenti indipendentemente dal loro censo e
dalla loro origine. Una scuola incapace di
offrire a tutti i cittadini le stesse condizioni,
pesantemente succube della posizione geografica e/o economica dei suoi alunni, è una
scuola ingiusta, e forse fallimentare. Questo
il dato base del rapporto, che si presenta co-
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me «il primo di un impegno pluriennale»
(risvolto). Il lavoro, redatto da Gianfranco
De Simone, Andrea Gavosto, Marco Gioannini, Stefano Molina e Alessandro Monteverdi sulla base di ricerche originali condotte
da numerosissimi collaboratori (cfr Crediti e
ringraziamenti, pp. XXI-XXIII), si propone
di attivare un dibattito di ampio respiro, secondo alcuni principi guida ben definiti. Il
primo: che il dibattito non sia provinciale,
ma si allarghi alle analisi e alle proposte degli altri paesi europei e mondiali. Il secondo:
non farsi sedurre dall’idea che esista una “età
dell’oro” della scuola a cui tornare: più che
di nostalgia del passato, c’è bisogno dell’audacia del futuro. Terzo: la scuola è fatta dagli
insegnanti, e solo lavorando sulla qualità di
questi ultimi (formazione iniziale e permanente, rivalutazione del prestigio sociale,
ecc.) si potrà incidere efficacemente sulla
scuola di domani. Quarto: è necessario e ormai urgente superare lo stillicidio degli interventi di emergenza e adottare una prospettiva di lungo periodo.
Dei sei capitoli in cui si snoda il volume (1.
Dove sta andando la scuola? – 2. Luci e ombre dell’autonomia scolastica – 3. Gli insegnanti sotto la lente – 4. Gli studenti giudicano la scuola – 5. Valutazione, «accountability» e incentivi – 6. Conclusioni), il terzo
è il più corposo (quasi cento pagine), quasi a
dimostrare che senza nuovi insegnanti non
ci sarà una nuova scuola. «Gli esercizi di ingegneria istituzionale, organizzativa e didattica – dichiara Andrea Gavosto, direttore
della Fondazione e curatore della ricerca –
non sono inutili per la nostra scuola, così
come non lo è la riflessione sui saperi scolastici e sui contenuti dei curricoli; senza buoni insegnanti, però, i primi restano inerti e
la seconda sterile» (p. XVII). Interessantissimi sono i dati riportati, in numerose tabelle
e nel corso del testo: quelli relativi alle retribuzioni dei docenti (solo un esempio: dal
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Rapporto emerge che mentre il guadagno
medio dei laureati italiani aumenta in cinque anni di circa il 29%, quello degli insegnanti cresce solo dell’8,4%), ma anche
quelli sulle motivazioni, il livello di soddisfazione, le situazioni problematiche, ecc.
Non mancano abbondanti riferimenti bibliografici per chi volesse approfondire l’uno
o l’altro aspetto della questione.
«Ci auguriamo che il lettore – scrivono gli
autori – abbia scoperto un universo assai più
variegato e dinamico di quel che appare dagli stereotipi che spesso animano il dibattito
polito e giornalistico» (p. 251): l’auspicio è
certamente realizzato. Il giudizio severo nei
confronti dell’impegno collettivo e politico
per una migliore scuola in Italia («non vi è
dubbio che la riflessione sui problemi della
scuola e l’individuazione delle cure siano
iniziati con ritardo… sia conoscitivo che deliberativo. […] Le politiche della scuola in
Italia hanno spesso avuto una forte compo-
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nente ideologica e corporativa…»: p. 252s)
non indulge però allo scoraggiamento. Le
proposte conclusive (p. 262 ss) – in sintesi:
abolizione delle graduatorie, differenziazione
delle retribuzioni dei docenti, attivazione di
un efficace servizio di valutazione delle
scuole, capillare ma centralizzato – non sono
probabilmente né le uniche possibili, né
quelle totalmente risolutive, ma meritano
una ponderata riflessione, sine ira et studio:
senza la pretesa di risolvere in un baleno una
questione pluridecennale, ma passando finalmente dalle parole ai fatti. John Elkann,
Vicepresidente della Fondazione, spiega nella Prefazione del volume il motivo di questo
improrogabile interesse per la scuola: «si ritiene che [l’Italia] abbia un serio problema
di rinnovamento delle proprie élites. Da dove cominciare a cambiare le cose, se non da
una migliore qualità della scuola?» (p. IX). In
questo percorso di cambiamento, il contributo degli IdR non deve mancare. (F.M.)
Lettere per pensare
a cura della Redazione
Riportiamo un interessante dibattito sul concetto cristiano di libertà suscitato da un articolo di Andrea Monda, IdR in un liceo romano e collaboratore di RSC, intitolato Non è bene
che l’uomo sia solo. Il paradosso della libertà cristiana, che si ottiene perdendola, contro
il dogma dell’autodeterminazione, ove opportunamente si sottopone a critica un certo
modo di declinare la “libertà” esclusivamente in termine di “autorealizzazione”. L’articolo,
apparso sul quotidiano “Il Foglio” (10 marzo 2009, pag. 4), non poteva non suscitare qualche reazione, dato che, rifacendosi anche al pensiero di filosofi del calibro di Vladimir Soloviev e Alexis De Tocqueville, Monda suggerisce di ripensare la libertà come superamento dell’homo curvatus verso l’assunzione di un più realistico “non è bene che l’uomo sia
solo”, assioma che custodisce una libertà da se stessi che si fa “libertà per”. Riportiamo il
botta e risposta apparso sul blog www.ilcannocchiale.it tra Luigi Castaldi alias Malvino,
autore dello stesso blog, e un’alunna del prof. Monda. I testi sono riportati con qualche
necessaria censura, ma senza correggere eventuali imprecisioni grammaticali.
Il paradosso della libertà cristiana:
si ottiene perdendola (Malvino)
Di Andrea Monda si può dire: “insegna religione a ragazzi delle scuole medie superiori”. È
affermazione che va tradotta: è uno dei tanti
che sono scelti dalla Chiesa e pagati dallo
Stato non già per “insegnare religione”, ma
per “insegnare la religione cattolica”, cioè per
fare propaganda confessionale tra soggetti in
età scolare. In altri termini, Andrea Monda è
uno dei tanti che con la raccomandazione di
un vescovo ha trovato un posto fisso.
Traduzione arbitraria? Manco per niente.
Per “insegnare religione” nelle scuole italiane
non si fa concorso: devi piacere a un chierico importante, così quello ti segnala, il Ministero dell’Istruzione ti piglia, e ogni 27 ti
vien dato uno stipendio. Fino a quando
piaci, fila così. Fino alla pensione. Se non
piaci più, ti resta lo stipendio ma non puoi
più “insegnare religione”, e non ci sono raccomandazioni di rabbini, imam o bonzi
che possano farci niente. “Insegnare religio-
ne”, in Italia, significa “insegnare la religione
cattolica” – stop.
Di Andrea Monda si può dire pure: “ogni
tanto scrive per Il Foglio”. È affermazione che
non ha bisogno di traduzione, basterà un
esempio: quello che scrive oggi.
Scrive che “l’autodeterminazione sembra essere
diventato un idioma universale”, ma si capisce che la cosa gli fa una gran pena: “È quasi
una litania che io sento uscire dalla bocca dei
miei studenti, siano essi cattolici o atei, praticanti o indifferenti, intelligenti o meno intelligenti, maschi o femmine”. A me pare che ci
sia un’intrusa tra queste coppie di contrari,
per il semplice fatto che essere maschio o
femmina non regge affatto la stessa relazione
che c’è nell’essere credente o no, praticante o
no, cretino o no. Ma non vorrei strizzare
troppo la rapa…
Ricapitoliamo. “Mi è sufficiente entrare ogni
mattina nelle classi di liceo in cui da dieci anni insegno religione cattolica [avevamo tradotto bene], per sentire ogni giorno recitare il
dogma dell’autodeterminazione, dalla maggior
67
parte dei miei studenti che, come un mantra
[perché non “come un rosario”?], ripetono: «Io
devo essere lasciato libero, libero di fare quello
che voglio, io posso fare tutto quello che voglio
basta che non do fastidio agli altri perché la
mia libertà finisce dove comincia quella dell’altro»…”.
Gli studenti cui Andrea Monda insegna religione cattolica si esprimeranno proprio con
un lessico così grossolano? Sia, è possibile, e
però bisogna dire che esprimono in modo
assai efficace – anche se un po’ naïf – il principio liberale. Sarà un principio che gli studenti vivono senza autocoscienza e senza
adeguati strumenti per razionalizzarli in cultura del diritto e del merito? Può darsi, e
dunque non chiamiamola cultura liberale:
chiamiamola secolarizzazione, diciamo che
gli studenti di Andrea Monda risultano assai
secolarizzati, sradicati dall’asse della trascendenza. Immanentisti, utilitaristi, probabilmente edonisti, certamente relativisti, in
fondo nichilisti.
Diciamola com’è: Andrea Monda ogni mattina scende nell’inferno e, quando cerca di
convincere questi diavoletti della solidità del
“paradosso della libertà cristiana (che si ottiene
perdendola)”, chissà quante pernacchie riceve, lui e il paradosso.
Belve libertarie. Probabilmente libertine. La
solita gioventù bruciata, insomma. È un terreno che eccita il catechista, gli fa tirare fuori tutto l’armamentario di sofismi da fervorino e di sillogismi da predicozzo, la solita
cassetta degli attrezzi da propagandista, ma
– confessa – “non è impresa facile sollevare
dubbi visto che sono due secoli che soffia questo
vento che porta con sé un malinteso senso della
libertà”. Vogliamo dare uno sguardo a quello
“beninteso”?
Si tratta della “libertà cristiana”, che non sta
nella “libertà da” e nella “libertà di”, ma nella “libertà per”. Cosa sia la “libertà per” è
presto detto. Eventualmente già “libero da” e
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“libero di” (eventualmente no, ma fa lo stesso), mi sento comunque un pochetto a disagio perché mi manca la “libertà per”, quella
che Andrea Monda mi illustra come squisita. E allora decido di essere “libero per”.
“Per” cosa? Per una cosa ben precisa. E può
essere solo quella. Dunque “deve” essere
quella. Se voglio essere libero nel senso beninteso, io devo fare proprio quella cosa lì,
non un’altra: se ne faccio una diversa da
quella che “devo”, non sono più “libero per”,
e dunque non sono veramente libero, m’illudo di essere libero, sono libero in senso malinteso. Non rompo il c*** a nessuno, è vero, ma non conta: Andrea Monda non può
comunque tollerare che io sia libero in un
modo che egli ritiene malinteso.
Onestamente, non posso dirmi convinto
che la vera libertà si ottenga perdendola: più
che un paradosso mi sembra una enorme
stro****. Deve sembrare tale pure agli studenti del nostro maestrino cattolico, che decorosamente tace sui riscontri.
Salve Malvino, le dirò cosa penso
(Alunna del prof. Monda)
Salve Malvino, sono una studentessa del liceo classico, alunna del prof Monda. Mentre
navigavo su internet , ho trovato il suo blog,
e la sua forte critica all’articolo che il mio
prof ha scritto sul Foglio. Neanche dovrei risponderle, perché immagino che lei potrebbe pensare che sono stata spinta dal mio insegnante in questione, e immagino anche il
prof stesso non voglia che mi metta in mezzo. Quindi, se mai pubblicherà questa lettera [e ne sarei davvero contenta], se mai non
la occulterà, la prego di non indicare ne il
mio nome o cognome, ne il mio indirizzo email. Non amo sembrare una di quelle persone che agisce per avere qualcosa in cambio
[non sono berlusconiana!!!!]. Però sono an-
che una persona senza peli sulla lingua, e
molto impulsiva. Infatti è stato più forte di
me. Infondo sono forse una delle più tremende alunne che il prof ha, una di quelle
che in classe parlano, ridono, scherzano anche quando sono proprio fuori luogo; una
di quelle più che esuberanti che rispondono
a tono ogni qualvolta ne hanno la voglia. E
il mio prof lo sa, mi conosce. Strano. Da 3
anni per solo un’ora alla settimana fa lezione
in classe mia, eppure mi conosce meglio di
tanti altri professori con i quali spendo ore
ed ore della mia settimana dal 4 ginnasio.
Sono consapevole del fatto che non dovrei
immischiarmi nei vostri blog, non è assolutamente mia intenzione, però sono davvero
stata colpita dalle sue parole e mi sono sentita chiamata in causa.
Molto semplicemente le dirò cosa penso.
Non so di preciso come ottengano il lavoro i
professori di religione e il fatto non mi interessa molto finché ne incontro di validi [e
sottolineerei che è ignoto e celato a tutti come alcuni professori di altre materie possano
insegnare!]; il Monda è uno di questi, vale.
Non ha mai cercato di inculcarci in testa
nessuna delle sue idee; è semplicemente
aperto al dialogo, ha i suoi pregi e difetti,
come ogni uomo. E proprio per questa sua
incredibile umanità gli studenti lo seguono.
Può star sicuro che non ha mai manipolato
nessuno.
Io non vado in Chiesa, non so neanche se
credo o no, ho ricevuto la Cresima, ma mi
sono allontanata dalla fede, forse perché mi
è stata insegnata e non trasmessa. Sono cmq
una studentessa “secolarizzata”, che segue
SEMPRE, discute e parla con il prof Monda.
Mi creda quando le dico che nelle scuole italiane son ben altre le ideologie che si nascondono, infami, che ci distruggono, che
rendono questa gioventù “bruciata”. Mi creda. Ci vivo.
So anche che il prof ha generalizzato i pensieri dei suoi studenti, perché egli stesso sa
che non è possibile scrivere tutto quello che
ci frulla in testa; e ci stima, proprio per questo. Non ci considera né nichilisti, né utilitaristi, né edonisti, né immanentisti, né relativisti; ci considera come uomini con pensieri, passioni ed una innata voglia di vivere
e di emergere nel nostro oggi. Non ci considera mera “gioventù bruciata”. Io stessa so
cosa pensano i miei coetanei, perché ho quasi 18 anni e sono sveglia quanto basta per
comprendere ciò che mi giro attorno. So anche che l’autodeterminismo è una bella moda [che non è sinonimo di nichilismo] e che
ci è stata anche generosamente donata dalla
nostra bella televisione, che ha le incredibili
capacità di seminare cultura in chiunque la
guardi [sarcasmo]. “IO SONO LIBERO DI FARE
QUELLO CHE VOGLIO” “FINCHÉ FACCIO DEL
MALE A ME NON IMPORTA” “SE DECIDO DI
AMMAZZARMI, POSSO FARLO”.
Tutti fumano, tanti bevono, tanti si fanno le
canne, troppi si drogano. So cosa e chi vive
con me.
Gli argomenti che espone il prof, spesso non
sono condivisi, ma mai ho osato pensare che
fossero stro****. A differenza di tanti altri
adulti, ho imparato ad ascoltare e a confrontarmi, in parte anche grazie a lui. Solo i cretini non cambiano mai idea e si impuntano
sui propri idola e non li abbandonano mai.
