Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili - Arlian
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Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili - Arlian
Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca Etno-Antropologica XXI° Ciclo. Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili: storia, teorie, pratiche. Una ricerca etnografico-cognitiva. Coordinatore: Chiar. mo Prof. Massimo Squillacciotti Tesi di Dottorato di Cinzia Maria Braglia ANNO ACCADEMICO 2010-2011 Università degli Studi di Siena Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca Etno-Antropologica XXI° Ciclo. Cinzia Maria Braglia Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili: storia, teorie, pratiche. Una ricerca etnografico-cognitiva. Coordinatore del Dottorato e Relatore: Chiar. mo Prof. Massimo Squillacciotti ANNO ACCADEMICO 2010-2011 2 Indice Volume primo Indice _________________________________________________________ I Introduzione ___________________________________________________ 1 Capitolo primo LA NATURA CULTURALE DELLO SVILUPPO __________ 10 1 La teoria storico-culturale _________________________________________ 22 1.1 Filogenesi e storia culturale ____________________________________ 37 1.1.1 Coevoluzione di filogenesi e storia culturale___________________ 40 1.1.2 Primati e uomini_________________________________________ 57 1.1.3 Il livello storico-culturale: eterogeneità e gerarchia _____________ 66 1.2 Un approccio culturale all’ontogenesi ____________________________ 73 1.2.1 Il bambino sociale _______________________________________ 85 1.2.2 La mediazione attraverso artefatti ___________________________ 98 1.2.3 L’apprendimento come processo situato e distribuito ___________ 121 1.2.4 Contesti di insegnamento-apprendimento ____________________ 130 Capitolo secondo LA SIMBOLIZZAZIONE GRAFICA_________________ 149 2 Teoria delle rappresentazioni pittoriche e sviluppo dell’espressione grafica dalle origini all’ottavo anno di vita. _________________________________________ 153 2.1 Il disegno come movimento___________________________________ 157 2.2 Dallo scarabocchio allo schema figurativo. Disegnare e raffigurare. ___ 176 2.2.1 La prospettiva intellettuale________________________________ 201 2.2.2 La prospettiva artistica ed estetica __________________________ 218 2.2.3 Schemi figurativi e sistemi di notazione non iconici ____________ 233 2.3 Il disegno come comunicazione e narrazione _____________________ 240 3 Contesti culturali e teorie psicologiche ______________________________ 253 3.1 Nascita di un mito: l’arte infantile ______________________________ 254 3.2 La psicologia scientifica e i test psicometrici _____________________ 266 3.3 I test proiettivi “carta e matita” ________________________________ 276 3.4 Il disegno tra rappresentazione e proiezione ______________________ 281 4 Aspetti cognitivi dell’espressione grafica: fare, conoscere, comunicare_____ 285 4.1 Il disegno tra casualità e intenzionalità __________________________ 286 4.2 Il disegno come “fare” e “saper fare” (aspetti procedurali del disegno?) 298 4.3 Il disegno tra esplorazione e conoscenza_________________________ 321 4.4 Raffigurazione dell’oggetto e funzione comunicativa del disegno _____ 339 Conclusioni__________________________________________________ 356 Bibliografia __________________________________________________ 370 Volume secondo DOCUMENTI ETNOGRAFICI I II Introduzione Fra noi e “le cose come sono” c’è sempre un filtro creativo. I nostri organi di senso non usano percepire niente e riportano solo ciò che produce senso. Ciò ci rende “a un tempo creatore e creatura”. G. Bateson Il presente lavoro si propone di delineare un percorso teorico intorno al rapporto tra pensiero e immagine in una prospettiva ontogenetica che indaghi l’emergere di questa capacità finzionale, peculiare nell’uomo, all’interno dei processi di apprendimento e di crescita del bambino in un ambiente culturale ricco di artefatti che rimandano alla storia sociale del gruppo cui appartiene e ne pre-determinano lo sviluppo. Nella prospettiva teorica qui proposta la parola immagine si riferisce al suo significato più ampio di attività simbolica che realizza, con una specifica azione espressiva e con gli strumenti a sua disposizione, una “rappresentazione del mondo”. D’altro canto conoscenza e pensiero sono considerati in senso lato come attività di problem solving: si parte cioè dal presupposto che il pensiero sia funzionale, attivo e fondato su un’azione orientata ad uno scopo1. 1 «Ipotizzando una mente articolata come un incrocio tra una macchina di calcolo e un archivio di informazioni, si finisce con l’ignorare che le menti si sono evolute per fare accadere delle cose. Ci si dimentica che la reale mente è anzitutto un organo deputato al controllo del corpo biologico in un contesto pratico. Le menti producono azione, percezione e movimento» (Grasseni – Ronzon 2004, p. 12). 1 Il problem solving mette in evidenza la natura attiva del pensiero più che puntare sulla cognizione come possesso passivo di oggetti mentali, quali possono essere le nozioni o i percetti. Le persone esplorano, risolvono problemi e ricordano, più che acquisire semplicemente ricordi, percetti e abilità. Lo scopo della cognizione non è produrre pensieri ma dirigere azioni interpersonali e pratiche intelligenti (Rogoff, 1990, p. 8). Il pensiero è visto come guidato da un contenuto, con uno specifico dominio e costruttivamente connesso ad uno stimolo, che non può essere considerato indipendente dai “mondi intenzionali”, storicamente variabili e culturalmente diversi, nei quali gioca un ruolo co-costruttivo (Shweder, 1990). In questo senso ogni attività simbolica è “finzione” non nel senso di “simulazione”, “imitazione”, “copia” di un universo percettivo dato (sia esso esterno o interno), quanto piuttosto in riferimento al suo carattere di sostituto formale di un’assenza, prodotto dell’intenzionalità che crea forme specifiche che “stiano per” l’oggetto e che siano riconoscibili dopo che l’azione produttiva si sia conclusa (Borutti, 2003). La ricerca muove da un interesse prevalente per lo sviluppo e l’acquisizione delle abilità cognitive, considerate in interazione con interventi educativi diversi: la natura culturale dello sviluppo e lo stretto legame tra pratiche e cognizione. All’interno del dominio generale della cultura e dello sviluppo, sarà dedicata particolare attenzione al significato evolutivo dell’educazione, particolarmente dell’istruzione formale come importante istituzione socio-culturale2. 2 Come avremo modo di vedere più dettagliatamente di seguito, il concetto di sviluppo cui si fa riferimento in questa ricerca si basa sulle transizioni di natura qualitativa (ma anche quantitativa) che permettono al bambino di gestire in modo più efficace i problemi che via via gli si pongono, facendo affidamento sulle risorse e sui vincoli, forniti da altre persone e dalle pratiche culturali, per la definizione e soluzione dei problemi. Proprio perché il bambino, nel suo sviluppo, si appropria degli strumenti e delle abilità intellettuali della comunità culturale che lo circonda, è essenziale sia il ruolo delle interazioni informali che il ruolo delle istituzioni formali della società, come elementi fondamentali del processo dello sviluppo cognitivo. 2 Nello specifico ci occupiamo dell’emergere della capacità simbolica nelle produzioni grafiche di bambini e bambine di età compresa tra i tre e i sette anni che frequentano la scuola dell’infanzia e di come queste si configurano come “sistemi di attività” che incorporano sia aspetti produttivi che comunicativi. L’indagine si incentra sulle caratteristiche della linea e delle formazioni di linee (scarabocchi e disegni) e sulla loro evoluzione nel corso del tempo. Formazioni di linee si trovano anche in pittura, ma la maggior parte del materiale raccolto ed esaminato è rappresentata da disegni eseguiti con il pennarello o la matita su carta. Non è stato preso in considerazione l’uso del colore perché la scelta delle tonalità è spesso limitata al materiale messo a disposizione dall’adulto. Inoltre, l’aver ristretto la ricerca alle formazioni di linee, ha consentito il confronto tra grafiche prodotte da bambini di paesi diversi (italiani e tedeschi), e di documentare comparativamente la scelta operata nella costruzione delle linee. Ogni bambino, nella “scoperta” del significato simbolico del tratto grafico, segue la medesima evoluzione: dagli scarabocchi emergono dapprima forme di base, che, combinate in diverse maniere, danno vita a simboli più complessi. Attraverso l’esercizio e un lungo processo di apprendimento lo schema figurativo diventa infine codice comunicativo-narrativo: la dimensione culturale, intenzionale e simbolica è intrinsecamente sociale, intersoggettiva e situata. Nello sviluppo di questa capacità, occorre distinguere tra le pure e semplici azioni senso-motorie compiute dal bambino attraverso il mezzo espressivo durante le primissime fasi dello sviluppo e le azioni intenzionali che da esse derivano, e che sono destinate a riprodurre un oggetto o una situazione specifica che “stia per” un determinato aspetto del mondo. Quest’ultime si caratterizzano per Vorremmo sottolineare inoltre che, pur concentrandoci essenzialmente sulla prima e seconda infanzia, partiamo dal presupposto che lo sviluppo proceda per tutto l’arco della vita e che le modalità di pensiero degli individui si ri-organizzino attraverso l’acquisizione progressiva di conoscenze e abilità. 3 l’intenzione di presentare un aspetto del mondo (reale o immaginario), intenzione che produce una relazione tra simbolo e referente sempre più culturalmente connotata, laddove la formalizzazione del messaggio visivo prevede una decodifica entro un confine preciso. Forme “primitive” di produzioni non sono qualificabili come rappresentazioni: si tratta piuttosto di presentazioni, di breve durata, difficili da interpretare, che non intendono ancora creare forme che implichino una relazione con oggetti o aspetti del mondo. Il bambino piccolo impegnato a scarabocchiare può forse evocare immagini connesse con l’azione ma, in assenza di un prodotto finale riconoscibile, si tratta di associazioni prive di significato rappresentazionale. Ogni rappresentazione è dunque, almeno potenzialmente, consapevole, poiché implica il comprendere che un’azione mentale, ad esempio un pensiero, possa indurre all’intenzione di creare forme che “stiano per” l’oggetto e che siano riconoscibili e condivisibili dopo che l’azione si sia conclusa. La forma simbolica è in fondo l’elaborazione figurale-immaginativa del lutto per l’assenza dell’oggetto concreto: è rinuncia alla sua presenza effettiva, e elaborazione dell’assenza attraverso la finzione della forma (Borutti, 2003, p. 289). Essa implica un’attività che va oltre la percezione e la trasformazione attraverso le possibilità offerte dal mezzo espressivo: il simbolo, sia esso verbale, grafico o ludico, non riproduce, ma trasforma; l’attività simbolica riorganizza il “già dato”, lo dispone in prospettive nuove e se tali prospettive vengono valutate scegliendo le combinazioni utili, essa si configura come attività euristica (Bruner, 1973). La materialità dei prodotti dei bambini è significativa, in quanto ne sancisce da una parte la condivisibilità sociale e dall’altra la possibilità di ulteriori ispezioni percettive e categoriali che diventano a loro volta oggetto di conoscenza. 4 Alla base del procedere figurale c’è un lungo processo di apprendimento e di maturazione che, pur avendo premesse biologiche, dipende, per la sua realizzazione dall’ambiente culturale. Parte dei processi ontogenetici attraverso i quali l’eredità biologica si realizza avviene nel bambino mentre interagisce con il proprio ambiente. Il lungo periodo di immaturità nel quale questa interazione ha luogo, se da un punto di vista evolutivo può costituire uno svantaggio (in tale periodo il neonato si trova a dipendere completamente da chi si prende cura di lui per la sua sopravvivenza), dall’altro rende possibili percorsi ontogenetici nei quali la cognizione e l’apprendimento hanno un ruolo significativo, e che tipicamente conducono ad adattamenti comportamentali e cognitivi flessibili (Tomasello, 1999). La “nicchia ontogenetica” nella quale avviene lo sviluppo del bambino è un ambiente culturalmente determinato, che non solo configura ed esige forme determinate di adattamento, ma ne prefigura e facilita l’ulteriore sviluppo. Che gli organismi ereditino il loro ambiente non meno del loro genoma è una verità mai troppo ripetuta. I pesci sono fatti per vivere nell’acqua, le formiche sono fatte per vivere nei formicai. Gli esseri umani sono fatti per vivere in un certo ambiente sociale, e senza di esso (se anche riuscissero a sopravvivere) non si svilupperebbero normalmente sotto l’aspetto sociale e cognitivo (Tomasello, 1999, pp. 102-102). Il presente volume si articola in due parti: una dedicata alla documentazione e alla presentazione di alcune ipotesi teoriche volte ad indagare il nesso tra eredità biologica e culturale, l’altra, più ampia, dedicata allo sviluppo del disegno infantile e all’analisi delle dimensioni culturali, intenzionali e simboliche che questo tipo di produzione sottende. La ricerca si basa sull’analisi di circa un migliaio di disegni eseguiti da bambini e bambine di età compresa tra i tre e i sette anni che 5 frequentano la scuola dell’infanzia3. I disegni selezionati (raccolti nel volume a parte che accompagna la tesi), sono stati eseguiti in particolare da bambini iscritti e frequentanti la scuola dell’infanzia di Scandiano (Reggio Emilia) in un arco di tempo che va dall’anno scolastico 2005/2006 all’anno scolastico 2008/2009; e da bambini tedeschi iscritti e frequentanti il Kindertagesstätte St. ChristophorusHaus di Wolfsburg durante l’anno scolastico 2006/2007. Dal 1992 lavoro come insegnante presso la scuola dell’infanzia di Scandiano di Reggio Emilia e ho potuto raccogliere i disegni dei bambini sia come “insegnante di sezione” che come “ricercatrice” conosciuta da bambini, genitori e insegnanti; durante il dottorato di ricerca, ho avuto invece la possibilità di lavorare come insegnante madrelingua di italiano e atelierista presso la scuola dell’infanzia di Wolfsburg (gennaio - luglio 2007) e questo mi ha consentito di progettare attività specifiche che prevedessero l’uso del linguaggio grafico. I documenti etnografici sono stati raccolti in un volume a parte, in allegato, e rappresentano il lavoro di circa ottanta bambini; la quantità di disegni che è stata esaminata durante la ricerca e gli anni di insegnamento è molto superiore a quella contenuta nell’allegato, ma la raccolta è sufficiente a documentare le tesi che si intendono sostenere. Alcuni sono disegni dello stesso soggetto eseguiti da bambini diversi [fig. 1-113-118 “tartarughe”, p. 5, 73, 76 rispettivamente4; fig. 29-3855-61-73-74-99-112 “la mia famiglia”, p. 20, 26, 35, 38, 46, 47, 61, 72 rispettivamente; fig. 52-54-78-93 “la fiaba de’ I tre Porcellini”, p. 33, 3 Le grafiche raccolte in Germania comprendono anche disegni di bambini di età superiore ai sei anni e sei mesi [fig. 123, 124, 126 e 127, pp. 78-80 nel volume delle grafiche]. Al momento in cui è stata condotta la ricerca i bambini che non avevano compiuto il sesto anno di età entro il trenta giugno dell’anno scolastico in corso potevano frequentare la scuola dell’infanzia l’anno successivo, posticipando l’ingresso alla scuola primaria su richiesta dei genitori o suggerimento dell’insegnante o del pediatra. 4 I numeri di pagina per le figure che riproducono le grafiche raccolte durante la ricerca etnografica, si riferiscono all’impaginato in allegato che le raccoglie. 6 34, 49, 57 rispettivamente; fig. 56, p. 35 e 77, p. 48 “la fiaba di Cappuccetto Rosso”; fig. 58, p. 36 e fig. 64, p. 39 “il gioco dei ragni”; fig. 63, p. 39; fig. 84, p. 52 e fig. 130 p. 82 “il gioco dei canestri”; fig. 71, p. 45 “cani”; fig. 122-123-124-125-126-127 “i pensieri", p. 78, 79, 80 rispettivamente]; altri documentano l’evoluzione di un soggetto grafico nell’arco di alcuni mesi [fig. 30, p. 21; fig. 31, p. 22; fig. 46, p. 30; fig. 68, p. 43; fig. 91, p. 56; fig. 101, p. 62; fig. 103, p. 64] o di alcuni anni [fig. 94, p. 58] e sono grafiche prodotte dallo stesso bambino. Le raccolte longitudinali sono state realizzate nella scuola di Reggio Emilia, dove è prassi realizzare un raccoglitore individuale che documenti l’evoluzione delle grafiche dei bambini nel corso del triennio di frequenza a scuola, al quale mi è stato possibile attingere. Infine, alcuni disegni sono stati scelti perché ritenuti significativi al fine dell’indagine. I disegni sono stati classificati con il nome del bambino, con il numero progressivo dei disegni che venivano via via prodotti e con l’età dell’autore, espressa in anni e mesi. Questo metodo di classificazione si presta allo studio dello sviluppo individuale, studio che solo in parte è stato completato e che sarebbe interessante proseguire nel passaggio degli stessi bambini da un ordine di scuola all’altro. Le scuole dell’infanzia nelle quali è stata condotta la ricerca hanno un’utenza di bambini provenienti da ambienti diversi, sia culturali che sociali. Di conseguenza, i disegni sui quali si basa sono stati prodotti da bambini di ambienti familiari differenti. Le illustrazioni dei disegni non sono state minimamente modificate, e l’ordine con cui sono state impaginate segue quello con cui vengono trattate nel presente volume. Difficilmente avrei potuto portare a termine questo lavoro senza i preziosi consigli e soprattutto la fiducia e l’entusiasmo che Massimo Squillacciotti mi ha saputo trasmettere in ogni momento, soprattutto 7 nei momenti di incertezza e difficoltà. Ma un sincero ringraziamento va a tutti i docenti della scuola di dottorato dell’Università di Siena e ai colleghi di dottorato che direttamente o indirettamente hanno contribuito a sostenere, scientificamente e umanamente, l’attività di ricerca svolta in questi anni. Non meno importante è stato per me il confronto con i colleghi dell’Università di Modena e Reggio ed in particolare con Giuseppe Malpeli, Giorgio Ghio, Laura Cerrocchi e Antonio Gariboldi. Grazie, infine, a Marco Macchi per la perizia tecnica e la pazienza dimostrata nella preparazione grafica del secondo volume della tesi. 8 9 Capitolo primo LA NATURA CULTURALE DELLO SVILUPPO In questo capitolo verranno introdotti alcuni principi utili a descrivere la natura culturale dello sviluppo cognitivo che fanno riferimento principalmente alla prospettiva storico-culturale5. Il fondatore di questo orientamento, Lev Semenovič Vygotskij (1934) fu il primo psicologo moderno a ritenere che lo studio dello sviluppo del bambino dovesse considerare anche le influenze culturali, e a suggerire il meccanismo attraverso cui la cultura diviene una parte della natura di ogni persona. Egli compì sul piano teorico una critica alla concezione dell’uomo in chiave biologica e naturalistica, contrapponendo a queste la sua teoria dello sviluppo storico-culturale. Introdusse l’idea della storicità della natura della psiche umana6, l’idea della trasformazione dei 5 Quest’orientamento è definito in modo intercambiabile “storico-culturale”, “socioculturale” o “storico-sociale”. Un attivo movimento continua ancora oggi ad indagare e ampliare le intuizioni di inizio Novecento di Vygotskij, Lurija e Leont’ev e altri studiosi sovietici come Bakhtin e Ilyenkov. Vygotskij (1896-1934) è stato uno studioso praticamente sconosciuto in Occidente fino al 1962, quando fu pubblicata la traduzione in inglese di Pensiero e linguaggio, seguita nel 1966 da quella in Italiano. Per una biografia approfondita sull’autore e un’analisi dei suoi scritti (ivi compresi quelli meno conosciuti) si rimanda a Veggetti 1994; Mecacci 1976; 1983. 6 «Ancora molti studiosi, al giorno d’oggi, tendono a rappresentarsi sotto una luce non esatta l’idea di una psicologia storica. Essi identificano la storia con il passato, per cui studiare qualche argomento storicamente diventa studiare questo o quel fatto del passato. Da qui deriva quella concezione ingenua che vede una insormontabile separazione tra lo studio di forme storiche e lo studio di forme attuali. Invece compiere lo studio storico di un determinato argomento, significa semplicemente applicare ad esso la categoria dello sviluppo. Studiare alcunché storicamente significa studiarlo in movimento. È questa un’esigenza fondamentale del metodo dialettico. Soltanto cogliere come oggetto d’indagine il processo dello sviluppo di qualche fenomeno in tutte le sue fasi e in tutti i suoi mutamenti, dal momento del suo insorgere fino alla sua scomparsa, significa scoprire la sua natura e rivelare cosa esso è in sostanza, poiché “soltanto nel suo movimento un 10 meccanismi naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo storico-sociale e ontogenetico nella concreta sperimentazione psicologica. Una tale trasformazione era vista da Vygotskij come il risultato necessario dell’appropriazione dei prodotti della cultura umana da parte dell’uomo, nel processo della comunicazione di questo con le persone circostanti (Leont’ev, 1975). Il comportamento di un adulto contemporaneo culturalmente evoluto, se si mette da parte per qualche minuto il problema dell’ontogenesi, il problema dello sviluppo del bambino, è il risultato di due diversi processi di sviluppo psichico. Da un lato il processo dell’evoluzione biologica della specie che conducono al sorgere della specie dell’Homo sapiens; dall’altro il processo dello sviluppo storico, mediante il quale l’uomo primitivo si è evoluto culturalmente. […] Tutta la particolarità e la difficoltà del problema dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori consiste nel fatto che ambedue questi aspetti nell’ontogenesi sono fusi insieme, costituendo realmente un processo unitario, sebbene complesso. (Vygotskij, 1930-31, p. 105). Vygotskij si oppose alle teorie a lui contemporanee che affermavano che le proprietà delle funzioni intellettive del bambino nascono dalla sola maturazione e allo stesso tempo costruì una penetrante critica alla tesi che si potesse trovare una comprensione delle funzioni psichiche superiori dell’essere umano moltiplicando e rendendo più complessi i principi derivati dalla psicologia animale7. corpo mostra che cosa è”. L’indagine storica del comportamento non è, dunque, soltanto un supplemento o un sussidio all’indagine teorica, ma è anzi la base di quest’ultima» (Vygotskij, 1930-31, p. 105). 7 «Il fatto è che la maturazione di per sé è un elemento secondario nello sviluppo delle forme più complesse e “uniche” del comportamento umano. Lo sviluppo di questi comportamenti è caratterizzato da complicate trasformazioni qualitative di una forma di comportamento in un’altra. […]. Recentemente parecchi psicologi hanno proposto di abbandonare questo modello botanico. In risposta a questo tipo di critica, la psicologia moderna, nella presunzione di una maggiore scientificità, ha adottato modelli zoologici come base per un nuovo approccio generale alla comprensione dello sviluppo dei bambini. Un tempo prigioniera della botanica, la psicologia infantile è ora ipnotizzata dalla zoologia. Le osservazioni cui questi modelli più nuovi attingono vengono quasi interamente dal regno animale e si 11 Nella prospettiva storico-culturale lo sviluppo del bambino dipende in ampia misura dal contesto storico e socioculturale in cui vive e da come viene messo in grado di padroneggiare gli strumenti della propria cultura (artefatti ideali e materiali). Diversamente da Piaget, noi sosteniamo che lo sviluppo non va nel senso della socializzazione, ma nel senso della trasformazione delle relazioni sociali in funzioni psichiche. Perciò tutta la psicologia del collettivo nello sviluppo infantile si presenta in una luce affatto nuova. Ci si chiede solitamente come questo o quel bambino si comporti nella collettività. Noi ci chiediamo come la collettività instaura in questo o in quel bambino le funzioni psichiche superiori. (Ibidem, p. 202). La costruzione della conoscenza appare come un processo interattivo che è sempre situato in un contesto storico-culturale in cui il bambino, attraverso gli strumenti forniti dalla cultura e mediante la comunicazione conversazionale con i genitori e con altri partner, impara a interpretare l’esperienza e a negoziare i significati della situazione e dei compiti incontrati, in modo congruente e condiviso con il sistema di regole proprie della cultura in cui vive. Lo sviluppo costituisce un fatto culturale poiché, per sua natura, è mediato dall’utilizzo degli strumenti elaborati dall’uomo nel corso del tempo, che organizzano la mente “amplificandone” le capacità e trasformando le funzioni psichiche naturali in funzioni storiche e superiori (Vygotskij, Lurija, 1930); e poiché l’uso di tali strumenti è sempre contestualizzato in situazioni specifiche, lo sviluppo possiede una dimensione sociale. In questa concezione, ogni fenomeno culturale è storico e sociale. Fin dal primo giorno dello sviluppo del bambino le sue attività acquisiscono un loro significato in un sistema di comportamento sociale cercano risposte a problemi relativi ai bambini con esperimenti effettuati su animali» (Vygotskij, 1978, pp. 35-36). 12 e, essendo dirette verso uno scopo definito, si rifrangono attraverso il prisma dell’ambiente del bambino. Il tragitto dall’oggetto al bambino passa attraverso un’altra persona. Questa complessa struttura è il prodotto di un processo di sviluppo radicato profondamente nei legami tra storia individuale e storia sociale. (Vygotskij, 1978, p. 51). Il primato della dimensione sociale rispetto alla dimensione cognitiva emerge nella “legge generale dello sviluppo”, la quale sostiene che ogni funzione psichica superiore appare prima sul piano sociale del funzionamento interpsicologico, cioè nello scambio di significati tra individui, e solo in un secondo tempo su quello mentale del funzionamento intrapsicologico. Per noi dire che un processo è “esterno” equivale a dire che è “sociale”. Ogni funzione psichica superiore è stata esterna perché è stata sociale prima ancora che interiore e psichica, è stata cioè originariamente un rapporto sociale tra due persone. Il mezzo per esercitare un’azione su se stessi è inizialmente un mezzo per esercitare un’azione sugli altri, o un mezzo che gli altri adoperano per esercitare un’azione sulla persona singola. […]. Potremmo formulare come segue la legge genetica generale dello sviluppo culturale: ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, prima su quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima tra le persone, come categoria interpsichica, poi all’interno del bambino, come categoria intrapsichica. […]. Dietro a tutte le funzioni superiori e ai loro rapporti stanno geneticamente delle relazioni sociali, relazioni reali tra gli uomini. (Vygotskij, 1930-31, pp. 200-201). Questo è il percorso del processo di sviluppo delle funzioni psichiche superiori, al quale Vygotskij dà il nome di sviluppo storico-culturale. In base a questa dinamica, Vygotskij avanzò l’ipotesi, del tutto teorica e strumentale, che nel corso dell’ontogenesi queste funzioni si presentassero due volte: come forma di attività psichica organica- 13 naturale-spontanea e poi, verso l’età scolare, sotto forma mediatasuperiore. Occorre sottolineare, come fece lo stesso Vygotskij, che queste due forme possono essere differenziate soltanto tramite un’astrazione. Si tratta di una teoria che assegna al contesto, inteso in senso sociale e culturale, un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo e che tenta di individuare l’intreccio, nel processo di apprendimento, di natura e cultura. Noi sosteniamo questo, e tutte le nostre ricerche rafforzano questa convinzione, che proprio le diverse forme di fusione dei due processi determinano le caratteristiche del bambino. Possiamo, perciò, con E. Kretschmer, ripetere che la contrapposizione tra “natura” e “cultura” nella psicologia umana è vera soltanto in un senso molto relativo. A differenza di Kretschmer sosteniamo, però, che la differenziazione dell’una dall’altra costituisce un presupposto indispensabile per impostare giustamente una ricerca nel campo della psicologia umana. (Ibidem, p.74). In questa prospettiva gli eventi e le situazioni interpersonali svolgono una funzione di strutturazione della mente se l’individuo che vi partecipa è in grado di comprenderli come membro del gruppo di cui fa parte. Pertanto lo sviluppo cognitivo dipende non solo dal rapporto interpersonale ma anche dagli strumenti di cui una data cultura dispone. Il contesto socioculturale è, per Vygotskij, accessibile all’individuo attraverso l’interazione con altri membri della società che hanno familiarità con le abilità e gli strumenti tipici della propria cultura. Più in particolare Vygotskij sottolinea come la mente abbia modo di svilupparsi in situazioni nelle quali l’individuo meno competente – il bambino – partecipa a situazioni problematiche sotto la guida di un adulto – o di un individuo più competente – che struttura e modella per lui la soluzione del problema. Perché si dia apprendimento è 14 necessario da un lato che il compito che l’attività condivisa propone sia adeguato alle potenzialità cognitive di chi è chiamato ad apprendere e, dall’altro, che l’individuo più esperto sia in grado di modulare le difficoltà in funzione di tali potenzialità. Applicata al contesto educativo, questa teoria conduce al concetto di “zona di sviluppo prossimale”8 intesa come quell’area di funzionamento psichico che il bambino non è ancora in grado di raggiungere autonomamente ma alla quale può essere progressivamente avvicinato grazie all’interazione con adulti o coetanei più competenti, capaci di attivare e dirigere comportamenti adeguati alla situazione. La zona di sviluppo prossimale definisce quelle funzioni che non sono ancora mature ma che sono nel processo di maturazione, funzioni che matureranno domani ma sono al momento in uno stadio embrionale. Queste funzioni potrebbero essere chiamate i “boccioli” o i “fiori” dello sviluppo piuttosto che i “frutti” dello sviluppo. Il livello di sviluppo caratterizza lo sviluppo mentale retrospettivamente, mentre la zona di sviluppo prossimale caratterizza prospettivamente lo sviluppo mentale. La zona di sviluppo prossimale fornisce agli psicologi e agli educatori un mezzo attraverso il quale può essere capito il corso interiore dello sviluppo. Usando questo metodo possiamo prendere in considerazione non solo i cicli e i processi di maturazione che sono già completi ma anche quei processi che sono al momento in uno stadio di formazione, che stanno cominciando appena a maturare e a svilupparsi. […]. Lo stato dello sviluppo mentale di un bambino può essere determinato solo chiarendo i suoi due livelli: il livello di sviluppo effettivo e la zona di sviluppo prossimale. (Vygotskij, 1978, p. 128). 8 «È la distanza tra il livello effettivo di sviluppo così come è determinato dal problem-solving autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è determinato attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci» (Vygotskij 1978, p. 127). 15 Questa visione richiede un’attenzione particolare alla capacità degli adulti di organizzare gli ambienti dei bambini così da ottimizzare il loro sviluppo secondo norme culturalmente definite. Si genera così l’idea di una “zona di sviluppo prossimale” che predisponga l’ambiente esperienziale prossimo e rilevante per lo sviluppo. Nello spiegare le cause dello sviluppo Jerome Bruner (1983a, 1986) riprende il punto di vista di Vygotskij sostenendo che i processi mentali hanno un fondamento sociale e che la cognizione umana è influenzata dalla cultura attraverso i suoi simboli, artefatti e convenzioni. L’influenza della cultura si realizza grazie alle relazioni sociali che il bambino stabilisce precocemente con chi si prende cura di lui e in cui il ruolo dell’adulto viene caratterizzato secondo Bruner come scaffolding. Nel corso della prima infanzia (in particolare durante il primo anno di vita) compito fondamentale dell’adulto è quello di facilitare e promuovere il “dialogo” dei sistemi di comunicazione con il bambino. Da parte sua l’adulto è indotto ad agire come se il bambino fosse già un partner attivo nello scambio comunicativo, attribuendo ai suoi comportamenti un’intenzione e un valore di segnali che essi, di fatto, non hanno. Nelle prime interazioni l’adulto consente materialmente al bambino di dare il ritmo all’interazione, inserendosi nelle pause fra le fasi di attività di quest’ultimo. Il bambino sviluppa le proprie capacità non attraverso comportamenti per tentativi ed errori, e nemmeno attraverso la semplice imitazione, né affidandosi al proprio repertorio innato o a semplici processi maturativi, bensì all’interno di strutture di sequenze interattive che si ripetono con ritmi regolari. Bruner (1983a) introduce la nozione di format9 per esplicitare la struttura che si viene 9 «Tali format sono assai utili per la costruzione della mente culturale del bambino, poiché gli consentono di discriminare nel continuo flusso delle stimolazioni quei movimenti e quei suoni che costituiscono unità cognitive e affettive rilevanti all’interno della propria cultura. Essi inoltre riducono i gradi di variazione e d’indeterminatezza delle situazioni e contribuiscono a rendere regolari e prevedibili i contesti, effetto che, a sua volta, è alla base della regolarità e della stabilità dei significati. Parimenti questa condizione consente anche all’adulto di verificare e di 16 a creare. Un format è una struttura di interazione standardizzata, inizialmente un microcosmo tra adulto e bambino, un’interazione abituale in cui adulto e bambino “fanno” delle cose insieme. L’interazione tra adulto e bambino non svolge solo la funzione di promuovere lo sviluppo delle capacità e delle competenze del bambino in quanto soggetto psichico, ma anche quello di inserire progressivamente il bambino nella dimensione simbolica della propria cultura e di renderlo soggetto attivo nello scambio sociale con gli altri individui e gruppi della società. In questa operazione la madre non può non favorire anche lo sviluppo cognitivo, in quanto quest’ultimo è legato ad «amplificatori» delle capacità motorie, percettive e riflessive fornite dalla cultura (primo fra tutti il linguaggio). La mente non si sviluppa in modo spontaneo e senza assistenza; lo sviluppo intellettivo consiste nella capacità di usare come «protesi» della mente le conoscenze e le procedure trasmesse dalla propria cultura. Ne consegue che, secondo Bruner (1986), l’interazione tra madre e bambino costituisce il primo e più importante luogo di «acculturazione», in quanto la madre si pone inevitabilmente come figura di mediazione e anello di congiunzione fra il bambino e la cultura di riferimento. Mentre nel caso di molte abilità culturali gli adulti adottano un atteggiamento laissez faire – cosa che avviene in misura significativamente differente in culture differenti – in tutte le società umane vi sono cose che gli adulti si sentono obbligati ad aiutare i bambini ad apprendere […]. L’adulto osserva il bambino alle prese con un certo compito e cerca in vari modi di facilitare il compito o di attirare l’attenzione del bambino su certi suoi aspetti cruciali, o esegue egli stesso una parte del compito così che il bambino non sia sopraffatto da troppe variabili. In alcune valutare i progressi fatti dal bambino rispetto a specifiche abilità» (Anolli, 2006a, p. 68). 17 culture, questo modello di istruzione assume semplicemente la forma dell’adulto che chiede al bambino di mettersi seduto e di osservarlo mentre tesse un tappeto o prepara il pasto o coltiva l’orto (Greenfield e Lave 1982). Ma in tutte le società umane vi sono abilità o conoscenze che gli adulti si sentono obbligati a insegnare direttamente ai giovani, tanto appaiono loro importanti (Kruger e Tomasello 1996). Esse variano da attività fondamentali per il sostentamento alla memorizzazione degli antenati della famiglia o rituali religiosi. Il punto principale è che sia nello scaffolding sia nell’insegnamento diretto l’adulto si preoccupa dell’acquisizione di una certa abilità o una certa conoscenza da parte del bambino e, in molti casi, il suo coinvolgimento nel processo non cessa finché il bambino non apprende il materiale o non raggiunge un certo livello di competenza. (Tomasello, 1999, p. 103). Bruner (1983a, 1986) osserva e analizza in quest’ottica le interazioni precoci fra madre e figlio, nelle quali il bambino impara a padroneggiare il linguaggio attraverso episodi condivisi di azione e attenzione (ad esempio leggere un libro, indicare e nominare), che includono elementi sia verbali (parole e frasi) che non verbali (gesti, azioni, espressioni facciali). L’”impalcatura” fornita dall’adulto serve a compensare il dislivello tra le abilità richieste dalla situazione e le ancora limitate capacità del bambino, consentendo a quest’ultimo di realizzare il compito richiesto dalla situazione e facendolo al tempo stesso progredire verso livelli più avanzati di partecipazione10. 10 «E’ la madre che stabilisce gli “schemi” essenziali o i rituali secondo cui il linguaggio viene usato; e lo fa tramite la pratica della lettura di libri illustrati, mediante i modelli che segue nel fare le proprie richieste, nei piccoli giochi quotidiani e così via. In tutte queste attività essa recita la propria parte in modo sorprendente regolare. Nel corso della lettura, per esempio, articola le proprie domande secondo una sequenza regolare: 1) vocativo, 2) quesito, 3) indicazione del nome, 4) conferma. Per esempio: 1) Oh, guarda Richard!, 2) Che cos’è quello?, 3) E’ un pesciolino. 4) Bravo! Questa sequenza rappresenta un’impalcatura per l’insegnamento della referenza. All’inizio il bambino comprende ben poco le parole della madre. In seguito comincia ad abbozzare una risposta che ha l’aspetto del balbettio. Da allora, cioè dopo aver ottenuto questo risultato, la madre insisterà per avere una qualche risposta che completi lo schema. Una volta che il bambino sia arrivato a trasformare i propri balbettii di risposta in monosillabi, essa alza di nuovo il prezzo: non accetterà il balbettio, ma solo la risposta più 18 Il bambino acquisisce la conoscenza del significato degli eventi che vive mediante la partecipazione attiva a un contesto interattivo alimentato dagli scambi ripetuti con l’adulto che si prende cura di lui. Le cure parentali costituiscono un sistema di supporto indispensabile per la crescita del bambino e sono intrinsecamente indirizzate dalla cultura di riferimento: esse rimandano a precisi stili educativi che definiscono gli ambienti di apprendimento significativi per il bambino stesso. Nella prospettiva interazionista di Bruner le prime relazioni sociali costituiscono la radice dello sviluppo mentale del bambino, a condizione che l’adulto di riferimento sia in grado di svolgere la funzione di struttura di sostegno11. Ci sono molti modi in cui il comportamento degli adulti struttura e organizza l’ambiente esterno del bambino, così da facilitare i suoi processi di crescita e porre vincoli a ciò che può fare12. Dal canto suo breve. Alla fine, quando il piccolo saprà maneggiare il nome di un oggetto, la madre adotterà dei giochi in cui ciò che il bambino conosce e ciò che non conosce ancora devono essere tenuti distinti. Mentre prima la domanda “che cos’è quello?” veniva pronunciata con un tono finale ascendente, ora assume un tono discendente, come ad indicare che chi la pone sa che il bambino conosce la risposta. A questo punto il bambino pronuncerà la risposta con un inedito quanto tipico atteggiamento di timidezza. Ma ben presto la madre alza di nuovo il prezzo: “che cosa fa il pesciolino?”, e la domanda torna ad avere un tono finale ascendente in quanto tende a portare di nuovo il bambino nella zona di sviluppo prossimale, questa volta con lo scopo di padroneggiare la predicazione. La madre si mantiene sempre sul confine in continua espansione della competenza del bambino» (Bruner, 1986, pp. 95-96). 11 «Sebbene molti tipi di esperienza contribuiscano alla formazione della capacità di essere solo, ve n’è uno che è fondamentale e senza il quale tale capacità non si instaura: è l’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in presenza della madre. In tal modo la capacità di essere solo ha un fondamento paradossale, e cioè l’esperienza di essere solo in presenza di un’altra persona. Soltanto quando è solo (cioè: solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la propria vita personale» (Winnicott, cit. in, Liverta Sempio - Marchetti, 1995, pp. XV). 12 «Ovviamente, non tutti sono tagliati a fungere da “sostituto della coscienza” di altre persone. Ma l’indagine svolta da David Wood sull’insegnamento dimostra inequivocabilmente che quella di insegnare è un’abilità che si può imparare. Uno dei risultati conclusivi di un’altra ricerca – un risultato alquanto malinconico – mi ha indotto a pensare che possono anche esistere delle microculture – talvolta non più grandi della famiglia o della coppia – che contribuiscono a distruggere o distruggono senz’altro tale abilità. La psicologa inglese Barbara Tizard riferisce un’indagine da lei condotta per porre in relazione l’”intelligenza” delle domande dei bambini con la “bontà” delle risposte dei genitori. Le malinconiche conclusioni a cui perviene sono queste: quanto più è probabile che i genitori diano risposte 19 il bambino cresce e apprende in un ambiente protetto, scandito dai compiti e dalle tappe che gli adulti hanno opportunamente selezionato in base alla storia culturale del gruppo cui appartengono. Uno dei più importanti fattori di variabilità culturale che riguarda i bambini è il grado a cui a essi è consentito di partecipare alle attività degli adulti. La “segregazione” dei bambini dalla vita degli adulti è data per scontata nei contesti sociali di classe media, ma è rara in molte altre comunità. Le diverse opportunità dei bambini di imparare dalle attività quotidiane degli adulti sono strettamente connesse a molte altre differenze nei modelli culturali riguardanti la cura e l’educazione del bambino (Rogoff, 1990; Morelli, Rogoff, Angelillo, 2002). Il grado di partecipazione del bambino alle attività degli adulti, o l’esclusione, sono legati a particolari modelli culturali. [Esistono] differenze culturali nelle opportunità concesse ai bambini di imparare assistendo o partecipando alla vita della comunità sin dalla tenera età […]. Tali differenze si collegano ad altri aspetti della vita del bambino, per esempio il ruolo della scuola e dell’istruzione formale, le abilità cognitive promosse dal contesto, le motivazioni e gli interessi del bambino, la comunicazione tra genitori e bambino, e i rapporti tra coetanei. (Rogoff, 2003, p. 134). Kenneth Kaye caratterizzare (1982) la propone condizione del l’idea di bambino apprendistato che si per introduce gradualmente ai contenuti della propria cultura partecipando ad attività congiunte con l’adulto. In questo caso il rapporto tra adulto e bambino viene assimilato al rapporto apprendista-maestro: appena introdotto in una certa attività, il bambino è come il “novizio”, e intelligenti, tanto più è probabile che i bambini pongano domande interessanti. D’altro canto, però, stante la natura di queste correlazioni, l’esito della ricerca può essere formulato alla rovescia: quanto più è probabile che i bambini pongano domande interessanti, tanto più è probabile che i genitori diano risposte intelligenti. L’esito di questa indagine implica che il fenomeno del “prestito di coscienza” alla persona meno capace da parte della persona più capace, pur essendo concretamente rilevabile, scaturisce però sicuramente non da un puro e semplice atto di volontà, ma da una transazione “negoziabile”» (Bruner, 1986, pp. 94-95). 20 diventa in seguito sempre più “esperto” e autonomo nel padroneggiare quell’attività mentre l’adulto diminuisce parallelamente la propria assistenza e supervisione. In questo processo, ciò che una generazione trasmette alla successiva non è un corpus di progetti e disegni, o di informazioni in senso stretto, ma degli specifici contesti di sviluppo in cui gli apprendisti, attraverso la pratica e l’addestramento, acquisiscono e affinano le proprie capacità di azione e di percezione. È questo ciò che Gibson (1979) chiama “educazione dell’attenzione”. (Ingold, 2001, p.151). Un’analisi integrata più recente della natura storica e culturale dello sviluppo proviene da un approccio interdisciplinare che comprende antropologia, psicologia, storia, sociolinguistica, pedagogia, sociologia, neurologia e altri campi. Esso si basa su tradizioni di ricerca che vanno dall’osservazione partecipante delle attività quotidiane in una prospettiva antropologica, alle ricerche psicologiche in contesti naturali e in laboratorio, alle analisi storiche di resoconti e documenti. La convergenza tra queste diverse tradizioni teoriche e di ricerca al confine tra antropologia e psicologia, sta promuovendo un nuovo modo di studiare gli aspetti culturali dello sviluppo umano e ha condotto ad una significativa ridefinizione del concetto stesso di apprendimento come esperienza mediata da un lato e processo situato e distribuito dall’altro, fortemente dipendente dal contesto e interpretato come processo sociale di co-partecipazione piuttosto che acquisizione individuale di contenuti proposizionali o rappresentazionali. Lo sviluppo, contestualizzato all’interno di aspettative sociali e culturali, si configura come un processo in cui gli individui partecipano alle attività socioculturali della loro comunità, che può essere compreso solo alla luce delle pratiche culturali e delle condizioni di tali comunità, anch’esse in continua evoluzione (Rogoff, 2003). 21 Comuni denominatori di queste teorie sono sia il riferimento ad un paradigma epistemologico di tipo costruttivista per il quale “conoscere” non è “rappresentarsi” un mondo “dato” quanto piuttosto “costruirlo” (e si costruisce nella misura in cui si è coinvolti) o “abitarlo”; sia l’enfasi posta sull’agire in quanto fondamento dell’”essere-nel-mondo” degli organismi viventi, aspetto quest’ultimo che trova ampio sostegno nell’attuale dibattito neuroscientifico sull’aspetto incorporato e ambientale di mente, pensiero e cognizione. 1 La teoria storico-culturale La concezione dello psicologo russo Lev Semenovič Vygotskij è stata definita dallo stesso autore una teoria “storico-culturale” dello sviluppo psichico. Le esposizioni che ne sono state compiute sia in Russia (Leont’ev, Lurija, 1959; Leont’ev 1990) che in altri paesi (Cole et al., 1978; Mecacci, 1976; Veggetti, 1974, 1986, 1994; Wertsch, 1985a, 1985b) concordano generalmente nella presentazione dei temi che la riguardano: i rapporti tra sviluppo mentale e apprendimento, la mediazione semiotica nella sociogenesi dei processi cognitivi (le funzioni psichiche superiori), i rapporti tra pensiero e linguaggio, il processo di formazione dei concetti. Al bambino “eterno” di matrice piagetiana che attraversa tappe universalmente scandite dal corso dello sviluppo e che solo in un secondo tempo è influenzato dalla “cultura”, Vygotskij sostituisce il bambino “storico”13 il cui sviluppo nell’ontogenesi si intreccia con altri 13 «Questa antistoricità ha colpito anche quegli studiosi contemporanei che si sono proposti di uscire dal vicolo cieco della psicologia empirica con una teoria strutturale dello sviluppo psichico o con una considerazione genetico-funzionale dei problemi della psicologia della cultura. Questi studiosi sanno, è vero, che le leggi psicologiche da loro scoperte con il metodo genetico sono valide solo per un particolare “tipo” di bambino, per il bambino della nostra epoca. A questo punto 22 tre livelli evolutivi: lo sviluppo filogenetico, rappresentato dai lenti cambiamenti genetici che caratterizzano la storia evolutiva della specie umana; lo sviluppo storico-culturale che produce strumenti materiali e simbolici, sistemi di valori, precetti, norme e documenti; lo sviluppo microgenetico, che si riferisce all’apprendimento continuo degli individui in un dato contesto, in base alla loro eredità genetica e storico-culturale14. Questi livelli evolutivi sono inscindibili: i comportamenti degli individui generano pratiche culturali che a loro volta organizzano lo sviluppo degli individui stessi; in modo simile, lo sviluppo biologico interagisce con le pratiche e istituzioni culturali; lo sviluppo ontogenetico è parte della storia culturale e filogenetica, e così via. Per studiare tale processo è necessaria, secondo Vygotskij, una metodologia storico-culturale15. sembrerebbe quasi che si stesse a un passo dal riconoscere il carattere storico di queste leggi, ma ecco che gli studiosi stessi regrediscono a una considerazione puramente zoologica, sostenendo che le leggi che regolano lo sviluppo del linguaggio nella prima infanzia, sono le stesse che presiedono, nel comportamento dello scimpanzé, all’acquisizione della capacità di adoperare degli strumenti e sono cioè leggi biologiche, nessuna concessione facendo alla specificità delle forme superiori del comportamento umano. Il concetto di struttura viene esteso a tutte indifferentemente le forme del comportamento e della vita psichica. Così, nuovamente, alla luce, o meglio nelle tenebre, della struttura, “tutti i gatti sono bigi”: con la sola differenza che un’eterna legge della natura, la legge dell’associazione, è stata sostituita da un’altra legge, pure eterna, della natura, quella della struttura. Anche qui non ci sono concetti adeguati per esprimere l’aspetto culturale, storico del comportamento umano. Il concetto di struttura si fa lentamente strada nella fisiologia dell’attività nervosa, poi ancora più profondamente nella fisica, e così ciò che è stato storico (ogni fenomeno culturale è per sua natura storico) si confonde ancora una volta con ciò che è naturale, ciò che è culturale con ciò che è istintivo» (Vygotskij, 1930-31, p. 53). 14 Per un’analisi comparativa del modello epistemico piagetiano e della concezione storico-culturale vygotskijana cfr. Bruner, 1997. 15 Il “problema del metodo in psicologia” è un tema molto caro a Vygotskij e si trova in quasi tutti i suoi scritti (cfr. in particolare Vygotskij, 1930-31 e Vygotskij - Lurija 1930, in cui è contenuto il tentativo di servirsi del «metodo storico» per l’impostazione dei più importanti problemi della psicologia genetica). D’altronde, la rifondazione della psicologia in chiave marxista è un tema estremamente contemporaneo a Vygotskij che lavora negli anni della Rivoluzione Bolscevica. In questo periodo si consumano accesi dibattiti in una duplice direzione: da una parte una forte critica alla psicologia del tempo a partire da concezioni marxiste (che si traduceva in letture critiche di autori contemporanei quali Freud, Stern, Piaget, Adler e della psicologia della Gestalt); dall’altra la definizione dell’oggetto stesso 23 Da tutte queste premesse deriva che lo sviluppo umano implica una partecipazione degli individui a comunità culturali, e può essere compreso solo alla luce delle pratiche culturali e delle condizioni di tali comunità, che sono anch’esse in continua evoluzione. (Rogoff, 2003, p.1). La cognizione d’altronde non può che essere “cognizione culturale” che si presenta come sintesi dell’evoluzione filogenetica, della traiettoria storica e del percorso ontogenetico del soggetto: attribuire la giusta importanza a questi processi permette di dare conto non solo dei tratti universali della cognizione peculiari dell’uomo – come la creazione e l’uso di artefatti materiali, simbolici e istituzionali, con le della psicologia marxista. Vygotskij trovò nel metodo storico-culturale (o dialettico) la chiave di volta per la fondazione di una nuova psicologia che si tradusse, sul piano teorico, in una critica della concezione dell’uomo in chiave biologica e naturalistica (voluta dalla riflessologia e dal comportamentismo), cui contrapponeva la sua teoria dello sviluppo storico-culturale. La nuova metodologia avrebbe dovuto contemplare da una parte lo sviluppo psicologico generale (una dimensione storico-naturale-oggettiva della psiche), dall’altra chiarire in che rapporti stesse la filogenesi umana con il contesto evoluzionistico della specie, e descrivere in che momento e in che modo avvenisse lo sviluppo specificamente umano. Le ipotesi che Vygotskij poneva alla base delle sue indagini sperimentali erano fondamentalmente due: la natura mediata delle funzioni psichiche superiori e la genesi dei processi mentali interni da un’attività originariamente esterna, dove, come vedremo, “esterno” è sinonimo di “sociale”. «Vygotskij vedeva nei metodi e nei principi del materialismo dialettico una soluzione all’interpretazione dei paradossi scientifici che i suoi contemporanei si trovavano a dover affrontare. Un dogma fondamentale di questo metodo è che tutti i fenomeni devono essere studiati come processi in movimento e in trasformazione. Per quanto riguarda l’argomento della psicologia, il compito degli scienziati è di ricostruire l’origine e il corso dello sviluppo del comportamento e della coscienza. Ogni fenomeno non solo ha una storia, ma questa storia è caratterizzata da trasformazioni sia qualitative (cambiamenti nella forma, nella struttura e nelle caratteristiche fondamentali) sia quantitative. Vygotskij adoperò questo tipo di ragionamento per spiegare la trasformazione di processi psichici elementari in processi psichici complessi. Lo scisma tra gli studi secondo la storia naturale dei processi elementari e la riflessione speculativa sulle forme di comportamento culturale potrebbe essere risolto tracciando le trasformazioni qualitative del comportamento che avvengono nel corso dello sviluppo. Quindi, quando Vygotskij definisce il suo punto di vista “inerente allo sviluppo” ciò non va confuso con una teoria dello sviluppo infantile. Il metodo dello sviluppo, secondo Vygotskij, è il metodo centrale della scienza psicologica» (Cole - Scribner 1978, p. 19). 24 loro storie cumulative – ma anche delle peculiarità di particolari culture, ciascuna delle quali nel corso delle ultime decine di migliaia di anni della storia umana ha sviluppato autonomamente, attraverso questi stessi processi storici e ontogenetici, una varietà di abilità e di prodotti cognitivi culturalmente unici. (Tomasello, 1999, p.30). La tesi centrale della teoria storico-culturale è che la struttura e lo sviluppo dei processi psicologici umani (le funzioni psichiche superiori) emergono dall’attività pratica, mediata culturalmente e suscettibile di sviluppo storico. Nello sviluppo del bambino sono rappresentati (ma non si tratta di una ripetizione) ambedue i tipi di sviluppo psichico che troviamo, separati, nella filogenesi: sviluppo biologico e sviluppo storico, ossia uno sviluppo naturale e culturale del comportamento16 e questo renderebbe complesso il problema dello studio dello sviluppo del bambino in quanto il sistema di attività organiche, proprie di una dimensione biologica, e il sistema di attività strumentali, proprie dello sviluppo storico, non si avvicendano, ma sono contemporanei. Lo sviluppo culturale non crea nulla rispetto a quanto già predisposto dalla crescita e dalla maturazione ma modifica profondamente le abilità naturali, subordinandole ai fini specifici dell’uomo. 16 Vygotskij, 1930-31, p. 69. Va inoltre sottolineato che Vygotskij non intende affatto sostenere la legge della ricapitolazione biogenetica: «con questo non intendiamo dire che l’ontogenesi ripeta o riproduca in qualche sua forma o grado la filogenesi, o che le sia parallela; stiamo invece esponendo un pensiero molto diverso. […]. Nell’esporre i nostri esperimenti ci volgeremo spesso, per fini euristici, ai dati della filogenesi, nei casi in cui avremo bisogno di una chiara definizione del concetto di sviluppo culturale del comportamento. […]. Parlando dell’analogia tra le due linee dello sviluppo infantile con le due linee della filogenesi, non intendiamo estendere questa analogia alla struttura e al contenuto di questo e quel processo, ma la limitiamo ad un solo momento: la presenza nella filogenesi e nell’ontogenesi di due linee di sviluppo» (ibidem). 25 L’acquisizione dei valori della civiltà da parte di un bambino normale, avviene di solito in maniera inscindibile dai processi della crescita e della maturazione organica. I due piani dello sviluppo, naturale e culturale coincidono e si fondano insieme. Le due serie di mutamenti confluiscono l’una nell’altra e costituiscono sostanzialmente quell’unico processo complesso che è la formazione biologico-sociale del bambino. Lo sviluppo culturale assume un carattere affatto particolare, che non ha paragoni possibili con altri fenomeni, poiché si compie contemporaneamente alla crescita organica e inseparabilmente da questa, e perché il soggetto è costituito dall’organismo infantile in evoluzione, sottoposto ai mutamenti della crescita. (Vygotskij, 1930-31, p.70). In base a questa prima definizione dello sviluppo infantile, Vygotskij, insieme a Alexander R. Lurija e Alexej N. Leont’ev, prepara un programma di ricerche empiriche che avrebbero dovuto trovare evidenza della funzione determinante degli strumenti di mediazione su tutti gli aspetti del comportamento o, come egli stesso si esprimeva quando si riferiva agli aspetti specificamente culturali del comportamento, sugli aspetti dell’attività (Veggetti, 1994). La teoria genetica dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori trova un’ampia trattazione in due scritti: La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento, preparato in collaborazione con Lurija17 la cui prima pubblicazione risale al 1930 e Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori che risale agli anni 1930-1931. Nel volume scritto con Lurija, Vygotskij parla di «comportamento» e non ancora di funzioni psichiche superiori. Il metodo utilizzato dagli autori per presentare i fondamenti della psicologia storico-culturale consiste in una comparazione tra la specificità di ognuna delle tre 17 Lurija si occupa in particolare della stesura del terzo capitolo Il bambino e il suo comportamento, mentre Vygotskij scrive i primi due capitoli: Il comportamento della scimmia antropoide e L’uomo primitivo e il suo comportamento. 26 tendenze dello sviluppo del comportamento: della scimmia antropoide, dell’uomo «primitivo» e del bambino. Lo schema dei nostri saggi può essere così rappresentato: l’utilizzazione e l’invenzione degli strumenti nelle scimmie antropoidi rappresenta il completamento dello sviluppo organico del comportamento nella serie evolutiva e prepara la trasposizione di tutto lo sviluppo su nuovi criteri, creando il principale presupposto psicologico dello sviluppo storico del comportamento; il lavoro e lo sviluppo, ad esso collegato, del linguaggio umano e di altri segni psicologici, mediante il quale l’uomo primitivo cerca di dominare il comportamento, indicano l’inizio dello sviluppo del comportamento culturale o storico nel vero senso della parola; infine nello sviluppo infantile, accanto ai processi della crescita organica e della maturazione, emerge chiaramente una seconda linea di sviluppo e cioè la crescita culturale del comportamento, basata sull’assimilazione di procedimenti e metodi di comportamento culturale e di pensiero. (Vygotskij – Lurija, 1930-31, p. 4). Secondo gli autori questi tre momenti sono sintomi di nuove epoche nell’evoluzione del comportamento e indizi di cambiamento del tipo stesso di sviluppo. Abbiamo dunque sempre preso in considerazione le tappe cruciali e critiche nello sviluppo del comportamento. Un tale momento critico e cruciale riteniamo coincida nel comportamento della scimmia con l’uso degli strumenti, nel comportamento dell’uomo primitivo con il lavoro e l’uso dei segni psicologici e nel comportamento del bambino con lo sdoppiamento della linea del suo sviluppo in sviluppo psicologiconaturale e psicologico-culturale. […]. Abbiamo cercato in primo luogo di evidenziare la profonda specificità di ognuna delle tre tendenze dello sviluppo del comportamento, la diversità del metodo e del tipo di sviluppo. Ci hanno soprattutto interessato i caratteri differenziali e non quelli similari di questi processi. Contrariamente alla teoria del parallelismo, noi siamo partiti dal presupposto che lo studio delle principali caratteristiche distintive di ogni 27 processo di sviluppo, caratteristiche che lo distinguono dal comune concetto dell’evoluzione, può portare direttamente a chiarire il tipo e le regolarità specifiche di ognuno dei tre processi esaminati. (Ibidem, pp. 45). Per Vygotskij fra gli animali e l’uomo ci sarebbe un salto qualitativo caratterizzato dallo sviluppo di processi psichici superiori dipendenti dal contesto storico-sociale; i processi psichici superiori pur conservando la stessa natura biologica di quelli inferiori, rappresentano una nuova organizzazione funzionale di quest’ultimi, generatasi sotto l’influsso dei fattori sociali e culturali. Sia le funzioni psichiche inferiori che quelle superiori sono “processi materiali” che si svolgono a livello neurologico18, con la differenza che i processi psichici superiori si sviluppano in relazione all’ambiente sociale e culturale. Nessuno ha mai trovato, osservando la vita degli animali, strumenti o metodi tradizionali diversi nelle diverse popolazioni e che indicassero una trasmissione di scoperte, una volta fatte, da una generazione all’altra, alcuna presenza di segni su pietre arenarie o creta che potessero essere presi per un disegno che rappresentasse qualche cosa o perfino un ornamento scarabocchiato per gioco, alcunché che indichi un linguaggio, cioè suoni equivalenti a nomi. […]. Ma non bisogna dimenticare che le differenze quantitative si trasformano in quelle qualitative. Ciò che esiste come embrione in una specie può diventare un tratto distintivo in un’altra specie di animali. L’elefante stacca i rami per scacciare le mosche. Ciò è interessante e istruttivo. Ma 18 A ogni livello dello sviluppo del comportamento, afferma Vygotskij riportando le teorie di Ludwig Edinger, si accompagna una crescita delle strutture celebrali. Scrive inoltre citando Bühler: «nelle scimmie antropoidi e ancor più nell’uomo, avviene un nuovo aumento del peso relativo del cervello, che spetta alla corteccia celebrale. Nuovi campi con innumerevoli intrecci di fibre si intersecano con quelli vecchi sulla corteccia del cervello. Nell’uomo questo riguarda prima di tutto i più importanti centri della parola» (ibidem, p. 49). Affermando che i processi cognitivi (le funzioni psichiche superiori) sono un prodotto dell’attività celebrale, Vygotskij divenne uno dei primi sostenitori delle possibili convergenze tra psicologia cognitiva, neurologia e fisiologia (Cole, 1978). 28 nella storia dello sviluppo della specie “elefante” l’uso dei rami nella lotta contro le mosche forse non ha avuto nessun ruolo essenziale. Gli elefanti non sono diventati elefanti perché i loro antenati di tipo più o meno elefantico agitavano i rami. Un’altra cosa è l’uomo. Tutta l’esistenza dell’aborigeno australiano dipende dal suo boomerang, come tutta l’esistenza dell’Inghilterra moderna dipende dalle sue macchine. Togliete all’australiano il suo boomerang, fategli lavorare la terra ed egli, per necessità, cambierà tutto il suo modo di vita, tutte le sue abitudini, tutto il suo modo di pensare, tutta la sua natura. (Ibidem, pp. 53-54). Nel corso dello sviluppo storico dell’umanità – afferma Vygotskij, riprendendo le teorie di Marx – non sono soltanto cambiati i rapporti tra l’umanità e la natura, ma è cambiata la natura stessa dell’uomo: «questa modificazione della natura da parte dell’uomo è alla base di tutta la storia umana» (Vygotskij, 1930-31, p.123). Di questo sviluppo storico dell’uomo si sa molto poco in quanto si dispone di scarso materiale. Il grande e differenziato mondo degli animali, bloccatosi ai diversi livelli dell’”origine delle specie”, offre quasi un panorama vivente dell’evoluzione biologica e permette di aggiungere ai dati dell’anatomia e della fisiologia comparata i dati della psicologia comparata. Lo sviluppo del bambino è un processo che si compie ripetutamente davanti ai nostri occhi. Esso ammette i più diversi metodi di studio. Il processo di modificazione storica della psicologia umana invece è posto in condizioni assai peggiori di studio. Le scomparse epoche storiche hanno solo lasciato documenti e tracce riguardo al passato. Secondo questi documenti e tracce può essere ristabilita più facilmente la storia esterna della specie umana. Non è rimasto, però, nessun elemento completo e oggettivo dei meccanismi psicologici di comportamento. Perciò la psicologia storica dispone di assai meno materiale. 29 Per questo una delle sue fonti più ricche è lo studio dei cosiddetti popoli primitivi. Alcuni popoli del mondo non civilizzato che si trovano a livelli più bassi dello sviluppo culturale, di solito chiamati, anche se in verità in senso convenzionale, primitivi. Questi popoli non possono essere a pieno diritto chiamati primitivi, poiché in loro, decisamente in tutti, esiste un grado minore o maggiore di civilizzazione. Tutti sono già usciti dal periodo preistorico di esistenza dell’uomo. Molti hanno delle tradizioni antichissime. Alcuni hanno esperito l’influenza di lontane e potenti culture. Oggi in nessun luogo esiste l’uomo primitivo nel senso vero e proprio della parola. (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 64-65). In sostanza, avverte Vygotskij, l’uomo così detto «primitivo» è già un soggetto di sviluppo storico, affermazione che egli pone con chiarezza fin dall’inizio, differenziando in tal modo le sue concezioni da quelle della psicologia comparata a lui contemporanea, che affermava l’inferiorità del tipo biogenetico del «primitivo». Dopo avere riportato ricerche di etnografi ed etnologi a lui contemporanei quali Taylor, Spencer, Lévy-Bruhl, Thurnwald conclude: se proviamo a sommare i risultati di queste ricerche sulle differenze fisiologiche del primitivo, si può arrivare a concludere che la ricerca scientifica non dispone attualmente di un materiale in qualche modo positivo, atto ad indicare un particolare tipo biologico al quale sarebbe opportuno ascrivere, come causa principale, l’origine di tutta la specificità del comportamento dell’uomo primitivo. Al contrario, le differenze accertate dagli studiosi, da una parte, risultano assai insignificanti, mentre dall’altra sono profondamente dipendenti dall’esercizio e risultano quindi profondamente dipendenti dallo sviluppo culturale. (Ibidem, p. 75). In sostanza tra le operazioni intellettive del «primitivo» e quelle dell’uomo «civile» ci sarebbe una continuità dovuta all’uso di segni per controllare i processi psichici naturali, viceversa l’adattamento e il 30 dominio dei processi naturali è ciò che manca al bambino rispetto al primitivo. Il bambino nasce in un ambiente produttivo-culturale già pronto e in questo consiste la sua differenza decisiva e radicale dal primitivo. Ma il fatto è che egli nasce separato da esso e che non vi si inserisce subito. Questo inserimento nelle condizioni civili non equivale affatto al semplice atto di indossare un vestito nuovo: esso è accompagnato da profonde trasformazioni nel comportamento, dalla formazione di nuovi suoi meccanismi, fondamentali e specifici. Per questo è del tutto naturale che in ogni bambino ci deve essere il periodo primitivo preculturale; questo periodo dura un certo tempo ed è caratterizzato dalle sue particolarità nella struttura della vita psichica del bambino, da tratti originali primitivi nell’assimilazione del pensiero. Inserendosi nel suo ambiente, il bambino inizia subito a mutarsi e a cambiare: ciò avviene molto presto, perché la situazione socio-culturale già pronta crea in lui quelle necessarie forme di adattamento che da tempo erano state create dagli adulti che lo circondano. Tutto il comportamento del bambino si riordina; in esso si produce l’abitudine di frenare il diretto soddisfacimento delle sue necessità e inclinazioni, di trattenere le risposte dirette agli stimoli esterni in modo da impadronirsi di una data situazione meglio e più facilmente, per vie traverse, elaborando procedimenti culturali adeguati. (Ibidem, p. 168). Il comportamento del bambino in varie età, presenta significative differenze qualitative che affondano le proprie radici non solo nelle modificazioni fisiologiche, ma anche nella diversa capacità di utilizzare le forme culturali. In breve possiamo dire che il bambino attraversa determinati stadi di sviluppo culturale, ognuno dei quali è caratterizzato da un diverso rapporto del bambino con il mondo esterno, da un diverso tipo di utilizzazione degli oggetti e da diverse forme di invenzione e di uso di determinati procedimenti culturali, sia esso un qualche sistema 31 elaborato nel processo di sviluppo della cultura, o un procedimento, inventato durante la crescita e l’adattamento della personalità. (Ibidem, p. 126). Lo sviluppo del comportamento del bambino è visto come caratterizzato da quattro stadi19. Il primo è quello prettamente organico: nella fase neonatale il bambino è alle prese con sensazioni organiche limitate al suo corpo e determinate dai principali istinti, in quanto manca di qualsiasi strumento nell’adattamento alla realtà20. In un secondo stadio il bambino dispiega una serie di processi psichici che sono inizialmente «naturali»; si tratta di uno stadio transitorio, che corrisponde al primo anno di vita circa, in cui il bambino sta preparando i suoi strumenti per entrare nella dimensione dello sviluppo culturale che gli si presenta nel terzo stadio. [Questo] è caratterizzato dalla genesi, nel comportamento del bambino, di processi mediati che ristrutturano il comportamento con l’utilizzazione di segni-stimolo. Questi metodi di comportamento, acquisiti nel processo 19 Ognuno di questi stadi sarà ripreso nello scritto Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori (cui si rimanda) per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio, dell’attenzione volontaria e della memoria nel bambino; per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio in particolare cfr. Vygotskij, 1934. 20 «L’adulto non solo è legato all’ambiente circostante da mille legami più intimi, egli stesso è il suo prodotto, la sua sostanza è nella sostanza dell’ambiente circostante. La situazione è del tutto diversa per il neonato. […]. E’ vero che il mondo è per lui pieno di rumori e macchie, ma i suoi organi di senso ancora non gli servono: egli ancora non percepisce singole impressioni, non riconosce gli oggetti, non distingue nulla in questo caos generale; il mondo delle cose note e percepite non esiste per lui, ed egli vive in mezzo ad esso come un eremita. […]. Nell’adulto un enorme e determinante ruolo è svolto da quelle funzioni di comportamento che lo collegano all’ambiente e che sono il prodotto di questa azione sociale e culturale, cioè le sue percezioni, la sua pratica, il suo intelletto; nel bambino questo posto dominante è occupato da sensazioni organiche, limitate al suo corpo (costanti eccitazioni interne – inclinazioni primitive, l’eccitazione della mucosa della bocca, ecc.); ciò che è più importante nel comportamento dell’adulto, è assente nel bambino; per lui nella fase primitiva di sviluppo vi sono altri valori, altre proporzioni, altre leggi; il bambino piccolo si differenzia dall’adulto, in un certo senso, non meno che la crisalide dalla farfalla» (Vygotskij - Lurija, 1930, pp. 134-135). 32 dell’esperienza culturale, trasformano le principali funzioni psicologiche del bambino, le equipaggiano con nuovi strumenti, le sviluppano. (Ibidem, p. 174). Sul piano delle funzioni psichiche, il bambino inizia ad usare alcuni strumenti per potenziare la propria memoria, per esempio, inizia ad essere in grado di utilizzare delle figurine per ricordare delle liste di parole. Adopera tuttavia strumenti esterni, che trova perlopiù già pronti nel contesto in cui si svolge la sua esperienza e questo è un tratto caratterizzante che differenzia il comportamento del bambino dal «primitivo» che, invece, crea da solo i propri strumenti di adattamento attivo alla natura21. Questo stadio viene definito come quello del comportamento secondo un metodo culturale esterno. Il quarto stadio dello sviluppo del comportamento è caratterizzato dall’uso di strumenti astratti, i segni (come le parole e i diversi sistemi semiotici), con valore strumentale per dominare le funzioni psichiche. Ciò che egli faceva prima con l’aiuto di segni esteriori, comincia ora a farlo con l’aiuto di procedimenti interiori che sostituiscono interamente quei segni esteriori sui quali egli ha imparato. Il bambino che ricordava prima con i cartoncini, ora comincia a memorizzare mediante un sistema interiore, pianificando e collegando il materiale alla sua esperienza precedente in modo che le immagini interiori, nascoste all’occhio estraneo e rimaste costantemente nella memoria, hanno ora un ruolo 21 «Più sopra abbiamo fatto notare che l’uomo primitivo, al quale occorre ricordare il numero dei capi di bestiame o delle misure di grano, invece di ricordare questo in modo diretto, praticava delle tacche e, marcando con esse il quantitativo necessario, raggiungeva due scopi in una volta: usando un metodo primitivo egli, con maggior forza che col metodo naturale, ricordava il materiale a lui necessario e nel contempo alleggeriva la propria naturale memoria del carico superfluo. Possiamo dire che anche il bambino percorre un cammino simile, con la sola differenza che l’uomo primitivo inventava i suoi sistemi di memorizzazione da solo, mentre il bambino in fase di sviluppo il più delle volte riceve sistemi già pronti, che lo aiutano a ricordare e non fa altro che inserirsi in essi, impara ad usarli, ad assimilarli e, per il loro tramite, a trasformare i sui processi naturali» (Vygotskij Lurija, 1930, p. 177). 