Nella mia scuola ci saranno stati 2 casi di
studenti che letteralmente hanno mandato a
fare in c*** il prof. I cretini, appunto. Povere, aride persone che non hanno capacità di
confronto, e che tra l’altro sono anche maleducati e zoticoni.
Perché costa così tanto ascoltare??? Che importa se il tuo vicino la pensa diversamente??? Perché bisogna prevalere??? Perché abbiamo la necessità di essere animale più che
uomini???
Sono d’accordo con lei quando dice che i
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mostri nelle scuole sono certi professori,
ma Andrea Monda non è tra questi. Anzi,
fortunatamente c’è lui. Che, la mattina,
prima di dirmi “buongiorno”, mi chiede
come sto. È uno di quei rari insegnanti che
ogni tanto compaiono nella scuola italiana
e cercano di far breccia nel muro ideologico fatto di pensieri preconfezionati, di un
passivismo terrificante, di un nichilismo
disumano e di un menefreghismo mostruoso. Mi ha insegnato a relazionarmi con l’altro e tante volte l’“ho usato” addirittura per
sfogarmi, porgli domande, parlargli dei fatti miei o per confrontarmi con chi della vita ne sa umanamente di più di me. Ed è
sempre rimasto ad ascoltarmi, sebbene la
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campanella fosse già suonata, sebbene dovesse correre a casa.
I mostri della scuola sono altri e più infami.
Mi fa strano pensare che il prof Monda, il
più amichevole e docile, possa essere considerato come uno di quei mostri mitologici
dei quali ogni tanto sento parlare nelle versioni di greco o nell’Inferno di Dante.
A noi, la “gioventù bruciata”, piace di più
imparare a stare con l’altro nella vita fantastica, stupenda, magnifica di ogni giorno,
piuttosto che studiare a memoria delle date
o dei nomi, che leggiamo sui libri, che di
emozione non ne trasmettono.
ps. l’avvalersi o meno della religione cattolica è facoltativo!
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Spezzettiamo… le nostre aspettative
Metodi e strategie di verifica e valutazione
Massimiliano Ferragina e Caterina Basile
Finalmente abbiamo finito di compilare le
schede della valutazione quadrimestrale!
Per l’insegnante di Religione è sicuramente
un lavoraccio. Gli alunni sono tantissimi, il
tempo per le verifiche è limitato e non di
rado si rischia di fare una vera e propria
corsa contro il tempo. Le verifiche le abbiamo somministrate, corrette, valutate, ma il
nostro Giornale dell’Insegnante, zeppo di
pagine spesso inutili e inutilizzate, non riesce a darci una visione d’insieme della nostra attività e soprattutto del percorso intrapreso dall’alunno. Purtroppo questo articolo arriva forse un po’ in ritardo rispetto a
quegli adempimenti, ma il percorso che
vuole timidamente suggerire è quello di una
metodologia complessiva della verifica e
della valutazione, che diventi stile di insegnamento.
Cerchiamo di strutturare delle verifiche che
non siano soltanto un adempimento burocratico ma una misurazione del successo del
nostro lavoro, dell’impegno dell’alunno e
un riconoscimento del suo diritto di essere
gratificato.
Una verifica che abbia queste finalità deve
essere costruita in modo che la valutazione
successiva sia semplice ed evidente, ma anche in modo da non essere fonte di ansia per
l’alunno ma stimolo e piacevole impegno.
Facciamo un esempio pratico:
Immaginiamo che gli OSA che intendiamo
verificare siano i seguenti:
• Scoprire che per la religione cristiana Dio è
Creatore, Padre e che fin dalle origini ha
stabilito un’alleanza con l’uomo.
Spezzettiamo l’OSA:
• Scoprire che per la religione cristiana
Dio è Creatore
• Scoprire che per la religione cristiana
Dio è Padre
• Scoprire che per la religione cristiana
Dio fin dalle origini ha stabilito un’alleanza con l’uomo
Adesso costruiamo la verifica. Innanzi tutto
dobbiamo tenere presente che non ci importa di verificare se l’alunno conosca i
fondamenti della filosofia tomista in merito all’origine del tutto, ma piuttosto che
abbia compreso, con sicurezza, che per
moltissime persone, il mondo è opera di un
Dio creatore; che abbia compreso che per
Dio siamo creature speciali e ci inquadriamo nel Suo progetto come figli e che ci
chiama alla corresponsabilità, in questo
progetto, attraverso un’alleanza cioè un’amicizia.
Questi sono gli obiettivi minimi che ogni
nostro alunno, in quella classe, deve possedere. Solo attraverso gli obiettivi minimi
possiamo verificare che il nocciolo del nostro insegnamento è stato compreso.
Se la verifica deve essere progettata per una
classe prima ci baseremo essenzialmente su
una scheda ricca di immagini da riconoscere
e colorare, limitando lo spazio per il testo
che potrebbe confondere quei bambini che
non posseggono ancora con sicurezza le
strumentalità della lettura e della comprensione del testo. Per la seconda la scheda avrà
sia parti scritte che immagini, con caselle V
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o F da scegliere, limitando al minimo le opzioni, e solo per le classi successive richiede-
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A P E R T E
remo un ragionamento più complesso invitando, nel contempo, al gioco.
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Come si può vedere, con pochi strumenti e
un minimo di conoscenze informatiche si
può costruire una scheda di verifica su misura per la nostra didattica. Il primo esercizio focalizza l’attenzione del bambino richiamando alla sua memoria le cose che gli
sono state raccontate sulla creazione. Il gioco della ricerca della parola lo diverte e non
lo fa sentire “sotto esame”, inoltre colorare
è un esercizio che piace ai piccoli e mette
in evidenza la loro attenzione, l’autonomia
nell’eseguire un lavoro e il senso di responsabilità nei confronti della consegna. Il secondo esercizio è una sorta di riassunto
non verbale delle conoscenze acquisite e
racchiude in sé la verifica del primo e del
secondo frammento di OSA; il terzo esercizio è stato strutturato inserendo tre stati
d’animo che il bambino è capace di comprendere e provare e tre figure umane che
può facilmente individuare e riconoscere
nella propria esperienza. Il bambino può riconoscere Dio come amico ma non come
padre o viceversa. Solo se l’insegnante ha
saputo tradurre i complessi contenuti del
racconto della creazione, l’alunno potrà
scegliere entrambe le soluzioni. L’insegnante dovrà, comunque, fare un’attenta valutazione delle risposte degli alunni, poiché,
specialmente nell’ambito dei sentimenti,
anche una risposta macroscopicamente errata potrebbe essere una provocazione che
va colta e risolta.
Un sito interessante, per cercare giochi, quiz
e attività varie per la Religione Cattolica è
www.religiocando.it: vi si trovano idee carine e gratuite per la didattica. Segnaliamo,
ancora una volta, il simpatico sito www.midisegni.it nel quale si possono persino fare
delle richieste specifiche.
Per le classi successive è bene raccordarsi con
gli obiettivi e i contenuti delle altre discipline: per esempio nella classe terza, almeno
A P E R T E
nella prima parte dell’anno, l’insegnamento
della religione cattolica deve trovare riscontro nei contenuti della storia e dell’italiano;
pensiamo alla religiosità primitiva, ai miti e
alle prime conoscenze dei popoli politeisti
politeismo. Per questo motivo in terza si
possono progettare anche verifiche parallele
a quelle di storia, facendo sempre attenzione
alla specificità del nostro insegnamento. Rimanendo nell’ambito IRC proponiamo un
altro esempio:
OSA classe III
L’origine del mondo e dell’uomo nel cristianesimo e nelle altre religioni.
• Comprendere, attraverso i racconti biblici
delle origini, che il mondo è opera di Dio,
affidato alla responsabilità dell’uomo.
Spezzettiamo l’OSA:
• Conoscere il racconto biblico della creazione;
• Conoscere altri racconti “mitici” dell’origine del mondo;
• Scoprire che l’uomo è destinatario e custode del Creato.
In questi obiettivi si fondono e si raccordano in modo evidente contenuti delle altre
discipline, nello specifico troviamo storia,
italiano e scienze. Proviamo quindi a spiegare in primo luogo a noi stessi cosa l’OSA
ci chiede di raggiungere, o meglio quale
apprendimento conseguire almeno nella
sua prima parte. Un aiuto è, come dimostrato, la frammentazione dell’OSA. Alcuni
contenuti vanno elaborati per renderli
chiari trasformandoli in delle domande come ad esempio: «perché nascono i racconti
della Creazione?». Risposta: «L’uomo fin
dalla sua comparsa sulla terra si rivela come
essere religioso; la fede viene vissuta come
affidamento ad un Essere Supremo del
quale ha paura e lo identifica con i terribili
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fenomeni naturali. Le domande radicali
sulla vita e la sua esistenza sono state sempre una componente fondamentale della
vita di ogni essere umano. Attraverso i racconti della Bibbia scopriamo che l’uomo ha
cercato e si è dato delle risposte». Fare per
se stessi questo lavoro di semplificazione
dell’OSA attraverso la frammentazione o la
trasformazione in domande e risposte aiuta
sicuramente a non essere dispersivi e rischiare di “dire troppo”.
A P E R T E
Le prove di verifica sarebbe utile presentarle
alla fine di ogni UdA tenendo presente i
contenuti già svolti, le conoscenze già acquisite, l’insieme degli argomenti trattati per ultimo in modo che l’alunno possa vedere garantita la progressiva acquisizione delle competenze. Chiaramente demandiamo all’insegnante responsabile i tempi e i modi di somministrazione delle prove suggerendo di
crearsi delle griglie (basta una semplice tabella) per la raccolta e la rielaborazione dei dati.
Griglia per la raccolta analitica dei dati delle verifiche periodiche
(i risultati elaborati dall’ins. formeranno il giudizio finale da riportare sul registro)
Nome alunno
Data della verifica
Osservazioni
Valutazione
Proponiamo due esempi di schede di verifica come prototipo, impegnandoci a costruire delle verifiche su misura della nostra didattica, utilizzando semplici conoscenze informatiche.
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Verifichiamo l’OSA: Cogliere, attraverso alcune pagine degli Atti degli Apostoli, la vita della
Chiesa delle origini.
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N O T I Z I E
L E G A L I
E
S I N D A C A L I
Tutti al voto (in ordine sparso)
di Angelo Zappelli
Dopo un anno intero di discussioni sulla valutazione, nel bel mezzo degli scrutini finali,
la situazione è ancora vaga e confusa per
l’IRC. Al centro è la questione del voto numerico. Vale per tutte le discipline compreso
l’IRC, o escluso l’IRC? Le due ultime disposizioni ministeriali, l’una operante e l’altra ancora in forma di schema, sono apparentemente contraddittorie. La circolare n. 50 del
20 maggio, infatti, afferma che tutte le discipline si esprimono con voto numerico, senza
porre eccezione alcuna1. Lo schema di regolamento sulla valutazione approvato dal consiglio dei ministri il 28 maggio scorso, invece,
afferma il contrario. Come già nella seconda
versione del mese di marzo anche questa terza
riporta l’esplicita esclusione dell’IRC dal voto
numerico2 ribadendo la validità delle norme
vigenti, cioè dell’art. 309 del Testo Unico. A
quale delle due fonti dar ragione? A quella innovativa e generica, ma cogente, o a quella
conservatrice ma ancor non operativa?
In questi casi la migliore indicazione, non potendo venire dalla norma, viene dal buon senso e dalla saggezza. Strano a dirsi che si debba
far riferimento ancora a queste antiche virtù.
Laddove la situazione scolastica lo consente si
faccia pure uso dei voti numerici come richiesto per tutte le discipline, in nome della curricolarità dell’IRC e del suo inserimento concordatario nel quadro delle finalità scolastiche.
Laddove la situazione è invece d’altro tipo,
con resistenze conservatrici o di matrice ideo1
2
logica, allora si resti ai giudizi tradizionali.
Tuttavia va ricordato che il modo di valutare
degli IdR non modifica la loro posizione in
seno al Consiglio di Classe. La valutazione in
decimi, infatti, non intacca il potere del consiglio di classe di deliberare in merito alla
promozione, tenendo presente la valutazione
complessiva. E per l’alunno avvalentesi la valutazione complessiva si ha, necessariamente,
anche con l’IRC. Non va dimenticato, infatti,
che l’IRC è un insegnamento facoltativo, ma
curriculare. È curricolare «una disciplina che
ha programmi normativamente definiti, da
cui discende la responsabilità per il docente
di espletare compiuto programma di insegnamento» (Corte costituzionale, sentenza n.
222 del 14.10.86): ne consegue l’obbligo di
frequenza per chi la ha scelta, integrando così
il proprio curriculum di studi, che viene comunque a definire il “tempo-scuola”. Non è
curriculare laddove, invece, le libere attività
complementari «tale impegno ed organicità
didattica non comportano» (ivi). Questo significa che la valutazione dell’IRC rientra comunque nella valutazione complessiva: voti o
giudizi, circolare o schema di regolamento…
l’importante è ribadire che l’IdR è un insegnante come tutti gli altri e che l’alunno avvalentesi ha il diritto e il dovere di essere valutato anche da lui. Quanto poi alla condotta,
ciascun docente – quindi anche l’IdR – partecipa all’attribuzione del voto di condotta,
esprimendo in decimi la propria valutazione.
Sia al punto 1.2 sulla scuola secondaria di primo grado, che al punto 1.3 sulla scuola secondaria di secondo grado, la circolare ministeriale prescrive che gli alunni siano ammessi alla classe successiva con “voto non inferiore a sei decimi in ogni disciplina di studio”, senza aggiungere altro. Per la scuola primaria al punto 1.1 si parla di “apprendimenti” e “competenze”,
senza alcuna ulteriore specificazione, da valutare con “voti espressi in decimi e illustrate con giudizio analitico”.
Il comma 4 dell’art. 2 dello schema, sulla valutazione degli alunni del primo ciclo, e il comma 3 dell’art. 4, sulla valutazione
degli alunni della scuola secondaria di secondo grado si esprimono nello stesso identico modo: “La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n. 121”. Il riferimento al Protocollo addizionale, tra l’altro, è palesemente errato o
quantomeno celato nei misteri della burocrazia ministeriale, visto che in tale documento di tipo pattizio non si fa alcun
cenno al tema della valutazione, evidentemente per lasciarla alla libera determinazione statale.
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D I A R I O
S C O L A S T I C O
Diario scolastico
di Giuseppe Forlai
Convegno degli insegnanti cattolici del Lazio
Si è svolto secondo le modalità ormai consuete il
convegno regionale degli
insegnanti cattolici del
Lazio. Circa 200 insegnanti – di scuola statale
e di scuola cattolica, IdR
e docenti di altra disciplina – si sono incontrati
per una giornata di studio
e riflessione sabato 28
marzo 2009 presso il Seminario Romano
Maggiore. Quasi tutte le diocesi del Lazio
erano rappresentate. Il tema prescelto (Educare con speranza) riprendeva testualmente il
titolo della Lettera che il card. Vallini ha diffuso a un anno di distanza dalla Lettera di
Benedetto XVI sul compito urgente dell’educazione (21 gennaio 2008), invitando la Chiesa
di Roma a tener desta l’attenzione sul tema
dell’educazione (il testo della Lettera a p.
84ss). I lavori del convegno sono stati introdotti dalla relazione di mons. Lorenzo Loppa, che ha illustrato i contenuti della Lettera
del card. Vallini, approfondendone alcuni
aspetti (vedi sopra pp. 24ss). Poi sono iniziati
i laboratori di gruppo, guidati da sei coordinatori, ognuno su un tema tra quelli suggeriti dalla Lettera. E così la prof. Franca Talone
ha orientato la discussione su Tutti corresponsabili (l’azione educativa in rete), la prof.
Paola Di Somma su Mai senza la famiglia (il
collegamento con le famiglie e le associazioni
familiari), la prof. Anna Stefanangeli su La
forza della testimonianza (la testimonianza
del docente cattolico in quanto tale), mons.
Carmine Brienza su Il contributo della fede
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all’educazione (l’apporto culturale della scuola cattolica), il prof. Franco Lanzuisi e la
prof. Maria Forte su Tutta la verità del Vangelo (il ruolo specifico degli IdR) e il prof. Erasmo Di Giuseppe su In collaborazione con le
comunità cristiane (il rapporto fra scuola e
comunità cristiana). Il progetto, forse troppo
ambizioso, di comporre nel corso dei lavori
pomeridiani una sorta di “tavola degli impegni ecclesiali sull’educazione” non è stato coronato da successo, a causa del tempo ristretto. Ma tutti i partecipanti hanno avuto modo di riflettere sulla necessità di superare la
fase dell’incertezza e della denuncia per iniziare a individuare concrete strategie operative e offrire proposte concrete e fattive dinanzi al problema educativo. Ci auguriamo che
gradualmente e responsabilmente tutti i soggetti coinvolti nell’impegno di educare si
rimbocchino le maniche, dando il loro contributo, e che chi ha già iniziato a lavorare
non si stanchi di farlo.
«Cittadinanza e Costituzione»:
cosa aspettarsi?
Il 4 marzo il ministro Gelmini ha presentato
in conferenza stampa la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione”, materia introdotta in tutte le scuole
dalla legge 169 del 30/10/2008, che prenderà
il via in forma sperimentale dall’anno scolastico 2009/2010 (cfr. http://iostudio.pubblica.istruzione.it/web/guest/cittadinanza_e_costituzione). L’intento dichiarato del Miur è
quello di introdurre un concetto di scuola
quale “palestra di democrazia” ove ci sia spazio per l’acquisizione di competenze che ren-
D I A R I O
S C O L A S T I C O
dano gli studenti avvezzi ai valori della Costituzione e capaci di esprimere una forma attiva di cittadinanza. La questione ha un certo
rilievo soprattutto, a nostro avviso, per gli
IdR: se il nuovo insegnamento tratterà temi
quali l’interculturalità, i valori costituzionali,
la solidarietà, la laicità dello Stato e la libertà
delle religioni in esso, nonché il Concordato,
allora c’è da scommettere che Cittadinanza e
Costituzione sarà la disciplina più immediatamente capace di suscitare incontro/scontro i
contenuti dell’IRC. La sperimentazione che
partirà con il prossimo anno scolastico dovrebbe aiutare a dissolvere alcuni dubbi che a
tutt’oggi aleggiano tra gli addetti ai lavori: se
infatti il contenuto dell’insegnamento circa la
Costituzione dovrebbe essere più delineabile
(a meno che non si scada nell’assumere come
base il testo costituzionale senza una adeguata
ermeneutica dei valori sottesi), la stessa cosa
non può dirsi della “Cittadinanza”. Cosa significa essere cittadini attivi? Quale idea di
persona si pone alla base della cittadinanza? A
quale esperienze rifarsi? Quali abilità relazionali fanno il cittadino? A noi sembra che, in
attesa di maggiori approfondimenti, sia necessario evidenziare alcuni punti:
• La cittadinanza è un dato di fatto sperimentale e non una teoria da elaborare;
c’è già nel momento in cui esco di casa
ed entro a scuola. Si tratta di prendere
atto e coscientizzare quel che si è.
• Non c’è cittadinanza senza solidarietà;
non c’è cittadinanza attiva senza sussidiarietà.
• Dalla Costituzione si può ricavare una
concezione della persona frutto di una
sintesi/compromesso tra forze socialiste,
liberali e cattoliche: questa concezione
andrebbe valorizzata.
• La Costituzione è contenuto ma anche
metodo: è necessario formare quindi a
quella volontà di trovare accordi per il
bene comune che mosse tutti i padri co-
stituenti; il metodo della stagione costituente detta già una modalità di vivere la
cittadinanza.
• La nuova disciplina deve restare autonoma, con una possibilità di valutazione da
parte del docente chiara ed efficace. Pena
il far la fine della vecchia “educazione civica”.
Valle d’Aosta: giovani in fuga
Una recente ricerca promossa dall’Università
della Valle d’Aosta su un campione di oltre
400 giovani tra i 15 e i 20 anni ci rivela che
solo il 15,9% di essi frequenta la messa domenicale. Nel 2000 erano il 20,9%. Il dato,
che contrasta (come un po’ in tutta Italia)
con il dichiararsi “cattolici” della stragrande
maggioranza degli intervistati, segnala l’affacciarsi di un cattolicesimo culturale, una sorta
di religione civile svuotata di evangelicità ad
uso della salvaguardia di valori umanistici, di
per sé buoni, ma che non possono essere
equiparabili tout court alle dinamiche della
vita cristiana. Il vescovo di Aosta Mons. Giuseppe Anfossi (cfr. www.agensir.it, merc. 18
febbraio 2009) riflette su un tale dato di passività: ci si riconosce cattolici, si fa parte del
coro parrocchiale e si collabora per organizzare la festa patronale, ma non si matura
un’appartenenza ecclesiale consolidata dalla
prassi sacramentale. Per Anfossi alla luce dei
dati l’attenzione si sposta sulla responsabilità
degli adulti (leggi: collaboratori pastorali),
forse carenti nell’impostare una pastorale di
ampio respiro culturale: abbiamo bisogno
«di una Chiesa più coraggiosa che esca da se
stessa, che potenzi gli oratori, che non abbia
paura di prendere iniziative culturali, dal teatro alla musica, alla lectio divina… che prenda responsabilità nell’Università e che organizzi tavole rotonde sui problemi vitali di oggi, almeno nei luoghi di villeggiatura». C’è
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D I A R I O
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da chiedersi se, al di là delle apparenze, il
problema varchi i confini della Valle d’Aosta,
come sembrerebbe suggerire la comparazione
di questi dati con quelli contenuti nel rapporto Iard Giovani, religione e vita quotidiana
(Il Mulino, Bologna 2006). Certo è che ancora si fa fatica ad interpretare una pastorale
giovanile seriamente integrata con il mondo
scolastico/universitario e con la cultura in genere che, piuttosto che procedere “di evento
in evento” sappia abilitare i giovani ad interpretare evangelicamente la storia personale e
sociale di ciascuno.
Il ritiro quaresimale degli IdR romani
Secondo una consuetudine ormai consolidata, il sabato prima della quarta domenica
di quaresima gli IdR di Roma si incontrano
per un momento di spiritualità. Il 21 marzo
scorso, in concomitanza con l’anno paolino, il ritiro si è tenuto presso l’abbazia di
Tre Fontane. Dapprima don Filippo Mor-
lacchi ha presentato la storia del luogo, legato non solo alla memoria del martirio
dell’Apostolo delle genti, ma anche alla presenza di numerose comunità monastiche. È
stato poi un monaco trappista, all’interno
della chiesa abbaziale dei ss. Vincenzo e
Anastasio, a proporre la meditazione: una
lectio divina sobria e penetrante che ha preso le mosse da Rm 12,1-2. Poi, dopo un
80
congruo tempo lasciato alla meditazione
personale e, per chi voleva, al sacramento
della riconciliazione, don Filippo ha presieduto l’eucaristia: il primo momento liturgico di comunione con gli IdR nella sua nuova veste di responsabile dell’Ufficio. Nonostante il freddo polare e il vento di tramontana – che ha reso l’aria limpidissima e il
luogo davvero incantevole – è stata un’esperienza di preghiera intensa e felice.
Esami di maturità. Il condono dei cervelli?
Che valore effettivo hanno gli esami di maturità se durante il primo anno di università
quasi la metà degli alunni si defila? Se i test
di ingresso di molte facoltà sono più impegnativi e selettivi di quello che una volta era
l’esame per eccellenza, c’è da chiedersi seriamente quanto la scuola sia capace di certificare le competenze al termine del curriculum
delle superiori. Nonostante l’intento di per
sé buono del ministro Gelmini di restituire
un tono di selettività agli esami come espresso nella Bozza di regolamento, art. 6, comma
1, ove si stabilisce la necessità di raggiungere
la sufficienza in tutte le materie per essere
ammessi all’esame (si verificherà – c’è da
scommetterci – il dilagare del sei politico!), è
probabile che non bastino operazioni severe,
ma sporadiche, per superare il gap esistente
tra maturati e laureandi. E se da una parte si
esige il ritorno alla meritocrazia del modello
gentiliano (selezione all’ingresso nel circuito
scolastico e selezione al termine), dall’altra si
difende il principio della scuola che dia a
tutti un po’, condonando anche i cervelli degli svogliati. Non tutto è però solamente gridato. L’associazione Diesse Lombardia
(www.diesselombardia.it) propone alternative costruttive attraverso l’ipotesi di introduzione graduale di un esame di maturità impostato come certificazione di competenze
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stabilite sulla base di standard e indicatori
nazionali. In margine a queste riflessioni l’associazione ha lanciato un comunicato che
utilmente riportiamo: «L’ammissione all’esame
di Stato… è disposta… nei confronti dell’alunno che ha conseguito una votazione non inferiore a sei decimi in ciascuna disciplina o gruppo di discipline valutate con l’attribuzione di
un unico voto secondo l’ordinamento vigente e
un voto di comportamento non inferiore a sei
decimi». È quanto stabilisce il Regolamento
sulla valutazione approvato in prima lettura
dal Consiglio dei Ministri il 13 marzo all’art.
3, comma 2, disciplinando l’ammissione all’esame finale del primo ciclo come previsto dall’art. 3 della legge 30 ottobre 2008, n. 169. La
stessa prescrizione lo schema di regolamento la
estende anche all’esame finale del II ciclo (art.
6, comma 1). Questa disposizione applicativa,
che arriva ormai a fine anno scolastico, è motivata dalla necessità di reintrodurre rigore in
esami che da più anni vedono la quasi totalità
degli studenti promossi al di là delle loro effettive conquiste formative. L’associazione Diesse ha
sempre sostenuto che le attuali prove finali sono
gravemente inadeguate e debbono essere modificate per arrivare ad una reale certificazione
delle competenze acquisite da ciascuno studente
che consenta un corretto orientamento. Infatti,
solo con il possesso dei prerequisiti di base necessari – conoscenze, competenze e abilità – gli
studi successivi possono essere frequentati con
successo e senza quella grave dispersione che si
verifica sia nella scuola superiore, sia nelle università. È pertanto necessaria una vera e propria rivoluzione della prova finale, che però
non può essere attuata frettolosamente e per via
meramente amministrativa, senza un adeguato
percorso preparatorio che accompagni l’allievo a
rendere consapevolmente conto della propria
maturazione e dei risultati conseguiti nelle singole discipline. Pur condividendo pienamente
l’esigenza di reintrodurre rigore nella scuola che
la promuove, questa scelta appare intempestiva
sia perché non possono essere cambiate così radicalmente le regole del gioco quando ormai la
partita si avvia al secondo tempo, sia perché un
cambiamento così radicale nella valutazione
conclusiva dovrebbe essere ridiscusso già il prossimo anno, quando entreranno in vigore i nuovi regolamenti relativi ai percorsi scolastici secondari (liceali e tecnici). Il ritardo con cui
questo provvedimento arriva nelle scuole contribuirà a condizionare fortemente l’orientamento
dei docenti nella fase valutativa finale; i voti
lieviteranno in modo artificioso, con la conseguenza di essere ulteriormente svuotati di significato… Per questo chiediamo al Ministro –
che ha già previsto un periodo più lungo di verifica dei regolamenti dei licei e degli istituti
tecnici per poter realizzare finalmente un cambiamento efficace della scuola secondaria di II
grado – di stralciare dal regolamento della valutazione la norma relativa all’ammissione all’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo e di
affrontare il tema della valutazione nella secondaria di secondo grado coerentemente alle indicazioni di riforma contenute nei regolamenti
che verranno emanati, per permettere una proposta chiara ed adeguata al contesto che la
scuola secondaria superiore sarà chiamata ad
assumere (Milano, 20 marzo 09).
La paternità secondo Clint: straordinario
Gran Torino
Molte scuole superiori della Capitale hanno
scelto nel mese di marzo di visionare durante le ore scolastiche l’ultimo lavoro di Clint
Eastwood Gran Torino. Condivisibile scelta
poiché c’è da rimanere veramente a bocca
aperta per questa storia di paternità riconquistata, narrata sullo sfondo di quell’America minore che spesso il cinema di questi
ultimi anni ama raccontare (si venda il bel
The Wrestler di Aronofsky). Eastwood, regista e protagonista, incarna la figura del re81
D I A R I O
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pubblicano di provincia Walt Kowalski rimasto vedovo di una moglie cattolica praticante (che fa promettere al giovane parroco
di far confessare il marito dopo la sua morte), reduce della guerra di Corea, operaio alla Ford per cinquant’anni, chiuso e incapace
di farsi amare da figli e nipoti che oramai
vorrebbero chiuderlo in un ospizio, esperto
più della morte che della vita poiché interiormente ferito dalla crudeltà della guerra.
Walt si trova per una serie di curiose circostanze ad avere a che fare con quei vicini
asiatici di stirpe Hmong che detesta, e a doversi occupare del giovane Tao, che era stato
precedentemente costretto dalla gang locale
(composta da giovani bulli senza padri), a
rubare la mitica autovettura Gran Torino
sport del vecchio reduce. Al giovane, suo
malgrado, insegnerà un lavoro e la grinta
necessaria per affrontare la vita e, alla fine,
sacrificando la sua stessa vita, gli suggerirà la
strada della non violenza e l’inutilità della
vendetta. Un film unico, definito dallo stesso Eastwood il suo più «importante e personale», che mette sullo schermo il legame mai
scontato tra paternità e sacrificio senza eufemismi o mitizzazioni borghesi nel contesto
difficile di un paesino oramai solo sulla carta
americano, ma in realtà colonizzato dagli
asiatici. Un film capace come pochi di evocare un mondo religioso e valoriale non gridato e soffuso, ma non per questo meno
performante. A questo Eastwood ci aveva
già svezzati con Million Dollar Baby (2004).