33 funzionalmente ausiliario, servono da anello di congiunzione per il ricordo. (Ibidem, p. 223). Utilizzando dati di ricerca empirica, l’esposizione dimostra come la struttura delle funzioni psichiche si modifichi attraverso la mediazione interna: l’attenzione diventa volontaria e ciò permette al bambino di riprodurre certi contenuti appresi nel momento in cui vuole riprodurli. In questo passaggio il linguaggio verbale acquista un ruolo dominante; la memoria perde la caratteristica eidetica (e cioè il suo fondarsi su immagini concrete e vivide) e diventa logico-verbale. Il linguaggio acquista un ruolo dominante, diventa il procedimento culturale più usato, arricchisce e stimola il pensiero, e la psiche del bambino si riadegua, acquista una nuova struttura. I meccanismi verbali, che prima si esprimevano chiaramente nel periodo del linguaggio attivo, in questo periodo di accumulazione iniziale si trasformano in un linguaggio interiore silente, che diventa uno dei principali strumenti ausiliari del pensiero. In effetti, quanti complessi e precisi compiti intellettuali sarebbero rimasti insoluti se noi non possedessimo il linguaggio interiore, grazie al quale il pensiero può assumere forme precise e chiare, grazie al quale diventano possibili prove verbali (o meglio intellettuali) preliminari di singole soluzioni e la loro pianificazione. […]. Trasferendosi dall’esterno all’interno, il linguaggio forma un’importantissima funzione psicologica, che rappresenta in noi l’ambiente esterno, stimola il pensiero, e, come pensano alcuni autori, pone le basi per lo sviluppo della coscienza. Quelle primitive forme dell’attività verbale del bambino, i periodi della chiacchiera infantile del “monologo collettivo”, tutto ciò è la preparazione a quegli stadi di sviluppo in cui il linguaggio diventa un importantissimo meccanismo di pensiero; solo in quest’ultimo periodo il linguaggio da un procedimento formato dall’esterno si trasforma in processo interiore e il 34 pensiero dell’uomo acquista nuove ed enormi prospettive di ulteriore sviluppo22. Il lavoro in esame si chiude con due paragrafi dedicati alla descrizione del comportamento del bambino «normale» e con deficit o handicap. Secondo gli autori, ritardo mentale e handicap priverebbero il bambino non tanto delle funzioni psichiche “naturali”, ma proprio dei procedimenti culturali per potenziarle. Ciò spiegherebbe ad esempio la contraddizione per cui si osserva, a volte, in bambini ritardati una memoria formidabile. La differenza tra il bambino ritardato e quello normale spesso si dimostra non nelle particolarità naturali dell’uno e dell’altro, ma nella diversa utilizzazione delle doti naturali, dipendenti evidentemente dalla diversa formazione culturale del bambino. Nei deboli e negli imbecilli ciò è ostacolato dai difetti oggettivi nello sviluppo del cervello, nello scolaro ritardato da un’insufficiente influenza dell’ambiente culturale. Ma se nei primi spesso non vediamo una grande influenza dell’educazione, se essa si scontra con gravissime difficoltà costituzionali, per quanto riguarda i bambini ritardati della scuola normale, restiamo pieni di sano ottimismo: inculcando nel bambino determinati procedimenti culturali di comportamento, possiamo lottare con successo contro il ritardo infantile non come fatto biologico, ma come fenomeno di insufficiente sviluppo culturale. […]. Tutti questi fatti ci obbligano naturalmente a rivalutare alquanto il nostro atteggiamento verso le capacità naturali e acquisite e a porre la questione della capacità culturale, come uno dei problemi più importanti della psicologia moderna23. 22 Ibidem, pp. 214-215. Con queste affermazioni risultano delineate, in questo lavoro, alcune delle concezioni di Vygotskij sui rapporti tra pensiero e linguaggio che verranno approfonditi in un volume successivo dal titolo Pensiero e linguaggio (1934) in cui criticando Piaget, l’autore afferma che ciò che nella concezione piagetiana viene indicato come “linguaggio egocentrico” e che assume la caratteristica di “monologo collettivo” rappresenta in verità una forma di pensiero esteriorizzata. 23 Ibidem, pp. 242-243. In stretto collegamento con la definizione della concezione storico-culturale dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e della funzione 35 Lo studio comparato dei diversi tipi di sviluppo culturale (nel bambino con handicap e nel bambino normodotato) diventa metodo principale di indagine (insieme al metodo genetico) per l’analisi delle funzioni psichiche superiori proprio per la forma che esso assume nella patologia: il valore euristico di questa metodologia consiste nella possibilità di focalizzare l’apporto culturale allo sviluppo del bambino e di studiare com’esso si innesta sullo sviluppo biologico24. del loro controllo Vygotskij elabora, sulla base dell’attività clinica, i principi per il lavoro riabilitativo e rieducativo. Per un’analisi comparata dello sviluppo normale delle funzioni psicologiche e della loro disgregazione (in particolare un’analisi genetica del pensiero concettuale dell’adolescente e una comparazione con quello dello schizofrenico) si rimanda al saggio Deterioramento dei concetti nella schizofrenia. Contributo al problema della psicologia nella schizofrenia (1932); mentre per un’analisi del ritardo mentale in connessione con disturbi nell’attività intellettiva si veda Il problema del ritardo mentale, saggio per la costruzione di un’ipotesi di lavoro (1935); entrambi contenuti in Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori. Sintetizzando le posizioni principali, in parte già contenute in Studi sulla storia del comportamento, egli afferma che compito della psicologia deve essere quello di partire non da ciò che al bambino manca, ossia dal deficit sensoriale o dal ritardo (cosa che snatura la psicologia ponendola al livello della fisiologia o della biologia) ma quello di partire dalla considerazione della dotazione naturale, che nel bambino handicappato è a volte più forte di quella del bambino normale, e di creare, su questa base, dei percorsi ausiliari, delle vie indirette per lo sviluppo culturale. Pertanto, se la differenziazione tra il bambino normale e quello handicappato sta sul piano culturale, la natura dell’intervento deve essere propriamente educativa. 24 «La particolarità fondamentale dello sviluppo infantile sta nella fusione dei due processi di sviluppo culturale e biologico. Nel bambino che presenta qualche difetto fisico, non si osserva la fusione di questi due processi. I due piani dello sviluppo abitualmente, in modo più o meno sensibile, divergono. Causa di questa divergenza è il difetto organico. La cultura umana si è venuta costituendo nelle condizioni di una determinata stabilità e costanza del tipo biologico umano. Per questo i suoi strumenti materiali, l’adattamento, i suoi istinti e le istituzioni e gli apparati sociali e psicologici sono determinati in funzione di un’organizzazione psicofisiologicamente normale. L’uso di questi strumenti e di questi apparati richiede come suo presupposto essenziale la presenza degli organi e delle funzioni peculiari dell’uomo. L’acquisizione dei valori della civiltà da parte del bambino è condizionata alla maturazione delle funzioni e degli apparati corrispondenti. A un determinato stadio del suo sviluppo biologico il bambino apprende l’uso della lingua, se il suo cervello e l’apparato fonatorio si sviluppano normalmente. A un altro stadio, superiore, dello sviluppo, il bambino apprende il sistema del calcolo decimale e la lingua scritta, più tardi ancora le fondamentali operazioni aritmetiche. Il legame, la coincidenza di questo o di quello stadio, o forma, dello sviluppo con determinati momenti della crescita organica è sorto oramai da secoli, millenni, e ha istituito una simbiosi a tal punto stretta tra i due fenomeni, che la psicologia infantile non ha più fatto distinzione tra i due fenomeni, considerando così l’idea che l’acquisizione delle forme culturali del comportamento sia un sintomo naturale 36 Questa complessa opera, sommariamente riassunta in questo paragrafo, espone i fondamenti della psicologia storico-culturale e della teoria strumentale in psicologia delineando proprio la natura degli strumenti culturali che provocano l’ominizzazione delle funzioni psichiche naturali, il loro divenire più complesse (sia sotto l’aspetto genetico che funzionale) e dunque superiori come Vygotskij le definisce nello scritto Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori. 1.1 Filogenesi e storia culturale La psicologia storico-culturale considera dunque la cognizione umana come il risultato di trasformazioni avvenute all’interno di vari domini dello sviluppo: filogenesi, storia culturale e ontogenesi. Essa pone inoltre molta fiducia in una rigorosa successione temporale tra i diversi domini: per noi [il collegamento tra le tre tendenze dello sviluppo] consiste nel fatto che ciascun processo di sviluppo prepara dialetticamente il successivo e si trasforma in un nuovo tipo di sviluppo. Noi non pensiamo che tutti e tre i processi convergano linearmente, ma riteniamo che ogni tipo superiore di sviluppo inizi là dove termina il precedente e si ponga come sua continuazione nel nuovo indirizzo. (Vygotskij – Lurija, 1930, p.6). dello sviluppo organico come il manifestarsi si qualsiasi altra caratteristica somatica. […]. Tutta la patologia tradizionale, tutta la teoria dello sviluppo e delle caratteristiche del bambino anormale, più ancora che la stessa psicologia infantile, era centrata sull’idea dell’omogeneità e dell’unità del processo dello sviluppo infantile, e poneva su un unico piano le caratteristiche primarie, biologiche, del bambino non normale e le secondarie, culturali, della complicazione del difetto. Questo era causato, in linea generale, dal fatto che la gradualità e la consequenzialità del processo di acquisizione dei valori della civiltà sono condizionati dalla gradualità dello sviluppo organico» (Vygotskij, 1930-31, pp. 75-76). 37 Come ha fatto notare James Wertsch (1985a) l’idea che ogni livello “superiore” inizi precisamente nel punto in cui termina quello precedente implica una teoria del “punto critico” nelle origini della cultura, del tipo proposto da Alfred Kroeber (1917), che sosteneva una concezione della cultura come realtà superorganica, disgiunta dalla filogenesi25. In quanto alla teoria del punto critico della comparsa della cultura, essa postula che lo sviluppo della capacità di acquisire cultura fu un tipo di avvenimento improvviso, tutto-o-nulla, nella filogenesi dei primati. In qualche preciso momento nella nuova irrecuperabile storia dell’ominazione avvenne un’alterazione organica e prodigiosa, ma probabilmente secondaria in termini genici o anatomici – presumibilmente nella struttura della corteccia – in cui un animale i cui genitori non erano stati predisposti a “comunicare, apprendere e insegnare” […] venne predisposto e “con ciò egli cominciò ad essere in grado di agire come ricevitore e trasmettitore, e ad iniziare quell’accumulazione che è la cultura”. Con lui era nata la cultura e, una volta nata, iniziò il suo corso in modo del tutto indipendente dall’ulteriore evoluzione organica dell’uomo. […]. Non solo è diventato ora fuorviante usare l’immagine della “promozione” a un gradino superiore per la comparsa dell’uomo, ma “è ugualmente dubbio se dobbiamo parlare ancora in termini di comparsa della cultura, come se anche la cultura fosse improvvisamente balzata nell’esistenza insieme con l’uomo”. (Geertz, 1973, p.83). 25 Interessante notare come lo stesso Vygotskij ravveda nel «paradosso biologicoculturale» dello sviluppo infantile la differenza tra la linea di sviluppo filogenetica e ontogenetica: «se nello sviluppo biologico dell’uomo domina un sistema di attività organiche e nello sviluppo storico un sistema di attività strumentali se nella filogenesi di conseguenza tali sistemi sono rappresentati e si sono sviluppati isolatamente l’uno dall’altro, nell’ontogenesi essi si sviluppano insieme e contemporaneamente. […]. Questo significa che nell’ontogenesi lo sviluppo del sistema di attività rivela un duplice condizionamento. […]. Questo fatto merita il nome di paradosso biologico-culturale dello sviluppo infantile» (Vygotskij, 1930-31, p. 72). 38 La stessa teoria del “punto critico” è presente anche nel passaggio dalla scimmia all’uomo, mentre una teoria del “livello” storicoculturale raggiunto nei diversi contesti culturali, che giustifica la distinzione tra uomo «primitivo» e «civile» riporta ad un concetto, molto diffuso durante il Diciannovesimo e Ventesimo secolo, dell’evoluzione come progresso lungo una sola dimensione. Sembrerebbe che una volta raggiunto un livello di competenza riconoscibile come umano, tutto il successivo cambiamento tecnologico, dalla caccia e raccolta del paleolitico all’industria moderna, potrebbe avere avuto luogo senza ulteriori mutamenti significativi nella dotazione di base ereditaria della specie umana. In breve, sembra che mentre il cambiamento di utensili dal Basso all’Alto Paleolitico appartiene all’evoluzione, il cambiamento da quest’ultimo alle moderne tecnologie industriali appartiene alla storia. Quando parliamo di evoluzione, si da per scontato che i cambiamenti degli utensili dipendano da, e possono perciò essere indici di cambiamenti delle forme e capacità umane. […]. La nozione di “capacità” sembra implicare una certa visione della natura umana, che comprende una serie di strutture universali o di comportamenti, pienamente formati nella vita di ogni individuo fin dall’inizio, e successivamente riempiti di tanti contenuti particolari e culturali. Così, le capacità sarebbero innate, prodotto di un processo evolutivo, mentre il contenuto acquisito cambierebbe nella storia […]. Non possiamo mettere gli universali dalla parte dell’evoluzione e i particolari dalla parte della storia. Piuttosto, se la storia deve comprendersi come un processo per cui le persone, attraverso le proprie attività stabiliscono le condizioni ambientali all’interno delle quali i propri discendenti raggiungono la maturità, sviluppando delle abilità appropriate a una certa forma di vita, questo non è che l’estensione di un processo nel dominio umano che è in atto in tutto il mondo organico. Questo processo è un processo evolutivo. (Ingold, 2001, pp. 174-175). 39 Il presente paragrafo ha lo scopo di allineare la teoria-storico culturale ai dati e alle teorie interpretative a noi più contemporanee per quanto riguarda il dominio filogenetico e storico-culturale; mentre l’ontogenesi nei suoi contesti storico-culturali, sarà trattata in un paragrafo a parte. 1.1.1 Coevoluzione di filogenesi e storia culturale Nell’ambito della ricerca paleoantropologica, a partire dagli anni Settanta, una serie di dati viene a mettere in crisi l’idea di evoluzione come processo lento, graduale e inesorabile tramite selezione naturale. Le nuove formulazioni post-darwiniste oppongono al gradualismo darwinista una visione sistemica che rende conto, in maniera articolata, della struttura complessa della realtà (in cui geni, individui, popolazioni, specie, ambiente interagiscono continuamente) e del pluralismo evolutivo dei tempi dell’evoluzione, dei fattori che la determinano e delle unità che ne sono coinvolte (Eldredge, 1995). Per quanto riguarda i “tempi” dell’evoluzione le tracce che si sono andate raccogliendo sulla storia delle forme ominidi testimoniano che non vi è stata una successione lineare di trasformazioni genetiche all’interno di un unico ceppo originario (dalle quali è stato possibile far “decollare” lo sviluppo culturale) ma che, al contrario, l’evoluzione ha proceduto in modo «ramificato» per «speciazione». Il meccanismo della speciazione offre un’immagine dell’evoluzione biologica simile a quella di un «cespuglio» per cui, da un ceppo originario può venire a distaccarsi, in maniera improvvisa e imprevedibile, una linea evolutiva originale, la cui direzione evolutiva è anch’essa assolutamente imprevedibile. Quando si verifica la «gemmazione» di una nuova specie, la popolazione che è rimasta isolata dal ceppo originario (e che inizia a riprodursi all’interno di una nicchia ambientale specifica) si lega al proprio ambiente in un 40 sistema co-evolutivo complesso, i cui esiti appaiono imprevedibili e resi ulteriormente complessi dalle interrelazioni che si instaurano tra sistemi co-evolutivi diversi (Ehrlich, 2000). Nessuna specie presenta al proprio interno forme di trasformazione graduale: esse al contrario godono di una stabilità interna che si mantiene inalterata fino all’intervento, anch’esso improvviso, di estinzioni o di nuove ramificazioni (Gould, 1982). All’interno di questo complesso contesto filogenetico, le ricerche paleoantropologiche hanno rilevato che la mediazione attraverso artefatti ha fatto la sua comparsa nella linea degli ominidi milioni di anni prima dell’avvento dell’Homo sapiens, argomento a sfavore di una teoria del punto critico e a favore di un processo di profonda interazione tra filogenesi e storia culturale26. La maggior parte degli studi fanno risalire la costruzione e l’uso documentato di strumenti all’Homo habilis (che visse approssimativamente tra i 2,5 e 1,7 milioni di anni fa), il primo tra i nostri antenati ad avere il pollice completamente opponibile e a presentare tracce fisiche di sviluppo celebrale asimmetrico27. 26 Per una rassegna degli studi recenti sui processi di antropogenesi cfr. Groppo Locatelli, 1996. 27 «Gli utensili associati a questi fossili di Homo sono un insieme di pietre da cui erano state staccate delle scaglie percuotendole con altre pietre e con quelle stesse schegge, che spesso erano state ulteriormente modificate. Si pensa che i resti delle pietre originali, detti nuclei, fossero usati per lavori grossolani, mentre le scaglie venissero lavorate per compiere quelli più delicati. I primi utensili di pietra sono tendenzialmente piccoli (da tre a quattro centimetri e mezzo) e non sono riconducibili a categorie separate che consentano facilmente ai ricercatori di stabilirne l’uso. A prima vista questi manufatti sono piuttosto insignificanti, ma si capisce che sono stati modellati di proposito, perché di norma i processi naturali non scheggiano le pietre nello stesso modo e spesso sono fatti di un tipo di pietra che solo dagli esseri umani potrebbe essere stata introdotta nei depositi in cui sono stati trovati i manufatti. […]. Il fatto che i nostri antenati ominidi fossero in grado di produrre utensili del genere dimostra che possedevano non solo una buona manualità, ma anche la capacità di progettare (come gli utensili dovessero essere usati), di fare previsioni essenziali (perché le pietre, spesso nuclei parzialmente lavorati, venivano tenute da parte in caso di necessità, come provano i frequenti rinvenimenti lontano dalla roccia madre) e di valutare le caratteristiche di diversi tipi di materiale. […]. La tecnologia olduvaiana di Homo habilis, però, non fu un fuoco di paglia. Fu la tecnologia umana della pietra per più di 800 000 anni. Tuttavia, studi recenti suggeriscono che, più di quanto si pensasse prima, la tecnologia fosse diversa da 41 Sembra che gli ominidi abbiano subito una radiazione adattiva e che l’albero genealogico della loro storia evolutiva, anziché una successione in linea retta dall’Australopithecus a noi, sia più che altro un cespuglio filogenetico. Oggi, la nostra storia fisico-culturale indica più chiaramente che per lungo tempo i ritmi dell’evoluzione fisica e di quella culturale si sono trovati appaiati solo in parte: le culture primitive sono rimaste sorprendentemente statiche durante un periodo di crescita consistente della dimensione dell’encefalo, benché la sola grandezza non ci dica tutto quello che dobbiamo sapere sull’evoluzione del cervello (viceversa, sarebbe un elefante o una balena azzurra a scrivere questo libro). Comunque, dopo si verificarono mutamenti culturali a una velocità stupefacente senza che dai crani fossili si potesse desumere alcun cambiamento significativo nell’aspetto fisico degli esseri umani o nelle caratteristiche del loro cervello. (Ehrlich, 2000, p 131). La comparsa dell’Homo sapiens, che aveva un volume celebrale molto maggiore dei suoi predecessori28, non è accompagnata da un posto all’altro, a seconda tanto delle condizioni ambientali quanto dell’abilità degli ominidi che fabbricavano gli utensili. Le nature umane potrebbero essersi differenziate su base geografica più di due milioni di anni fa, proprio com’è oggi per le nature degli scimpanzé» (Ehrlich, 2000, pp. 112-113). 28 Il rapporto dedotto dai reperti archeologici tra i cambiamenti tecnologici e la massa celebrale degli ominidi in evoluzione non è ancora del tutto chiaro. «Da un lato abbiamo la teoria secondo cui le nuove attività culturali e le tecniche più avanzate si sarebbero sviluppate gradualmente, insieme all’ampliamento della massa celebrale, e le apparenti rivoluzioni che riguardano gli strumenti e la manualità sarebbero solo il risultato della casualità dei campioni o di altre coincidenze. Tali coincidenze sono a volte definite tecnicamente “artefatti statistici”. Queste spiegazioni sono simili ad altre (utilizzando la catena statistica di Markov) riferite a periodi di stasi o punteggiatura nel repertorio fossile della vita (Bergman e Feldman, 1995). All’estremo opposto, i cambiamenti tecnologici potrebbero essere associati a una serie di esplosioni demografiche la cui causa è sconosciuta, ma che potrebbe essere stata il risultato di un rapido incremento delle doti mentali che hanno a loro volta aumentato la possibilità di sopravvivenza (Polgar, 1972). Il dubbio è se i cambiamenti tecnologici abbiano favorito l’esplosione demografica permettendo l’intensificazione della produzione o se piuttosto siano stati provocati dalla necessità di una produzione più efficiente creata dall’esplosione demografica, specialmente se si considera la rivoluzione agraria. Una rivoluzione potrebbe essere avvenuta più o meno all’epoca in cui apparve Homo habilis, un’altra alla comparsa di Homo ergaster/erectus (che portò al primo “fuori dall’Africa”), un’altra ancora con l’evoluzione dell’arcaico Homo sapiens nell’uomo moderno (il secondo “fuori dall’Africa” e il Grande salto della rivoluzione agraria). Le masse celebrali 42 cambiamenti drastici del repertorio archeologico. La tecnologia acheuleana associata all’Homo erectus persistette nelle prime popolazioni della nostra specie in Africa e in Europa, fino a circa 250.000 anni; mentre la tecnologia musteriana (Paleolitico Medio) durò fino a 50.000 anni fa. Quando circa 40.000 anni fa apparve l’Homo sapiens sapiens la gamma degli artefatti si era invece considerevolmente estesa, al punto da includere non solo una grande varietà di strumenti, ma anche figurine di pietra, calendari lunari e pitture rupestri29. Oggi l’ipotesi più accreditata considera la cultura come il risultato dell’azione concomitante di molti fattori, genetici ed extragenetici30: alla luce dei risultati acquisiti dalla genetica e dallo studio della cultura, la distinzione natura-cultura sembra aver perso significato e importanza31; in riferimento a questa integrazione spesso si dice che la nostra vita concettuale è “incarnata” (embolie). Non esiste una «natura umana» indipendente dalla cultura: per definizione la “natura umana” è culturalmente situata (Anolli, 2004). Si parla di interdipendenza reciproca tra fattori culturali e genetici per aumentarono significativamente al primo di questi due passaggi, raggiungendo le dimensioni attuali solo negli ultimi 200 000 anni circa» (Ehrlich, 2000, p. 471). 29 «Il Grande balzo in avanti fu annunciato dalla comparsa di armi nuove, di utensili di pietra più elaborati e di punte di pietra raffinate, accompagnati da strumenti e armi fatti di materiali diversi: punte d’osso, arpioni di corno e aghi d’avorio. Furono inventati lo spago, il filo e i vestiti cuciti. Fatto ancora più importante, a partire da 40 000 anni fa, fiorì improvvisamente l’arte, che produsse magnifiche pitture rupestri, statuine e gioielli. Si cominciò ad accompagnare le sepolture con manufatti per sostenere, difendere e divertire i defunti e a mettere decorazioni sulle salme» (ibidem, p., 210-211). 30 Per un’esposizione sulle teorie biologiche degli ultimi due secoli cfr. Jablonka Lamb, 2005. 31 Occorre tuttavia precisare che la cultura si fonda su alcune “premesse” come il bipedismo e la stazione eretta (Leroi-Gourhan, 1965); l’aumento del quoziente di encefalizzazione in seguito alla conquista della stazione eretta; la neotenia, come condizione di non completa maturità biologica del neonato al momento del parto, che implica il prolungamento dello stadio infantile; la capacità di produrre una gamma estesa di suoni vocalici grazie all’evoluzione dell’apparato vocale. Per un’analisi delle premesse “remote” e “recenti” della cultura cfr. Anolli, 2006a, cap. II. 43 sottolineare il processo “co-costruttivo” piuttosto che “interattivo” fra gene e cultura (Lewontin, 2000). Con il netto trionfo dell’Homo sapiens e la fine delle glaciazioni, il legame tra mutamento organico e culturale venne, se non spezzato, almeno notevolmente indebolito. Da allora l’evoluzione organica della linea umana è molto rallentata, mentre la crescita della cultura ha continuato a procedere con sempre crescente rapidità. È perciò inutile postulare un modello di evoluzione umana discontinuo, tale da comportare una “diversità di genere” o un ruolo non selettivo della cultura durante tutte le fasi dello sviluppo degli ominidi per mantenere la generalizzazione stabilita empiricamente che “per quanto riguarda la loro capacità [innata] di imparare, conservare, trasmettere e trasformare la cultura, i diversi gruppi di Homo sapiens si devono considerare egualmente competenti”. L’unità psichica forse non è più una tautologia, ma è ancora un fatto. (Geertz, 1973, p. 89). Forse ancor prima, ma sicuramente con l’avvento dell’Homo sapiens, un nuovo principio di sviluppo o evoluzione culturale, quello che Michael Tomasello definisce effetto dente d’arresto, inizia ad interagire con i principi evolutivi che governano altre specie32. L’enigma fondamentale è questo. I sei milioni di anni che separano gli esseri umani dalle altre grandi scimmie antropomorfe sono, in termini evolutivi, un tempo molto breve, tanto che gli uomini e gli scimpanzé moderni condividono qualcosa come il 99% del patrimonio genetico – lo stesso grado di parentela che corre tra altri generi prossimi come leoni e tigri, cavalli e zebre, ratti e topi (King e Wilson 1975). Vi è dunque un problema di tempo. In effetti, non c’è stato abbastanza tempo perché la normale evoluzione biologica basata sulla variazione genetica e sulla selezione naturale creasse, l’una dopo l’altra, le abilità cognitive necessarie agli esseri umani per inventare e mantenere tecnologie e 32 Per la ricognizione di ipotesi interpretative alternative per quanto riguarda il Grande balzo si rimanda a Ehrlich, 2000. 44 tradizioni d’uso degli strumenti, forme di comunicazione e rappresentazione simbolica, organizzazioni e istituzioni sociali in tutta la loro complessità. E l’enigma non fa che infittirsi se teniamo conto delle attuali ricerche paleoantropologiche secondo le quali a) fino a due milioni di anni fa la linea evolutiva umana non ha dato mostra di alcunché di diverso dalle tipiche abilità cognitive delle grandi scimmie, e b) i primi vistosi segni di abilità cognitive specie-specifiche sono emersi solo negli ultimi 250.000 anni con il moderno Homo sapiens (Foley e Lahr 1997; Klein 1989; Stringer e McKie 1996). (Tomasello, 1999, p.21). Secondo Tomasello a questo enigma non vi è che una soluzione possibile. Vi è, intendo dire, un solo meccanismo biologico noto che possa produrre in così breve tempo cambiamenti comportamentali e cognitivi come questi – che si parli di sei milioni, due milioni o un quarto di milione di anni fa. Questo meccanismo biologico è la trasmissione sociale o culturale, che opera su scale temporali inferiori, e per molti ordini di grandezza, rispetto all’evoluzione organica. In generale, la trasmissione culturale è un processo evolutivo relativamente comune che permette agli individui di risparmiare tempo e fatica, per tacere dei rischi, sfruttando le conoscenze e le abilità già acquisite dai conspecifici. (Ibidem, pp. 2122). Anche se esistono esempi di trasmissione culturale in altre specie animali (negli uccelli che apprendono dai genitori i canti della loro specie, nei ratti che mangiano solo ciò che mangia la propria madre….) i meccanismi comportamentali e cognitivi che sostengono la trasmissione culturale nell’uomo e nelle altre specie animali sono, secondo questo autore, estremamente differenti: attivazione di schemi comportamentali fissi nella prole per quanto riguarda gli animali, apprendimento imitativo e per istruzione per quanto concerne l’uomo. 45 Tomasello sottolinea inoltre che nelle tradizioni e negli artefatti della cultura umana si accumulano cambiamenti in modalità sconosciute alle altre specie («effetto dente d’arresto»):33 ogni generazione può contare sulle “scoperte” della generazione o delle generazioni che l’hanno preceduta e introdurre, se ne ravvisa la necessità, modifiche a comportamenti o artefatti che a loro volta andranno ad accumularsi per le generazioni successive34. Di conseguenza, mentre il cambiamento genetico è principalmente darwiniano (ovvero si verifica attraverso la selezione naturale, che agisce sulla variazione non guidata), l’evoluzione culturale è lamarkiana, nel senso che le scoperte utili di una generazione vengono trasmesse direttamente a quella successiva (Gould, 1987). (Cole, 1996, p. 174). Il concetto di accumulazione culturale presuppone, secondo Tomasello, una trasmissione sociale “fedele” da una generazione 33 «Può forse sorprendere che per molte specie animali la difficoltà maggiore non stia nella componente creativa, ma piuttosto nell’azione stabilizzatrice dell’”effetto dente d’arresto”. Per esempio, tra i primati non umani molti individui producono regolarmente intelligenti innovazioni e invenzioni comportamentali, ma poi i loro compagni non mettono in atto quelle forme di apprendimento sociale che, nel tempo, permetterebbero all’”effetto dente d’arresto” culturale di agire (Kummer e Goodall 1985)» (Tomasello, 1999, p. 23). 34 «Vi sono tradizioni culturali che con l’accumularsi delle modificazioni apportate nel tempo da individui differenti diventano più complesse e riescono a fare fronte ad una più ampia varietà di funzioni adattive – ciò che va sotto il nome di evoluzione culturale cumulativa o “effetto dente d’arresto”. Per esempio, gli oggetti che l’uomo ha usato come martelli sono andati incontro a una significativa evoluzione nella storia umana. Ne danno prova, tra gli artefatti di cui abbiamo testimonianza, i vari strumenti più o meno simili a martelli che gradualmente hanno ampliato la loro sfera funzionale via via che venivano modificati e rimodificati alla luce di nuove esigenze – all’inizio semplici pietre, poi attrezzi compositi costituiti da una pietra legata ad un bastone, quindi i vari tipi di martelli di metallo e infine i martelli meccanici (alcuni con funzione di estrazione di chiodi, vedi Basalla 1988). Anche se non vi sono testimonianze altrettanto dettagliate, è verosimile che nel tempo alcune convenzioni e alcuni rituali (per esempio, le lingue e i rituali religiosi umani) siano divenuti anch’essi più complessi a mano a mano che venivano modificati per soddisfare nuovi bisogni comunicativi e sociali. Questo processo può essere più caratteristico di alcune culture umane rispetto ad altre, o di certi tipi di attività rispetto ad altri, ma in tutte le culture si possono trovare almeno alcuni artefatti prodotti dall’”effetto dente d’arresto”. Il comportamento di altre specie animali, scimpanzé compresi, non mostra traccia di processi di evoluzione culturale cumulativa» (ibidem, p. 58). 46 all’altra, tale da impedire “slittamenti” all’indietro. Essa è garantita da una particolare forma di cognizione sociale, ossia la capacità peculiare dell’uomo di comprendere i conspecifici come esseri simili a loro stessi: nella filogenesi l’uomo avrebbe sviluppato una nuova forma di cognizione sociale, la quale avrebbe reso possibili nuove forme di apprendimento culturale responsabili di nuovi processi sociogenetici e di evoluzione culturale cumulativa. L’evoluzione culturale cumulativa può dunque spiegare molte delle conquiste cognitive più impressionanti dell’uomo. Tuttavia, per apprezzare fino in fondo il ruolo dei processi storico-culturali nella costituzione dell’odierna cognizione umana, occorre guardare a ciò che accade nell’ontogenesi umana. La cosa più notevole è che l’evoluzione culturale cumulativa assicura che l’ontogenesi abbia luogo in un ambiente di artefatti e di pratiche sociali in continuo rinnovamento, che, in ogni momento, rappresentano qualcosa che rimanda all’intero sapere collettivo dell’intero gruppo sociale nella sua intera storia culturale. I bambini entrano a far parte pienamente di questa collettività cognitiva fin da quando, pressappoco a nove mesi d’età, abbozzano i primi tentativi di condividere stati attentivi con (e di apprendere imitativamente da e attraverso) i propri conspecifici. L’emergere di queste nuove forme di attenzione congiunta non rappresenta altro che l’emergere ontogenetico dell’adattamento sociocognitivo specifico della nostra specie attraverso il quale ci identifichiamo con gli altri e li comprendiamo come agenti intenzionali al pari del Sé. (Tomasello, 1999, pp. 25-26). Quest’ultima affermazione di Tomasello può essere messa in dialogo con un’altra supposizione problematica della prima psicologia storico-culturale riguardante l’esistenza di una gerarchia genetica all’interno di ciascun dominio di sviluppo e tra un dominio e l’altro. (Vygotskij – Lurija, 1930). Scrive in proposito Michael Cole: sono incerto su quale significato attribuire all’asserzione che l’ontogenesi sia ad un “livello superiore” rispetto alla filogenesi o alla 47 storia culturale, se non che le ontogenesi sono sempre costituite dagli sviluppi più recenti della filogenesi e della storia culturale. (Cole, 1996, p. 145). Qualunque ricostruzione storica dei processi di cambiamento che si sono prodotti nel corso della filogenesi soffre per la scarsità dei dati paleoantropologici e per la necessità di ricorrere a deduzioni per integrare in modo coerente ciò che è noto con ciò che è plausibile. Occorre aggiungere che ogni ipotesi (a posteriori) sull’antropogenesi corre il rischio di produrre una falsa teleologia. Ciò rende difficile (se non impossibile) un consenso generale tra gli studiosi che se ne occupano. La verità è che non sappiamo ancora esattamente cosa abbia provocato il Grande balzo, e potremmo non saperlo mai. Quello che è incontestabile è che gli esseri umani sono stati un mucchio di creature alquanto ottuse in lenta evoluzione per milioni di anni prima del balzo che ci ha portati alla condizione di dominatori della Terra e di esploratori dello spazio nel giro di qualche decina di millenni. (Ehrlich, 2000, p.200). Secondo Tomasello, nel corso della filogenesi, si è evoluto un nuovo “meccanismo” cognitivo, la capacità di “leggere la mente dell’altro”35 che ha reso possibili nuove forme di apprendimento culturale e di 35 «I programmi che si sono evoluti più di recente nel cervello umano ci danno la capacità di risolvere problemi di relazione e di causalità che per altri animali è difficile o impossibile decifrare. Gli esseri umani, e probabilmente alcuni dei nostri parenti più stretti, hanno la nozione di causalità incorporata nel sistema nervoso. Sembra anche che noi esseri umani siamo predisposti a interpretare il comportamento degli altri secondo la nostra percezione delle loro convinzioni e dei loro desideri (piuttosto che attribuire le azioni altrui a forze esterne). Sospetto che fino ad un certo punto si possa riscontrare quella predisposizione anche in altri primati superiori […]. Ma la differenza di grado della capacità cognitiva fra la specie Homo sapiens e gli altri primati viventi è così grande che equivale a una differenza di tipo. Non c’è alcun indizio che gli scimpanzé siano in grado di compiere una rilevazione e un’analisi del comportamento degli altri loro simili complesse come quelle che possiamo compiere noi sul modo di agire delle altre persone. Non sentiremo mai di psicanalisti o di consulenti per il lavoro tra gli scimpanzé» (Ehrlich, 2000, p. 150). 48 sociogenesi36. Questa ipotesi ci sembra interessante perché suggerisce l’opportunità di considerare il rapporto tra individuo e contesto relativamente a due aree distinte di ricerca: lo sviluppo cognitivo (con particolare attenzione ai processi di apprendimento), e il nascere ed evolvere delle “teorie della mente”37 nel bambino. Approccio contestualistico alla cognizione e all’apprendimento da un lato e ricerche sulle teorie della mente dall’altro, rappresentano attualmente due dei settori di maggiore interesse all’interno delle riflessioni sullo sviluppo del bambino. Tornando agli studi a noi contemporanei per quanto riguarda la coevoluzione di filogenesi e storia culturale, segnaliamo come le ricerche e gli approfondimenti degli anni Ottanta abbiano ulteriormente contribuito ad allargare la considerazione sistemica dei processi evolutivi alla pluralità dei fattori dell’evoluzione e ai soggetti evolutivi coinvolti. Spesso si presenta l’evoluzione come un fenomeno che accade più o meno sotto vuoto e ce l’immaginiamo come un susseguirsi di moscerini 36 Scrive a proposito Tomasello «sfortunatamente, nell’odierno clima intellettuale la mia posizione potrà apparire a qualche studioso come di tipo essenzialmente genetico: l’adattamento sociocognitivo che caratterizza l’uomo moderno sarebbe una sorta di formula magica che differenzia la nostra specie dagli altri primati. Ma questa è un’idea sbagliata che ignora in sostanza tutto il lavoro che deve essere fatto dagli individui e dai gruppi di individui, in tempi storici e ontogenetici, per creare le abilità e i prodotti cognitivi peculiari della specie umana. Dal punto di vista storico, un quarto di milioni di anni è un tempo assai lungo durante il quale molto può avvenire nell’universo culturale, e chiunque abbia avuto a che fare con dei bambini sa quante esperienze di apprendimento possono aver luogo nel corso di qualche anno – o addirittura qualche giorno o qualche ora – di interazione continua e attiva con l’ambiente. Qualunque seria indagine sulla cognizione umana, perciò, deve tener conto di questi processi storici e ontogenetici, che sono resi possibili, ma niente affatto determinati, dall’adattamento biologico che è alla base del tipo di cognizione sociale che è peculiare dell’uomo» (Tomasello, 1999, pp. 28-29). 37 «In generale essa può essere definita come la capacità di “leggere” la mente degli altri (mindreading), attribuendo loro stati e processi mentali che possono essere diversi dai propri. Nello specifico la Teoria della mente, che compare nel corso dell’infanzia, è la capacità di interpretare, spiegare e prevedere le azioni dei consimili, attribuendo loro stati e processi mentali quali desideri, modelli interpretativi, credenze e intenzioni. Questa teoria implica quindi la capacità di rappresentare a se stessi le rappresentazioni mentali altrui (metarappresentazioni o rappresentazioni di secondo livello)» (Anolli, 2006a, p. 47). 49 sempre più bramosi di sorseggiare DDT per cena, o magari come una sequenza di figure solitarie che attraversano la pagina: scimmia/uomoscimmia/uomo di Neanderthal caracollante/essere umano in posizione perfettamente eretta. In una rappresentazione di questo tipo è facile soffermare l’attenzione sulle righe del testo e perdere di vista un fatto fondamentale del nostro passato e del nostro presente: senza l’esistenza di molti altri tipi di organismi e degli ambienti che hanno contribuito a creare, non ci sarebbero né moscerini della frutta, né esseri umani. Le nostre nature umane dipendono completamente dalle “nature” di altre specie. Co-evolviamo contemporaneamente con molte di esse, influenzando gli uni il percorso evolutivo degli altri. Quelle sequenze mentali ci portano anche a pensare alle nostre e alle loro nature come al prodotto di un cambiamento strettamente genetico e a perdere di vista il ruolo cruciale dell’ambiente e (specialmente nella storia dell’uomo) dell’evoluzione culturale. Pur con la nostra intelligenza, noi esseri umani per la nostra sopravvivenza abbiamo ancora bisogno di una varietà di altre forme di vita di una certa parte dei 10 milioni di specie o più con cui dividiamo la Terra. Oggi la nostra dipendenza da queste comunità di esseri viventi è in qualche modo diversa da quella dei nostri antenati cacciatoriraccoglitori o da quella degli antichi primati che acchiappavano gli insetti nei cespugli nel Paleocene, 60 milioni di anni fa. Ma non è meno completa. Come tutti gli altri organismi, dobbiamo scambiare con l’ambiente materiali ed energia e quindi siamo noi stessi elementi degli ecosistemi – cioè delle comunità di specie e degli ambienti fisici con cui queste interagiscono. (Ehrlich, 2000, pp. 57-58). I fattori che determinano l’evoluzione lungo la scala filogenetica vengono ora considerati plurali: non solo l’evoluzione procede per «salti» (e non attraverso impercettibili cambiamenti genetici all’interno di una specie), ma accade anche che tali salti evolutivi, piuttosto che essere finalizzati a un’ottimizzazione adattiva, siano in gran parte legati a fenomeni non interpretabili in termini di 50 «adattamento» (adaptation) ma piuttosto di «exattamento» (exaptation). Una caratteristica sorprendente della modificazione adattiva nell’evoluzione organica è che le nuove strutture non compaiono dal nulla, come se fossero disegnate apposta de novo per un obiettivo. La selezione naturale può solo funzionare su uno stock di materiali già a disposizione. Questo significa che, cambiando le condizioni ambientali, le strutture che sono venute adattandosi a un certo tipo di funzione vengono cooptate per funzioni completamente diverse, per le quali tornano buone. Queste nuove funzioni condizionano perciò anche il processo successivo di adattamento. I paleontologi Stephen Jay Gould e Elizabeth Vrba hanno coniato il termine exattamento (exaptation) per riferirsi a questo processo di cooptazione di strutture per svolgere un compito diverso da quello per cui si erano originariamente adattate (Gould, Vrba, 1982). In generale, possiamo affermare che tutti i tipi di adattamento si fondano sull’exattamento. (Ingold, 2001, p. 167). Gould e Vrba (1982) hanno individuato la chiave di volta dei cambiamenti evolutivi nell’intrinseca «ridondanza multifunzionale» degli organismi viventi e, in particolare, della specie umana38. Accanto a “tempi” e “fattori” evolutivi, un ulteriore approfondimento si sta dispiegando nei confronti delle “unità” componenti l’evoluzione. Il darwinismo, nella versione datene dopo i successi della genetica, si era limitato a considerare la selezione al livello della genetica delle «popolazioni»: al livello della competizione che si svolge nell’ambito di una singola popolazione di organismi per il successo riproduttivo. Al contrario, sostiene il paleontologo Niles Eldredge, occorre considerare che i comportamenti dei sistemi su larga scala (ad esempio, l’evoluzione della specie) non rispecchiano i processi che hanno luogo nelle parti che li compongono (ad esempio, le «popolazioni»); o, come sostenuto da Paul Ehrlich (2000), occorre 38 Cfr. sull’argomento la sintesi introduttiva fornita in M. Ceruti, 1995. 51 considerare i rapporti tra «microevoluzione» e «macroevoluzione». Si tratta di configurare un’ecologia complessa in cui organismi e ambienti co-evolvono sulla base della complessa interazione fra unità gerarchiche diverse: i geni, gli individui, le popolazioni, le specie, le unità tassonomiche di ordine superiore (Eldredge, 1995). In tale rinnovata prospettiva, il richiamo a una storia dei diversi e variabili modi in cui il sistema-uomo e il sistema-ambiente concorrono alla produzione reciproca di vincoli e possibilità (Ceruti, 1986) all’interno dei quali coevolvere e determinarsi, ha permesso di affrontare l’antico dissidio fra corpo-mente, istinto-ragione, sentimento-intelletto. Perché la metafora dell’adattamento funzioni le nicchie ambientali e ecologiche devono esistere prima degli organismi che li riempiono (Lewontin 1983). Così nel neodarwinismo l’ambiente è specificato indipendentemente dagli organismi come un insieme di vincoli, l’organismo è specificato indipendentemente dall’ambiente come un insieme di geni, cosicché lo sviluppo non è che l’effetto combinato di queste cause esterne e interne. Invertendo l’ordine del ragionamento, noi argomentiamo invece che sia l’organismo che l’ambiente emergono da un continuo processo di sviluppo. Inoltre, la loro interfaccia non è un contatto estrinseco tra domini separati e mutuamente esclusivi, poiché implicata nell’organismo stesso è l’intera storia delle sue relazioni. (Ingold, 2001, p. 92). A fronte del persistere di una visione dualistica e gerarchica della realtà umana e naturale, emerge, da più parti, l’esigenza di avviare un riesame della «specie-uomo» in una chiave evolutiva che delegittimi ogni bipolarità oppositiva e scardini la base stessa della scissione tra natura e cultura. Si tratta, in tal senso, di rilevare come ciò che costituisce lo «specifico» della specie umana non sia altro che il prodotto più recente e quantitativamente più avanzato della storia evolutiva della “natura” in quanto sistema. 52 Che cosa è esattamente questa natura umana di cui si sente tanto parlare? La nozione dominante è che sia una singola e immutabile qualità ereditaria: una proprietà comune a tutti i membri della specie. Questa nozione è implicita nell’uso universale del termine al singolare. Io credo che il termine singolare ci porti fuori strada. Per dare una similitudine grezza, “la natura umana” sta a “le nature umane” come “il vulcano” sta a “i vulcani”. Non si discuterebbe mai delle caratteristiche “del vulcano”. Anche se tutti i vulcani condividono certe caratteristiche, usiamo sempre la forma plurale del termine quando ne parliamo in generale. E questo perché, anche se qualunque vulcano ha più caratteristiche in comune con gli altri vulcani che non con un dipinto o un fiocco di neve, riconosciamo automaticamente l’ampia diversità compresa all’interno della categoria “vulcani”. Come per il “vulcano”, a volte c’è motivo di parlare di natura umana al singolare in riferimento a ciò che tutti condividiamo: per esempio, la facoltà di comunicare con il linguaggio, il possesso di una ricca cultura e la capacità di sviluppare un’etica complessa. Dopo tutto ci sono aspetti quanto meno quasiuniversali delle nostre nature umane e dei nostri genomi e la diversità tra loro è piccola in relazione alle differenze tra, diciamo, le nature umane e quelle degli scimpanzé o fra i genomi umani e quelli degli scimpanzé. […]. Contrariamente alla nozione prevalente la natura umana non è la stessa da una società all’altra o da un individuo all’altro, e non è neppure una qualità costante di Homo sapiens. Le nature umane sono i comportamenti, le credenze e gli atteggiamenti di Homo sapiens e anche le strutture fisiche mutevoli che governano, sostengono e contribuiscono al particolare funzionamento della nostra mente […]. Non esiste un’unica natura umana, non più di quanto esista un unico genoma umano, anche se ci sono caratteristiche comuni a tutte le nature umane e a tutti i generi umani. […]. La persistenza è spesso vista come una caratteristica umana fondamentale: dopotutto “non si può cambiare la natura umana”, ma, naturalmente, si può – e lo facciamo continuamente. Le nature degli americani di oggi sono molto diverse rispetto al 1940. Di fatto, le nature 53 umane di oggi, in ogni luogo, sono prodotti diversi del cambiamento, di lunghi processi di evoluzione genetica e, soprattutto, culturale. Un milione di anni fa, come hanno dimostrato i paleontologi, gli archeologi e altri scienziati, la natura umana era una qualità radicalmente diversa, presumibilmente più uniforme. Allora il cervello umano era meno pronto, la lingua non aveva completamente sviluppato una sintassi, la società non era formalmente stratificata in classi e gli esseri umani non avevano ancora imparato ad attaccare pietre lavorate ad aste di legno per costruire martelli e frecce. Fra un milione di anni le nature umane saranno, di nuovo, inconcepibilmente differenti da quelle di oggi. I processi che hanno cambiato i primi esseri umani in quelli moderni continueranno fintanto che ci saranno esseri umani. (Ehrlich, 2000, pp. 16-18) Le acquisizioni evoluzionistiche determinano la convinzione che non esiste «una natura umana» data e immutabile così come non esistono barriere tra i sistemi viventi in base alle quali costruire rigide gerarchizzazioni. Al contrario di quello che la classica visione gerarchica e teleologica della natura suggerisce, il mondo vivente appare caratterizzato da una radicale continuità tra le specie viventi, continuità che si attualizza concretamente in un’estrema varietà di percorsi co-evolutivi: le differenze tra uomo e natura, tra la specie umana e le altre specie vengono interpretate come un originale contributo di ciascuna specie al complessivo equilibrio dell’intero ecosistema. Dobbiamo sostituire la concezione dominante del processo evolutivo in termini statistici con una concezione topologica. Secondo questa, l’evoluzione deve essere ridefinita come una modulazione nel tempo di un sistema totale di relazioni. Il ruolo di fattori endogeni ed esogeni, dei prodotti dei geni e degli stimoli ambientali indipendenti, è perciò quello di “selezionare”, tra le variabili possibili modulazioni del campo di relazioni, quelle forme che vediamo emergere effettivamente. Per fare un’analogia, tutte le sezioni coniche, dall’ellisse all’iperbole, possono 54 essere generate da un’equazione di base cambiando i valori di un parametro. Ma non sono questi di per sé ad indicare la forma della curva, poiché questa è descritta dall’intera equazione. (Ingold, 2001, pp.93-94). Ogni caratteristica di ogni organismo è il prodotto di un’interazione tra corredo genetico e ambiente. La dicotomia naturale-acquisito (nature-narture), che da decenni domina le discussioni sul comportamento, è ampliamente falsa: tutte le caratteristiche di tutti gli organismi sono realmente il risultato dell’influenza simultanea di entrambe. In molti casi i geni non dettano il destino (fanno eccezione quei difetti genetici cui al momento non si può rimediare), ma spesso definiscono una gamma di possibilità di un dato ambiente […]. I tentativi di distinguere naturale e acquisito quasi sempre finiscono per fallire. Anche se ho scritto di come l’espressione dei geni dipende dall’ambiente in cui vengono espressi, un altro modo di guardare lo sviluppo della natura avrebbe potuto essere quello di esaminare il contributo di tre fattori: geni, ambiente, interazione geniambiente. Tuttavia è difficile distinguere i diversi contributi. Non si può fare neppure in ambito sperimentale, dove è possibile dire a livello matematico qualcosa sui contributi comparati di ereditarietà e ambiente, perché c’è un “termine di interazione”. Questo termine non si può scomporre fra naturale e acquisito dal momento che l’effetto di ciascuno dipende dal contributo dell’altro. (Ehrlich, 2000, pp. 14-15). Tutto questo ha portato a considerare la cultura come un fatto dichiaratamente biologico, legato e conseguente all’apprendimento inteso come «strategia di sopravvivenza biologica» (Laporta, 1993, p. 193). Gli esseri umani allora non nascono identici biologicamente o psicologicamente, per poi differenziarsi a seconda delle culture. Ci deve essere qualcosa di sbagliato in una teoria che si fonda sulla tesi 55 manifestamente ridicola che “i bambini sono tutti uguali dappertutto” (Toby, Cosmides, 1992, p. 3). Perfino i genitori di gemelli monozigoti sanno che questo è falso! La fonte della difficoltà sta nella nozione di cultura come ingrediente in più, che deve essere aggiunto per completare l’essere umano. Al contrario, tutte quelle abilità specifiche che sono state classicamente attribuite alla cultura sono in realtà incorporate nel processo di sviluppo come proprietà degli organismi umani. In questo senso sono pienamente biologiche. La cultura, perciò, non è super-organica o sovra-biologica. Non è qualcosa di aggiunto agli organismi ma una misura della differenza tra di loro. E queste differenze deriva dai modi in cui sono posizionati l’uno rispetto all’altro, e rispetto agli elementi non umani dell’ambiente, in vasti campi di relazioni. (Ingold, 2001, p. 77). Allargando lo sguardo ai “sistemi viventi” occorre sottolineare che, ogni essere vivente, in quanto «sistema aperto», sopravvive non solo perché alimentato da materia ed energia, ma anche perché contemporaneamente nutrito da informazioni e conoscenze, nel senso che la sua “natura” gli impone forme particolari e specifiche di “comprensione” della realtà e di “riconoscimento” di quello che è più utile alla propria sopravvivenza. Si tratta dell’attivazione, da parte di tutti gli organismi viventi, di fondamentali e specifiche forme di apprendimento come strategie di conoscenza, riconoscimento e scelta delle condizioni della sopravvivenza, motivate dal bisogno di conservare la vita39. La ricaduta epistemologica principale, anche per le scienze sociali, di questo modello di sistemi viventi, è che quello che siamo abituati a 39 Il passaggio da un approccio scientifico meccanicistico e gerarchico a un approccio probabilistico e “reticolare” promuove e si accompagna alla formulazione del paradigma della complessità; un pensiero ecologico capace di scoprire gli elementi di appartenenza ad una comune “rete vitale” (Capra, 1996) e, quindi, capace di rispondere al suggestivo interrogativo di Gregory Bateson: «quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi?» (Bateson, 1979, p. 21). Cfr. anche id. 1972; Bateson - Bateson, 1987. 56 considerare “il mondo là fuori” è in realtà la nostra esperienza accoppiata a un mondo. Contro l’idea di farsi un modello del mondo, si fa così valere il concetto biologico e sistemico di accoppiamento strutturale: apprendiamo quando aggiustiamo il nostro accoppiamento strutturale (couplage) col mondo. Non è possibile trarci fuori da questo intreccio conoscitivo, e uscire dal cerchio, poiché il “bagaglio di regolarità proprie dell’accoppiamento di un gruppo sociale costituisce la sua tradizione biologica e culturale” (Maturana, Varela 1984, p.194). Vivere è di per se stesso conoscere, poiché per esistere occorre conservare l’accoppiamento strutturale come essere vivente con un ambiente. Ogni tipo di sapere in questo senso è un’azione. La cognizione a sua volta consiste nella capacità dei sistemi viventi di far emergere (secondo il lessico biologico dell’autopoiesi), di porre innanzi (secondo il lessico filosofico dell’ermeneutica), di co-costruire (secondo il lessico epistemologico costruttivista) significato e ordine. (Grasseni – Ronzon, 2004, pp. 23-24). 1.1.2 Primati e uomini Riprendiamo ora la “teoria del punto critico” per quanto riguarda “il salto qualitativo” di specie tra uomo e primate sull’uso di strumenti, in parte già chiarito dal paragrafo precedente. Nell’introduzione a Studi sulla storia del comportamento abbiamo visto come Vygotskij e Lurija (1930) si propongano di attuare un’analisi comparata «delle principali caratteristiche distintive» dei tre processi di sviluppo dell’animale superiore (l’antropoide), dell’uomo «primitivo» e del bambino, per dimostrare che «ciascun processo di sviluppo prepara dialetticamente il successivo e si trasforma in un nuovo tipo di sviluppo». Lo sviluppo storico, quello propriamente umano, è l’ultimo stadio, il quarto, dello sviluppo del comportamento; esso non presenta delle modifiche morfologiche di organi naturali nei confronti dei precedenti, ma comporta quelle modificazioni del comportamento strumentale 57 così profonde da far affermare a Vygotskij (1930-31) che: «il comportamento umano si differenzia da quello animale qualitativamente» in quanto il tipo stesso dell’adattamento umano alle condizioni di vita è diverso. A differenza di Darwin, gli psicologi storico-culturali hanno sostenuto con forza una discontinuità di principio tra l’uomo e le altre specie. Nella scala dello sviluppo del comportamento che separa le forme di vita più semplici dall’uomo, vengono individuati tre stadi. Il primo stadio è costituito in tutti gli animali, uomo compreso, dalle reazioni ereditarie che adempiono la funzione biologica della conservazione e della continuazione della specie (gli istinti). Tutto il comportamento di insetti e invertebrati si esaurisce con simili reazioni istintive. Su questo stadio se ne struttura un secondo, quello dell’addestramento o dei riflessi condizionati, che si differenzia dal precedente per il fatto che le reazioni non sono ereditarie ma sorgono dall’esperienza diretta dell’organismo. In sostanza l’addestramento non crea nuove reazioni negli animali, ma combina solo le reazioni innate, come anche crea i nuovi nessi condizionati tra le reazioni innate e gli stimoli dell’ambiente circostante. In questo modo il nuovo stadio dello sviluppo del comportamento sorge immediatamente sulla base del precedente […]. Se gli istinti sono mezzi di adattamento a condizioni ambientali che sono più o meno costanti, consolidate, stabili, i riflessi condizionati rappresentano un meccanismo assai più elastico, sottile e perfezionato di adattamento all’ambiente, la cui essenza consiste nel fatto che le reazioni istintive ereditarie si adattano alle condizioni individuali e personali di un dato animale. (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 10-11). 58 Il pieno sviluppo di questo stadio di comportamento si trova negli animali vertebrati40. Su questo secondo stadio nello sviluppo del comportamento se ne «edifica» un terzo, l’ultimo per il regno animale41. Esso caratterizza il comportamento delle scimmie antropoidi (scimpanzé, bonobo, gorilla, gibbone, orangutan) che inventano e utilizzano strumenti per raggiungere i propri scopi. Riprendendo le osservazioni di Wolfgang Köhler42 sulla psicologia delle scimmie, gli autori concludono che 40 «Nonostante tutti i successi dell’addestramento negli animali inferiori, l’istinto rimane in essi la forma di comportamento dominante e prevalente. Negli animali superiori, al contrario, si manifesta uno spostamento verso la prevalenza dei riflessi condizionati nel sistema generale di reazioni. In questi animali, per la prima volta, si manifesta la plasticità delle capacità innate, si manifesta l’infanzia nel senso proprio di questa parola e il gioco infantile collegato ad essa» (Vygotskij – Lurija, 1930, p. 11). 41 «La documentazione fossile, enormemente aumentata soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, mostra una serie notevole di creature con caratteristiche variamente intermedie tra quelle degli esseri umani e quelle delle altre grandi scimmie antropomorfe. Molti trovano affascinante questa continuità […]. Oltre a quella dimostrata dai crani, è stata dimostrata una continuità analoga nei confronti particolareggiati delle nostre strutture fisiche, dei nostri geni, con quelli delle scimmie attuali e degli altri primati […]. Per trovare il progenitore comune che condividiamo con le scimmie del Vecchio Mondo, dobbiamo soltanto risalire il nostro albero genealogico di quasi 30 milioni di anni (più o meno a metà fra noi e la fine dell’era dei dinosauri). Se prendiamo in considerazione lo scimpanzé piuttosto che le altre scimmie, la distanza dal progenitore comune è soltanto di circa un sesto. […]. In anni recenti, attraverso l’uso delle moderne tecniche della biologia molecolare, i ricercatori hanno scoperto che nella diramazione dell’albero evolutivo, noi siamo posizionati proprio in mezzo alle grandi scimmie. È stato solo 5 milioni di anni fa che i nostri progenitori si sono staccati dalla linea evolutiva che portava allo scimpanzé e al bonobo, mentre i progenitori dei gorilla hanno lasciato la linea scimpanzé-uomo circa sette milioni di anni fa. Genealogicamente, noi siamo vicini allo scimpanzé e al bonobo più di quanto questi ultimi siano vicini al gorilla» (Ehrlich, 2000, p. 86). 42 W. Köhler (1887-1967) fu uno dei massimi esponenti della psicologia della Gestalt; teoria piuttosto attiva in Europa nel periodo tra le due guerre mondiali in cui è centrale il concetto di fenomeni psichici (percezione, apprendimento ecc…) intesi come totalità organizzate e strutturate da principi autonomi. Nel presente testo si fa riferimento agli studi compiuti da Köhler (1917) sul comportamento dei primati posti in situazioni problematiche come, ad esempio, riuscire a raggiungere del cibo collocato oltre le sbarre della gabbia, fuori dalla portata diretta delle loro “mani”. La soluzione trovata dall’animale consiste nel ricorrere a qualche elemento della situazione, per esempio, a un bastone, usandolo come strumento per avvicinare a sé il cibo, cioè come mezzo per raggiungere lo scopo. Si tratta di un comportamento che compare improvvisamente, non a seguito di una catena per prove ed errori. Köhler ritenne questo tipo di comportamento il risultato di un processo di ristrutturazione del campo cognitivo compiuto dall’animale: il bastone fa parte degli elementi presenti 59 l’invenzione e l’uso di strumenti sia, per lo sviluppo del comportamento dell’uomo, il fattore più importante e più originale. Lo studio delle scimmie ha un importante valore euristico «non solo per spiegare lo sviluppo del comportamento verso l’alto, dalla scimmia all’uomo, ma anche per una giusta spiegazione del comportamento verso il basso dall’istinto all’intelletto attraverso i riflessi condizionati» (ibidem, p. 14). La linea di demarcazione tra il comportamento della scimmia e dell’uomo è vista da una parte nell’assenza di linguaggio e dall’altra nel ruolo che ha l’uso degli strumenti per la scimmia: in generale questo tipo di comportamento non è la base dell’adattamento della scimmia […]. Nella storia dello sviluppo della scimmia ancora non è avvenuto quel salto che consiste nel processo di trasformazione della scimmia nell’uomo e che consiste nel fatto che gli strumenti di lavoro diventano la base dell’adattamento alla natura. Nel processo di sviluppo della scimmia questo salto è già stato preparato, ma non è stato ancora compiuto. (Ibidem, pp. 54-55). L’attività più complessa che l’animale svolge adoperando gli strumenti non viene modificata dall’uso stesso dello strumento: nessuna scimmia, anche la più intelligente della stazione di Tenerife, nella quale Köhler ne osserva il comportamento, riesce a conservare il bastone con cui è stato raggiunto il cibo che desidera, una volta che questo è stato preso. Nello sviluppo psicologico umano, afferma Vygotskij «avviene, con l’introduzione e l’uso degli strumenti, una frattura analoga a quella che si verifica nella sfera del suo adattamento biologico» e cita le parole di Bacone che spesso figurano nel frontespizio dei lavori suoi e di Lurija: «non solo la mano, nel campo visivo dell’animale anche prima della soluzione del problema; attraverso la ristrutturazione del campo i diversi elementi della situazione, tra cui il cibo e il bastone, vengono organizzati in una nuova totalità mutando le relazioni reciproche e il bastone, da elemento irrilevante in rapporto al cibo, acquista il significato di oggetto che serve per raggiungerlo. 60 o l’intelletto in sé possono sussistere, tutto si compie mediante gli strumenti e i mezzi ausiliari» (ibidem, p. 59). Con l’ingresso dell’uomo nello sviluppo storico ha inizio anche il rapido processo del perfezionamento degli strumenti di lavoro: il perfezionamento dei “mezzi di lavoro” e dei “mezzi di comportamento”, come la lingua e altri sistemi di segni, che sono mezzi ausiliari nel processo di acquisizione del comportamento, viene messo al primo posto, sostituendo lo sviluppo della mano nuda e dell’intelletto stesso. (Ibidem, pp. 59-60). L’uso di strumenti che si riscontra negli animali superiori pur costituendo un embrione di attività lavorativa, non assurge mai a lavoro, il quale presuppone che, attraverso i segni, l’uomo acquisisca il controllo del proprio comportamento. Questa è appunto la caratteristica del periodo storico nello sviluppo del comportamento umano. Con questo ha inizio lo sviluppo culturale, il cui contenuto essenziale è dato dall’uso dei segni, anche più primitivi, come quelli già chiaramente presenti presso l’uomo «primitivo». Abbiamo precedentemente esposto come le teorie evoluzionistiche a noi contemporanee abbiano in parte scardinato questo modello lineare di evoluzione, e quanto possa essere problematico porre barriere tra sistemi viventi in base alle quali costruire rigide gerarchizzazioni. Negli ultimi decenni le ricerche sui primati hanno attestato l’esistenza di uso di strumenti come parte significativa della vita degli scimpanzé allo stato brado (Goodall, 1986), di insegnamento attivo alla prole (Boesch, 1993), dell’uso di un certo tipo di linguaggio e della presenza di cultura (Savage-Rumbaugh et al., 1986) mettendo in dubbio la teoria della discontinuità comportamentale. Riprendendo gli stessi temi Tomasello e colleghi (Tomasello, 1990, 1994; Tomasello, Kruger e Ratner, 1993) sono giunti tuttavia alla conclusione che se si vuole affermare che gli scimpanzé “possiedono 61 una cultura”, essa dovrà essere intesa in senso diverso rispetto alla cultura che attribuiamo agli esseri umani: tra i gruppi [di scimpanzé studiati allo stato brado] vi sarebbero differenze di comportamento superficialmente simili alle differenze culturali umane, ma svincolate da qualsiasi forma di apprendimento sociale. In questi casi la “cultura” è una semplice conseguenza di forme di apprendimento individuale dipendenti dalle diverse ecologie locali delle diverse popolazioni – e perciò questo processo è detto modellamento ambientale. (Tomasello, 1999, p.47). Nondimeno, gli studi odierni sulla composizione genetica di scimpanzé ed esseri umani hanno concluso che essi si differenziano solo nell’1% dei genomi, e che anche quella percentuale minima è distribuita in maniera tale che è difficilmente confrontabile. Moltissime differenze fenotipiche cruciali dipendono da quel due percento scarso di differenza. Alcune di quelle differenze fenotipiche, naturalmente, sono fisiche e quindi impressionanti. Gli esseri umani sono le uniche scimmie viventi dotate di postura del tutto eretta. In confronto agli scimpanzé siamo anche praticamente senza peli, abbiamo incisivi e canini molto più piccoli e il pollice completamente opponibile. Le femmine umane sono diverse da quelle di scimpanzé, e pure da quelle di tutti gli altri nostri parenti […]. Il cervello degli uomini e delle donne è approssimativamente tre o quattro volte più grande di quello degli scimpanzé. Infatti, la maggior parte della differenza di qualità fra gli esseri umani e le altre scimmie sta nella capacità del cervello – l’organo responsabile di molti degli aspetti tipici della parte non fisica della natura umana, di capacità umane che sono universali o quasi. L’aspetto universale più ovvio della natura umana è l’uso del linguaggio […]. E’ scarsamente provato che i nostri parenti stretti usino la comunicazione vocale in modo significativo più degli altri mammiferi. (Ehrlich, 2000, pp. 89-90). 62 Aspetto, quest’ultimo, già evidenziato dallo stesso Vygotskij. Gli esseri umani utilizzano capacità esclusive in connessione con un cervello che consente loro comportamenti estremamente flessibili, basandosi su interpretazioni che vanno spesso oltre la situazione data. Abbiamo anche visto che siamo l’unica specie ad avere “empatia cognitiva” ovvero la capacità di formarci una teoria della mente: strumento indispensabile per la sopravvivenza in un ambiente altamente socializzato. I nostri progenitori, più di ogni altro primate, si specializzarono nel vivere di espedienti, il che produsse un’altra differenza di qualità. Svilupparono la strategia di fronteggiare sia la preda che il nemico con la pianificazione, con attrezzi costruiti accuratamente e con una complessa cultura in evoluzione; per dirla con gli antropologi John Tooby e Irven DeVore, l’uomo si evolse verso la “nicchia cognitiva” – una nicchia creata proprio dagli ominidi. Non sappiamo con esattezza come i nostri antenati siano giunti sulla via della specializzazione, ma è senz’altro questo che ha reso il nostro cervello molto diverso da quello dei nostri parenti più prossimi. […]. La differenza di grado nel bagaglio culturale fra noi e gli altri animali è talmente grande che ha creato molte differenze di qualità. Il motivo è che grazie al linguaggio e alla capacità di risolvere problemi e immagazzinare informazioni di cui il cervello umano è dotato, la conoscenza racchiusa nella cultura umana si può espandere e condividere in modo semplice e veloce […]. Naturalmente, è esattamente la capacità umana di immagazzinare e condividere la cultura che ha portato l’arte, la religione, le lettere e la scienza, che sono una parte così tipica della natura umana. (Ibidem, pp. 90-91). Nella critica agli studi sui primati che sottolineano una continuità comportamentale tra scimmie antropomorfe e uomini Tomasello sottolinea come molti fenomeni (l’uso di strumenti, la trasmissione culturale, l’uso e l’invenzione di segnali gestuali a scopi comunicativi) 63 che apparentemente possono sembrare simili ai processi comportamentali dell’uomo, in verità sono sorretti da processi di cognizione e apprendimento sociale differenti. La continuità nell’uso di strumenti da una generazione all’altra, esempio di trasmissione culturale nelle teorie di Boesch (1993) e McGrew (1992), secondo Tomasello dipenderebbe interamente dal fatto che gli individui “riscoprono” le innovazioni apportate dalle generazioni precedenti, in quanto vivono nella stessa “nicchia ecologica” (e questo è il motivo per cui tra i primati la cultura non si «accumula», ma si «diffonde»); al contrario gli esseri umani si dedicano attivamente all’insegnamento, e si dimostrano abili nell’imitare il processo comportamentale di diverse nicchie ecologiche. Secondo Tomasello vi sono molti tipi differenti di eredità e di trasmissione culturale che corrispondono ad altrettanti meccanismi di apprendimento: esposizione, incentivazione dell’attenzione verso uno stimolo (esperienza di apprendimento individuale), riproduzione di un comportamento (apprendimento per emulazione), apprendimento imitativo. Gli scimpanzé si dimostrano molto intelligenti e creativi nell’uso di strumenti e nel comprendere i cambiamenti provocati nell’ambiente dall’uso di strumenti da parte di qualcun altro, ma non sembrano comprendere il comportamento strumentale dei conspecifici allo stesso modo dell’uomo. Nel caso degli esseri umani, lo scopo o l’intenzione del dimostratore è parte essenziale di quel che viene percepito, e in effetti lo scopo appare come qualcosa di distinto dai mezzi comportamentali che possono essere usati per raggiungerlo. La capacità umana di separare scopi e mezzi permette di isolare le tecniche o le strategie d’uso degli strumenti adottate dal dimostratore – il comportamento che egli attua per raggiungere lo scopo, data la possibilità di raggiungerlo anche in altri modi. Incapaci di separare nelle azioni degli altri lo scopo dai mezzi comportamentali, gli scimpanzé si concentrano sui mutamenti di stato (compresi i mutamenti di posizione spaziale) degli oggetti implicati nella dimostrazione, dove le azioni del dimostratore sono solo un movimento 64 fisico tra i tanti. Gli stati intenzionali del dimostratore e, di conseguenza, i suoi metodi in quanto entità comportamentali a sé stanti, non sono parte della loro esperienza. (Tomasello, 1999, p. 49). Ciò che distingue i primati dall’uomo non sarebbe una «differenza quantitativa» nell’uso di strumenti che nel tempo si è trasformata in una «differenza qualitativa» quanto piuttosto una nuova forma di cognizione sociale. Un’importante puntualizzazione di Tomasello merita di essere sottolineata. Passando in rassegna diversi studi che dimostrano capacità molto simili tra le scimmie e l’uomo (uso complesso di strumenti, insegnamento, apprendimento per imitazione, comunicazione simbolica, uso del gesto per indicare qualcosa allo scopo di attirare l’attenzione di qualcun altro), Tomasello nota che si tratta di scimmie “culturalizzate”, ovvero di scimmie che sono vissute a stretto contatto con l’uomo e che hanno ricevuto un certo addestramento. Egli conclude che un ambiente sociocognitivo simile a quello dell’uomo è indispensabile affinché avvenga lo sviluppo di abilità sociocognitive simili a quelle umane e di capacità di apprendimento per imitazione: il fatto che gli scimpanzé e i bonobo allevati fin dall’inizio e per molti anni in un ambiente culturale umano possano sviluppare alcuni aspetti della cognizione sociale e dell’apprendimento culturale dell’uomo dimostra in modo particolarmente incisivo l’importanza dei processi culturali nell’ontogenesi, e il fatto che altre specie animali non facciano altrettanto dimostra le formidabili abilità di apprendimento sociale delle grandi scimmie antropomorfe. Ma rispondere a una cultura e creare ex novo una cultura sono due cose differenti 43. 43 Tomasello, 1999, p. 56. Scrive a proposito Bruner analizzando gli studi sulle prestazioni delle scimmie “culturalizzate”: «tutto questo suggerisce con forza che il complesso mente/cervello degli umanoidi non si limiti semplicemente a “crescere” secondo una tabella di marcia geneticamente predestinata, ma che tragga vantaggio dall’accudimento in un ambiente di tipo umano. Prendendo spunto dal libro di Gerald Edelman sul “darwinismo neurale”, sembra ragionevole supporre 65 1.1.3 Il livello storico-culturale: eterogeneità e gerarchia Se dunque occorre ricalibrare la teoria storico-culturale per quanto concerne il “salto” dell’uomo moderno postulando una profonda coevoluzione tra filogenesi e storia culturale, occorre anche ridimensionarne la posizione per quanto riguarda l’idea che un solo fattore possa spiegare tutto ciò che distingue la nostra specie dalle altre. A livello storico-culturale occorre inoltre ancorare le differenze culturali osservate nelle prestazioni cognitive all’interno delle diverse società, e dunque rivedere quell’uomo «primitivo» dal quale è possibile ricavare la storia dello sviluppo storico dell’uomo «civile». I testi che delineano i principi fondamentali della psicologia storicoculturale, pur riconoscendo una sostanziale identità biologica tra uomo «primitivo» e «civile», avvalorano una concezione che vede nell’evoluzione degli strumenti di mediazione (artefatti materiali e simbolici) una corrispondente evoluzione del pensiero e che, di conseguenza, giustifica lo studio delle popolazioni “tradizionali” allo scopo di ricostruire lo sviluppo storico del pensiero dell’uomo tout court. Lo sviluppo dell’uomo come tipo biologico, è già, in linea di massima, concluso al momento dell’inizio della storia dell’uomo. Ciò certamente non significa che la biologia umana si sia fermata nel momento in cui è iniziato lo sviluppo storico della società. Certamente non è così. La natura plastica dell’uomo ha continuato a modificarsi. Tuttavia tale cambiamento biologico della natura umana è già divenuto una che ammesso che lo scimpanzé possieda un bagaglio neurale di supporto alla sua “zona di sviluppo potenziale”, questo può semplicemente morire quando non è attivato dall’opportunità di sviluppare aspettative reciproche affini a quelle culturali» (Bruner,1996, p. 197). 