Il finale, vero gioiello semiotico (Walt cade
ucciso dalla gang sul prato rimanendo steso
in forma di croce, dopo aver sussurrato l’Ave
Maria) vale tutto il film. La canzone Gran
Torino, gradevolissima nella sua malinconia,
scritta dal figlio di Eastwood Kyle, accompagna degnamente gli ultimi fotogrammi.
Gran Torino è un lavoro cinematografico che
appare quasi un testamento del grande
Clint. Nonché un invito a pensare da una
82
parte il legame profondo tra paternità, sacrificio e bisogno del ‘culturalmente diverso’ e
dall’altra a rileggere in maniera un po’ più
elaborata il bullismo giovanile quale nuova
modalità di gridare il dolore per esser rimasti precocemente orfani.
Meeting degli IdR
Molte pagine di questo fascicolo sono dedicate al Meeting degli IdR italiani, tenutosi
il 25 aprile scorso in Aula Paolo VI alla pre-
senza del Santo Padre. «Lo slogan del Meeting “Io non mi vergogno del Vangelo” (Rm
1,16) – spiega don Vincenzo Annicchiarico,
responsabile del Servizio Nazionale IRC
della CEI – intende richiamare, da una parte, la portata umana del Vangelo, ispiratore
della civiltà dell’amore nell’attuale contesto
socio-culturale; dall’altra, l’IRC come disciplina scolastica a servizio della persona
umana e della sua crescita integrale, per cui
l’IdR esercita la sua professionalità docente
di cui è risorsa la sua identità credente e la
sua appartenenza ecclesiale». L’evento celebrativo, che ha visto riuniti oltre 8000 IdR
da tutte le Diocesi d’Italia, è stato preceduto da un Congresso, cui hanno preso parte i
Responsabili diocesani per l’IRC e una rappresentanza di IdR. Sono intervenuti al
Congresso non solo eminenti personalità
del mondo civile ed ecclesiale, come il presidente della Cei card. Angelo Bagnasco e il
ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, ma anche studiosi ed esperti del calibro
di Antonio Pitta, che ha offerto una ricca
meditazione su San Paolo come educatore,
Alberto Campoleoni e Sergio Cicatelli, che
hanno riferito rispettivamente sui dati di
una ricerca europea sull’insegnamento reli-
D I A R I O
S C O L A S T I C O
gioso e sullo stato dell’IRC in Italia (vedi
questi testi nelle recensioni), ed Ernesto
Diaco, che ha individuato il ruolo dell’IdR
all’interno del “progetto culturale” della
Cei. I testi completi di tutte le relazioni sono disponibili sul sito dell’Ufficio IRC della
CEI (www.chiesacattolica.it/irc). A conclusione del Congresso i partecipanti hanno
compiuto un pellegrinaggio sui luoghi paolini, culminato nella celebrazione eucaristica presso l’Abbazia di Tre Fontane presieduta dal card. Camillo Ruini e animata dal coro degli IdR. Oltre che a questi ultimi, la
sincera gratitudine dell’Ufficio Nazionale
per l’IRC e dell’Ufficio scuola di Roma si
indirizza a tutti gli IdR e gli studenti dell’ISSR Ecclesia Mater che, con il loro generoso servizio, hanno contribuito alla buona
riuscita del Meeting.
tano l’allarme e sottovalutano le risorse che
hanno. Tendono allora a tirarsi indietro: i
genitori sono spesso smarriti, gli insegnanti
demotivati. E la paura è spesso una pessima
consigliera». L’invito alla fiducia è stato accompagnato dalla richiesta di investimenti
per la scuola: «La scuola è l’ultimo componente al quali si possono chiedere sacrifici di
risorse». Uno stralcio della prolusione inaugurale del Card. Bagnasco e del Discorso del
Santo Padre è alle pp. 98-101.
La 59a Assemblea Generale della CEI
Si è svolta, come sempre nell’aula del Sinodo dei Vescovi in Vaticano, l’assemblea ordinaria della Cei. La 59a sessione (25-29 maggio 2009) riveste però un interesse particolare per gli IdR, dal momento che i vescovi
hanno deciso che l’impegno educativo costituirà una priorità per l’azione pastorale della
Chiesa italiana nel prossimo decennio. «La
questione educativa: il compito urgente dell’educazione» è stato il tema che ha fatto da
sfondo ai lavori assembleari – pur attenti,
ovviamente sia alla situazione dell’Abruzzo
colpito dal sisma, sia alla situazione di crisi e
recessione economica – e che è stato presentato da mons. Diego Coletti, presidente della Commissione episcopale per l’educazione
cattolica, la scuola e l’università. «Non vogliamo – ha detto il presule – far suonare allarmi ma inviti alla fiducia e alla speranza.
Constatiamo che gli educatori si sentono
paralizzati perché evidentemente sopravvalu83
M A T E R I A L I
E
D O C U M E N T I
Educare con speranza
Lettera del Card. Agostino Vallini agli Educatori scolastici
Carissime Educatrici, Carissimi Educatori !
Esattamente un anno fa il Santo Padre Benedetto XVI ha indirizzato una Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul
compito urgente dell’educazione. In quell’occasione il Papa
ha descritto lucidamente l’attuale “emergenza educativa” ed
ha rivolto un chiaro appello a tutti gli uomini di buona volontà: «C’è bisogno del contributo di ognuno… perché la società, a cominciare da questa nostra città di Roma, diventi
un ambiente più favorevole all’educazione». Mi sembra opportuno riprendere l’autorevole invito del nostro Vescovo e
fare tesoro delle Sue parole.
La consapevolezza che un’efficace azione educativa può realizzarsi solo in modo collegiale, è ormai pacificamente acquisita. Solo lavorando insieme, “in rete”, come oggi si dice,
cioè “in comunione”, possiamo trasmettere alle nuove generazioni la sapienza necessaria per affrontare responsabilmente e con passione la vita.
Tutti corresponsabili
Mi rivolgo, perciò, a tutti gli educatori scolastici: dirigenti, personale docente e non
docente. A tutti e a ciascuno di voi vorrei dire di non dimenticare mai che educare è
soprattutto un impegno d’amore e, come
ogni vero impegno, costa. «Ogni educatore
– ci ha ricordato il Papa – sa che per educare deve dare qualcosa di se stesso». Nell’impegno educativo vissuto con piena dedizione l’adulto educatore è chiamato a dare
il meglio di sé e ad offrirlo alle nuove generazioni, affinché si aprano alla verità, alla
bontà e alla bellezza. «L’educazione è cosa
del cuore», diceva don Bosco. Questa è la
prima missione di ogni educatore e insieme
la migliore ricompensa di ogni sua fatica.
So bene che vi spendete nel mondo della
scuola con straordinaria dedizione e com84
petenza, sostenuti dalla convinzione
profonda e vissuta di essere tutti accomunati almeno da due valori: il rispetto per la
persona umana e la fiducia nel futuro. Sì,
perché senza l’intima convinzione che ogni
singolo essere umano è in se stesso un valore inestimabile, in quanto persona, e che
è possibile sperare in un futuro migliore,
cercando di costruirlo, nessuno investirebbe la propria vita nell’impegno educativo.
Non ignoro neppure le problematiche complesse che siete chiamati ad affrontare
quotidianamente, riguardanti sia il mondo
affascinante e delicato dei ragazzi e dei
giovani che quelle legate all’organizzazione
scolastica, che vi colloca in un contesto di
vita personale e professionale impegnativo,
stimolante, ma anche oneroso. A tutti voi
M A T E R I A L I
va la mia stima e la mia ammirazione.
Cari amici, mi permetto di suggerirvi di essere perseveranti, nonostante tutto, sostenuti dalla rettitudine della vostra coscienza
personale che vi chiede di vivere appieno la
responsabilità educativa, puntando in alto
e allargando gli orizzonti.
Mai senza la famiglia
Quest’altissima missione, però – ben lo sapete – non può fare a meno della collaborazione delle famiglie. Non possiamo dimenticare che i primi educatori sono e saranno sempre i genitori; pertanto, adoperatevi costantemente al dialogo con le
mamme e i papà dei vostri alunni. Se, in
qualche modo, i bambini e i ragazzi che la
scuola vi affida vi appartengono, è compito
di un educatore lavorare in sinergia con le
famiglie, collaborando con esse in un progetto educativo integrale, nel rispetto della
libertà e degli orientamenti dei genitori.
La forza della testimonianza
Agli educatori cristiani, di qualunque disciplina e per qualunque fascia d’età, come
Pastore, aggiungo una esortazione: siate
testimoni. Alla base della vostra testimonianza vi sia una solida professionalità, responsabilmente esercitata e costantemente aggiornata. La rettitudine morale non si
sostituisce alle competenze professionali,
ma le promuove e le coltiva.
E, insieme, curate di essere testimoni della
verità e dell’amore di Dio. I bambini, gli
adolescenti e i giovani cercano ardentemente figure di riferimento credibili: educatori
solidi, affidabili e capaci di offrire al momento opportuno sia una parola di affettuosa vicinanza che un ammonimento, percepiti entrambi come gesti di amore. È ancora
E
D O C U M E N T I
la citata Lettera del Papa a ricordarcelo:
«l’autorevolezza… si acquista soprattutto
con la coerenza della propria vita e con il
coinvolgimento personale, espressione dell’amore vero. L’educatore è quindi un testimone della verità e del bene». Voi lo sapete,
i vostri alunni vi osservano con attenzione, vi
scrutano e si confrontano con voi come modelli da seguire o – al contrario – come figure da non imitare. Perciò, carissimi educatori cristiani, attingete assiduamente dalla
Parola di Dio e dalla grazia dei sacramenti
la forza per una testimonianza luminosa e
sincera, che vi permette di contribuire efficacemente al comune sforzo educativo.
Il contributo
della fede all’educazione
Una speciale missione, in questo ambito,
spetta agli educatori che operano nelle
Scuole Cattoliche. Per il fatto stesso di essere insegnanti in una istituzione che si
propone di promuovere una cultura, la cui
concezione dell’uomo è ancorata ai valori
del Vangelo, vi incoraggio a mostrare con
l’esempio della vita quotidiana e con l’attività professionale, come singoli insegnanti
e come comunità educante e solidale, che
è possibile superare la frammentazione
dei saperi e formulare una visione unitaria
e coerente del mondo, capace di coniugare
serenamente i valori e le verità della fede
con la cultura del nostro tempo. Giovanni
Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio, al riguardo, tratteggiò efficacemente l’immagine delle due ‘ali verso il Vero’, che sono la
fede e la ragione. La proposta del messaggio cristiano, pur restando soggetta alla
critica dell’età dei vostri alunni, ai loro stili
di vita e ai loro molteplici interessi, ha in sé
un valore oggettivo che la vostra creatività
di docenti non mancherà di far apprezzare.
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M A T E R I A L I
Tutta la Verità del Vangelo
Infine, un pensiero speciale intendo indirizzare agli insegnanti di religione cattolica. Conosco bene i problemi connessi specificamente alla vostra attività di docenti.
Se l’inserimento in ruolo ha dato stabilità
a tanti di voi, restano aperti altri aspetti,
quali la considerazione di una certa precarietà della vostra disciplina, sempre dipendente dagli alti e bassi delle motivazioni giovanili, la ricerca continua dei punti di
interesse della materia, che esigerebbe un
tempo maggiore di una ora settimanale
per essere approfondita e il diverso trattamento tra i diritti e i doveri ad essa collegato nella struttura della docenza. Nondimeno, oltre alla testimonianza della fede,
come tutti i docenti cattolici, qualunque
disciplina insegnino, a voi spetta il compito di presentare articolatamente il messaggio cristiano e la sua credibilità. È la
scuola, anche quella laica, a chiedere il
vostro contributo, ben sapendo che un’educazione muta dinanzi alla dimensione
religiosa sarebbe incompleta. Non accontentatevi, pertanto, di presentare i semplici “fatti religiosi” del cristianesimo: parlate anche di Colui da cui la storia e la cultura cristiana prendono il nome e l’origine.
Ogni presentazione del cristianesimo che
non mettesse al centro la persona di Gesù
di Nazaret, il Signore della storia risorto e
vivo, sarebbe parziale o addirittura fuorviante. Certamente l’insegnamento scolastico della religione non è e non deve essere una forma velata di catechesi; ma
una presentazione onesta e obiettiva della
religione cattolica esige di affrontare anche la questione della Verità. Il Vangelo
chiede di essere riconosciuto non solo come “buono” o “bello”, ma anche come
“vero”. Non sottraetevi, dunque, al compito di presentare tutta la Verità del Vangelo
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E
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(cfr At 20,27). Una proposta in questi termini richiede interiorità, tempo, affidamento: alimentate nella preghiera la vostra vita spirituale e la vostra dedizione
professionale, perché possiate adempiere
con forza e mitezza la missione che vi è
affidata: «sempre pronti a rispondere a
chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi… con dolcezza e rispetto» (1Pt 3,15). Apritevi al dialogo con tutti,
abbracciate senza riserve la «fatica della
carità» (1Ts 1,2) nella scuola e fuori dalla
scuola, «splendete come astri nel mondo,
tenendo alta la parola di vita» (Fil 2,15).
Sappiate attivare collaborazioni con le comunità cristiane del territorio e con le parrocchie, che contribuiranno ad arricchire in
modo rilevante il cammino formativo offerto
agli allievi dalla scuola, sia dal punto di vista
culturale che umano. Nutro la fiducia che
cooperando insieme, con un “supplemento
d’anima”, per un rinnovato impegno educativo, potremo far fronte alle sfide del presente e consegnare alle nuove generazioni
la saggezza necessaria per affrontare l’affascinante viaggio della vita. Vi sono davvero
grato, perché so quanto bene già fate, e immagino quanto ancora potrete farne.
Carissimi!
Vorrei concludere questa mia lettera con
un invito. Di fronte alle sfide che anche la
scuola ci chiama ad affrontare nel portare
avanti il compito meraviglioso dell’educazione, non scoraggiatevi mai: educate con
speranza ed entusiasmo. Il buon seme a
suo tempo darà frutto.
Con questi sentimenti di gioiosa fiducia, vi
assicuro la mia costante preghiera e su
tutti voi invoco la benedizione di Dio.
Roma, 21 gennaio 2009
Agostino Card. Vallini
Vicario per la Diocesi di Roma
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L’educazione è diventata un paradosso?
Card. Camillo Ruini
Il card. Ruini, presidente del comitato per il Progetto culturale della CEI, ha pronunciato
numerosi interventi, nei mesi scorsi, sul tema dell’educazione. Il sito www.progettoculturale.it li raccoglie tutti; ne abbiamo scelto uno particolarmente significativo, scritto per il
Collegio San Carlo di Milano (scuola paritaria diocesana) il 2 febbraio scorso. Dopo aver
chiarito che «le cause principali – anche se certo non uniche – dell’attuale emergenza
educativa sono di ordine culturale», e cioè il relativismo, il nichilismo e il naturalismo,
l’autore propone alcune piste per fronteggiare la situazione: la testimonianza di un amore
stabile e affidabile tra i genitori, la formazione dei ragazzi ad una libertà responsabile,
l’accettazione forte e serena del dolore come scuola di vita. La conclusione è improntata
ad un sano ottimismo: «Modificare il clima culturale […] è un’impresa impegnativa ma
non impossibile, e in realtà nemmeno disperata»
La parola “paradosso” secondo il Dizionario della lingua italiana di Devoto e Oli significa, in conformità alla sua origine greca, affermazione sorprendente, e più precisamente «proposizione formulata in apparente contraddizione con l’esperienza comune, ma che all’esame critico si dimostra
valida». Chiedersi se l’educazione sia diventata un paradosso vuol indicare dunque
da una parte la sua permanente importanza e necessità, dall’altra le sue attuali difficoltà, anzi una sua apparente impossibilità,
o almeno il suo carattere controcorrente,
nel contesto socio-culturale in cui viviamo.