66 grandezza dipendente e subordinata allo sviluppo storico della società umana […]. Lo sviluppo umano, che noi troviamo anche nei popoli più primitivi, è sviluppo sociale. Per questo ci dobbiamo attendere di scoprire qui un processo di sviluppo molto particolare e profondamente diverso da quello che abbiamo osservato nell’evoluzione dalla scimmia all’uomo. Diciamo, in anticipo, che il processo di trasformazione dell’uomo primitivo in quello civile per la sua stessa natura è differente dal processo di trasformazione della scimmia in uomo. Oppure diversamente: il processo dello sviluppo storico del comportamento umano ed il processo della sua evoluzione biologica non coincidono; l’uno non è la continuazione dell’altro, ma ognuno di questi processi è soggetto alle sue particolari leggi. (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 75-76). Gli psicologi russi facevano riferimento soprattutto ai dati e alle teorie di sociologi e antropologi a loro contemporanei, tra i quali Lucien Lévy-Bruhl (1910) e Richard Thurnwald (1922). Riprendendo le teorie di Lévy-Bruhl essi affermano che ai diversi tipi di società corrispondono diversi tipi di psicologia dell’uomo che si differenziano l’uno dall’altro così come si differenzia la psicologia degli animali vertebrati e invertebrati. Certo, come nei diversi animali, così nelle diverse strutture sociali esistono caratteristiche comuni che sono proprie di ogni tipo di società umana – lingua, tradizioni, istituzioni. Ma, accanto a queste caratteristiche comuni le società umane, come gli organismi, possono rappresentare strutture profondamente differenti una dall’altra e quindi le rispettive differenze nelle funzioni psichiche superiori. Perciò occorre rinunciare a ridurre dall’inizio le operazioni psicologiche ad un tipo unico, indipendentemente dalla struttura della società, e a spiegare tutte le rappresentazioni collettive con un unico meccanismo psicologico e logico che rimane sempre immutato. (Ibidem, pp. 67-68). 67 Per completare la descrizione del tratto differenziale comportamento e del pensiero dell’uomo «primitivo» 44 del Vygotskij introduce un’analisi sulla specificità delle funzioni psichiche, in particolare sulla memoria che sotto l’aspetto “naturale” è superiore a quella dell’uomo civile45. Memoria, pensiero, linguaggio e calcolo sono le funzioni che egli esamina. In queste analisi non mancano affermazioni forti che riguardano «la matematica civile», la successione lungo una scala evolutiva dal «più primitivo» al «primitivo medio» al «primitivo superiore» a seconda del livello di complessità degli strumenti di mediazione (del linguaggio in particolare) utilizzati dalle diverse società (cfr. Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 61-128). Per quanto riguarda il “livello” di pensiero dei popoli «primitivi», Vygotskij si trova in disaccordo con Lévy-Bruhl laddove quest’ultimo 44 Come abbiamo precedentemente chiarito, per gli psicologi storico-culturali, la differenza tra l’uomo «primitivo» e l’uomo «civile» non è in nessun modo ascrivibile ad una differenza di tipo biologico, ma essa sarebbe dovuta alla «arretratezza culturale» del primo rispetto al secondo. «L’uomo primitivo, con tutto il suo bagaglio di personalità, con tutto il suo comportamento, si differenzia profondamente dall’uomo civile. Per chiarire in che cosa consista questa differenza che determina in generale il punto di partenza e di arrivo dello sviluppo storico del comportamento umano, inizieremo dalle differenze visibili che saltano agli occhi». Successivamente vengono elencate alcune differenze riscontrate da antropologi ed esploratori quali «l’acutezza della vista, la finezza dell’udito e dell’olfatto, la sua enorme resistenza, la furbizia istintiva, il senso dell’orientamento, la conoscenza dell’ambiente circostante, dei boschi, del deserto, del mare» (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 69-70). Tutte queste differenze risultano collegate non a un diverso sviluppo biologico, ma a una certa “mancanza” di sviluppo culturale che causa una conseguente arretratezza nel campo delle funzioni psicologiche. 45 «Lo sviluppo storico della memoria inizia nel momento in cui l’uomo passa per la prima volta dall’uso della propria memoria, come funzione naturale, al dominio di essa» (Vygotskij – Lurija, 1930, p. 84). Il processo che porta al dominio della memoria e al dominio di qualsiasi forma naturale di comportamento, implica che l’uomo acquisisca una conoscenza sufficiente delle leggi di funzionamento della propria memoria e le utilizzi. Non si tratta di una conoscenza formale, o teorica, ma della capacità di usare segni artificiali per potenziarla. Gli psicologi russi hanno fatto ricorso agli scritti di Thurnwald per quanto attiene ai dati sulle variazioni culturali nell’uso di sistemi di mediazione “decisivi” dal punto di vista storico, come i sistemi di calcolo e di scrittura. Le fotografie di Thurnwald delle cordicelle annodate che gli Incas adoperavano come dispositivi mnemonici (quipu) sono uno degli esempi iconici che Vygotskij e colleghi adoperavano come esempio di “rievocazione mediata”. Inoltre, la scuola storico-culturale, ha incorporato lo sviluppo sequenziale dei sistemi di scrittura, da quelli pittografici a quelli ideografici, nello studio dello sviluppo della scrittura nei bambini. 68 ne assolutizza il “carattere magico” attribuendo ad esso il significato di “tratto primario” del pensiero, mentre sussiste accordo per quanto riguarda la convinzione che i «popoli primitivi» non pensino in termini di concetti, ma di situazioni concrete, ovvero in termini di «complessi»46. Il quadro del progresso cognitivo che si accompagna a quello socioeconomico-culturale è complicato dal fatto che Vygotskij e colleghi sostenessero l’eterogeneità dei livelli di funzionamento cognitivo, a seconda del genere di attività a cui le persone generalmente si dedicano: introducendo forme più complesse di vita economica e un livello generalmente “più alto” di vita culturale, si sarebbero ottenuti altrettanti cambiamenti di pensiero. Così, ad esempio, l’eccellente memoria naturale dell’uomo primitivo nel processo di sviluppo culturale diminuisce lentamente riducendosi infine a zero; in questo aveva profondamente ragione Baldwin quando sosteneva che ogni evoluzione è nella stessa misura involuzione, cioè che ogni processo di sviluppo racchiude in sé, come sua componente costitutiva, i processi inversi di involuzione e di estinzione delle vecchie forme. Sarebbe sufficiente confrontare la memoria del messaggero africano, che trasmette parola per parola una lunga missiva del capo di una qualsiasi tribù africana e che usa esclusivamente la memoria naturale eidetica, con la memoria “dell’ufficiale dei nodi” peruviano, le cui funzioni erano la legatura e la lettura dei quipu, per vedere in che direzione va lo sviluppo della memoria umana con la crescita della cultura e, anzitutto, da che cosa e come viene guidato. 46 «Il pensiero primitivo, dotato di una sua logica specifica, è un pensiero per complessi», afferma Vygotskij, introducendo qui il termine che utilizzerà in Pensiero e linguaggio e che farà corrisponderee alla seconda fase dello sviluppo dei concetti nel bambino. «Un tale pensiero e una tale logica, come vediamo, si basano su complessi: i complessi sono costituiti da legami concreti, e questi legami concreti, certamente, possono esistere in gran numero per lo stesso oggetto» (Vygotskij – Lurija, 1930, p, 106) e proprio il pensiero per complessi fonda la logica della partecipazione. 69 “L’ufficiale dei nodi” è, nella scala dello sviluppo culturale della memoria, ad un livello superiore del messaggero africano, non perché la sua memoria naturale è superiore, ma perché egli ha imparato ad utilizzare meglio la sua memoria, a dominarla mediante segni artificiali. Saliamo ancora di un gradino ed esaminiamo la memoria che corrisponde allo stadio successivo nello sviluppo della scrittura […]. (Ibidem, p. 90). Le stesse argomentazioni “evoluzioniste” furono utilizzate per spiegare i dati etnografici raccolti da Lurija negli anni Trenta in Uzbekistan47 presso le comunità rurali da poco sottoposte ad un 47 All’epoca in cui gli psicologi storico-culturali scrivevano, l’Unione Sovietica fu sottoposta ad una massiccia campagna di alfabetizzazione. Nelle repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, gli psicologi storico-culturali ebbero modo di osservare un grande esperimento culturale: la combinazione tra la collettivizzazione e il diffondersi dell’istruzione formale offriva l’opportunità di studiare, per un breve periodo, l’interazione tra sviluppo culturale e sviluppo individuale in un’unica comunità. «Si doveva trovare il modo di dimostrare che i processi psicologici superiori (in prima linea i processi cognitivi) non sono affatto un semplice rispecchiamento della logica generale, ma hanno origini storiche e sociali, che anche processi come la generalizzazione e il pensiero concettuale, la deduzione e l’inferenza logica, non sono universali ma risalgono a fattori di tipo sociale, in stretto collegamento con le forme generali delle azioni sociali umane, e che la loro struttura si modifica nettamente al mutare dei modi di vita sociale. L’inizio degli anni’30 era un periodo particolarmente adatto per condurre la necessaria sperimentazione. Nelle regioni più remote del nostro paese, particolarmente nelle Repubbliche dell’Asia Centrale, la Rivoluzione era arrivata un po’ in ritardo rispetto alla Russia europea. Era appena ricominciata l’effettiva ricostruzione sociale, attraverso modificazioni fondamentali nella vita economica (sostituzione del lavoro agricolo individuale con le fattorie collettive), mentre si istituiva un’ampia rete di scuole per gli analfabeti e un gran numero di giovani aveva per la prima volta l’opportunità di accedere alla cultura moderna o anche solo a forme elementari di scolarizzazione. Allo stesso tempo, le vecchie tradizioni, che sappiamo quanto siano rigide, sopravvivevano immutate. Non era forse quello il momento migliore per osservare i cambiamenti intervenuti nei processi cognitivi e mostrare l’impatto delle modalità di vita sociale sul loro sviluppo? L’idea di inviare nelle Repubbliche asiatiche un’apposita spedizione psicologica nacque verso la fine degli anni’20 e nel 1930-31 si organizzarono due spedizioni in Asia Centrale (ma si sarebbero potuti scegliere per la ricerca su campo anche certi remoti villaggi russi). Vygotskij impostò il programma dei lavori e la ricerca ebbe inizio […]. Si formulò tutta una serie di interrogativi da indagare: la percezione dei colori e delle Gestalt visive ha la stessa forma, che si suppone universalmente stabile? I processi di generalizzazione e astrazione sono gli stessi che studiano i logici e gli 70 massiccio programma di alfabetizzazione (ritenuta foriera di una «trasformazione mentale») e di mutamento economico (politiche di collettivizzazione che alterarono profondamente le forme dell’attività economica e l’organizzazione sociale). Allo scopo di valutare «lo sviluppo mentale» dei soggetti in rapporto alle attività che svolgevano e al grado di scolarizzazione cui erano state sottoposte, Lurija utilizzò, tra le altre cose, il test Stanford-Binet. Questo test, sul quale avremo modo di tornare successivamente, era basato in generale sulla teoria di Jean Piaget e prevedeva compiti di classificazione, logica e memoria. Un esempio di problema logico su cui Lurija testava adulti di diversi gradi di istruzione era il sillogismo. Egli riportò che alla richiesta di fare inferenze in base alle premesse del sillogismo, gli intervistati scolarizzati risolvevano il problema come atteso, mentre non avveniva altrettanto per quelli non istruiti. Gli stessi risultati si ottenevano nei compiti di classificazione e di memoria. Le deduzioni principali che gli psicologi trassero dal loro lavoro nelle regioni dell’Asia Centrale sono così riassunte da Lurija: vi sono marcati cambiamenti nella natura dell’attività cognitiva e nella struttura dei processi mentali strettamente associati all’assimilazione di nuove sfere dell’esperienza sociale. Le forme più elementari di attività cognitiva iniziano ad andare al di là della stabilizzazione e della riproduzione dell’attività pratica individuale, e cessano di essere puramente concrete e situazionali. L’attività cognitiva umana diviene parte di un più ampio sistema dell’esperienza umana generale, che intanto si è stabilizzata nel processo della storia sociale, codificato nel linguaggio. (Cit. in, Cole, 1996, p. 152). psicologi di vari paesi, secondo modalità specifiche alle rispettive culture? In che modo ragionano e deducono soggetti analfabeti provenienti da ambienti sociali diversi? Come procedono nella soluzione dei problemi? Esistono differenze fondamentali non solo nel contenuto, che sarebbe ovvio, ma anche nelle strutture psicologiche dei processi cognitivi? Infine (ma non era certo l’ultima delle nostre curiosità), mutamenti rapidi e radicali nella vita sociale, un’autentica rivoluzione sociale e culturale, si traduce in profonde modificazioni psicologiche delle persone coinvolte?» (Lurija, 1976, pp. 48-49). 71 Dalla stessa ricerca emerse inoltre che la struttura psicologica del pensiero logico deduttivo non è una caratteristica universale del pensiero, e che tutti i processi cognitivi «non scaturiscono da alcun universale logico, ma dipendono invece profondamente dalle forme pratiche della vita sociale e sono creati e trasformati ad opera del processo storico di sviluppo della società» (Lurija, 1976, p. 55). Un’importante conseguenza di questa conclusione riguarda la necessità, ribadita dallo stesso Lurija, di partire dalla vita pratica e sociale delle persone per «impostare correttamente i problemi di fondo delle leggi psicologiche che governano i processi cognitivi» e un rifiuto integrale del test di Stanford-Binet per misurare il livello di sviluppo del pensiero nelle culture non alfabetizzate. Infatti, Lurija osservò che i soggetti da lui studiati erano in grado di ragionare e avanzare deduzioni logiche su argomenti pratici: in tal caso mostravano eccellenti capacità di giudizio ed erano in grado di trarre le “corrette” conclusioni48. Mentre il risalto alla struttura mediata dei processi cognitivi e la “storicità” della natura della mente sono il postulato della prima teoria storico-culturale, saranno gli sviluppi successivi di tale teoria che, a partire dagli anni Sessanta e Settanta insisteranno fermamente sull’importanza dell’azione mediata in un contesto “rimediando” in tal modo all’apparente contraddizione in cui Vygotskij e colleghi cadono laddove esprimono giudizi di carattere generale sul modo di pensare 48 Questo tipo di ricerca è stato replicato in altre parti del mondo da Cole, Gay, Glick et al., (1971); Fobih, (1979); Scribner, (1975, 1977); Sharp, Cole, Lave, (1979); Tulviste, (1991). Ad esempio, se agli intervistati, rispetto al sillogismo, veniva chiesto non di trarre una conclusione ma di limitarsi a valutare se le premesse ipotetiche si accordavano logicamente alle conclusioni del ricercatore, erano disposti a considerare le relazioni logiche tra le asserzioni (Cole et al., 1971). Il sillogismo appartiene a un genere linguistico specialistico, che richiede pratica per essere padroneggiato (Scribner, 1977). La disponibilità ad accettare una premessa che non può essere verificata, e a ragionare su di essa, è tipicamente “scolastica”. Questo tipo di test di abilità logica riflette un addestramento piuttosto specifico ad una forma linguistica. 72 degli individui basandosi sulla storia del pensiero e delle culture a tecnologia avanzata. Come ha fatto notare Michael Cole l’uso di strumenti implica sia la mediazione che la specificità del contesto, e un approccio contesto specifico porta con se un’accidentalità storica dei processi mentali. Gli psicologi storico-culturali russi avevano ragione ad insistere sulla natura mediata della mente e sull’aspetto strumentale dei mediatori ma, affermando l’esistenza di ampie differenze culturali nel pensiero, non applicavano la teoria secondo la quale processi e contenuti del pensiero differiscono a seconda di particolari circostanze. Considerare la mediazione degli strumenti come fulcro del pensiero comporta, logicamente, l’inclusione di restrizioni del pensiero a livello di contesto: tutti gli strumenti devono simultaneamente conformarsi alle costrizioni che emergono dall’attività che essi mediano, nonché alle caratteristiche fisiche e mentali degli esseri umani che li utilizzano. Non esistono strumenti universali, svincolati dal contesto, indipendenti da compiti e agenti […]. Fin tanto che vi sono differenze nel genere di problemi riconosciuti e inglobati nelle pratiche culturali nelle diverse società, sarà necessario adottare, conseguentemente, la posizione del relativismo culturale: nessuna nozione universale che riguardi una caratteristica psicologica unica, generale, che sia denominata “livello di pensiero” o con qualunque altro nome surrogato, potrà mai essere universalmente appropriata. (Cole, 1996, pp. 153-155). 1.2 Un approccio culturale all’ontogenesi Lo sviluppo ontogenetico si inserisce dunque all’interno di un complesso sistema “in sviluppo”, che riguarda contemporaneamente filogenesi e storia culturale: esso è intrinsecamente radicato nell’eredità che gli uomini condividono alla nascita in quanto membri della specie e della storia culturale della loro comunità. 73 Il retaggio filogenetico ci restituisce innanzitutto una condizione d’immaturità psicobiologica del neonato al momento della nascita49. La prole della specie umana è inetta e presenta una condizione di “incompetenza sostanziale”, in quanto è incapace di sopravvivere da sola. Inoltre, a differenza degli altri primati, i neonati50 umani impiegano molto più tempo a raggiungere la maturità (condizione di prematuranza). Tale condizione è il risultato di un compromesso biologico tra le dimensioni e la conformazione del canale da parto della donna da un lato e le notevoli dimensioni del cervello e della scatola cranica del feto dall’altro. Se il cervello fosse stato più grande, il parto sarebbe potuto 49 Ricordiamo che al momento della nascita il bambino ha già alle spalle nove mesi di vita “prenatale”. Oltre a sviluppare il patrimonio genetico trasmessogli dai genitori, il feto è comunque esposto a una serie di fattori ambientali, a causa dello stretto rapporto con la madre nella fase intrauterina. L’ambiente uterino protegge e nutre l’organismo in formazione (lo mantiene ad una temperatura costante e, attraverso il liquido amniotico, lo preserva dagli urti); tuttavia attraverso il sangue materno, oltre al nutrimento e all’ossigeno, passano anche sostanze chimiche, ormoni e virus che possono lasciare tracce sullo sviluppo successivo. Inoltre, se il sangue materno è carente di sostanze necessarie all’organismo in crescita, lo sviluppo armonico di organi e apparati può risultare alterato. Il feto dimostra altresì di possedere meccanismi elementari di apprendimento (familiarizzazione prenatale) come l’assuefazione (che si traduce in una diminuzione del battito cardiaco in corrispondenza della sovraesposizione ad un determinato stimolo), il condizionamento classico, e l’inversione delle sillabe. Queste forme di apprendimento consentono al bambino di entrare più facilmente in contatto con la madre al momento della nascita. «In effetti gli esseri umani apprendono dalla cultura in cui vivono già prima di nascere. L’esperienza maturata quand’era feto consente al neonato di individuare molti aspetti della sua vita prenatale. È in grado di riconoscere la voce della madre, di distinguere tra racconti familiari e sconosciuti (ascoltati ripetutamente nelle ultime settimane prima della nascita) e persino di discriminare tra la lingua madre e altre lingue» (Rogoff, 1990, p. 65). Occorre anche puntualizzare che il bambino viene al mondo con le competenze necessarie per sopravvivere all’ambiente extrauterino (il riflesso respiratorio mette in funzione i polmoni, che consentono al bambino di prendere ossigeno dopo che il cordone ombelicale è stato reciso; mentre il riflesso di suzione gli permette di ingerire cibo), ma il passaggio dalla vita interuterina a quella extrauterina richiede un adattamento di tutti gli organi alle nuove esigenze e una diversa modalità di interdipendenza dalla madre (o da chi si prende cura del bambino). Per una rassegna dei principali mutamenti fisici, motori, psichici e affettivi del bambino dalla fase prenatale alla fase adulta cfr. Camaioni – Di Blasio, 2002. 50 La crescita postnatale viene suddivisa solitamente in cinque fasi: il periodo neonatale (dalla nascita al ventottesimo giorno); la prima infanzia (da zero a due anni); la seconda infanzia (da due a sei anni); la terza infanzia (da sei a dieci anni); l’adolescenza (da 10 anni al completo sviluppo sessuale). 74 diventare un evento troppo rischioso. L’esito di tale compromesso è uno stato di rilevante immaturità biologica al momento della nascita, che implica un prolungamento dello stadio fetale in ambiente extrauterino (neotenia). In particolare al momento della nascita il cervello umano è solo il 23% delle sue dimensioni finali (rispetto al 65% nei macachi e al 41% negli scimpanzé). Solo a tre anni il cervello umano è all’80% circa del suo sviluppo totale. (Anolli, 2006a, p. 61). Il cervello si sviluppa per tre quarti dopo la nascita e ciò favorisce in modo rilevante la flessibilità e l’apprendimento in funzione dell’esperienza, che svolge un ruolo importante nella formazione e organizzazione dell’architettura celebrale51. Uno dei più recenti contributi in campo neurobiologico è quello fornito dagli studiosi interessati a fondare una “fisiologia della mente” capace di connettere “mente” e “corpo”, e di considerarli nella loro costitutiva unità52. In tale prospettiva, una particolare centralità 51 «Lo sviluppo celebrale (e soprattutto corticale) fin da subito è influenzato in modo radicale dalle condizioni culturali dell’ambiente. Teniamo presente che il cervello del neonato continua a crescere a ritmi fetali assai rapidi dopo la nascita. In particolare, si stima che la sua corteccia celebrale cresca al ritmo di due milioni di sinapsi al minuto (Rose, 2005). Si tratta di collegamenti nervosi che, in buona parte hanno luogo a seguito dell’esposizione a stimoli ambientali, dalla percezione del volto materno all’allattamento, ai rumori esterni e così via» (Anolli 2006a, p. 61). A ciò si aggiunga che il bambino presenta, al momento della nascita un repertorio di riflessi (rotazione del capo, suzione, Moro, Babinskiy, presa, marcia autonoma) un tempo definiti «riflessi primari» in quanto si riteneva che il cervello del neonato funzionasse come un insieme di reazioni motorie involontarie a determinati stimoli, in opposizione alle reazioni volontarie dell’età adulta. Questa definizione e concezione viene oggi rifiutata dalla comunità scientifica. «Già nelle prime fasi di sviluppo il sistema nervoso è capace di produrre spontaneamente movimenti ritmici (come la suzione e la respirazione) o fasici. La versione per la quale il neonato è un organismo inerte finché non viene stimolato è stata soppiantata da una diversa concezione circa il funzionamento del sistema nervoso e il comportamento del neonato, che non soltanto reagisce agli stimoli ma è anche capace di produrre spontaneamente movimenti autoregolati. Tra la concezione neurofisiologica classica e quella moderna la differenza è profonda: da una parte il neonato viene visto come un insieme meccanico di sistemi isolati, inerti fino a quando non vengono stimolati, dall’altro come un organismo attivo, composto da sottosistemi interconnessi, pronto a modulare la sua attività in funzione delle condizioni ambientali» (Camaioni - Di Blasio, 2002, p. 46). 52 «Per quanto sulle prime possa sorprendere, la mente esiste dentro e per un organismo integrato: le nostre menti non sarebbero quello che sono se non fosse per l’azione reciproca di corpo e cervello – nel corso dell’evoluzione, durante lo 75 occupano le teorie epigenetiche53 espresse nella teoria del darwinismo neuronale di Gerald Edelman e nella teoria dell’epigenesi per stabilizzazione selettiva di Jean-Pierre Changeux (Changeux Connes, 1989; Edelman, 1987, 1989, 1992). Il cervello, in questo ambito di studi, è “l’organo della mente”, nel senso che le manifestazioni del pensiero sono considerate un prodotto derivato e collegato all’organizzazione neuronale. Recuperando la teoria selettiva di origine darwiniana, questo paradigma contesta che il cervello sia una tabula rasa pronta ad essere istruita dall’ambiente; piuttosto, gli stimoli ambientali svolgono una funzione di “selezionare” le risposte dell’organizzazione neuronale fra tutte quelle previste dal patrimonio genetico. In tal modo l’ambiente funziona come “specializzatore” e allo stesso tempo sviluppo dell’individuo e nel momento presente. La mente dovette essere prima per il corpo, o non sarebbe potuta essere. Sulla base del riferimento che il corpo fornisce con continuità, la mente può allora avere a che fare con molte altre cose, reali e immaginarie. Quest’idea si radica sui seguenti enunciati: 1) il cervello umano e il resto del corpo costituiscono un organismo non dissociabile, integrato grazie all’azione di circuiti regolatori neurali e biochimici interagenti (che includono componenti endocrini, immunitari e nervosi autonomi); 2) l’organismo interagisce con l’ambiente come un insieme: l’interazione non è del solo corpo né del solo cervello; 3) i processi fisiologici che noi chiamiamo “mente” derivano dall’insieme strutturale e funzionale, piuttosto che dal solo cervello: soltanto nel contesto dell’interagire di un organismo con l’ambiente si possono comprendere appieno i fenomeni mentali. Il fatto che l’ambiente sia, in parte, un prodotto dell’attività stessa dell’organismo semplicemente sottolinea la complessità delle interazioni che bisogna tener in conto […]. Quando si parla di cervello e di mente, non è consuetudine fare riferimento agli organismi. Di fronte all’evidenza che la mente scaturisce dall’attività dei neuroni, si discute solo di questi, come se il loro funzionamento potesse essere indipendente da quello del resto dell’organismo […]. L’attività mentale – nei suoi aspetti più semplici come in quelli più alti – richiede sia il cervello che il resto del corpo. Quest’ultimo, a mio avviso, fornisce al primo più che un puro sostegno e una modulazione: esso fornisce la materia di base per le rappresentazioni celebrali» (Damasio, 1994, pp. 24-25). 53 Il termine «epigenetica» è stato utilizzato da Waddington (1957) per indicare che l’espressione dei programmi genetici assume differenti percorsi di sviluppo nella produzione di organi e tessuti in relazione alle condizioni ambientali. «A partire da uno stadio iniziale di cosiddetta totipotenzialità, lo sviluppo consiste nel progressivo restringimento dei percorsi e degli esiti evolutivi possibili in funzione congiunta sia delle informazioni genetiche disponibili sia delle condizioni ambientali contingenti e causali (epigenesi probabilistica). All’interno dei cosiddetti paesaggi epigenetici si ottiene così una specifica canalizzazione dello sviluppo, intesa come espressione dei vincoli e delle opportunità offerti congiuntamente dai fattori genetici e da quelli ambientali» (Anolli, 2006a, p. 63). 76 come “riduttore” delle competenze dei soggetti con cui è in relazione54. Changeux propone un esempio molto chiaro di questo processo, riferendosi allo sviluppo del linguaggio. Senza voler in questa sede ripercorrere gli stadi di apprendimento del linguaggio, (che seguono lo stesso ordine nelle comunità culturali più disparate) ci basti sottolineare che i bambini, nei loro primi mesi di vita, dispongono di una vastissima gamma di possibilità foniche e sonore. Utilizzano un balbettio amplissimo che, progressivamente, con l’uso e con l’esercizio vocalico, tendono ad adeguare ai suoni prodotti e sentiti nel proprio ambiente: alla straordinaria varietà iniziale, segue una riduzione di suoni, una “selezione” che determina la specializzazione fonetica, legata al sistema linguistico della comunità di appartenenza. Il neonato, quindi, nasce con la capacità di acquisire le lingue più diverse, ma con il graduale apprendimento della propria lingua madre, va progressivamente a limitare il proprio patrimonio vocalico55. Ma per operare in tal modo il cervello deve entrare nel mondo possedendo una robusta dose di “conoscenza innata” su come regolare se stesso e il resto del corpo. Via via che il cervello incorpora 54 «Alla nascita è presente la maggior parte dei neuroni (cellule celebrali), anche se le connessioni tra i neuroni (sinapsi) sono ancora imperfette. Inoltre, sulla superficie cellulare si sono formate quelle strutture (assoni e dendriti), attraverso cui sostanze chimiche e informazioni vengono ricevute e inviate da una cellula all’altra. Paradossalmente all’inizio il numero di sinapsi, assoni e dendriti è molto superiore a quello che sarà poi il numero definitivo. In altri termini, si parte da una sovrapproduzione per passare ad una parziale eliminazione, e questo fenomeno riguarda anche il numero di neuroni (morte cellulare)» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 56-57). 55 «La rapidità di sviluppo del linguaggio del bambino dipende sia dalla capacità di percepire differenze nel linguaggio sia dall’esperienza nell’ascolto delle conversazioni degli altri (Jusczyk, 1997; Werker, Desjardins, 1995). Nel corso del primo anno di vita, egli diviene sempre meno sensibile alle differenze dei suoni che ascolta raramente, mentre presta sempre più attenzione alle caratteristiche proprie della lingua parlata da chi gli sta attorno. Fino a sei mesi, in ogni parte del mondo, la lallazione dei bambini si basa sugli stessi suoni, comuni a tutte le lingue. Ma tra i sei mesi e un anno, i bambini si “specializzano” nella loro lingua madre, e cominciano ad abbandonare i suoni che essa non utilizza» (Rogoff, 2003, p. 65). 77 rappresentazioni disposizionali di interazioni con entità e scene significative per la regolazione innata, esso accresce le possibilità di includere entità e scene che possono o no essere significative per la sopravvivenza. E allorché ciò avviene, il nostro senso crescente di quel che il mondo esterno può essere viene appreso come modificazione dello spazio neurale nel quale corpo e cervello interagiscono. Non è solo la separazione tra mente e cervello a essere mitica: probabilmente anche la separazione tra mente e corpo è altrettanto fittizia. La mente è incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel cervello. (Damasio, 1994, pp. 175-176). La neotenia produce inoltre una condizione di dipendenza fondamentale e prolungata dagli adulti che si prendono cura del bambino (in particolare dalla madre): essi costituiscono un sistema di supporto indispensabile per la crescita e il primo “strumento” che consente al bambino di appropriarsi della cultura in cui vive. Le cure parentali sono intrinsecamente indirizzate dalla cultura di riferimento e rimandano a precisi stili educativi; esse sono inoltre espressione di etnoteorie parentali ovvero di sistemi sufficientemente espliciti di credenze su come i bambini vadano allevati56. Il comportamento del bambino va considerato alla luce della relazione – biologica e insieme culturale – instaurata con le persone che lo accudiscono, e delle usanze culturali che incoraggiano la sua partecipazione alla vita della comunità. Anche quando non “insegnano” esplicitamente qualcosa ai bambini, gli adulti ogni giorno sono presi a modello in ciò che fanno, e inoltre strutturano l’ambiente, le interazioni e i comportamenti dei bambini in modi rispondenti alle forme di apprendimento locali. Nel corso dell’infanzia il bambino partecipa sempre più attivamente alle attività socioculturali, perfezionando il modo di gestire le relazioni con gli altri, che organizzano il processo di apprendimento, lo guidano nelle 56 Cfr. anche Tobin, Wu, Davidson, 1989. 78 attività condivise, e lo aiutano ad adattare il livello di partecipazione al grado di competenza raggiunto […]. Le interpretazioni locali di queste forme di sostegno interpersonale all’apprendimento si sono formate in seguito a una lunga evoluzione biologica e culturale. Nella nostra specie, ogni generazione viene al mondo predisposta ad adottare gli usi e i costumi dei nostri antenati, grazie alla condivisione di una serie di attività promosse culturalmente. Ciò può spiegare il rapido sviluppo, nei bambini, della capacità di partecipare alle conoscenze e alle usanze culturali – imparando a tessere o a leggere, badando al bestiame o ai fratelli più piccoli, andando a scuola, o rispettando i particolari ruoli di genere previsti nelle comunità. Lo sviluppo delle differenze di genere e dei ruoli ad essi associati illustra in modo particolarmente efficace la natura “biologicamente culturale” dello sviluppo umano. (Rogoff, 2003, pp. 6667). Oltre a dover imparare a diventare soggetto culturalmente competente, il neonato è fin dalla nascita oggetto culturale: oggetto di un’interpretazione culturale da parte degli adulti. Mettendo in luce l’eterocronia tra domini genetici (di norma, il mutamento culturale procede più rapidamente di quello filogenetico e più lentamente di quello ontogenetico) Cole (1996) analizza i meccanismi di prolessi57 che condizionano lo sviluppo mentale dell’individuo. I genitori iniziano a parlare quasi subito del e al bambino, a volte prima ancora che nasca, e questo sarebbe motivato in parte da caratteristiche filogeneticamente determinate (le differenze anatomiche tra maschio e femmina), e in parte da caratteristiche culturali che i genitori hanno appreso dalla propria esperienza 57 «La rappresentazione di un atto o sviluppo futuro come esistente nel presente» (Cole, 1996, p. 163). Il materiale utilizzato da Cole in questa ricerca è costituito da registrazioni di conversazioni tra ostetrici e genitori al momento della nascita dei bambini. 79 personale (compresi quelli che ritengono essere i tratti distintivi di bambini e bambine). Utilizzando questa informazione, derivata dal loro passato culturale e dando per scontata la continuità culturale (ossia postulando che il mondo in cui vivrà il figlio sarà abbastanza simile a quello in cui hanno vissuto loro), i genitori progettano un possibile futuro per il bambino […]. Due caratteristiche di questo sistema di trasformazioni sono essenziali per capire il ruolo della cultura nel costruire lo sviluppo del bambino. La prima, più ovvia, è un esempio di prolessi: i genitori rappresentano il futuro nel presente. La seconda caratteristica, forse meno ovvia, è che il richiamo (puramente ideale) del passato operato dai genitori e il futuro che essi immaginano per il bambino diventa una restrizione materializzata fondamentale che grava sulle esperienze di vita del bambino nel presente […]. In altre parole, gli adulti creano letteralmente diverse forme materiali d’interazione basate su concezioni del mondo derivate dalla loro esperienza culturale. È opportuno notare come questa situazione differisca da quella insita nel concetto di sviluppo basato sulla teoria dell’apprendimento. Gli adulti non si limitano ad ampliare il repertorio già esistente di comportamenti del bambino e a modificarlo poco alla volta, piuttosto per loro, il bambino è un oggetto culturale, ed è in questi termini che lo trattano. (Cole, 1996, pp. 164165). In questo caso possiamo ulteriormente chiarire l’enfasi posta dagli psicologi storico-culturali sull’origine sociale delle funzioni psichiche superiori: esiste un’enorme differenza tra la socialità di alcune specie animali e l’essere “sociale” proprio degli esseri umani. Il termine “cultura”, in questo caso è riferito alle forme di attività richiamate alla memoria che sono ritenute idonee, mentre con il termine “sociale” si designano le persone il cui comportamento si conforma alla struttura culturale data e la pone in atto […]. 80 Solo un essere umano che utilizza la cultura potrà “penetrare” nel passato culturale, proiettarlo nel futuro e quindi “riportare” quel futuro concettuale nel passato, al fine di creare l’ambiente socioculturale del nuovo venuto. Infine, l’analisi dei commenti dei genitori nel momento in cui vedono per la prima volta il figlio ci aiuta a capire come la cultura contribuisca sia alla continuità che alla discontinuità dello sviluppo individuale. Pensando al futuro dei figli, i genitori presumono che le cose continueranno ad andare come sono sempre andate. Tale ipotesi di stabilità ricorda l’immagine eloquente proposta da White (1942), che vede la mente culturalmente costituita, dal punto di vista temporale, come “un continuum che si estende all’infinito, in entrambe le direzioni”. In tal modo, il medium culturale consente agli individui di “proiettare” il passato nel futuro, creando così un quadro interpretativo stabile, che viene poi riletto nel presente come uno degli elementi rilevanti della continuità psicologica. (Ivi). Lo sviluppo del bambino avviene dunque grazie all’interdipendenza intrinseca tra fattori biologici (informazioni genetiche) e condizioni ambientali, che si esprimono in termini di vincoli e possibilità offerte dalla nicchia ontogenetica nella quale cresce, una «nicchia ontogenetica eminentemente culturale» (Tomasello, 1999, p. 104). I bambini, come i piccoli di altre specie, crescono in un ambiente “arredato” dal lavoro delle generazioni precedenti, e mentre crescono essi incorporano letteralmente le forme del loro abitare, nel proprio corpo – in abilità, sensibilità e disposizioni specifiche. Ma non le portano nei propri geni, e nemmeno è necessario immaginarsi un qualche veicolo di trasmissione inter-generazionale di informazione – culturale piuttosto che genetica – per rendere conto della diversità dei modi di vita umani. (Ingold, 2001, p. 136). Come più volte sottolineato dalla scuola storico-culturale, proprium della “natura umana” è quello di produrre un mondo artificiale e convivere con esso. Tale convivenza implica che la stessa natura 81 umana si trasformi, venendo coinvolta in complessi processi di coevoluzione con gli «strumenti culturali». La cultura crea forme particolari di comportamenti; essa muta il tipo stesso dell’attività delle funzioni psichiche, innalza nuovi piani nel sistema in sviluppo del comportamento umano […]. Nel processo dello sviluppo storico l’uomo sociale cambia modi e criteri del suo comportamento, trasforma le disposizioni e le funzioni naturali, elabora e crea nuove forme di comportamento, specificatamente culturali […]. Quando parliamo di uno sviluppo culturale del bambino noi intendiamo indicare quel processo, corrispondente allo sviluppo psichico, che si compie nel corso dello sviluppo storico dell’umanità. […]. Sarebbe difficile respingere a priori l’idea che il tipo particolare dell’adattamento umano alla natura, che differenzia radicalmente l’uomo dagli animali e che rende per principio impossibile la semplice trasposizione delle leggi della vita animale (lotta per l’esistenza) nella scienza della società umana, che questo nuovo tipo di adattamento, che è alla base di tutta la vita storica dell’umanità, sia impossibile senza nuove forme di comportamento, di questo fondamentale meccanismo di equilibrazione dell’organismo con l’ambiente. Una nuova forma di rapporto con l’ambiente, sorta in presenza di determinati presupposti biologici, ma superante i limiti della biologia non poteva non dar vita a un sistema nuovo, qualitativamente diverso e diversamente organizzato, di comportamento. (Vygotskij, 1930-31, p. 68). Nel corso dell’ontogenesi, vi è un mutamento strutturale fondamentale: un organismo che vive in un ambiente culturale, ma che non è in grado di farne uso, diviene un organismo per il quale la mediazione delle azioni attraverso la cultura è una “seconda natura” (Cole, 1996). In questo processo rivestono un’importanza fondamentale gli artefatti, mediatori materiali/ideali dell’esperienza, strumenti-vincolo per l’azione. I bambini non nascono con la competenza necessaria a mediare l’azione attraverso gli artefatti, ma apprendono ad utilizzarli 82 nel contesto sociale e attraverso le persone che si prendono cura di loro: «l’apprendimento così concepito non coincide con lo sviluppo, ma attiva lo sviluppo mentale infantile, risvegliando quei processi evolutivi che, al di fuori di esso, sarebbero inattuabili» (Vygotskij, 1930-31, p. 307). Secondo questa ipotesi interpretativa l’apprendimento è definibile in senso lato come cambiamento e quindi trasformazione58. Nelle prime fasi della vita umana viene solitamente designato con il termine “sviluppo”, indipendentemente dalle assunzioni teoriche più o meno innatiste o ambientaliste degli studiosi che si servono di questa metafora di origine biologica59; ma la contrapposizione tra sviluppo e 58 Sull’identità tra apprendimento e cambiamento (sviluppo, adattamento intelligente ed evoluzione) e sui diversi “tipi” di cambiamento, cfr. Bateson, 1979. 59 «Per molto tempo nella psicologia infantile ci si è rifiutati di considerare l’esperienza culturale del bambino come una forma di sviluppo. Di solito si diceva: si può considerare sviluppo soltanto ciò che procede dall’interno, ciò che viceversa procede dall’esterno è apprendimento, educazione, perché non esiste in natura un bambino che maturi per via naturale le sue funzioni aritmetiche, mentre, non appena raggiunge l’età scolare, o appena un po’ prima, apprende per via esterna, dalle persone che lo circondano, una serie di concetti aritmetici e di operazioni ad essi relative. […]. Ogni nuova forma dell’esperienza culturale non è semplicemente esterna, indipendente dalla situazione dell’organismo in un certo momento dello sviluppo; in realtà l’organismo, assimilando le influenze esterne, e assimilando una serie di forme del comportamento, assimila queste in dipendenza dal livello dello sviluppo psichico in cui si trova. Accade qualcosa che ricorda ciò che, nella crescita del corpo, si chiama nutrimento, cioè si verifica l’assimilazione di determinate cose dall’esterno, di materiale esterno, che tuttavia viene elaborato e assimilato dall’organismo in modo specifico. […]. Se a qualcuno riuscisse di dimostrare sperimentalmente che è possibile esser immediatamente capaci di una qualsiasi operazione intellettuale, considerata nel suo stadio più evoluto, si sarebbe con questo dimostrato sperimentalmente che si tratta non di sviluppo, ma di apprendimento esterno, e cioè di una qualche modificazione in funzione di influenze puramente esterne. L’esperimento ci insegna, viceversa, che ogni azione esterna è il risultato di una legge genetica interna. Sulla base di prove sperimentali possiamo dire che nessun bambino, persino un bambino prodigio, può raggiungere istantaneamente l’ultimo stadio di sviluppo delle operazioni senza aver percorso il primo e il secondo. In altre parole, lo stesso instaurarsi di una nuova operazione intellettuale si fraziona in una serie di stadi internamente collegati l’un l’altro e tali che ognuno di essi trapassa nell’altro. […]. Abbiamo tutti i fondamenti per applicare al processo di accumulazione dell’esperienza interna, il concetto di sviluppo» (Vygotskij, 1930-31, p.206). 83 apprendimento è per lo più strumentale a certe impostazioni teoriche60. L’apprendimento è una condizione essenziale ed ineliminabile del processo di crescita, una dimensione del vivere; esso si configura come sviluppo eminentemente contestualizzato e storico. Il concetto di apprendimento nella teoria storico-culturale viene declinato in termini processuali che ne evidenziano sia la funzione adattiva, biologicamente definibile, che la funzione di crescita e cambiamento. Quest’ultima è culturalmente “costruita” come peculiare modalità di interpretare e selezionare esperienze, eventi, contenuti di conoscenza sulla base di specifici orientamenti di significato. L’apprendimento può essere dunque inteso come un processo significativamente connotato dalla configurazione cognitiva del soggetto (al quale viene riconosciuto un ruolo attivo di costruzionedecostruzione di strutture e schemi di conoscenza) e delle determinazioni bio-culturali che l’hanno prodotta, ma anche sostanzialmente modulato dalle relazioni e dalle caratteristiche dei contesti in cui si produce. Attraverso un significativo recupero del pensiero di Vygotskij le teorie storico-culturali a noi più contemporanee, propongono un’interpretazione dell’apprendimento come esperienza mediata e come processo socialmente condiviso e culturalmente costruito, in cui giocano un ruolo essenziale le relazioni intersoggettive e le risorse culturali presenti in un determinato contesto61. 60 Ad esempio, in una concezione teorica di tipo piagetiano, il cambiamento è spiegato in termini di un evolversi interno e, in un certo senso, necessario delle strutture, mentre all’apprendimento è riservato un ruolo del tutto marginale di facilitazione del passaggio da uno stadio all’altro in determinate condizioni di maturazione cognitiva. Per contro, in un approccio behaviorista si attribuisce all’apprendimento la funzione di modellare l’individuo, che è considerato plasmabile attraverso l’imitazione e il rinforzo. 61 Si confrontino ad esempio le ricerche di Feuerstein (1988), quelle di Wertsch (1985), Cole (1996), Resnick (1994), Rogoff (2003, 1990), Lave e Wenger (1991), gli studi che dagli anni Settanta ad oggi si sono prodotti nell’ambito del Laboratory of Comparative Human Cognition (in cui si evidenzia la funzione giocata dagli 84 La tesi centrale della teoria storico-culturale è che la struttura e lo sviluppo dei processi psicologici umani emergano dall’attività pratica (originariamente esterna e interpsicologica) mediata culturalmente e soggetta di sviluppo storico (Cole, 1996). Prima di riprendere ciascuno dei termini implicati in questa formulazione, dedicheremo un paragrafo alla competenza sociale del bambino e quindi alla sua particolare predisposizione all’apprendimento. 1.2.1 Il bambino sociale «L’apprendimento umano presuppone una natura sociale specifica e un processo attraverso il quale i bambini si inseriscono gradualmente nella vita intellettuale di coloro che li circondano» (Vygotskij, 1978, p. 130). Negli ultimi decenni le ricerche psicologiche sulle competenze percettive e cognitive precoci si sono arricchite di nuovi dati che hanno contribuito a modificare l’immagine del neonato da mero recettore di stimoli, a soggetto attivo dotato di capacità che hanno bisogno dell’interazione con l’ambiente per potersi dispiegare ed evolvere. Nel neonato, assieme alle capacità percettive62, risulta particolarmente consistente la competenza sociale. artefatti e dai codici culturali nella costruzione del sapere e della conoscenza a livello interindividuale e intraindividuale) e il culturalismo di Bruner. 62 «La percezione [al contrario della sensazione] è un processo attivo e dinamico di elaborazione degli stimoli sensoriali che procede attraverso l’analisi, la selezione, il coordinamento e l’elaborazione delle informazioni. Quali rapporti esistono tra sensazioni e percezioni nel corso dello sviluppo? Sappiamo che i neonati sono dotati di capacità sensoriali e, fin dalla nascita, sono in grado di rispondere a stimoli luminosi, acustici e di reagire a sollecitazioni tattili e gustative […]. Già dal secolo scorso sono state proposte prospettive differenti [da quella empirista], basate sull’idea che la strutturazione percettiva della realtà contenga elementi già organizzati a cui l’essere umano è predisposto e che, quindi, può cogliere in modo immediato grazie alla sua dotazione innata. Non sarebbe così necessaria un’elaborazione mentale, vale a dire un’interpretazione cognitiva di interpretazione dei dati percepiti, poiché esisterebbe una corrispondenza tra le 85 La preferenza precoce per il volto umano, più volte accertata, non sembra oggi essere oggetto di dibattito63. Sono in molti a ritenere che tale preferenza sia innata e abbia valore adattivo in quanto servirebbe a favorire la relazione tra esseri umani, in particolare la relazione di attaccamento alla madre. Il bambino è inoltre in grado di distinguere un volto allegro da uno triste e di imitare le espressioni di coloro che interagiscono con lui (Meltzoff, Moore 1977, 1989). Abbiamo poi visto come il processo di abituazione alla voce della materna sembri essere in atto già nello stadio fetale; mentre fin dalle prime fasi dello sviluppo i bambini riconoscono le altre persone come esseri animati, distinti dagli oggetti fisici64. strutture percettive di cui è dotato l’organismo e la struttura della realtà (qualità della forma, valore dell’insieme non ricavabile dalla semplice somma delle parti, ecc.) non riconducibile agli elementi forniti dalla sensazione. In anni recenti, la sperimentazione psicologica ha fornito un notevole contributo allo studio dello sviluppo percettivo dei bambini, sottolineando come essi nascano con una gamma di facoltà percettive assai più ampia di quella ipotizzata dagli empiristi, anche se non vi è dubbio che la stessa capacità infantile di apprendere dall’esperienza sia nettamente superiore a quella ipotizzata dagli innatisti. Riconoscere l’esistenza di abilità percettive e di predisposizioni innate non deve, tuttavia, far dimenticare né i limiti del neonato né l’importanza dell’apprendimento che si realizza nei primi anni di vita. Le capacità precoci ma ancora rudimentali del neonato di percepire ed esplorare non sono, infatti, che punti di partenza di un lungo processo di progressiva comprensione dell’ambiente. Grazie all’esplorazione e all’esperienza, il piccolo dell’uomo scopre sia le caratteristiche permanenti di ciò che lo circonda sia le proprietà transitorie di oggetti e di persone. Sin dall’inizio però il processo di esplorazione dell’ambiente non è casuale e col trascorrere del tempo, diventa sempre più sistematico e mirato, permettendo di apprendere efficacemente come sia strutturato il mondo» (Camaioni – Di Blasio, 2002, pp. 6061). 63 «Nell’arco di tre o quattro giorni di vita, il neonato è capace di riconoscere e discriminare il volto della madre grazie all’attivazione di un sistema sottocorticale situato nel collicolo superiore. Infatti, dopo 9-12 ore di esposizione visiva al volto materno durante l’allattamento, il neonato preferisce e dedica più tempo al volto della madre rispetto a quello di un’altra donna che abbia lo stesso colore dei capelli e della pelle» (Anolli, 2006a, p. 65). Per una rassegna degli studi sulla percezione e l’attenzione selettiva per il volto da parte del bambino cfr. Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 61-80. 64 «Persino un bambino molto piccolo tratta le persone in modo diverso dagli oggetti. Se vede un oggetto in movimento che poi si ferma, perde ogni interesse; se invece interagisce con una persona il cui volto si fa improvvisamente immobile, rimanendo tale a lungo, si spaventa (Tronick et al. 1978). Il bambino si aspetta non solo che un volto si muova, ma anche che lo faccia in modo da rispondere adeguatamente alle sue azioni. […]. Per quanto ne sappiamo la nostra specie non presenta caratteristiche particolari rispetto alla conoscenza del mondo fisico: da tutti gli studi comparativi condotti sull’argomento è emerso che la stessa 86 Alcune di queste capacità sono tipiche dei primati e sono condivise da bambini e piccoli di scimmie antropomorfe, vi sono però due comportamenti sociali che fanno pensare che i bambini non siano semplicemente sociali come gli altri primati, ma piuttosto ultrasociali (Tomasello, 2005). Il primo riguarda il tentativo dei bambini di adeguarsi al comportamento degli adulti durante le prime interazioni sociali. Già poco dopo la nascita ripetono alcuni movimenti corporei degli adulti, specialmente quelli della bocca e della lingua: tirare fuori la lingua, aprire la bocca e muovere la testa; non essendosi mai guardati allo specchio è come se essi “sapessero” istintivamente che la lingua che vedono corrisponde a quella cosa che hanno in bocca e che non hanno mai visto (Meltzoff - Moore 1977, 1989). E’ stata inoltre osservata in bambini di sei settimane la protrusione della lingua a seguito dell’imitazione di un adulto che la muoveva da un lato all’altro della bocca (Meltzoff, 1995). E’ perciò possibile che l’imitazione neonatale rifletta non solo la tendenza del bambino a mimare i movimenti che conosce già, ma anche, in certo modo, a “identificarsi” con i conspecifici (Meltzoff e Gopnik 1993). Questa conclusione è in accordo con l’idea di Stern (1985) secondo cui l’adeguarsi dei bambini agli stati emozionali degli adulti è il riflesso di un processo di identificazione molto profondo. (Tomasello, 1999, p. 81). Il secondo comportamento tipico, di cui abbiamo trattato analizzando l’interazione adulto-bambino e il ruolo di sostegno degli adulti che si prendono cura di lui, è la capacità, poco dopo la nascita, di partecipare a protoconversazioni: interazioni sociali in cui adulto e conoscenza degli oggetti caratterizza sia il bambino sia altri animali, soprattutto i primati, i quali sembrano concepire il corpo proprio come gli esseri umani. La situazione tuttavia è radicalmente diversa nel caso della conoscenza sociale» (Bloom, 2004, p. 29). 87 bambino focalizzano l’attenzione l’uno sull’altro (guardandosi, toccandosi, “parlando” l’un l’altro) alternando i turni dell’interazione65. Benché queste interazioni possano assumere forme differenti nelle differenti culture – specialmente per quanto riguarda il tipo e l’entità del contatto visivo faccia a faccia – esse sembrano comunque essere un tratto universale dell’interazione adulto-bambino nella specie umana. (Ibidem, p. 80) A questo si aggiunga che a partire dal secondo mese di vita, appare il “sorriso sociale”66 che suscita un maggiore senso di connessione 65 «Colwyn Trevarthen, in origine zoologo, ma in seguito impegnato in un centro di studi cognitivi, fu tra i primi a notare la straordinaria sincronia tra gli schemi gestuali e vocali di un bambino piccolo e quelli di sua madre. La cosa non poteva essere spiegata, osservò, come un semplice, graduale “adattamento seriale” delle reazioni del bambino alla madre seguito dalla reazione materna al bambino e così via. Pareva piuttosto che assomigliasse a quel controllo di ordine superiore che Leshley considerava essenziale in tutti gli schemi interattivi o ricorsivi che hanno luogo in un intervallo di tempo definito, come avviene nel corso di un’esecuzione musicale o dell’uso di un linguaggio che implica delle regole lessicali o grammaticali. Ma nella situazione madre-bambino due organismi erano coinvolti nella creazione di questa sincronia estesa […]. Per cercare di dare una spiegazione del fenomeno, Trevarthen prese a prestito dal filosofo scozzese MacMurray il termine “intersoggettività”. Poco dopo Daniel Stern, uno psichiatra infantile che si occupava del legame fra la madre e il bambino piccolo, fu colpito dallo stesso fenomeno e lo chiamò “sintonizzazione” fra madre e figlio. Non ci volle molto tempo perché fiorissero gli studi su questo argomento appassionante […] mi limiterò a citare alcuni dei molti risultati interessanti che sono emersi: 1) c’è un’unità neurale nella corteccia umana preposta all’elaborazione del contatto percettivo da occhio a occhio, che ne evidenzia la base biologica; 2) mentre i piccoli dei primati non umani non sembrano caratterizzati da un’analoga preferenza per il contatto da occhio a occhio, ci sono abbondanti prove che anche le giovani scimmie, per decidere dove indirizzare la loro ricerca in un dato territorio, controllano la direzione dello sguardo di un altro animale che, nel corso di precedenti tentativi, aveva dimostrato di sapere dove era nascosto il cibo; 3) è stato osservato che spesso il comportamento sociale dei primati è basato sull’intento di ingannare in maniera piuttosto machiavellica i conspecifici, e questo suggerisce che debbano possedere una qualche forma di teoria della mente; 4) il contatto con gli occhi che si prolunga oltre un certo tempo, molto breve, scatena un comportamento antagonistico e minaccioso negli individui adulti di sesso maschile delle scimmie catarrine, e in particolare nei babbuini; ma neanche gli esseri umani lo prendono alla leggera» (Bruner, 1996, pp. 189-190). 66 «Il sorriso sociale è di natura esogena e si distingue dal sorriso endogeno, che compare nelle prime settimane di vita, durante le fasi di sonno Rem, e che è una manifestazione automatica» (Anolli, 2006a, p. 83). 88 tra adulto e bambino, che a sua volta rinforza le dinamiche protoconversazionali. A partire dal sesto mese di vita il bambino inizia a includere un terzo oggetto entro la cornice della relazione con l’adulto passando da un tipo di relazione diadica (in cui la sua attenzione si focalizza o sull’adulto o su un oggetto) a un’interazione triadica67. Questo progresso psicologico è fondamentale poiché conduce alla condivisione congiunta dell’attenzione, grazie alla quale bambino e adulto orientano il loro interesse sul medesimo oggetto-evento. Essi guardano congiuntamente il medesimo oggetto e poi si guardano reciprocamente negli occhi, provando soddisfazione da tale condivisione (Stern, 1985). Tale processo comune di messa a fuoco attentiva su qualcosa di esterno alla coppia adulto-bambino consente loro di porre le premesse di ciò che costituirà in seguito la referenza di un discorso o di una conversazione […]. L’attenzione condivisa comporta un incipiente incontro di menti fra adulto e bambino. Tale incontro dipende non solo dal fatto di condividere lo stesso fuoco dell’attenzione, ma anche di prendere parte al medesimo contesto e di sviluppare i medesimi assunti. In funzione di questo processo, madre e lattante, nel momento in cui condividono un certo interesse, lo costruiscono in modo convenzionale secondo gli standard della cultura di appartenenza. (Anolli 2006a, p. 66). Tra i nove e i dodici mesi vi è la comparsa osservabile di comportamenti intenzionali da parte dei bambini68: iniziano ad 67 È oggi in corso un acceso dibattito sul tipo di cognizione sociale infantile che è alla base di questi primi comportamenti triadici. Per una rassegna degli studi in corso cfr. Tomasello, 1999, pp. 88-92. 68 Il problema dell’intenzionalità è stato analizzato da Bruner in relazione alla continuità tra comunicazione prelinguistica e linguistica. Dal punto di vista comportamentale, l’intenzione viene definita da Bruner (1973) come un processo caratterizzato da: a) anticipazione della comparsa dall’atto; b) selezione dei mezzi appropriati per conseguire lo stato finale; c) ordine d’arresto definito dallo stato finale. Ma per Bruner (1975, 1986) risulta difficile capire che cosa il bambino intenda veramente comunicare nella fase prelinguistica. Per questa ragione, poiché la 89 orientare attivamente l’attenzione degli adulti utilizzando gesti deittici o performativi (come l’indicare o quello di mostrare un oggetto affinché qualcuno lo veda) accompagnati dallo sguardo al destinatario del gesto. A differenza delle azioni di tipo strumentale come l’afferrare, questi gesti sono inadeguati a raggiungere obiettivi in modo diretto, ma sono adeguati a comunicare tali obiettivi ad un altro soggetto. Si creano vere e proprie scene di attenzione congiunta69 tra adulto e bambino, all’interno delle quali questi gesti comunicazione presuppone, per definizione, l’intenzione di comunicare, è preferibile parlare di funzioni che la comunicazione assolve, e determinare come esse si realizzano. Spostando la questione dell’intenzionalità comunicativa del bambino (nella fase prelinguistici) al tema delle funzioni comunicative, Bruner ammette che forse non sapremo che cosa il bambino intenda comunicare, ma possiamo in ogni caso osservare per quale fine comunica. Come abbiamo precedentemente visto i bambini piccoli scambiano esperienze vocali con le loro madri che attivamente interpretano, selezionano, commentano, ripetono le vocalizzazioni e i primi suoni emessi: intendono quei gesti in termini conativi – che cosa il bambino vuole – valutandone la sincerità e la consistenza. In particolare i format forniscono la base per interpretare correttamente le intenzioni comunicative della madre e del bambino, concretizzando, socializzando e strutturando le intenzioni di quest’ultimo. Riprendendo la teoria di Grice, Bruner sostiene che parlare di intenzionalità comunicativa nel bambino prelinguistico non significa assegnargli una vera e propria “intenzione” né attribuirgli un’intenzione semantica; bensì significa riconoscergli la capacità di porsi in relazione e di avere uno scambio dotato di senso con l’adulto. Pertanto nello sviluppo dell’intenzionalità il ruolo più importante è giocato dall’interpretazione dell’adulto, mentre per quanto riguarda il bambino, la nozione di intenzione viene assimilata a quella pragmatica. D’altra parte, riconosce Bruner (1990), apprendere il linguaggio consiste anche nell’apprendere le procedure comunicative che rendono possibile e attendibile l’interpretazione e l’intenzione del parlante. 69 «Le scene di attenzione congiunta sono interazioni sociali nelle quali il bambino e l’adulto prestano congiuntamente attenzione a una terza cosa, nonché all’attenzione reciproca verso quella cosa per un certo arco di tempo ragionevolmente esteso. I termini che sono stati usati sono quelli di interazione di attenzione congiunta, episodio di attenzione congiunta, impegno di attenzione congiunta, e format di attenzione congiunta. Sto introducendo qui un termine nuovo, ancorché affine, allo scopo di dare il giusto rilievo a due punti essenziali, a volte trascurati nelle trattazioni precedenti di questo fenomeno. Il primo punto riguarda gli elementi inclusi nelle scene di attenzione congiunta. Da un lato, le scene di attenzione congiunta non sono eventi percettivi: esse includono solo una sottoparte del mondo percettivo del bambino. D’altro lato, le scene di attenzione congiunta non sono neanche eventi linguistici: vi è in esse più di quello che è esplicitamente indicato da qualsivoglia insieme di simboli linguistici […]. Una sorta di terra di mezzo tra il mondo percettivo, più ampio, e il mondo linguistico, più ristretto. Il secondo punto che va sottolineato è il fatto che la comprensione di una scena di attenzione congiunta da parte del bambino include come parte integrante il bambino stesso e il suo ruolo nell’interazione considerati dallo stesso punto di 90 possono avere valore richiestivo (come tentativo di far sì che gli adulti facciano qualcosa in relazione ad un oggetto o ad un evento) e/o dichiarativo (attirare l’attenzione di qualcuno su qualcosa)70. Nell’evoluzione del gesto dell’indicare Vygotskij aveva visto una parte importante dello sviluppo del linguaggio e più in generale di tutte le funzioni psichiche superiori; esso fornisce inoltre un’importante esemplificazione della dinamica di ricostruzione interna di un’operazione esterna e di apprendimento attraverso un’altra persona; per questo vale la pena di vederlo nel dettaglio. All’inizio questo gesto non è niente di più che un tentativo non riuscito di afferrare qualcosa, un movimento indirizzato ad un certo oggetto che designa un’attività prossima. Il bambino cerca di afferrare un oggetto al di sopra della sua portata: le sue mani, tese verso quell’oggetto, restano sospese nell’aria. Le sue dita fanno movimenti per afferrare. In questo stadio iniziale l’indicare è rappresentato dai movimenti del bambino, che sembrano indicare un oggetto (questo e nient’altro). Quando la madre viene in aiuto al bambino e realizza che i suoi movimenti indicano qualcosa, la situazione cambia radicalmente. L’indicare diventa un gesto per le altre persone. Il tentativo non riuscito del bambino genera una reazione non da parte dell’oggetto che egli vuole afferrare, ma da parte di un’altra persona. Di conseguenza, il significato originario di quel movimento per afferrare non riuscito è stabilito da altri. vista “esterno” dal quale sono considerati l’altra persona e l’oggetto, in modo che vi sia un unico format rappresentazionale – cosa che è di cruciale importanza per il processo di acquisizione dei simboli linguistici […]. Il punto è che le scene di attenzione congiunta sono definite intenzionalmente; esse, cioè, traggono la loro identità e la loro coerenza dal fatto che il bambino e l’adulto comprendono “ciò che stiamo facendo” nei termini delle attività dirette a un obiettivo nelle quali siamo impegnati» (Tomasello, 1999, pp. 122-123). 70 «I gesti dichiarativi sono particolarmente importanti perché indicano chiaramente che il bambino non vuole semplicemente che accada qualcosa, ma desidera condividere l’attenzione con un adulto. Perciò la tesi di alcuni studiosi, me compreso, è che il semplice atto di indicare un oggetto a qualcun altro al solo scopo di condividere l’attenzione verso di esso sia un comportamento comunicativo specificamente umano [Gòmez, Serriá e Tamarit 1993], l’assenza del quale è anche un importante criterio diagnostico della sindrome dell’autismo infantile (Baron-Cohen 1993)» (Ibidem, p. 84). 91 Soltanto più tardi, quando il bambino riesce ad abbinare il suo movimento per afferrare, non riuscito, alla situazione obiettiva nel suo intero, egli comincia ad intendere questo movimento come indicare. In questo frangente avviene un cambiamento nella funzione di quel movimento: da movimento orientato verso un oggetto diventa movimento diretto ad un’altra persona, un mezzo per stabilire dei rapporti. Il movimento dell’afferrare si trasforma nell’atto dell’indicare. Come risultato di questa trasformazione, il movimento stesso è quindi semplificato fisicamente, e il risultato è la forma di indicare che potremmo chiamare vero gesto. Diventa un vero gesto solo dopo che manifesta obiettivamente tutte le funzioni di indicare per altri ed è dagli altri considerato come un gesto del genere. Il suo significato e le sue funzioni sono create dapprima da una situazione obiettiva e in seguito dalle persone che circondano il bambino. (Vygotskji, 1978, pp. 86-87) Il gesto dell’indicare inizia con un movimento che viene prima compreso dagli adulti (si tratta in questo caso di ritualizzazioni diadiche, di procedure affinché vengano fatte certe cose), e successivamente dal bambino stesso. Questo “gioco” di assegnazione dell’intenzione ai gesti e ai vocalizzi del bambino rientra nel più vasto principio di cooperazione fra adulto e bambino, proposto da Paul Grice71. Da una parte, la madre agisce come se il bambino fosse consapevole e intenzionale, dall’altra, il bambino si aspetta la “comprensione” dei suoi messaggi. E’ questa fitta trama di reciprocità con gli stati intenzionali del partner che costituisce l’essenza della negoziazione socio-cognitiva a livello umano, culturale – della “sintonizzazione”, per usare un termine di Stern. Non esiste “allo stato selvatico”, nemmeno in primati estremamente intelligenti e socialmente sensibili come scimpanzé e orangutan. (Bruner, 1996, p. 197). 71 «Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in cui avviene, dall'intento comune accettato o dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato» (Grice, 1975, p. 55). 92 La capacità di indicare presuppone, secondo Tomasello, la comprensione da parte del bambino dell’interlocutore come agente intenzionale al pari del Sé72 (Tomasello, 2001). Si tratta di veri e propri gesti comunicativi in quanto sono usati con questo tipo di intenzione, sono convenzionali e si riferiscono a un oggetto o evento esterno (Bates, 1979). Un’altra mia tesi è che dovremmo considerare l’attenzione come un tipo di percezione intenzionale (Tomasello, 1995). Gli individui scelgono intenzionalmente di prestare attenzione a certe cose e non ad altre in modi che sono collegati direttamente al perseguimento dei loro scopi […]. L’emergere pressoché simultaneo di numerosi e differenti comportamenti di attenzione congiunta, tutti fondati, in qualche modo, sulla comprensione delle altre persone come esseri che percepiscono, 72 Secondo Tomasello per comprendere gli altri come agenti intenzionali i bambini fanno ricorso all’esperienza che essi hanno di se stessi «e questa esperienza del Sé nelle prime fasi dello sviluppo va incontro a un cambiamento, in particolare per quel che riguarda l’auto-agentività. L’ipotesi è che quando questa nuova esperienza dell’auto-agentività emerge, emerga anche, come sua conseguenza diretta, una nuova comprensione degli altri. Questo approccio può essere considerato come una sorta di simulazione nella quale gli individui comprendono le altre persone, in un certo senso, in analogia con il Sé (dal momento che gli altri sono “come me”) in un modo che non è applicabile, almeno nello stesso senso, agli oggetti inanimati. […]. D’accordo con Meltzoff e Gopnik, ritengo che l’emergere della comprensione da parte dei bambini del fatto che altre persone sono “come me” sia il risultato di un adattamento biologico peculiare dell’uomo […]. Questa comprensione è un elemento chiave dell’emergere nei bambini, a nove mesi di età, della comprensione degli altri come agenti intenzionali. Più precisamente, essa diventa un elemento chiave quando fa la sua apparizione un secondo fattore, che spiega perché l’età di nove mesi sia tanto speciale. Questo fattore è la comprensione da parte del bambino delle proprie azioni intenzionali […] in particolare la mia ipotesi è che quando i bambini giungono a una nuova comprensione delle proprie azioni intenzionali essi usino il principio del “come me” per comprendere allo stesso modo il comportamento delle altre persone. E vi sono prove del fatto che quello tra gli otto e i nove mesi sia in effetti un momento critico per la comprensione da parte dei bambini delle proprie azioni intenzionali» (Tomasello, 1999, pp. 93-94). Il tipo di comprensione delle azioni intenzionali da parte del bambino cui si riferisce Tomasello, non implica che i bambini siano in grado di concettualizzare i propri stati intenzionali prima di poterli usare per simulare il punto di vista degli altri. «Essi semplicemente percepiscono il modo generale di funzionare dell’altro attraverso un’analogia col Sé, e la loro capacità di individuare un particolare stato mentale in particolari circostanze dipende da molti fattori» (ibidem, p. 98). 93 agiscono e sono guidati da scopi […] suggerisce con forza che i comportamenti di attenzione congiunta non siano solo moduli cognitivi isolati o sequenze comportamentali apprese indipendentemente l’una dall’altra. Essi sono il risultato dell’emergere della comprensione degli altri come agenti intenzionali. Forse nessun comportamento di attenzione congiunta, da solo, prova in modo inequivocabile questa comprensione, ma il dato globale è convincente – si pensi, in particolare, a quei comportamenti di attenzione congiunta che richiedono che il bambino determini precisamente a che cosa l’adulto sia interessato o che cosa stia facendo, e che dunque rivelano una chiara comprensione dell’attenzione dell’adulto. Ma ai bambini resta da scoprire ancora molto sulle altre persone e sul loro comportamento. In particolare nell’acquisizione delle loro abilità di comunicazione linguistica i bambini apprendono molte cose su come seguire e orientare – con la massima precisione – l’attenzione dell’adulto. E, naturalmente, i bambini di un anno non sanno abbastanza del nesso tra percezione e azione per intervenire efficacemente nel processo – producendo, per esempio, indizi percettivi ingannevoli che inducano gli adulti ad acconsentire ai loro desideri (un’abilità, questa, che richiede altri due o tre anni di pratica nell’interazione sociale). Quelli che stiamo osservando qui sono i primissimi passi del processo. (Tomasello, 1999, p. 91) La comparsa dell’intenzionalità (come capacità di manifestare ad altri le proprie intenzioni e come capacità di capire che gli altri sono agenti intenzionali) rappresenta una tappa fondamentale per lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori. Essa rafforza l’apprendimento per imitazione (da cui deriva una sempre maggiore convenzionalizzazione dei gesti) e favorisce la dissociazione fra mezzi e fini, ovvero una diversa comprensione del rapporto tra azione e risultato (Piaget, 1937). Alla fine del primo anno di vita si assiste alla comparsa di un nuovo tipo di gesti definiti rappresentativi o referenziali. A differenza dei gesti deittici, questi gesti non esprimono solo un’intenzione 94 comunicativa ma anche un referente specifico, che non varia a seconda del contesto (aprire e chiudere la mano per dire “ciao”, scuotere la testa per dire “no”...). Sono gesti che nascono all’interno di format interattivi con le persone che si prendono cura del bambino, e che vengono appresi per imitazione. Nello stesso periodo compaiono le prime parole che, al pari dei gesti, sono all’inizio molto legate a situazioni specifiche73. Gli studi sulla relazione tra repertorio comunicativo gestuale e vocale hanno evidenziato che i gesti referenziali sono un fenomeno caratteristico del primo sviluppo linguistico: fino a un anno d’età la modalità prevalente di comunicazione è attraverso i gesti referenziali, che vengono utilizzati per esprimere significati per i quali i bambini non posseggono ancora le parole; quando il linguaggio verbale si consolida e il vocabolario raggiunge le cinquanta parole, l’uso dei gesti referenziali inizia a diminuire fin quasi a scomparire. 73 «L’età di comparsa delle prime parole varia considerevolmente ma in generale si colloca tra gli 11 e 13 mesi di età. I bambini tendono inizialmente a parlare delle “stesse cose”: le prime parole stanno ad indicare persone (mamma, papà, nonni, fratelli/sorelle) e oggetti (giocattoli, cibo, vestiario) familiari, oppure azioni che il bambino compie abitualmente (dormire, salutare, leggere, nascondere, affermare, negare). […]. Tutte queste parole vengono usate in contesti specifici ritualizzati, sono cioè legate alle situazioni e agli eventi che servono a significare (“contestualizzate”). È utile differenziare questo uso non referenziale delle parole da un uso referenziale, che compare più tardi ed è legato alla capacità del bambino di comprendere il carattere arbitrario della relazione tra suono e significato (Camaioni, Volterra e Bates 1986). Ad esempio, la parola “ciao” all’inizio accompagna il gesto di abbassare la cornetta del telefono, mentre in seguito il bambino la utilizza ogni volta che qualcuno se ne va. Analogamente “mamma” funziona spesso come una richiesta generica e “papà” viene usato soltanto in situazioni specifiche (ad esempio, quando il padre ritorna a casa dal lavoro) o nel contesto di giochi particolari. In seguito queste parole vengono usate in modo referenziale, ovvero per nominare e chiamare la madre o il padre in una varietà di situazioni. Questo fenomeno di progressiva decontestualizzazione lo si trova anche nella comprensione del linguaggio. Intorno agli 8-10 mesi il bambino comprende semplici frasi dell’adulto soltanto in contesti specifici (ad esempio risponde al proprio nome o ad ordini del tipo “no!”, “non si fa!”), e all’interno di routine (“batti le manine”, “fai ciao”) in cui esegue l’azione richiesta. La comprensione precede e influenza la produzione linguistica, nel senso che il bambino comprende espressioni che soltanto in un secondo momento sarà capace di produrre spontaneamente» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 137-138). 