Un anno fa, nel gennaio-febbraio 2008, Benedetto XVI, in una lettera alla diocesi di
Roma e poi in una grande udienza in piazza
San Pietro, riassumeva una situazione di
questo genere nella formula “emergenza
educativa”, che poi è stata abbondantemente ripresa perché esprime una sensazione diffusa in Italia e, perfino più acutamente, in molti altri paesi. Educare non è
mai stato facile, osserva il Papa, e oggi
sembra diventare sempre più difficile. Lo
sanno per esperienza i genitori, gli insegnanti, lo sappiamo noi sacerdoti, come
tutti coloro che a vario titolo si occupano di
educazione. Sembrano aumentare cioè le
difficoltà che si incontrano nel trasmettere
alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, nel
formare quindi persone solide, capaci di
collaborare con gli altri e di dare un senso
alla propria vita. Naturalmente ogni regola
ha le sue eccezioni e in concreto sembra a
sua volta un paradosso venire a parlare di
paradosso e di emergenza educativa in
questo Collegio San Carlo che fortunatamente è un luogo di eccellenza dell’educazione a Milano, ma il dato generale dell’emergenza educativa rimane difficilmente
contestabile, anzi è praticamente incontestato.
Per spiegarlo non basta richiamare la cosiddetta “frattura tra le generazioni”, nel
nostro tempo certamente più profonda e
più condizionante che in passato: essa infatti sembra essere l’effetto, piuttosto che
la causa, della mancata trasmissione di
certezze e di valori. Ancora meno senso ha
far carico di questa frattura e dell’emergenza educativa alle nuove generazioni,
come se i bambini di oggi fossero diversi e
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“più difficili” rispetto a quelli che nascevano nel passato. Ma probabilmente è anche
poco utile e troppo sbrigativo, o comunque
insufficiente, attribuire tutte le responsabilità agli adulti di oggi, come se, per loro
carenze, non fossero più capaci di educare.
È certamente forte e diffusa, tra i genitori
come tra gli insegnanti e in genere tra gli
educatori, la tendenza a rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere
nemmeno quale sia il proprio ruolo. Ma, di
nuovo, questo sembra essere piuttosto
l’effetto che la causa delle difficoltà dell’educazione.
Non vorrei essere frainteso. Non ho mai
condiviso quelle tendenze allo “scaricabarile” che attribuiscono tutte le colpe a
un’imprecisata “società” e negano le responsabilità personali: nel nostro caso sia
quelle degli educatori sia anche quelle dei
ragazzi e dei giovani che sono i soggetti
dell’educazione. Non mi sembra fondato
però mettere principalmente l’accento
sulle carenze delle persone. Non basta
nemmeno chiamare in causa le pur evidenti lacune e disfunzioni del nostro sistema scolastico, come del resto di quelli di
molti altri paesi.
Una spiegazione seria dell’emergenza
educativa in cui ci troviamo rimanda piuttosto al predominio del relativismo nella
nostra cultura e vita sociale. In questo
senso Benedetto XVI ha parlato più volte di
“dittatura” del relativismo, e alla luce di
questa ha affermato che l’emergenza educativa oggi è, in certa misura, un’emergenza inevitabile. Quando infatti vengono a
mancare, anche solo come orizzonte della
nostra vita, la luce e la certezza della verità, al punto che, anche e particolarmente
in ambito educativo, lo stesso parlare di
verità viene considerato pericoloso e “autoritario”, e parallelamente, sul piano etico, si ritiene infondato e lesivo della li-
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bertà ogni riferimento ad un bene “oggettivo”, che preceda le nostre scelte e possa
essere il criterio della loro valutazione, diventa inevitabile dubitare della bontà della
vita e della consistenza dei rapporti e degli
impegni di cui la vita è intessuta. È ancora
un bene, allora, essere una persona umana? Vivere può ancora avere un significato? Come sarebbe possibile, entro questo
quadro di riferimento culturale, proporre
ai più giovani e trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e di
certo, delle regole di vita, un significato e
degli obiettivi consistenti per la nostra esistenza e per il nostro futuro, sia come
persone sia come comunità? Non è strano, allora, che l’educazione tenda a concentrarsi sulle questioni che chiamerei di
“tecnica educativa”, certamente importanti ma non decisive, e a ridursi alla trasmissione di informazioni e di specifiche
abilità, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni
colmandole di oggetti di consumo e di
gratificazioni superficiali. Ma proprio così
abdichiamo al nostro compito educativo e
non offriamo ai più giovani quello di cui
hanno anzitutto bisogno: dei fondamenti
solidi su cui costruire la loro vita.
Il filosofo Umberto Galimberti, in un libro
recente che ha avuto molta fortuna, intitolato L’ospite inquietante. Il nichilismo e i
giovani, ha offerto una diagnosi del disagio
giovanile che direi complementare a quella
proposta da Benedetto XVI, riconducendo il
malessere diffuso tra la gioventù ad una
causa culturale, l’atmosfera nichilista del
nostro tempo. Il nichilismo e il relativismo
sono infatti intimamente connessi e, tra i
due, il nichilismo sembra essere il fenomeno più ampio e più radicale, capace di
un influsso pervasivo di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. Anche senza
fare nostro il giudizio di Heidegger che il
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nichilismo costituirebbe il destino della nostra epoca, è difficile negare che esso rappresenti una specie di spirito del nostro
tempo, diagnosticato per primo da Nietzsche, che giustamente lo ha fatto risalire
alla “morte di Dio”, cioè alla fine della presenza di Dio nella nostra cultura, una fine
che Nietzsche e dopo di lui tanti altri, compreso Galimberti, ritengono irreversibile. È
questa, secondo la penetrante e preveggente intuizione di Nietzsche, la vera radice
della caduta, o della “transvalutazione”, di
tutti i valori, e quindi del fenomeno complessivo del nichilismo. In concreto è difficile non vedere, alla radice degli aspetti più
inquietanti della vita della nostra società e
quindi anche della strana stanchezza, del
desiderio di evasione e dello smarrimento
morale di molti giovani, e pertanto dell’emergenza educativa, la presenza pervasiva
e “distruttiva” del nichilismo.
Mi sembra necessario richiamare una terza dimensione della cultura diffusa, a sua
volta collegata con il relativismo e il nichilismo, che mina alla base un’educazione autentica. Potremmo chiamarla “naturalismo”, o più esattamente riconduzione e riduzione dell’uomo a un elemento della natura: già il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes, n.14, aveva individuato questo rischio denunciando la tendenza a considerare l’uomo “soltanto una particella
della natura”. Oggi il rischio è molto aumentato, perché sta diventando egemone
l’idea che il soggetto umano non sia altro
che un risultato dell’evoluzione cosmica e
biologica: certamente il suo risultato più
alto, almeno per ora e nella piccola porzione dell’universo da noi meglio conosciuta,
ma pur sempre un risultato omogeneo a
tutti gli altri, in particolare agli animali superiori a noi più vicini nelle linee evolutive.
In questa ottica i caratteri propri della nostra specie, in ultima analisi l’intelligenza e
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la libertà, non vengono certo negati, ma
considerati semplicemente sviluppi e affinamenti ulteriori di capacità cerebrali evolutesi progressivamente. Per cogliere in
tutto il suo spessore questa riduzione dell’uomo alla natura bisogna aggiungere un
suo ulteriore fattore propulsivo. Negli ultimi decenni le scienze empiriche e le tecnologie, nella loro sempre più stretta connessione che spinge a parlare di “tecnoscienza”, hanno avuto decisivi sviluppi nelle loro
applicazioni all’uomo, con quelle che chiamiamo “biotecnologie”. Attraverso di esse
si aprono sempre più rapidamente nuovi
scenari, che non riguardano soltanto la cura e la prevenzione delle malattie, ma la
trasformazione del soggetto umano, anche
in quello che è il suo organo fondamentale,
il cervello: per questa via, a parere di non
pochi intellettuali e uomini di scienza – ad
esempio di Aldo Schiavone, che al riguardo
ha scritto un saggio assai interessante, dal
titolo Storia e destino –, l’evoluzione della
nostra specie potrebbe essere sottratta ai
ritmi lentissimi della natura e affidata invece a quelli rapidissimi della tecnologia.
È chiaro però che se cambia il nostro concetto di uomo, e a maggior ragione se dovesse cambiare la realtà stessa dell’uomo,
cambia a sua volta il concetto di educazione ed entrano in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i nostri parametri educativi. A mio parere è proprio questo ciò
che sta avvenendo, anche se per ora molti
non se ne rendono conto. L’educazione infatti, nella sua essenza, è formazione dell’uomo, della persona umana, e non può
che definirsi e strutturarsi in vista di tale
obiettivo. In concreto, sta cambiando di significato quella definizione classica dell’uomo come animal rationale, animale ragionevole, di origine greca e più precisamente aristotelica ma poi corroborata e internamente potenziata dall’idea ebraico-
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cristiana dell’uomo come immagine di Dio,
che ha retto attraverso i secoli la nostra civiltà. Il suo senso concreto è che l’uomo, in
quanto animale, appartiene a pieno titolo
alla natura ed è sottomesso alle sue vicende e alle sue leggi, ma in quanto razionale
ha, rispetto a tutto il resto della natura, un
insormontabile differenziale ontologico.
Proprio questo differenziale viene ora radicalmente ridimensionato, anzi negato nel
suo carattere di differenza essenziale e insuperabile. In questa negazione convergono un certo modo di intendere l’evoluzione
biologica e la tendenza delle scienze empiriche a considerare l’uomo come un “oggetto”, come tale conoscibile e “misurabile” attraverso le forme dell’indagine sperimentale: questo approccio è certamente
legittimo, anzi indispensabile per il progresso della conoscenza e della cura di noi
stessi, ad esempio per la cura delle malattie fisiche e mentali. Quando però, cedendo
a un tipo più o meno nuovo di scientismo,
si considera quella scientifica come l’unica
forma di conoscenza del nostro essere che
sia davvero valida e universalmente proponibile, si finisce con il negare che l’uomo
sia anzitutto e irriducibilmente “soggetto”
ossia persona, il quale, proprio nella sua
intrinseca e ineliminabile soggettività, non
può mai essere totalmente oggettivato e
non può essere conosciuto adeguatamente
attraverso le scienze empiriche.
All’interno di queste coordinate culturali,
che sopprimono la differenza essenziale
dell’uomo dal resto della natura e tendenzialmente lo riducono ad un oggetto, diventa assai difficile, o meglio logicamente impossibile, mantenere quel primato assoluto
della persona umana, per il quale essa – e
solo essa – ha una dignità assoluta ed inviolabile, va considerata e trattata cioè, per
usare le parole di Emanuele Kant, sempre
come un fine e mai come un mezzo o, co-
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D O C U M E N T I
me dice il Concilio Vaticano II (Gaudium et
spes , 24), è la sola creatura sulla terra
“che Dio abbia voluto per se stessa”. Le
conseguenze sono evidenti per il concetto
e la pratica dell’educazione, ma anche per
tutti i nostri comportamenti e per l’assetto
globale della società.
Confido di aver mostrato quali siano le ragioni, non astratte e generiche ma assai
concrete, per le quali si può affermare che
le cause principali – anche se certo non
uniche – dell’attuale emergenza educativa
sono di ordine culturale. A questo punto
cercherò di indicare delle piste per superare o almeno fronteggiare questa emergenza, cominciando dagli aspetti più pratici ed operativi per poi risalire di nuovo, alla
fine, al quadro culturale di fondo e ai modi
e alle motivazioni per cui è possibile cambiarlo.
Una prima constatazione incoraggiante è
che dell’emergenza educativa siamo tutti
diventati, in quest’ultimo periodo, maggiormente consapevoli. Per ciò stesso cresce
la preoccupazione e anche la volontà di
reagire a una situazione di questo genere.
Aumentano, in concreto, la domanda di
un’educazione autentica e il bisogno e la
richiesta di educatori che siano davvero
tali. È una richiesta assai presente tra i genitori, nel duplice senso di poter trovare,
nella scuola, nella comunità cristiana e anche altrove, veri educatori per i propri figli,
e di essere essi stessi aiutati e consigliati
in modo da poter adempiere meglio il proprio compito educativo. Ma la richiesta è in
aumento anche tra gli insegnanti, molti dei
quali avvertono che diventa sempre più urgente reagire alla perdita di una vera e propria funzione, o meglio missione educativa
da parte della scuola. Almeno in maniera
implicita la domanda di educazione è fortemente presente anche nei ragazzi, negli
adolescenti e negli stessi giovani, che non
M A T E R I A L I
vogliono essere lasciati soli di fronte alle
sfide della vita: lo sa per esperienza chi è
disponibile a dedicare loro il proprio tempo,
il proprio ascolto, la propria attenzione. In
forme diverse una richiesta simile sale dall’intero corpo sociale, che avverte con crescente disagio le difficoltà e le deviazioni
che rendono faticoso il cammino delle nuove generazioni e teme siano messe in pericolo le basi stesse della convivenza. In particolare, oltre ai responsabili politici, coloro
che hanno responsabilità di conduzione di
imprese sembrano ben consapevoli che il
futuro del nostro paese dipende in misura
decisiva dalla qualità complessiva – e non
solo dalla preparazione tecnica – del suo
cosiddetto “capitale umano”.
Non è il caso, dunque, di cedere al pessimismo e tanto meno alla rassegnazione.
Vorrei ora, seguendo da vicino gli interventi
che ho già ricordato di Benedetto XVI sull’emergenza educativa, riflettere con voi su
alcune condizioni di base per un’educazione autentica. Il primo e più necessario contributo alla formazione della persona rimane sempre quello che proviene dalla vicinanza e dall’amore, a cominciare naturalmente da quella fondamentale esperienza
dell’amore che i bambini fanno, o almeno
dovrebbero fare, con i loro genitori. Ogni
vero educatore sa che per educare occorre
donare qualcosa di se stessi e che soltanto
così si possono aiutare i più giovani di noi
ad acquistare fiducia, a superare progressivamente il narcisismo iniziale e a diventare a propria volta capaci di amore autentico
e generoso. Mi sia permesso qui un riferimento molto concreto, che riguarda i genitori e il modo di comprendere anzitutto la
loro reciproca unione: il primo grande dono
che potete fare ai vostri figli – ha detto Benedetto XVI rivolgendosi a loro nell’udienza
in piazza San Pietro –, quel dono di cui i figli hanno bisogno per crescere e per ac-
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D O C U M E N T I
quisire fiducia in se stessi e fiducia nella vita, è la certezza del vostro reciproco amore. Del resto l’esperienza degli ultimi decenni ha già mostrato, in Italia e ancor più
in altri paesi – ad esempio l’Inghilterra dove il problema sta richiamando su di sé
l’attenzione dei responsabili della comunità
nazionale –, che il fallimento di tanti matrimoni è un fattore decisivo del disagio giovanile e dell’emergenza educativa. Si conferma dunque che è troppo sbrigativo e superficiale considerare il matrimonio e la
sua stabilità una questione soltanto privata.