95 Nei mesi successivi la produzione vocale aumenta considerevolmente, cosicché a sedici mesi il numero di gesti e di parole prodotte è circa lo stesso. Dopo questa età l’uso di gesti referenziali decresce, mentre il numero di parole continua a crescere, cosicché le due modalità comunicative dopo uno sviluppo parallelo si differenziano, e la modalità vocale prevale su quella gestuale. Ciò dipende anche dal fatto che l’ambiente offre al bambino più modelli vocali che gestuali e apprezza i primi assai più che i secondi. (Camaioni – Di Blasio, 2002, p. 137). Lo sviluppo del linguaggio prende dunque avvio dalla comparsa dell’intenzionalità e da una sempre maggiore articolazione della comunicazione non verbale (accompagnati da un contemporaneo sviluppo dell’apparato fonatorio). Le prime scene di attenzione congiunta corrispondono ai primi episodi di «sintonizzazione intenzionale dell’attenzione del novizioapprendista con movimenti degli altri» (Ingold, 2001, p. 151) in contesti sociali interattivi. Nello sviluppo delle diverse abilità l’ambiente fornisce quelle condizioni variabili per la crescita delle strutture neurofisiologiche che sottendono le diverse capacità (motorie, percettive, linguistiche…). La comprensione umana dei conspecifici come esseri intenzionali si sviluppa progressivamente nel corso dell’ontogenesi e porta il bambino alla formulazione, all’età di quattro anni, della cosiddetta teoria della mente (altrui)74 come capacità specie-specifica di attribuire stati mentali alle altre persone. Questo fatto ha molti e profondi effetti sul modo in cui i bambini interagiscono tra di loro e con gli adulti75. 74 Per un’esaustiva rassegna dei più recenti contributi sullo studio dello sviluppo di teorie della mente cfr. Liverta Sempio, - Marchetti, 1995. 75 «Se nei primi mesi di vita il bambino si mette in relazione con l’adulto come un soggetto animato e se all’età di un anno lo considera come un soggetto intenzionale, soltanto verso i tre o quattro anni egli è in grado di trattarlo come soggetto mentale. Considerare l’altro come un soggetto mentale significa 96 Nel presente contesto, il più importante di questi effetti è quello di permettere al bambino di accedere alle forme di eredità culturale peculiari dell’uomo. Un bambino che comprenda che le altre persone hanno relazioni intenzionali con il mondo, può trarre profitto dai modi in cui gli altri individui cercano di conseguire i propri scopi. I bambini, a questo punto dello sviluppo, sono in grado di cogliere la dimensione intenzionale degli artefatti usati dalle persone come mediatori delle loro strategie attentive e comportamentali nelle specifiche situazioni in cui esse perseguono i loro scopi. (Tomasello, 1999, p. 101). attribuirgli credenze, modelli interpretativi e punti di vista che possono essere diversi dai propri. La teoria della mente (ToM) va intesa come la capacità di “leggere” la mente degli altri (mindreading), nonché d’interpretare, spiegare e prevedere le loro azioni, attribuendo a essi stati e processi mentali quali desideri, modelli interpretativi, credenze e intenzioni. La ToM è stata illustrata secondo diversi modelli. Fra gli altri, l’approccio modularista considera la mente come un insieme di moduli specializzati e indipendenti, di natura obbligatoria e impenetrabili alla coscienza, ritenendo il “sistema per leggere la mente” come innato e composto da diversi sottosistemi (Baron-Cohen, 1995). Al contrario, il modello della teoria delle teorie prevede che lo sviluppo della ToM avvenga secondo i principi generali sottesi alla costruzione di una qualsiasi teoria scientifica, attraverso l’elaborazione di previsioni, supposizioni, modelli interpretativi, ecc. (Gopnik e Meltzoff, 1997). A sua volta, secondo il modello della simulazione la ToM si sviluppa grazie alla capacità di assumere il punto di vista degli altri: la propria esperienza, a guisa di un simulatore, diventa il modello per infierire informazioni sugli stati interni altrui. Quest’ultimo modello merita di essere approfondito. La comprensione degli stati mentali altrui si sviluppa nel bambino insieme alla capacità di assumere il loro punto di vista a livello cognitivo. La conoscenza psicologica e sociale è molto diversa dalla conoscenza fisica; vanno quindi previsti meccanismi esplicativi differenti. […]. Una conferma neurofisiologica importante a questo modello deriva dalla scoperta e dallo studio dei neuroni specchio, che si trovano nella porzione rostrale della corteccia premotoria ventrale e che si attivano sia durante l’esecuzione di azioni nella manipolazione di oggetti, sia durante la semplice osservazione di azioni analoghe eseguite da parte di un altro (Rizzolatti, 2005; Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001). In questo caso tali neuroni si eccitano come se fosse l’organismo stesso a eseguire i movimenti. In altri termini, l’osservazione di un’azione implica la simulazione della medesima. Pertanto la comprensione degli stati mentali degli altri si fonda sulla possibilità di stabilire un’equivalenza motoria fra ciò che fanno gli altri e ciò che fa l’osservatore e sul principio conseguente della somiglianza degli altri a sé. Questa forma di empatia vale anche per le emozioni e le sensazioni […]. Per tale ragione, sulla base di quest’architettura nervosa, è corretto parlare di un sistema multiplo di condivisione dell’intersoggettività e dei processi culturali che ci consente di riconoscere gli altri come simili a noi» (Anolli, 2006a, pp. 74-75). 97 1.2.2 La mediazione attraverso artefatti L’importante intuizione che i teorici storico-culturali condividono è che la vita umana prende forma e si sviluppa pienamente in un ambiente unico, che include l’insieme degli artefatti (ideali/materiali)76 accumulati dal gruppo sociale nel corso del suo sviluppo storico. La caratteristica della nostra specie riguarda la capacità di svilupparsi all’interno di tale ambiente e di provvedere alla sua riproduzione di generazione in generazione. La presenza di stimoli creati accanto a quelli dati è, a nostro parere, la caratteristica distintiva della psicologia dell’uomo. Noi chiamiamo “segni” questi “stimoli-mezzi” artificiali introdotti dall’uomo nella situazione e svolgenti una funzione di autostimolazione. A questo termine diamo un senso più ampio e al tempo stesso più preciso di quello che ha nell’uso abituale. In base a questa nostra definizione, dunque, ogni stimolo condizionato creato dall’uomo e assunto come mezzo per dirigere il proprio o l’altrui comportamento è un segno. (Vygotskij, 1930-31, p. 123). 76 «Un artefatto è un aspetto del mondo materiale che è stato modificato durante la storia della sua incorporazione nell’azione umana rivolta ad un obiettivo. In virtù dei cambiamenti prodotti nel processo della creazione ed uso, gli artefatti sono simultaneamente ideali (concettuali) e materiali. Sono ideali in quanto la loro forma materiale è stata modellata dalla loro partecipazione alle interazioni di cui hanno prima costituito una parte che ora invece mediano. Così definite le proprietà degli artefatti si applicano con egual forza sia che si consideri il linguaggio, sia forme più usuali di artefatti, come tavoli e coltelli, che sono parte della cultura materiale. Ciò che differenzia la parola “tavolo” da un tavolo reale è l’importanza relativa degli aspetti materiali e ideali e dei tipi di coordinazione che permettono. Nessuna parola esiste indipendentemente dalla sua istanza materiale (come, ad esempio, una configurazione di onde sonore, i movimenti delle mani, la scrittura o l’attività neuronale), mentre ogni tavolo personifica un ordine imposto degli esseri umani pensanti […]. Si noti che, in questo modo di pensare, la mediazione degli artefatti si applica egualmente agli oggetti e alle persone. Ciò che differisce nei due casi sono il modo in cui idealità e materialità sono fusi fra i membri di queste due categorie dell’essere e i tipi di interattività di cui sono capaci. Questa concezione afferma anche l’unità primordiale del materiale e del simbolico nei processi cognitivi umani» (Cole, 1996, pp. 109-110). 98 La creazione e l’uso di segni (o, se si preferisce, di artefatti) impone all’uomo la significazione come nuovo principio regolativo del comportamento, che si affianca e specializza il più primitivo sistema di segnalazione (caratteristico del mondo animale) da cui deriva. L’esperienza dell’uomo è mediata dagli artefatti, che si pongono tra il soggetto che conosce e l’oggetto della sua conoscenza, creando un nuovo tipo di adattamento. Gli artefatti non esistono in modo isolato, ma sono connessi tra loro e con la vita sociale in modo più o meno organico. Cole (1996), riprendendo una proposta fatta da Marx Wartofsky (1973) che descriveva gli artefatti (includendo strumenti e linguaggio) come delle «oggettivazioni delle esigenze e delle interazioni umane già investite di contenuto cognitivo ed emotivo», sviluppa la nozione di artefatto distinguendone tre categorie (Wartofsky, cit. in, Cole, 1996, p. 113). Gli artefatti primari sono quelli impiegati direttamente per l’attività umana. «Gli artefatti primari sono strettamente connessi al concetto di artefatto come materia trasformata dall’attività umana antecedente, sebbene io non faccia una distinzione, fra produzione di beni materiali e produzione di vita sociale in generale». (Ibidem). Gli artefatti primari consistono dunque in strumenti e dispositivi che i soggetti di una data comunità usano abitualmente per interagire tra loro e con l’ambiente (dal martello ai nuovi mezzi di comunicazione) e costituiscono la “cultura materiale”. Gli artefatti secondari sono delle rappresentazioni degli artefatti primari e dei modi di azione ad essi associati: consistono in modelli mentali e simbolici, intesi sia come schemi cognitivi impiegati per rappresentare gli oggetti sia come aspetti più astratti (norme, credenze tradizionali, le costituzioni…) presenti nell’interazione sociale. 99 Un tipo importante di questi artefatti sono i modelli culturali, che “riproducono non solo il mondo degli oggetti fisici, ma anche mondi più astratti come l’interazione sociale, il discorso e anche il significato delle parole” (D’Andrade, 1984). (Cole, 1995, p. 191). Gli artefatti secondari giocano un ruolo centrale nel preservare e trasmettere forme di azione e credenze culturali; essi costituiscono la cosiddetta “cultura ideale”. Gli artefatti terziari è una classe di artefatti che può arrivare a costruire “un mondo” relativamente autonomo, in cui le regole, le convenzioni e gli esiti non sembrano più direttamente pratici o sembrano persino costituire una sfera di attività non pratica, o di gioco “libero”. (Cole, 1996, p. 113). Rientrano in questo ambito i diversi fenomeni e processi artistici nelle loro diverse espressioni creative; qui siamo in presenza della “cultura espressiva”. Gli artefatti occupano una posizione di mediazione tra l’uomo e l’ambiente, poiché essi non solo sono dati, ma l’ambiente culturale ne organizza l’uso in attività specifiche (da cacciare a cucinare a lavorare il legno a pianificare il futuro…). La mediazione è un processo attivo che contribuisce in modo rilevante a organizzare, gestire e controllare le attività e le interazioni fra le persone. Gli artefatti giocano un ruolo essenziale nel dare forma all’azione, ma non la determinano in modo automatico: essi esercitano la loro efficacia solo quando le persone li usano in modo appropriato. Vanno intesi come convenzioni e costituiscono pratiche sociali che si trovano, nello stesso tempo, sia all’interno della mente sia all’esterno nel contesto pubblico. 100 Grazie agli artefatti il rapporto tra soggetto e ambiente è reso culturale. La presenza di un’azione mediata, tuttavia, non significa che il percorso di mediazione sostituisca quello naturale […]. Come esito di questa condizione si crea un’interdipendenza costante tra le possibilità di una data azione, l’impiego appropriato degli strumenti attualmente a disposizione, il loro continuo miglioramento e l’invenzione di nuovi strumenti che vengono ad aumentare le potenzialità dell’azione medesima. Su tale interdipendenza si fonda il progresso della tecnologia, che costituisce un fattore non secondario di evoluzione delle singole culture, a qualunque livello si collochino. L’inserimento di nuovi strumenti culturali nell’attività di mediazione inevitabilmente la trasforma .[…]. La mediazione svolta dalla cultura è universale e trasversale in quanto investe tutti gli ambiti dell’esistenza umana, da quelli alimentari a quelli medici e biologici, a quelli religiosi e politici, sociali, ludici e artistici […]. La cultura appare dunque come una lente incorporata in noi che distorce la percezione e la valutazione di qualsiasi evento. Si tratta di una lente di cui non ci rendiamo conto fino a quando non incontriamo culture di altre comunità che fanno riferimento ad artefatti diversi. Tali differenze fanno emergere (a volte in modo repentino) la coscienza della propria appartenenza culturale, il senso della propria identità culturale, nonché la distanza da altre culture (Anolli, 2006a, pp. 18-19). In generale con il termine «esperienza di apprendimento mediata» si indica il modo in cui gli stimoli ambientali sono trasformati da un «agente mediatore» sulla base di intenzioni, orientamenti culturali, investimenti affettivi attraverso procedure di selezione e organizzazione che fanno leva su frame, funzioni di filtraggio e di modulazione. Se le esperienze di esposizione diretta agli stimoli sollecitano l’attivazione di determinati processi cognitivi, l’esperienza di apprendimento mediato dai diversi artefatti in uso presso la cultura cui si appartiene, rappresenta il fondamento su cui si costruiscono le “strutture” cognitive individuali e, pertanto, riveste un ruolo essenziale nella loro emergenza e sviluppo. 101 Infatti l’incorporazione di artefatti nell’uso permette e allo stesso tempo impone una riorganizzazione percettiva e motoria nell’interazione con l’ambiente, come anche una ripianificazione delle azioni e delle relazioni sociali. Da sempre, in realtà, gli artefatti rientrano nell’attività cognitiva e trasformativa umana e si trovano sempre incorporati in sistemi socioculturali di ampio respiro che organizzano le pratiche in cui vengono utilizzati (Hutchins 1993). (Grasseni – Ronzon, 2004, p. 156). Questa nuova relazione strutturale dell’individuo con l’ambiente è stata tradizionalmente rappresentata dai teorici dell’approccio storico-culturale con un triangolo, come nella Fig.1. Figura 1: triangolo della mediazione in cui soggetto (S) e oggetto (O) sono visti non solo “direttamente” connessi, ma anche, al tempo stesso, “indirettamente” connessi attraverso il medium costituito dagli artefatti (X). Le funzioni «naturali» («non mediate»; «rudimentali») sono quelle lungo la base del triangolo che corrispondono alla classica situazione “stimolo-risposta” (S-X)77; le funzioni 77 «superiori», «culturali» «Bisogna sottolineare che ciò che si considera “diretto” non può essere adeguatamente concepito come “naturale”. Piuttosto la via “diretta”, come quella mediata, dipende da un ambiente modificato da (antecedenti) azioni umane che hanno avuto successo ed è fino a questo livello intrisa da interazioni umane. Di 102 («mediate») sono quelle in cui i rapporti tra soggetto e ambiente (tra soggetto e oggetto, stimolo e risposta…) sono mediati da una qualche forma di artefatto (S-X-R), cui Vygotskij e colleghi si sono riferiti con il termine «strumenti-stimolo»; «mezzi ausiliari»; «segnali artificiali» o, più semplicemente «strumenti»78. Un esempio tipico riportato da Vygotskij per esemplificare la relazione tra operazioni mediate e naturali, è il nodo al fazzoletto per ricordare. Se si riflette sul fatto che, praticando un nodo per ricordare, in sostanza l’uomo costruisce un processo della memoria all’esterno, costringe un oggetto esterno a ricordargli un incarico da compiere, o meglio esteriorizza un suo processo interiore trasformandolo in un’attività esteriore, se si pensa dunque a ciò che di fatto si verifica in tutti questi casi, già questo fatto stesso ci potrà dare un’idea del carattere affatto particolare delle forme superiori del comportamento. In un caso ci troviamo di fronte a qualcosa che viene ricordato, nell’altro a un uomo che ricorda qualcosa. In un caso il legame temporaneo s’instaura grazie alla coincidenza di due stimoli che agiscono contemporaneamente sull’organismo; nell’altro l’uomo crea egli stesso un nuovo legame temporaneo nel cervello mediante il collegamento artificiale di due stimoli. (Vygotskij, 1930-31, pp. 132-133). conseguenza, ciò a cui i primi teorici storico-culturali si sono riferiti con il nome di processi “diretti, naturali” deve essere messo tra virgolette, per ricordarci che il mondo fisico è il mondo-come-condizionato dalla cultura e non in maniera totale, “dato naturalmente” (Sahlins, 1976)» (Cole, 1995, cit., p. 100). 78 L’invenzione e l’uso di segni come mezzi ausiliari per risolvere determinati compiti psicologici presenta un’analogia con l’uso degli strumenti materiali che l’uomo, nel corso dello sviluppo storico, ha inventato e utilizzato per il suo adattamento all’ambiente. Pertanto Vygotskij (1930-31, 1978) parla di una funzione strumentale del segno. Sia lo strumento che il segno hanno in comune la funzione di mediazione e possono essere ricondotti ad un’unica categoria. Una differenza tra segno e strumento, su un piano puramente logico, riguarda il fatto che lo strumento orienta il comportamento verso l’esterno (portando trasformazioni negli oggetti cui è rivolto), mentre il segno è un mezzo di attività orientato internamente che mira a padroneggiare il comportamento. «Vorrei soltanto dire che nessuno dei due, in qualsiasi circostanza può essere considerato isomorfo rispetto alle funzioni che compie, e che essi non possono neppure spiegare in modo del tutto esauriente il concetto di attività mediata. Si potrebbero nominare moltissime altre attività mediate; l’attività cognitiva non si limita all’uso di strumenti o di segni» (Vygotskij, 1978, cit., pp. 84-85). 103 La comparsa e l’uso di strumenti non sostituisce la forma “naturale” di comportamento; piuttosto l’incorporazione di strumenti nell’attività crea una nuova relazione strutturale in cui le vie culturali (mediate) e naturali (non mediate) operano sinergicamente. Nella storia dello sviluppo culturale del bambino incontriamo il concetto di struttura due volte: innanzitutto nel momento iniziale come punto di partenza del processo stesso; in secondo luogo quando bisogna interpretare il processo dello sviluppo culturale come la trasformazione di questa prima struttura iniziale e la nascita di nuove strutture sulla sua base, caratterizzata da una nuova correlazione tra le parti. Chiamiamo primitive le prime strutture; si tratta di una totalità psicologica naturale determinata soprattutto dalle caratteristiche biologiche dello psichismo. Chiameremo le seconde, che sorgono nel processo dello sviluppo culturale, strutture superiori, in quanto rappresentano delle forme di comportamento geneticamente più complesse e più alte. […]. Nella struttura superiore il fine funzionale determinante, o fuoco, di tutto il processo, è il segno e il modo in cui lo si impiega. Così come l’impiego di un determinato strumento determina tutta la struttura di un’attività lavorativa, allo stesso modo il carattere del segno impiegato è quel momento fondamentale da cui dipende la costruzione di tutto il rimanente processo. Cosicché il rapporto fondamentale che sta alla base della struttura superiore è una particolare forma di organizzazione di tutto il processo, consistente nel fatto che l’intero processo si costruisce mediante l’introduzione nella situazione di stimoli artificiali noti che svolgono la funzione di segni 79. 79 Vygotskij, 1930-31, pp. 166-168. Scrive a proposito Damasio: «l’essere umano [è] un organismo che viene dato alla vita dotato di meccanismi autonomi di sopravvivenza, al quale l’educazione e l’acculturazione apportano un insieme di strategie di decisione socialmente ammissibili e desiderabili, che a loro volta rafforzano la sopravvivenza, ne migliorano la qualità e servono da base per la costruzione di una persona. Alla nascita, il cervello umano comincia a svilupparsi dotato di pulsioni e istinti che comprendono non solo un corredo fisiologico per la regolazione del metabolismo, ma anche dispositivi di base per rafforzare comportamento e cognizione sociale. Dallo sviluppo dell’età infantile esso emerge dotato di ulteriori livelli di strategie di sopravvivenza: la base neurofisiologica di tali strategie aggiunte è intrecciata con quella del repertorio degli istinti, e non solo ne 104 Struttura primaria (come processo di crescita e maturazione organica) e secondaria (lo sviluppo culturale) non si avvicendano nell’ontogenesi, ma sono contemporanei: la distinzione è, di fatto, un’astrazione, un modo per descrivere un processo molto complesso. Le due serie di cambiamento confluiscono l’una nell’altra e costituiscono quell’unico processo che è la formazione della personalità biologico-sociale del bambino80. Accanto ad una specie di “dispositivo innato” per l’apprendimento si pone altresì un “sistema di supporto”; tale sistema è fornito dal mondo sociale ed è in qualche modo, ma regolarmente, in armonia con il sistema di apprendimento del bambino. È tale sistema di supporto all’apprendimento che aiuta il bambino ad attraversare le zone di sviluppo prossimale fino a conseguire il controllo completo e consapevole dell’uso degli strumenti e, di modifica l’uso, ma ne estende anche la portata. Nel loro disegno formale d’assieme, i meccanismi neurali su cui poggia il repertorio sopraistintivo possono essere simili a quelli che governano le pulsioni biologiche, e da queste possono essere vincolati. Tuttavia essi richiedono l’intervento della società, per diventare ciò che verranno, e perciò hanno riferimento sia in una data cultura sia nella neurobiologia generale. Inoltre, fuori da questa doppia costrizione, le strategie di sopravvivenza di quel repertorio generano qualcosa che probabilmente è proprio solo degli esseri umani: un punto di vista morale, che all’occasione, può trascendere gli interessi del gruppo ristretto, e anche quelli della specie» (Damasio, 1994, pp. 185-186). 80 Per spiegare questo meccanismo Vygotskij riprende da Jennings il concetto di sistema di attività. L’uomo, come ogni altra specie, dispone di forme e modi di comportamento (attività) che costituiscono un sistema condizionato dagli organi e dalla loro stessa organizzazione sistemica. Scrive Vygotskij: «l’ameba, per esempio, non può nuotare come l’infusore e l’infusore non possiede un organo per spostarsi volando. Partendo da questo concetto, estremamente importante in campo biologico, gli studiosi della psicologia del bambino sono giunti ad individuare un momento decisivo, di frattura, nello sviluppo del neonato. L’individuo umano non fa eccezione alla legge generale di Jennings. Anch’esso possiede un sistema di attività, che pone entro certi limiti il suo sistema di comportamento. In questo sistema non rientra, per esempio, la possibilità di volare. L’uomo però supera tutti gli animali per la possibilità illimitata che ha di ampliare, mediante strumenti, il raggio della sua attività. Il suo cervello e la sua mano hanno reso illimitatamente ampio il sistema delle sue attività e cioè il campo delle forme di comportamento accessibili. Perciò il momento decisivo nello sviluppo del bambino, che definisce il campo delle forme di comportamento a lui accessibili, è costituito dal primo passo verso un’interdipendente utilizzazione e invenzione degli strumenti, che, nel bambino, avviene al termine del primo anno di vita» (Vygotskij, 1930-31, pp. 70-71). 105 conseguenza, del proprio comportamento. Esso opera intenzionalmente scelte orientative per innescare processi di apprendimento e per costruire le coordinate all’interno delle quali inscrivere gli apprendimenti futuri mediante una selezione degli input ambientali adeguati, una loro organizzazione sequenziale, la ricognizione di stimoli specifici, la ripetizione e la variazione delle sollecitazioni. E’ attraverso gli altri che i bambini vengono a contatto con cornici concettuali, categorie interpretative e coordinate cognitive che, progressivamente, acquisiscono ed interiorizzano come proprie, per poterle utilizzare successivamente in modo autonomo nell’organizzazione e selezione degli stimoli ambientali. In questo senso, il mondo sociale ha un importantissimo ruolo formativo, perché fornisce al bambino strumentalità cognitive e trame di significati in cui inscrivere ed organizzare esperienze e conoscenze. L’importante implicazione finale del principio della mediazione culturale è che gli esseri umani, compresi quelli delle generazioni precedenti, giocano un ruolo cruciale nella formazione delle capacità cognitive del bambino: poiché egli nasce in una condizione di inettitudine, in un ambiente umano socialmente organizzato e culturalmente mediato, il suo pensiero deriva dalla propria natura sociale (Cole, 1995). Questo rilievo è assunto nella legge generale dello sviluppo che, lo ricordiamo, sostiene che ogni funzione psichica superiore appare prima sul piano sociale del funzionamento interpsicologico, cioè nello scambio di significati tra individui, e solo in un secondo tempo su quello mentale del funzionamento intrapsicologico. Uno dei percorsi principali dello sviluppo culturale è l’imitazione degli adulti, che consente al bambino di entrare nello «spazio intenzionale», nella dimensione «ideale» degli artefatti81. A partire 81 Esiste una notevole differenza tra l’imitazione caratteristica dei primati e quella degli esseri umani. Riprendendo gli studi condotti da Köhler sull’imitazione degli scimpanzé Vygotskij sostiene che “l’imitazione” è possibile soltanto nella misura in 106 dal primo anno di vita, il bambino si impegna con assiduità crescente nella riproduzione dell’uso intenzionale degli artefatti passando da un rapporto prevalentemente “sensomotorio-manipolativo” dominato dalla percezione, ad un rapporto basato principalmente sulla prospettiva e sulla ricognizione degli aspetti intenzionali degli artefatti, sul loro significato82. In questo processo di apprendimento imitativo, è come se il bambino si unisse all’altra persona nel dichiarare “per” quale scopo “noi” usiamo questo oggetto: usiamo i martelli per dare martellate e le penne per scrivere. In tal modo, il bambino giunge a vedere in alcuni artefatti e oggetti culturali, oltre alle loro proprietà sensomotorie, anche quelle che potremmo chiamare proprietà intenzionali, che sono basate sulla comprensione delle relazioni intenzionali che le altre persone hanno con cui si accompagna alla comprensione; dallo studio dell’imitazione è inoltre possibile stabilire il livello delle azioni accessibili all’intelletto dell’animale da un lato e del bambino dall’altro. «Ricercando i limiti dell’imitazione possibile a un determinato animale, indaghiamo anche i limiti del suo intelletto. L’imitazione è perciò un metodo d’indagine estremamente attendibile soprattutto in campo genetico. Se vogliamo sapere quanto un determinato intelletto è maturo per una data funzione, possiamo studiarlo attraverso l’imitazione». (Vygotskij, 1930-31, p. 184). Nel caso di primati sarebbe più corretto parlare di emulazione piuttosto che di imitazione, in quanto il comportamento riproduttivo non implica la comprensione delle intenzioni di colui che si sta “imitando” (Tomasello,1999). 82 Un aspetto particolare della percezione umana (che compare molto presto) è, secondo Vygotskij, la percezione degli oggetti reali ovvero la percezione non solo di colori e forme degli oggetti, ma del loro significato. Essa è caratteristica dell’uomo e non avrebbe nessuna analogia nel mondo animale. «Gli esseri umani non vedono soltanto qualcosa di rotondo e nero con due lancette, vedono un orologio e possono distinguere una lancetta dall’altra. Quindi la struttura della percezione umana si potrebbe esprimere figurativamente con un rapporto in cui l’oggetto è il numeratore e il significato è il denominatore (oggetto/significato). Questo rapporto simbolizza l’idea che tutta la percezione umana è composta di percezioni generalizzate piuttosto che isolate. Per il bambino l’oggetto domina nel rapporto oggetto/significato e il significato è subordinato» (Vygotskij, 1978, pp. 143-144). Nel corso dello sviluppo il rapporto tra l’oggetto e il suo significato è destinato a rovesciarsi (questo processo è favorito, come vedremo, dall’uso del linguaggio) e il significato è destinato a dominare la relazione oggetto/significato. Sinteticamente potremmo schematizzare lo sviluppo della percezione come segue: percezionemanipolazione dell’oggetto; oggetto/significato come scoperta della relazione duale della rappresentazione e del significato intenzionale degli artefatti; significato/oggetto come dominio del significato sulla percezione e uso consapevole dei simboli. 107 quell’oggetto o artefatto – cioè le relazioni intenzionali che le altre persone hanno con il mondo attraverso l’artefatto. (Tomasello, 1999, p. 108). Ciò è particolarmente evidente nei primi giochi di finzione durante i quali i bambini estraggono le proprietà intenzionali di vari oggetti (i loro «significati» nella terminologia utilizzata da Vygotskij) e le usano per giocare, andando oltre le proprietà percettive degli oggetti stessi83. Ci sembra interessante segnalare che, contrariamente a quanto sostenuto da Piaget (1945), lo stesso atteggiamento ludico non è innato, ma deriva dalle prime interazioni ludiche tra adulto e bambino durante i primi mesi di vita (Spiz, 1958; Winnicott, 1971; Schaffer, 83 «Nel gioco le cose perdono la loro forza determinante. Il bambino vede una cosa ma agisce in modo diverso in relazione a quel che vede. Quindi è raggiunta una condizione in cui il bambino comincia ad agire indipendentemente da quello che vede. Certi pazienti con il cervello leso perdono la capacità di agire indipendentemente da ciò che vedono. Nel considerare tali pazienti ci si può rendere conto che la libertà di azione di cui godono gli adulti e i bambini più maturi non è acquisita in un baleno ma deve passare attraverso un lungo processo di sviluppo. L’azione in una situazione immaginaria insegna al bambino a guidare il suo comportamento non solo secondo la percezione immediata degli oggetti e la situazione che lo colpisce immediatamente ma anche secondo il significato della situazione. […]. Nel gioco il pensiero è separato dagli oggetti e l’azione nasce dalle idee più che dalle cose: un pezzo di legno inizia ad essere una bambola e un bastone diventa un cavallo. L’azione che segue delle regole comincia ad essere determinata dalle idee e non dagli oggetti stessi» (Vygotskij, 1978, pp. 142-143). Lo stesso Piaget a proposito del gioco infantile e in particolare del gioco del fare finta, sostiene che esso marchi in maniera cruciale una tappa dello sviluppo in quanto il piccolo, usando gli oggetti simbolicamente, dimostra di essere in grado di distinguere tra la cosa immediatamente percepita e la rappresentazione della cosa, la quale è semplicemente evocata. «In quanto implicante la rappresentazione, il gioco simbolico non esiste presso l’animale e non appare che nel secondo anno dello sviluppo infantile. […] Il simbolismo inizia, di fatto, con le condotte individuali che rendono possibile l’interiorizzazione dell’imitazione (sia delle cose che delle persone)» (Piaget, 1945, pp. 164-165). L’emergere del gioco di finzione e del gioco simbolico, meriterebbe indubbiamente una trattazione a parte, data l’importanza che esso riveste nel sostenere l’emergere del pensiero simbolico del bambino. Per una trattazione esaustiva sull’argomento e la ricchezza dei contributi bibliografici cfr. Bondioli 1989, 1996. 108 1977; Bondioli, 1987; Sutton-Smith 1979; Tomasello, Striano, Rochat 1999). Gli studi relativi alle interazioni ludiche adulto-bambino mostrano che gli interscambi giocosi tra madre e bambino sono canali di trasmissione dell’atteggiamento ludico, ovvero di un orientamento non letterale, simulativo nei confronti del mondo. Ciò che il bambino comprende in queste interazioni – il “senso” o la lezione che ne ricava – è che, tra i molti modi in cui le cose possono essere fatte e le azioni compiute, ve ne è uno secondo il quale esse vengono fatte per il piacere di farle o per il reciproco piacere di farle (Bondioli, 1996, p. 105). La scena di attenzione congiunta creata dall’interazione ludica viene inscritta all’interno di una cornice particolare che, seguendo Gregory Bateson, marca le azioni in senso ludico: «le azioni che in questo momento stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero le azioni per cui esse stanno»84. 84 Bateson, 1972, p. 219. Per Bateson il gioco è soprattutto una questione di comunicazione che riguarda non tanto il contenuto dei messaggi, ma come essi vengono interpretati. L’interpretazione comporta che azioni, gesti e parole siano incorniciate: la cornice in cui esse sono collocate ne permette l’assegnazione del significato. Il gioco è un esempio di distinzione di tipi logici – mappa/territorio – distinzione che consente di contestualizzare gesti e parole. «Gioco non è il nome di un atto o di un’azione; è il nome di una cornice per l’azione» (Bateson, 1979, p. 187). Quando si gioca si compiono gesti e azioni reali ma per comprendere il loro significato occorre fare un salto logico, scoprire e comprendere la cornice che li rende comprensibili. L’inquadramento è collegato a «premesse», cioè a regole di interpretazione di ciò che è dentro la cornice. Ogni inquadramento è perciò metacomunicativo. La “definalizzazione” del gioco, che rimanda ad attività finalizzate ma ne modifica il senso, non comporta, secondo Bateson, che esso non sia possibile di apprendimento ma solo che il tipo di apprendimento che esso inaugura è di ordine diverso da quello messo in atto quando ad esempio si impara ad andare in bicicletta o a preparare un pasto. In Verso un’ecologia della mente Bateson lo indica come apprendimento 2, in Mente e natura come deutero-apprendimento: «io sostengo che esiste un apprendimento del contesto, un apprendimento che è diverso da ciò che vedono gli sperimentatori, e che questo apprendimento del contesto scaturisce da una specie di descrizione doppia che si accompagna alla relazione e all’interazione (Ibidem, p. 181). Ciò che viene appreso è la possibilità stessa di istituire mappe e territori; giocare non significa comportarsi secondo ruoli e regole, ma istituirli, e l’atto stesso di farlo comporta apprendimento circa il fatto che l’esperienza si organizza in termini di tipi e categorie di comportamenti. 109 L’adulto, nell’interagire ludicamente con il bambino inizialmente “gioca” per il bambino, più che con il bambino (allo stesso modo in cui inizialmente parla per piuttosto che con il bambino all’interno dei primi format interattivi), istituendo la cornice ludica e dirigendo l’avvenimento; progressivamente il bambino imparerà a giocare i diversi ruoli che caratterizzano la situazione ludica diventando sempre più attivo e prendendo sempre più l’iniziativa85. In questa prospettiva il gioco solitario del bambino piccolo con gli oggetti non è la prima forma di gioco ma una riproduzione, un’imitazione differita, con le cose, dei giochi che l’adulto ha fatto con lui86. Giocando si apprende ad apprendere: è questo il significato di deuteroapprendimento. La congiunzione del modello di Vygotskij con quello di Bateson può risultare proficuo nella misura in cui anche Bateson sottolinea il carattere intrinsecamente relazionale dell’apprendimento, che comporta un’interpretare l’esperienza secondo quadri appresi in contesti di comunicazione e interazione. Imparare a giocare, così come imparare il significato degli «strumenti» significa apprendere che del mondo possono darsi diverse interpretazioni. 85 «Riassumendo possiamo dire che le funzioni svolte dall’adulto come “iniziatore” ludico sono le seguenti: - l’adulto inizialmente crea la cornice ludica e esegue un gioco (iniziatore ludico); - l’adulto rinforza i comportamenti del bambino trasformando atti senza significato in atti aventi un significato ludico; - il comportamento dell’adulto è contingente rispetto a quello del piccolo; l’adulto assume i ruoli ludici non svolti dal bambino ed è pronto a modificarli in funzione della progressiva capacità del bambino di assumerli e di attivare nuove forme di gioco; - l’adulto accetta di non essere l’unico “compagno” di giochi del bambino e si fa “tramite” della relazione del bambino con altri bambini. Come conseguenza il piccolo diventa sempre più attivo nel gioco condiviso: a) inizialmente si mostra attento e divertito quando la madre gioca con lui; b) tra i 7 e i 10 mesi mostra di comprendere la struttura di semplici giochi (“cucù”, “dare e prendere”, “costruire e distruggere”) ed è in grado di prevedere le azioni materne; c) verso gli otto mesi assume per circa la metà del tempo di gioco un ruolo attivo; d) a partire dai 12 mesi prende sempre più spesso l’iniziativa e alterna i ruoli; e) tra i 15 e i 18 mesi produce variazioni di giochi noti e ne inventa di nuovi. Infine il piccolo, che ha appreso modelli di gioco con l’adulto, trasferisce questi modelli nel gioco con gli oggetti e con altri partner (coetanei, altri adulti)» (Bondioli, 1996, pp. 107-108). 86 «C’è molto poco di immaginario. E’ una situazione immaginaria, ma è comprensibile solo alla luce di una situazione reale che è appena avvenuta. Il gioco è più vicino al ricordo di qualcosa che è effettivamente avvenuto che 110 L’adulto svolge un ruolo fondamentale nell’acquisizione dell’atteggiamento ludico e dell’orientamento simulativo […]. Si potrebbe pensare che una volta acquisito un atteggiamento ludico il bambino possa essere lasciato a se stesso nella sua avventura giocosa col mondo […]. Ma l’addestramento al gioco, da parte dell’adulto, continua per introdurre il bambino in un universo ludico più complesso quale è quello del gioco simbolico, nel quale la riproduzione “per finta” di scene e gesti di vita quotidiana comporta la capacità di far uso e di manipolare simboli e significati. Il gioco di finzione è un gioco con i significati delle cose più che con le cose stesse e anch’esso, nella sua struttura come nei suoi contenuti tipici, richiede addestramento e apprendimento. (Bondioli, 1996, p. 109). Secondo Vygotskij l’evoluzione del gioco andrebbe nel senso della realizzazione sempre più cosciente degli scopi per cui si gioca. L’azione nella sfera immaginaria, in una situazione immaginaria, la creazione di intenzioni volontarie, e la formazione di programmi di vita reale e di motivi volitivi, tutti compaiono nel gioco e fanno di esso il livello più alto di sviluppo prescolare […]. Alla fine dello sviluppo, emergono le regole e tanto più sono rigide tanto maggiori le esigenze della loro applicazione da parte del bambino, tanto maggiore la regolamentazione dell’attività del bambino, e più teso e acuto diventa il gioco […]. Di conseguenza, un complesso di aspetti originariamente non sviluppati vengono alla ribalta alla fine del gioco (aspetti che all’inizio erano secondari o incidentali occupano alla fine una posizione centrale, e viceversa). (Vygotskij, 1978, pp. 150-151). Va comunque notato che il concetto stesso di gioco sia mediato culturalmente: che cosa possa essere considerato come tale, in che modo venga connesso ad apprendimenti significativi, quali siano i all’immaginazione. E’ più la memoria in azione che una nuova situazione immaginaria» (Vygotskij, 1978, pp. 150-151). 111 contesti nei quali si può o non può esprimere, quali siano gli agenti deputati al suo insegnamento… è questione relativa a valori implicitamente ed esplicitamente condivisi all’interno di un orizzonte culturalmente connotato. Tali valori vengono anch’essi appresi e contribuiscono a definire le cornici ludiche, in senso batesoniano, che assegnano significato ai comportamenti e alle azioni ludiche. Più o meno nello stesso periodo in cui appaiono i primi giochi simbolici, ovvero a partire dal secondo anno d’età87, ha luogo l’acquisizione dei simboli linguistici88. Proprio perché lo stesso Vygotskij osserva che l’acquisizione del linguaggio rappresenta un caso paradigmatico del processo di interiorizzazione dei segni, e quindi dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, esso può essere preso come modello per ogni apprendimento culturale89. Riportiamo dunque di seguito una sintesi del processo di apprendimento del significato delle parole nello sviluppo del bambino. La funzione iniziale del linguaggio è la funzione della comunicazione, del legame sociale, dell’azione su coloro che sono attorno, sia dalla parte 87 Secondo Tomasello i bambini imparano a usare gli oggetti come simboli pressappoco nello stesso modo in cui imparano ad usare i simboli linguistici. Cfr. Tomasello, 1999, pp. 107-111 e 156-159. 88 E’ durante il secondo anno di vita che si attesta il fenomeno denominato “esplosione del vocabolario”. «In questa fase il ritmo di espansione è di 5 o più nuove parole (fino anche a 40) per settimana, cosicché alla fine del periodo in questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma può raggiungere anche 600 parole. Il bambino diventa capace di attribuire alle parole uno status propriamente simbolico ed è in grado di capire non solo che tutte le cose hanno un nome, ma anche che c’è un nome per qualsiasi cosa. La capacità di attribuire piena autonomia simbolica alla parola fa sì che il bambino apprenda nuovi vocaboli con grande rapidità, e impari anche ad usare flessibilmente le parole che conosce» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 138-139). 89 Nell’evolversi del pensiero vygotskijano, si presenta sempre più chiaramente definita la posizione relativa alla funzione del segno-strumento nella ristrutturazione delle funzioni psichiche superiori. Si fa quindi strada, nell’insieme degli scritti che precedono la sua ultima opera, la descrizione dell’importanza del linguaggio nello sviluppo culturale. Questo tema troverà una trattazione elettiva nel volume Pensiero e linguaggio, cui si rimanda, in cui Vygotskij descrive lo sviluppo delle forme di concettualizzazione, spontanea e scientifica, in connessione con il linguaggio. 112 degli adulti che dalla parte del bambino. Così il primo linguaggio del bambino è puramente sociale; non sarebbe corretto chiamarlo socializzato poiché a questa parola è legato qualcosa che è non sociale all’inizio e diventa tale solo nel processo del suo cambiamento e sviluppo. (Vygotskij, 1934, p. 57) Dopo uno stadio iniziale, fondamentalmente pre-verbale e «primitivo» in cui il bambino emette grida o altri suoni, insorge uno stadio in cui per il bambino la parola che designa un oggetto è una proprietà dell’oggetto stesso: «in altre parole il legame esterno tra gli stimoli, o il legame tra le cose, viene preso per un legame psicologico». Questo non significa che il bambino “scopre” che le cose hanno nomi, ma piuttosto il linguaggio si sviluppa attraverso reazioni verbali che si verificano nel contesto socio-culturale in cui vive: il bambino semplicemente usa le parole, così come fanno le persone che costituiscono la realtà sociale che li circonda. In questa fase i bambini rifiutano l’arbitrarietà della lingua e si aspettano delle parole “trasparenti”, che rivelino nella loro forma la qualità delle cose (Simone, 1988). Gli esperimenti e l’osservazione quotidiana dimostrano chiaramente che è impossibile per i bambini piccoli separare il campo del significato dal campo visivo perché c’è una così intima fusione tra significato e quello che è visto. Perfino un bambino di due anni a cui si chiede di ripetere la frase: “Tania è in piedi” quando Tania è seduta davanti a lui, la cambierà in “Tania è seduta”. In certe malattie si osserva la stessa situazione […]. Una separazione tra i campi del significato e della visione avviene per la prima volta in età prescolare […]. (Vygotskij, 1978, pp. 142-143). Dallo stadio in cui considera le parole come proprietà delle cose (lo stadio “magico” o della psicologia «naïf») il bambino passa allo stadio in cui adopera le parole come segni esterni: si tratta dello 113 stadio “egocentrico” del linguaggio90 durante il quale, parlando con se stesso, enuncia le azioni che deve compiere. In questo stadio i problemi psichici interni vengono risolti esternamente dal bambino per mezzo delle parole così come quando, nello stesso periodo, ricorre al calcolo sulle dita per contare. A questo terzo stadio ne segue un quarto, lo stadio del «ripiegamento» verso l’interno: il linguaggio diventa intellettivo e il pensiero diventa verbale. Nel campo del linguaggio a questo stadio corrisponde il linguaggio silenzioso, ovvero il pensiero verbale91. Il 90 Per analizzare il processo dinamico tra esistente tra pensiero e parola Vygotskij in Pensiero e linguaggio (1934) propone di analizzare la forma del linguaggio interiore, o endofasia. Questa forma è stata erroneamente considerata come un riflesso verbale inibito nella parte motoria (Behtérev) o come un linguaggio esteriore privato dell’aspetto sonoro (Watson). Esso è in realtà strutturalmente, funzionalmente e geneticamente diverso dal linguaggio esteriore; Vygotskij fonda queste affermazioni su una critica alla concezione del linguaggio egocentrico esposta da Piaget, al quale riconosce il merito di avere riscontrato per primo questa particolare forma di linguaggio e soprattutto di avere considerato la psiche del bambino non quantitativamente, ma qualitativamente diversa da quella adulta. Tuttavia Piaget aveva messo in relazione questa forma di linguaggio (ripetitivo e non rivolto all’altro anche se usato in contesti collettivi) come l’espressione dell’egocentrismo della mente infantile. Egli aveva descritto il percorso genetico di pensiero e linguaggio in modo tale da vederlo come un passaggio da uno stato iniziale di «pensiero autistico» (una forma di pensiero indipendente dalla realtà), uno stadio secondario in cui il bambino acquista una forma di pensiero individuale non socializzato (espressione dell’egocentrismo, di cui appunto il linguaggio egocentrico sarebbe espressione sintomatica), e uno stadio finale in cui, grazie all’acquisizione del linguaggio comunicativo (espressione della socializzazione) il bambino giunge al pensiero logico. Alla luce di questa interpretazione, afferma Vygotskij, il linguaggio egocentrico sarebbe una forma di linguaggio destinata a scomparire e priva di una funzione specifica nel contesto della psiche infantile. Egli replicò gli esperimenti di Piaget controllando come variabili indipendenti proprio la possibilità di essere compreso e la vocalizzazione (vietandola espressa mente o facendo svolgere i giochi spontanei ai bambini in presenza di un forte rumore). In queste situazioni, il linguaggio egocentrico non si presentava affatto. Egli deduce dunque che non si tratta di una forma che è l’espressione dell’egocentrismo del pensiero, ma di una forma di linguaggio verbale che rappresenta un precedente evolutivo del linguaggio interiore: una transazione tra lo stadio dello sviluppo che opera con funzioni interpsichiche, esteriorizzate, derivate dalla situazione sociale, e lo stadio in cui le funzioni divengono intrapsichiche, attraverso la loro interiorizzazione, che da luogo alla funzione regolativa interiore del proprio comportamento, che è la pianificazione. 91 «Se ora dalla genesi del linguaggio interno passiamo a come funziona il linguaggio interno dell’adulto, ci ritroviamo subito di nuovo con la stessa domanda: il pensiero e il linguaggio sono necessariamente legati nel comportamento dell’adulto, questi due processo possono essere identificati? Tutto quello che 114 linguaggio interiorizzato è una forma di pensiero che si struttura utilizzando le regole della lingua, le parole e i loro significati; è pensiero verbale al quale il linguaggio conferisce una forma logica, analitica e sequenziale. Il linguaggio egocentrico del bambino è uno dei fenomeni del passaggio delle funzioni interpsichiche a quelle intrapsichiche, cioè delle forme di attività sociale, collettiva del bambino alle sue funzioni individuali. Questo passaggio è una legge generale dello sviluppo di tutte le funzioni psichiche superiori che compaiono inizialmente come forme di attività di collaborazione e solo in seguito sono trasferite dal bambino nella sfera delle sue proprie forme psichiche di attività. Il linguaggio per se stessi nasce dalla differenziazione della funzione inizialmente sociale del linguaggio per gli altri. Non una socializzazione progressiva, apportata dal bambino dall’esterno, ma un’individualizzazione progressiva, nata sulla base della socialità interna del bambino, è il tratto principale dello sviluppo infantile. (Vygotskij, 1934, p. 350). L’acquisizione del linguaggio non è solo una conseguenza dell’apprendimento culturale, ma anche il mezzo privilegiato dalla nostra cultura per la trasmissione culturale. Il secondo processo dello sviluppo culturale è l’insegnamento attivo che si attua nella realtà dell’educazione e dell’istruzione92. sappiamo a questo proposito ci obbliga a rispondere negativamente a questa domanda. La relazione tra pensiero e linguaggio potrebbe essere rappresentata schematicamente in questo caso da due circonferenze che si intersecano, che mostrerebbero che i processi del linguaggio e del pensiero coincidono in parte. Questa è quella che si chiama sfera del “pensiero verbale”. Ma questo pensiero verbale non esaurisce né tutte le forme del pensiero, né tutte le forme del linguaggio. Vi è una grande area di pensiero che non ha alcuna relazione diretta con il pensiero verbale. E’ innanzitutto il caso, come ha già indicato Bühler, del pensiero strumentale e tecnico e in generale di tutta quella area che si chiama intelligenza pratica» (Vygotskij, 1934, 118). 92 La «ricrescita culturale» del bambino avviene attraverso l’apprendimento inteso come «una modificazione relativamente duratura e stabile del comportamento a seguito di un’esperienza, di solito ripetuta più vote» (Anolli, 2006a, p. 76). In questo senso l’apprendimento è, dal nostro punto di vista, distinto dalle 115 Mentre l’apprendimento sociale procede dal basso verso l’alto, con gli individui privi di conoscenze o di abilità che cercano di acquisirle dagli altri, l’insegnamento procede dall’alto verso il basso, con gli individui in possesso di conoscenze o di abilità che cercano di trasferirle a coloro che non le posseggono […]. D’altra parte, nonostante la grande variabilità interculturale, in tutte le culture umane gli adulti istruiscono i giovani in modo attivo e sistematico. Assieme all’apprendimento imitativo, anche l’istruzione attiva è molto probabilmente cruciale per il tipo di evoluzione culturale peculiare dell’uomo. (Tomasello, 1999, pp. 52-53). Dal momento che l'interazione sociale è costituita principalmente dalla parola ed è mediata dalla stessa, ciò che viene interiorizzato nel flusso di pensiero del bambino sono i significati e le forme generati durante lo scambio verbale, che sono a loro volta prodotti di un più ampio sistema storico-culturale che esprime gli innumerevoli modi di interpretare intersoggettivamente il mondo che si sono accumulati, in tempi storici, in una determinata cultura. modificazioni del comportamento dovute a programmi genetici e a circuiti nervosi sottesi ai riflessi, dai processi maturativi e dalle condotte istintive. Solitamente di distinguono due tipologie di apprendimento: l’apprendimento individuale (come capacità di acquisire nuove conoscenze a seguito di un’esperienza personale) e l’apprendimento sociale (come capacità di acquisire nuove conoscenze e pratiche a seguito dell’interazione sociale). Anolli, riprendendo le ricerche di Boyd e Richerson (2005) sottolinea come in ambienti stabili l’apprendimento sociale risulti più vantaggioso di quello individuale in quanto il primo risulta più affidabile e il secondo più soggetto ad errori. In ambienti variabili si ha il rapporto inverso: maggiore rilevanza dell’apprendimento individuale in quanto l’apprendimento sociale risulta meno affidabile. «Si è visto che le specie con un elevato livello di apprendimento sociale presentano anche un eguale elevato livello di apprendimento individuale. L’apprendimento sociale svolge la funzione di accelerare e rendere meno casuale l’apprendimento individuale (Galef, 1996). In generale, l’incremento dell’encefalizzazione è strettamente connesso a forme rilevanti di attaccamento ai genitori, al ritardo della maturazione sessuale e a un arco di vita abbastanza prolungato: tutte condizioni che favoriscono l’apprendimento sociale (Eisenberg, 1981)» (Anolli, 2006a,pp. 76-77). Ciò che rende l’apprendimento sociale specifico nella nostra specie si basa su due dispositivi: l’imitazione (vs emulazione) e l’insegnamento attivo. 116 Attraverso il linguaggio, il bambino sviluppa una particolare forma di cognizione, o come direbbe Howard Gardner (1983), una particolare forma di intelligenza, che definisce le categorie cognitive con cui descrivere e spiegare i fenomeni. Gardner definisce simbolo una qualsiasi entità materiale o astratta che possa denotare qualsiasi altra entità o che possa riferirsi ad essa […]. Sono simboli parole, diagrammi, numeri e una vasta gamma di altre entità. E’ simbolo un qualsiasi elemento – una linea non meno di una pietra – purché venga usato (e interpretato) come rappresentante una qualche sorta di informazione. (Gardner, 1983, p. 321). Oltre a questa funzione rappresentativa un simbolo ha anche una funzione espressiva: può trasmettere un certo stato d’animo, un certo sentimento o una certa tonalità […] solo finché la comunità in oggetto decida di interpretare un particolare simbolo in modo particolare. (Ibidem, p. 322). Da questa definizione emerge che non solo le parole, ma anche altri artefatti (suoni, gesti, grafismi…) possono essere usati in veste di simboli. Come le parole, anche questi simboli possono funzionare isolatamente o entrare come componenti in sistemi più elaborati. Se le parole vengono organizzate nel linguaggio parlato e scritto, i numeri e altri sistemi astratti vengono organizzati nel linguaggio matematico, i gesti in sistemi di danze, codici rappresentativi ed espressivi, «strumenti» che ci consentono di descrivere ed esprimere aspetti della realtà. Susanne Langer (1969) afferma che la capacità di trattare con simboli (parole, dipinti, diagrammi e composizioni musicali) è il carattere distintivo della conoscenza umana. Le modalità di pensiero artistico sono altrettanto valide di quelle matematiche o scientifiche; 117 la differenza consiste nel tipo di simboli usati e nel tipo di processo cognitivo messo in atto. La Langer non privilegia simboli astratti e logici – matematica, metalinguaggio, linguaggi specialistici – e parla di forme simboliche non solo discorsive come il linguaggio orale e scritto ma anche «presentazionali» (simboli ostensivi quali dipinti). Accanto al linguaggio matematico la Langer colloca la musica, il mito, il rito, l’arte come altrettante forme simboliche93. Gardner, servendosi delle argomentazioni della Langer, osserva che l’atto creativo assume una sua specificità in funzione del tipo di simboli con cui ha a che fare e giunge per questa via e attraverso studi neurofisiologici sulla specificità delle funzioni celebrali e di psicologia evolutiva a ipotizzare l’esistenza di «intelligenze multiple»94 connesse ai diversi sistemi simbolici. A mio giudizio, una competenza intellettuale umana deve comportare un insieme di abilità di soluzione di problemi, consentendo all’individuo di risolvere genuini problemi o difficoltà in cui si sia imbattuto e, nel caso, di creare un prodotto efficace; inoltre deve comportare la capacità di trovare o creare problemi, preparando in tal modo il terreno all’acquisizione di nuova conoscenza. (Gardner, 1983, pp. 80-81). 93 L'accezione di simbolo cui si riferisce l’autrice si illustra unicamente in contrapposizione a segnale. Segnale è ciò che indica l'esistenza di qualcosa. Segnale è il ruggito di un leone, che indica l'esistenza di un leone nelle nostre immediate vicinanze. Segnali della mia ira sono le vampe di rossore che salgono al viso, il tono della mia voce. Per la Langer tutto ciò che ha carattere di segno, ma non di segnale, deve essere annoverato nell'ambito dei simboli. Ed allora saranno simboli le parole del linguaggio verbale o scritto, in quanto “presentano” un'idea. Presentando un'idea si connettono insieme formando una frase, un discorso. La nozione di simbolo può essere attinta dal linguaggio verbale o scritto - ma esempi tratti soltanto da quest’ambito implicherebbero, secondo la Langer, un’indebita restrizione. La sua “scoperta” è che vi sono anche simboli non discorsivi (Langer, 1969). 94 «Diventa necessario dire – e dirlo una volta per tutte – che non c’è, non potrà mai esserci, un elenco singolo inconfutabile e universalmente accettato delle intelligenze umane […]. Queste intelligenze sono finzioni – nel migliore dei casi finzioni utili – per parlare di processi e abilità che (come il resto della vita) formano un continuo. La natura non presenta discontinuità brusche […]. Le varie intelligenze sono definite e descritte separatamente nel preciso intento di illuminare problemi scientifici e affrontare pressanti problemi pratici» (Gardner, 1983, pp. 8090). 118 Gardner definisce come forme di intelligenza solo le abilità valorizzate culturalmente, che si rivelano di qualche importanza all’interno di un contesto culturale. Al tempo stesso, riconosco che l’ideale delle qualità apprezzate differisce marcatamente, a volte anche in modo radicale, fra una cultura umana e l’altra, nell’ambito della creazione di nuovi prodotti o della formulazione di nuovi problemi di importanza relativamente modesta in taluni contesti. I requisiti preliminari sono un modo per assicurare che un’intelligenza umana sia veramente utile e importante, almeno in certi contesti culturali. Questo criterio da solo può condurre a escludere certe capacità che, sulla base di altre ragioni, potrebbero soddisfare i criteri che mi accingo a fissare. Per esempio, l’abilità di riconoscere le facce è una capacità che sembra essere relativamente autonoma ed essere rappresentata in un’area specifica del sistema nervoso umano. Essa esibisce inoltre una storia di sviluppo sua propria. Eppure, a quanto so, benché gravi difficoltà nel riconoscimento di facce possano creare dell’imbarazzo a qualche individuo, non pare che questa abilità sia molto apprezzata da molte culture. Né ci sono molte opportunità di trovare problemi nel campo del riconoscimento delle facce. (Ibidem, p. 81). Tra gli elementi che Gardner ritiene indispensabili per poter definire un’abilità o un insieme di abilità come forma particolare di intelligenza vi sono le seguenti caratteristiche che hanno importanza dal nostro punto di vista: a) una storia di sviluppo caratteristica nel corso dell’ontogenesi, con periodi critici (come pure pietre miliari) identificabili connessi all’apprendimento o alla maturazione, assieme a un complesso di prestazioni «terminali» esperte; b) una storia evolutiva e una sua plausibilità dal punto di vista filogenetico; c) una tendenza “naturale” dell’abilità specifica a materializzarsi in sistemi 119 simbolici, sistemi di significati elaborati culturalmente che 95 racchiudono forme importanti di sapere . Lo studio di come tali sistemi simbolici evolvano nel corso dell’ontogenesi permette di considerare «l’intelligenza come proprietà emergente in uno specifico contesto storico-culturale che allo stesso tempo include un insieme particolare di artefatti, con cui gli agenti interagiscono» (Grasseni – Ronzon, 2004, p. 157). Per spiegare lo sviluppo di un pensiero mediato dalla cultura dunque è necessario specificare non solo gli «strumenti» attraverso i quali il comportamento viene mediato ma anche le circostanze nelle quali esso ha luogo, ossia la nicchia di sviluppo all’interno della quale esso avviene96. 95 Gardner (1983) identifica «otto segni» che identificano un’intelligenza. Accanto a quelli già citati vi sarebbero: l’isolamento di facoltà in conseguenza di un danno celebrale; la possibilità di trovare individui che presentino profili “eccezionali” come gli idiots savantes o altri prodigi; un’operazione o un insieme di operazioni centrale identificabile; prove a sostegno fornite da compiti psicologici sperimentali e da risultati psicometrici (Ibidem, pp. 83-86). Va inoltre notato che le intelligenze non sono equivalenti a sistemi sensoriali in quanto sono capaci di realizzarsi (almeno in parte) attraverso più di un sistema sensoriale. Sono più ampie di meccanismi di elaborazione specifici e più limitate e ristrette di capacità «generali» come analisi, sintesi o il senso del Sé (Ibidem, pp. 86-88). 96 Nel corso degli anni sono stati proposti diversi modi di concettualizzare l’unità d’analisi che lega il bambino al suo ambiente socioculturale e al mutamento evolutivo. Bronfenbrenner (1979) parla di “nicchie ecologiche” in riferimento alle proprietà e alle condizioni degli ambienti fisici e psichici che favoriscono o ostacolano lo sviluppo; Charles Super e Sara Harkness (1972, 1986), fanno riferimento a “nicchie evolutive” come insiemi di: ambiente fisico e sociale, modalità di accudimento e di educazione (regolate culturalmente), psicologia di chi si prende cura del bambino (incluse le credenze dei genitori sui bisogni del bambino, le finalità educative, e le conoscenze condivise sulle cure e le pratiche educative); Cole (1996) identifica varie pratiche culturali come unità prossimali dell’esperienza infantile molto simili alle nicchie evolutive di Super e Harkness; Jaan Valsiner (1987) distingue le nicchie in base al coinvolgimento degli adulti: nella Zona di Movimento libero (la nicchia più interna) l’adulto struttura l’accesso del bambino a determinati ambienti, oggetti, eventi e strumenti e lo incentiva in vari modi ad agire in determinate maniere, creando la Zona dell’Azione Incentivata adatta allo stato di sviluppo corrente del bambino, in modo da guidarne lo sviluppo futuro. E’ importante sottolineare che tutti questi approcci concordano nel sostenere che se è vero che gli adulti creano le nicchie evolutive e, in virtù del loro ruolo e, impongono determinate restrizioni nell’organizzazione del comportamento al loro interno, la realizzazione degli eventi che vi si verificano dipende in ampia misura dal bambino e dall’ambiente socio-culturale, i quali giocano un ruolo attivo. 120 1.2.3 L’apprendimento come processo situato e distribuito Occorre dunque tener presente la collocazione “ecologica” dei processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza nell’ambito di peculiari configurazioni contestuali, individuando come unità di analisi una complessa realtà di natura essenzialmente sociocognitiva – “costruita” dai soggetti in esso implicati, che si evolve attraverso processi di cambiamento e sviluppo che si danno sulla base di una costante e reciproca interazione tra individuo e contesto97. Questa visione dei processi di apprendimento viene a costruirsi sulla base di una prospettiva di matrice storico-culturale che vede il contesto in cui un’attività cognitiva ha luogo come parte integrante di quella attività e non solo come la dimensione fisico e socio-culturale in cui essa si inscrive. Tale dimensione ha una funzione costitutiva 97 Segnaliamo a proposito il lavoro pionieristico compiuto da Margaret Mead (1935) che per prima ha evidenziato come i momenti di attività condivisa, più o meno intenzionalmente “educativi”, abbiano sempre conseguenze sullo sviluppo. Molte ricerche, sulla stessa scia hanno contribuito a definire il rapporto tra sviluppo individuale e processi culturali. Il modello psicoculturale di Beatrice e John Whiting (1975) si è occupato ad esempio del rapporto tra sviluppo individuale da un lato e aspetti immediati, partner sociali, valori culturali e sistemi istituzionali dall’altro. Secondo tale prospettiva, per comprendere lo sviluppo è necessario acquisire dettagliate informazioni sulle situazioni in cui esso ha luogo: tanto le situazioni “immediate” quanto i processi culturali meno diretti che riguardano il bambino e le persone che lo circondano (e coloro che li hanno preceduti). In questo modello viene evidenziato maggiormente l’insieme delle situazioni che il bambino vive e lo sviluppo è visto come il prodotto di una serie di condizioni sociali e culturali in cui il bambino è immerso (Whiting - Whiting, 1975). Un’ultima segnalazione di contributi riguardanti gli studi pionieristici sugli aspetti contestuali dello sviluppo è il classico Ecologia dello sviluppo umano di Urie Bronfenbrenner. In questa prospettiva l’ambiente è costituito tanto dai contesti di cui il bambino ha diretta esperienza, quanto dai sistemi culturali e sociali, che pongono in relazione situazioni diverse, quali la casa, la scuola, il luogo di lavoro dei genitori… Bronfenbrenner era interessato a specificare le proprietà degli ambienti fisici e psichici che favoriscono o ostacolano lo sviluppo all’interno delle “nicchie ecologiche” in cui un individuo vive. Egli definisce l’ecologia dello sviluppo umano come «lo studio scientifico del progressivo adattamento reciproco tra un essere umano attivo che sta crescendo e le proprietà, mutevoli, delle situazioni ambientali immediate in cui l’individuo in via di sviluppo vive, anche nel senso di definire come questo processo è determinato dalle relazioni esistenti tra le varie situazioni ambientali e dai contesti più ampi di cui le prime fanno parte» (Bronfenbrenner, 1979, pp. 54-55). 121 nei processi di apprendimento individuali che devono essere interpretati come contestualmente situati e distribuiti98 tra il soggetto, gli artefatti culturali e le relazioni sociali in cui è implicato. Ogni processo di apprendimento si produce in un particolare setting e in un particolare contesto, le cui caratteristiche svolgono un ruolo essenziale e costitutivo del processo stesso. In questo senso si può sostenere che si tratti di un processo «situato» sia in quanto collocato in un tempo e in uno spazio specifico, sia in quanto determinato dalle relazioni sociali e dai significati culturali che appartengono a quel determinato contesto sia, infine, in quanto parte essenziale di pratiche99 che generano conoscenze nell’ambito di una varietà di dimensioni della vita (Lave – Wenger, 1991). 98 «L’espressione cognizione situata oggi indica un insieme non compatto di teorie e prospettive che propongono una visione contestualizzata (e, perciò, particolaristica) e sociale della natura del pensiero e dell’apprendimento. Gli studiosi della cognizione situata hanno come punto di partenza la natura distribuita dell’attività cognitiva – il fatto che, nelle normali circostanze, l’attività mentale implica una coordinazione sociale. Completare un lavoro, calcolare qualcosa, sono quasi sempre azioni fatte in coordinazione con altri. Ciò che rende un individuo competente non è solo ciò che conosce, ma anche come la sua conoscenza si accorda con quella degli altri individui con i quali l’attività deve essere coordinata. Inoltre, l’attività è spesso condivisa con degli strumenti (Hutchins, 1991) e anche con le cose fisiche di ogni giorno su cui le persone ragionano (Lave, 1988). C’è, perciò una distribuzione del lavoro cognitivo non solo tra le persone ma anche tra persone e strumenti. Essere competente significa risultare in grado di usare strumenti particolari in modi particolari. Gli strumenti in se stessi rappresentano una porzione dell’intelligenza necessaria per portare a termine un qualsiasi compito particolare. La natura distribuita della prestazione competente significa che la competenza è altamente specifica della situazione. Si deve essere capaci di comportarsi in una particolare situazione, con strumenti particolari e con particolari altre persone. La prospettiva della cognizione situata, allora, tende ad allontanare dalla ricerca delle strutture generali della conoscenza e a portare verso lo studio degli ambienti particolari dell’attività cognitiva e verso la conoscenza che si accorda con questi ambienti. Allo stesso tempo sottolinea la natura sociale dell’attività e dello sviluppo cognitivi» (Resnick, 1994, pp. 75-76). 99 «Che una “svolta pratica” nella teoria contemporanea sia oramai conclamata (Schatzki, Knorr-Cetina, von Savigny, a cura, 2001) si rende evidente nel modo in cui, in antropologia, filosofia, scienze cognitive, linguistica e psicologia, ci si propone di ripensare attraverso il concetto di pratica le teorie della società, della conoscenza e del significato. Il fatto che il concetto di pratica oramai si imponga sia nelle scienze sociali che in quelle umanistiche è il risultato di una tendenza di lunga durata. Secondo l’ampia sintesi di Sherry Ortner (1984), la “pratica” si è costruita progressivamente come una categoria oppositiva, per contrasto con le categorie maggiormente usate dalle teorie antropologiche e sociologiche degli anni Sessanta (il simbolo, la struttura, il sistema energetico-ambientale), come pure in seguito alle istanze prodotte dalla critica marxista degli anni Settanta. I precursori della “svolta pratica” sarebbero quindi quei molti che, a vario titolo e con diverse 122 Riprendendo il significato etimologico di “contesto” (contextere) come “intrecciare” Cole sottolinea come esso non possa essere ridotto a “ciò che ci circonda”, ma come costituisca piuttosto una relazione qualitativa fra minimo due entità analitiche (fili) intese come due momenti di un unico processo […]. I confini tra “il compito e il suo contesto” non sono ben delineati e statici ma ambigui e dinamici. matrici teoriche, hanno sottolineato l’importanza dell’azione e dell’agente rispetto alla struttura; della comunicazione e della performance rispetto a norme e regole; del “dramma” e dell’interpretazione dei soggetti rispetto all’idea di società come organismo o macchina. La rivalutazione dei desideri, dell’interazione, dell’esperienza dei soggetti, attori, individui, è un processo che già negli anni Ottanta interessava non solo l’antropologia ma l’arte, la storia, la sociologia, la storia e la filosofia della scienza e la critica letteraria. Nel contempo, pur sottolineando la riscoperta della cosiddetta agency degli individui, ci si chiedeva e si studiava come essa interagisse, e addirittura contribuisse a produrre e riprodurre gli stessi “sistemi sociali” e le loro “strutture” (Giddens, 1984) attraverso gli aspetti routinari della pratica» (Grasseni - Ronzon, 2004, pp. 13-14). I primi contributi in questa direzione possono essere considerati i lavori di Marcel Mauss (1936) nello studio pionieristico sulle tecniche del corpo come variabili culturali, socialmente acquisite, creatrici di un sapere pratico e non discorsivo; di André Leroi-Gourhan (1964) e le sue analisi sul gesto tecnico-operativo produttore di artefatti; di Pierre Bourdieu (1972) che delinea una vera e propria teoria della pratica che, una volta appresa tramite processi di mimesis, “prova ed errore” o istruzione esplicita è incorporata a livello soggettivo dai diversi attori sociali in un habitus «inteso come un sistema di disposizioni durature e trasferibili che, integrando tutte le esperienze passate, funziona in ogni momento come matrice delle percezioni, delle valutazioni e delle azioni» (Bourdieu, 1972, p. 211). Il tema della pratica è stato variamente declinato dalla “svolta pragmatica” in filosofia (Dewey, Ryle, Austin, Wittgestein, Rorty); o ancora, in ambito sociologico, dall’etnometodologia (Garfinkel, Lynch, Sudnow). Uno scenario più ampio è costituito dal dibattito a noi contemporaneo sulla teoria della pratica (practice theory) che si propone un superamento della distinzione tra conoscenza ed esperienza, ovvero tra pensiero teorico e pratico per impostare lo studio dei contesti di lavoro come contesti di acquisizione e uso di competenze e di performance cognitive. Secondo questa prospettiva tutti i processi di pensiero sono pratici, nel senso che tutti sono inseriti in quadri di attività storicamente e culturalmente determinati. «In questa prospettiva il pensiero pratico non è un residuo o succedaneo del “vero” pensiero (e la competenza pratica non è il parente povero di quella teorica), ma piuttosto ogni attività cognitiva, proprio perché nei contesti di vita reale è mediata culturalmente e finalizzata al perseguimento di specifici obiettivi, può essere definita come pensiero in azione che necessita di conoscenza pratica. In questa prospettiva quindi pratico non è contrapposto a teorico, ma piuttosto diventa un qualificatore e un descrittore di tutti i processi cognitivi messi in atto nello svolgimento di attività reali, anche lavorative, essendo un aspetto necessario al raggiungimento degli scopi di quelle attività. In questo senso è quindi pratico tutto quel pensiero mediato culturalmente, situato in quadri di attività storicamente e culturalmente determinati e legato al raggiungimento di determinati obiettivi» (Zucchermaglio, 1995, p. 240). 123 Come regola generale, ciò che è considerato come oggetto e ciò che è considerato come “ciò che circonda l’oggetto” si forma nel momento in cui vengono nominati […]. Un “atto nel suo contesto”, inteso in riferimento alla metafora dell’”intrecciare”, richiede un’interpretazione relazionale della mente; oggetti e contesti si presentano insieme come parte di un unico processo di sviluppo bio-socio-culturale […]. In poche parole, dato che ciò che chiamiamo mente opera per mezzo di artefatti, essa non può essere incondizionatamente circoscritta nella testa o nel corpo, ma deve essere vista come distribuita tra gli artefatti, che sono tra di loro intrecciati e che intrecciano azioni umane individuali con e come parte degli eventi permeabili e mutevoli della vita. L’assetto rilevante del contesto dipenderà in modo decisivo dagli strumenti attraverso i quali si interagisce con il mondo, e questi dipendono a loro volta dagli obiettivi che si hanno e da altre condizioni imposte all’azione […]. In base a questa concezione del contesto, la combinazione di obiettivi, strumenti e situazione costituisce contemporaneamente il contesto del comportamento e i modi in cui i processi cognitivi possono essere ritenuti connessi a quel contesto. (Cole, 1996, pp. 124-125). In un senso più generale ogni comportamento non può che essere inteso in senso relazionale, ossia in relazione ad un contesto. Cole (1996) propone poi di espandere il triangolo base di mediazione proposto dai teorici storico-culturali russi (fig. 1) per rappresentare i molteplici modi in cui gli artefatti culturali mediano l’attività degli individui come membri di un gruppo sociale. Egli riprende il diagramma elaborato da Yrjo Engeström (1987) il quale si riferisce alla “situazione” che si presenta all’interno di un particolare contesto come un sistema di attività che integra il soggetto, l’oggetto e gli strumenti (strumenti materiali ma anche i segni e i simboli) in un sistema unificato. 124 Un sistema d’attività incorpora sia l’aspetto produttivo orientato all’oggetto che l’aspetto comunicativo del comportamento umano orientato alla persona. Produzione e comunicazione sono inseparabili. In realtà, un sistema di attività umana contiene sempre sub-sistemi di produzione, distribuzione, scambio e consumo. (Engeström, cit. in Cole, 1996, p. 127) Strumenti (artefatti mediazionali) Bambino Regole sociali Mondo Comunità Divisione del lavoro Figura 2: Il triangolo della mediazione di base allargato (dopo Engeström, 1987) per includere altri soggetti (Comunità), le regole sociali e la divisione del lavoro tra il soggetto e gli altri (ruoli). La relazione superiore (Subject-Instruments-Object) rappresenta il livello dell’azione elaborato dalla scuola russa. Questo è il livello dell’azione mediata, attraverso la quale il soggetto, agendo sull’oggetto, lo trasforma. Ma l’azione esiste “in quanto tale” solo in relazione ai componenti della parte bassa del triangolo. (Ibidem, p. 128). Se guardiamo questi tre momenti in rapporto con quelli disposti lungo la base del triangolo, possiamo vedere un numero di linee lungo le quali l’azione individuale è parte di un ordine sociale più ampio. 125 La comunità fa riferimento a coloro che condividono lo stesso oggetto in generale; le regole fanno riferimento alle norme e alle convenzioni esplicite che confinano l’azione all’interno del sistema d’attività; la divisione del lavoro fa riferimento alla divisione, fra i membri della comunità, delle azioni orientate sugli oggetti. I vari componenti di un sistema di attività non esistono isolatamente gli uni dagli altri; al contrario si costruiscono, rinnovano e trasformano costantemente come risultato e causa della vita umana. Nella teoria dell’attività, riassunta nella figura, i contesti sono sistemi d’attività. Il sub-sistema associato alle relazioni soggetto-mediatore-oggetto esiste solo in relazione agli altri elementi del sistema. E’ una concezione del contesto interamente relazionale. (Ibidem). L’azione mediata è vista come un costituente di, e come costituita da, l’attività mediata collettiva. Ciò si collega ad una prospettiva di lettura dei processi cognitivi e d’apprendimento che mette in discussione il paradigma secondo cui è possibile individuare un nucleo cognitivo indipendente dai contesti socio-culturali e dalle intenzioni umane. Ogni atto cognitivo deve essere inteso come una specifica risposta ad una determinata serie di circostanze, e solo attraverso la comprensione di tali circostanze e della «costruzione» che i soggetti implicati danno di una particolare situazione, diventa possibile comprendere la natura e il significato dell’atto in questione. L’apprendimento, pertanto, è un processo «situato» in quanto emergente da specifiche situazioni e da peculiari configurazioni contestuali in riferimento alle relazioni sociali, alle trame di significato, agli oggetti, agli strumenti e agli artefatti culturali presenti in esse. Questi elementi ne costituiscono una parte integrante ed essenziale, tanto che non si può pensare all’apprendere come ad un processo che si svolge unicamente su un piano intraindividuale attraverso procedure di acquisizione ed elaborazione di dati esperienziali, ma 126 come un processo che si costruisce in situazione, in dipendenza degli artefatti culturali e degli strumenti di cui si fa uso, delle relazioni sociali in cui si è implicati. Ogni esperienza di apprendimento si configura, pertanto, come unica e peculiare sulla base dei diversi contesti che la determinano. Ne deriva la necessità di un riconoscimento della collocazione dell’apprendere in tutte le dimensioni in cui si declina e si svolge il processo di formazione umano; dell’apprendimento che si da non solo e non tanto nei contesti formativi “formali” e istituzionali, ma anche e soprattutto in quelli non formali e informali, nelle comunità culturali d’appartenenza, negli ambienti di lavoro, nei luoghi in cui si svolge il vivere quotidiano100; del ruolo svolto dagli artefatti e dai 100 Negli anni Sessanta e Settanta, gli psicologi transculturali cercarono di applicare i test cognitivi sviluppati in America e Europa ai bambini di altri paesi (Cole, Gay, Glick e Sharp, 1971, Scribner 1975, 1977; Sharp, Cole, Lave, 1979). Questi test si basavano sulla teoria evolutiva di Piaget, o comunque erano test di classificazione, logica e memoria. L’obiettivo era di usare strumenti di misura slegati dalle attività quotidiane, per esaminare le abilità degli individui indipendentemente dalle loro conoscenze precedenti basate sull’esperienza quotidiana. «Alla base vi era la convinzione che la competenza “reale” delle persone che si ipotizzava caratterizzasse la loro abilità a destreggiarsi nelle diverse situazioni, dovesse essere studiata attraverso problemi insoliti, di cui non si conoscessero in anticipo le modalità risolutive. Il livello di competenza era considerato una caratteristica personale generale, fondante quasi ogni aspetto del comportamento, senza tener conto delle variazioni tra le varie situazioni. Con i test si cercava di studiare gli stadi generali di sviluppo cognitivo, o le abilità generali di classificazione, logica e memoria. Ci si attendeva che alcuni individui si trovassero ad uno stadio più “avanzato” o mostrassero – in generale – migliori abilità logiche, mnestiche o classificatorie rispetto ad altri» (Rogoff, 2003, p.36). I ricercatori rimasero sconcertati dal constatare che gli stessi soggetti che avevano ottenuto risultati molto bassi nei test cognitivi, mostravano notevoli capacità di ragionamento e memoria (abilità che i test avrebbero dovuto misurare) nelle attività quotidiane. Assumendo che la cognizione fosse una competenza generale, questa discontinuità risultava inspiegabile. Furono allora modificati i test, rendendone più familiare forma e contenuto, allo scopo di ottenere risposte più aderenti alle abilità sottostanti; autori come Sylvia Scribner (1975, 1977) e Michael Cole (Cole et al. 1971) iniziarono a notare che, benché si credesse che i test fossero indipendenti rispetto all’esperienza delle persone, in realtà vi era un legame tra performance ai test e grado di scolarizzazione. La possibilità di generalizzare automaticamente lo sviluppo cognitivo fu ulteriormente messa in discussione dai risultati della ricerca culturale, secondo cui gli individui non attraversano gli stessi stadi evolutivi, e le prestazioni alle prove variavano sensibilmente in base ai materiali, ai concetti e ai compiti stessi. I ricercatori iniziarono ad abbandonare l’idea che il pensiero consistesse in una 127 codici culturali, dagli oggetti e dagli strumenti d’uso, dagli ambienti fisici e sociali nei processi d’apprendimento e di costruzione della conoscenza. Per Barbara Rogoff i bambini sono «apprendisti del pensiero» il cui sviluppo è un processo di apprendistato che avviene grazie alla loro partecipazione guidata nell’attività sociale. Per ampliare la nostra prospettiva sulla natura collaborativa dei processi di apprendimento, in situazioni che possono contenere o meno espliciti insegnamenti, ho proposto il concetto di partecipazione guidata alle attività culturali (Rogoff 1990). Tale concetto da risalto ai diversi modi in cui i bambini imparano, partecipando e facendo riferimento ai valori e alle usanze delle loro comunità culturali. Con il concetto di partecipazione guidata non mi riferisco a un particolare metodo di sostegno all’apprendimento. Partecipazione guidata può essere una spiegazione, uno scherzo, un rimprovero, e forme di controllo sociale più o meno sottili, con cui gli adulti e i coetanei fanno notare al bambino i suoi difetti e sbagli commessi. In aggiunta, la partecipazione guidata include i tentativi dei partner sociali – e degli stessi bambini – di evitare alcune forme di apprendimento. Al fine di proteggerli, gli adulti evitano di parlare ai bambini di molti argomenti […]. I vincoli imposti dagli adulti sono espressione della natura partecipativa e guidata dello sviluppo. Nel concetto di partecipazione guidata, il termine “guidata” è dunque inteso in senso generale, includendo ma non limitandosi alle interazioni che contengono espliciti insegnamenti. Oltre alle interazioni finalizzate all’insegnamento, la partecipazione guidata contempla i rapporti ravvicinati e quelli a distanza in cui i bambini prendono parte a valori, usanze e competenze della comunità, senza espliciti insegnamenti e a volte persino in assenza dell’altro. In molti casi, essa si compie generica elaborazione delle informazioni, indipendente dal tipo di informazione e dalla familiarità degli individui con le attività testate (LCHC, 1983). 128 attraverso strumenti particolari o partecipando a istituzioni culturali. (Rogoff, 2003, p. 293). Il processo d’apprendimento è visto come processo di partecipazione dinamica ad attività culturali. In questo senso esso si differenzia dalla prospettiva dell’”influenza sociale”, secondo cui la socializzazione è promossa dagli adulti che organizzano l’apprendimento del bambino. Al contrario il concetto di partecipazione evidenzia il ruolo attivo essenziale giocato dai bambini non solo nell’apprendimento, ma anche nell’ampliamento delle usanze della comunità. Per Jean Lave ed Etienne Wenger l’apprendimento consiste in un cambiamento del grado di coinvolgimento degli individui, in veste di partecipanti periferici legittimi nelle comunità di cui fanno pratica. La principale caratteristica definitoria dell’apprendimento inteso come attività situata è un processo che chiamiamo partecipazione periferica legittima. Con questa espressione intendiamo richiamare l’attenzione sul fatto che le persone che apprendano partecipano inevitabilmente a una comunità di praticanti, e che la piena acquisizione di conoscenze e abilità richiede ai nuovi arrivati di indirizzarsi verso una piena partecipazione alle pratiche socioculturali di una comunità. L’espressione “partecipazione periferica legittima” ci permette di parlare delle relazioni fra nuovi arrivati e veterani nonché di attività, identità, strumenti e comunità di conoscenza e pratica. Si riferisce al processo mediante il quale i nuovi arrivati entrano a far parte di una comunità di pratica. Le intenzioni di apprendere si esprimono, e il significato dell’apprendimento si configura, nel processo con il quale una persona diventa partecipante a pieno titolo di una pratica socioculturale. Questo processo sociale comprende, anzi, sussume, l’apprendimento di abilità consapevoli. (Lave – Wenger, 1991, p. 19). Si tratta di una teoria in cui l’apprendimento non è semplicemente situato nella pratica sociale, ma ne è parte integrante. Attraverso l’ascolto, l’osservazione, l’acquisizione tacita di modalità cognitive e 129 di trame di significato, colui che apprende nell’ambito di uno specifico contesto formativo diventa partecipe di una peculiare dimensione culturale alla quale appartiene in modo sempre più legittimo nel momento in cui quanto appreso è accettato e riconosciuto come significativo. In verità, nulla viene davvero trasmesso. La crescita della conoscenza pratica nella storia di vita di una persona è il risultato non della trasmissione di informazioni ma di una riscoperta guidata. Con questo intendo dire che ad ogni generazione, gli apprendisti imparano per mezzo del loro essere situati in determinati contesti nei quali, alle prese con certi compiti, viene loro mostrato cosa fare e a che cosa prestare attenzione, sotto la tutela di mani più esperte. Mostrare qualcosa a qualcuno significa rendere qualcosa presente a quella persona, di modo che essa lo apprenda direttamente, attraverso lo sguardo o l’ascolto o il tatto. La responsabilità del tutore sta nel creare le condizioni in cui si fornisce all’apprendista la possibilità di tale esperienza immediata. Posto in una situazione di questo tipo, l’apprendista viene istruito a porgere attenzione a questo o quest’altro aspetto di ciò che vede, sente o tocca, in modo da “sentirlo” da solo […]. Ciò che ciascuna generazione contribuisce alla prossima non sono regole e rappresentazioni per la produzione del comportamento appropriato, ma piuttosto circostanze specifiche nelle quali i successori, crescendo in un mondo sociale, possono sviluppare le proprie abilità e disposizioni incorporate e le proprie capacità di coscienza e sensibilità. Apprendere in questo senso è tutt’uno con ciò che James Gibson, il pioniere della psicologia ecologica, chiamò “educazione dell’attenzione” (Gibson, 1979). (Ingold, 2001, p. 69). 1.2.4 Contesti di insegnamento-apprendimento Una riflessione antropologica sull’apprendere in quanto processo contestualmente determinato impone a diversi livelli un’indagine 130 critica e una “rivisitazione” di alcuni “contesti” della formazione in cui si è tradizionalmente ipotizzata la localizzazione dei processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza. Il primo di questi “contesti” è identificabile con la mente, che, nell’ambito di una tradizione di pensiero e di ricerca ampliamente diffusa e condivisa, è stata intesa in passato come dimensione essenzialmente intrapersonale e localizzabile su base individuale. Su questi principi, l’apprendimento è stato interpretato come prodotto di processi cognitivi individualmente attivati e costruiti e di motivazioni e stati affettivi essenzialmente legati alla sfera personale del soggetto. Un errore fondamentale consisteva nel voler separare “l’individuo” dal resto del mondo, attribuendogli una serie di caratteristiche generali, solo secondariamente “influenzate” dalla cultura. In modo simile, la “cultura” era spesso considerata un assortimento statico di caratteristiche. (Rogoff, 2003, p. 35). In tale prospettiva, il “luogo” dell’apprendere (e quindi del formarsi) era identificato con la “mente”, riconosciuta come l’insieme di stati psicologici di cui ciascuno è portatore, ovvero come espressione dell’organizzazione e del funzionamento celebrale di un singolo individuo. Tale interpretazione della mente e dei processi d’apprendimento è stata progressivamente messa in crisi dagli sviluppi della ricerca nell’ambito dell’antropologia, della psicologia culturale, delle neuroscienze, delle scienze cognitive, della filosofia della mente e della psicologia dell’apprendimento, in cui si è evidenziata, come abbiamo visto, una significativa attenzione alla connotazione contestuale sia dell’architettura neurale che dei processi cognitivi. Nell’indagare i rapporti tra pensiero ed esperienza culturale, molti autori si sono ispirati alla teoria storico-culturale di Vygotskij che sottolinea il rapporto tra abilità individuali e partecipazione a contesti 131 socioculturali ricchi d’artefatti. In quest’ambito il cambiamento più rilevante si è avuto a partire dagli anni Ottanta, quando si è iniziato a considerare la dimensione antropologico-culturale al di là dei confronti interculturali tra le culture “altre” e la nostra cultura di riferimento. Un tale indirizzo di ricerca (Scribner e Cole, 1981; Lave, 1988) ha avuto un’influenza notevole nel chiarire la non universalità di alcuni aspetti cognitivi, sociali e interattivi del comportamento umano e nel mostrare la specificità culturale di strategie culturali fino ad allora considerate generali. Da questi studi è emerso un quadro generale in cui le capacità cognitive, le “menti”, mostrano di essere specifiche in rapporto allo svolgimento di compiti particolari che sono diversamente valorizzati dalle culture (Rogoff, 2003). Questo insieme di contributi è stato recentemente compreso sotto l’ampia categoria della psicologia culturale che prende esplicitamente le distanze da quella cross-culturale o interculturale101. 101 La psicologia interculturale si è preoccupata di mostrare in che misura e in quali modi noi siamo influenzati dalla cultura nella quale viviamo o, se vogliamo, ha cercato di rispondere a quesiti del tipo «c’è una cultura A che “produce” individui a1 e una cultura B che “produce” individui b1; conoscendo A e B quali saranno le differenze tra a1 e b1? Mente e cultura sono considerate come separate e concepite come una variabile indipendente (la cultura) che esercita la sua influenza sulla variabile dipendente (la mente). In questa prospettiva è legittimo domandarsi se i bambini nati nella Costa d’Avorio sviluppino il pensiero operatorio con la stessa velocità dei bambini ginevrini o londinesi. Di fronte a ricerche di questo tipo la psicologia culturale solleva molti dubbi. Essi sono basati sull’assunzione che mente e cultura non possono essere separate e manipolate come fossero due variabili, una dipendente e l’altra indipendente. Supponiamo di voler osservare come rispondono alla scala d’intelligenza Therman-Merill i bambini maschi ugandesi confrontati con quelli inglesi o svizzeri, come ha fatto Vernon, e di scoprire che i bambini inglesi o svizzeri sono molto più capaci. Lo psicologo culturale si domanderebbe cosa è che rende più bassa la prestazione dei primi nei test di intelligenza. Se mente e contesto culturale non possono essere separati, non ha senso applicare le stesse prove a due tipi di bambini così diversi. Infatti la stessa situazione sperimentale, anche se è identica nelle due situazioni – anzi proprio per questo – verrebbe interpretata diversamente, e questo renderebbe i due contesti di prova psicologicamente diversi e non compatibili […]. Ciò che emerge è allora che la persona è abile a fare le cose che sono importanti per sé e che ha occasione di fare spesso. Questo fa sì che le differenze culturali nella cognizione consistano più nelle situazioni in cui vengono applicati particolari processi cognitivi che nell’esistenza di un processo cognitivo generale, presente in un gruppo culturale e assente in un altro. 132 La psicologia culturale102, più che una disciplina che studia i rapporti tra sviluppo cognitivo e cultura, in termini di effetti e differenze nello sviluppo cognitivo stesso è un’opzione teorica nuova che analizza le prestazioni (verbali, manipolative, interattive e persino percettive) di bambini e adulti in riferimento ai modi in cui interpretano gli aspetti simbolici dei compiti che gli vengono proposti. Secondo tale prospettiva, la mente è “contentdriven, domain-specific, and constructively stimulus-bound” (Shweder, 1990, p. 13) e non può essere districata dai mondi intenzionali che sono La psicologia culturale si distingue dunque dalla psicologia interculturale per il modo di concepire i rapporti tra mente e cultura. Si tratta di una questione scientifica che peraltro ha un’importante implicazione ideologica. Quando si fanno dei confronti tra culture è inevitabile la presenza di un aspetto valutativo, in termini di cultura più “avanzata”, così come è possibile la presenza di assunti etnocentrici che ci fanno pensare che usare i blocchi logici sia un modo “neutro” per misurare l’intelligenza, quando invece esso è chiaramente uno strumento di misura saturo di significati culturali […]. Se si vuole la psicologia culturale costituisce un approccio piuttosto “politicizzato” al rapporto tra mente e cultura, perché essa prende particolarmente a cuore il problema di ciò che potremmo definire la “colonizzazione della diversità”. Vale a dire quel complesso di attitudini mentali, ipotesi teoriche e pratiche di ricerca con le quali si tenta di ridurre l’”altro culturale” entro le proprie categorie culturali d’appartenenza» (Smorti, 2007, pp. 21-22). 102 Cole riassume le acquisizioni delle sue ricerche personali affermando di voler raggiungere, con la sua concezione della psicologia culturale, «la possibilità di tornare ai primi decenni della psicologia e intraprendere il cammino non percorso, quello in cui la cultura è posta sullo stesso piano della biologia e della società nel formare la natura umana individuale» (Cole, 1996, p. 97). A questo tentativo dà il senso di «fondare una seconda psicologia». Nell’esaminare i termini del dibattito a lui contemporaneo rispetto alla psicologia culturale Cole ritiene che «le principali caratteristiche della psicologia culturale siano le seguenti: Enfatizza l’azione mediata in un contesto. Insiste sull’importanza del “metodo genetico” inteso in senso ampio per includere i livelli storico, ontogenetico e microgenetico di analisi. • Cerca di fondare la sua analisi sugli eventi della vita quotidiana. • Suppone che la mente scaturisca dall’attività congiunta e mediata delle persone. La mente è, dunque, in un certo, importante, senso, “co-costruita” e distribuita. • Suppone che gli individui siano soggetti attivi del proprio sviluppo ma che non agiscano in situazioni completamente da loro determinate. • Rifiuta la scienza esplicativa di causa-effetto e di stimolo-risposta, in favore di una scienza che ponga in rilievo la natura emergente della mente nell’attività e che riconosca un ruolo centrale all’interpretazione all’interno della propria struttura esplicativa. • Attinge alle metodologie delle discipline classiche così come delle scienze sociali e biologiche» (ibidem, p. 99). • • 133 storicamente variabili e culturalmente diversi e in cui ha un ruolo cocostruttivo. (Pontecorvo, 1995, p. 16). Quest’approccio sottolinea la centralità del soggetto come essere riflessivo che formula piani, possiede obiettivi ed è in grado di modificare il proprio ambiente: l’uomo è visto come attivo produttore di significati che agisce sulla base dei significati che produce (Bruner, 1990). Ne deriva che il livello d’analisi scelto per lo studio del comportamento dell’uomo è il contesto culturale in cui tale comportamento ha luogo. L’assunto che la mente sia, almeno in parte, culturalmente costituita, deriva dal riconoscimento che l’individuo partecipa e modifica la propria cultura con la sua soggettività, la quale, d’altro canto, è già informata da significati e pratiche culturali, per cui non si può fare una distinzione netta tra ciò che è mente e ciò che è cultura. (Ibidem, p. 23). Si tratta di un approccio non riduzionistico, né in senso psicologico, né in senso sociologico. L’insieme di competenze interattive che caratterizzano l’essere umano fin dalla nascita, la sua immaturità prolungata, la dipendenza dalle cure parentali, la capacità di “leggere le menti altrui”, queste ed altre caratteristiche fanno dell’essere umano un essere «biologicamente culturale» (Rogoff, 1990). Gli psicologi culturali si oppongono dunque al postulato dell’unità psichica, ovvero all’affermazione secondo cui i processi cognitivi siano gli stessi in tutti gli individui indipendentemente dalla cultura e dalle pratiche culturali in essa agite e vissute, ed affermano la necessità di teorie esplicative culturalmente differenziate per spiegare lo sviluppo103. 103 «La psicologia culturale non nega che possano esistere processi psicologici universali, solo che, quando questi “universali” esistono, essi sono dovuti al fatto che gli individui attribuiscono significati culturalmente simili e utilizzano pratiche 134 Ne è derivato un significativo spostamento dell’attenzione sulle interazioni socio-culturali e sulle variabili contestuali implicate nei processi cognitivi e di apprendimento, riconosciute come costitutive dei processi stessi. Viene posta molta enfasi sul ruolo del linguaggio e dell’interazione come veicoli attraverso cui i significati sono negoziati, creati, tramandati e trasformati. Oggi lo studio dello sviluppo cognitivo non si limita a prendere in considerazione il modo in cui l’individuo, nel corso dell’infanzia, arriva a comprendere il mondo che lo circonda, ma si sofferma sul processo di attiva partecipazione ad attività socioculturali condivise che consente questo apprendimento. (Rogoff, 2003, p. 241). Su queste basi, le rappresentazioni e i modelli della mente e dell’organizzazione cognitiva individuale si sono sempre più orientati verso una visione contestualista, distribuita e socio-culturalmente situata della mente104. Ogni configurazione cognitiva deve essere dunque intesa come un complesso prodotto di elementi biologici e socio-culturali. Ne deriva che i processi di pensiero e di apprendimento in essa inscritti non possono verificarsi se non in riferimento ai peculiari contesti in cui i singoli soggetti si trovano implicati: un’attenzione preponderante alla funzione di mediazione svolta dagli altri soggetti e dagli elementi ambientali e socioculturali (artefatti primari, secondari e terziari) in relazione ai processi di apprendimento e costruzione della conoscenza. culturali simili. Insomma, secondo questo principio, non si dovrebbe tanto tendere a costruire teorie generali, quanto teorie particolari in rapporto a situazioni culturali o a gruppi culturali specifici» (Pontecorvo, 1995, p. 24). 104 Cfr. a questo proposito la definizione data da David Olson dell’intelligenza come «abilità in un medium culturale» (Olson, 1979, p. 53); il modello delle “intelligenze multiple” proposto da Gardner (Gardner, 1983; 1999), cui si può affiancare il modello di Robert Sternberg, secondo cui l’intelligenza umana è il prodotto di elementi individuali – di natura bio-psicologica – e di elementi socio-culturali riferibili alle diverse e differenti dimensioni contestuali e situazionali (Sternberg, 1987, 1997). 135 In questo senso, un contesto dell’apprendimento fondamentale nell’analisi dello sviluppo ontogenetico, è costituito dalla famiglia, intesa, in senso generale, come l’ambiente “abitato” dalle persone che si prendono cura del bambino. Esso è il contesto primario in cui vengono a costituirsi le strumentalità cognitive da utilizzare in funzione dell’apprendimento e in cui si esplicano le coordinate socioculturali e le prospettive per gli apprendimenti futuri. Il ruolo della famiglia e della comunità nello sviluppo del bambino differisce in modo piuttosto evidente nelle varie parti del mondo. Cause importanti di variabilità culturale sono riconducibili alla probabilità di sopravvivenza o di morte del bambino, alla presenza di fratelli e di una famiglia allargata, all’opportunità per il bambino di partecipare estensivamente alla vita della propria comunità, e ai prototipi culturali relativi alle relazioni sociali (”per coppie” o “per gruppi”). Nel mondo, l’allevamento dei bambini impegna la famiglia, il vicinato e la comunità in ruoli diversi […]. L’accordo su chi si prenderà cura del bambino nelle diverse circostanze è strettamente connesso al sostegno offerto dalla comunità e dalla famiglia allargata […]. Le pratiche culturali riguardanti la cura dei bambini sono ereditate dal passato da ciascuna generazione, che le adatta alle circostanze e alle credenze, in parte riconducibili alle politiche nazionali e internazionali. (Rogoff, 2003, p. 101). I caregiver operano scelte organizzative per i bambini, selezionando attività e materiali che ritengono adeguati per una certa fascia d’età. Queste scelte vengono spesso effettuate senza l’intenzione di fornire una particolare esperienza di apprendimento, o, al contrario, possono essere intenzionalmente indirizzate alla socializzazione o all’educazione del bambino. La famiglia costituisce il primo contesto in cui inizia a prendere forma la storia cognitiva del bambino. In ogni cultura, lo sviluppo è orientato verso finalità particolari, secondo le competenze promosse dalla cultura stessa attraverso istituzioni e «strumenti» locali. Lo stesso 136 concetto di «traguardo evolutivo» deriva da un modo particolare di concettualizzare l’infanzia, come preparazione alla vita (Rogoff,2003). Il contesto famigliare organizza l’apprendimento del bambino in funzione del suo ingresso nelle diverse comunità di pratiche che definiscono la società cui appartiene. In questo contesto, ricco di qualità affettive, attraverso apprendimenti spesso “impliciti”, vengono a costituirsi procedure cognitive che preparano la comparsa della teoria della mente (Liverta Sempio, Marchetti, Lecciso, 2005). Gli adulti e i bambini organizzano le esperienze di socializzazione attraverso la scelta di situazioni e di modalità di strutturazione che funzionino tanto a distanza quanto nel corso dell’interazione sociale esplicita. Sia i caregiver sia i bambini contribuiscono alla definizione delle attività e dei ruoli di questi ultimi non solo attraverso l’adattamento implicito e pragmatico dell’attività a competenze e interessi, ma anche mediante più esplicite modalità organizzative, capaci di agevolare una maggiore partecipazione alle attività della cultura di appartenenza. Nelle interazioni esplicite, gli adulti e i bambini lavorano insieme alla strutturazione dei ruoli dei bambini, ripartendo tra loro la responsabilità dell’attività: mentre gli adulti sostengono e ampliano le abilità dei più piccoli e suddividono i compiti in sotto-obiettivi più gestibili, i bambini guidano o, addirittura, gestiscono gli sforzi degli adulti. La struttura necessaria a sostenere l’apprendimento e la partecipazione dei bambini evolve man mano che essi acquisiscono le abilità necessarie per assumere responsabilità sempre maggiori. Tale trasferimento di responsabilità è realizzato da adulti e bambini congiuntamente. (Rogoff, 1990, pp. 99-100). La specializzazione dei ruoli nella cura dei bambini, ci porta all’analisi di un terzo contesto dell’apprendimento, la scuola intesa come l’istituzione formativa tradizionalmente deputata, nella nostra cultura, 137 alla gestione e all’organizzazione dei processi di apprendimento105. Le ricerche transculturali hanno dimostrato che esiste uno stretto legame tra scolarizzazione e prestazioni ai test di classificazione e memoria (Rogoff, 1981; Wagner - Spratt, 1987; Cole, 1990) e che strumenti culturali quali la scrittura106 e la matematica107 stimolano particolari forme di pensiero108 nelle società in cui le pratiche dell’alfabetizzazione sono onnipresenti e interrelate109. 105 «Nei paesi industrializzati, la responsabilità della comunità nei confronti della cura e dell’educazione del bambino si compie attraverso operatori specializzati e retribuiti, quali insegnanti, educatori, assistenti sociali, pediatri, e anche istituzioni per l’infanzia e pubblicazioni specializzate su questi temi […]. Di fatto sono gli “esperti” a stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato nella cura e nell’educazione dei bambini. Ciò si riflette anche nelle leggi che regolano i diritti dei genitori e nelle politiche promosse dagli enti sociali […]. Da un punto di vista storico, gli insegnanti sono probabilmente i più importanti operatori specializzati nella cura e nell’educazione del bambino. Il loro ruolo è emerso verso la fine dell’Ottocento, quando in molti paesi la scuola divenne un aspetto centrale della vita dei bambini» (Rogoff, 2003, pp. 130-131). 106 Cfr., Havelock, 1963; Ong, 1967, 1977, 1982; Goody, 1986, 1987; Goody Watt, 1963; Olson, 1979; Olson - Torrance (a cura di) 1991. 107 Le ricerche transculturali sulle abilità matematiche, come quelle sull’alfabetizzazione, hanno indicato il ruolo fondamentale degli strumenti culturali utilizzati per lo svolgimento di tali pratiche; strumenti quali abachi, sistemi di calcolo scolastici, sistemi metrici, rappresentazione dei numeri attraverso l’indicazione di parti del corpo o gettoni d’argilla (Ellis, 1997; Nicolopoulou, 1997; Saxe, 1981, 1991). Le strategie utilizzate per risolvere problemi matematici dipendono strettamente dalle finalità del calcolo e dalla disponibilità di strumenti (Cole, 1996; Lave, 1988; Scribner, 1984). 108 «Esaminando la ricerca sulle abilità cognitive di persone scolarizzate e non, sono giunta alla conclusione che gli individui scolarizzati acquisiscono un’ampia varietà di abilità cognitive che sono in relazione con le attività scolastiche [Rogoff, 1981]: l’istruzione formale stimola le abilità percettive nell’uso di convenzioni grafiche per rappresentare la profondità in stimoli bidimensionali e nell’analisi di modelli bidimensionali. Le persone scolarizzate vengono addestrate a ricordare intenzionalmente unità non connesse di informazioni e sono più portate delle altre a ricercare spontaneamente strategie volte a organizzare informazioni tra loro non collegate per poterle memorizzare. Gli individui scolarizzati organizzano più facilmente gli oggetti presentati nel test in base a una struttura tassonomica, raggruppando oggetti categorialmente simili, mentre gli individui privi di istruzione formale impiegano spesso raggruppamenti funzionali di oggetti che vengono utilizzati insieme. Mostrano, inoltre, maggiori abilità nel passare a parametri di classificazione alternativi e nel fornire spiegazioni nel tipo di organizzazione adottato. L’istruzione formale non sembra avere a che fare con l’apprendimento di regole o con il pensiero logico, almeno non finché l’individuo non abbia compreso il problema secondo la prospettiva dell’esaminatore. I soggetti non scolarizzati sembrano preferire, comunque, una conclusione fondata sulla base dell’esperienza piuttosto che contare esclusivamente sui dati forniti dal problema. È possibile che l’istruzione formale sia necessaria per la risoluzione di problemi basati sulle operazioni formali di Piaget. 138 La relazione tra scolarizzazione e abilità cognitive può sembrare ampia, in parte a causa delle relazioni storiche tra test sulle abilità intellettive e istruzione formale. Come evidenziato da Cole, Sharp e Lave (1976), i primi test di intelligenza messi a punto da Binet erano basati su compiti scolastici, dato che il suo obiettivo era quello di predire le prestazioni scolastiche. Non è un caso che i nostri parametri di intelligenza siano riferiti all’istruzione formale. Questa relazione può derivare anche dal fatto che, come osserva Neisser (1976), le abilità di coloro che elaborano i test (gli accademici) sono scelte come basi per definire l’intelligenza. (Rogoff, 1990, pp. 52-53). La scuola è un’istituzione complessa che si rivolge ai bambini, alle famiglie e indirettamente a tutta la società. Questo contesto Sono giunta alla conclusione che i dati non confermano il concetto di abilità generali; piuttosto, individuano un effetto della scolarizzazione sulla performance, o una relazione locale tra pratiche scolastiche e attività cognitive specifiche (vedi anche Wagner, Spratt, 1987)» (Rogoff, 1990, p. 52). 109 Scribner e Cole (1981) hanno tratto le stesse conclusioni cui è giunta Rogoff attraverso ricerche in Liberia con i bambini Vai sottoposti a diverse forme di alfabetizzazione (Vai, coranica, inglese). I risultati di questi autori indicano che l’alfabetizzazione è legata alle abilità cognitive attraverso le specifiche pratiche di letto-scrittura, con forme diverse di lingua scritta (fonetica, con o senza la divisione delle parole, alfabetica) e generi diversi (prosa saggistica, lettere, storie, elenchi, poesie) che stimolano abilità cognitive diverse. «L’educazione scolastica formale è costituita come una serie di pratiche, così come l’alfabetizzazione in Vai o le forme Vai di alfabetizzazione coranica. La superiorità degli individui scolarizzati nei compiti da noi assegnati non è dovuta alla loro capacità di leggere e scrivere per sé, così come nel caso di individui alfabetizzati in Vai o tramite l’insegnamento coranico. Per esempio, il fatto che l’istruzione scolastica favorisca l’abilità di illustrare verbalmente i processi di problem solving è spiegabile nel più naturale dei modi, semplicemente dal fatto che tali abilità sono requisiti del tipico dialogo docente-allievo in ambiente scolastico (Griffin e Mehan, 1981; Mehan, 1979). Spesso, gli insegnanti chiedono agli studenti di rispondere a richieste del tipo: “Perché hai dato quella risposta?” oppure “Vai alla lavagna e spiegaci quello che hai fatto”. Se localizziamo il mutamento cognitivo nelle pratiche culturali e applichiamo questo principio alle pratiche dell’educazione scolastica (come a quelle relative alla stesura di lettere e all’annotazione di fatti) e trattiamo gli esperimenti cognitivi alla stregua di modelli delle pratiche correlate, potremmo raggiungere quella simmetria tra metodi sperimentali e pratiche quotidiane […]. Il nostro approccio orientato alle pratiche culturali e basato sulle attività ha posto in risalto che, se gli usi della scrittura sono pochi, lo sviluppo di abilità che questi agevolano sarà anch’esso limitato a un ristretto numero di compiti, in un novero di domini di attività e contenuti proporzionatamente ristretto» (Cole, 1996, pp. 202203). 139 d’apprendimento è profondamente radicato nelle comunità, nei paesi e nelle culture; in tal senso, riflette e nello stesso tempo influenza il cambiamento sociale. Obiettivi e mezzi valorizzati dalle tradizioni della società si intrecciano con le pratiche scolastiche. La scelta di una tecnologia particolare (l’uso di un tipo linguaggio per spiegare un evento, una certa modalità di relazione, l’opportunità di ricorrere a determinati strumenti per risolvere un particolare problema), l’organizzazione del contesto relazionale d’apprendimento (la classe omogenea per età o per abilità; l’organizzazione dell’apprendimento in forma diadica, per piccoli, medi o grandi gruppi), la strutturazione dello spazio “fisico” in cui ha luogo (la classe, il laboratorio, il cortile…) riflette il consenso generale della società riguardo all’approccio condiviso, in sintonia con i sistemi di valori e gli obiettivi culturali (Berger, Luckmann, 1996; Wertsch, 1987). Come altre istituzioni sociali, la scuola permette di fare pratica nell’uso di strumenti e tecnologie specifiche per risolvere problemi particolari. Questi strumenti comprendono dispositivi di memorizzazione; generi diversi di linguaggio, come i testi saggistici, le narrazioni storiche, le procedure di calcolo e di archiviazione, l’aritmetica e la scrittura. Le istituzioni della società e gli strumenti del pensiero portano con sé valori che definiscono quali siano gli obiettivi importanti da raggiungere, i problemi fondamentali da risolvere e gli approcci sofisticati da utilizzare per affrontare quei problemi e per raggiungere quegli obiettivi. I valori variano in relazione all’importanza che attribuiscono all’indipendenza o all’interdipendenza, alla responsabilità sociale a fronte del progresso tecnologico, all’analisi di quesiti o di schemi inseriti in contesti pratici, alla velocità d’azione rispetto all’intenzionalità pianificata, e in relazione a molti altri criteri. (Rogoff, 1990, p. 225). 140 L’apprendimento come sviluppo contestualizzato e storico110, la concezione della costruzione della conoscenza come attività situata e distribuita che si dischiude all’interno di comunità di pratiche come proprietà emergente che riguarda l’intero contesto, l’importanza attribuita alla conoscenza pratica, il passaggio da una concezione dell’apprendimento come fenomeno individuale all’apprendimento come processo di partecipazione al mondo sociale e culturale hanno recentemente portato i ricercatori ad analizzare che cosa si apprenda effettivamente a scuola a partire dal tipo d’organizzazione dell’attività che è tipico della scuola stessa oltre che a valorizzare l’importanza di altri contesti (informali e non-formali) di apprendimento. L’aspetto paradossale è che, nel momento in cui conoscenza e apprendimento sono stati riconosciuti come attività che si praticano e si esercitano in luoghi sociali naturali quali la famiglia (Ochs, Taylor 1992; Fasulo, Pontecorvo, 1994), laboratori di ricerca, luoghi di lavoro ad alta tecnologia (Hutchins, Palen, 1993) e/o ad alta interazione (Suchman, 1993), investigazioni scientifiche di archeologia (Goodwin, 1994) e di chimica (Goodwin, 1993), diventa arduo presupporre o dare per scontato che attività cognitive complesse si possano verificare anche in luoghi “artificiali”, per quanto ad esse deputati dalla società, quali sono le scuole, le Università o i laboratori di sperimentazione psicologica! (Pontecorvo, 1995, p. 30). Alla scuola è richiesto di “mettersi in rete” con altri contesti d’apprendimento, quelli non formali (gli altri soggetti “intenzionalmente” formativi) e informali e di confrontarsi con una varietà di problematiche, relative sia alla qualità degli apprendimenti che si producono in questi contesti, sia al valore formativo di tali dimensioni dell’apprendere, in cui emergono significative istanze di formazione del sé. La dimensione di questi spazi sta assumendo una 110 Per un’analisi tra istituzioni prescolari e contesti culturali cfr. Tobin, Wu, Davidson, 1989. 141 notevole ampiezza e rappresenta il contesto in cui viene a definirsi la maggioranza delle esperienze d’apprendimento nell’ambito dei processi di formazione individuali: si apprende sempre più diffusamente attraverso occasioni e proposte formative costruite e scelte sulla base di specifici e settoriali bisogni di conoscenza (apprendere l’uso di nuove tecnologie, nuove procedure operative, diversi software…) o sulla base di più generiche istanze di “crescita culturale” o di “cambiamento educativo”. In questo scenario, particolare rilevanza assume il ruolo svolto dalle nuove tecnologie informatiche che, nel quadro dei sistemi formativi contemporanei vengono a delineare i «luoghi di interfacciamento» con il sistema sociale. Lauren Resnick (1987) individua quattro elementi di discontinuità tra l’apprendimento che si verifica a scuola e quello che si verifica al di fuori della scuola. L’apprendimento scolastico si configura per lo più come un processo individuale, che valorizza attività di «puro pensiero» privo di strumenti materiali111, un pensiero veicolato per lo più da strutture simboliche decontestualizzate, focalizzato su strutture di conoscenza generali più che su saperi e conoscenze specifiche e funzionali. Nel considerare alcuni dei modi in cui si apprende al di fuori della scuola Resnick suggerisce di recuperare, nella pratica didattica, l’efficacia formativa dell’apprendistato: la ricerca di Jean Lave (Lave – Wenger, 1991) sull’apprendistato della sartoria in Liberia sottolinea come sia possibile raggiungere una competenza esperta con poco insegnamento diretto, molta osservazione, attraverso esercizi 111 «Nella scuola, il maggior merito è indirizzato ad attività di “puro pensiero”, quello che gli individui sanno fare senza il supporto esterno di libri e appunti, calcolatrici, o altri strumenti complessi. Sebbene alcune volte l’uso di questi strumenti possa essere permesso durante l’apprendimento scolastico, essi sono sempre assenti durante le verifiche e gli esami. Almeno implicitamente, quindi, la scuola è un’istituzione che valorizza il pensiero che procede autonomamente, senza l’ausilio di strumenti materiali e cognitivi. Diversamente, la maggior parte delle attività mentali al di fuori sono intimamente connesse con gli strumenti, e l’attività cognitiva emergente è formata ed è dipendente dal tipo di strumenti disponibili» (Resnick, 1987, p. 63). 142 semplici e un graduale inserimento in pratiche concrete via via più complesse. Nell’esaminare il difficile rapporto che si stabilisce tra le conoscenze acquisite a scuola e quelle quotidiane possedute da chi impara (che può assumere le forme di «totale incomunicabilità» quando si determina l’incapsulamento) Engeström (1991) presenta tre diverse prospettive teoriche: quella di Davidov dell’«ascensione dall’astratto al concreto», quella di Lave e Wenger della «partecipazione periferica legittima» e la propria, dell’«apprendimento per espansione». Caratteristica comune ai tre modelli è quella di affrontare l’incapsulamento dal punto di vista dell’intervento educativo, individuando in esso le ragioni dell’insuccesso e le possibili soluzioni. Riposizionare l’apprendimento all’interno delle comunità di pratica comporta anche una distinzione/decentramento tra i processi di apprendimento e di insegnamento: se ciò che effettivamente struttura le opportunità di apprendimento sono le pratiche di lavoro, occorre rivedere anche la relazione, fortemente asimmetrica, tra chi insegna e chi apprende. Etienne Wenger nel considerare le comunità di pratica come «storie condivise di apprendimento» (Wenger, 1998, p. 102), assegna all’insegnamento e all’apprendimento uno status indipendente, al fine di evidenziare sia l’autonomia dei processi di apprendimento sia gli equivoci che si creano quando si privilegia la “struttura pedagogica” come fonte di apprendimento. Focalizzarsi sull’insegnamento non equivale a focalizzarsi sull’apprendimento. Le due cose non sono speculari. In un contesto didattico, come un’aula scolastica o una sessione formativa, la reificazione dell’apprendimento combinata con l’autorità istituzionale può dare facilmente l’impressione che sia l’insegnamento a produrre l’apprendimento. Eppure l’apprendimento che si verifica effettivamente non è altro che una risposta alle intenzioni pedagogiche del contesto. 143 L’insegnamento non produce l’apprendimento. Crea un contesto nel quale avviene l’apprendimento, che può avvenire anche in altri contesti. - L’apprendimento e l’insegnamento non sono intrinsecamente legati. L’apprendimento avviene in gran parte senza l’insegnamento, l’insegnamento avviene in gran parte senza l’apprendimento. - Nella misura in cui l’insegnamento e l’apprendimento sono legati alla pratica, quel rapporto non è di causa ed effetto, ma di risorse e negoziazione. In altre parole, l’insegnamento non causa l’apprendimento: ciò che viene appreso potrebbe anche non essere ciò che viene insegnato, o più in generale ciò che intendeva l’organizzazione istituzionale del processo didattico. Apprendere è un processo emergente e continuativo, che potrebbe usare l’insegnamento come una delle sue tante risorse strutturanti. Da questo punto di vista, gli insegnanti e i materiali didattici diventano risorse per l’apprendimento in maniera molto più complessa che attraverso le loro intenzioni pedagogiche. (Ibidem, p. 297). L’apprendimento non è mai semplicemente questione di “trasmissione di conoscenze e acquisizione di abilità”. Eppure, le rappresentazioni che informano la pratica educativa vedono lo scolaro come una persona che “apprende conoscenze” (nel senso che le internalizza), che possono “essere scoperte”, o “trasmesse da altri”, o “sperimentate nell’interazione con gli altri”. Esito del paradigma dell’internalizzazione è l’istituzione di una dicotomia tra “interno” ed “esterno”, che rimanda ad un’idea “celebrale” della conoscenza e che assume colui che è “sottoposto al processo di apprendimento” come unità d’analisi. A questo tipo di paradigma si oppone l’apprendimento come partecipazione crescente a comunità di pratiche, in cui pensiero e sapere sono relazioni tra persone attive “nel e con” il mondo socialmente e culturalmente strutturato e in cui l’apprendimento può essere inteso come “produzione storica, trasformazione e cambiamento delle persone” che agiscono in quel contesto. 144 Mentre i dibattiti pedagogici si concentrano su dicotomie quali autorità/libertà, istruzione/scoperta, individuale/apprendimento collaborativo, apprendimento formazione “direttiva”/ esperienza diretta, Wenger sottolinea come il vero problema che sta alla base di tutti questi dibattiti sia l’interazione tra il deliberato (pianificato) e l’emergente, «vale a dire la capacità dell’insegnare e dell’apprendere di interagire fino a diventare risorse reciprocamente strutturanti» (Ivi). Anziché sulla diade insegnante-discente, questa prospettiva focalizza l’attenzione su un campo di attori piuttosto variegato composto da novizi ed esperti, caratterizzato da rapporti asimmetrici e tra pari, da sistemi di attività più o meno accessibili e trasparenti e su una conseguente pluralità di forme di relazione e partecipazione. Lave e Wenger (1991) sollevano una serie di questioni, tra le quali alcune riguardano l’importanza determinati il ruolo dell’accesso ambienti, gli della al conoscenza potenziale usi del di nella pratica, apprendimento linguaggio e delle di storie nell’apprendimento dall’esperienza e di come la conoscenza acquisisca valore per la persona che apprende nel momento in cui prendono forma le identità di piena partecipazione. Secondo Wenger gli aspetti individualistici dell’impostazione cognitiva, lungi dal sottolineare attenzione nei confronti della persona, tendono in verità a promuovere una concezione non personale della conoscenza, delle abilità, dei compiti e dell’apprendimento. Di conseguenza, tanto le analisi teoriche che le prescrizioni pedagogiche risentono in genere dei limiti dovuti al fatto di fare riferimento ad “ambiti di conoscenze” reificati e a meccanismi di apprendimento universali intesi in termini di acquisizione e assimilazione. D’altro canto, insistere a voler partire dalla pratica sociale, riconoscere la centralità della partecipazione e porre al centro dell’analisi il mondo sociale solo in apparenza porta a mettere in secondo piano la 145 persona. In realtà il concetto di partecipazione a una pratica sociale – soggettiva e oggettiva – induce a considerare in modo esplicito la persona. E questa attenzione promuove una concezione del sapere inteso come attività di persone specifiche in circostanze specifiche […]. Le attività, i compiti, le funzioni, e le cognizioni non esistono isolatamente, ma sono parte di sistemi di relazioni più ampi in cui hanno significato. Questi sistemi di relazioni si producono, riproducono e sviluppano all’interno di comunità sociali, che in parte sono sistemi di relazioni fra persone. La persona è definita da queste relazioni e al contempo le definisce. L’apprendere implica quindi il divenire una persona diversa in relazione alle possibilità aperte da questi sistemi di relazioni. Ignorare questo aspetto dell’apprendimento significa trascurare il fatto che l’apprendimento comporta la costruzione dell’identità. (Wenger, 1998, p. 35). Il costrutto della partecipazione legittima periferica in questo caso aiuta e suggerisce di tematizzare la «formazione» in termini di partecipazione a una comunità di pratiche specifica che si costituisce come «comunità di apprendimento» in cui i temi dell’identità e di come vengono acquisite le conoscenze diventano primari rispetto all’acquisizione di abilità specifiche e di informazioni. Il lavoro mentale socialmente condiviso, un coinvolgimento più diretto con i referenti, l’impegno esplicito nella costruzione e interpretazione dei significati, il pensare intorno a particolari ambiti di conoscenza (e non in vista di abilità generali): queste sono le caratteristiche dei programmi più efficaci nell’insegnare a pensare anche nel contesto della scuola […]. In questa linea teorica, alle scuole è richiesto di sviluppare abiti mentali di questa natura attraverso il loro divenire vere e proprie comunità di “apprendisti discenti” (Brown, Ellery-Campione, 1994) dove si impara a pensare e a ragionare e dove si è introdotti alle attività e alle pratiche di discorso scientifico che sono specifiche di una varietà di domini di conoscenza (Pontecorvo, Girardet, 1993). E’ comune a questi modelli il fatto che la conoscenza sia prodotta, e verificata nell’interazione e che 146 l’expertise sia distribuita in modo da fornire una più ricca base di conoscenza per tutti. (Pontecorvo, 1995, p.32). 147 148 Capitolo secondo LA SIMBOLIZZAZIONE GRAFICA La pittura è una bugia che dice la verità (Picasso) La mano, l’occhio e il segno sono gli elementi essenziali dell’attività grafica. L’occhio e la mano sono il padre e la madre dell’attività artistica. Il disegnare, dipingere e modellare fanno parte del comportamento motorio umano, ed è lecito supporre che essi si siano sviluppati da due più antichi e più generali aspetti di tale comportamento: il movimento fisionomico e descrittivo. (Arnheim, 1954, p. 150). Il disegno chiama in causa la polarità funzionale mano-utensile e si configura come modalità di espressione specifica: la mano è creatrice di immagini e di simboli che, sotto la guida dell’occhio, si sviluppano e si affiancano al linguaggio verbale112. 112 Le ipotesi sull’evoluzione cui si fa riferimento in questa parte del saggio sono fondamentalmente quelle di A. Leroi-Gourhan (1965) sul versante della biologia e della paleoantropologia e quelle di J.C. Eccles (1989) nell’ambito propriamente neurologico, dove l’attenzione viene prevalentemente focalizzata sul cervello e sui suoi cambiamenti lungo la scala filogenetica. Entrambi gli autori si richiamano alla teoria evoluzionista darwiniana (collocazione dell’uomo nella scala animale, modificazione della specie legata alla selezione naturale e sessuale) tuttavia ciò che maggiormente sottolineano è il processo evolutivo del mondo vivente nel suo complesso (vegetale e animale insieme) in accordo con le teorie ecologiche sostenute in questa tesi. 149 Come per le abilità linguistiche e ludiche, anche per il simbolismo grafico si può parlare di processo di sviluppo che trova in ogni bambino un modo personale di evolversi113 e uno “stile” che sottolinea modalità individuali di vedere, sentire, esprimere significati, all’interno di una cornice comune di evoluzione che si dispiega per “tappe”. Nel nostro contesto culturale il simbolismo grafico si realizza complessivamente dal grafismo cinestesico alla figurazione, passando attraverso fasi intermedie che evidenziano da un lato i processi evolutivi delle capacità motorie, attentive, percettive e dall’altro, il progressivo possesso di strumenti culturali. Questo processo è inserito in un contesto di apprendimento, prevalentemente quello scolastico, che si avvale di determinate pratiche culturali e di codici pedagogici specifici. Lo sviluppo dell’abilità grafica non è un’acquisizione mentale individuale, né un’evoluzione continuativa dello strumento espressivo in sé, ma una “trasformazione sociale” che si radica in contesti di interazione con altre persone all’interno di una cornice di condivisione di scopi, strumenti e attività. Questo quadro rimanda alle teorie che fanno riferimento al modello vygotskijano (1934; 1930-31) il quale sottolinea come i processi psichici superiori siano sempre situati in un contesto storico-sociale dal quale traggono origine e alimento. Il livello e la forma del sostegno fornito ad ogni linguaggio simbolico varia a seconda dello specifico dominio o sistema simbolico. Sappiamo che, come esseri umani, investiamo molto nell’iniziare i più piccoli all’uso del linguaggio verbale sin dalla nascita (Bruner, 113 Con questo si vuole riconoscere come, all’interno di una stessa cultura, gli individui, anche se trattati nei modi più appropriati ed equivalenti, possono differire significativamente l’uno dall’altro in capacità intellettuali, nell’abilità di imparare, nell’uso delle loro facoltà, in originalità e creatività. 150 1983a). Il sostegno nella comprensione e nella produzione dei simboli grafici è meno forte, soprattutto nella nostra cultura, rispetto ad altri contesti storico-culturali. Inoltre le variazioni individuali riscontrate in altri campi […] relativamente al disegno si accentuano, proprio perché il comportamento grafico dell’adulto, nell’interazione con il bambino è meno uniforme. Tutti i bambini sono continuamente esposti al linguaggio e tutti vengono sollecitati a parlare; mentre non tutti vengono sollecitati a disegnare. Quegli adulti che curano questo aspetto dello sviluppo possono farlo, e di fatto lo fanno, nelle maniere più varie. (Pizzo Russo, 1988, p. 213). Tuttavia, nel corso dello sviluppo, grazie alla frequenza della scuola dell’infanzia prima e della scuola dell’obbligo dopo, grazie ai diversi rapporti (diretti e indiretti) con i codici iconici che si trovano nell’ambiente che li circonda, tutti i bambini raggiungono lo stadio della figurazione nella produzione di simboli grafici. Ma poiché gli ambienti non sono omogenei, quanto alla presenza e all’uso di carta e matita, né tanto meno il comportamento degli adulti segue norme uniformi nel fornire ai bambini stimoli e modelli per il disegno, va da sé che i bambini iniziano a tracciare segni ad età molto diverse e i loro primi tracciati possono assumere varie configurazioni, dipendendo, anche queste ultime, sia dallo sviluppo psicomotorio che dal contesto ambientale che tale sviluppo ha assicurato. (Ibidem, p. 212). Il disegno coniuga il fare con il conoscere e il comunicare muovendosi contemporaneamente su più piani: espressivo, cognitivo e comunicativo-informativo. In particolare l’analisi dell’attività grafica, nella fase più avanzata del suo sviluppo, prevede la considerazione di due processi, ugualmente fondamentali, che si riferiscono a procedimenti di “lettura-scrittura” 151 del mondo: il processo esplorativo-conoscitivo da un lato e quello espressivo-interpretativo dall’altro, entrambi fondati sull’uso di segni e che presuppongono la padronanza da parte del bambino di quei processi cognitivi che sono diretti a scopi rappresentativi. Ogni disegno può essere considerato come un sistema di riferimento costituito da una rete di rapporti esterni (informazioni sull’oggetto e sul contesto relazionale implicito o esplicito) utilizzati come stimolo e strumento per articolare complesse connessioni interne che restituiscono informazioni sul punto di vista del disegnatore. In questo capitolo verranno prese in considerazione le principali teorie dello sviluppo del grafismo, secondo la classificazione stadiale che tradizionalmente ne è stata fatta e attraverso le principali linee interpretative percorse da autori e ricercatori. Data la sovrabbondante letteratura sul disegno, quella che viene proposta di seguito, non può che esserne una selezione, senza pretese di esaustività. Si cercherà poi di evidenziare come l’interesse per il disegno abbia di volta in volta riguardato aspetti diversi del fenomeno e di come il concetto di “arte infantile” abbia condizionato e tutt’ora condizioni il dibattito teorico, i campi di ricerca e le modalità di utilizzo dei disegni dei bambini. Nel paragrafo conclusivo riprenderemo i temi trattati precedentemente allo scopo di esaminare le specificità dell’attività grafica come codice espressivo-comunicativo e, in tale operazione ci serviremo di ipotesi, risultati e ricerche elaborate dalla psicologia della percezione. Nel corso di questo capitolo verranno altresì presentati i materiali raccolti durante la ricerca: essi saranno un utile strumento esplicativo rispetto ai temi che verranno di volta in volta tratti e le analisi che ne saranno fatte serviranno a supportare le tesi illustrate. 152 2 Teoria delle rappresentazioni pittoriche e sviluppo dell’espressione grafica dalle origini all’ottavo anno di vita. Gli scarabocchi sono un inizio ed è agli inizi che si pongono le premesse di ogni aspetto della personalità futura. Non tutti i bambini che scarabocchiano diventano scrittori o artisti, ma scrittori e artisti hanno iniziato scarabocchiando. Non è neppure possibile distinguere per qualità formali gli scarabocchi di chi è divenuto artista da colui che ha completamente smesso di disegnare, ma ciò non comporta necessariamente una vanificazione dell’atto di scarabocchiare. (Quaglia, 2003, p. 61). La variabilità con cui ogni bambino attraversa le fasi di sviluppo di seguito presentate è un fattore di cui occorre tener presente nell’analisi dello sviluppo grafico e che dipende sia delle singole individualità che dell’influenza esercitata dall’ambiente. Tale variabilità si evidenzia anche nel confronto tra le grafiche raccolte durante la ricerca [vedi volume allegato] e le età dei bambini che le hanno prodotte. Lo stesso bambino può servirsi di un’intera gamma di tecniche nello spazio di un solo giorno, settimana o mese (Arnheim, 1954), inoltre bambini della stessa età disegnano figure in maniere molto diverse. Si vedano ad esempio le figure 1, p. 5; 113, p. 73; 118, p. 76 “tartarughe”. Le figure 52, p. 33; 54, p. 34; 78, p. 49; 93; p.57 “la fiaba de’ I tre Porcellini”. Le figure 56, p. 35 e 77, p. 48 “la fiaba di Cappuccetto Rosso”. Le figure 58, p. 36 e 64, p. 39 “il gioco dei ragni”. Le figure 63, p. 39; 84, p. 52; 130, p. 82 “il gioco dei canestri”. La figura 71, p. 45 “cani”. Gli autori di questi disegni sono tutti bambini di età compresa tra i 5 e i 6 anni che, pur frequentando la stessa sezione di scuola dell’infanzia (Scandiano, Reggio Emilia) da tre anni e con le stesse 153 insegnanti, danno interpretazioni grafiche completamente diverse dei soggetti che intendono rappresentare. Accanto ad una variabilità di “stile personale” nella valutazioneanalisi delle grafiche occorre considerare il contesto della loro produzione e gli scopi per cui sono state prodotte. I bambini possono scegliere di disegnare ad esempio figure “più complesse”, quando si tratta di un unico soggetto o del protagonista di una scena, e figure “più semplici” quando queste fanno parte di una scena dove luogo e azione sono aspetti più importanti. A titolo esemplificativo si osservi la figura 2, p. 6, dove Giulia (5,7) in tre momenti diversi dello stesso mese, si rappresenta in altrettante modalità, a seconda della posizione che il suo Sé occupa nella narrazione grafica: in 2a l’ospite di una festa di compleanno (in cui il soggetto più importante sembra essere la torta di compleanno del papà); in 2b la co-protagonista, insieme a due amiche, di un’attività vissuta in palestra; in 2c la protagonista di un’altra attività in palestra vissuta la settimana successiva. Il confronto tra i tre disegni di Giulia evidenzia inoltre quanto si possa rivelare fallace l’uso dei disegni (specie di uno solo) come misura dello «sviluppo cognitivo»; le tre rappresentazione sembrano suggerire diverse idee del sé in relazione a un più ampio contesto rappresentativo che comprende lo scopo per cui il disegno è stato prodotto, la comprensione della consegna dell’adulto, la scelta di determinati soggetti per esprimere un contenuto... e tanto altro. Le teorie che stabiliscono una forte corrispondenza tra l’evoluzione della rappresentazione grafica e il più generale sviluppo cognitivo (orientamento psicometrico), autorizzano l’uso dei disegni per cogliere e “misurare” lo sviluppo intellettivo del bambino. Tale utilizzo si è rivelato arbitrario alla luce di nuovi modelli di interpretazione e lettura dei prodotti dei bambini e di una maggiore considerazione delle diversità individuali, dei fattori esperienziali e delle differenze culturali nella definizione degli 154 obiettivi dello sviluppo che intervengono in ogni processo di ideazione e produzione di artefatti materiali e simbolici114. Solo ai fini di una teoria sistematica lo sviluppo della forma può venir presentato come una standardizzata sequenza di passi, ben distinti gli uni dagli altri. E’ possibile, e anche utile, isolare le varie fasi e allinearle in termini di complessità crescente; ma questa sequenza corrisponde soltanto approssimativamente a ciò che realmente avviene in qualsiasi esempio concreto. Bambini diversi toccheranno le diverse fasi in periodi di tempo diversi […]. Lo sviluppo della struttura percettiva non è che un fattore al quale altri fattori si possono sovrapporre modificandolo nel processo globale dell’evoluzione mentale. Inoltre, stadi dell’evoluzione più remoti possono permanere anche quando siano stati raggiunti stadi più progrediti; e, quando si trova di fronte a una difficoltà, il bambino può retrocedere a una situazione primitiva […]. Si dovrebbe anche tener presente il fatto che non esiste un rapporto fisso tra l’età del bambino e il grado d’evoluzione dei suoi disegni. Esattamente come i bambini della stessa età variano per quella che viene indicata come età mentale o 114 Le teorie stadiali forniscono un quadro normativo anche per quanto riguarda lo sviluppo del disegno, dandoci un’idea di cosa possiamo aspettarci da un bambino a una data età. Nel corso del tempo, esse sono state tuttavia oggetto di numerose critiche da parte di autori quali Golomb (2002), Tallandini, Valentini, (1990), Thomas, Silk (1990) per citarne alcuni. Eleonora Cannoni così riassume le principali critiche ad esse rivolte: • una suddivisione evolutiva in stadi penalizza l’idea della continuità dello sviluppo umano. Non è facile identificare il momento in cui si verifica un cambiamento “studiale”: si assiste piuttosto a modificazioni quasi insensibili, e forse di tanto in tanto a qualche improvvisa scoperta. Inoltre, accanto ai progressi, nel disegno si verificano anche temporanei regressi • la sequenza evolutiva individuata non sempre viene rispettata fedelmente: è possibile sia saltare del tutto uno stadio passando direttamente al successivo, sia che due stadi si fondano tra loro, dando vita ad un “ibrido” • il livello evolutivo delle abilità pittoriche non sembra strettamente collegato con l’età cronologica; molti adolescenti e adulti non raggiungono mai lo stadio del realismo visivo […]; viceversa, bambini nella fase dello scarabocchio possono disegnare una figura umana completa se un adulto enuncia loro verbalmente la progressione delle parti del corpo. L’autrice conclude affermando che «sulle abilità pittoriche sembra invece influire l’esperienza, ossia il livello di familiarità e di confidenza sia nell’eseguire disegni personali (produzione pittorica), sia nell’osservare quelli prodotti da altri (fruizione pittorica)» (Cannoni, 2003, pp. 20-21). 155 intelligenza, così varia pure il grado di maturità che si riflette nei loro disegni. (Arnheim, 1954, pp. 158-159). Tenuto conto di queste importanti premesse, gli studiosi che si sono occupati dell’evoluzione del disegno individuano generalmente tre momenti fondamentali relativi rispettivamente alla genesi dei primi tracciati (sedici-diciotto mesi/tre anni), al passaggio dallo scarabocchio allo “schema figurativo” (tre/sei anni) e alla comparsa della figurazione come linguaggio simbolico vero e proprio (sei/otto anni). Si tratta di una cornice convenzionale, utile a tratteggiare lo sviluppo del disegno: le età in cui i diversi autori situano la comparsa di un particolare fenomeno sono indicative e la variabilità interindividuale molto forte. In questo paragrafo, per ogni fase dello sviluppo grafico si prenderanno in esame ipotesi e teorie, nonché orientamenti che studiosi dell’argomento hanno via via elaborato per rendere conto di questa manifestazione specificatamente umana115. Uno spazio privilegiato sarà riservato al passaggio dallo scarabocchio allo schema figurativo, trattandosi del periodo di sviluppo oggetto, nello specifico, della ricerca. Diverse discipline si sono occupate dello studio del disegno: psicologia, pedagogia, sociologia, antropologia e discipline artistiche. 115 «Di fatto, non solo i bambini ma anche “le scimmie riconoscono quasi spontaneamente le immagini al tratto di oggetti familiari”. Lo scimpanzè Viki usava le fotografie per ottenere da Keith e Cathy Hayes gli oggetti che voleva, percepire un disegno, riconoscendolo come raffigurante un oggetto, non è tuttavia in nessun modo produrlo […]. Così, se il riconoscimento di disegni accomuna bambini e scimmie, la produzione li differenzia. L’invenzione di forme grafiche è specifica della specie uomo […]. “Nessuna scimmia, non importa di che età ed esperienza, è stata finora capace di uno sviluppo grafico fino allo stadio pittorico della semplice rappresentazione”. Del resto, ad un’analisi attenta della documentazione sull’arte degli scimpanzè e sull’attività grafica iniziale del bambino, si evince che le capacità del bambino e del primate divergono da molto prima […]. Per lo scimpanzè l’imitazione dell’azione grafica dell’adulto si ferma allo stadio dello scarabocchio, mentre il bambino procede nell’’imitazione” della forma dei segni tracciati dall’adulto, e nell’imitazione della forma degli oggetti”. “Imitare” la forma degli oggetti non deve essere tanto semplice se nessuno dei 32 primati infraumani, di cui riferisce Morris, vi è riuscito» (Pizzo Russo, 1988, pp. 196-198). 156 In ambito più strettamente psicologico, sono stati fatti usi svariati delle manifestazioni grafiche dei bambini: ne sono stati ricavati test psicometrici di diversi tipi, sono stati utilizzati come misura della creatività infantile e come rilevatori di tratti della personalità nei setting psicanalitici. Quel che segue non può che essere una mappa orientativa di autori e teorie utile ad evidenziare i rapporti tra lo sviluppo del pensiero simbolico, l’ambiente in cui tale sviluppo ha luogo e quella forma specifica di espressione che è l’attività grafica. In questo senso non verranno prese in considerazione le teorie psicanalitiche e cliniche in modo specifico, ma verranno selezionati alcuni autori e modelli teorici e ne saranno lasciati sullo sfondo altri, presentati tuttavia nella sezione bibliografica. 2.1 Il disegno come movimento Secondo molti autori, all’inizio, il di-segnare non è altro che l’incontro casuale tra un gesto e una superficie in grado di registrarne il percorso; per altri si tratta di una scoperta preparata ed attesa, frutto dell’osservazione e imitazione di figure con le quali il bambino ha una relazione affettivamente importante116. 116 «A riferire qualcosa sul significato dei primi tracciati non sono i bambini che disegnano, ma quelli che non disegnano. Non è difficile appurare che i bambini che non disegnano, in realtà, sono bambini che non hanno mai avuto modo di osservare i genitori scrivere o, in ogni modo, hanno genitori che non favoriscono le condizioni per disegnare, non fornendo ai figli né le possibilità materiali né rinforzi affettivi. Imitare l’adulto per il bambino non è un puro esercizio intellettivo, ma è un apprendere ad essere nel sentirsi come l’altro. L’attività grafica, come qualsiasi altra attività fondamentale, si genera e si sviluppa all’interno di una relazione affettivamente importante. Inizialmente il bambino imita il gesto dell’adulto, un gesto che “fa” cose di estrema serietà […]. Soltanto in un secondo momento subentrerà l’interesse del bambino per la propria produzione, passando dall’imitazione del gesto all’imitazione del prodotto del gesto, cioè ai tracciati. Questo passaggio avviene a condizione che gli adulti si interessino ai disegni dei bambini valorizzandoli. Nessun apprendimento avviene per caso e ogni gioia autentica del bambino si esprime all’interno del dialogo relazionale con i genitori. Non esiste un piacere che possa sorgere e alimentarsi nel vuoto affettivo. Il piacere motorio promosso dall’attività grafica diviene così piacere imitativo, mentre il piacere visivo per le linee è in funzione della gioia che il bambino vede quando 157 Sia in un caso che nell’altro, l’origine del linguaggio grafico è un movimento che lascia una traccia [figure 3 e 4, p.7]. Con il gesto ha inizio lo sviluppo del linguaggio figurativo sia sul piano ontogenetico sia su quello filogenetico. In quanto libero, spontaneo, svincolato da qualsiasi rapporto di dipendenza con gli strumenti e con le tecniche, il gesto, animato da una forza ancestrale, esprime la presenza vitale, primordiale, istintiva, preculturale e astorica che soggiace in ogni uomo. La pittura gestuale, l’informale europeo e l’action painting americano, facendo appello a quanto di arcaico permane nella natura umana, propongono, appunto, il ritorno alle origini; a quell’espressività primitiva e selvaggia governata da forze brutali, allo scopo di ritrovare nell’unità uomo-natura-materia l’autenticità e l’unicità del gesto aurorale. In fondo il gesto non può esprimere qualche cosa d’altro all’infuori del proprio essere-azione, atto esistenziale, espressione del dinamismo psico-cosmico dell’Essere. (Di Napoli, 2004, pp. 212-213). Le prime organizzazioni grafiche prodotte dal bambino, indicate col termine di scarabocchio117, sono collocate, nella nostra cultura, mostra i suoi tracciati agli adulti. I gesti di un bambino non visto si perdono nel vuoto» (Quaglia, 2003, pp. 50-51). 117 «Ma cosa si intende per scarabocchio? Intanto, se “è disdicevole che lo scarabocchio abbia per gli adulti una connotazione negativa”, tale connotazione non è, oramai da molto tempo, la più frequente. Anzi, la connotazione prevalente è positiva. Lo è, quantomeno, nella letteratura specialistica. Ma qui, il significato di scarabocchio, sebbene l’esemplificazione grafica di esso sia uno scarabocchio per lo più circolare o, meno frequentemente, pendolare, non è per nulla univoco. Può essere quello comune di groviglio di linee variamente orientate, e/o stadio iniziale dell’attività grafica, o ancora linee in funzione non rappresentativa; l’analisi può essere basata sul tracciato, sul gesto tracciante, su entrambi; la descrizione può tenere presente la variabile età, oppure prescinderne; l’opposizione può essere con il disegno in quanto rappresentativo, o con il segno in quanto lineare e non massivo; e così via. Ne risulta un insieme eterogeneo esemplificabile con le diverse classificazioni: da quella della Eng che distingue lo scarabocchio in pendolare, circolare, a forme sparse; a quella di Meyers che quadripartisce in tracciati lanciati, “di va e vieni”, circolari, variati; a Lowenfeld e Brittain che parlano di scarabocchio disordinato, controllato, identificato da un nome; a Bernson con la distinzione di scarabocchio vegetativo-motorio, rappresentativo, comunicativosociale; a Ada Fonzi che distingue lo scarabocchio in disinteressato e interessato; a Cyril Burt che parla di uso della matita senza uno scopo, uso intenzionale della matita, uso imitativo, scarabocchio localizzato; fino ad arrivare a Rhoda Kellogg che descrive venti scarabocchi-base» (Pizzo Russo, 1988, pp. 206-207). 158 approssimativamente tra i sedici e i diciotto mesi di vita118. Esse sarebbero più il risultato di “colpi di mano” che di “sfregamenti”: mentre il controllo motorio del bambino è ancora limitato, la carica d’energia e di entusiasmo che mette in questo genere di attività è solitamente grande. Ad un certo punto, di solito verso i due anni, il bambino, quando gli viene dato un lapis, comincerà a tracciare dei segni sulla carta. Per quanto lo scarabocchiare possa cominciare anche più presto, di solito i bambini molto piccoli considerano il lapis come qualcosa da guardare, da succhiare e da stringere. I primi scarabocchi sono dei segni eseguiti a caso, il bambino può guardare anche altrove mentre scarabocchia. Da ciò però gli deriva una grande soddisfazione perché è impegnato in 118 «La letteratura sull’argomento riporta la comparsa dello scarabocchio ad età molto diverse: dai 2 ai 3 anni (Osterrieth, 1973) o dai 2 ai 4 anni (Lowenfeld e Brittain, 1947) è l’età più frequentemente indicata. Tuttavia è stata riscontrata una produzione di soli scarabocchi anche in bambini di età superiore ai 4 anni, se si prendono in considerazione dati provenienti dalla ricerca interculturale. Gorge Rioux, ad esempio, in ambiente nord-africano, alla richiesta di un disegno a piacere e di uno a tema, in soggetti dai 6 anni e 5 mesi ai 12 anni e 4 mesi, frequentanti una prima classe preparatoria, ha riscontrato il 5% di scarabocchi e, per inciso, lo stesso autore nota la scomparsa totale dello scarabocchio, indipendentemente dall’età, dopo un anno di scolarizzazione» (Ibidem, p. 266). Gli studi longitudinali attestano la comparsa dello scarabocchio molto prima dei due anni. Per uno dei bambini studiati da Paolo Bonaiuto è a 6 mesi e 15 giorni (Bonaiuto, 1970); età davvero eccezionale se si considera lo scarabocchio sotto il profilo della maturazione neurofisiologica. L’arco cronologico andrebbe quindi da 6 mesi e 15 giorni a 12 anni e 4 mesi che, in termini di sviluppo psichico, sono età difficilmente equiparabili. Se in un primo momento la maturazione neurofisiologica gioca un ruolo decisivo, la stessa, non può essere chiamata in causa per spiegare lo scarabocchio in età successive. «In sostanza si dimentica l’ambiente, che quand’anche si limitasse a fornire al bambino l’occorrente per l’attività grafica, svolgerebbe già un ruolo tutt’altro da sottovalutare. Anche se, ovviamente, non si può misconoscere l’importanza della maturazione per la comparsa dell’attività grafica, lo sviluppo psicomotorio è condizione necessaria ma non sufficiente: il bambino può essere pronto a tracciare segni, ma se l’ambiente non conosce il medium del disegno, il bambino non disegnerà» (Pizzo Russo, 1988, p. 204). Conviene dunque, in termini generali, individuare la soglia prima della quale non vi sono condizioni di possibilità né di scarabocchi né di disegni, più che indicare l’età della loro comparsa. Di fatto, la maggior parte degli studi longitudinali segnala la comparsa dello scarabocchio verso la fine del primo anno di vita, e l’età riportata da Bonaiuto, alla luce delle osservazioni rivolte non specificatamente al disegno ma più in generale allo sviluppo della prima infanzia, può essere considerata la soglia maturativa prima della quale non ci sono nemmeno le condizioni di possibilità dello scarabocchio. 