Già in un piccolo bambino, insieme al bisogno di essere amato, è presente d’altronde
una grande curiosità, un forte desiderio di
sapere e di capire che si manifesta in continue domande e richieste di spiegazioni.
Questo desiderio di per sé non ha limiti,
come non ha limiti il bisogno di essere
amati. Si rivolge anzitutto a ciò di cui il
bambino, e poi l’adolescente e il giovane, fa
esperienza diretta, ma non si arresta a
questo livello, vuol capire di più ed ogni risposta può provocare una domanda ulteriore. Man mano che affiorano nell’animo
del ragazzo le grandi domande che riguardano l’orientamento da dare alla propria vita – con tutto ciò che queste domande presuppongono e che ha a che fare con l’origine e con il significato di noi stessi e del
mondo – l’orizzonte della curiosità si approfondisce e si allarga all’infinito. Il lavoro
educativo, se vuole davvero farsi carico della formazione della persona, non può dunque evitare di confrontarsi con quelle
grandi domande, con rispetto e umiltà ma
anche senza impossibili neutralità e senza
riserve o limitazioni che contraddirebbero
la sua principale funzione.
Nella prospettiva della formazione della
persona va anche inquadrata la questione
forse più controversa e dibattuta in ambito
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M A T E R I A L I
educativo: quella del rapporto reciproco tra
libertà e disciplina. Non per caso tutte le
grandi tradizioni educative fanno leva su
precise regole di comportamento e di vita:
senza di esse infatti non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare la
realtà della vita. Personalmente ritengo
quindi un errore gravido di conseguenze
negative, che ormai sono sotto gli occhi di
tutti, quella brusca svolta per la quale, una
quarantina di anni fa, si è ritenuto che la
disciplina fosse una forma di autoritarismo
nocivo al pieno sviluppo delle potenzialità
della persona. Al tempo stesso il rapporto
tra l’educatore e l’allievo è pur sempre l’incontro tra due libertà, una delle quali in
formazione, e l’educazione ben riuscita è
formazione al retto uso della libertà. Man
mano che il bambino cresce, diventa un
adolescente e poi un giovane, bisogna dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo però sempre attenti ad aiutare a
correggere le scelte sbagliate. Quello che
invece non dobbiamo fare è assecondare
gli errori, fingendo di non vederli, o peggio
condividendoli come se fossero espressione di creatività e di libertà personale.
Del resto, il rischio della libertà non solo è
ineliminabile, ma è il segno distintivo della
trascendenza della persona umana. A differenza di quanto avviene in campo tecnico
o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita
morale sia delle persone sia di un’intera
generazione non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà
dell’uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve
prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato
non possono essere semplicemente ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso
una, spesso sofferta, scelta personale.
92
E
D O C U M E N T I
Perciò l’assunzione di responsabilità non
può non accompagnare la libertà ed è condizione sostanziale di ogni nostra seria
realizzazione, personale o collettiva. Proprio far crescere progressivamente, con il
progresso dell’età, il senso della propria
responsabilità è dunque un obiettivo centrale del processo educativo, che coinvolge
certo il compito degli educatori ma anche
la personalità e la libertà dei ragazzi, che
restano pur sempre i veri soggetti dell’educazione.
Un ultimo aspetto su cui vorrei richiamare
l’attenzione riguarda qualcosa di cui di solito non si parla, o meglio si parla solo in
termini negativi. Mi riferisco al rapporto tra
educazione e sofferenza, educazione ed
esperienza del dolore. Nella mentalità diffusa la sofferenza – fisica o morale – è
quell’aspetto oscuro della vita che è meglio
mettere tra parentesi e da cui in ogni caso
bisogna preservare il più possibile le giovani generazioni. La sofferenza però fa parte
della realtà e della verità della nostra vita.
Cercando di tenere i più giovani al riparo da
ogni difficoltà ed esperienza del dolore rischiamo perciò di far crescere, al di là delle nostre intenzioni, persone fragili, poco
realiste e poco generose: la capacità di
amare e di donarsi corrisponde infatti alla
capacità di soffrire, e di soffrire insieme.
Per essere completa e adeguata, o meglio
pienamente umana, l’educazione deve
piuttosto cercare di non lasciare senza risposta gli interrogativi che la sofferenza,
soprattutto la sofferenza innocente, e alla
fine la morte stessa pongono alla nostra
coscienza.
Quando si toccano gli aspetti oscuri della
vita sorge immediatamente l’interrogativo
circa un fondamento solido sul quale si
possa comunque costruire, e reciprocamente si comprende come l’incertezza e la
mancanza di prospettive a questo riguardo
M A T E R I A L I
siano un aspetto essenziale delle attuali
difficoltà dell’educazione. Ritorniamo così
alle ragioni più profonde, di ordine anzitutto
culturale, dell’emergenza educativa. In termini “laici” si può dire che il nodo di fondo
è la presenza, o l’assenza, di fiducia nella
vita. In termini religiosi bisogna parlare
della speranza cristiana, a cui Benedetto
XVI ha dedicato non per caso la sua seconda Enciclica: per lui soltanto una speranza
affidabile può essere l’anima dell’educazione, come dell’intera vita. Questa speranza
oggi è insidiata da molte parti ed è forte la
tendenza a ridiventare come gli antichi pagani, che San Paolo definiva uomini «senza
speranza e senza Dio in questo mondo» (Ef
2,12). Uno studioso non credente come
Jürgen Habermas già da tempo ha parlato
della perdita di fiducia nella salvezza che
viene da Dio, nella redenzione e nella grazia come di un fenomeno che per la prima
volta è diventato generale, o almeno molto
diffuso, nei paesi europei, senza però che
questa perdita abbia trovato compensazioni
e sostituti nella nostra cultura: anzi, il venir
meno delle ideologie che promettevano
una piena realizzazione dell’uomo attraverso la trasformazione della società ha reso
questo vuoto ancora più evidente.
Non posso dunque concludere questo intervento sul “paradosso” dell’educazione
senza proporre qualche spunto di riflessione riguardo alle tendenze culturali che abbiamo visto essere all’origine dell’emergenza educativa. In primo luogo vorrei rifarmi di nuovo a un paradosso, cioè alla verità contenuta nel nichilismo: è vero cioè
che, alla fine, senza Dio tutto manca di fondamento e finisce per crollare. È vero, in
particolare, che se Dio non c’è diventa ben
difficile, anzi logicamente impossibile, giustificare una differenza qualitativa e irriducibile dell’uomo rispetto al resto della natura: da dove mai, infatti, una simile diffe-
E
D O C U M E N T I
renza potrebbe provenire, se soltanto la
natura, l’universo fisico, è la realtà primordiale da cui tutto trae origine e a cui, quindi, tutto si riconduce. Così, ad esempio,
non ci potrebbe più essere spazio per una
libertà intesa in senso proprio, come facoltà del soggetto umano di decidere in un
senso o nell’altro, sottraendosi sia alla necessità sia alla casualità della natura.
Oggi, in una cultura nella quale la razionalità scientifica e tecnologica ha assunto
una vera leadership e un peso spesso preponderante, la negazione di Dio, o comunque il ritenerlo non necessario e irrilevante
per la comprensione del mondo, e al tempo stesso la riduzione dell’uomo ad un elemento della natura, fanno capo soprattutto
a una certa interpretazione del sapere
scientifico, che lo vorrebbe autosufficiente
e almeno potenzialmente “onniesplicativo”.
Queste posizioni “scientiste” non sono certo condivise dagli uomini di scienza più importanti e significativi, ma comunque hanno dato luogo ad una specie di “volgata”
che si pretende scientifica – mentre semmai ha a che fare con le interpretazioni filosofiche della conoscenza scientifica e in
generale della conoscenza umana – e che
esercita un forte influsso sulla cultura diffusa, compresa quella che viene proposta
sui giornali e anche nelle scuole.
Perciò siamo in molti a ritenere che nell’attuale contesto culturale la via più efficace
per riaprire lo spazio a Dio sia quella di
concentrare l’attenzione sulla struttura e
sui presupposti della stessa conoscenza
scientifica. Una sua caratteristica fondamentale è rappresentata infatti dalla stretta sinergia tra matematica ed esperienza,
ossia tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: questa sinergia è la chiave dei risultati giganteschi e sempre crescenti che si ottengono
attraverso le tecnologie, operando sulla
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M A T E R I A L I
natura e mettendo al nostro servizio le sue
immense energie. La matematica però è
frutto della nostra intelligenza, un frutto
puro e “astratto” che si spinge al di là di
tutto ciò che noi possiamo immaginare e
rappresentare sensibilmente e che proprio
in questa sua “astrattezza” consente i più
straordinari risultati conoscitivi e operativi,
ad esempio nella fisica quantistica e nella
teoria della relatività. La corrispondenza
che non può non esistere tra la matematica e le strutture reali dell’universo, perché
in caso diverso le previsioni scientifiche e
le applicazioni tecnologiche non funzionerebbero, pone dunque una grande domanda: implica infatti che l’universo stesso sia
strutturato in maniera razionale, così che
esista una corrispondenza profonda tra la
nostra ragione soggettiva e la razionalità
oggettivata nella natura. Diventa allora inevitabile chiedersi a quali condizioni una tale
corrispondenza sia possibile e in concreto
se non debba esservi un’Intelligenza originaria che sia la fonte comune della natura
e della nostra razionalità. Così non direttamente la scienza, ma la riflessione filosofica sulle condizioni che rendono la scienza
possibile, ci riporta verso quel Verbo, quel
Logos creatore di cui ci parla San Giovanni
all’inizio del suo Vangelo. Benedetto XVI ha
proposto più volte questo tipo di argomentazione, sia in sedi propriamente accademiche come nel suo celebre discorso di
Ratisbona sia in occasioni assai più semplici e popolari, come nell’incontro che ha
avuto con i giovani di Roma l’8 aprile 2006.
Non vorrei però ricondurre subito ed esclusivamente alla questione di Dio la risposta
alle problematiche culturali che rendono
difficile l’educazione. Anche chi non è credente, infatti, può e deve svolgere un ruolo
positivo ed efficace nella comune opera
educativa, e soprattutto la persona umana
ha già in se stessa una sua consistenza
94
E
D O C U M E N T I
che rende poco credibile il ridurla semplicemente a una particella della natura, anche se – come dicevo – in ultima analisi
questa consistenza senza Dio rimane sospesa nel vuoto. In concreto, per rispondere alla domanda chi sia realmente l’uomo
non basta studiare i percorsi evolutivi che
hanno condotto al suo apparire sulla terra,
e nemmeno indagare sulle strette connessioni che indubbiamente esistono tra i processi mentali e il funzionamento dell’organo cerebrale. Bisogna prendere in altrettanto seria considerazione un approccio diverso, che parte dall’esame delle “prestazioni” di cui l’uomo si è mostrato e si mostra capace. Mi riferisco a quella capacità
di produrre cultura che è propria ed esclusiva dell’uomo e che ha dato luogo, attraverso i millenni, a uno sviluppo gigantesco
e sempre più rapidamente crescente, all’interno del quale emergono “punte”
estremamente significative, come l’attitudine ad assumere responsabilità etiche, il rigore e l’efficacia del pensiero logico, la
creatività estetica. In realtà, se riflettiamo
su ciascuna di queste caratteristiche, ci
troviamo di fronte a qualcosa di incondizionato, come il dovere morale, che può certo
essere contraddetto dalle nostre scelte ma
che non cessa di proporsi come la misura
autentica della nostra dignità personale, o
come l’evidenza di verità di un ragionamento o di un’intuizione, o come la bellezza che si impone alla nostra ammirazione.
Tentare di spiegare tutto questo soltanto in
termini di meccanismi psico-fisici o di “interessi” dell’evoluzione della nostra specie
significherebbe non vedere e considerare
inesistenti questi che sono gli aspetti più
propri e più profondi della nostra esperienza umana.
Termino riconoscendo due limiti, che contengono al tempo stesso due provocazioni,
o meglio due appelli. Dobbiamo riconosce-
M A T E R I A L I
re anzitutto che nessuno studio e nessun
ragionamento può fornirci delle evidenze
incontrovertibili riguardo a Dio come anche riguardo all’uomo. Quando infatti ci interroghiamo su noi stessi, la questione non
è mai puramente teorica e oggettiva, ma
sempre anche ed inevitabilmente pratica e
personale, dato che si tratta appunto di noi
stessi, di che cosa, o meglio di chi siamo, e
quindi della direzione da dare alla nostra
vita, di come possiamo orientarla e realizzarla. E qualcosa di analogo vale per la
questione di Dio: anch’essa infatti ha delle
grandissime ed ineludibili implicazioni riguardo al senso e all’orientamento della
nostra vita. Nessuno dunque, credente o
non credente, scienziato, filosofo o uomo
comune, dovrebbe ritenersi preservato da
questa caratteristica della condizione
umana, giudicando le sue convinzioni riguardo all’uomo, o riguardo a Dio, puramente “neutrali”, razionali o “laiche”, e imputando invece agli altri di procedere in
modo aprioristico e dogmatico. Perciò, anche riguardo all’argomento che risale dalla
razionalità della natura all’Intelligenza
creatrice, Benedetto XVI parla non di dimostrazione apodittica ma di “ipotesi migliore”, che esige da parte dell’uomo e della
sua ragione “di rinunciare a una posizione
di dominio e di rischiare quella dell’ascolto
umile”. Questo limite, almeno apparente,
della condizione umana, rappresenta però
un appello grande e radicale alla nostra libertà, alla dimensione più profonda dell’io
di ciascuno e a quel “noi” che non può abdicare alla solidarietà reciproca davanti
agli interrogativi supremi della vita: per chi
cerca di seguire la voce della coscienza e
di considerare ogni persona degna di un rispetto incondizionato, quell’ipotesi riguardo a Dio e all’uomo diventa pian piano una
certezza interiore che illumina e sostiene il
cammino della vita.