159 un’attiva esperienza cinestetica, una delle prime a consentirgli di esprimersi in modo diverso dal piangere. Tutti i fanciulli del mondo iniziano con lo scarabocchiare […]. Possiamo perciò dire che lo scarabocchio è un aspetto naturale dello sviluppo dei fanciulli e come tale riflette il globale sviluppo fisico e mentale […]. Il lapis può essere tenuto dritto o inclinato, oppure afferrato con il palmo della mano oppure tenuto tra le dita. Il fanciullo è in genere affascinato dai suoi scarabocchi e ne deriva una grande soddisfazione, senza con ciò voler tentare nessuna immagine visiva ma prendendo solo piacere dal movimento in quanto attività cinestetica. (Lowenfeld - Brittain, 1947, pp. 103-104). Il bambino produce «scarabocchi disordinati»119 compiendo movimenti più ampi possibili utilizzando l’intera circonduzione del 119 Victor Lowenfeld e W. Lambert Brittain distinguono tre stadi di sviluppo dello scarabocchio: lo stadio dello scarabocchio disordinato, lo stadio dello scarabocchio controllato e lo stadio in cui viene attribuito un nome agli scarabocchi. «Durante le prime fasi dello scarabocchio i segni fatti sulla carta possono andare in molte direzioni. Molto dipende dal fatto che il bambino disegni stando sul pavimento, oppure stia in piedi e disegni su un tavolo basso. La maniera in cui viene tenuto il pastello influenza anch’essa il tipo di segno. È importante notare che la grandezza dei movimenti riprodotti sulla carta è in rapporto con la grandezza del bambino […]. Poiché i piccoli autori degli scarabocchi non hanno ancora un controllo muscolare del tutto sviluppato, di solito ripetono solo i segni più larghi. Bisogna ricordare che il bambino scarabocchia compiendo i movimenti più ampi che gli sono possibili, anche se ad un adulto il risultato può apparire solo come un disegno di esigue proporzioni» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 105). Gli “scarabocchi disordinati” sono stati studiati in modo approfondito da Rhoda Kellogg. Nella terminologia dell’autrice essi vengono definiti “scarabocchi-base”. «Gli scarabocchi-base sono venti tipi di segni che i bambini fanno già all'età di due anni e in alcuni casi anche prima. I movimenti che essi compiono, comportano variazioni di tensione muscolare che non richiedono l’uso della vista: a due anni, i bambini possono eseguire tutti gli scarabocchi senza il controllo degli occhi; se fosse possibile registrare con uno strumento i movimenti della punta delle dita di un neonato che agita le braccia nell’aria, ne risulterebbero proprio questi scarabocchi. Anche i bambini ciechi possono farli, ma naturalmente non traggono nessun piacere visivo dai risultati del gesto e non hanno quindi stimoli a comporre scarabocchi. Gli scarabocchi-base ci aiutano a capire come nei bambini molto piccoli la facoltà di disegnare, anche se in modo estremamente rudimentale, sia naturale. Anche gli animali possono tracciare delle linee su una superficie, ma nessuno di essi è in grado di fare tutti gli scarabocchi-base; per farli tutti è necessario il sistema nervoso e muscolare dell’uomo, ed è quindi evidente che la capacità di comporre scarabocchi non è un’acquisizione recente della specie» (Kellogg, 1969, p. 17). L’autrice definisce gli scarabocchi-base come «le strutture portanti del disegno» in quanto sarebbero a fondamento di tutte le produzioni grafiche. Con la Kellogg lo 160 braccio, e continua a farlo, anche se il risultato è costituito da segni brevi, dovuti alla non completa aderenza dello strumento al foglio120 e al fatto che spesso il bambino stia guardando altrove durante la produzione. In questo tipo di attività il bambino è impegnato complessivamente: c’è una partecipazione di tutto il corpo allo sforzo grafico che non si limita all’azione della mano e del braccio; c’è ancora un richiamo ad abilità e competenze che fanno capo a settori diversi: motorio, intellettivo, percettivo. Sono qui gli inizi del movimento espressivo, cioè le manifestazioni del momentaneo stato d’animo del disegnatore oltre che dei tratti permanenti della sua personalità. Queste qualità mentali sono costantemente riflesse dalla velocità, dal ritmo, dalla regolarità o dall’irregolarità, dalla forma dei movimenti corporei, e lasciano quindi il segno sui tratti a matita o a pennello. (Arnheim, 1954, p. 150). Rudolf Arnheim121 osserva che questa prima fase risulta legata ai movimenti descrittivi122 del gesto (pertanto le prime manifestazioni scarabocchio perde il suo carattere di “stadio” e acquista quello di “alfabeto” del disegno. 120 Già ad un anno circa d’età il bambino è in grado di produrre quello che è stato denominato lo “scarabocchio di corpo”, un insieme di grandi tracce che concretizzano la sua presenza “dinamica”. Questo tipo di attività è proposta spesso ai bambini che frequentano i servizi dell’infanzia 0-3: vengono loro dati a disposizione grandi fogli su cui possono sedersi e disegnare (un tipo di attività che può essere proposta anche ai bambini che ancora non deambulano) e grossi supporti traccianti (pennelli, pennellesse, pennarelli o altri tipi di colori che possono essere facilmente impugnati e manipolati dai bambini). Il prodotto che ne risulta è spesso un gioco di linee e colori con un grande buco bianco in mezzo, che corrisponde alla seduta del bambino. Nello “scarabocchio di corpo” verticale, fogli di grandi dimensioni (alti quasi il doppio del bambino e lunghi il più possibile) sono collocati di fronte ai bambini. I bambini possono camminare disegnando o fare cerchi e vortici utilizzando il movimento di tutto il braccio o di entrambe le braccia. All’interno di queste sperimentazioni il cui scopo è la registrazione del movimento e la stimolazione dell’attenzione del bambino al rapporto tra movimento e grafismo, sono previste anche attività centrate sulle “vere” tracce: lasciare impronte di mani e di piedi; utilizzare stampi naturali o artificiali. 121 Il metodo di trattazione delle rappresentazioni infantili da parte di Arnheim è di tipo psicogenetico. Egli sostiene, come sarà maggiormente chiarito in seguito, 161 grafiche sono caratterizzate dalla predominanza della linea sulla macchia) e ne sottolinea il perdurare dell’importanza nel tempo. Il gesto della mano che accenna alla forma di un animale nell’aria durante una conversazione non è molto lontano dall’atto di fissare la stessa impronta nella sabbia o su una parete […]. Questo aspetto rappresentativo del comportamento motorio è ben evidente nel bambino piccolo. Jacqueline Goodnow registra che i bambini dell’asilo, cui è stato richiesto di accoppiare una serie di suoni con una serie di puntini, disegnano i puntini in fila da sinistra a destra ma non lasciano spazi vuoti sulla carta in corrispondenza degli intervalli tra gruppi di suoni. Invece usano sovente pause motorie: fanno due puntini, si fermano, altri due puntini, e così via. Per loro questo corrisponde al modello sonoro, anche se sulla carta gli intervalli non risultano. (Ibidem, pp. 150-151). I primi prodotti grafici sono esecuzione-registrazione di comportamenti motori che traducono una modalità sincretica di sentire: come sottolineato da Arnheim, non si tratta di rappresentazioni, ma piuttosto di presentazioni; sono una forma della gradevole attività motoria con la quale il bambino esercita gli arti, con il piacere addizionale di produrre tracce visibili attraverso i gesti vigorosi delle braccia avanti e indietro. Produrre qualche cosa che prima non esisteva è un’esperienza gradevole. Quest’interesse per il prodotto fine a se stesso […] è un semplice piacere sensoriale, che perdura invariato anche nell’artista adulto. (Ibidem, p. 150). un’origine motoria della rappresentazione (anche artistica) nel senso che il comportamento motorio ha in sé un valore descrittivo: produce rappresentazioni. 122 «La spontaneità del gesto è governata dall’intenzione di imitare le proprietà delle azioni o degli oggetti […]. Sembra lecito presumere che la sorgente dell’attività artistica deliberata stia nel movimento descrittivo» (Arnheim, 1954, p. 150). Anche per Piaget, che considera il movimento descrittivo «germe dell’imitazione», la sorgente del disegno può essere ravvisata nel gesto (Piaget, 1945, p.110); tuttavia secondo Piaget, che distingue percezione e attività percettiva, «il disegno traduce i movimenti di esplorazione del soggetto molto più che la sua percezione visiva» (Piaget - Inhelder, 1948, pp. 45-46). 162 È l’inizio di un processo di reificazione destinato ad avere sempre maggior importanza: «lo scarabocchio, realizzandosi, diviene per il bambino un oggetto privilegiato perché è l’oggetto che egli stesso sta creando. Lo scarabocchio si individualizza, si condensa in qualcosa che si stacca su uno sfondo» (Neville, cit. in, Pizzo Russo, 1988, p. 206). Per Arnheim la forma, la dimensione e la disposizione dei tratti che compongono lo scarabocchio è determinata sia dalla costruzione meccanica del braccio e della mano quanto «dal temperamento e dall’umore del bambino» (Arnheim, 1954, p. 150). Anche se gli scarabocchi dei bambini possono sembrare tutti uguali, essi sono già altamente personali nella forma, nella composizione, nel tratto e nel dinamismo: lo scarabocchio «porta la firma dell’autore accanto ai contrassegni della specie». (Bernson, 1968, p. 35). Del resto non bisogna parlare di scarabocchio in generale perché già al suo interno si delineano differenze nel senso del controllo e dell’organizzazione. Solo lo scarabocchio «incontrollato» (fino ai due anni circa) è in prevalenza movimento123. Dopo un periodo di solito non molto lungo di esperienza con gli strumenti e con l’attività, cominciano a rendersi evidenti segni di controllo e di organizzazione, cioè una prima tendenza verso espressioni “figurali”: gli scarabocchi cominciano ad avere valore e funzione di rappresentazione. 123 «Gli scarabocchi comprendono tutti i segni che risultano da un movimento spontaneo, eseguito o meno con il controllo degli occhi. Quando gli scarabocchi vengono fatti con il controllo visivo, danno una gamma infinita di effetti ottici, tuttavia ciascun disegno, modello, forma, struttura, simbolo figurativo o linguistico può essere scomposto negli scarabocchi che lo compongono, vale a dire nei suoi elementi lineari di base. È difficile trovare esempi puri di questi scarabocchi nei disegni dei bambini di due anni; a quest’età, normalmente essi sovrappongono uno scarabocchio ad un altro. La mano del bambino muta spesso direzione, forse per evitare la fatica muscolare, e di solito i cambiamenti di direzione modificano la forma dello scarabocchio. Sovente a tre, quattro anni, il bambino disegna sullo stesso foglio un solo tipo di scarabocchio» (Kellogg, 1969, p. 21). 163 Crediamo tuttavia che non sia corretto parlare di «attività puramente motoria degli esordi» (Lowenfeld - Brittain, 1947). La mia esperienza evidenzia piuttosto un’attenzione per la traccia già dalle primissime manifestazioni: i bambini sembrano interessati fin dall’inizio ai segni che lasciano sui fogli e il vederli comparire dà loro un innegabile piacere. Né, prescindendo dall’attrazione per la traccia, sarebbe possibile capire il comportamento di Jacqueline riferito da Jean Piaget (1945) quando, a 1 anno e 21 giorni, smette di imitare il padre che disegna perché, avendo capovolto la matita, essa non lascia traccia sul foglio. In questo esempio si palesa il precoce interesse della bambina per il segno e non per il solo movimento124. Si chiede a proposito Rhoda Kellogg: perché un bambino traccia dei segni sulla carta o delle linee nella polvere? Perché smette subito di scarabocchiare se il suo gesto non lascia traccia, se ad esempio il gessetto gli si rompe in tanti pezzi inutilizzabili? Perché una finestra appannata lo attrae solo fino a quando il vapore gli permette di vedere le linee tracciate dal suo dito? La risposta è che l’interesse visivo, sia esso primario o no, è una componente essenziale dello scarabocchiare. (Kellogg, 1969, p. 11). Possiamo allora dire che l’elemento percettivo è presente fin dagli esordi: il gesto, la traccia lasciata dal gesto, i mezzi con cui e su cui si lascia la traccia sono tutti elementi che entrano nella vicenda percettivo-espressiva. 124 Piaget inserisce l’attività con la matita nel V stadio del periodo sensomotorio, caratterizzato dalle “reazioni circolari terziarie”. A proposito delle prime esperienze di imitazione della figlia Jacqueline riferisce: «a 1;0 (21) [Jacqueline] imita l’azione del disegnare. Le metto sotto gli occhi un foglio di carta e traccio qualche segno con la matita. Poso quindi la matita: lei se ne impossessa subito ed imita il mio gesto con la mano destra. Non riesce dapprima a scrivere, ma, raddrizzando per caso la matita, traccia qualche segno e, subito, le viene da continuare. Passa quindi la matita alla mano sinistra, ma capovolgendola. Cerca allora di disegnare con la parte sbagliata; constatando l’insuccesso, essa non rigira la matita, ma la rimette nella mano destra e aspetta» (Piaget, 1945, p. 75). 164 Esistono inoltre differenze nel comportamento dei bambini relativamente all’attenzione che essi dedicano ai loro tracciati, a partire dall’interesse che ciascuno manifesta: c’è chi si stanca subito e chi no, alcuni non staccano mai lo sguardo dal foglio, mentre altri guardano altrove; alcuni sembrano più interessati alla mano che si muove sul foglio, altri al tracciato; ci sono quelli che continuano a disegnare solo sul foglio e con la matita, altri che sembrano trovare maggiore soddisfazione a scarabocchiare sui muri o su qualunque altro supporto. Ricordiamo che date le diversità ambientali in cui i bambini hanno o non hanno la possibilità di scarabocchiare e l’enorme variabilità individuale che presentano fin dalla nascita, la prima traccia e l’andamento delle successive può presentare variazioni notevoli da bambino a bambino. Il segno grafico non è il primo doppio che il bambino riesce a staccare da sé125, né la sua prima “presentazione”; tuttavia costituisce l’inizio di un processo di obiettivizzazione e di fissazione. Essa è qualcosa di persistente e duraturo nel tempo (informazione visiva) che si contrappone alla traccia sonora (informazione acustica) la cui caratteristica è l’immediato svanire. Essa si pone come visibile e tangibile “duplicazione” del sé: è autonoma e permanente anche quando il suo autore non è più presente. Anche se la traccia sonora svanisce in fretta, essa ha tuttavia carattere “imperativo”: gli adulti rispondono immediatamente ai vocalizzi del bambino, stimolandone la produzione ulteriore e creando format interattivi importantissimi per lo sviluppo del linguaggio (Bruner, 1983a). 125 Pierre Naville vede nello scarabocchio la fine di un periodo in cui il bambino è impegnato attivamente a lasciare tracce organiche o corporee di sé (come ad esempio la saliva, l’impronta della mano o del piede). Secondo questo autore il bambino prova un piacere istintivo a ripetere ogni tipo di azione che lascia un segno del sé. Lo scarabocchio si inserirebbe alla fine di questo periodo (e non all’inizio dell’attività grafico-rappresentativo) e sarebbe espressione della vita vegetativa e istintiva dell’uomo. Cfr. Quaglia, 2003. 165 In questo senso, è possibile sostenere che il significato sociale delle prime manifestazioni grafiche nella nostra cultura è, a differenza di quelle sonore, rimandato nel tempo e tuttavia il bambino prosegue attivamente nell’esplorazione e nell’apprendimento di questo linguaggio. L’interesse percettivo, presente, come abbiamo visto, fin dall’inizio, non va tuttavia confuso con il crescente controllo del gesto; né il bambino scopre «che vi è una connessione tra i suoi movimenti ed i tracciati sul foglio […] all’incirca sei mesi dopo che ha cominciato a scarabocchiare» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 240). Il fatto che crescendo il bambino abbia un maggiore controllo sul suo tracciato non va interpretato, a nostro avviso, come causato dalla «scoperta» del nesso movimento-segno; l’esercizio, che la scoperta del nesso causale promuove, contribuisce piuttosto allo sviluppo della coordinazione visivo-motoria necessaria alla produzione del segno grafico. Così il bambino gradualmente abbandona questa attività “disordinata” e “presentativa” e inizia attivamente a produrre segni e a cercare di controllarli; è questo il momento dello scarabocchio controllato126 in cui «scopre» le possibilità offerte dal controllo visivo. Nel disegno di Caterina (3,11) in figura 5, p. 8 il controllo visivo è espresso dalle tonalità utilizzate per coprire zone diverse del foglio e dalla volontà di rimanerne all’interno. Mentre i primi scarabocchi comprendono «tutti i segni spontanei, eseguiti o meno con il controllo degli occhi» (Kellogg, 1969) gli scarabocchi controllati prevedono una supervisione dell’occhio che guidi il comportamento della mano, senza che questa supervisione sia necessariamente programmata dall’inizio. 126 «In un determinato momento il bambino scopre che c’è un rapporto tra i suoi movimenti ed i segni ottenuti sulla carta […] è un passo molto importante perché il bambino scopre, in tal modo, la possibilità di un controllo visivo sui segni da lui effettuati» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 105). 166 In questo periodo i bambini si dedicano agli scarabocchi con grande entusiasmo, perché il coordinamento tra sviluppo visivo e sviluppo motorio è una conquista estremamente importante. La gioia di questa scoperta stimola il bambino a variare i movimenti. Il ripetersi di certi movimenti indica un sopravvenuto controllo su certi movimenti essenziali. Le linee possono essere tracciate orizzontalmente, verticalmente e circolarmente […]. Il bambino non ha alcun intento creativo oltre a quello di muovere il pastello sulla carta. Tutta la sua gioia è determinata dalla sensazione cinestetica e dalla sua padronanza. (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 240). Ma mentre il bambino scarabocchia sul foglio, la carta stessa gli offre uno stimolo visivo che muta in relazione alla sua attività grafica. L’immagine nel suo insieme – spazi bianchi e segni – si modifica sotto ai suoi occhi e il bambino reagisce alla nuova immagine che si crea, in un “gioco” di rimandi continui. Gli scarabocchi, in questa fase, sono collocati in posizioni diverse del foglio, sotto il controllo di una sufficiente coordinazione oculo-manuale. La Kellogg chiama questi scarabocchi «modelli di posizione»127 per sottolinearne la collocazione rispetto al foglio. Ciascun modello di posizione rivela, secondo l’autrice, un tipo di percezione associato allo scarabocchiare. Ad esempio lo scarabocchio di Caterina della figura 5, nella classificazione della Kellogg, corrisponde al modello di posizione n.10, dove lo scarabocchio occupa due terzi del foglio (Kellogg, 1969). Se le linee e gli spazi che ha dinnanzi glielo suggeriscono, [il bambino] può essere indotto a completare un modello di posizione. Può ovviamente seguire un progetto iniziale e disporre le linee nella pagina secondo una precisa intenzione, oppure la sua percezione delle linee, 127 «Gli scarabocchi-base si possono riconoscere in tutte le formazioni di linee eseguite su qualsiasi superficie, mentre la posizione di un segno va riferita ad un perimetro ben definito, a una qualche “cornice” […]. Sono riuscita ad individuare diciassette modelli di posizione nell’arte infantile, ma ve ne potrebbero esser altri che ricorrono con una certa frequenza» (Kellogg, 1969, pp. 28-30). 167 degli spazi e dei rapporti figura-superficie può non agire per nulla; il bambino può essere così assorto nel tracciare una linea da ignorare completamente il foglio di carta nel suo insieme. Si hanno tuttavia prove che spesso il bambino vede il foglio come un tutto unico e reagisce di conseguenza; succede spesso che i bambini collochino intenzionalmente i loro segni lungo il lato del foglio. (Kellogg, 1969, p.30). I modelli di posizione sono le prime documentazioni di struttura controllata. Ricordano forme non casuali, come la mezza circonferenza, il quarto di circonferenza, rettangoli, triangoli, archi e molte altre ancora […]. Questi modelli sono eseguiti spontaneamente, non sono copiati o suggeriti dall’insegnante e spesso sono la risposta allo stimolo visivo che gli offre il suo stesso scarabocchio. I modelli suggeriscono le forme che il bambino farà più tardi, riempiendo una certa superficie o disegnando un contorno. (Ibidem, p. 35). Anche gli scarabocchi base suggeriscono forme come il cerchio, il triangolo o il rettangolo, tuttavia in questi tracciati i movimenti della mano non sono necessariamente guidati dall’occhio, cosa che non accade nei modelli di posizione, in cui la supervisione dell’occhio condiziona il tratto [figura 6, p.8]. Lo scarabocchio è dunque all’inizio un evento cinetico che provoca piacere motorio e visivo, un’espressione dei movimenti della mano e del braccio sostenuti da un’attività globale di tutto o parte del corpo in cui non interviene altro fattore intellettivo se non l’intenzione di lasciare una traccia. (Oliverio Ferraris, 1973, p. 20). Il bambino prende lentamente coscienza dei rapporti di causa ed effetto tra il suo gesto e la traccia, in modo che la traccia, provocando una reazione sul gesto, ne diviene causa a sua volta. In 168 questo senso si può parlare dello sviluppo dell’attività graficorappresentativa come una lenta conquista intenzionale da parte del bambino verso un tipo di comportamento sempre più significativo che, a partire da una “naturale vitalità motoria”, si mette in relazione ad un’istintiva forma di “provocazione” nel voler ottenere effetti sul mondo. Da questo momento in poi il bambino varia i suoi movimenti (che si fanno via via più scorrevoli) e cerca attivamente di cambiare la direzione e la forma delle sue linee: compaiono linee verticali, orizzontali, circoli, zig-zag e ghirigori. Il bambino si rende conto di poter decidere lo “stile” della linea che realizza. Si veda a questo proposito la grafica di Daniele [figura 7, p. 9] dove lo spazio grafico è riempito da diverse tipologie di segni e colori: puntini, linee vaganti aperte e attorcigliate, linee diagonali multiple, cerchi a linee multiple sovrapposte. L’intenzione di controllare il gesto nasce dall’esame della traccia ed è resa possibile dalla contemporanea maturazione della motricità fine, in particolar modo dalla motilità della mano-avambraccio e dall’evoluzione del controllo visivo sulla traccia. Soffermiamoci sulle abilità tecniche e cognitive richieste dall’attività grafica. Per riuscire a disegnare il bambino deve prima “imparare” a servirsi della propria mano e delle proprie dita128: lo sviluppo motorio 128 Nel corso del primo anno e mezzo di vita si sviluppa la manipolazione come abilità motoria specifica, il cui progresso dipende sia dalla maturazione neuromuscolare sia dall’esercizio. Alla nascita è presente una forma primitiva di prensione (il riflesso di presa): se il palmo della mano del neonato viene toccato, lui stringe le dita attorno alla mano o a qualunque oggetto afferrabile. «Se la presa del neonato è abbastanza forte da sostenere il peso del suo corpo, essa è del tutto inefficace come strumento. Intorno al primo mese di vita il riflesso di presa comincia ad indebolirsi e scompare del tutto verso i due mesi. Pressappoco alla stessa età il bambino inizia a sviluppare la prensione vera e propria, la quale si differenzia dal riflesso in quanto è fin dall’inizio sotto il controllo volontario: il bambino si tende verso un oggetto che attira la sua attenzione e lo afferra, più tardi è anche in grado di manipolarlo e di lasciarlo andare. Nello sviluppo di questa capacità si individuano alcune fasi che riguardano sia il movimento del braccio verso l’oggetto (avvicinamento) sia il gesto della prensione vera e propria […]. 169 determina come tenere lo strumento tracciante e come usarlo. Nei primi incontri con la matita il bambino solitamente usa le cinque dita serrate a pugno (come tutti i primati) per afferrarla; il passaggio dal pugno alla prensione fra pollice, indice e medio è un apprendimento, che richiede diversi incontri con lo strumento e che spesso viene sollecitato da adulti che intervengono attivamente a “correggere” l’impugnatura. Variazioni di lunghezza della matita causano variazioni nella prensione e quindi nel tracciato. Il bambino sperimenta approcci diversi con la matita e verso i tre anni perviene a controllarla alla maniera degli adulti ma solo a cinque anni è del tutto esperto nel tenerla. Per lasciare poi una traccia qualsiasi su un foglio di carta, la matita deve essere considerata dal bambino termine transitorio o mezzo per raggiungere uno scopo, e non confusa con l’azione stessa dell’afferrare. (Pizzo Russo, 1988, p. 205). Piaget ravvisa una prima distinzione mezzo-scopo nelle «reazioni circolari secondarie» (distinte in “tipiche” e “derivate”), azioni che caratterizzano quel comportamento che consistente «nel ritrovare i gesti che hanno esercitato per caso un’azione interessante sulle Il gesto della prensione attraversa un’evoluzione progressiva. All’inizio l’oggetto viene afferrato dalla parte cubitale della mano (sotto il mignolo), senza utilizzare il pollice (prensione cubito-palmare). In seguito viene condotto verso il palmo e afferrato utilizzando tre dita insieme: pollice, indice e medio (prensione digitopalmare). Infine l’oggetto viene posto sotto all’indice, e la prensione implica l’opposizione tra pollice e indice (pressione radio-digitale) […]. La diversità tra prensione precoce e tardiva si spiega con il processo di differenziazione cui vanno incontro le modalità sensoriali (visive, tattili, uditive) inizialmente indifferenziate. Nel neonato il semplice vedere un oggetto determina l’avvicinamento del braccio ad esso. In seguito alla maturazione e alla differenziazione tra i due canali sensoriali, l’attivazione di uno di essi (la vista) porta ad un’inibizione dell’altro (la prensione). Quando infine i due canali oramai differenziati si coordinano tra loro, il movimento di orientamento verso l’oggetto ricompare sotto il controllo visivo. L’abilità di controllare l’informazione “direzione” per guidare la prensione dell’oggetto diventa sempre più precisa nei mesi successivi, insieme alla capacità di controllare la postura e l’orientamento del corpo. Alla fine del primo anno di vita il bambino è così abile da programmare la direzione del movimento anticipando la futura posizione di un oggetto che si muove davanti a lui» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 51-53). 170 cose»129. I primi adattamenti «quasi intenzionali» e «quasi intelligenti», volti a «conservare e riprodurre il risultato interessante scoperto per caso»130 nascerebbero proprio dai tentativi operati dal bambino nel mettere in relazione le proprie azioni e i risultati ottenuti. Tuttavia il nesso causale, casualmente scoperto, è più facile da scoprire e mantenere quando l’effetto prodotto è un movimento […]. Se il nesso causale movimento-suono è meno semplice del nesso movimento-movimento, le cose si complicano ulteriormente nel caso del segno grafico. Gli effetti suono e segno grafico, prodotti dalla propria azione, sono entrambi qualitativamente diversi da quest’ultima. E però, mentre il suono che l’oggetto produce, sebbene sia diverso dal movimento che l’ha causato, è pur sempre dell’oggetto, l’effetto prodotto dall’uso della matita non viene ad interessare l’oggetto matita, ma l’oggetto foglio di carta. Ed è un effetto che si conserva nel tempo. (Pizzo Russo, 1988, p. 206). Lo scarabocchio controllato diventa oggetto privilegiato dell’attenzione del bambino, nel suo essere “quel particolare effetto” che il bambino sta cercando. L’organizzazione del tratto comincia con tracce curvilinee [figure 5 e 6, p. 8; figura 7, p. 9]: 129 Piaget, 1937b, p. 171. Le reazioni circolari secondarie “tipiche” comparirebbero nel III periodo dello stadio sensomotorio, ma non sono una condotta esclusiva di questo stadio. «Quando il bambino in uno stadio ulteriore (oppure l’adulto) scopre un risultato fortuito, ciò avviene quasi sempre in un contesto di ricerca o di sperimentazione e da allora l’azione di riprodurre l’effetto ottenuto costituisce un’azione derivata» (Ibidem, p. 234). Le attività con la matita, come abbiamo precedentemente visto, sono collocate da Piaget al V stadio, caratterizzato dalle «reazioni circolari terziarie». 130 Ibidem, pp. 205-206. Prosegue oltre «la parte di intelligenza implicata in tali comportamenti consiste dunque semplicemente nel riprodurre la serie di movimenti che hanno dato luogo ad un risultato interessante e l’intenzionalità di queste condotte non consiste nel cercare di riprodurre il risultato ottenuto». 171 la costruzione del corpo umano, basata sul principio della leva, favorisce il movimento curvilineo. Il braccio ruota attorno all’articolazione della spalla, e una più sottile possibilità di rotazione è garantita dal gomito, dal polso, dalle dita. Quindi i primi tratti rotatori nel disegno del bambino indicano un organizzarsi del comportamento motorio in accordo con il principio della semplicità. (Arnheim, 1954, pp. 152-153). L’attività grafica dipende dal controllo esercitato dall’attenzione e dagli occhi sulle braccia e sulle mani, ma anche dalla posizione del corpo, dalla prensione delle mani e, non ultimo, dalla capacità di tenere fermo il foglio. La maturazione biologica e le condizioni neurologiche assolverebbero, in questo caso, un ruolo importante nello sviluppo del disegno, in quanto il bambino può misurare l’ampiezza del suo gesto, può limitare il movimento della mano controllando il pollice, può tornare al punto di partenza in virtù della posizione di perno che il gomito assume. (Quaglia, 2003, p. 13). L’attenzione si focalizza sempre più sulla linea che, per mezzo dell’occhio, acquista potere sulla mano controllandola. Da questo momento in poi il bambino darà sempre maggiore importanza a ciò che sperimenta visivamente, rispetto a ciò che sperimenta cinestesicamente; la fonte del piacere e il fuoco dell’attenzione si sposteranno sempre più dall’effetto cinetico a quello visivo. La linea visivamente più semplice è la linea retta. Considerando il cerchio non tanto come linea quanto come il contorno di una superficie, la linea retta è la prima configurazione lineare concepita dalla mente. Questo dato è complicato dal fatto che per il braccio e per la mano, che devono eseguire materialmente la linea retta, essa non è affatto semplice: al contrario, per produrne una bisogna attivare un complesso sistema muscolare, perché l’avambraccio, il braccio, la mano e le dita funzionano come una leva che naturalmente percorre un tracciato curvo. 172 […]. È quindi difficile per il bambino di produrre una linea ragionevolmente diritta. Il fatto che, ad onta di ciò, egli la usi tanto spesso dimostra quanto ne apprezzi la semplicità visuale. La linea retta è un prodotto del senso della vista, su mandato del principio di semplicità. È caratteristica delle configurazioni create dall’uomo, mentre in natura si trova raramente perché la natura è una così complessa combinazione di forze che la drittezza, prodotto di un’unica forza senza interferenze, ha raramente la possibilità di concretarsi. (Arnheim, 1954, p. 159). Il bambino conquista il “controllo semplice” (o controllo di partenza) che gli consente di guidare la mano verso un tracciato già effettuato: può scegliere di ripartire da un punto del tracciato precedente per dare inizio a una nuova linea. La tappa successiva è caratterizzata dal “controllo doppio” (o controllo della partenza e dell'arrivo): riesce ormai a far partire la linea da un punto preciso e farla arrivare in un punto pre-determinato dello spazio. L’intera fase dello scarabocchio è compresa, quindi, tra il momento in cui l’occhio comincia a seguire la mano e il momento in cui la mano è guidata dall’occhio, e la linea progressivamente si trasforma in una linea di contorno. Inoltre, il doppio controllo consente al bambino di eseguire una grande varietà di figure geometriche: cerchi, ovoidi, triangoli, quadrati. Tutti i successivi perfezionamenti tecnici dipendono così da un crescente controllo motorio e da uno sviluppo percettivo integrato alla funzione motoria. (Quaglia, 2003, pp. 13-14). Lo scarabocchiare (come più tardi, il disegnare) è per il bambino un tipo di attività così affascinante e coinvolgente che alcuni autori ne parlano come di un vero e proprio gioco. Per Georges-Henri Luquet (1927) è «gioco d’esercizio» che evolverebbe in «gioco impegnato»; per Jerome Bruner (1976) «gioco di destrezza», che consentirebbe al bambino di maturare atti motori 173 che saranno successivamente incorporati in programmi d’azione più complessi. Gli adulti stessi condividono e sostengono tale idea: affiancano pennarelli, matite colorate, album da disegno e altri materiali per l’attività grafica a bambole e automobiline tra i regali tradizionalmente fatti ai bambini. Alcune attività infantili osservate nei primi tre anni di vita sembrerebbero rappresentare proprio un trait d’union tra gioco e disegno. Qualche bambino mentre scarabocchia accompagna l’attività grafica con azioni (per esempio riproducendo verbalmente il rumore del treno o salterellando sulla sedia come un coniglio) o con narrazioni. Intorno ai 2 anni nel gioco di finzione il bambino usa gli scarabocchi al pari di altri oggetti: così come una scatola di liquirizie può diventare un’astronave, allo stesso modo dei segni su un foglio possono essere usati come un giocattolo. (Cannoni, 2003, pp. 44-45). Sia nel gioco che nel disegno si evidenzia uno sviluppo parallelo, poiché scaturiscono entrambi da aspetti motori del comportamento, e tra i due e i quattro anni si hanno analoghe manifestazioni creative e cognitive sia nell’uno che nell’altro. Tuttavia il rapporto tra attività grafica e attività ludica si evidenzia in particolare durante le fasi successive dello sviluppo, quando oltre al piacere intrinseco provato dal bambino durante i due tipi di attività, emergono gli aspetti che li accomunano, in riferimento al loro carattere simbolico. Il disegno nasce quindi come gesto e “movimento esercitativo”: il bambino non ha intenzioni riproduttive - imitative della realtà che lo circonda, ma si misura esclusivamente con i suoi movimenti e con gli effetti che tali movimenti producono. La possibilità di articolare la produzione grafica consente di cominciare ad attribuire ad una traccia grafica una precisa funzione rappresentativa: 174 in particolare si nota una differenza evidente tra quello che è il semplice prodotto di una rotazione e la forma intenzionalmente rotonda e chiusa, guidata dall’occhio del disegnatore. Si può anche supporre che dalla prima esperienza del bambino, la curva lineare tracciata dalla matita o dal pennello si trasformi in un oggetto visivo bidimensionale, un disco percepito come una “figura” posta contro uno sfondo […]. Questa trasformazione percettiva promuove un’altra tappa fondamentale nella genesi dell’attività figurativa: l’intuizione che le forme disegnate nel foglio o plasmate con la creta possono stare al posto di altri oggetti esterni, a cui sono legate come il significante al significato. (Arnheim, 1954, p. 153). All’inizio le tracce semplicemente curvilinee l’avvio di e un le forme processo di circolari indicano controllo e di organizzazione; esse non hanno per il bambino il significato di rappresentare eventi, elementi naturalistici curvilinei o circolari; le une e le altre sono indifferenziate. La forma organizzata circolare che, come vedremo, si instaura ben presto in forza della sua semplicità sotto il rispetto motorio e visuale non è specifica, non si differenzia da altre forme; essa può rappresentare una quantità enorme di oggetti che nella realtà non hanno forma circolare o sferica131. 131 «Si è detto che il bambino, per le sue prime configurazioni, si ispira ai vari oggetti rotondi che si è visto intorno. Gli psicologi freudiani le fanno derivare dal seno materno, gli junghiani dal mandala; altri pensano al sole e alla luna. Sono speculazioni basate sulla convinzione che ogni qualità formale dei dipinti debba derivare in qualche modo dall’osservazione del mondo fisico, mentre la tendenza di base, nel comportamento motorio e visivo, verso le forme più semplici è del tutto sufficiente a spiegare la priorità delle forme circolari: il cerchio è la forma più semplice offerta dal medium pittorico perché ha una simmetria centrale in tutte le direzioni. Una volta emersa dal mondo pittorico, comunque, la forma circolare entra in contatto con le forme analoghe degli oggetti percepiti nell’ambiente. Questa analogia poggia agli inizi su una base molto ampia e indifferenziata. Per capire l’uso, nei primi anni, della forma rotonda va ricordato che anche l’adulto usa il cerchio o la sfera per raffigurare qualsiasi configurazione e nessuna in particolare. Sfere, dischi, anelli, che sono la forma più indifferenziata e universale, occupano un posto preminente nei più primitivi modelli della configurazione della terra e dell’universo, non tanto sulla base di osservazioni ma perché si tende a rappresentare le forme e i rapporti spaziali sconosciuti nel modo più semplice» (Arnheim, 1954, p. 154). 175 Ad esempio, in figura 8, p.9, Patrik (4,5) disegna una serie di cerchi concentrici partendo da quello più interno e procedendo verso l’esterno. Aggiunge poi alcuni cerchi più piccoli nelle zone interne dove lo spazio lo consente, poi una riga, e tanti piccoli puntini. Alla richiesta dell’insegnante di esplicitare che cosa abbia disegnato, verbalizza indicando le singole figure: “uccello, giraffa, serpente, formica, coccodrillo, delle righe che ci vanno intorno delle formiche”. «Sarebbe sbagliato dire che il bambino non tiene conto, o tradisce nel riprodurla, la forma degli oggetti, perché egli li dipinge come rotondi solo per l’occhio dell’adulto» (Arnheim, 1954, p. 155). L’indipendenza di questo risultato grafico dalla realtà è per Arnheim la prova che esso è un’invenzione che funziona come generale sistema di rappresentazione: il bambino che scarabocchia, e successivamente disegna, non riproduce una forma reale particolare per adoperarla estensivamente, ma «inventa» (nei limiti di certi condizionamenti motori) un pattern strutturale. 2.2 Dallo scarabocchio allo schema figurativo. Disegnare e raffigurare. Lo stretto legame tra segno e gesto-movimento132 fa sì che la produzione grafica che ne risulta sia composta da tracce di forme 132 Per la mano che disegna, non tutti i movimenti sono equivalenti. Lo stesso Arnheim riconosce l’esistenza di movimenti che risultano più naturali di altri, e che, di conseguenza, vengono preferiti soprattutto dal disegnatore inesperto. «Se pensiamo alle abilità tecniche necessarie a disegnare, ci rendiamo conto facilmente di come la biomeccanica degli arti superiori (braccia, mani, dita) e le caratteristiche del nostro sistema visivo si traducono in veri e propri vincoli percettivo - motori (o esecutivi). Ad esempio la lateralizzazione della manualità sembra incidere sulla direzione delle linee tracciate: se i destrimani per disegnare una linea tendono a muoversi da sinistra verso destra, i mancini solitamente si muovono in direzione opposta. A questi vincoli di “ordine inferiore” se ne aggiungono altri di “ordine superiore”, i vincoli cognitivi, ciascuno legato a specifiche caratteristiche della nostra attività di pensiero: per esempio è difficile disegnare a memoria un oggetto strano, oppure pianificare bene una figura che si esegue per la prima volta o, ancora, trovare un equivalente efficace per una forma complessa» (Cannoni, 2003, p. 32). 176 diverse. Sotto gli occhi del bambino, compare un panorama di segni ricco e sempre più articolato in forme rudimentali di diagrammi, diagrammi regolari e irregolari, associazioni. Segni sparsi o concatenati, aggregati133 di forme che occupano uno spazio senza un ordine riconoscibile; agglomerati di forme a sé stanti che danno l’idea di un insieme; segni in fila o in sequenza; schemi molto controllati e “celebrali” sono le strutture compositive più usate dopo lo scarabocchio originario [figure 9 e 10, p. 10]. Queste forme si compongono nello spazio “casualmente”, senza un particolare criterio. Con la pratica e l’evoluzione si evidenziano tuttavia alcune modalità di organizzazione nello spazio grafico, sempre più precise e ricorrenti. Si tratta di strutture compositive trasversali a tutte le tecniche figurative (artistiche e non) che il bambino svilupperà in seguito. Peter Van Sommers ha analizzato le competenze articolatorie richieste dal disegno e ha individuato la seguente tipologia di movimenti spontanei per la mano (di cui riferiamo quelli relativi ai destrimani): - la mano nel tracciare un cerchio tende a eseguire un movimento antiorario con origine nella parte bassa a destra e termine nella parte in basso al centro (prendendo come riferimento un orologio, il punto corrisponde alle ore sei). Questo movimento non si chiude completamente ma lascia aperta la circonferenza nella parte che va dalle sei alle quattro; - tendiamo a disegnare linee inclinate verso di noi, iniziando a tracciarle dall’alto a sinistra verso il basso a destra (dalle undici alle cinque); - le linee orizzontali preferite dalla mano sono quelle che vanno da sinistra verso destra con andamento ascendente, dal basso verso l’alto; - nessuno riesce a tracciare l’arco di cerchio rimasto aperto, quello nella parte in basso a destra (nello spazio compreso dalle sei alle quattro), perché le particolari articolazioni che la mano intrattiene con il polso e con il braccio non lo consentono; e se, forzando, si tenta di entrarci, la fluidità del gesto ne risente in modo evidente. L’autore sostiene che questi elementi siano universali e alla base dell’evoluzione di tutti i sistemi di scrittura; essi sarebbero strutture profonde non modificabili dalle abitudini culturali, poiché ubbidiscono ad una logica interna, modellata su un arcaico coordinamento occhio-mano (Van Sommers, 1984). 133 «Quando il bambino comincia a comporre aggregati – insieme di tre o più diagrammi – si comporta come l’artista con il suo repertorio di forme visive. Il numero di aggregati possibili è infinito. Di solito il bambino che a due-tre anni ha avuto la possibilità di scarabocchiare spesso e liberamente, a tre-quattro anni disegnerà un gran numero di aggregati complessi, svilupperà uno stile personale nel costruirli e l’insegnante o il genitore sovente saranno in grado di riconoscere i suoi disegni tra quelli di altri bambini» (Kellogg, 1969, p 67). 177 Dallo stadio del modello (che comprende la produzione di scarabocchi-base e modelli di posizione), il bambino passa allo stadio della forma134 e della composizione formale135 in cui si affina il controllo volontario dell’attenzione sul gesto (intenzione), l’esercizio della memoria136 e la ricerca attiva di configurazioni sempre più strutturate e complesse (pianificazione) [figure 11 e 12, p. 11]. Il sistema dell’arte infantile è un sistema logico visivo poiché il bambino procede per tappe: apporta varianti alle Gestalt che già conosce e queste, di riflesso, gli suggeriscono nuove Gestalt. Se è libero di creare nuove forme, progredisce spontaneamente nella sua attività, poiché sono proprio le nuove Gestalt che lo stimolano e mantengono vivo il suo interesse. L’uniformità dell’arte infantile da un capo all’altro del mondo mi induce a credere che la mente umana sia predisposta a ricordare – vale a dire, a 134 «Nello sviluppo artistico del bambino lo stadio del modello è seguito da quello della forma. Questo stadio include i diagrammi – forme definite contornate da una linea – come pure le forme rudimentali di diagramma che precedono i diagrammi […]. I tipi di diagrammi possibili che risultano dall’analisi dei disegni dei bambini sono sei. Cinque di essi sono geometricamente regolari: il rettangolo (o il quadrato), l’ovale (o il cerchio), il triangolo, la croce greca e la croce diagonale. Anche se mancano di precisione geometrica, questi cinque diagrammi sono normalmente disegnati dai bambini con sufficiente chiarezza, spesso con linee singole e continue. Il sesto diagramma, di forma irregolare, serve a classificare tutte quelle formazioni di linee intenzionali che circoscrivono un’area irregolare […]. Nel processo evolutivo i diagrammi indicano un progresso del bambino nell’uso più controllato delle linee e nell’esercizio della memoria» (Kellogg, 1969, pp. 49-53). 135 «Poco dopo avere incominciato a fare diagrammi, il bambino li elabora in ciò che io definisco associazioni (insiemi di due diagrammi) o aggregati (insieme di tre diagrammi); questi insiemi sono caratteristici dello stadio della composizione formale dell’arte spontanea» (Ivi). 136 «I diagrammi comunque sono una prova evidente dell’intenzionalità e dell’uso della memoria nei disegni infantili. E’ probabile che il bambino, facendo i diagrammi, si ricordi di forme analoghe presenti nei suoi scarabocchi precedenti e che queste forme gli vengano in mente quando usa carta e matita. […]. Che ruolo ha la memoria nei primi scarabocchi infantili? Io penso che questo ruolo sia molto importante anche se non ho ancora prove del tutto soddisfacenti per dimostrarlo. Disegnando forme simili forse il bambino manifesta la sua predisposizione a vedere e a completare certe formazioni di linee piuttosto che il ricordo di scarabocchi precedenti. Tuttavia è possibile che bambini di due anni rifacciano lo stesso disegno nel corso di una lezione senza copiare dal lavoro già fatto: in questo caso è chiaro che sono in gioco entrambe, predisposizione e memoria […]. Che la memoria e l’intenzionalità basata su di essa, abbiano un ruolo importante, appare chiaro dal momento in cui il bambino è in grado di disegnare i diagrammi» (Ibidem, p. 57). 178 preferire – certe variazioni della forma e a scartarne altre. Quelle scartate o sono troppo complicate per essere colte al primo sguardo o troppo difficili per essere riprodotte abbastanza spesso da poterle fissare nella mente. I neurologi cercano di stabilire quanti stimoli “vecchi” e quanti stimoli “nuovi” siano richiesti dal sistema nervoso per funzionare in modo equilibrato; a me sembra che l’attività artistica sia per i bambini una fonte di stimoli equilibrata ed autoregolata, almeno fino a quando gli adulti non intervengono. (Kellogg, 1969, p. 97). Seguendo i presupposti della psicologia della Gestalt, secondo la quale l’esperienza percettiva si struttura in configurazioni irriducibili alla somma degli elementi che lo compongono, la Kellogg sostiene che il bambino che scarabocchia organizzi cognitivamente punti e linee in forme dotate di “senso”137 secondo un “ordine visivo primario” che «esiste indipendentemente dal pensiero razionale, dallo sviluppo del linguaggio o dalle condizioni emotive e si esprime nelle formazioni gestaltiche» (ibidem, p. 74). Si veda a questo proposito grafica di Marika (3,7) in figura 13, p. 12, che compone un arco lungo la diagonale del foglio utilizzando il tratteggio (scarabocchio 6 nella classificazione della Kellogg, ovvero una linea verticale multipla) e alternando diversi colori. 137 «Poiché lo scarabocchiare implica la percezione e la percezione coinvolge il cervello, le teorie generali sull’arte infantile dovranno prima o poi prendere in considerazione il suo funzionamento. W. Kohler, uno psicologo della Gestalt ha avanzato l’ipotesi che certe funzioni fisiologiche del cervello siano responsabili della tendenza a organizzare i dati visivi in forme piacevoli o “buone”, vale a dire in forme simmetriche, semplici e regolari. Il meccanismo mediante il quale vengono ricordate le forme “buone” che si possono ritrovare negli scarabocchi è così descritto da Penfield e Roberts: V’è ragione di credere che esistano nel cervello aree specializzate in cui possono essere immagazzinati “modelli di passaggio” degli impulsi nervosi. Il modello di passaggio di potenziali elettrici attraverso determinati neuroni (cellule nervose) e le fibre connettive forma un’unità…Ciascun passaggio di un flusso di impulsi neurali lascia dietro di sé una facilitazione persistente, tale che gli impulsi possano ripercorrere la stessa strada più facilmente. È questa grossomodo la base neurale della memoria. Partendo da questa ipotesi si potrebbe arrivare un giorno a dimostrare che i primi scarabocchi costituiscono una testimonianza dei processi mentali naturali della specie» (Kellogg, 1969, pp. 35-36). 179 La percezione, secondo la psicologia della Gestalt, è regolata da alcuni criteri, tra cui il principio della buona forma, in virtù del quale gli stimoli visivi tendono ad organizzarsi in forme simmetriche e regolari basate sull’equilibrio, sulla proporzione e sulla strutturazione delle linee138 [figura 14, p. 12]. Per la Kellogg, scarabocchiare non è solo un atto percettivo e motorio, ma anche un atto cognitivo: la mia ricerca avvalora la convinzione che gli occhi e il cervello dell’uomo siano predisposti a vedere le forme globali; che questa predisposizione influisca sulla coordinazione oculo-manuale nel fare gli scarabocchi; che il bambino crescendo disegni le forme in modo sempre più determinato e chiaro e che preferisca quelle dotate di equilibrio. (Ibidem, p. 300). Ad ogni “stadio” i bambini risponderebbero alla presenza dell’ordine di una forma: pur sperimentando diversi scarabocchi, diagrammi e combinazioni, le unità da loro ricordate e ripetute sarebbero quelle dotate di una “buona forma visiva” o un buon equilibrio139 [figura 15, p. 13]. 138 I recenti studi sulle basi neurologiche della percezione hanno confermato le conclusioni ottenute in via sperimentale dalla psicologia della Gestalt agli inizi del Novecento. I vari elementi che concorrono alla costruzione delle immagini sono interpretazioni contestuali della teoria della percezione in senso gestaltico. Per un’aggiornata rassegna degli studi gestaltisti cfr. Branzaglia, 2003. 139 «La maggior parte dei disegni che il bambino fa tra i tre e i cinque anni è costituita da aggregati, che continuano ad essere presenti anche negli stadi successivi. La preferenza per l’equilibrio e la regolarità che sembra innata nei bambini impedisce che gli aggregati risultino miscugli disordinati di forme. […]. L’equilibrio può essere di tre tipi: verticale, orizzontale e globale. Nell’equilibrio verticale la maggior parte dei segni presenti nella parte superiore della figura è controbilanciata da altri segni posti in basso. Nell’equilibrio orizzontale alla maggior parte dei segni di sinistra corrispondono segni analoghi a destra. L’equilibrio globale, come nel rettangolo o nell’ovale, è dato dalla somma dei due tipi di equilibrio» (Kellogg, 1969, p. 68). 180 Il mandala140, una forma chiusa, di solito ovoidale, con linee che si incrociano nel centro, è secondo la Kellogg, una forma che mostra un equilibrio straordinario, una combinazione di unità e contrasto. È quest’equilibrio, sostiene la studiosa, che spiega sia l’apparire del mandala in molte forme di arte nella storia, sia il piacere che provano i bambini di ogni età nel disegnarlo [figure 14, p. 12; 16, p. 13; 17 e 18, p. 14]. Se le mie ricerche sono corrette, il mandala è, in parte, una chiave della sequenza che dai disegni astratti porta a quelli figurativi. Il bambino dal mandala passa al sole, poi alla figura umana, e così aggiunge gradualmente ai nuovi disegni molte configurazioni proprie dei suoi precedenti lavori spontanei. Questo sistema logico-visivo dello sviluppo spiega la forma globale della prima figura umana disegnata dal bambino, forma che di solito all’adulto sembra contorta. In realtà, la forma mandaloide della prima figura umana è un segno della profonda sensibilità artistica del bambino. Il mandala è importante non solo in quanto parte della sequenza evolutiva dell’arte infantile, ma anche come legame tra l’arte infantile e quella degli adulti. Il prevalere di queste forme in arte è la prova più ovvia di questo legame. Sia nell’arte infantile che in quella degli adulti i quadrati e i cerchi divisi da una o più croci sono numerosi […]. Il mandala dimostra che gli adulti condividono la visione estetica dei bambini. Il mandala è una Gestalt cui rispondono positivamente sia i bambini sia gli adulti. (Ibidem, pp. 82-87). 140 «Mandala è una parola sanscrita che significa cerchio. Nella religione orientale essa viene usata per indicare varie formazioni di linee, ma soprattutto forme geometriche a struttura concentrica. Gli stessi tipi di formazioni di linee ricorrono anche nei disegni dei bambini. I mandala fatti dai bambini sono spesso delle associazioni formate da un cerchio o da un quadrato, divisi in quattro parti da una croce greca o una croce diagonale; oppure sono aggregati, formati da un cerchio o un quadrato divisi in otto parti da due croci appaiate. Anche cerchi e quadrati concentrici sono mandale» (Ibidem, p. 81). 181 “Soli” o “radiali”141 sono tipi di forme simili al mandala e vengono ripetuti nello stesso modo dai bambini. Il “sole”, inteso nel suo significato ristretto di “struttura compositiva”, associa il contrasto nel tipo di linea e l’equilibrio nel modo in cui una delle unità (una linea, un cerchio, un occhiello) viene ripetuta e fatta ruotare in maniera regolare intorno al centro costante dell’altra (il cerchio). La Kellogg ritiene che queste forme di ordine visivo siano intrinsecamente affascinanti, che cioè non ci sarebbe bisogno di apprendere che si tratti di “buone” forme [figure 19 e 20, p. 15; figura 21, p. 16]. Queste strutture posseggono qualità gestaltiche così forti che i bambini le riutilizzano volentieri: in fasi successive è possibile rivederne la comparsa per rappresentare mani, visi, corpi, o altri oggetti [figura 22, p. 16; figura 23, p. 17]. Le Gestalt solari dei primi scarabocchi, insieme ai mandala, sarebbero per il bambino lo stimolo visivo per la realizzazione di soli sempre più strutturati. I soli con segni centrali [figura 20, p. 15] di norma precedono quelli con il centro vuoto evidentemente le formazioni dei soli con il centro vuoto rappresentano una rottura rispetto alla forma del mandala e di alcuni aggregati circolari. Questo passaggio sembra richiedere troppo tempo e “pensiero”. (Kellogg, 1969, p. 97). 141 «Due analoghe formazioni di linee sono considerate rispettivamente soli e radiali. Il sole non è un’associazione o un aggregato perché al centro non vi sono linee incrociate, ma è in genere formato da un ovale (o da un cerchio) oppure da un rettangolo (o da un quadrato) con brevi linee che incrociano il perimetro. A volte le linee iniziano dal perimetro e si estendono all’esterno, più raramente iniziano dal perimetro prolungandosi all’interno del cerchio o del quadrato. La radiale può essere o un’associazione formata da due croci, o un aggregato formato da tante croci centrate sul medesimo punto, oppure essere composta da linee rette o curve che irradiano da una piccola area centrale invece che da un unico punto. A differenza dal sole, il mandala è diviso da una o più croci e, diversamente dalla radiale, ha un perimetro di chiusura» (Ibidem, pp.81-82). 182 Nelle figure 24 e 25, p. 18, lo stesso bambino sperimenta diverse tipologie di soli, arrivando, dopo alcune prove, al sole con centro vuoto [figura 25]. Le osservazioni della Kellogg richiamano da vicino quelle di Semir Zeki secondo il quale «tutte le arti visive sono espressione del nostro cervello e quindi devono obbedire alle sue leggi, nell’ideazione, nell’esecuzione o nella valutazione». (Zeki, 1999, p. 17). La tesi di Zeki è che sia possibile fondare una “teoria neurologica dell’estetica” ovvero una neuroestetica. Funzione dell’arte (e del cervello) sarebbe quella di «rappresentare le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti, situazioni e così via, permettendoci di acquisire conoscenza» (Ibidem, p. 26). In questa formulazione, la visione è un processo attivo in cui il cervello, nella sua ricerca di conoscenza del mondo visivo, opera costantemente una scelta tra tutti i dati disponibili e, confrontando l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera l’immagine visiva, con un procedimento molto simile a quello messo in atto dagli artisti. Se la visione è dunque una ricerca attiva di dati essenziali, la produzione artistica sarebbe, secondo questo autore, la rappresentazione di quei dati. La scoperta della specializzazione funzionale ha contribuito a cambiare le nostre idee sulla natura della visione, inducendoci a considerarla un processo attivo – una ricerca fisiologica dell’essenziale e dell’invariante che svincola il cervello dai continui mutamenti, e dalla dipendenza da essi, e lo affranca inoltre dall’atto visivo momentaneo e accidentale. Il cervello, insomma non è un semplice cronista che si limita a registrare in modo passivo la realtà fisica del mondo esterno, ma partecipa attivamente alla creazione dell’immagine visiva, in base a regole e a programmi suoi propri. Questo è l’unico ruolo che gli artisti hanno attribuito all’arte, e il ruolo che alcuni filosofi si sono augurati avesse la pittura. (Zeki, 1999, p. 91). 183 Colore, forma, movimento, volti, espressioni facciali e linguaggio del corpo sono attributi della visione cui corrispondono sia sistemi specializzati di elaborazione dell’informazione visiva (specializzazione funzionale della corteccia) che funzioni di primo piano nell’arte. Questo autore, attraverso esperimenti di laboratorio, trova interessanti corrispondenze tra ciò che viene prodotto in arte e il campo ricettivo di alcune cellule del campo visivo: «per questa ragione parlo di arte del campo ricettivo, convinto di questa piena corrispondenza tra dimensione artistica e fisiologica delle singole cellule studiate attraverso i loro campi» (Ibidem, p. 125). Seguendo le argomentazioni di Zeki è possibile ipotizzare che i bambini, durante le loro esplorazioni grafiche accentuino quegli stimoli che sono i più efficaci per attivare cellule particolari del cervello. Gli studi sullo sviluppo del sistema percettivo nell’infanzia avvalorerebbero ulteriormente i dati raccolti dalla Kellogg. La psicologia distingue tre principali momenti di questo sviluppo, caratterizzati da altrettante modalità visive: la percezione sincretica (globale-indifferenziata, caratteristica dei bambini fino all’età di sei anni circa), analitica (che si sviluppa tra i sei e gli otto anni, e che permette una migliore capacità di analisi e di esplorazione sistematica degli stimoli visivi) e, in ultimo, la percezione sintetica (globale-differenziata, percezione alla corrisponde cognizione). alla Mentre subordinazione l’adulto che della osserva un’immagine percepisce un insieme strutturato e può scegliere di analizzare l’insieme o le parti che lo compongono spostando il fuoco della sua attenzione dall’uno all’altro a seconda del compito, per il bambino il tutto o i dettagli (a condizione che siano particolarmente significativi o “vistosi”) attirano la sua attenzione; insieme ed elementi sono disgiunti gli uni dagli altri senza nessuna integrazione. Il 184 sincretismo percettivo infantile142 fa sì che per il bambino la percezione della struttura di un insieme ostacoli la percezione delle parti che lo costituiscono. La percezione visiva richiede che vengano considerati sia i singoli elementi sia la loro appartenenza ad un insieme sovraordinato che li comprende e li organizza. Ebbene, i bambini di 3-4 anni percepiscono il livello sovraordinato e quello subordinato, come un insieme, mostrando di non essere in grado di comprendere in modo flessibile l’organizzazione di una struttura percettiva che si compone sia di parti che di un insieme. Se mostriamo ad un bambino il modello isolato di una figura e poi gli chiediamo di trovarlo in un’immagine più grande in cui il modello è “mascherato”, ci accorgiamo che fino a 5-6 anni i bambini hanno grande difficoltà a risolvere il compito perché non sono in grado di contrastare, utilizzando una strategia analitica che implica abilità cognitive superiori, le forze percettive dell’organizzazione […]. Il sincretismo infantile non dovrebbe essere inteso nel significato restrittivo di un generico globalismo, bensì come una carenza di organizzazione articolata e flessibile del campo percettivo, e quindi come tendenza a cogliere le strutture spontaneamente prodotte, con più immediata evidenza, dal gioco delle condizioni oggettive. (Camaioni – Di Blasio, 2002, p. 85). 142 «Estrarre elementi da strutture percettive unitarie che vengono percepite come un insieme coerente comporta maggiore difficoltà. Effettivamente dai 3 anni ai 5 anni si manifesta una prevalenza di identificazioni riguardanti l’insieme, che si attenua e scompare negli anni successivi, mentre vanno crescendo sia le risposte concernenti i dettagli sia quelle che tengono conto dell’insieme dei dettagli. Con l’età si affinerebbero le capacità analitiche e le abilità di cogliere i particolari. Tuttavia non è corretto impostare il problema in termini di contrapposizione tra visione globale e visione analitica. I dati sperimentali di Vurpillot (1972) mostrano che a partire dai tre anni e mezzo i bambini sono in grado di accedere percettivamente sia a configurazioni complesse sia alle unità che le compongono. Non si tratta quindi di un problema connesso alla visione in quanto tale, ma piuttosto ad altre condizioni che generano il prevalere dell’una o dell’altra organizzazione percettiva. Entrano qui in gioco sia le influenze derivanti dall’ambiente sia le proprietà strutturali degli stimoli, così come sono state studiate dalla psicologia della Gestalt. Quando l’insieme corrisponde ad una forma semplice o ad una struttura forte, esso tende ad imporsi, ma se le singole parti rappresentano oggetti familiari o particolari vistosi (sempre gestalticamente organizzate in un tutto) vengono preferite all’insieme non noto. I bambini possono percepire i dettagli se questi sono significativi o vistosi» (Camaioni - Di Blasio, 2002, p. 84). 185 Il bambino ha a disposizione una gamma completa di segni e di forme, che lo stimola visivamente inducendo anche la possibilità di fare delle distinzioni o di trovare delle analogie. Si forma così lo stimolo a scegliere e a costruire forme sempre più specifiche di organizzazione [figure 26 e 27, p. 19]. Ovviamente i bambini trovano forme ovali o rettangolari nel mondo che li circonda: la luna, le facce e i corpi umani, i tronchi dell’albero, le formazioni di nuvole e le strutture circolari o rettangolari delle case fanno parte dell’esperienza di quasi tutti i bambini. Tuttavia l’intero processo evolutivo delle forme nell’arte infantile sembra essere in gran parte indipendente da queste osservazioni (basti pensare alle figure umane disegnate dai bambini). Ad ogni modo l’inclinazione a fare forme è così forte e prorompente da sembrare innata, che nasca o no da esperienze diverse dagli scarabocchi. (Kellogg, 1969, p. 34). Secondo la Kellogg mandala e soli stimolerebbero il bambino al disegno della prima figura umana. Dopo che il bambino ha disegnato la prima figura umana con linee ben definite, continua comunque nell’esplorazione della struttura solare, sperimentando varie tipologie di raggi e generando diverse composizioni formali (come il simbolo del fiore). Tuttavia non dobbiamo attribuire la definizione di “uomo” alla prima figura umana, per la ragione che non possiede né i caratteri del sesso né dell’età. Questo stimolo è particolarmente evidente nei disegni del sole con faccia, nei quali il sole è unito ad aggregati circolari, e nei disegni del sole umanizzato, che risultano più dal sole che dal mandala. Le definizioni di “capelli” o “ciglia” ai tratti del sole umanizzato provengono dagli adulti. In questa fase dello sviluppo le linee che vengono così definite non sono figurative: infatti, se lo fossero, comparirebbero anche nelle figure umane fatte più tardi, cosa che invece non accade. Queste 186 linee dimostrano invece che il bambino è stato stimolato dai suoi primi scarabocchi del sole. (Ibidem, p. 99). Si vedano ad esempio le grafiche a pag. 20. Il disegno di Leon (4 anni) in figura 28 è un disegno a tema in cui la figura del gatto è ricavata dallo schema solare; mentre in figura 29 Lea (4,2) utilizza la struttura solare per rappresentare il sole, diverse tipologie di figure umane solari e un fiore. In sintesi, il passaggio dallo scarabocchio allo schema figurativo è dato dall’incrociarsi di tre fattori: la capacità ri-conoscere, produrre e usare segni di forme e dimensioni differenti; la scoperta di strutture compositive fondamentali; lo sviluppo del meccanismo di aggregazione dei segni fra loro. In fasi successive gli scarabocchi vengono esplorati in vari “modelli di posizione” rispetto ad uno sfondo e più tardi sviluppati in forme semplici o “diagrammi” basilari (cerchi o ovali, rettangoli, quadrati, tipologie di croci) che vengono associati in diverse modalità. Tra queste numerose combinazioni i bambini tendono a preferirne e ripeterne soltanto una piccola parte. Sono queste combinazioni preferite che essi adotteranno per la rappresentazione di oggetti e persone e che caratterizzeranno i loro disegni. Nella figura 30, p. 21, abbiamo un esempio di questo processo: si tratta di una raccolta di alcune delle grafiche eseguite 143 spontaneamente da Emily nell’arco di alcuni mesi . La Kellogg vede l’inizio della pianificazione e dell’intenzionalità già a partire dallo stadio della forma, ravvisando valori rappresentativi nei diagrammi. Nello stadio della composizione formale il linguaggio grafico è “grammaticalmente” e “sintatticamente” completo, pur non assomigliando a nessun modello figurativo convenzionale: sono 143 L’ordine con cui sono state prodotte le grafiche è dall’alto al basso; da sinistra a destra. 187 presenti tutte le strutture grafiche fondamentali che stanno alla base sia del disegno (figurativo e non) che della scrittura (la sequenza e, in parte, la calligrafia). I bambini non disegnano ancora per realizzare un progetto o per raggiungere un obiettivo: si lasciano piuttosto coinvolgere dall’espressione che si modifica strada facendo, cambia con il cambiare delle idee e delle invenzioni che si susseguono prendendo spunto le une dalle altre, senza uno schema prefissato o conosciuto [figura 31, p. 22]. Per questa ragione gran parte della letteratura sullo sviluppo del grafismo (Luquet, 1927; Lowenfeld – Brittain, 1947) definisce queste composizioni tecnicamente come “scarabocchi” e considera propriamente come disegno il tracciato a cui il bambino assegna un nome. Il fatto di dare un nome allo scarabocchio ha un grande significato, poiché indica che il pensiero del bambino è cambiato. Prima di questo periodo il bambino si contentava dei movimenti in sé e per sé, mentre ora comincia a connettere questi movimenti con il mondo che lo circonda. E’ passato da un tipo di pensiero cinestesico in termini di movimenti ad un pensiero immaginativo in termini di figure144. 144 Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 109. Lo sviluppo del disegno proposto da Lowenfeld e Brittain è segnato da una progressiva e graduale conquista di abilità, strategie esecutive e conoscenze da parte del bambino: «la modificazione e il miglioramento del risultato artistico verranno automaticamente, quando si sia verificato un mutamento nel modo di pensare, di sentire e di percepire del fanciullo» (Ibidem, p. 148). Per questi studiosi il valore dell’attività grafica infantile è indiscutibile; essa è un potente mezzo di espressione e sviluppo della creatività. Anche in questo modello lo sviluppo del disegno si snoda per fasi che richiamiamo qui brevemente: dopo aver abbandonato lo scarabocchio, il bambino entra nello stadio preschematico (dai quattro ai sette anni) dove scopre il rapporto esistente tra le sue immagini mentali e i disegni. Naturalmente i bambini in questa fase non disegnano tutto ciò che sanno, perché non sono ancora in grado di disporre di tutte le conoscenze che hanno nell’atto della rappresentazione. A questo stadio segue lo stadio schematico (dai sette ai nove anni), in cui il bambino giungerebbe al concetto di forma, uno schema che rappresenta il concetto che il bambino è riuscito ad elaborare di un oggetto attraverso la conoscenza. Nello stadio realistico (nove-undici anni) le forme si arricchiscono di dettagli e l’attenzione per il particolare assumerebbe un significato soprattutto emozionale da parte del bambino. L’ultimo stadio è quello del periodo naturalistico (dagli undici ai tredici anni) durante il quale la 188 Il passaggio dallo scarabocchio “incontrollato” (o disordinato) a quello “controllato”145 e allo scarabocchio “con nome” in cui compaiono i primi intenti rappresentativi, avviene, per alcuni autori casualmente (Luquet, 1927), per altri dalla progressiva organizzazione di schemi figurativi e in seguito a condizionamenti ambientali (Kellogg, 1969); in un caso o nell’altro alla fine del terzo anno di vita le rappresentazioni grafiche, più organiche e complesse, iniziano ad avere una “leggibilità” (manifesta o solo dichiarata) anche per chi le guarda [figure 32 e 33, p. 23; figura 34, p. 24]. Come per l’inizio dello scarabocchio, anche per l’inizio del disegno (inteso come grafica con nome) l’età dei bambini seguita longitudinalmente è inferiore a quella indicata in generale. Esaminando i pochi dati presenti nella letteratura, relativamente al primo segno tracciato e al primo segno interpretato dallo stesso bambino, il tempo che intercorre tra l’uno e l’altro varia in relazione all’età. In generale la lunghezza dello scarto ha una relazione inversamente preoccupazione maggiore del bambino sembrerebbe il raggiungimento di un alto grado di “perfezione naturalistica”. 145 Senza voler entrare troppo dettagliatamente nelle diverse tipologie di scarabocchi individuate nel corso del tempo da autori appartenenti a orientamenti differenti, ci pare interessante segnalare lo scarabocchio onomatopeico come caso particolare di scarabocchio controllato e come precursore più prossimo allo scarabocchio con nome. La caratteristica di questo tipo di scarabocchio è quella di essere accompagnato, durante l’esecuzione, da espressioni onomatopeiche. Dal punto di vista formale, nel tracciato, non appaiono variazioni rispetto a scarabocchi “silenziosi”, ma l’utilizzo del suono da parte del bambino informa del fatto che è cambiato qualcosa nel rapporto tra il bambino, gli oggetti e la traccia. Il suono diventa parte integrante del disegno, una sola gestalt o configurazione “che sta per” una situazione che appartiene “all’esterno” di cui lo scarabocchio è “duplicato”. «Non vi è ancora rappresentatività della realtà esterna in questi scarabocchi […]. Certamente, l’onomatopea, qualità dinamica dell’oggetto, potrebbe essere intesa come pars pro toto, vale a dire una qualità del tutto, in armonia con l’organizzazione percettiva diffusa propria del bambino, in cui le parti non sono ben identificate in una struttura (Werner, 1940). In realtà, il bambino non è interessato all’oggetto in quanto tale, nella sua obiettività, ma il suo interesse è rivolto a quel che egli compie o esperisce mediante l’oggetto disegnato. In altre parole, gli scarabocchi onomatopeici sono dei veri e propri scarabocchi transizionali: essi non sono più soltanto scariche emotive-motorie, ma non sono ancora disegni di oggetti con parti tra loro in rapporto e aventi un’esistenza indipendente dal disegnatore» (Quaglia, 2003, p. 55). 189 proporzionale all’età: più piccolo è il bambino più lungo sarà il tempo in cui scarabocchierà solamente146. Nella fase iniziale il nome sarebbe associato al disegno più per un desiderio di trovare un significato condivisibile, che non per via della rassomiglianza effettiva con il modello147. Si vedano ad esempio la figura 35, p. 24; le figure 36 e 37, p. 25. Tra le tre la grafica di Giuseppe (4 anni) in figura 37, è particolarmente interessante. Si tratta della rappresentazione della fiaba de Il pesciolino d’oro, i cui protagonisti sono un pescatore e un pesciolino presenti nella grafica e rappresentati rispettivamente attraverso “l’omino” azzurro e quello giallo; e la moglie del pescatore (assente). 146 Pizzo Russo, 1988, p. 215. «Considerando i dati relativi a bambini che iniziano a tenere la matita in mano entro il primo anno di vita, l’intervallo tra scarabocchio e disegno va da un minimo di 8 mesi (e riguarda i bambini che iniziano verso la fine del primo anno) a un massimo di 19 mesi (e riguarda i bambini che iniziano molto prima). Quando il bambino inizia a tracciare segni nel secondo e terzo anno di vita, in genere l’intervallo si riduce. Rouma, che conduce le sue osservazioni su bambini di tre anni e più, constata che il passaggio dal segno al disegno avviene nell’arco della prima settimana o al massimo nel corso del primo mese. Luquet (1927, p. 134), per un bambino di 4 anni e 1 mese osserva che “la fase preliminare, tra il primo tracciato occasionale privo d’intenzione rappresentativa e il primo disegno intenzionale enunciato prima dell’esecuzione, non è durata più di un quarto d’ora”» (Ibidem, p. 267). 147 Nella teoria di Luquet (1927) il bambino, fin dalle prime esplorazioni grafiche, sarebbe “naturalmente” orientato verso il disegno figurativo. A tre anni scoprirebbe casualmente una rassomiglianza tra la forma dei suoi scarabocchi e qualche oggetto della realtà che lo porterebbe a fornire le prime interpretazioni verbali, anche se tali interpretazioni possono variare nel tempo, pur riferendosi allo stesso prodotto. La rassomiglianza involontariamente ottenuta, spingerebbe il bambino a ricercare attivamente analogie tra i suoi tracciati e gli oggetti della realtà e «ad eseguire dei tracciati con l’intenzione di rappresentare qualcosa». Il bambino passerebbe così dalla fase del realismo fortuito alla fase del realismo intenzionale. Anche se il bambino agli inizi vuole produrre delle immagini realistiche tuttavia è ostacolato da limiti di ordine fisico quali la maldestrezza motoria, e di ordine psichico, come la discontinuità e l’esauribilità dell’attenzione, nonché l’incapacità di sintesi. Il disegno in questa fase (realismo mancato) si presenta più o meno incomprensibile, per la scarsa coordinazione motoria; povero di dettagli a causa del carattere limitato e discontinuo dell’attenzione; disarticolato e sproporzionato per l’incapacità sintetica. «Chiameremo incapacità di sintesi quella imperfezione generica del disegno infantile che costituisce la caratteristica essenziale del realismo mancato e si manifesta a proposito delle diverse relazioni tra gli elementi» (Luquet, 1927, pp. 135-145). Nella teoria di Luquet il bambino sarebbe motivato alla produzione di disegni dal realismo (il disegnare oggetti reali) e interessato unicamente alla figurazione ovvero alla rappresentazione delle qualità visibili di un oggetto o di un evento. 