E
D O C U M E N T I
Il secondo limite riguarda le possibilità di
azione di ciascuno di noi, compresi coloro
che vengono classificati come “persone
molto importanti”. Nel campo dell’educazione, come sostanzialmente in ogni altro
ambito della vita, sperimentiamo di continuo la scarsità delle nostre possibilità di
intervento e la precarietà dell’influsso che
possiamo esercitare, in un contesto che dipende da mille, spesso imponderabili, fattori. Perciò è facile, e anche comodo, pensare: non dipende da me e quindi, alla fine, non è affar mio. In concreto, quando si
tratta di modificare quel clima culturale
che sembra contrario ad un umanesimo
autentico e quindi sfavorevole all’educazione e formazione della persona, la prima
sensazione che proviamo è quella di
un’impotenza di fondo ad opporci a tendenze che vengono da lontano e che hanno
radici e sostegni molti diffusi. La società
però, come ha scritto Benedetto XVI nella
lettera sull’educazione, «non è un’astrazione; alla fine siamo noi stessi, tutti insieme,… sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno». A questo punto
oso proporre un ultimo appello, o se volete
provocazione, che formulo in questa città
di Milano e da questo Collegio San Carlo
che a Milano ha uno spazio e un compito di
grande significato. L’appello è rivolto a voi
tutti e a ciascuno nel ruolo e nelle responsabilità di cui è investito. Modificare il clima culturale, o – per usare la formula di
Benedetto XVI – allargare gli spazi della
razionalità e liberarsi dalla dittatura del relativismo, è un’impresa impegnativa ma
non impossibile, e in realtà nemmeno disperata. A ciascuno di noi è richiesto di
rendersi sempre più consapevole della
portata di questa sfida e di affrontarla con
determinazione e con fiducia. Così anche
l’emergenza educativa potrà pian piano diventare meno acuta.
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M A T E R I A L I
E
D O C U M E N T I
Discorso del Santo Padre Benedetto XVI
ai partecipanti all’incontro
degli Insegnanti di Religione Cattolica
Sabato, 25 aprile 2009 - Aula Paolo VI
Il discorso pronunciato dal santo Padre dinanzi alla folla entusiasta degli IdR italiani in
Aula Paolo VI sintetizza la storia di una consapevolezza: «La dimensione religiosa è intrinseca al fatto culturale, concorre alla formazione globale della persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita… non è dunque una sovrastruttura; essa è parte integrante della persona, sin dalla primissima infanzia… La dimensione religiosa rende
l’uomo più uomo». Questo è il presupposto dell’IRC culturale e confessionale, al cui centro si pone la concreta persona dell’IdR: «a voi… appartiene la vocazione a lasciar trasparire che quel Dio di cui parlate nelle aule scolastiche costituisce il riferimento essenziale
della vostra vita».
Cari fratelli e sorelle,
è un vero piacere per me incontrarvi quest’oggi e condividere con voi alcune riflessioni sulla vostra importante presenza nel
panorama scolastico e culturale italiano,
nonché in seno alla comunità cristiana.
Saluto tutti con affetto, a cominciare dal
Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente
della Conferenza Episcopale Italiana, che
ringrazio per le cortesi parole che mi ha rivolto, presentandomi questa numerosa e
vivace Assemblea. Ugualmente rivolgo un
saluto cordiale a tutte le autorità presenti.
L’insegnamento della religione cattolica è
parte integrante della storia della scuola in
Italia, e l’insegnante di religione costituisce
una figura molto importante nel collegio
dei docenti. È significativo che con lui tanti
ragazzi si tengano in contatto anche dopo i
corsi. L’altissimo numero di coloro che
scelgono di avvalersi di questa disciplina è
inoltre il segno del valore insostituibile che
essa riveste nel percorso formativo e un
indice degli elevati livelli di qualità che ha
96
raggiunto. In un suo recente messaggio la
Presidenza della Cei ha affermato che
«l’insegnamento della religione cattolica
favorisce la riflessione sul senso profondo
dell’esistenza, aiutando a ritrovare, al di là
delle singole conoscenze, un senso unitario e un’intuizione globale. Ciò è possibile
perché tale insegnamento pone al centro
la persona umana e la sua insopprimibile
dignità, lasciandosi illuminare dalla vicenda unica di Gesù di Nazaret, di cui si ha cura di investigare l’identità, che non cessa
da duemila anni di interrogare gli uomini».
Porre al centro l’uomo creato ad immagine
di Dio (cfr. Gn 1, 27) è, in effetti, ciò che
contraddistingue quotidianamente il vostro
lavoro, in unità d’intenti con altri educatori
ed insegnanti. In occasione del Convegno
ecclesiale di Verona, nell’ottobre 2006, io
stesso ebbi modo di toccare la «questione
fondamentale e decisiva» dell’educazione,
indicando l’esigenza di «allargare gli spazi
della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare
M A T E R I A L I
tra loro la teologia, la filosofia e le scienze,
nel pieno rispetto dei loro metodi propri e
della loro reciproca autonomia, ma anche
nella consapevolezza dell’intrinseca unità
che le tiene insieme» (Discorso del 19 ottobre 2006: Insegnamenti di Benedetto XVI,
II, 2 [2006], 473; 471). La dimensione religiosa, infatti, è intrinseca al fatto culturale,
concorre alla formazione globale della
persona e permette di trasformare la conoscenza in sapienza di vita.
Il vostro servizio, cari amici, si colloca proprio in questo fondamentale crocevia, nel
quale – senza improprie invasioni o confusione di ruoli – si incontrano l’universale
tensione verso la verità e la bimillenaria testimonianza offerta dai credenti nella luce
della fede, le straordinarie vette di conoscenza e di arte guadagnate dallo spirito
umano e la fecondità del messaggio cristiano che così profondamente innerva la cultura e la vita del popolo italiano. Con la piena
e riconosciuta dignità scolastica del vostro
insegnamento, voi contribuite, da una parte,
a dare un’anima alla scuola e, dall’altra, ad
assicurare alla fede cristiana piena cittadinanza nei luoghi dell’educazione e della
cultura in generale. Grazie all’insegnamento della religione cattolica, dunque, la scuola e la società si arricchiscono di veri laboratori di cultura e di umanità, nei quali, decifrando l’apporto significativo del cristianesimo, si abilita la persona a scoprire il bene
e a crescere nella responsabilità, a ricercare il confronto ed a raffinare il senso critico,
ad attingere dai doni del passato per meglio
comprendere il presente e proiettarsi consapevolmente verso il futuro.
L’appuntamento odierno si colloca anche
nel contesto dell’Anno Paolino. Grande è il
fascino che l’Apostolo delle genti continua
ad esercitare su tutti noi: in lui riconosciamo il discepolo umile e fedele, il coraggioso annunciatore, il geniale mediatore della
E
D O C U M E N T I
Rivelazione. Caratteristiche, queste, a cui
vi invito a guardare per alimentare la vostra stessa identità di educatori e di testimoni nel mondo della scuola. È Paolo, nella prima Lettera ai Tessalonicesi (4, 9), a
definire i credenti con la bella espressione
di theodìdaktoi , ossia “ammaestrati da
Dio”, che hanno Dio per maestro. In questa
parola troviamo il segreto stesso dell’educazione, come anche ricorda sant’Agostino: «Noi che parliamo e voi che ascoltate
riconosciamoci come fedeli discepoli di un
unico Maestro» (Serm. 23, 2).
Inoltre, nell’insegnamento paolino la formazione religiosa non è separata dalla formazione umana. Le ultime Lettere del suo
epistolario, quelle dette “pastorali”, sono
piene di significativi rimandi alla vita sociale e civile che i discepoli di Cristo devono
ben tenere a mente. San Paolo è un vero
“maestro” che ha a cuore sia la salvezza
della persona educata in una mentalità di
fede, sia la sua formazione umana e civile,
perché il discepolo di Cristo possa esprimere in pieno una personalità libera, un vivere umano “completo e ben preparato”,
che si manifesta anche in un’attenzione
per la cultura, la professionalità e la competenza nei vari campi del sapere a beneficio di tutti. La dimensione religiosa non è
dunque una sovrastruttura; essa è parte
integrante della persona, sin dalla primissima infanzia; è apertura fondamentale all’alterità e al mistero che presiede ogni relazione ed ogni incontro tra gli esseri umani. La dimensione religiosa rende l’uomo
più uomo. Possa il vostro insegnamento
essere sempre capace, come lo fu quello di
Paolo, di aprire i vostri studenti a questa
dimensione di libertà e di pieno apprezzamento dell’uomo redento da Cristo così come è nel progetto di Dio, esprimendo così,
nei confronti di tanti ragazzi e delle loro famiglie, una vera carità intellettuale.
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M A T E R I A L I
Certamente uno degli aspetti principali del
vostro insegnamento è la comunicazione
della verità e della bellezza della Parola di
Dio, e la conoscenza della Bibbia è un elemento essenziale del programma di insegnamento della religione cattolica. Esiste
un nesso che lega l’insegnamento scolastico della religione e l’approfondimento
esistenziale della fede, quale avviene nelle
parrocchie e nelle diverse realtà ecclesiali.
Tale legame è costituito dalla persona
stessa dell’insegnante di religione cattolica: a voi, infatti, oltre al dovere della competenza umana, culturale e didattica propria di ogni docente, appartiene la vocazione a lasciar trasparire che quel Dio di
cui parlate nelle aule scolastiche costituisce il riferimento essenziale della vostra
vita. Lungi dal costituire un’interferenza o
una limitazione della libertà, la vostra pre-
E
D O C U M E N T I
senza è anzi un valido esempio di quello
spirito positivo di laicità che permette di
promuovere una convivenza civile costruttiva, fondata sul rispetto reciproco e sul
dialogo leale, valori di cui un Paese ha
sempre bisogno.
Come suggeriscono le parole dell’apostolo
Paolo che fanno da titolo a questo vostro
appuntamento, auguro a tutti voi che il Signore vi doni la gioia di non vergognarvi
mai del suo Vangelo, la grazia di viverlo, la
passione di condividere e coltivare la novità
che da esso promana per la vita del mondo. Con questi sentimenti benedico voi e le
vostre famiglie, insieme a tutti coloro –
studenti e insegnanti – che ogni giorno incontrate in quella comunità di persone e di
vita che è la scuola.
Benedetto pp. XVI
© Libreria Editrice Vaticana
Dal Discorso del Santo Padre Benedetto XVI
alla 59a Assemblea Generale della CEI
(28 maggio 2009)
L’intervento del Santo Padre all’Assemblea della CEI ha richiamato, ancora una volta, la
necessità di fronteggiare l’emergenza educativa non solo con piani di ingegneria gestionale, ma soprattutto con la testimonianza degli educatori: «educatori autorevoli a cui le
nuove generazioni possano guardare con fiducia». La via tracciata passa necessariamente attraverso un serio impegno di formazione permanente.
Cari Fratelli Vescovi italiani, […] avete voluto opportunamente approfondire nell’azione pastorale l’impegno missionario, che
ha caratterizzato il cammino della Chiesa
in Italia dopo il Concilio, mettendo al centro della riflessione della vostra assemblea il compito fondamentale dell’educazione. Come ho avuto modo a più riprese
di ribadire, si tratta di una esigenza costi98
tutiva e permanente della vita della Chiesa, che oggi tende ad assumere i tratti
dell’urgenza e, perfino, dell’emergenza.
Avete avuto modo, in questi giorni, di
ascoltare, riflettere e discutere sulla necessità di porre mano ad una sorta di progetto educativo che nasca da una coerente
e completa visione dell’uomo quale può
scaturire unicamente dalla perfetta imma-
M A T E R I A L I
gine e realizzazione che ne abbiamo in
Cristo Gesù. È Lui il Maestro alla cui scuola riscoprire il compito educativo come
un’altissima vocazione alla quale ogni fedele, con diverse modalità, è chiamato. In
un tempo in cui è forte il fascino di concezioni relativistiche e nichilistiche della vita,
e la legittimità stessa dell’educazione è
posta in discussione, il primo contributo
che possiamo offrire è quello di testimoniare la nostra fiducia nella vita e nell’uomo, nella sua ragione e nella sua capacità
di amare. Essa non è frutto di un ingenuo
ottimismo, ma ci proviene da quella «speranza affidabile» (Spe salvi, 1) che ci è donata mediante la fede nella redenzione
operata da Gesù Cristo. In riferimento a
questo fondato atto d’amore per l’uomo
può sorgere una alleanza educativa tra
tutti coloro che hanno responsabilità in
questo delicato ambito della vita sociale
ed ecclesiale.
La conclusione, domenica prossima, del
triennio dell’Agorà dei giovani italiani, che
ha visto impegnata la vostra Conferenza in
un percorso articolato di animazione della
pastorale giovanile, costituisce un invito a
verificare il cammino educativo in atto e a
intraprendere nuovi progetti per una fascia
di destinatari, quella delle nuove generazioni, estremamente ampia e significativa
per le responsabilità educative delle nostre comunità ecclesiali e della società
tutta. L’opera formativa, infine, si allarga
anche all’età adulta, che non è esclusa da
una vera e propria responsabilità di educazione permanente. Nessuno è escluso
dal compito di prendersi a cura la crescita
propria e altrui verso la «misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13).
La difficoltà di formare autentici cristiani si
intreccia fino a confondersi con la difficoltà
di far crescere uomini e donne responsabili
e maturi, in cui coscienza della verità e del
E
D O C U M E N T I
bene e libera adesione ad essi siano al
centro del progetto educativo, capace di
dare forma ad un percorso di crescita globale debitamente predisposto e accompagnato. Per questo, insieme ad un adeguato
progetto che indichi il fine dell’educazione
alla luce del modello compiuto da perseguire, c’è bisogno di educatori autorevoli a
cui le nuove generazioni possano guardare
con fiducia. In questo Anno paolino, che
abbiamo vissuto nell’approfondimento della parola e dell’esempio del grande Apostolo delle genti […] risuona con singolare
efficacia il suo invito: «Fatevi miei imitatori» (1Cor 11,1). Un vero educatore mette in
gioco in primo luogo la sua persona e sa
unire autorità ed esemplarità nel compito
di educare coloro che gli sono affidati. Ne
siamo consapevoli noi stessi, posti come
guide in mezzo al popolo di Dio, ai quali
l’apostolo Pietro rivolge, a sua volta, l’invito
a pascere il gregge di Dio facendoci «modelli del gregge» (1Pt 5,3).
Risulta pertanto singolarmente felice la
circostanza che ci vede pronti a celebrare,
dopo l’anno dedicato all’Apostolo delle
genti, un Anno sacerdotale. Siamo chiamati, insieme ai nostri sacerdoti, a riscoprire
la grazia e il compito del ministero presbiterale. Esso è un servizio alla Chiesa e al
popolo cristiano che esige una profonda
spiritualità. In risposta alla vocazione divina, tale spiritualità deve si nutrirsi della
preghiera e di una intensa unione personale con il Signore per poterlo servire nei fratelli attraverso la predicazione, i sacramenti, una ordinata vita di comunità e
l’aiuto ai poveri. In tutto il ministero sacerdotale risalta, in tal modo, l’importanza
dell’impegno educativo, perché crescano
persone libere e responsabili, cristiani maturi e consapevoli […].
Benedetto pp. XVI
© Libreria Editrice Vaticana
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M A T E R I A L I
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D O C U M E N T I
Dalla Prolusione del card. Angelo Bagnasco
alla 59a Assemblea Generale della CEI
(25 maggio 2009)
Il card. Bagnasco ha esortato la Chiesa italiana a non scoraggiarsi dinanzi alle incertezze
dei metodi e degli strumenti educativi: «nessuno può gettare la spugna». Occorre individuare le iniziative più riuscite e i segnali di rinascita, imparando a collaborare con tutte le
istituzioni e mettendo in primo piano l’esemplarità di vita degli educatori: «la vita viene
accesa solo dalla vita» (R. Guardini).
[…] 9. L’ambito nel quale più preoccupante
appare l’impatto dello spirito del tempo è
quello educativo. Infatti si parla, non a caso, di «emergenza», e non per analogia né
per retorica: su questo fronte percepiamo
effettivamente un allarme serissimo, che
va via via dilatandosi. E poiché consideriamo l’emergenza educativa il fattore in grado di mettere a repentaglio l’equilibrio di
una società e le possibilità concrete di un
suo progresso, il Consiglio Permanente ha
deciso di farne il tema centrale di questa
Assise. Collegialmente poi, ci esprimeremo
sugli orientamenti pastorali del prossimo
decennio. Su questo argomento ci aiuterà
la relazione di S. Ecc. Monsignor Diego Coletti che fin d’ora ringrazio. Peraltro, non
sono pochi coloro che, ritenendo praticamente impossibile l’opera dell’educazione,
vi rinunciano in partenza. Anche tra le figure tradizionalmente dedite a questo impegno, come i genitori e gli insegnanti, sembra farsi strada un atteggiamento di resa,
magari non dichiarata ma effettiva, come di
un compito evidentemente in contrasto con
ciò che interessa alle persone. A molti
adulti, oggi, sembra un risultato già soddisfacente riuscire a trasmettere appena le
regole del galateo, come a scuola le nozioni
principali delle singole materie. Ma ben
sappiamo che l’educazione è molto più che
100
istruzione. È il risvegliarsi del soggetto che
decide di sé, al di là di ogni determinismo
sociale o biologico. La stessa istruzione
stenta ad attecchire, e diventare un possesso per sempre, se non si insedia in un
processo di crescita nel quale si trovano
mobilitate tutte le risorse del soggetto. Una
serie di fenomeni sociali peraltro non lascia spazio a illusioni. E ormai è anticipato
all’infanzia il momento in cui gli adulti temono di non riuscire più a farsi ascoltare.
In realtà, nessuno può gettare la spugna
davanti a una sfida sì ardua, ma entusiasmante e decisiva: proprio perché qui si
gioca la felicità delle giovani generazioni e
il bene della società, merita che investiamo
tutta l’intelligenza e la passione di cui siamo capaci, guardando avanti con fiducia e
avvalendoci di una storia straordinaria che
ha nei Santi dediti all’educazione dei veri
maestri. Loro ci insegnano a tenere fisso lo
sguardo sul Maestro: «Chiunque segue
Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo» (Gaudium et Spes, n. 41). Mi piace citare qui un grande educatore del secolo appena concluso, l’italo-tedesco Romano
Guardini, le cui lezioni universitarie attiravano folle di giovani: «Che cosa dunque significa educare? […] Educare significa che
io do a quest’uomo coraggio verso se stesso […]. Che lo aiuto a conquistare la libertà
M A T E R I A L I
sua propria […]. Con quali mezzi? Sicuramente avvalendomi anche di discorsi, esortazioni, stimoli e metodi di ogni genere. Ma
ciò non è ancora il fattore originale. La vita
viene accesa solo dalla vita […]. Da ultimo,
come credenti, diciamo che educare significa aiutare l’altra persona a trovare la sua
strada verso Dio. Non soltanto che abbia le
carte in regola per affermarsi nella vita,
bensì che questo ‘bambino di Dio’ cresca
fino alla ‘maturità di Cristo’. L’uomo è per
l’uomo la via verso Dio» (R. Guardini, Persona e libertà, Editrice La Scuola, 1987,
pagg. 222-223). Possiamo dire che, in certa
misura, il problema dei giovani sono gli
adulti! Il mondo adulto non può gridare allo
scandalo, esibire sorpresa di fronte alle
trasgressioni più atroci che vedono protagonisti giovani e giovanissimi, e subito dopo
spegnere i riflettori senza nulla correggere
dei modelli che presenta ed impone ogni
giorno. Sono modelli che uccidono l’anima,
perché la rendono triste e annoiata, senza
desideri alti perché senza speranza. Ma il
cuore dei giovani, anche quando sembra
inerte o prigioniero del nulla, in realtà è segnato da una insopprimibile nostalgia di
ideali nobili, e va in cerca di modelli credibili dove «leggere» ciò che veramente
riempie la vita.
In una tale situazione, il pericolo più grande, infatti, è rappresentato dalla sfiducia,
dal pessimismo, dall’atteggiamento che
nulla ormai ci può salvare. Bisogna invece
reagire, e lo spazio – per quanto contrastato – c’è. Soprattutto è decisiva qui una consapevolezza di ordine diverso, capace di
andare anche controcorrente. Per questo
aguzziamo lo sguardo per registrare le voci e le esperienze che nonostante tutto anticipano i segni di una rinascita. Ed ancora
stiamo attenti a cogliere le preoccupazioni
che da altre agenzie affiorano sulla medesima emergenza. Se oltre che nella Chie-
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D O C U M E N T I
sa, anche in altre componenti e istituzioni
– come in parte accade – irrompe sul serio
la questione educativa, allora qualcosa di
importante può davvero prendere avvio .
Bisogna coalizzare le forze, per applicarci
al meglio nella diagnosi e scandire gli
obiettivi, con i percorsi e i mezzi per raggiungerli.
Quello educativo è, per le nostre comunità
cristiane, un impegno tutt’altro che inedito.
Su questo fronte, nell’arco anche solo degli
ultimi sessant’anni, ha ad un certo punto
preso forma una straordinaria stagione
formativo-educativa, quasi un’epopea che
ha beneficamente influito su diversi aspetti
della vita nazionale. Ebbene, riprendere
con sistematicità e intensificare ora un’azione che in fondo non è mai stata dismessa, significa collocarci su una linea di servizio che probabilmente intercetterà l’attesa di molte famiglie, a prescindere dalla
frequenza o meno ai sacramenti . Come
Chiesa, sentiamo nostra fino al midollo
questa diaconia: essa non circoscrive la
propria azione nella sola prospettiva religiosa, perché punta ad educare donne e
uomini che faranno l’Italia e l’Europa di domani. Anche questo orizzonte, necessariamente più ampio, è obiettivo che merita la
nostra dedizione.
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Gli svizzeri sono sempre avanti. Anche nella cultura. Così è stato varato, ormai alcuni anni fa, un progetto per la
digitalizzazione di tutti i manoscritti conservati nelle biblioteche svizzere. Già moltissimi manoscritti sono consultabili in rete; il sito (www.e-codices.unifr.ch) è quadrilingue (inglese, francese, tedesco e italiano) ed è corredato
anche di commenti di alto livello scientifico (purtroppo questi ultimi solo in tedesco). Di ogni manoscritto viene
offerta prima una breve descrizione sintetica e poi una dettagliata scheda informativa (luogo e data di origine, tipo
di scrittura, descrizione delle eventuali decorazioni e/o immagini, ecc.); infine è possibile visionare ad alta risoluzione le immagini di ogni pagina (recto e verso) e perfino della rilegatura, così da poter consultare il manoscritto
come se lo si avesse davanti agli occhi. Le immagini possono essere liberamente scaricate e utilizzate (purché non a
fini commerciali), al fine di incentivare lo studio della paleografia e della storia medievale.
In questo numero di RSC presentiamo il manoscritto n. 341 della Biblioteca di San Gallo (Cod. Sang. 341): questa biblioteca monastica rappresenta – con i suoi oltre 250 documenti già messi in rete – la collezione di gran lunga più importante della Svizzera. Il codice 341 risale al 1070 circa; la grafia è una carolingia minuscola, verosimilmente ad opera di una stessa mano. Contiene un calendario (pp. 3-18), un breviario (pp. 19-34) e un meraviglioso sacramentarlo (pp. 36-383), arricchito da quattro splendide figure a tutta pagina. Riproduciamo e commentiamo queste quattro immagini.
Crocifissione con Maria e Giovanni (p. 7). Nei sacramentari antichi spesso la
prima pagina del canone eucaristico è impreziosita da un’immagine della
crocifissione. In questo codice, la miniatura raffigura la croce come “albero
della vita” (si noti la base, radicata nel suolo, e le gemme di fioritura diffuse
su tutto il legno); sopra il patibulum è affisso il titulus, senza alcuna iscrizione. Sole e luna, rappresentanti del cosmo, assistono alla scena, colorati
di porpora e di blu (si noti: il sole, che in tedesco è femminile [die Sonne]
sopra Maria; la luna, in tedesco der Mond [maschile] sopra Giovanni; i colori delle quattro figure si richiamano a coppie). Il corpo del Salvatore pende leggermente a sinistra, gli occhi chiusi e il capo inclinato verso Maria, che guarda il Figlio con
espressione attonita e dolente. Giovanni si batte il petto e tiene nella mano sinistra un codicillum,
simbolo del Vangelo che avrebbe poi scritto. Le tre figure sono coronate di aureola gialla; quella
di Cristo presenta però in più una croce cerulea inscritta. Lo sfondo è totalmente dorato, simbolo
della trascendenza del Mistero e della rivelazione della gloria divina. Come di consueto avviene
quando la scena è dipinta su un sacramentario, la forma della croce sostituisce la “T” di «Te igitur,
clementissime Pater…» (incipit della preghiera eucaristica). In questo caso le lettere “…e igitur” sono quasi totalmente sbiadite (si legge ancora solamente la R, a destra del volto di Giovanni); nella
zona bassa color porpora, raffigurante la terra, si distingue bene, sotto una banda azzurra, la parola «CLEMENTISSIME». Elegante la cornice, che presenta un fregio geometrico variopinto. L’immagine descrive la partecipazione della Chiesa all’unico sacrificio redentore, che il sacerdote deve aver
ben presente negli occhi e nel cuore quando celebra la Messa.
Natività (p. 11). La pagina è scandita in due zone distinte, separate da una
banda dorata racchiusa da due strisce di minio (pigmento rosso/arancione,
frequentemente usato per decorare i codici antichi, da cui il termine “miniatura”). Nella parte superiore: a sinistra Maria, plasticamente accovacciata nel suo giaciglio, e a destra Giuseppe, entrambi con lo sguardo rivolto
verso il Bambino in fasce. Maria poggia la testa su un cuscino rosso ricamato ed è avvolta da un panneggio morbido, come si conviene ad una
puerpera; le mani aperte verso il Figlio esprimono stupore e gratitudine.
Giuseppe, seduto su uno sgabello con cuscino e suppedaneo, appoggia la
guancia destra sulla mano, meditando in atteggiamento perplesso e trasognato sul mistero in cui è
coinvolto. Il Bambinello è avvolto in fasce e adagiato in una greppia volutamente simile ad un
sarcofago, a significare che il Verbo ha assunto la carne umana proprio per affrontare e sconfigge102
re la morte. Il bue e l’asino si affacciano sulla mangiatoia e sembrano osservare Gesù, oltre che riscaldarlo. In cielo due angeli a mezzo busto, attorniati da numerose nuvole, adorano la scena. Sullo sfondo s’innalza un’onda piramidale di porpora, oro, verde, oro: è la montagna in cui si apre la
grotta della Natività, ma anche la linea di contatto fra il mondo terreno e il mondo celeste. La
scena inferiore riproduce l’annuncio dell’angelo a due pastori. L’angelo tiene uno scettro in una
mano mentre con l’altra benedice. I pastori, uno giovane e l’altro anziano, modestamente abbigliati, ricambiano il saluto dell’angelo con la mano alzata. Il paesaggio surreale è arricchito da
piante e animali da pascolo. Tre bande colorate (dal basso verso l’alto: porpora, verde, azzurro,
forse simbolo degli elementi terra, acqua, aria?) costituiscono lo sfondo delle due scene, e le raccordano graficamente. Una cornice a disegni geometrici policromi correda l’insieme.
La Pentecoste (p. 15). I Dodici sono disposti su due file; assente la Vergine
Maria. Al centro, in posizione di autorità e facilmente identificabile perché
conforme ai canoni iconografici consueti, è Pietro, il “principe degli apostoli” (non si dimentichi che il pellegrinaggio penitenziale dell’imperatore
Enrico IV a Canossa avvenne nel 1077 e il manoscritto è databile intorno
al 1070: sono gli anni della «lotta per le investiture»). Alla destra di Pietro
è Giovanni, il “discepolo prediletto”, giovane e senza barba; alla sua sinistra
verosimilmente Andrea, il Protòklitos o “primo chiamato” (cfr Gv 1,40-43),
secondo la definizione della Chiesa bizantina, di cui è patrono: anche in
questo caso non si dimentichi l’importanza dei rapporti tra Roma e l’Oriente all’indomani dello
scisma (1054). Più controversa l’identificazione degli altri apostoli, seduti in nobili vesti su una
panca simile ad un trono con suppedaneo gemmato. Le loro aureole compongono quasi una banda dorata orizzontale che scandisce in due la composizione. La parte superiore dell’immagine raffigura la città di Gerusalemme, con mura merlate, torri a campanile e due portali sormontati da
lanterne. Sopra la città, disegnata su sfondo verde, si innalza il cielo, animato da numerose nuvole
mosse dal vento. Al centro svetta una semisfera policroma composta da nove strati (tre volte tre, il
mistero Trinitario), dalla quale si dipartono dodici raggi terminanti con fiammelle di fuoco e la
colomba dello Spirito Santo, riccamente aureolata. La cornice è particolarmente pregevole: definita da due vivaci strisce di minio, una ghirlanda floreale color porpora è avvolta da un nastro verde
e azzurro.
La tomba vuota (p. 104). Al centro della scena domina il vuoto dell’edificio sepolcrale, rappresentato come un monumento esagonale che poggia
su colonne (se ne vedono solo tre) e con una cupola formata di sei vele
tondeggianti. Subito sotto, il sepolcro è scoperchiato e contiene ormai
solo le fasce che hanno avvolto il corpo di Cristo e il sudario per il volto,
arrotolato a parte. Sulla destra l’angelo, potentemente alato ma solidamente seduto sulla lastra (ora ribaltata) che sigillava il sepolcro, tiene lo
scettro in mano e benedice le donne che arrivano dalla sinistra. Le tre
Marie portano in mano un turibolo con catene e vasetti con aromi e unguenti profumati (nella tradizione orientale sono dette «mirofore», “portatrici del myron” o
“olio profumato”) per onorare il corpo del Signore. L’interno del monumento funebre, come
pure le pareti interne del sepolcro e della lastra tombale, sono raffigurati come se fossero di
porfido (porpora e macchioline bianche). In primo piano quattro soldati, inutilmente armati di
lance e scudi perché colti da profondo torpore, simboleggiano con i loro occhi vistosamente
chiusi la cecità del non credente dinanzi al mistero pasquale. Anche in questo caso lo sfondo è
a tre zone (stavolta porpora in alto, poi azzurro, e in basso, coperto quasi totalmente dalle figure, ocra) e una ricca cornice guarnisce l’immagine.
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