190 Interessante la verbalizzazione del disegno: in alto a sinistra, allo scarabocchio bordeaux più esteso, Giuseppe assegna il nome di “uccello”, personaggio assente nella fiaba, ma la cui forma può essere ricavata dallo scarabocchio. Sono molti, in ogni caso, gli autori che ritengono che anche i primi tracciati infantili su un foglio esprimano molto di più di quanto noi adulti siamo capaci di leggervi, e che linee e cerchi o spirali stiano per, o al posto di, o siano sostitutivi di un qualcosa che è più corposo e composito di quanto possa denotare il segno stesso. Non solo, o non tanto, nel senso che una linea verticale, un semplice filamento attaccato direttamente al cerchio (la testa, il volto), che scende verso il basso, intende raffigurare una gamba, mentre una linea orizzontale, anch’essa filamentosa, ha la funzione di indicare un braccio levato. Ma piuttosto per il fatto che in quel filamento c’è una rappresentazione e insieme un’elaborazione mentale che sono certamente più complesse, per quanto difficili da comprendere, da spiegare, da accettare, probabilmente per il loro simbolismo. (Giani Gallino, 2008, pp. 77-78). Tuttavia, il soggetto del disegno costituisce un elemento di novità: i segni acquisiscono un riferimento visivo, che influenza a sua volta i tracciati successivamente prodotti [figura 38, p. 26]. Da questo momento è comunque certo, non tanto il passaggio dallo “scarabocchio” al “disegno”, ma l’utilizzazione del segno come disegno: d’ora in poi il bambino si eserciterà a trattare i segni da lui tracciati anche come “somiglianza”. La traccia grafica, inizialmente (periodo comunemente chiamato dello scarabocchio) unico scopo dell’attività e la matita tramite, diventa a sua volta mezzo per uno scopo ulteriore: rappresentare (Pizzo Russo, 1988). Secondo Clair Golomb all’inizio, i bambini possono essere del tutto soddisfatti delle loro produzioni di scarabocchi, ma quando un osservatore adulto chiede loro 191 che cosa rappresenta “il quadro” eseguito, tendono a romanzare, cioè a inventare una narrazione priva di una relazione manifesta con lo scarabocchio. Qualche tempo dopo, i piccoli scoprono una somiglianza accidentale tra il loro disegno e un oggetto familiare e quindi tentano di “estrapolare” che cosa il dipinto potrebbe rappresentare. Questi primi sforzi possono essere interpretati come espedienti prerappresentazionali per dare senso alle creazioni non intenzionali costituite dagli scarabocchi. (Golomb, 2002, p. 19). Nella figura 39, p. 26 e 40, p. 27 possiamo osservare due esemplificazioni di questo processo: il significato dei disegni è ricavato dai due autori solo a lavoro ultimato, e dopo aver osservato il loro prodotto. Se è vero che in parte il bambino è sollecitato dagli adulti a dare un nome alle proprie grafiche, è altrettanto vero che il bambino spesso incoraggia questa tradizione: definisce i suoi scarabocchi, i suoi modelli e i suoi aggregati come persone e cose, perché ha capito che gli adulti vogliono la prova che il significato del suo lavoro sia figurativo. Egli può essere deriso se il suo lavoro non è del tutto simile a come lui l’ha definito oppure può restare confuso quando gli adulti assumono un atteggiamento tollerante nei confronti dei suoi scarabocchi e si dichiarano d’accordo con le sue definizioni strampalate. Il bambino sa che i suoi scarabocchi non sono Gestalt figurative come le fotografie e gran parte dell’arte degli adulti che ha visto, tuttavia accetta la tolleranza degli adulti per le sue definizioni considerandola una incoerenza della loro mentalità. L’abitudine di dare definizioni figurative è anche rafforzata dalla carenza di termini per descrivere gli aspetti peculiari del disegno infantile. Gli adulti che desiderano parlare del lavoro del bambino trovano conveniente usare le stesse parole che impiegano per gli oggetti di ogni giorno. (Kellogg, 1969, pp. 123-124). 192 Nella figura 41, p. 27, Sana (4,7) dichiara, a disegno ultimato, di avere disegnato “un lupo”. Sana, nata in Marocco e trasferitasi in Italia dall’età di 6 mesi, è una bambina che frequentava da tre anni la scuola dell’infanzia di Reggio Emilia, ma che non parlava ancora italiano al momento in cui è stata prodotta la grafica. Il livello di comprensione della lingua italiana era discreto, mentre nella produzione utilizzava pochissime parole, e difficilmente partecipava alle conversazioni (sia a grande che a piccolo gruppo). Ci sembra dunque interessante il fatto che, a fronte di una grafica spontanea, abbia sentito la necessità di denominarla, con una parola che ha sentito diverse volte a scuola nelle narrazioni di fiabe o nelle conversazioni tra bambini. Come già per lo scarabocchio, la variabilità cronologica riscontrata per l’apparizione dello schema figurativo è determinata sia dalla maturazione fisiologica che da fattori ambientali. Di eguale importanza sono i criteri utilizzati dagli studiosi per decidere se si tratti di segno o di disegno148. Intanto non tutti gli studiosi scelgono come criterio la denominazione o interpretazione […]; il bambino, pur considerando il suo tracciato come rappresentazione, può non denominarlo; la denominazione può non essere presa in considerazione perché non la si riconosce come tale. 148 «H. Eng riporta i casi di Major e Bühler i quali “hanno sostenuto che quando dà un nome ai suoi scribilli il bambino intende con quel nome nulla più che il gioco del tracciare lo scribillo; assegnando tali nomi il bambino sta semplicemente chiacchierando con l’idea di imitare gli adulti” e non rappresentando, in quanto non avrebbe ancora sviluppato l’immaginazione per ravvisare nelle linee una qualche somiglianza. La Eng (1931, pp. 118-119) si chiede e chiede: “Perché l’immaginazione di un bambino non dovrebbe essere in grado di indurlo a credere che una linea è un essere umano, quando gli fa credere che un pezzo di legno è una bambola e un bastone è un cavallo?”. Ed è una linea, la prima rappresentazione che la nipote fa dell’uomo. Lo stesso P.A. Osterrieth (1973, p. 34) non riporta nell’elenco dei primi disegni dei suoi tre figli il disegno denominato “chalet” (una forma circolare chiusa eseguita dal suo terzogenito all’età di 2 anni e 9 mesi); mentre riporta il disegno denominato “albero” (la stessa forma alla quale subito dopo il bambino ha aggiunto nella parte inferiore un filamento verticale). Per la prima, “la rassomiglianza obiettiva è inesistente”; la seconda, “dal punto di vista di una rassomiglianza schematica, è perfettamente accettabile”. E. Lowenfeld e Brittain parlano per l’appunto di scarabocchio interpretato» (Pizzo Russo, 1988, p. 267). 193 Questo ultimo punto è da mettere in relazione a quella che sembra essere la concezione prevalente di disegno […] è una domanda che rivela l’implicita convinzione che il disegno serve unicamente a rendere la configurazione degli oggetti, e che il tracciato del disegno sia diverso dal tracciato dello scarabocchio. (Pizzo Russo, 1988, p. 215). In questo senso l’intento rappresentativo viene unicamente inteso come realizzazione del contorno degli oggetti mentre, in realtà, sono gli stessi tracciati che il bambino si è esercitato fin qui a produrre che vengono, da un certo momento in poi, a funzionare diversamente. Ciò che nel passaggio cambia non è ancora né l’aspetto né l’espressività dei tracciati, ma la loro funzione. A livello formale il prodotto grafico non subisce immediatamente alcuna trasformazione (tanto che l’adulto continua a vedere solo scarabocchi), tuttavia avviene qualcosa nel modo di “pensare” del bambino: egli attribuisce (autonomamente o su richiesta dell’adulto) un nome al suo tracciato (un significato) e si mostra desideroso di mostrarlo a genitori o insegnanti per condividerlo [figure 42 e 43, p. 28]. Il passaggio dallo scarabocchio al disegno non interessa immediatamente la materialità del segno, né avviene bruscamente. All’inizio il bambino non anticipa l’intenzione di rappresentare qualcosa, ma si limita a rintracciarla nei segni a posteriori. «Ha già capito che il segno, anche quello da lui prodotto, può essere usato per rappresentare, ma non è ancora in grado di pianificarlo in funzione rappresentativa» (Pizzo Russo, 1988, p. 216). Se lasciati liberi di disegnare, i bambini assegnano il nome al disegno solo dopo averlo completato, perché devono vederlo prima di poter dire che cos’è, e uno stesso disegno può cambiare denominazione in momenti successivi. Uno dei motivi per cui devono vederlo prima di 194 decidere che cosa è, è che non esiste nessuna “affinità formale”149 tra il tracciato e il movimento che l’ha prodotto. Trattando la differenza tra l’atto del disegnare (che si compie in sequenza) e il prodotto finale, che ha perso la sequenzialità dell’atto, Arnheim osserva: il compito dell’artista è reso più difficile non soltanto dal fatto che non può contare sul movimento vivo che egli sperimenta mentre disegna o scolpisce, ma anche dal dovere tenere a mente, mentre esegue un particolare, un intero che in parte è presente e in parte va completato con il procedere dell’opera. (Arnheim, 1954, p. 152). Inizialmente il bambino si comporta come se potesse contare sul “movimento vivo che sperimenta mentre disegna” e spesso chiede all’adulto di “fargli vedere come si fa”, seguendo attentamente i movimenti della mano dell’adulto piuttosto che lo svolgimento del tracciato; ugualmente non è sempre in grado di ripetere il risultato da lui precedentemente ottenuto e non può fare a meno che ritrovare somiglianze a disegno ultimato [figura 44, p. 29]. La capacità di vedere gli oggetti come somiglianza è una “sublimazione” della visione, una conquista privilegiata della specie umana (Arnheim, 1969). Con l’esercizio e la pratica l’intenzione rappresentativa (dichiarata o suggerita da altri) informa sempre maggiormente l’espressione grafica e quando il bambino inizia a trattare il segno anche come somiglianza, l’analogia che vi riconosce può riguardare proprietà dinamico-funzionali (ciò che un oggetto fa o che si può fare con quell’oggetto), percettivo-formali (come è) o entrambe. Così ad esempio, in figura 45, p. 29, Felix (5, 10) evidenzia “il salto” come qualità caratteristica del canguro e motivo di somiglianza tra la grafica e il soggetto rappresentato. 149 «Le qualità dinamiche delle opere d’arte [e del disegno in generale] non sono affatto create dalle forze fisiche corrispondenti» (Arnheim, 1954, p. 340). 195 Il primo canguro che disegna è quello posto nella parte più bassa del foglio. Dapprima disegna una linea a zig-zag rossa che allunga con un pennarello verde prima a destra (completando l’allungamento con la testa); poi a sinistra (per rendere una sorta di coda). Cerca poi di ottenere la tridimensionalità del corpo colorando una parte della linea a zig-zag con il pennarello arancione. Infine guarda la figura e aggiunge due gambe in azzurro. Per realizzare il secondo canguro procede velocemente: dapprima la linea a zig-zag da sinistra a destra, poi la testa e infine la coloritura del corpo. Attributi dinamico-funzionali e percettivo-formali guidano d’altronde la costruzione della conoscenza in questa fase dello sviluppo, nonché la formazione dei relativi concetti. Proprietà dinamico-funzionali e proprietà percettivo-formali, proprietà quindi di natura diversa si combinano nel dar luogo al concetto. Le prime, secondo la Nelson, costituiscono il criterio di definizione – il nucleo funzionale del concetto – le seconde ne determinano l’estensione […]. Il criterio di estensione è dato prevalentemente dagli attributi formali, ma il nucleo del concetto non è esclusivamente funzionale; fin dall’inizio è costituito dal nesso che lega, talvolta in modo casuale, una certa forma a una certa funzione. Va messo anche in evidenza che nel trattare le proprietà dinamicofunzionali dell’oggetto il bambino passa da un primo momento in cui le considera strettamente dipendenti dalla sua azione, al momento in cui le tratta come inerenti l’oggetto. L’elemento funzionale che andrà a fare parte del nucleo concettuale, confuso all’inizio con l’azione del soggetto, diventa viepiù oggettivo. Nell’oggettivazione delle proprietà dinamicofunzionali un ruolo essenziale viene ad essere svolto proprio dall’analisi delle proprietà percettivo-formali: la stessa azione non produce lo stesso effetto su oggetti diversi, come ad esempio una palla o un cubo. Che una palla rotoli, anche se è stata l’azione del soggetto a produrre l’azione dell’oggetto, è una proprietà della palla, in quanto oggetto sferico, e non dell’azione del soggetto […]. Fermo restando ciò, quando il bambino comincia a disegnare, l’integrazione delle componenti formali 196 e funzionali del concetto può non risultare, in quanto il bambino può concentrarsi solo su una delle caratteristiche. (Pizzo Russo, 1988, pp. 218-219). Nel “vedere” somiglianza tra i suoi tracciati e gli oggetti, il bambino sperimenta un modo diverso di conoscere: gli oggetti possono essere disegnati e il disegno diventa uno strumento per conoscerli. Da questo momento in poi, il disegno va, per così dire, oltre se stesso e si rivolge al referente di cui “sta al posto” assumendo lo statuto di simbolo: il significato domina sul significante (Vygotskij, 1978). Inizia un periodo di sperimentazione attiva sulla relazione tra segno tracciato e proprietà dell’oggetto. Se riflettiamo sul fatto che il disegno si realizza tramite un movimento, si spiega perché il tracciato inizialmente può essere utilizzato come equivalente di aspetti dinamico-funzionali e non formali. Ciò non significa, tuttavia, che il bambino non sia “interessato (almeno agli inizi della sua attività grafica) agli oggetti per la loro forma quanto per l’attività ad essi collegata”. Molto più semplicemente, il bambino può trovare più facile rappresentare, attraverso il movimento, un movimento che una forma150. Gradualmente cerca di rendere le immagini prodotte rassomiglianti al loro modello attraverso l’aggiunta di dettagli caratterizzanti e sperimentando configurazioni sempre più complesse ed elaborate. Si 150 Pizzo Russo, 1988, p. 219. Nell’analizzare le differenze tra gioco simbolico e disegno l’autrice sottolinea a proposito la maggiore complessità di quest’ultimo rispetto al primo. La relativa “semplicità” del gioco simbolico rispetto al disegno dipenderebbe dal fatto che il primo è rappresentazione di aspetti funzionali di oggetti, mentre il secondo riguarda anche e soprattutto elementi formali. Inoltre «che il nesso “movimento-movimento” sia più facile da comprendere di quello “movimento-forma”, trova una conferma indiretta nei dati di Gesell relativi all’“imitazione di segni” e alla “copiatura delle forme”. Se, come rileva Gesell, “il disegnare dopo avere osservato qualcun altro farlo, è un compito più facile e si sviluppa più precocemente del disegno, quando è dato il prodotto finale come modello”, ciò è dovuto al fatto che nel primo caso il bambino è facilitato dal potere imitare i movimenti dell’altro, nel secondo caso non ha da imitare un bel niente, ma deve organizzare i suoi movimenti per riprodurre il modello» (Ivi). 197 tratta di rappresentazioni che verranno sempre più orientate in senso “percettivo-formale” sulla spinta di richieste culturali specifiche [figura 46, p. 30]. In sequenza relativamente rapida, le figure si differenziano graficamente, grazie all’aggiunta di parti o alla loro suddivisione […]. Via via che aumenta la pratica nel disegnare forme semplici, cresce il desiderio di eliminare le ambiguità e di raffigurare i dettagli che renderanno distinguibili, per esempio, l’uomo dall’animale. Il fatto che la figura disegnata sia essenzialmente un utile schema, una soluzione temporanea al problema grafico, è confermato dalle significative variazioni che i bambini producono quando viene chiesto loro di dichiarare all’osservatore le parti della figura che devono disegnare; o di costruire una figura da forme di legno indistinte; oppure di completare figure disegnate in modo incompleto; è inoltre confermato quando spiegano le loro preferenze per modelli grafici specifici […]. (Golomb, 2002, p. 20). Nella sequenza prevalente dello sviluppo grafico, che impegna il bambino nella realizzazione dei primi lavori figurativi, gli esseri umani, in particolare le figure di riferimento affettivamente più importanti (mamma o papà) sono le prime grafiche a comparire, seguiti da animali, edifici, vegetazione e mezzi di trasporto (Kellogg, 1969). Gli elementi che compongono le figure sono illustrati separatamente e ne viene riconosciuta l’identità attraverso la denominazione “mamma”, “albero”, “casa” etc. Non c’è modo di indicare con certezza a che punto dello sviluppo il bambino cominci rappresentative: a rendersi conto che le sue figure sono probabilmente già prima che confermi il fatto all’osservatore adulto indicando il suo disegno e dicendo “cane!” Anche dopo che questo stadio sia stato raggiunto, non c’è ragione di supporre 198 che tutte le figure disegnate in seguito dal bambino siano da lui percepite come rappresentative. (Arnheim, 1954, 153-154). Le figure 47 e 48, p. 31; 49 e 50, p. 32 sono esempi di questo processo. In particolare la figura 48 è un esempio di denominazione successiva: Liam verbalizzazione, ha letteralmente mostrandosi piuttosto romanzato indeciso durante sul la “cosa” effettivamente avesse disegnato, mentre la grafica 49 è di Glenis (5,5), che, perfettamente in grado di rappresentare oggetti e situazioni in modo realistico (si vedano le altre sue grafiche tra i documenti etnografici) sperimentava spesso e volentieri forme più “astratte” di composizioni nelle grafiche che spontaneamente produceva. Nel processo di sviluppo del codice molto presto le figure sono allineate orizzontalmente e l’allineamento suggerisce relazioni “convenzionalizzate” tra gli elementi della composizione, tuttavia per i bambini impegnati a disegnare, le figure dovrebbero essere in grado di affermare ciò che sono e la preoccupazione per la loro identità sembra avere priorità su altri aspetti della rappresentazione quali, ad esempio, le dimensioni o il colore [figure 51 e 52, p. 33]. Tra i cinque-sei anni iniziano a prestare maggiore attenzione alle dimensioni dei soggetti, alla loro differenziazione e caratterizzazione spesso su sollecitazione di adulti o bambini “più esperti” [figura 53, p. 34]. Nonostante appaiano piuttosto semplici e primitive, queste figure testimoniano processi piuttosto astratti di pensiero visivo […]. L’indifferenza iniziale al realismo in relazione alle dimensioni e ai colori non è tanto una questione di “vedere” il mondo differentemente in senso psicologico o in termini di percezione visiva. Piuttosto, segue una logica di tipo grafico che richiede di rappresentare in modo simile le componenti ritenute ugualmente importanti. I bambini sono inoltre aiutati 199 da una strategia intuitiva che li porta a raggruppare le componenti in base alla somiglianza dimensionale […]. In generale il loro stile di rappresentazione non riflette una mancanza percettiva o concettuale; piuttosto è la valutazione di un principiante che sta sviluppando un vocabolario pittorico di forme e colori e prova ad organizzare i suoi elementi in modo significativo. (Golomb, 2002, p. 133). Il disegno è ora più strutturato, curato e ricco; mentre i temi che vengono rappresentati perseguono contenuti grafico-narrativi sempre più elaborati [figure 54, p. 34; 55 e 56, p. 35]. La fase della figurazione chiude il secondo periodo dello sviluppo grafico del bambino, e viene collocata approssimativamente tra i 5 e i 6 anni. Cuore dell’esperienza diventa ora la spinta a creare equivalenti attraverso un medium particolare. Anche la parola svolge un importante ruolo in questo processo, soprattutto nella comunicazione-condivisione-trasformazione dell’intenzione rappresentativa151: essa traduce e designa ciò che il bambino intende esprimere attraverso la sua grafica, rendendolo pubblico. Lo spostamento del processo di denominazione (prima a posteriori, in seguito a priori) sottolinea un cambiamento nella funzione stessa del linguaggio. All’inizio il linguaggio accompagna l’azione, ed è provocato e dominato dall’attività; più tardi, quando il disegno assume lo statuto di equivalente simbolico, il linguaggio si muove verso il punto di partenza dell’attività inaugurando un nuovo tipo di rapporto tra parola e azione (o tra ideazione e processo grafico). Ora una “parola” può guidare il corso dell’azione; una funzione programmatica si aggiunge alla 151 preesistente funzione di «I metodi e gli scopi degli educatori hanno effetti molto precisi sugli alunni. A scuola i bambini sono indotti ad imitare i disegni di chiunque e questo è il risultato del giudizio espresso dall’insegnante sul lavoro dei diversi studenti. Anche i commenti positivi o negativi fatti dagli insegnanti sulle singole parti dei disegni possono suggerire ai bambini idee per modificare o aggiungere altri schemi a quelli elementari che già conoscono» (Kellogg, 1969, p. 179). 200 rispecchiamento, svolgendo un importante ruolo nella condivisione dei processi in atto e dei prodotti ottenuti. Quando i bambini imparano a usare in modo efficace la funzione programmatrice del linguaggio hanno a disposizione uno strumento in più e il loro campo cognitivo cambia radicalmente. Una visione del futuro è ora una parte integrante del loro modo di accostarsi al compito (Vygotskij, 1978). Anche nella copia di immagine si assiste allo stesso processo; ad esempio nella figura 57, p. 36, Matteo (4,6) nomina le parti che copia dall’immagine un attimo prima di iniziare a disegnare: la parola in questo caso lo aiuta a focalizzare l’attenzione sulla parte che sta riproducendo. La prassi didattica della scuola dell’infanzia, e la pedagogia sostenuta da quest’ultima, favoriscono e incoraggiano il trasferimento delle parole in senso grafico e, nel processo inverso, la traduzione delle grafiche in codice linguistico, laddove la richiesta da parte dell’insegnante è spesso finalizzata alla riproduzione di oggetti o avvenimenti specifici che riguardano una discussione verbale, una narrazione, un vissuto, che a sua volta è seguita da una richiesta di verbalizzazione dei disegni stessi. 2.2.1 La prospettiva intellettuale Per molto tempo gli studiosi del disegno infantile si sono chiesti se il bambino disegna ciò che sa di una persona, di un oggetto, di una situazione, o piuttosto ciò che vede. Secondo la prospettiva intellettuale152 lo schema figurativo riproduce le conoscenze che il bambino ha del mondo fenomenico, ed è 152 Gli studiosi che rientrano in questo orientamento sono accomunati dalla premessa che «non un atto percettivo visivo sia alla base del disegno, ma una non ben identificata attività mentale, che creerebbe il modello interno per le composizioni grafiche infantili. In altre parole, i disegni dei bambini traducono una conoscenza non visiva ma intellettuale delle cose, pertanto sarebbero riproduzioni 201 ispirato da un modello interno (una rappresentazione schematica di oggetti, una sorta di “copia”) in cui l’aspetto percettivo subisce, a livello mentale, una rielaborazione di tipo astrattivo. Ad esempio, nella figura 58, p. 36, Giulia (6,5) rappresenta il gioco dei ragni153 che ha imparato il giorno precedente in palestra. In questo disegno Giulia rielabora il suo vissuto svincolandosi dalla realtà: la palestra è come una casa (e così viene rappresentata); fuori c’è il sole (che non è visto veramente), e il gioco viene condensato in due figure umane solari (i ragni) poste al centro della palestra. Secondo la prospettiva teorica che stiamo analizzando la procedura seguita da Giulia per la rappresentazione del gioco dei ragni sarebbe stata: evocazione cognitiva dell’esperienza, elaborazione di un’immagine percettiva che la condensi, copia dell’immagine nel disegno. Secondo la prospettiva intellettuale, nel processo di restituzione grafica il bambino cerca di rendere i suoi disegni rassomiglianti agli oggetti della realtà, attraverso un «modello interno» (una sorta di immagine mentale) che ne riproduce l’esemplarità (Luquet, 1927)154. non della realtà esterna o di modelli visivi ma riflessi di un modello interiore o di una pura rappresentazione mentale. Nell’ambito di tale visione, acquistano importanza gli studi volti a mettere in luce i processi cognitivi che informano le abilità grafiche e favoriscono l’evoluzione del disegno. La prospettiva intellettuale è altresì denominabile come prospettiva cognitiva o evolutiva, secondo che l’accento sia posto sulla relazione tra lo sviluppo del sistema cognitivo e i cambiamenti della rappresentazione grafica, oppure sulle fasi che caratterizzano lo sviluppo del disegno» (Quaglia, 2003, p. 9). Di seguito prenderemo in considerazione la prospettiva intellettuale di stampo evolutivo e successivamente la più recente impostazione cognitiva. 153 Nel gioco dei ragni vengono scelti due bambini (i ragni) che hanno lo scopo di catturare gli altri (le prede). La palestra viene divisa in due zone, e i ragni, al centro e per mano, possono muoversi solo lungo la linea orizzontale che attraversa le due zone. Gli altri bambini si muovono da una parte all’altra della palestra, e, se catturati, prendono per mano gli altri bambini e diventano a loro volta ragni. La catena dei ragni si allunga durante il gioco, rendendo sempre più difficile lo spostamento delle prede da una zona all’altra. Il gioco si conclude quando tutti i bambini sono stati catturati. 154 Vorremmo precisare che Luquet non sostiene affatto la posizione intellettuale e tuttavia è opportuno prenderlo in considerazione perché, avendo per primo parlato di “realismo intellettuale”, ritenuto a torto sinonimo dell’assunzione che il bambino 202 Tuttavia il concetto di rassomiglianza del bambino è diverso da quello dall’adulto155, e il disegno di Giulia ne è un esempio emblematico. In generale per il bambino è rassomigliante un disegno che contiene tutti gli elementi essenziali a identificare l’oggetto rappresentato156. Per l’adulto, un disegno, perché sia rassomigliante, deve essere una specie di fotografia dell’oggetto visto in prospettiva con dettagli visibili soltanto dalla parte da cui l’oggetto si osserva, riprodotti nella forma che assumono guardati da quel punto di vista. Nella concezione infantile invece un disegno, per essere rassomigliante, deve contenere tutti gli elementi reali dell’oggetto, anche se non visibili dalla parte da cui viene guardato e senza preoccupazione dei punti di vista, ciascun dettaglio disegna “non ciò che vede, ma ciò che sa” (formula peraltro di Piaget e non di Luquet, che invece si limita all’assunzione che il bambino disegna “ciò che sa”), è registrato nella letteratura sull’argomento come il più acceso sostenitore di tale teoria, e soprattutto perché la sua posizione nella ricezione viene intrecciata con quella di Piaget «il quale, avendo combinato “il realismo intellettuale” con la formula più volte riportata, se ha contribuito alla fortuna di Luquet – un Luquet ad usum delphini -, è stato probabilmente decisivo per la diffusione e la conservazione della formula stessa e soprattutto per l’interpretazione corrente del “realismo intellettuale”» (Pizzo Russo, 1988, 105). A titolo esemplificativo dell’irradiazione di questa valutazione della posizione di Luquet cfr. Gombrich, 1963, p. 14; Perussia, 1979, p. 41. Anche se Luquet non sminuisce il ruolo svolto dalla percezione nelle produzioni grafiche, il passaggio dalla percezione al disegno è comunque mediato da un modello interno «la rappresentazione dell’oggetto, prima di essere tradotta graficamente, si trasforma necessariamente in un’immagine visuale la quale non è affatto la riproduzione servile delle percezioni fornite al disegnatore dalla vista dell’oggetto o di una sua riproduzione, ma è una rifrazione attraverso la mente del bambino, una ricostruzione originale che risulta da una rielaborazione soggettiva assai complicata nonostante la sua spontaneità: è questo appunto il modello interno che si distingue nettamente dall’oggetto o dal modello propriamente detto» (Luquet, 1927, p. 73). Per una critica dell’appartenenza di Luquet alla prospettiva intellettuale e un’analisi puntuale delle reciproche posizioni di Piaget e Luquet, cfr. Pizzo Russo (1988). 155 Luquet, ricordando che il disegno può essere figurativo («copia della realtà») o non figurativo («geometrico»), precisa che il bambino, anche quando copia dei disegni geometrici, non li interpreta «come forme di bellezza» ma come «forme di vita». Sui significati non geometrici che le figure della geometria piana assumono per i bambini, istruttivi sono i protocolli riportati da J. Piaget e B. Inhelder (1948). Il triangolo ad esempio viene individuato dai bambini di 5-6 anni come “formaggio, casa, tetto”. 156 Per il bambino «il fine essenziale di un disegno è quello della rassomiglianza sia nell’insieme sia riguardo al numero e all’esattezza dei particolari» (Luquet, 1927, p. 115). 203 inoltre deve conservare la sua forma caratteristica seguendo il concetto di esemplarità e non quello di prospettiva. (Luquet, 1927, p. 147). Così, nella figura 59, p. 37, Glenis (6 anni) rappresenta la torta del compleanno di Liam utilizzando contemporaneamente una prospettiva dall’alto (che gli permette di visualizzare le due fette di torta tagliate da Liam, ma che nella realtà sono state tagliate dall’insegnante) e una prospettiva frontale (che gli consente di posizionare le cinque candeline sulla torta). Nello stesso tempo, Liam è rappresentato a figura intera, in prospettiva frontale dietro (o davanti?) ad un tavolo i cui piedi sono visti frontalmente, a differenza del piano che è rappresentato come se fosse visto dall’alto. Nel modello di sviluppo elaborato da Luquet157 il bambino, raggiunto lo stadio dello schema figurativo, esprime nelle sue grafiche una sorta di realismo intellettuale. (Luquet, 1927, pp. 147-173). Luquet distingue il realismo dell’adulto, di tipo visivo, da quello del bambino, di tipo, appunto, intellettuale, e puntualizza: «ciò che interessa il bambino non è l’aspetto che un soggetto può assumere secondo un punto di vista contingente e variabile, ma è il suo aspetto essenziale sub specie aeternitatis» (Ibidem, p. 115) il realismo 157 L’opera di Luquet (1927) è il punto obbligato di riferimento per tutti gli studi sul disegno infantile e l’evoluzione in stadi da lui delineata è ancora oggi usata e ritenuta valida, soprattutto nella versione rivisitata che ne ha dato successivamente Piaget. In sintesi, le fasi di sviluppo del disegno nella teoria di Luquet, sono principalmente quattro: il realismo fortuito, corrispondente allo stadio dello scarabocchio, una fase prevalentemente psicomotoria e di imitazione di genitori o di altre figure che il bambino osserva mentre disegnano o scrivono; il realismo mancato in cui il bambino disegna con maggiore intenzionalità ma con immatura accuratezza e attenzione rispetto al modello reale; il realismo intellettuale, durante il quale c’è maggiore accuratezza e appaiono alcune caratteristiche tipiche del disegno infantile quali la “trasparenza” e il “ribaltamento” (che verranno trattati in seguito); il realismo visivo in cui il bambino abbandona i fenomeni prima citati, aggiunge la prospettiva nei suoi elaborati e “disegna ciò che vede” (dagli otto anni in poi). L’interesse di Piaget per la teoria di Luquet fu dovuto alla sua congruenza con il modello di sviluppo cognitivo in quattro stadi tracciato da Piaget stesso: periodo sensomotorio, pre-operatorio, operatorio concreto, operatorio formale. In particolare la rappresentazione dello spazio, corrisponde per Piaget alla fase del ragionamento sullo spazio, in cui il bambino passa da intuizioni topologiche a strutture proiettive e metriche. La rappresentazione grafica rifletterebbe dunque un progressivo sviluppo delle strutture cognitive in senso razionale. 204 intellettuale, caratterizzato dall’esemplarità e non dalla prospettiva, è il «realismo più congeniale all’infanzia». Il bambino propone “rappresentazioni canoniche” degli oggetti del mondo, ovvero utilizza «forme che sono vicine ai modi in cui quegli oggetti sono codificati nell’occhio della mente» (Hochberg, cit. in, Quaglia, 2003, p. 73). Così può accadere ad esempio, che scelga di disegnare, per ogni parte di un oggetto o di un episodio, l’aspetto che maggiormente lo identifica. Al contrario, tutti gli elementi che non vengono considerati necessari ai fini della comprensione dell’oggetto, sono eliminati. A seconda del tipo di configurazione che intende dare alle varie parti del disegno, adotta per ognuna il piano che meglio la caratterizza. Nel disegno della giostra la struttura globale è disegnata vista dall’alto perché per il disegnatore l’essenza della giostra - l’idea giostra – è una piattaforma tonda che gira; le automobili sono invece viste di fianco perché questa è la configurazione tipica di un’automobile in movimento; gli omini infine stanno di fronte perché questa è la posizione che li rende più facilmente individuabili come spettatori: se essi fossero di profilo parrebbero in movimento, il che contrasterebbe l’intenzione dell’autore. (Oliviero Ferraris, 1973, p. 48). Nella figura 60, p. 37, Jonny (5,6) rappresenta il momento della narrazione delle fiabe durante la festa di carnevale a scuola. La scenografia è posta in alto, staccata dal resto della scena; sul palco, la volpe e il gatto che recitano, e sotto, alcuni bambini che guardano lo spettacolo girati dalla parte “sbagliata”. Per la prospettiva intellettuale persone, animali, e oggetti sono rappresentati solo secondo quei tratti essenziali che li rendono riconoscibili e non in base a “modelli visivi”, e ciò giustificherebbe fenomeni come il ribaltamento e la trasparenza; e tutte quelle «contraddizioni» tra disegno e realtà di cui il bambino «non ha ancora coscienza». 205 Il concetto di riconoscibilità ricercato e agito dal bambino va senz’altro nella direzione di una maggiore interpretabilità delle grafiche anche da parte degli adulti per i quali i disegni appaiono sempre più “chiari” e “conformi” a un modello di «realismo ottico» di produzione (da questo punto di vista, il disegno di Giulia 6,5 in figura 58, p. 36, sarebbe considerato da molti insegnanti “sbagliato”). In questa prospettiva teorica, il realismo intellettuale158 può indurre il bambino a riprodurre particolari che non esistono nella realtà e la soddisfazione del bambino deriverebbe proprio dall’aver reso identificabile a se stesso (e soprattutto ad altri aggiungeremmo noi), il proprio disegno. Così nella figura 61, p. 38, Martina (5,11) mette lo stesso vestito a lei e alla sorella più piccola (di sei mesi): in realtà la mamma non ha mai vestito le due bambine con vestiti uguali; mentre nella figura 62 Marta (5, 10) non esita a rappresentare contemporaneamente la scuola e il suo interno, dando origine al fenomeno della trasparenza. La riconoscibilità degli oggetti e l’importanza attribuita alla loro identificazione spiegherebbe dunque sia il fenomeno della trasparenza, sia la compresenza di più punti di vista all’interno dello spesso disegno (il ribaltamento) che rende possibile rappresentare le case «con le loro facciate, come se fossero distese sullo stesso piano della strada» (Widlöcher, 1965, p.38). 158 Il realismo intellettuale per Piaget corrisponde ad una vera e propria modalità di funzionamento psichico del soggetto. Il bambino «non vedrà gli oggetti quali sono, ma quali egli se li sarebbe rappresentati prima di vederli se, supposto l’impossibile, egli se li fosse descritti a se stesso. Per la stessa ragione i primi stadi del disegno infantile non sono caratterizzati dal realismo visuale, cioè da una copia fedele del modello dato, ma da un realismo intellettuale tale che il bambino non disegna delle cose altro che quello che egli ne sa e non guarda che un “modello interno”. Tale è anche l’osservazione infantile. Il bambino sovente non vede che quello che sa […]. Il realismo intellettuale è dunque la rappresentazione più naturale del mondo per il pensiero egocentrico. Da un lato esso testimonia un’incapacità all’osservazione obiettiva (il realismo visivo). Da un altro lato è tuttavia un realismo, perché il bambino non è né un intellettuale (il suo disinteresse per la sistematizzazione logica è completo) né un mistico». Pertanto «il realismo infantile è intellettuale e non visuale: il bambino non vede [che] quello che sa e vede il mondo esterno come se egli lo avesse costruito prima con la propria intelligenza» (Piaget, 1924, rispettivamente pp. 258 e 264). 206 A questo proposito si noti in figura 63, p. 39, come Salvatore (5,4) rappresenta il cerchio del pavimento della palestra e il contenitore dei palloni (entrambi in una prospettiva dall’alto in contrasto con la prospettiva frontale utilizzata nel resto della grafica). In questi casi il bambino non assumerebbe un punto di vista “esterno” alla scena rappresentata, piuttosto è come si collocasse all’interno della situazione, «restandone coinvolto» (Oliverio Ferraris, 1973). Il coinvolgimento dell’autore all’interno della rappresentazione può essere espresso anche in altri modi. Si veda ad esempio il disegno di Jonny (5,6) in figura 65, p. 40. Si tratta della rappresentazione grafica delle attività svolte in palestra, dove in parte, ritroviamo il gioco dei ragni rappresentato da Giulia (6,5) in figura 58, p. 36. Nel disegno di Jonny (che frequenta da tre anni la stessa sezione di scuola dell’infanzia di Reggio Emilia con Giulia e che ha partecipato alle stesse attività) vi è la compresenza di più attività: il percorso (una delle attività proposte ai bambini che consiste in una staffetta in cui sono previste diverse andature e l’uso di piccoli attrezzi e altri materiali della palestra) e il gioco dei ragni. La parola “percorso” sconvolge tutta la rappresentazione: il percorso diventa una specie di “pista” per delle macchine che devono andare ad una certa velocità (il 100 della figura); l’insegnante di trasforma in un vigile che dirige il traffico; mentre il ragno ha una sua macchina, diversa dalle altre. Vengono poi aggiunti altri veicoli e un lampadario animato (in palestra ci sono i neon). Trasparenza, ribaltamento, uso simultaneo di entrambi i procedimenti e collocazione dell’autore all’interno della rappresentazione sono modalità che discendono dalla «prospettiva infantile», diversa da quella dell’adulto che «rappresenta, in ultima analisi un’astrazione perché, nella rappresentazione […] toglie all’oggetto tutto ciò che non è visibile». (Luquet, 1927, pp. 147-173). 207 Luquet pone termine al disegno infantile attorno agli otto-nove anni159, quando il bambino abbandona progressivamente il realismo intellettuale a favore del realismo visivo e adotta gli stessi criteri rappresentativi degli adulti con riferimento alla sola apparenza visiva160. In questo passaggio, si verificherebbero alcuni cambiamenti 159 «Mediante le dichiarazioni verbali degli stessi bambini è possibile stabilire che essi optano, non inconsciamente ma per deliberato proposito, per il realismo visivo […]. Considerando come criterio base dell’applicazione del realismo infantile la raffigurazione di un solo occhio in una fisionomia di profilo, abbiamo constatato che la sostituzione del realismo visivo al realismo intellettuale si realizza quasi sempre verso gli otto o nove anni; ma possono senz’altro riscontrarsi differenze individuali fra i vari bambini e l’intenzione del realismo visivo può manifestarsi anche ad un’età assai inferiore». Luquet esemplifica poi con bambini di 4 anni. «Ma la sostituzione del realismo visivo al realismo intellettuale non avviene tutta in una volta, così come ogni altro progresso grafico […]. Il realismo visivo deve lottare contro abitudini contrarie ad esso profondamente abbarbicate e, dopo la sua apparizione, impiega un certo tempo prima di divenire permanente; non soltanto il realismo intellettuale tende a riapparire in disegni posteriori ad altri in cui è già assente, ma uno stesso disegno può contenere contemporaneamente i due tipi di realismo» (Luquet, 1927, pp. 174180). 160 Piaget adottò il sistema di classificazione elaborato da Luquet, e postulò una stretta corrispondenza tra i disegni dei bambini e il ragionamento matematicospaziale. Ne La rappresentazione dello spazio nel bambino (Piaget - Inhelder, 1948) in particolare delineò una progressione evolutiva del grafismo che inizia con il disegno di forme chiuse (alla fine del periodo senso-motorio) e che si conclude con il raggiungimento del realismo visivo (alla fine del pensiero operatorio concreto). La rappresentazione grafica è collocata all’interno delle manifestazioni che riguardano la funzione semiotica o simbolica, che coincide con la capacità rappresentativa, ossia la capacità di richiamare alla mente oggetti non percettivamente presenti (“significati”) grazie a indici, simboli o segni che ne evocano le caratteristiche (“significanti”). La capacità rappresentativa si esprime attraverso svariate condotte: l’imitazione, il gioco simbolico, la produzione di immagini mentali, il linguaggio e il disegno. Piaget riconosce al disegno lo statuto di simbolo (un significato cui corrisponde un significante da esso differenziato) a metà strada tra il gioco simbolico (con cui condivide il piacere funzionale e l’autoreferenzialità) e l’immagine mentale (che esprime lo stesso sforzo di imitazione della realtà). Secondo Piaget nel disegno predomina l’accomodamento sull’assimilazione: il disegno è “copia” dell’immagine mentale, ovvero dell’interiorizzazione di oggetti e della corrispondente esperienza percettiva che il bambino ne ha (una sorta di imitazione interiorizzata). Le “carenze” rinvenibili nei primi schemi figurativi (omissioni, trasparenza, ribaltamento, non corrispondenza di forma e dimensioni tra gli oggetti raffigurati…) sono associate da Piaget allo sviluppo cognitivo e trovano una spiegazione nell’immaturità concettuale; mentre, i successivi mutamenti nelle grafiche (in particolare nel periodo che va dai 7 agli 11 anni), denoterebbero l’avvenuta intuizione dei concetti euclidei della misurazione e della geometria proiettiva. Superato l’egocentrismo il bambino introdurrebbe nelle sue grafiche la prospettiva, segno dell’avvenuta interiorizzazione della possibilità dell’esistenza di altri punti di vista e della relativa capacità di tenerne conto. Mentre nel modello dello sviluppo cognitivo dello psicologo ginevrino, la meta finale dello 208 a livello cognitivo: primo fra tutti il progredire della sua capacità di attenzione, che lo costringerebbe a misurarsi con la realtà e a rendersi conto della «contraddittorietà» delle sue raffigurazioni, che costituiscono delle «assurdità empiriche». Diviene meno «maldestro» nell’esecuzione dei disegni, e meno «negligente» nell’osservazione della realtà. Un simile progresso mette in grado il bambino di valutare criticamente i suoi prodotti grafici: avverte le sue ingenuità e «condanna il realismo intellettuale» per la sua insufficienza a rappresentare «adeguatamente» la realtà (Luquet, 1927). Al realismo intellettuale si sostituisce il realismo visivo. Il realismo intellettuale è caratterizzato da una serie di espedienti mediante i quali il bambino è riuscito a rendere socialmente interpretabili i suoi disegni [ora] non basta rappresentare tutti gli elementi costitutivi di un oggetto, è necessario anche che gli elementi appaiano in relazione tra loro, e ciò induce il disegnatore ad eleggere un unico punto di vista. (Quaglia, 2003, p. 74). Nella fase del realismo visivo il bambino continua a disegnare secondo il proprio «modello mentale», ricercando esemplarità e rassomiglianza ma ora i disegni sono ora maggiormente informati dalle regole convenzionali della prospettiva. Non si tratta né di un’informazione “scientifica”, né di una copia dal vero frutto sviluppo cognitivo corrisponde al ragionamento logico-matematico, meta finale dello sviluppo grafico è il realismo visivo delle rappresentazioni. Il pensiero di Piaget ha influenzato per molto tempo gli studi sulle grafiche dei bambini, e il criterio del realismo visivo sottende la costruzione di numerosi test di misurazione dell’intelligenza in cui è richiesto ai bambini di disegnare. Va peraltro specificato che il significato che Piaget attribuisce al realismo intellettuale è diverso da quello originario di Luquet. Mentre per Luquet il realismo è la caratteristica saliente del disegno in quanto disegno, e intellettuale e visivo sono modi diversi di intendere la rassomiglianza tra disegno e oggetto, per Piaget il realismo diventa una caratteristica della mentalità infantile. Sulla base di analisi approfondite e di ulteriori ricerche sperimentali, molti autori hanno ridimensionato la concezione di Piaget (Freeman, 1980; Selfe, 1983; Leslie, 1987¸ Golomb, 2002). Nello specifico Golomb osserva: «La mia critica a Piaget riguarda il suo modello evolutivo grafico, inteso come una progressione unidirezionale verso il realismo ottico, una teoria che ignora la varietà dei modelli culturali e l’efficacia dei modelli rappresentazionali alternativi che dipendono dalle intenzioni dell’artista» (Golomb, 2003, p. 19). 209 dell’osservazione, ma di una vera e propria conquista cognitiva nella direzione della «figurazione realistica», ultima e universale tappa, secondo questo modello, dello sviluppo del disegno161. Tradizionalmente la teoria intellettuale di stampo evolutivo fonda la propria analisi dello sviluppo sul prodotto simbolico, indagando le motivazioni cognitive che stanno alla base delle “imperfezioni” presenti nelle manifestazioni grafiche dei bambini e di come queste cambino nel corso dello sviluppo con il procedere dell’età. Autori più recenti, nell’ambito dello stesso approccio, privilegiano invece l’aspetto processuale dell’attività, mettendo in primo piano gli aspetti relativi ai coefficienti esecutivi e ai problemi tecnici che il bambino deve di volta in volta risolvere quando disegna162. Sulla spinta delle nuove ricerche aperte dalla psicologia cognitiva, viene valutata la produzione dei disegni come compito di problemsolving, e l’attenzione degli studiosi si focalizza sui processi esecutivi che mediano il passaggio dal progetto al prodotto. Il disegno è visto come attività simbolica agita attraverso determinati strumenti e soggetta a determinati vincoli: «nessun disegno è una traduzione automatica di qualche mondo percettivo» perché ciò che si conosce deve essere trasformato nell’azione di disegnare (Olson, 1979). 161 Piaget e Inhelder sostengono in La psicologia del bambino, che «realismo intellettivo del disegno infantile ignori la prospettiva e le relazioni metriche, ma tiene conto dei nessi topologici: vicinanze, separazioni, inclusioni, chiusure, ecc. da queste intuizioni topologiche procedono, a partire dai 7-8 anni, intuizioni proiettive nello stesso tempo in cui si elabora una matrice euclidea, vale a dire che appaiono i due caratteri essenziali del “realismo visivo” del disegno» (Piaget - Inhelder, 1966, p. 63). 162 «E’ nell’ambito dell’approccio HIP (Human Information Processing o teoria dell’elaborazione delle informazioni), dagli anni ’70 in poi, che ci si inizia a porre il problema della specificità dell’attività del disegnare rispetto alle competenze cognitive più generali, distinguendo in modo netto il conoscere qualcosa dal saperlo rappresentare. In relazione a tale mutamento di prospettiva teorica, la ricerca si indirizza ad indagare meglio le caratteristiche dell’attività rappresentativa e i processi di acquisizione delle regole che la guidano» (Donsì - Parrello, 2005, pp. 20-21). 210 Si cerca di risalire alla “natura dell’azione grafica” e alle difficoltà implicite nella progettazione-pianificazione-esecuzione di un disegno: riduzione della tridimensionalità del reale alla bidimensionalità del foglio, riconoscibilità di ciò che si raffigura, posizionamento “corretto” degli elementi che compongono il disegno e reciproca collocazione di più oggetti tra loro. Ci si preoccupa dei problemi procedurali e degli espedienti utilizzati dai bambini per tradurre “una conoscenza” in disegno e si focalizza maggiormente l’attenzione sul processo “materiale” dell’azione grafica e sul contesto in cui avviene. Così ad esempio secondo Jacqueline Goodnow i disegni dei bambini, più di ogni altro tipo di produzione grafica, sono fatti di unità combinate in una grande quantità di modi. Le unità possono variare nel genere: possono essere per esempio linee rette, scarabocchi, cerchi, quadrati, triangoli o croci; possono anche variare nel numero: uno o più ovali, due o più aste. Possono variare nel modo in cui sono unite: ammucchiate l’una all’altra o collegate da una linea di contorno comune. (Goodnow, 1977, p. 33). L’autrice si è occupata in particolare dell’analisi degli schemi figurativi, di come le diverse unità che compongono gli schemi sono collocate nello spazio grafico-pittorico e di come sono organizzate in sequenze d’azione. Molti aspetti dei disegni sono attribuiti al modo escogitato dai bambini per risolvere i problemi incontrati nel corso del compimento di determinati tipi di schemi o nella sequenza di esecuzione scelta per produrre lo schema stesso. Così, ad esempio, l’omissione delle braccia nella riproduzione di una figura umana, potrebbe essere dovuta al tipo di linea utilizzata nello schema figurativo o dallo spazio rimasto disponibile sul foglio, piuttosto che a un fallimento d’analisi percettiva o di comprensione concettuale delle relazioni spaziali: 211 spesso sono le parti precedenti di un disegno a porre il problema di come aggiungere una parte successiva facendo in modo che le linee non si incrocino né violino lo spazio appartenente ad un’altra unità. (Ibidem, p. 63). Nella rappresentazione grafica effettivamente solo il primo tratto è completamente “arbitrario” e il processo produttivo risente necessariamente delle restrizioni imposte dai segni già tracciati163. Ad esempio, nella figura 65, p. 40, Annalisa (5,11) durante l’esecuzione, ha iniziato a disegnare la mamma dalla testa, nella parte alta del foglio, formato A4 posto verticalmente davanti a lei. Durante la produzione, dopo aver disegnato testa, busto e iniziato a tracciare il segno della prima gamba, si è ferma e, prima completare la gamba, mi ha guardato e chiesto “posso andare fino in fondo?” L’ho lasciata libera di decidere. Si è rimessa sul disegno e ha proseguito. A disegno ultimato ha commentato (stupita e divertita) “che gambe lunghe ci sono venute alla mia mamma!” Dunque non vi è rispondenza possibile né con l’intenzione iniziale né con eventuali schemi interni, ma il disegno è determinato dalla somma 163 «Non si tiene mai nella giusta considerazione il fatto che ogni disegno ha inizio sempre in un punto, a partire dal quale la mano avvia il movimento con cui traccia la prima linea, seguita da una linea successiva che può avere origine da un altro punto nello spazio del foglio, e che l’occhio avrà guardato in un secondo momento, senza però averlo considerato in rapporto al primo; e così di seguito fino all’ultima linea con cui si conclude il disegno. La visione di un oggetto, così come il disegno della sua forma, non si ha mai nella sua completezza in modo istantaneo; noi non vediamo mai una cosa nella sua globalità in un sol colpo d’occhio; la cognizione visiva che ne abbiamo, sia pure in un lasso di tempo molto breve, è così breve da sembrarci perfino immediata, in realtà è sempre il risultato di un’esplorazione che l’occhio compie, toccando i punti salienti della sua morfologia […]. Non foss’altro che per una condizione puramente meccanica, il disegno prevede tempi di realizzazione molto più lunghi di quelli che occorrono alla visione; l’occhio è molto più veloce a percorrere un bordo, il contorno di una forma rispetto a quanto occorre alla mano per tracciare la linea del medesimo contorno sul foglio. La mano esegue in tempi diversi le operazioni una di seguito all’altra in successione temporale, raccordando il tratto di linea appena tracciato con un altro in continuità con questo, ma con un’altra direzione. L’occhio invece non esegue necessariamente le operazioni nello stesso ordine e con la stessa cronologia» (Di Napoli, 2004, pp. 289-290). 212 degli effetti di una pluralità di indici – che vanno dai margini del foglio, alla posizione dei tratti già eseguiti, alla necessità di rispettare le proporzioni, a tutti i problemi grafici e rappresentativi che via via si pongono. (Donsì – Parrello, 2005, p. 22). Si osservi a proposito lo strano andamento della strada ferrata disegnata da Salvatore (5,5) in figura 66, p. 41. Norman Freeman e collaboratori164 hanno inoltre dimostrato che la rappresentazione grafica può essere condizionata dal tipo di compito e dalle consegne dello sperimentatore; mentre altri autori (Crook, 1985; Callaghan, 1999; Cox, 1985; Davis, 1985, Tallandini - Valentini 1991, Thomas - Silk, 1990) si sono occupati di come la rappresentazione canonica possa essere abbandonata in favore di una rappresentazione “centrata sull’osservatore” quando la situazione lo richiede165. 164 Freeman – Cox, 1985. Già a partire dalla fine degli anni Settanta, Freeman articola un’innovativa analisi dei processi produttivi del disegno, il cui “farsi” è visto come progressiva risposta alle limitazioni imposte dai segni precedentemente tracciati. Al centro dell’attenzione dello studioso, la cui metodologia si caratterizza per un’accurata logica sperimentale, i problemi della traduzione della tridimensionalità in rappresentazioni bidimensionali, la rappresentazione della profondità e della figura umana, il modo di affrontare questi vincoli e la modifica delle strategie da parte del bambino nel corso dello sviluppo. La maggior parte dei materiali d’analisi sono stati raccolti in laboratorio e la metodologia prevede consegne ai bambini, per lo più presi individualmente, che riguardano il disegno di oggetti singoli (ad esempio cubi) o oggetti in una specifica relazione (davanti/dietro, sopra/sotto) (Freeman, 1977; 1980). Più recentemente lo stesso Freeman ha riconosciuto che i ricercatori hanno sottostimato le abilità pittoriche dei bambini, studiandole in condizioni impoverenti; cfr. Freeman, 1987. 165 «In effetti una raffigurazione “centrata sull’osservatore”, cioè più informata sull’aspetto di un oggetto visto da una prospettiva specifica, può essere sollecitata da situazioni particolari. Esistono infatti condizioni che consentono di modulare l’influenza intellettualistica: si possono progettare situazioni sperimentali che inducano un bambino di 5 anni ad accedere ad una rappresentazione basata sul punto di vista. Vari ricercatori hanno provato questa asserzione, ma forse lo studio più esemplificativo è quello di Davis (1985), che mostra che la tendenza dei bambini a disegnare comunque il manico di una tazza, anche se invisibile nella prospettiva proposta, per denotare più chiaramente l’oggetto, può essere contrastata creando una contrapposizione con un’altra tazza dal manico visibile: secondo l’autrice, questo contrasto simultaneo nella configurazione visibile tende a indurre la possibilità di omettere il manico nella rappresentazione di una delle tazze, allo scopo di far notare la differenza tra i due oggetti. Pinto e Bombi (1996) hanno più di recente dimostrato l’abbandono spontaneo da parte dei bambini di 5 anni delle forme canoniche di rappresentazione frontale della figura umana, a 213 È chiaro che se, come sostenuto da Piaget e dalla prospettiva intellettuale di stampo evolutivo, il disegno fosse solo la restituzione di un “modello mentale” astratto e universale che evolve con l’età, varianti dovute a contesti e consegne, non potrebbero essere accolte. In questo senso, di particolare utilità si sono rivelati gli studi di coloro che hanno indagano l’attività grafica dei bambini in relazione agli strumenti utilizzati nei processi di raffigurazione. Sul piano generale si è oramai d’accordo nel riconoscere che lo scontro con la varietà dei materiali sollecita l’individuo ad affrontare problemi diversi e a escogitare di volta in volta soluzioni su misura. Un materiale che si trasforma in un medium, per rispondere ad un’intenzione espressiva, conduce il ragazzo a trovare ordine e forma, a rimediare, ristrutturare e individuare nuovi rapporti. (Piantoni, 1992, pp. 9-10). L’efficacia rappresentativa sarebbe dunque raggiunta in misura diversa a seconda del medium utilizzato e in stretto rapporto con la varietà delle caratteristiche che ogni compito comporta166. Golomb ha analizzato in modo approfondito le tendenze rappresentazionali del bambino nel disegno e in attività basate su mezzi espressivi tridimensionali. Nel disegno e nella pittura, la carta, la tela, la corteccia, la seta o altri tessuti costituiscono una superficie bidimensionale su cui inchiostro, pittura, carboncino, gesso e pastelli devono essere applicati con pennelli, penne, matite e simili. Il mezzo bidimensionale permette all’artista, da un lato una gamma di azioni e di forme potenziali di rappresentazione, dall’altro lato gli impone dei vincoli. A differenza dei mezzi bidimensionali, l’argilla, il gesso, il legno e la pietra sono materiali favore di quella di profilo, per rendere meglio una dinamica di conflitto tra due figure» (Donsì - Parrello, 2005, p. 23). 166 Sull’importanza dei fattori di pianificazione e del loro intrecciarsi con il medium utilizzato cfr. Pinto, Bombi, Freeman, 1997. 214 tridimensionali che invitano l’artista a lavorare su tutte le sfaccettature della scultura […]. Anche se c’è una notevole distanza tra le concezioni e le abilità dell’artista adulto e quelle dei bambini, alcune delle proprietà fondamentali dei mezzi bidimensionali e tridimensionali influenzano anche il lavoro dei bambini e i linguaggi artistici che sviluppano. (Golomb, 2002, p. 81). L’analisi condotta dall’autrice evidenzia sia somiglianze che differenze nei modelli rappresentazionali realizzati dai bambini con tecniche espressive diverse. Ad esempio, mentre nella rappresentazione grafica della figura umana prevale, di norma, la visione frontale (la visione canonica, quale maggiormente caratterizzante il soggetto rappresentato), nell’attività plastica i bambini tendono a prestare una certa attenzione ai diversi lati dell’oggetto differenziando le parti che caratterizzano i diversi punti di vista, manifestando quindi una conoscenza che non emerge immediatamente nelle grafiche. [Il confronto] mette in luce diversi modelli che i bambini inventano e i progressivi cambiamenti del loro pensiero rappresentazionale e della loro competenza. La diversità rappresentazionale nella scelta dei modelli e l’ordinamento interno delle loro parti si oppongono all’idea di una singola immagine o schema mentale soggiacente, anzi, confermano la grande flessibilità con cui il bambino realizza figure bi o tridimensionali. I disegni bidimensionali, i modelli misti, l’omissione di particolari e di parti del corpo, la preferenza per il punto di vista frontale e molti altri cosiddetti errori nei disegni dei bambini non indicano necessariamente immaturità concettuale, confusione o realismo intellettuale. L’omissione del busto nel disegno, ma la sua inclusione nella scultura, non può indicare confusione concettuale o limiti di memoria in un caso e competenza nell’altro. […]. La risposta deve essere individuata nell’evoluzione del pensiero artistico, che implica sensibilità alle possibilità e alle richieste di ciascun mezzo espressivo e la spontanea 215 consapevolezza che una rappresentazione non è un’imitazione letterale dell’oggetto. (Ibidem, pp. 86-87). La prospettiva intellettuale di stampo cognitivo non prende in considerazione né la dimensione emotiva del bambino che disegna (di cui si è occupata tradizionalmente la prospettiva clinica167 e, più recentemente la prospettiva estetico-dinamica168), né le idee espresse, ovvero gli aspetti relativi al contenuto informativo dei disegni. Tuttavia, la realizzazione del disegno come mediazione tra istanze rappresentative e vincoli procedurali pone al centro dell’attenzione dei ricercatori il problema di che cosa costituisca per il bambino una “rappresentazione efficace” e di come strategie e regole di 167 «L’orientamento clinico, definito anche simbolico, ha analizzato i disegni, considerando la sua organizzazione e i suoi contenuti come proiezione di tratti, tendenze e caratteristiche della personalità del disegnatore. In questa prospettiva, il disegno da oggetto di studio diviene, quindi, uno strumento per esplorare la dimensione affettiva. Al come il disegno si costruisce ed evolve, si sostituisce il perché dei suoi elementi e della sua formazione. Al bambino che disegna per rappresentare il mondo degli oggetti, succede il bambino che lascia indizi e tracce di un mondo fantasmatico» (Quaglia, 2003, p. 115). La prospettiva clinica si concentra sul valore “espressivo” del disegno come indice di atteggiamenti, stati emotivi e umori. Essa analizza i legami tra i prodotti grafici e i tratti temperamentali (Alschuler - Hattwich, 1947; Corman 1966), il valore catartico del disegno che, al pari del sogno, viene letto come tentativo di “eliminare” le parti intolleranti dell’esperienza (Stora, 1963), il disegno come strumento di analisi della personalità (Schilder, 1935; Bender, 1938; Abraham, 1976; Di Leo, 1973; Balconi Del Carlo Giannini, 1987). Nel setting analitico, lo psicoterapeuta può chiedere al bambino di disegnare ciò che vuole, come vuole: in questo caso si tratta di disegno libero, anche se non spontaneo. Oppure la consegna e il tema sono più specifici, e in questo caso si tratta di un test proiettivo: ad esempio il disegno di una figura umana (test di Machover), o di una casa, di un albero e di una persona (test di Buck), oppure il disegno della propria famiglia (richiesto con modalità diverse) o altri test proiettivi. In tutti questi casi lo scopo del terapeuta è quello di aiutare il bambino (o l’adolescente) ad esprimere le proprie emozioni (ansie, paure, desideri inconsci) e risolvere problematiche e conflitti di ordine psichico, emotivo o socio affettivo. 168 Questo approccio si pone a metà strada tra l’approccio clinico ed estetico e analizza le qualità dinamiche delle rappresentazioni grafiche. «La dinamizzazione degli oggetti da parte del bambino, vale a dire la sperimentazione della realtà mediante un atteggiamento affettivo, non conduce soltanto ad un particolare tipo di percezione “fisionomica” o “animata”, ma ad attribuire ai simboli un diverso significato o un diverso valore cognitivo: i simboli diventano così segni di esperienza e non segni di una realtà fisica e geometrica. Il bambino percepisce soprattutto espressioni e non forme, immagini e non strutture obiettive» (Quaglia, 2003, p. XV). 216 combinazione cambino con l’età e l’esperienza per adeguarsi progressivamente alle convenzioni rappresentative proprie di una determinata cultura e per rispondere in modo più efficace ad esigenze comunicative. In questo senso la prospettiva intellettuale di stampo cognitivo si incontra con le ricerche che hanno per oggetto le competenze comunicative del bambino e che vedono nel disegno, come nel linguaggio, un adattamento del messaggio al contesto che ha una forte responsabilità nell’indirizzare il bambino a selezionare cosa rappresentare e come rappresentarlo. L’ipotesi di stadialità che lega il disegno alle rappresentazioni mentali interne e alla loro evoluzione, a lungo dominante nella cultura psicologica, viene messa in discussione169. Secondo le più recenti interpretazioni, tra le varie soluzioni alla sua portata, il bambino tenderebbe a scegliere facendosi guidare dal compito, dalle specificità di ciò che deve essere rappresentato, dalle tecniche personalmente padroneggiate, dal medium utilizzato, ma anche da norme iconografiche di origine culturale170. 169 «In effetti la teoria di Piaget considera la produzione grafica infantile come strettamente rispondente a modelli logico-matematici, o spaziali-matematici: l’evoluzione del disegno come qualsiasi altra manifestazione intellettuale segue le tappe di uno sviluppo cognitivo previsto, all’interno di una rigida evoluzione stadiale. Tale evoluzione non presta alcuna attenzione alla personalità del bambino, alle potenzialità e ai ritmi di crescita individuali, all’ambiente sociale e culturale, all’educazione familiare, all’espressione delle emozioni […]. Inoltre, a proposito della rappresentazione spaziale, della metrica euclidea e della geometria proiettiva, concetti su cui Piaget insiste molto, già altri ricercatori si sono detti stupiti che possa essere considerato come un processo cognitivo naturale, raggiunto da tutti o quasi alla fine dell’infanzia o nella prima adolescenza, il fatto di acquisire la conoscenza di tecniche e leggi come quelle che governano la prospettiva, che sono invece nozioni che, con una certa fatica, si apprendono a scuola, ad esempio attraverso il disegno delle proiezioni ortogonali dei solidi, o con lo studio della prospettiva e del punto di fuga» (Giani Gallino, 2008, pp. 117-119). 170 «Vivere in un ambiente ricco di immagini può aiutare i bambini a produrre schemi grafici più variati, sia per la motivazione che si alimenta del valore intrinseco assegnato al mondo figurativo, sia per la possibilità di usare modelli semplificati che facilitano il passaggio dalla tridimensionalità degli oggetti alla bidimensionalità del mezzo grafico con soluzioni più facili di quelle visivamente realistiche […]. Le differenze transculturali da noi rilevate non si spiegano certo in termini di idee diverse su che cosa sia una persona, ma neppure in termini di diverse disposizioni all’esercizio del grafismo: la capacità grafica raggiunge, prima o poi, livelli qualitativi simili nei vari ambienti culturali. È il modo in cui si concretizza 217 Questa prospettiva teorica colloca la performance in un contesto comunicativo e in relazione a determinate consegne: il disegno, considerato un vero e proprio codice simbolico con scopi comunicativi, complementare al linguaggio verbale, è organizzato in modo da veicolare le informazioni che il bambino vuole inviare, informazioni su una realtà che è fisica e sociale insieme, come congiuntamente relazionale e cognitiva è la matrice dell’attività grafica. (Donsì – Parrello, 2005, p. 12). 2.2.2 La prospettiva artistica ed estetica A conclusioni simili, ma a partire da presupposti completamente diversi, giungono anche i teorici della prospettiva artistica ed estetica che hanno una visione del bambino che crea, attraverso il linguaggio grafico, forme per descrivere la realtà e che sottolineano l’importanza di questa specifica attività per promuovere e accompagnare lo sviluppo mentale. Secondo quest’approccio, che accomuna autori diversi, quali Arnheim, Lowenfeld e Brittain, Kellogg, Golomb, Herbert Read e Howard Gardner (per citarne alcuni), i primi disegni figurativi dei bambini non sarebbero basati sull’osservazione diretta della realtà, né su una conoscenza astratta degli oggetti rappresentati; essi sono piuttosto composizioni “estetiche”171 che si sono sviluppate a partire dagli scarabocchi. la raffigurazione a variare in funzione delle convenzioni iconografiche della cultura di appartenenza, rendendo il compito più o meno facile per il bambino» (Pinto Bombi, 1999, p. 137). 171 «L’elemento estetico è presente in tutte le rappresentazioni figurative che gli esseri umani tentano. Nei diagrammi scientifici esso determina qualità necessarie come l’ordine, la chiarezza, la corrispondenza tra significato e forma, l’espressione dinamica delle forze, e così via. Il valore della rappresentazione figurativa non è più contestato da alcuno. Ciò che è necessario riconoscere è che le forme percettive e pittoriche non costituiscono soltanto trascrizioni dei prodotti del pensiero, ma il midollo stesso del pensiero in sé; e che una continuità ininterrotta di interpretazioni visuali conduce dagli umili gesti della comunicazione quotidiana alle testimonianze supreme della grande arte» (Arnheim, 1969, p. 161). 218 Quando un adulto definisce una figura umana “uomo” o “mamma” o “signora” o “babbo” o con un altro termine che indica una persona reale, accetta dei pregiudizi molto vecchi sull’arte infantile. Da almeno un centinaio d’anni e forse più queste definizioni ed altre simili sono state applicate ai disegni dei bambini […]. Un adulto che usi tali etichette piuttosto che termini sostitutivi quali “formula”, “schema”, o “simbolo”, si esprime con termini che hanno una lunga tradizione. (Kellogg, 1969, p. 123). Nell’ambito della prospettiva estetica, una figura di rilievo è senz’altro Rudolph Arnheim, che nel suo libro Arte e percezione visiva, ha affrontato il problema del disegno infantile nei suoi aspetti cognitivi, affettivi ed emotivi. La posizione di Arnheim non è tuttavia assimilabile a quelle posizioni che hanno teorizzato l’arte infantile a partire dalle varie definizioni storiche di “arte”, elaborate dai filosofi, dai critici dagli artisti per ciò che chiamiamo “opere d’arte”. Arte per Arnheim è “ciò che rende visibile la natura delle cose”. (Pizzo Russo, 1988, p. 114). In questo senso, concordando con quegli autori che non considerano il disegno dei bambini come “arte infantile” pur tuttavia riteniamo che i disegni dei bambini possano essere considerati arte, perlomeno nel ristrettissimo significato individuato da Arnheim. La posizione di Arnheim rispetto alla teoria intellettuale (da lui definita intellettualistica) è chiara: la più antica – e a tutt’oggi più diffusa – spiegazione del disegno ammette che, dato che i bambini non disegnano come si suppone che vedano, deve essere qualche altra attività mentale, e non la percezione, a determinare tale modificazione […]. La teoria intellettualistica asserisce che il disegno infantile, come altre forme d’arte allo stadio iniziale, deriva da una fonte non visiva, ossia da concetti “astratti”, dove 219 il termine “astratto” si intende come qualificazione della conoscenza non percettiva. La vita intellettuale del bambino dipende strettamente dalle esperienze sensoriali. Per le menti giovani le cose sono quello che risultano alla vista, all’udito, all’odorato, al senso del movimento. Nel bambino i concetti non percettivi, se esistono, devono essere pochissimi, e il loro influsso sulla rappresentazione grafica non può che essere trascurabile. (Arnheim, 1954, p. 144). Partendo dai principi della psicologia della Gestalt, Arnheim sostiene che alla base delle operazioni cognitive172 vi è la percezione e che la vista è il sistema sensoriale per eccellenza. Essa riveste un ruolo primario nei processi del pensiero produttivo173, nel senso che al concetto percettivo e rappresentativo spetterebbe il primato nella concettualizzazione e costruzione della conoscenza. Io affermo che le operazioni conoscitive chiamate pensiero non sono privilegio di processi mentali posti al di sopra e al di là della percezione, bensì gli ingredienti essenziali della percezione stessa. Mi riferisco ad operazioni quali l’esplorazione attiva, la selezione, la capacità di cogliere l’essenziale, la semplificazione, l’astrazione, l’analisi e la sintesi, il 172 «Per “cognitive” intendo tutte le operazioni mentali coinvolte nel processo del ricevere, immagazzinare ed elaborare l’informazione: la percezione sensoriale, la memoria, il pensiero, l’apprendimento. Questo modo di impiegare il termine è in conflitto con un altro, cui moltissimi psicologi sono avvezzi, e che esclude dalla cognizione l’attività dei sensi: ciò riflette la distinzione che appunto io cerco di eliminare. Pertanto dovrò estendere il significato dei termini “cognitivo” e “cognizione”, per includervi la percezione» (Arnheim, 1969, p. 18). 173 «Ci si chiede in quale altro campo di attività mentale può risiedere il concetto, se lo si bandisce dal campo dell’immagine? Forse il bambino si rifà a concetti puramente verbali? Concetti del genere non mancano: per esempio la “quintuplicità” che si trova nella frase “la mano ha cinque dita”. Di fatto nel bambino questa conoscenza è verbale, e quando disegna una mano egli conta le dita per essere sicuro dell’esattezza del numero. Questo, cioè, avviene dopo che al bambino è stato insegnato il numero esatto delle dita: ma il suo procedimento abituale è esattamente il contrario. Il bambino si rifà, sì, a dei concetti, ma a concetti visivi: il concetto visivo di una mano consiste in una base rotonda, ossia il palmo, da cui le dita sporgono a raggiera come nel sole, e anche il loro numero è determinato da considerazioni puramente visive» (Arnheim, 1954, p. 144). 220 completamento, la correzione, il confronto, la risoluzione di problemi, nonché la combinazione, la distinzione, l’inserimento entro un contesto. Tali operazioni non sono prerogativa di nessuna singola funzione mentale; sono il modo in cui la mente, tanto dell’uomo che dell’animale, tratta, ad ogni livello, il materiale conoscitivo. (Arnheim, 1969, p. 18). Gli schemi che il bambino propone nei suoi disegni per rappresentare un oggetto, non sono “forme” ricavate da quest’ultimo, ma autentiche “invenzioni”: si tratta di “equivalenti strutturali” che concordano con l’impressione complessiva che il bambino ha di quell’oggetto. Il bambino utilizza concetti rappresentativi per creare degli schemi grafici equivalenti ai concetti visivi: si può enunciare più precisamente lo stesso fatto dicendo che ogni tipo di figurazione richiede l’uso di concetti rappresentativi, i quali forniscono l’equivalente, tramite un determinato medium, dei concetti visivi che si vogliono rappresentare, e trovano una manifestazione esterna nel prodotto della matita, del pennello, del cesello. (Arnheim, 1954, p. 149). Se letta in questo senso anche la rappresentazione grafica di Dorian (4,1) in figura 67, p. 42, non ci stupisce più di tanto, è il “concetto rappresentativo” che il bambino ha “inventato”, attraverso gli strumenti a sua disposizione, per esprimere il suo concetto visivo di “papà”. All’interpretazione intellettuale, che considera lo sviluppo del grafismo come una progressione lineare, unidirezionale, che passa dal realismo intellettuale al realismo visivo e che si conclude nell’adozione di contrappone uno criteri rappresentativi sviluppo del disegno “realistici”, nel Arnheim senso della differenziazione174: «la misura delle differenziazioni dipenderà da 174 «Nella forma più elementare questo principio afferma che l’evoluzione organica procede sempre dal semplice al più complesso. […]. Secondo Spencer, la 221 quanto è interessata la persona particolare, o il gruppo culturale, all’affinamento dell’astrazione iniziale» (Arnheim, 1969, p. 198). Lo sviluppo grafico nel bambino sarebbe dunque il risultato di successive modificazioni formali, nella direzione della maggiore articolazione e complessità, sotto la spinta di influenze culturali, a partire da forme semplici e globali. Tale organizzazione inizia con tracce curvilinee in corrispondenza della costruzione del corpo umano, basata sul principio della leva (Arnehim, 1954). Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, né le tracce curvilinee né le forme circolari hanno in principio il significato di rappresentare elementi naturalistici curvilinei o circolari, le une e le altre sono indifferenziate: indicano piuttosto l’avvio di un processo di controllo e di organizzazione [figura 68, p. 43]. L'indipendenza di questo risultato grafico dalla realtà, prova che esso è un’invenzione che funziona come generale sistema di rappresentazione: il bambino non ri-produce, ma inventa (nei limiti di certi condizionamenti motori) un pattern strutturale. Solo più tardi, quando disporrà di un patrimonio formale più differenziato, il cerchio assumerà un significato specifico. differenziazione comporta anche uno sviluppo dall’indefinito al definito, dalla confusione all’ordine. Oggi il concetto è ripreso da Piaget per descrivere ad esempio come l’io e il mondo esterno, in origine indifferenziati, si separino a un certo stadio dello sviluppo mentale […]. Ai nostri scopi sarà utile accostare il principio della differenziazione al principio gestaltico della semplicità. Coerentemente con la premessa che l’atto del pensare e del concepire procede dal generale al particolare, si afferma innanzitutto che “ogni forma resta indifferenziata tanto quanto lo permette l’idea che il disegnatore ha dell’oggetto” […]. In secondo luogo la legge della differenziazione dice che finché una caratteristica visiva non è ancora differenziata, l’intera gamma delle sue potenzialità viene rappresentata da quella strutturalmente più semplice […]. Soltanto quando altre forme, come la linea retta e il quadrato, divengono articolate, le forme rotonde cominciano a raffigurare la rotondità: la testa, il sole, il palmo della mano. Si può esprimere questo principio anche dicendo, con E. H. Gombrich, che il significato di una caratteristica visiva dipende dalle alternative disponibili al disegnatore. Un cerchio è un cerchio solo quando esiste l’alternativa del triangolo» (Arnheim, 1954, pp.156-158). 222 Dopo il cerchio appare un’altra invenzione di portata generale: la linea retta che serve ad indicare nel modo più semplice la diversità di direzione. Allora le braccia spalancate che si trovano spesso nelle prime figure umane rappresentate dai bambini costituiscono la traduzione visuale della diversità di direzione tra le braccia e il corpo da cui si dipartono. Finché la diversità di direzione resta indifferenziata, viene resa dalla forma strutturalmente più semplice cioè come un rapporto ad angolo retto: si tratta di un caso di accentuazione175 come tendenza alla semplicità. La linea diritta introduce l’estensione lineare nello spazio e quindi l’idea di direzione. Coerentemente con la legge di differenziazione, il primo rapporto tra direzioni che viene acquisito è il più semplice, quello dell’angolo retto. L’incrocio ad angolo retto vale a rappresentare tutti i rapporti angolari finché subentra la padronanza dell’obliquità, e questa si differenzia dal rapporto ad angolo retto. Tale angolo è il più semplice perché crea un disegno simmetrico, ed è la base dello schema verticaleorizzontale su cui poggia l’intera nostra concezione dello spazio. (Arnheim, 1954, p. 160). Dopo lo schema rappresentativo orizzontale-verticale Arnheim esamina le altre caratteristiche che incrementano, precisano e differenziano l’espressione grafica: obliquità, fusione delle parti, grandezza, terza dimensione, movimento. Ad esempio, rispetto alle variazioni di grandezza, prima della differenziazione, esse non sono significative per il bambino: le cose 175 «A questo proposito è utile rifarsi a una distinzione introdotta in linguistica tra unità accentate e unità non accentate. Come esempio, John Lyons usa le parole “cane” e “cagna”: “cane” è semanticamente non accentato (o neutro) perché si può usare sia per i maschi che per le femmine, mentre “cagna” è accentato (o positivo) perché si usa solo per le femmine; si può usarlo in contrasto con il termine non accentato per definire, di quest’ultimo, il valore negativo invece che neutro. Lyons conclude che “il termine non accentato ha un senso più generale, neutro per quanto riguarda un determinato contrasto; il suo negativo, più specifico, è derivato e secondario perché conseguenza della sua contrapposizione contestuale al termine positivo (non neutro)”. Il parallelo con la differenziazione delle forme visive è molto stretto» (Ibidem, p. 158). 223 piccole vengono fatte all’incirca uguali a quelle grandi perché ancora non è emerso un interesse preciso per la grandezza e l’uguaglianza approssimativa è il mezzo più semplice per esprimerla. La grandezza realistica ha soltanto un’importanza marginale per la dimensione delle cose nei disegni, perché l’identità percettiva non è legata più che tanto alla dimensione. La forma e l’ubicazione di un oggetto non risultano affatto menomate da un cambiamento di dimensione, così come in musica, un tema resta riconoscibile anche se la velocità della sua presentazione - cioè della sua dimensione temporale - viene alterata da un’accelerazione o da un rallentamento moderato. (Ibidem, p. 170). La teoria di Arnheim fornisce un utile correttivo alla tendenza piuttosto diffusa a intendere affrettatamente i grafismi infantili secondo significati proiettivi e affettivi, tendenza che produce molti arbitrii. Prima di pronunciarsi sull’incidenza di differenze o esperienze individuali, è necessario avere ben chiara la trama delle costanti, in quanto le variazioni si producono innanzitutto su una costruzione percettiva della realtà che non è un “mettere insieme particolari” e procedere da questi all’astrazione attraverso operazioni associative, quanto piuttosto il contrario. Durante gli stadi primitivi la differenziazione della forma è ottenuta soprattutto per mezzo dell’aggiunta di elementi autonomi. Per esempio, il bambino procede dalla più primitiva rappresentazione della figura umana sotto forma di cerchio aggiungendo le linee rette, forme oblunghe, o altre unità. Ciascuna di queste unità è una forma geometricamente semplice e ben definita. Esse sono connesse mediante un egualmente semplice rapporto di direzione, dapprima verticale-orizzontale, più tardi obliqua. La costruzione dell’intera figura relativamente complessa è resa possibile dalla combinazione di varie figure semplici. Ciò non significa che nei primi stadi il bambino non abbia un concetto integrato dell’oggetto nella sua globalità. La simmetria e 224 l’unitarietà di tutto l’insieme e la pianificazione delle proporzioni mostrano che, entro certi limiti, il bambino dà una determinata configurazione alle varie parti in vista della loro ubicazione nel pattern globale; ma il metodo analitico gli rende possibile allo stesso tempo di trattare volta a volta in particolare ogni semplice forma o direzione. Certi bambini si servono di questa procedura sino a formare le combinazioni più complicate, costruendo il tutto su una gerarchia di particolari che rivela un’attenta osservazione. […]. Dopo un certo tempo però il bambino comincia a fondere parecchie unità mediante un unico contorno più differenziato. L’occhio e la mano contribuiscono a questa evoluzione. L’occhio si familiarizza con la forma complessa risultante dalla combinazione di elementi finché diventa capace di concepire il tutto come unità. […]. Più differenziata è la concezione, più abilità si richiede per usare questa procedura. […]. Suddivisione e fusione si alternano dialetticamente. Un’iniziale forma globale si differenzia per suddivisione, ad esempio quando la figura ovale si divide in testa e torso separati: questa nuova combinazione di unità semplici richiama un’integrazione più completa a un livello più alto, che a sua volta ad uno stadio ulteriore per perfezionarsi avrà bisogno della suddivisione, e così via. (Arnheim, 1969, p. 165-168). La figura 69, p. 44, può essere considerata rappresentativa della ricerca di Sana (4,1) di una “primitiva” forma di differenziazione attraverso l’aggiunta di elementi autonomi che si ripetono, e di una “mancata” differenziazione per quanto riguarda la direzione orizzontale-verticale. Nella figura 70 Emily (4,9) ripropone elementi precedentemente sperimentati [figura 30, p. 21] in una figura “umanoide” più differenziata e “ripulita”. Nella figura 71, p. 45, alcuni esempi di processo di differenziazione ad uno stadio più avanzato: “cani” con diversi tipi di testa, di gambe e di coda rappresentati da bambini di età compresa tra i 5 e 6 anni. 225 Per Arnheim, contrariamente a quanto sostenuto da Luquet176, la “figurazione realistica” non è una tappa obbligatoria nello sviluppo dell’abilità grafica, essa è piuttosto incoraggiata dalla nostra cultura basata su una lunga tradizione artistica in senso realistico177 e da pratiche educative più o meno direttamente orientate in questo senso178. Molta strada si è fatta da quando si credeva che soltanto la copia meccanica del modello fosse fedele alla natura: ci si è resi conto che tutta la gamma degli infinitamente diversi modi rappresentativi è accettabile, e non solo per chi condivide la posizione particolare dei loro creatori ma anche per chi vi si sa adattare. Non basta tuttavia la semplice tolleranza dei diversi modi di raggiungere uno stesso scopo: bisogna far un passo avanti e prender coscienza che se persone della nostra civiltà e del nostro secolo percepiscono come simile al vero un 176 «Uno dei concetti fondamentali di Luquet e presupposto di tutto l’orientamento intellettuale è che, per il bambino, il disegno riveste sempre il ruolo essenziale di dover rappresentare qualcosa. Il disegno è pertanto realistico sia per la scelta dei “motivi” sia per gli aspetti “esecutivi”. Il bambino dunque, mosso da un’intenzione realistica, sarebbe interessato unicamente ai disegni figurativi. Al contrario i disegni non figurativi non eserciterebbero su di lui alcuna attrazione. Ora, per disegno figurativo si deve intendere la rappresentazione grafica delle proprietà visibili degli oggetti raffigurati. Per Luquet, dunque, il realismo è la caratteristica essenziale del disegno infantile» (Quaglia, 2003, p. 67). 177 «Quanto alla prospettiva propriamente detta – l’arte di fare immaginare in un quadro una profondità che non c’è – si tratta di altra cosa, sia che la si consideri secondo la definizione della geometria descrittiva, cioè come “scienza che insegna a rappresentare gli oggetti tridimensionali su una superficie bidimensionale, in modo che l’immagine prospettica e quella data dalla visione diretta coincidano”, sia che si faccia riferimento ai testi di storia dell’arte in cui si considera con diversi metodi la rappresentazione della profondità spaziale. […]. Su questi temi si sono spesi per primi i maggiori architetti e pittori italiani, facendone anche oggetto di indagini matematiche e di poderosi trattati. Immaginare che ragazzini di 9-10 anni arrivino naturalmente a comprenderle, o che esse facciano parte del realismo visivo e del pensiero logico dell’adulto, anche di quelli che non hanno frequentato le scuole superiori, pare davvero improbabile» (Giani Gallino, 2008, pp. 118-119). 178 «Esiste per il disegno, come per gli altri domini, il problema del contratto educativo: l’insegnante non solo deve individuare i reali moventi dei bambini, ma deve anche prendere coscienza delle proprie aspettative (estetiche, funzionali) e dei luoghi comuni che rischiano di agire sul suo approccio […]. E’ inoltre auspicabile accostarsi allo sviluppo del disegno infantile con più consapevolezza delle influenze sociali esercitate da genitori, educatori e mezzi pittorici sulla scelta di ciò che conta rappresentare e del modo in cui ciò deve preferibilmente avvenire» (Pinto – Bombi, 1999, pp.140-142). 226 modo rappresentativo particolare che non sembra tale a chi crede a un approccio diverso, così questi sostenitori dell’approccio diverso sono altrettanto convinti che il loro modo rappresentativo sia non soltanto accettabile ma del tutto simile al vero. […]. Il principio del livello di adattamento introdotto in psicologia da Harry Helson, afferma che uno stimolo dato viene giudicato non in base alle sue proprietà assolute ma in rapporto al livello normale che si è imposto nella mente del giudicante. Nel caso della rappresentazione pittorica, il livello normale sembra desunto non dalla percezione diretta del mondo fisico ma dallo stile dei dipinti noti a chi guarda179. È dunque necessario considerare le forme rappresentative utilizzate dai bambini, alla luce delle loro soggettività, della conoscenza del contesto comunicativo e sociale in cui avviene la produzione e dei “riferimenti culturali” ai quali tali produzioni appartengono. Gli adulti raramente si rendono conto di quanto siano arbitrarie e artificiose le loro definizioni figurative. Alla base di questo problema non vi è semplicemente l’inesperienza del bambino nel riprodurre gli schemi convenzionali della realtà propri del sistema culturale, ma soprattutto l’interesse del bambino per valori diversi dalla rappresentazione figurativa. (Kellogg, 1969, p. 207). 179 Arnheim, 1954, p. 120. La teoria di Arnheim richiama quella esposta da Michael Baxandall laddove l’autore utilizza il concetto di “convenzione” artistica per spiegare la capacità degli artisti di realizzare opere in grado di provocare nel pubblico una risposta emotivo-conoscitiva (Baxandall, 1972). Secondo Baxandall l’opera d’arte sarebbe in grado di provocare effetti emotivi perché artista e pubblico condividono la conoscenza e l’esperienza delle convenzioni utilizzate (Geertz parla a proposito di “condivisione di sensibilità”). Il bambino sarebbe “iniziato” all’«occhio del periodo» attraverso l’apprendimento delle forme e delle modalità rappresentative apprezzate dalla cultura cui appartiene. Ciò conduce a considerare una diversa ontologia dell’immagine la cui interpretazione passa attraverso attese e convenzioni culturali sia sotto il profilo rappresentativo che percettivo. Scrive a proposito George Kubler: «l’esistenza di un simbolo è basata sulla ripetizione. Tra coloro che se ne servono, la sua identità dipende dalla capacità di tutti di attribuire uno stesso significato a una certa forma. La persona che usa il simbolo se ne serve sperando che altri contemporaneamente allarghino l’associazione e che le somiglianze tra le differenti interpretazioni che la gente dà di un simbolo siano più forti delle differenze. È improbabile che una qualsiasi copia possa essere accettata come tale senza un forte sostegno di associazioni simboliche» (Kubler, 1972, p. 91). 227 Le prime rappresentazioni sono composte da forme molto semplici (cerchi, punti e linee); attraverso “l’assemblaggio” di questi elementari alfabeti, il bambino realizza, ad esempio, le prime figure umane globali, composte da forme sferiche e da pochi altri dettagli, che stanno per i tratti del volto. In accordo con i principi gestaltisti, nei primi disegni si evidenziano i principi della semplicità e dell’economia della forma. I bambini sono parsimoniosi nel loro uso di unità. Cioè usano un’unità grafica (un particolare tipo di cerchio, una particolare “forma solare”, un particolare tipo di figura umana) ripetutamente. Lo stesso tratto spesso rappresenta sia il braccio che la gamba […]. La ripetizione di unità aiuta a creare un senso di affascinante semplicità. Essa assolve anche alla funzione di ricordarci che il bambino sta sviluppando non soltanto un tipo di linea, ma anche un concetto, nello scoprire analogie e nel rendersi conto che molti elementi possono essere rappresentati da un unico simbolo. (Goodnow, 1977, p. 166). Si vedano ad questo proposito le figure 72, e 73, p. 46, in cui la ripetizione dello stesso motivo grafico, con alcune piccole modifiche, da vita a figure diverse. I disegni hanno una loro disciplina interna, controllata da percezioni differenti da quelle che consentono al bambino di riconoscere persone, bambini, abbigliamenti e altre caratteristiche umane. Condivide con gli adulti le gestalt che permettono il riconoscimento delle persone, ma non quelle per disegnare un essere umano, perché gli adulti utilizzano formule di espressione grafica che i bambini in questo stadio non hanno ancora preso in considerazione. I modelli di posizione, le forme implicite, i diagrammi e gli stessi scarabocchi-base si trovano sia nel lavoro dei bambini che in quello degli adulti. Infatti queste formazioni sono presenti nei disegni e nei dipinti di qualsiasi cultura. L’arte degli adulti si differenzia da quella dei bambini per quelle modalità stilistiche che i bambini più grandi 228 apprendono nell’ambiente culturale in cui vivono e che ci aiutano a distinguere una cultura da un’altra. In certe culture, formule e stili peculiari richiedano una notevole tecnica di esecuzione, tuttavia, come è chiaramente dimostrato dalla storia della pittura accademica, quando la tecnica si allontana troppo dalle forme estetiche di base, l’arte sembra perdere validità. (Kellogg, 1969, p. 51). Ai bambini è richiesta un’enorme quantità di apprendimento sia nell’acquisire le molteplici forme d’espressione usate da una cultura in vista della loro decodificazione e comprensione, che nell’apprendere a produrre degli equivalenti ritenuti “buoni” o “accettabili”. Gran parte di ciò che apprendiamo consiste nel giungere a sapere che una cosa può “equivalere” ad un’altra o essere chiamata “nello stesso modo” di un’altra […]. All’interno di questa vasta area dell’apprendimento di equivalenti, possiamo parlare di percezione di equivalenti in sostanza, il modo in cui impariamo a leggere o a decodificare un equivalente che ci venga presentato […]. Possiamo parlare di produzione o di invenzione di equivalenti, e questo è il campo di maggiore interesse se si vuole estendere il discorso ai disegni infantili […]. I disegni sono equivalenti: contengono solo alcune delle proprietà dell’originale, e la convenzione spesso determina quali proprietà debbano essere incluse e in che modo. (Goodnow, 1977, pp. 27-28). I primi schemi figurativi utilizzati dai bambini per rappresentare le persone e, successivamente, ogni altro oggetto, sono composizioni molto semplici, complete dal punto di vista del bambino, in quanto esprimono l’essenziale dell’oggetto: quel semplice schema risponde a tutte le esigenze del suo disegnatore (Arnheim, 1954). Attraverso l’esercizio e la pratica il bambino diventa sempre più abile nella produzione degli “equivalenti ortodossi” incoraggiati dal contesto culturale-relazionale e trasforma le sue produzioni fino a 229 quando non rientrano nei canoni estetici prescritti dalla comunità cui appartiene. Tuttavia, in quanto equivalenti, i disegni mantengono un loro grado di ambiguità, e variano nel rapporto che mantengono con il loro referente180. Due o più equivalenti possono a volte rappresentare la stessa cosa: un puntino, una linea, un cerchio un triangolo, possono tutti equivalere al disegno di un naso. Così un equivalente può rappresentare due o più cose: un cerchio può rappresentare una palla, un melone, una testa o un buco. (Goodnow, 1977, p. 28). I simboli grafici mantengono una polisemanticità e un’apertura a molteplici utilizzazioni e attribuzioni di significato maggiore rispetto al linguaggio orale: la ricchezza e la specificità dei simboli grafici sta proprio nella loro capacità di sostenere molteplici interpretazioni e ruoli nella raffigurazione. Si osservino, a titolo esemplificativo, i disegni di Liam, il cui lessico grafico si piega alle più svariate forme di lettura [figure 74-80, pp. 4750]. La forte ambiguità evocativa dei simboli grafici comporta spesso l’attivazione di altri canali comunicativi (tra cui il linguaggio verbale) per una loro corretta interpretazione (nel caso di Liam la denominazione è fondamentale per il riconoscimento dei diversi soggetti). «Così l’immagine che può essere sempre e solo un’evidenza e mai un giudizio, attraverso la didascalia rientra nel campo del giudicabile e quindi del comprensibile oltre quindi a quello del riconoscibile». (Massironi, 1982, p. 96) Tuttavia il punto essenziale, ai fini della nostra ricerca, è l’ambiguità di ciò che dovrebbe essere incluso nel simbolo181 ad interessarci: il 180 «Fondamentalmente, un’immagine non può rappresentare un oggetto; lo può fare solo il cervello, che lo ha osservato da molte angolazioni differenti e lo ha collocato all’interno di una classe specifica. Un’immagine può solamente imitare l’oggetto in un suo aspetto particolare» (Zeki, 1999, p.68). 230 disegno allora non sarebbe lo specchio di una concezione individuale del mondo, ma qualcosa che presuppone sempre un interlocutore, un vero e proprio atto situato in uno specifico contesto; un linguaggio dotato di una sintassi specifica i cui segni, quando appresi, consentono la comunicazione delle intenzioni dell’autore. Tale linguaggio ha caratteristiche tipiche e consente di sviluppare concetti rappresentativi di base, dettati dai principi gestaltici della buona forma e della semplicità, soggetti a vincoli materiali, motivazionali e procedurali, che preparano ad ulteriori sviluppi. Si tratta di un sistema simbolico autonomo e autosufficiente fino ad un certo punto dello sviluppo, che esige alimenti culturali per trasformarsi in sintassi espressiva. I cambiamenti che intervengono nel corso dello sviluppo e con l’età sono dovuti al variare della gerarchia delle regole utilizzate in modo sempre più adeguato alla rappresentazione e alla comunicazione. Sotto questo profilo gli “errori” possono indicare l’inadeguatezza delle regole in uso più che una forma di pensiero intellettuale o visivo e, nel corso dello sviluppo tali regole sono destinate ad essere sostituite da regole più convenzionali che porteranno aspetti innovativi, anche se stereotipati, alle successive rappresentazioni. L’enfasi posta dall’approccio artistico-estetico “sull’arte dei bambini”182 si apre alla considerazione dell’impatto che viene esercitato dalla considerazione cultura delle sulle relazioni produzioni significative grafiche e degli e alla strumenti disponibili nel contesto in cui sono negoziati significati. Nella fase della figurazione, che è quella che caratterizza i bambini di 5/6 anni, figure dalle forme definite, codificate e differenti tra loro, 181 «Nella storia dell’arte, le opinioni su omissioni e inclusioni costituiscono un’ampia parte delle discussioni sulla differenza tra varie forme: “arte” contro “caricatura”; equivalenti “realisti” o “astratti” contro equivalenti “iper-realisti” di un originale» (Massironi, 1982, p. 126). 182 Rimandiamo ad un paragrafo successivo lo “scottante” tema dell’”arte infantile”. 231 sono portatrici “autonome” di significato183 [figura 81, p. 50; figure 82 e 83, p. 51]. L’espressione grafica è ora strutturata in una fase astratta di elaborazione e una concreta di realizzazione, anche se il prodotto non restituisce la complessità del processo ideativo e produttivo: il bambino ricerca e sceglie attivamente quelle forme particolari che realizzano una rappresentazione soddisfacente dei propri concetti percettivi184 secondo criteri estetici personali e collettivi, all’interno di determinate esigenze cognitive, emotive ed espressive. La raffigurazione comporta un fatto nuovo, una mediazione: l'invenzione di un sistema di rappresentazione che, attraverso la codificazione culturale, si trasforma in una forma particolare di linguaggio. Il prodotto è diventato strumento di comunicazione, ed è meno necessaria una verbalizzazione che renda noti i significati della 183 «C’è nell’arte moderna una vasta corrente che rivaluta con l’aspetto onirico dell’espressione la spontaneità, l’immaginazione libera della prima infanzia. Se si considera la pittura del Ventesimo secolo si ha l’impressione di percorrere a rovescio l’ontogenesi della pittura infantile. L’evoluzione degli artisti si è spinta gradualmente alle estreme conseguenze fino agli scarabocchi informi del bambino piccolo. I personaggi di Klee e di Mirò rassomigliano a quelli delle prime figurazioni dei quattro, cinque anni; le figure di Chagall fluttuano nel vuoto come gli “omini” non ancora verticalizzati. D’altronde le astrazioni di Nicholson e di Mondrian ricordano gli “aggregati” e le “combinazioni” dei tre anni e i “gesti” degli action painters, i tracciati dei bambini di due anni. Lo stadio più spinto di ritorno alle origini trova un simbolo in una recente opera di Turcato intitolata “la bava”. Kandinsky afferma che nella pittura prefigurativa infantile c’è il primo contatto dell’essere umano con il mondo di cui non “sa” ancora nulla e di cui ignora le leggi che lo governano. Questa “esperienza prima”, appunto perché non ancora intaccata dalla cultura e quindi genuina, è, secondo l'artista, un’esperienza estetica pura (Argan, 1970). Un altro tratto del bambino piccolo che affascina l’artista è il godimento afinalistico delle forme e dei colori non ancora mediato da riferimenti alle caratteristiche reali degli oggetti. Per Kandinsky il bambino non conosce il fattore pratico funzionale degli oggetti perché guarda con occhio non assuefatto e ancora integra la facoltà di percepire l’oggetto come tale; soltanto in seguito, e attraverso una serie di esperienze non raramente tristi, imparerà a conoscere il lato funzionale delle cose» (Oliverio Ferraris, 1973, pp.145-146). 184 «Il percepire consiste nella formazione di concetti percettivi. Ad un normale modo di pensare questa terminologia apparirà alquanto spiacevole, giacché di solito si considera che i nostri sensi siano limitati a dati concreti, mentre i concetti hanno a che fare con dati astratti. E tuttavia il processo visivo sembra rispondere ai requisiti di una formazione concettuale. La visione tratta il materiale grezzo fornitole dall’esperienza creando uno schema corrispondente di forme generali che si possono applicare non solo al caso individuale ma ad un numero infinito di altri casi in modo analogo» (Arnheim, 1954, p. 59). 232 figurazione, perché essa è autonoma e autosufficiente, nel senso che può sottintendere significati condivisi. Si guardino in 84 e 85, p. 52, i disegni di Glenis (6,3) e Paul (5,4): la verbalizzazione contestualizza maggiormente le grafiche che tuttavia avrebbero potuto essere “lette” indipendentemente dalla spiegazione data dai bambini. In figura 86, p. 53, una vera e propria narrazione grafica in cui sono riconoscibili motivi e soggetti, mentre la verbalizzazione di Jonny (5,8) restituisce la trama del “discorso” grafico. La prospettiva artistica ed estetica riconosce al disegno lo statuto di sistema grafico di denotazione, e quindi di linguaggio. Nel corso della ricerca abbiamo notato che spesso, accanto ai disegni, i bambini si cimentavano spontaneamente in tentativi di produzione di lettere alfabetiche, numeri o in vere e proprie prove di scrittura. È prassi sostenere queste sperimentazioni nelle scuole di Reggio Emilia, accogliere le produzioni spontanee e sollecitarle attraverso attività più o meno specifiche, a seconda dell’interesse che il gruppo sezione manifesta. Non essendo oggetto di questa ricerca ci è sembrato comunque interessante considerare, seppur brevemente, il rapporto tra il disegno e un altro sistema di rappresentazione grafica, la scrittura alfabetica e numerica, e vedere come questi diversi sistemi si differenziano tra loro nel corso dell’ontogenesi. 2.2.3 Schemi figurativi e sistemi di notazione non iconici Abbiamo visto come il disegno, nel tempo, si configuri come vero e proprio codice espressivo: il bambino passa dalla totale inesperienza di chi sa solo scarabocchiare, alla condizione di “novizio”, a quella di disegnatore “esperto”. Il linguaggio grafico-iconico mantiene, nel 233 corso dello sviluppo, una certa autonomia rispetto al linguaggio orale, anche se le richieste dell’adulto, e quelle della nostra cultura «si incentrano principalmente realizzazione grafica di sul riconoscimento, “contenuti”, e sull’ideazione- mirano dunque prevalentemente a sviluppare il piano semantico-lessicale» (Pinto – Bombi, 1999, p. 119). La base fisica della scrittura è certamente la stessa del disegno, dell’incisione, della pittura (le cosiddette arti grafiche) […] dipende dalla capacità umana di maneggiare taluni strumenti con una mano e un pollice, coordinati ovviamente da occhio, orecchio e cervello. (Goody, 1987, p. 17). tenendo presente che «non si può separare agevolmente oggetti, azioni e persone dal loro simbolo linguistico, cosicché anche i segni o simboli pittorici operano attraverso un canale tanto linguistico che parallelo» (Ivi). Secondo la Kellogg i bambini piccoli disegnano come «Gestalt artistiche» la maggior parte delle lettere dell’alfabeto, sia maiuscole che minuscole. Nel disegno, le lettere sono collocate o combinate in modo da completare un modello o una forma implicita. Nel linguaggio invece sono disposte in un determinato ordine all’interno delle parole e in una determinata posizione, da sinistra a destra, dall’alto al basso. Quando il bambino impara a leggere, deve percepire la differenza tra la disposizione estetica e quella linguistica delle lettere e quando impara a scrivere deve applicare questa percezione. Tutti i bambini che hanno scarabocchiato molto, quando vanno a scuola, conoscono già molte Gestalt del linguaggio, ma devono ancora imparare la differenza tra l’uso di queste Gestalt nel disegno e nel linguaggio. (Kellogg, 1969, p. 314). La divaricazione tra sistemi di notazioni iconici (disegni) e non iconici (sistemi di scrittura) inizia all’incirca a quattro anni, quando il 234 bambino ha già maturato la separazione tra oggetto e disegno che lo rappresenta: a quest’età il bambino non solo è in grado di distinguere nettamente i due sistemi di notazione, ma mostra di possedere teorie specifiche rispetto al funzionamento del codice alfabetico e numerico185. Nelle figure 87 e 88, p. 54, troviamo due proposte di scrittura di messaggi per il papà e per la mamma in occasione delle rispettive feste. Mentre nel primo messaggio [figura 87] Alessandro (3,8) confonde ancora disegno e scrittura e nella verbalizzazione romanza il significato del suo disegno piuttosto che della sua “scrittura”, nel secondo [figura 88] utilizza una linea ondeggiante, che corrisponde allo scarabocchio base numero 12 nella classificazione della Kellogg, e verbalizza un messaggio coerente all’occasione: “tanti auguri!” (Alessandro 3,10). I pionieristici studi negli anni Trenta di Lurija evidenziano un’evoluzione “spontanea” (nel senso di non-scolastica ma ugualmente determinata dal contesto culturale in cui il bambino è immerso) da una scrittura a base di scarabocchi, linee e zig-zag (fase “prestrumentale”) a una modalità “pittografica”, in cui i segni si differenziano per forma e numero, 185 ma con modalità non «Dal punto di vista evolutivo ogni bambino elabora le sue ipotesi di funzionamento della scrittura a partire dal sistema con cui entra in contatto – un contatto che è innanzitutto visivo e grafico – e attraverso il quale elabora delle ipotesi che in parte sono ricorrenti in più sistemi, in parte sono legati alle peculiarità del sistema di scrittura. Ad esempio è stata ritrovata in modo costante la presenza di un’ipotesi sillabica, cioè della scrittura di un segno per ogni sillaba in bambini che vivono in contesti linguistici assai diversi. […]. Un’altra ipotesi infantile riguarda la quantità minima. La maggior parte dei bambini non usa mai un solo segno per rappresentare una parola, anche se la parola è un monosillabo. La gamma preferenziale per una quantità minima accettabile per i bambini è di tre, o quattro o cinque segni: i bambini non scrivono e non accettano scritte più brevi, composte da solo una o due lettere, perché dicono che “non si possono leggere”. […]. Un’altra ipotesi infantile generalizzata: quella della “varietà interna”. Agli inizi della scrittura, quando le marche infantili sono ancora non convenzionali, si è osservato il rifiuto per sequenze contigue di lettere uguali, se queste vengono sottoposte loro chiedendo se si possono leggere. Analogamente, i bambini evitano in generale di produrre sequenze con lettere uguali in posizione contigua, soprattutto quando si dispone di un repertorio limitato di segni» (Pinto – Bombi, 1999, pp. 182-183). 235 convenzionali, e quindi, non alfabetiche. Si veda ad esempio, in figura 31. p. 22, come nelle quattro grafiche in alto, Sana sperimenti spontaneamente diverse declinazioni del tratto grafico (Lurija, 1976). Della distinzione tra disegno e scrittura si sono occupate, negli anni Settanta Emilia Ferreiro e Ana Teberosky (1979) che hanno mostrato come i bambini giungano a distinguere il segno pittorico da quello notazionale (lettere e numeri) tramite un processo attivo di scoperta, che precede la scolarizzazione. Secondo Ferreiro e Teberosky bambini di età inferiore ai quattro anni non distinguono pienamente il disegno dalla scrittura: ad esempio, in un testo illustrato indicano sia lo scritto che le immagini come “qualcosa da leggere”. In una fase successiva la scrittura verrebbe considerata come analoga agli oggetti che designa: così alcuni bambini sono convinti che nelle didascalie ci debba essere scritto il nome dell’oggetto raffigurato. Infine il bambino giunge alla progressiva scoperta della funzione puramente simbolica della scrittura, della sua natura astratta, svincolata dall’immagine ma vincolata alla parola. Questo modello ci sembra interessante perché evidenzia da un lato gli sforzi fatti dal bambino per interpretare e differenziare il mondo delle immagini iconiche dalle grafiche più convenzionali (comprensione), dall’altro evidenzia come ipotesi relative a ciò che deve essere rappresentato e del modo in cui deve essere rappresentato costituiscano dei vincoli anche per la scrittura. Nella teorizzazione delle autrici, in linea con i principi della psicologia piagetiana, i bambini sono precocemente impegnati in un processo di concettualizzazione della lingua scritta e in una continua elaborazione e ri-elaborazione di ipotesi che la riguardano. D’altronde sono immersi in un mondo notazionale, e sono molto motivati ad interpretarlo anche senza l’intervento dell’adulto. 236 Soprattutto si cimentano con grande piacere, non appena l’attività grafica è più controllata sul piano motorio e al suo prodotto viene attribuito un significato rappresentazionale, ad accompagnare il disegno con una scritta non convenzionale che è qualcosa di simile al nome di ciò che è rappresentato. (Pinto – Bombi, 1999, p. 176). In figura 89, p. 55, Alexey (4,5) dichiara ad esempio di avere scritto quello che ha disegnato; mentre in figura 90 Erika (4,10) riempie lo spazio rimasto libero con caratteri alfabetici. Ad alimentare la curiosità del bambino hanno senz’altro un ruolo importante i comportamenti degli adulti (soprattutto delle insegnanti, a scuola, che scrivono spesso sui loro disegni, o dietro ai loro fogli), dei bambini che già frequentano la scuola primaria, nonché le attività di lettura e scrittura cui assiste. Anche se le modalità di scrittura individuate da Ferreiro e Teberosky variano da bambino a bambino, è possibile individuare quattro livelli di sviluppo del codice scritto di tipo alfabetico: presillabico, sillabico, sillabico-alfabetico, alfabetico. La grafica di Alexey (4,5) può essere considerata rappresentativa del primo livello caratterizzato dalla preoccupazione di distinguere, sul piano grafico, il disegno dalla scrittura [figura 89]. La scrittura è interpretata come scrittura di nomi in cui c’è corrispondenza tra nome e segno. In questa fase i bambini possono applicare alle loro scritture i criteri della quantità minima e della varietà interna dei segni che utilizzano e proprio perché tendono a stabilire una relazione tra la parola scritta e le caratteristiche del referente cui si riferisce, ipotizzano ad esempio che una parola come treno debba essere più lunga della parola formichina, a causa delle diverse dimensioni. Nella figura 91, p. 56, ad esempio, possiamo vedere l’evoluzione di questo processo in tre momenti diversi: nelle prime due grafiche i nomi (dell’autrice della grafica e della sorella) fanno parte della composizione nel suo insieme; mentre nell’ultimo disegno le scritte designano le protagoniste del disegno. 237 Nella fase sillabica i bambini stabiliscono una corrispondenza tra le parole e i segni, anche se i segni scritti corrispondono alle sillabe delle parole e non ai fonemi della lingua. Nella fase di rilettura poi, i segni in eccesso possono essere cancellati o giustificati. Il livello sillabico-alfabetico è un livello intermedio tra quello precedente e quello successivo: i bambini producono sistemi di scrittura mista in cui spesso il valore assegnato a ciascun segno non è stabile (può essere una sillaba, o un fonema). E’ solo nel livello alfabetico che i bambini assegnano una corrispondenza biunivoca tra le lettere e i suoni della lingua parlata. Le scritture sono comprensibili, ma non ancora ortografiche. Il disegno è ora scrittura: le forme grafiche vengono separate dalla scrittura lineare [e] questa si subordina al linguaggio verbale mentre il disegno esprime il pensiero e rappresenta il reale per un’altra e sua propria strada. La distanza tra la scrittura lineare dalle altre forme grafiche, cui il disegno appartiene, è diventata differenza di codice: non basta più esprimere un pensiero traducendolo in una delle due forme parallele e complementari, ma è necessaria un’operazione di transcodificazione per mettere in comunicazione questi due differenti piani e le loro differenti realizzazioni. (Squillacciotti, 1995, p. 162). Così come il disegno, la scrittura si configura come una complessa attività cognitiva e socioculturale, che inizia prima di qualunque insegnamento sistematico. Possiamo ora ripercorrere i momenti cruciali dell’evoluzione del bambino prescolare nel campo dell’attività grafica, alla luce delle fasi individuate da Ferreiro Teberosky: - segni tracciati su superfici in modo casuale, in cui non è ancora presente una consapevolezza notazionale e in cui disegno e scrittura vengono considerati equivalenti e non sono differenziati; 238 - inizio di un’attività simbolica: consapevolezza che i segni possono designare qualcosa, denominazione arbitraria a posteriori; - sviluppo, attraverso il principio della differenziazione, della forma: consapevolezza che la linea può essere non solo un tracciato ma anche un contorno; enumerazione di dettagli; differenziazione tra sistemi notazionali iconici e non iconici. Prime forme di scrittura che si diversificano nella scelta dei segni utilizzati e nelle ipotesi relative al funzionamento dei sistemi di scrittura e del disegno. La scrittura è in questa fase ancora molto vincolata agli aspetti formali del referente cui si riferisce. - avvio dell’attività simbolica in senso convenzionale: dalla consapevolezza che oggetto e disegno sono separati e che il secondo può rappresentativi rappresentare e figurativi. il primo ai “Scoperta” del primi vincolo schemi della somiglianza formale; aggregazione di vari particolari in un unico schema; anticipazione dell’intenzione rappresentativa. Parallelamente il bambino prende consapevolezza che i segni tracciati sulla carta stanno al posto delle parole; - uso notazionale dei simboli a scopo espressivo; convenzionalizzazione dei grafismi in funzione del principio di somiglianza; separazione funzionale tra i due sistemi di scrittura (iconico e non iconico) raggiungimento del livello alfabetico per quanto riguarda la scrittura. Mentre l’espressività del disegno si concretizza in elaborati sempre più ricchi e complessi, che si strutturano in un linguaggio indipendente dalla lingua parlata186, ma tuttavia parallelo ad esso, 186 «Questo carattere di tridimensionalità delle rappresentazioni simboliche diverse dalla scrittura può segnare un’opposizione di portata più generale. La scrittura è uno strumento di grande precisione ma al tempo stesso di grande rigidezza: è una strategia sociale che lascia poco spazio - per lo meno all’interno delle sue strutture - alla tattica individuale, in cui non rimangono per così dire che l’interlinea e il margine» (Cardona, 1981, p. 65). 239 l’uso notazionale di simboli non iconici si libera progressivamente dal suo referente materiale, per rivolgersi alla parola parlata. Come dire che c’è un solo modo di scrivere le parole, ma “molti, ma non troppi, modi” per disegnarle. 2.3 Il disegno come comunicazione e narrazione Prima dell’ingresso alla scuola primaria i bambini riescono a produrre forme che rappresentano in modo sufficientemente riconoscibile oggetti ed eventi: «le figure canoniche (schemi di case, persone, alberi, etc.), ricorrenti nei bambini, non sono altro che il modo di comunicare un significato in maniera essenziale e non ambigua» (Donsì – Parrello, 2005, p. 21). [Figure 92 e 93, p. 57]. Il “conservatorismo” grafico infantile dipenderebbe dunque sia da una sorta di “economia” dei processi di progettazione ed esecuzione, che da un’intenzionalità comunicativa. Il bambino accumula un certo repertorio di tecniche grafiche ed è in grado di impararne delle nuove. Tende ad utilizzare nel tempo gli stessi progetti grafici e le innovazioni si esprimono spesso nell’abbellimento successivo piuttosto che nella ristrutturazione. Egli deve imparare a tener conto delle regole di espressione grafica e delle convenzioni relative alla costanza del punto di vista. Inoltre deve conoscere ciò che richiede e si aspetta l’ambiente che lo circonda. Infine, secondo Von Sommers, egli deve conoscere le caratteristiche strutturali degli oggetti ed essere in grado di risolvere problemi nella rappresentazione di forma, occlusione, prototipicità e punti di vista; ciò deve essere fatto in modo graficamente corretto, correlato alla raffigurazione di altri oggetti e in funzione del particolare compito richiesto. (Tallandini – Valentini, 1991, p. 321). 240 Col passare del tempo, il bambino amplia notevolmente la gamma di oggetti che è capace di rappresentare, e disegna quelli vecchi in nuovi modi. L’aggiunta di dettagli, come anche le deviazioni rispetto allo schema rappresentativo di base, sono, secondo Lowenfeld e Brittain (1947) indizi di particolari esperienze creative. In figura 94, p. 58, possiamo vedere ad esempio i diversi tentativi di Jonny (da 3,7 a 5,7) nella raffigurazione del treno a partire dal primo anno di scuola dell’infanzia all’ultimo. Durante gli anni della scuola primaria, il bambino giunge definitivamente alla comprensione di ciò che può essere o non essere incluso in un disegno, producendo attivamente “equivalenti ortodossi” di soggetti, eventi e conoscenze187. Ciò è molto più che conoscere l’oggetto da raffigurare, è acquisire un sistema di denotazione che, sostanzialmente, significa accedere a un codice convenzionale adeguato alla comprensibilità da parte di uno spettatore, a un linguaggio i cui segni consentono la comunicazione delle intenzioni dell’autore […]. Analogamente all’acquisizione del linguaggio verbale, si tratta di inventare un sistema espressivo astratto, governato da regole, una sintassi della rappresentazione. (Donsì – Parrello, 2005, p. 21). Lentamente gli elementi della composizione sono collegati tra di loro e rappresentati da un unico punto di vista, secondo convenzione. La riconoscibilità chiama in causa l’aspetto comunicativo del disegno nella doppia direzione dell’autore e dell’interlocutore: dal disegno emerge il mondo individuale del bambino, le sue conoscenze, le sue scelte e abilità rappresentative; il prodotto sottende inoltre un interlocutore, un lector in fabula (Eco, 1979) insieme al quale condivide un codice iconografico. 187 «Qualsiasi oggetto o evento può essere disegnato in modo riconoscibile in diverse maniere, ma tra queste alcune vengono usate più spesso di altre, fino a diventare equivalenti standard» (Goodnow, 1977, p. 126). 241 I bambini stessi si aspettano che esista un modo “giusto” di realizzare un disegno188 e cercano di avvicinarsi a quello che ritengono il migliore dei modi possibili per compiacere gli adulti o per migliorare l’aspetto comunicativo del loro disegno. Certamente il ragazzo approda alla consapevolezza di una realtà condivisa e con questa si confronta, e la realtà condivisa ha leggi proprie alle quali bisogna sottomettersi. Il suo disegno diventa incomunicabile se non rispecchia la realtà di tutti e che tutti possano sperimentare. Accanto alla maturazione percettiva si pone così la consapevolezza di nuovi criteri che giustificano, sul piano della comunicazione sociale, una corretta rappresentazione grafica. All’espediente che il fanciullo utilizzava per rappresentare “logicamente” una realtà tridimensionale, si sostituisce la necessità di una rappresentazione subordinata alle leggi della prospettiva, convenzionalmente stabilite. Bello, diviene il disegno che riproduce, nel modo più corretto possibile, la realtà. Le nuove categorie estetiche diventano la fedeltà e la buona composizione. (Quaglia, 2003, p. 177). Vale la pena di sottolineare che non tutte le culture ritengono che gli equivalenti debbano mostrare le cose come sembrano, invece che come sono; né tutte condividono l’idea che il punto di vista appropriato debba essere diretto. In molti dipinti cinesi, per esempio, si accetta che il disegno venga eseguito come da una piccola altura presente sulla scena […]. 188 Nella pratica didattica mi è capitato spesso che alla richiesta di disegnare i bambini mi abbiano risposto “non sono capace” o “come si fa?”. Con alcuni mi è capitato anche rispetto alla richiesta di disegnare soggetti noti. Le aspettative degli adulti (e degli insegnati in particolare) e i modelli conosciuti dai bambini potrebbero giustificare questi rifiuti nei confronti di particolari disegni. D’altra parte, quando il bambino inizia ad essere critico nei confronti della sua capacità di disegnare, trova conferma della sua presunta insufficienza nello stereotipo che vede il disegno legato ad un “talento” posseduto da pochi e che accomuna le risposte del bambino e dell’adulto per il quale il disegno non rientra tra le competenze dell’attività lavorativa che ha scelto o che svolge. 242 Abbiamo anche bisogno di essere coscienti che la maggior parte delle persone operano entro i limiti di ciò che è comune in una cultura, e che l’acquisizione del punto di vista da esso accettato è parte dell’apprendimento e della capacità di inventiva infantili. (Goodnow, 1977, p. 126). Dagli otto anni in poi la rappresentazione acquisisce lentamente le leggi della prospettiva189 e di una rappresentazione realistica sotto il profilo visivo: il bambino ha ora a disposizione maggiori capacità di attenzione e concentrazione, ma soprattutto si completa e stabilizza l’acquisizione di soluzioni convenzionali riprese e suggerite da esempi esterni. I vecchi equivalenti si modificano e si arricchiscono diventando più complessi e i bambini procedono per temi e formule con variazioni, piuttosto che attraverso ripensamenti radicali190 dello schema 189 «La prospettiva occidentale, quella centrale nata nel Rinascimento dalle teorie di Leon Battista Alberti e della pratica pittorica di Masaccio, si è rivelata un’invenzione di un’importanza e efficacia straordinarie. Essa ha infatti rappresentato il principale modello di lettura della realtà che la civiltà occidentale (e, vista la vastità del suo impiego, la civiltà umana in generale) abbia mai saputo generare; al punto che siamo arrivati a confonderla con la effettiva modalità di visione fenomenica dell’occhio. E questo non corrisponde a verità. Tanto per cominciare, il nostro occhio recinge un campo circolare, non planare: non esiste nessun piano, nessuna lastra di vetro (come presuppone la prospettiva) che taglia i raggi indirizzati al nostro occhio; non esiste un reale punto di fuga; e non esiste neanche il punto di vista, che la visione prospettica ha trasmesso a fotografia, cinema e video, visto che noi abbiamo due occhi i cui coni visuali si incrociano; non abbiamo infine una visione omogenea in tutte le parti del campo, ma al contrario le zone più esterne dello stesso sono oggetto di una percezione alquanto vaga e indistinta. Insomma la prospettiva non rappresenta il nostro modo di vedere il mondo: si tratta al contrario di uno schema concettuale, per quanto molto efficace possa essere nell’avvicinarsi alla realtà come la percepiamo fenomenicamente» (Branzaglia, 2003, p. 52). 190 «Nel complesso troviamo che i bambini operano cambiamenti nella maniera più facile, quando possono semplicemente aggiungere un elemento, senza rinunciare a principi generali quali il principio di non invadere lo spazio appartenente a qualche altro elemento, o quello di disporre le parti in un ordine dato o su un dato asse. I cambiamenti più difficili sembrano essere quelli implicanti la rinuncia ad un principio che normalmente governa il modo in cui si dispongono i vari elementi. La differenza tra questi cambiamenti fondamentali e quelli più facili, non va soltanto ricercata nei disegni. Per es., nell’apprendimento delle domande (come nel caso della domanda “quando?”) è probabile che si abbia il passaggio da “John leggerà il libro” a “John leggerà il libro, quando?”, con la semplice aggiunta di un altro elemento. Cambiamenti successivi spostano il “quando” all’inizio della frase 243 figurativo: avendo già trovato una soluzione al “problema rappresentativo”, tendono a proporre disegni che “funzionano”. Via via che l’intento narrativo si stabilizza e che l’ambizione di ritrarre con precisione un oggetto o un evento diventa più pronunciata, i bambini devono affrontare nuovi problemi di composizione e relazioni spaziali: come ritrarre il passaggio del tempo, un evento in corso, i sentimenti di felicità, rabbia o tristezza? A questo punto l’atto di disegnare e dipingere diventa più riflessivo, implica la possibilità di correggere e imparare dall’esperienza personale e dai modelli di altri. I bambini più grandi diventano consapevoli della necessità di essere più espliciti nella descrizione delle relazioni; ora capiscono che la stessa semplice prossimità, l’allineamento o la simmetria della disposizione non narra l’intera storia come dovrebbe essere raccontata. Certamente, tra i bambini ci sono notevoli differenze individuali nello stile, talento, motivazione […]. Al crescere dell’età e della competenza cognitiva, i “Quando John leggerà il libro?” […]. I cambiamenti più difficili sono quelli che alterano il nucleo di un progetto, decisioni di annullare, combinare, riorganizzare delle priorità, o di cominciare dal punto in cui pensavamo di finire» (Goodnow, 1977, pp. 164-165). Più recentemente Annette Karmiloff-Smith ha condotto esperimenti sul cambiamento rappresentazionale nei bambini tra i cinque e undici anni, rilevando una flessibilità maggiore negli schemi rappresentativi dei bambini più grandi. Per provocare cambiamenti nelle modalità di procedere dei bambini e studiare il processo rappresentativo mentre si modifica Karmiloff-Smith ha proposto in due sessioni distinte il disegno di “una casa che non esiste” e di “una persona che non esiste”; il disegno di “una casa con le ali” e quello di “una persona con due teste”. Nel secondo esperimento, la variante era esplicitamente suggerita dallo sperimentatore. Riportiamo di seguito le conclusioni dell’autrice. «Bambini di tutte le età da 5 a 11 anni cambiavano forma o grandezza di alcuni elementi, oppure forma e grandezza del disegno complessivo, togliendo elementi essenziali. Invece pochissimi bambini al di sotto degli 8 anni inserivano elementi, cambiavano la posizione e/o l’orientamento, oppure eseguivano inserzioni trans-categoriali […]. La ragione per cui i bambini [piccoli] disegnano facilmente una casa con le ali è che le ali possono essere aggiunte alla fine della procedura sequenziale che si è eseguita nella sua interezza per disegnare una casa. Invece, quando cerca di eseguire il disegno di una persona con due teste, il bambino deve interrompere la normale sequenza procedurale del disegno di un uomo per inserire una subroutine. Nella letteratura sullo sviluppo, un gran numero di studi su attività diverse dal disegno ha mostrato che inserzioni del genere sono difficili per i bambini piccoli. Anche quelli di 5 anni, esaminati nel nostro esperimento, incontravano difficoltà simili, mentre i più grandi inserivano spontaneamente delle subroutine nella loro procedura rapida di disegno» (Karmiloff-Smith, 1992, pp. 227228). 244 modelli culturalmente approvati iniziano a giocare un ruolo importante e i bambini dedicano più attenzione agli stili artistici accreditati nella loro comunità. (Golomb, 2002, pp. 133-134). Questo aspetto è stato documentato anche dalla ricerca transculturale191. Oltre ad una notevole diversità stilistica nella produzione di modelli grafici192 esisterebbe una diversa precocità con cui i bambini giungono a produrre figure convenzionali, ma anche 191 La ricerca sull’origine dell’arte infantile ha portato molti studiosi a collezionare disegni provenienti da diverse parti del mondo. Si tratta soprattutto di opere di bambini e adulti preletterati. Già l’antropologo A. C. Haddon disponeva, a inizio ‘900 di una copiosa raccolta di disegni provenienti dalle popolazioni Papuane e nel commentarne lo stile “molto rudimentale ed essenziale” lo paragonò alle produzioni delle tribù del Brasile Centrale (Haddon, 1904). Il campione più rappresentativo di disegni prodotti da bambini tra i cinque e i nove anni è stato realizzato da G.W. Paget che raccolse più di seimila elaborati che gli vennero spediti da varie regioni dell’Africa, dell’Asia, del Medio Oriente, della Nuova Zelanda, della Giamaica, dell’Australia e Nuova Guinea Inglese. Le sue ricerche confermano l’esistenza di un linguaggio grafico universale riconoscibile, soggetto a variazioni nel rispetto di un ambiente condiviso (Paget, 1932). Il lavoro di Paget stimolò ulteriormente la ricerca in questo campo. Segnaliamo gli importanti lavori dell’antropologo Meyer Fortes che, tra il 1934 e il 1937 raccolse, insieme alla moglie, diversi disegni prodotti da bambini e adolescenti Tallensi non scolarizzati (Fortes, 1940; 1981). Fortes ipotizzò l’esistenza di una fase ideo-grammatica originaria in cui i disegni sono “diagrammi funzionali”. Egli scorse una grossa differenza tra le produzioni dei bambini scolarizzati e non scolarizzati. Quest’ultimi, nella rappresentazione della figura umana producevano una sorta di ideogramma che riproduceva attraverso dimensioni e proporzioni, l’importanza funzionale delle parti del corpo. I bambini scolarizzati al contrario, producevano modelli grafici molto simili a quelli dei coetanei occidentali. Fortes interpretò i suoi dati in termini di convenzioni dipendenti dalla cultura (si veda a proposito anche Deregowski, 1978). Wayne Dennis, si è occupato di disegni di beduini preletterati della Siria (Dennis, 1960). In questi disegni sono omessi i particolari del volto, disegnato molto piccolo o ombreggiato; ciò sottolinea ancora una volta l’influenza di fattori culturali nei modelli rappresentazionali utilizzati. Per gli studi transculturali relativi ai disegni si vedano inoltre: Andersson, 1995a; 1995b; Wilson - Wilson, 1984, 1985. 192 Considerando gli studi sullo sviluppo del disegno alla luce delle convenzioni iconiche dell’ambiente culturale in cui viene realizzato o recepito, emergono due tipi di approccio: uno di tipo universalistico ed uno più “situazionale”. La posizione tradizionale è quella di stampo universalistico, che ascrive un carattere universale alle rappresentazioni grafiche supportato, secondo alcuni autori, dalla riconoscibilità stessa dei prodotti: chiunque, anche se non addestrato, può riconoscere nei disegni una raffigurazione della realtà. All’universalismo si oppongono coloro che sottolineano la mediazione dell’azione e del giudizio sociale sul disegno infantile: in effetti «il marchio della cultura è riconoscibile sia nella scelta preferenziale di alcuni temi sia negli stili pittorici adottati dai bambini dei diversi paesi; e non dappertutto gli adulti loderebbero, come avviene da noi, l’omino-testone di un trenne» (Pinto - Bombi, 1999, p. 135). 245 una diversa scelta delle parti da includere e un diverso modo di connetterle e denominarle. Ad esempio i bambini Walbiri (aborigeni australiani) disegnano le persone utilizzando un semicerchio come schema figurativo: un semicerchio più grande con un semicerchio più piccolo inscritto all’interno, raffigurerebbe una madre con un bambino in braccio. L’iconografia Walbiri è quasi svincolata dalla somiglianza visiva e usa i segni con significato variabile a seconda dei contesti. Così un cerchio indica ora un albero, ora un falò, ora un uovo, ora un campo, mentre una linea ondulata può rappresentare un danzatore, un fiume, un serpente e così via: tracciare questi segni sulla sabbia è considerato parlare. (Pinto – Bombi, 1999, p. 136). Accanto ad un processo rappresentazionale universale, si colloca un ambiente culturale che, attraverso i suoi modelli, ha un notevole peso sullo sviluppo del linguaggio grafico e sulle forme che esso potrà successivamente assumere. Una volta raggiunto il livello basilare della differenziazione grafica, le attività rappresentazionali non portano necessariamente a ulteriori differenziazioni e cambiamenti. Nelle culture in cui le attività basate su carta e matita sono consuete e di facile accesso e dove la sperimentazione e il cambiamento evolutivo sono attesi e valorizzati, le prime organizzazioni grafiche del tipico stile dell’arte infantile vengono ulteriormente sviluppate e, entro la fine dell’infanzia, le attività artistiche o vengono canalizzate in modelli progressivamente più complicati che soddisfano le norme e le aspettative culturali, oppure vengono accantonate nel senso che i bambini smettono di disegnare. (Golomb, 2002, p. 97). Tara C. Callaghan (2003) ha recentemente delineato un modello di funzionamento del simbolismo grafico che è interessante seguire nei dettagli. Alla ricerca del ruolo complementare della predisposizione 246 biologica e del supporto culturale, l’autrice sviluppa un sistema di evoluzione del linguaggio grafico a sei livelli – relativo sia alla comprensione che alla produzione -, applicabile, secondo la stessa, al processo che si verifica in qualunque momento dell’ontogenesi, quando l’organismo si trova di fronte a un nuovo dominio simbolico. In questo senso l’accessibilità al significato di un simbolo non sarebbe necessariamente legata all’età, ma alla sua complessità, alla capacità di ragionamento del bambino, così come alla novità del dominio simbolico. Partendo dal presupposto che i simboli siano una classe speciale di artefatti la cui funzione è intenzionalmente comunicativa, ne considera lo sviluppo come inseparabile dal contesto sociale: il bambino porta dal mondo pre-simbolico dell’infanzia un ricco insieme di meccanismi e una forte pulsione verso l’intersoggettività. Tutto ciò prepara la strada ad un cambiamento nella comprensione infantile di oggetti e persone. Quello che l’individuo porta nel processo è solo una parte del quadro. Gli “altri” sono ugualmente impegnati a condurre i bambini nel mondo dei simboli. E’ nel contesto degli scambi sociali comunicativi che il bambino realizza che i simboli grafici devono essere usati per riferirsi ad entità al di fuori di noi stessi, attraversando in tal modo lo spartiacque simbolico che segna la fine dell’infanzia. (Callaghan, 2003, p. 52). Il modello della Callaghan parte dal livello 0, relativo ai primi nove mesi, caratterizzato dall’assenza di qualsiasi differenziazione tra simbolo e referente: «infatti, prima dei 9 mesi, il bambino afferra gli oggetti rappresentati in fotografie ad alta definizione […] e talvolta muove la matita in modo da rappresentare il referente [un coniglio che salta]»193. 193 Callaghan, 2003, p. 53. Ci sembra interessante notare come il passaggio dal livello 0 al livello 1 avvenga proprio a 9 mesi, età in cui, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il bambino si dimostra in grado di utilizzare diversi mezzi per 247 A livello 1, verso la fine del primo anno, i bambini iniziano a differenziare gli oggetti dalle immagini che li rappresentano su un piano pratico (comprensione), ma senza consapevolezza simbolica. A livello 2 colgono sia la somiglianza che la differenza percettiva tra simbolo e referente (comprensione) e iniziano ad etichettare i loro scarabocchi a posteriori (produzione). Nei bambini di questo livello la consapevolezza dei simboli grafici è essenzialmente percettiva e non ancora simbolica. Il livello 3 è il primo livello autenticamente referenziale: durante il secondo anno di vita i bambini comprendono che tra simbolo e referente può esservi una relazione di equivalenza non identica […] tale comprensione, che per le immagini si sviluppa intorno ai 36 mesi, rivela la capacità di rappresentazione duale, ovvero l’abilità di capire che un simbolo è sia una rappresentazione di qualcos’altro sia un oggetto di per sé. Nella produzione iniziano a mostrare nei loro disegni pianificazione e intenzionalità a priori. (Ivi). A questo livello i bambini producono forme grafiche che contengono “l’equivalenza concettuale” dei referenti reali, come l’omino testone. A livello 4 i bambini capiscono che uno stesso referente può essere rappresentato in molteplici plausibili modi. Mentre la “costanza simbolica” è il livello di comprensione che caratterizza questo periodo, a livello produttivo i bambini utilizzano una varietà di forme per raffigurare il medesimo soggetto a seconda dello scopo del disegno. A livello 5, all’età di cinque anni, i bambini possono interpretare un simbolo grafico come un indicatore delle intenzioni altrui (comprensione) […] tengono in considerazione gli attributi mentali dell’artista nell’interpretazione delle rappresentazioni raggiungere lo stesso scopo e soprattutto vi è la comparsa osservabile di comportamenti intenzionali attraverso i gesti deittici dell’indicare. 248 pittoriche, così come nei loro disegni. A questo livello essi possono intenzionalmente produrre un disegno al fine di avere un impatto particolare sugli spettatori, o per comunicare una particolare prospettiva sul mondo (produzione). (Ibidem, p. 54). Supportato da numerosissime verifiche sperimentali, il modello della Callaghan tende a dimostrare che la nascita e il raffinamento della “mente simbolica” si basano principalmente sull’impalcatura sociale fornita dagli altri, sulle abilità imitative unite alla consapevolezza intersoggettiva e sulla comprensione delle intenzioni proprie e altrui. Non essendo copie della realtà ma schemi figurativi, i disegni “incarnano” l’esperienza e la conoscenza degli autori e, contemporaneamente, la loro abilità ad esprimersi attraverso il linguaggio grafico. Disegnare, quindi, non è un semplice atto di imitazione e raramente si riscontra la prospettiva ottica nel lavoro artistico dei bambini e degli adulti che vivono in un mondo dove le fotografie, le riproduzioni d’arte realistiche, la pubblicità forgiano i sistemi di rappresentazione tridimensionale. Quando i modelli sono consoni al livello di abilità e di comprensione visiva del bambino, tendono a essere adottati e perpetuati; ciò è testimoniato dallo stile artistico infantile comune in tempi e luoghi differenti. In assenza di supporti culturali, la competenza pittorica si ferma a uno stadio precoce del pensiero visivo. (Golomb, 2002, p. 97). Quando al bambino è data la possibilità di disegnare e sperimentare tecniche grafiche, i suoi elaborati si arricchiscono, diventano spunto di riflessione, gioco, narrazione di progressive acquisizioni che ne modificano profondamente l’aspetto. Ad esempio, in figura 95, p. 59, Alexey (5,10) si preoccupa di rappresentare il funzionamento interno del trattore che ha appena 249 disegnato. Si tratta di un’ipotesi di meccanica che giustifichi il funzionamento del trattore che sta arando il campo. Secondo alcuni il disegno ha la sua storia che riflette pari pari la storia del nostro sviluppo psichico, né più né meno di quanto accade alla nostra personalità […]. Tutto ciò che guadagniamo nel corso degli anni in raziocinio, abilità, assimilazione di norme, regole e comportamenti socialmente accettabili, lo perdiamo in spontaneità ed inventiva: è il prezzo che paghiamo per entrare a fare parte a pieno titolo della comunità civile. Un pedaggio – questa sorta di conformismo – che ci rassicura sul piano dell’accettazione dei nostri simili. Non a caso chiamiamo artisti quegli individui che non si sono sottomessi appieno alle regole sociali. Beninteso […] non è certo abdicando all’educazione e al senso di realtà che si diventa automaticamente artisti. (Mancini, cit. in, Di Napoli, 2004, p. 30). Inoltre, a partire dalla preadolescenza i bambini iniziano a includere l’effetto che il disegno suscita nello spettatore tra gli elementi che concorrono a determinarne la riuscita e a guidarne la produzione: la consapevolezza pittorica, in analogia con quanto suggerito a proposito del linguaggio verbale, può essere definita come l’assunzione di un atteggiamento di riflessione nei confronti della comunicazione iconica, della sua natura, dei suoi scopi, delle sue regole e funzioni. (Pinto, Mantelli, Giuntoli, 2003, p. 90). Nelle concezioni infantili rispetto al disegno e all’attività del disegnare si registra, attorno ai dieci anni, uno spostamento: da giudizi fondati prevalentemente sul realismo visivo a una concezione più “mentalistica” del processo di rappresentazione pittorica, nella quale acquista valore il punto di vista dell’altro, sia questi l’autore o il fruitore del disegno. 250 Si tratta di risultati che consentono di estendere allo sviluppo metacognitivo in ambito pittorico quanto già rilevato in rapporto al codice linguistico, ed in particolare alla scrittura: sarebbero cioè gli elementi di pianificazione e le procedure della fase esecutiva a divenire per prime oggetto di riflessione, mentre la valutazione si produrrebbe in tempi successivi, implicando il controllo delle operazioni sottostanti: comprensione del compito, pianificazione e organizzazione delle procedure. (Ibidem, p. 97). In questo senso l’età influenza prevalentemente l’esecuzione di procedure, con monitoraggio confrontare un aumento (autoistruzione le intenzioni progressivo esecutiva) espressive e della capacità di della capacità di con il prodotto finito (valutazione). Thomas Charoters e Howard Gardner (1979) hanno valutato la sensibilità estetica dei bambini rispetto all’opera d’arte attraverso due parametri: la «completezza sintattica», cioè il modo in cui l’artista utilizza i diversi mezzi espressivi per ottenere un «impatto artistico», e le «qualità espressive», cioè il modo in cui un’opera d’arte comunica emozioni, stati d’animo, sentimenti, etc. La loro ricerca dimostra che solo intorno ai dodici anni viene superato un approccio “letterale” all’opera pittorica, a vantaggio di una lettura più “interpretativa” che include i criteri di completezza ed espressività. La maggiore disponibilità ad accedere al piano metacognitivo sottolinea la maggiore flessibilità cognitiva dei bambini di quest’età rispetto all’«errore incontrollato» e al disgiungersi dell’intenzione dalla raffigurazione delle fasi precedenti. I bambini più grandi ottengono intenzionalmente ciò che i bambini del periodo precedente raggiungevano senza volerlo. I caratteristici “errori” dei disegni infantili (ribaltamenti, trasparenze), sono destinati a ricevere un ridimensionamento in concomitanza 251 dell’ingresso del bambino alla scuola primaria, mentre lo sviluppo pittorico sembra concludersi, per molti studiosi, con l’adolescenza194. Adolescenti e adulti valutano le proprie capacità artistiche e il proprio prodotto pittorico in base alla consapevolezza della limitatezza dei propri mezzi e all’incapacità di rendere efficacemente una rappresentazione complessa della realtà. Per questi motivi spesso il disegno come mezzo espressivo e comunicativo viene abbandonato, e gli si preferisce di gran lunga l’espressione verbale. (Donsì – Parrello, 2005, p. 31). A partire dall’adolescenza il disegno, sempre più inteso come copia, finisce per perdere il suo fascino. Tuttavia «all’impoverimento della vita immaginativa e fantastica» che la maggior parte degli autori legge nei disegni di questo periodo, non corrisponde un impoverimento delle capacità immaginative dell’adolescente: anzi, il venir meno della creatività nel disegno infantile è frutto della capacità dell’adolescente di interiorizzare il “movimento” ovvero le qualità dinamiche degli oggetti. Quel che prima doveva essere rappresentato graficamente per esistere, nell’adolescenza si muove solo più a livello immaginativo. (Quaglia, 2003, p. 177) Il disegno, a partire dall’adolescenza, sembra perdere la sua capacità espressiva e viene abbandonato dalla maggior parte degli adolescenti come forma di comunicazione. Lo stesso si può dire per tutte le altre forme di espressione vive durante l’infanzia che via via vengono abbandonate (come il gioco simbolico, la danza, o la musica), se non vengono coltivate attraverso percorsi di formazione specifici e paralleli alla scuola. 194 Tuttavia alcuni autori sottolineano come il disegno continui a svilupparsi dopo l’adolescenza (Freeman, 1995) e anche oltre nel caso degli artisti; anzi nella fase della prima adolescenza si evidenzia una fase di riavvicinamento al disegno, nella quale le produzioni dei bambini si avvicinano a quelle dei professionisti, soprattutto per la tecnica usata e gli elementi estetici ricercati. 252 Il periodo in cui si assiste al “declino” del disegno come mezzo per esprimere vissuti e per comunicare eventi (coincidente agli otto anni circa), corrisponde alla fase in cui i processi di lettura e scrittura vengono completamente interiorizzati dal bambino. Questa coincidenza ci porta a riconsiderare, da un lato, l’origine comune di scrittura e grafismo come capacità di “annotare significati” attraverso simboli grafici195, e dall’altro a considerare come, nel corso dello sviluppo al grafismo sia riservato una doppia evoluzione: verso sistemi notazionali iconici (disegno) e non iconici (numeri e lettere) diversamente valorizzati dalla nostra cultura. 3 Contesti culturali e teorie psicologiche Un’importante lezione che deriva dagli studi transculturali sul disegno è che, all’interno di un repertorio universale includente forme che sostanziano stili anche molto diversi tra loro, le scelte fatte dai bambini nel disegnare dipendono solo in parte dalla “scoperta” dovuta all’esercizio delle attività grafiche e pittoriche, mentre in parte sono l’effetto di una trasmissione sociale che avviene entro un contesto culturale in cui i bambini hanno ampio accesso ai diversi codici visivi, agli strumenti per produrli e fruirne e in cui esiste una prassi carica di “valori” molto intensi, anche se “ambigui”. In questo paragrafo ci occuperemo di come l’idea di “arte infantile” sia entrata a far parte del pensiero occidentale: presenteremo le ragioni culturali e storiche che hanno condizionato e che tutt’ora condizionano il dibattito teorico, i campi di ricerca e le modalità di utilizzo dei disegni dei bambini. Riteniamo che tali ragioni abbiano 195 «Dallo scarabocchio informe si dipartono, con intenzionalità diverse, il disegno e la scrittura. Attività che richiede movimenti dei muscoli del braccio, del polso e della mano delicati, coordinati e di grande precisione, la scrittura ha per origine l’imitazione di un’azione osservata nell’ambiente sociale» (Oliverio Ferraris, 1973, 25-26). 253 sensibilmente guidato la ricerca psicologica e informato, più o meno esplicitamente, il dibattito teorico successivo. Di seguito proporremo una sintetica ricostruzione storica degli studi sul disegno infantile operati dalla psicologia di matrice psicometrica e psicodinamica196 e ne tenteremo una conciliazione a partire dalla definizione di concetti quali “rappresentazione” e “proiezione”. Concluderemo la sezione sul disegno infantile con le ricerche più recenti, evidenziando lo stretto rapporto tra fare, conoscere e comunicare. Vedremo poi come il disegno si presenti come strumento cognitivo e codice espressivo-comunicativo variamente articolato ed estremamente diversificato. 3.1 Nascita di un mito: l’arte infantile Si dimentichi ora per un attimo quello che è stato scritto e si osservino le produzioni di Davide (4,8), Alexey (4,6), Marta (4,11) in figura 96, p. 59; 97 e 98, p. 60 rispettivamente. Che cosa ci dicono queste 196 Nella letteratura sull’argomento gli orientamenti metodologici individuati all’interno della psicologia sono solitamente tre: l’orientamento descrittivo comparativo che si delinea dalla fine del secolo scorso e che domina fino agli anni Venti; l’orientamento psicometrico prevalente dagli anni Venti agli anni Quaranta ma tuttora ritenuto autorevole in alcuni contesti; l’orientamento proiettivointerpretativo, dominante dagli anni Quaranta fin verso la metà degli anni Cinquanta (Osterrieth, 1973). Il primo orientamento, che non verrà trattato in modo specifico, ma per il quale si rimanda alla bibliografia, riguarda il periodo delle grandi raccolte dei disegni “spontanei” e dell’analisi dello sviluppo grafico di uno o più bambini. Acquisizione di tale orientamento è, secondo Osterrieth (1973) la segmentazione in stadi. Per quanto riguarda il secondo, esso si caratterizza «per il carattere rigoroso […] e per il ricorso allo strumento statistico e per la preoccupazione di controllo e di validazione delle conclusioni a cui si perviene». Le consegne dello sperimentatore sono precise e possono essere a orientamento geometrico o figurativo. Acquisizione di tale periodo viene considerato lo stretto legame tra sviluppo cognitivo e tratti salienti del disegno. Il terzo orientamento, denominato simbolico o interpretativo «è sensibilmente meno sicuro e meno rigoroso, benché in apparenza più ricco dei precedenti». Le finalità che questo approccio si propone sono soprattutto proiettive e interpretative e per questo secondo Osterrieth non vi sarebbe nessuna acquisizione da riconoscere a questo orientamento perché «le pretese sono spesso tanto alte, quanto sono deboli le prove su cui si fondano, e quanto illusori i controlli che spesso sono stati tentati» (Ibidem, pp.10-11). 254 rappresentazioni? Che cosa ci suscitano? A cosa ci riportano? Cosa ne pensiamo? L’idea che i disegni dei bambini possano essere esteticamente interessanti è oggigiorno così comune da farci dimenticare che si tratti di un’idea storicamente recente, e tuttora controversa. Secondo Gardner (1980), è verso la metà dell’800 che pedagogisti e letterati cominciano a mostrare interesse per il grafismo dei piccoli; nei decenni successivi questo interesse si concretizzò nelle prime collezioni di disegni infantili. Ma soprattutto a partire dagli anni ’30 e sino all’immediato dopoguerra, l’importanza attribuita alla creatività e all’espressione artistica nello sviluppo e nell’educazione del bambino ha portato educatori e psicologi a porre l’accento sulle potenzialità artistiche della pittura infantile […]. E’ ovvio che il sorgere di questi atteggiamenti non può essere disgiunto dal mutamento delle arti visive nel nostro secolo, e in particolare dal loro svincolarsi, in forme anche estreme, dalla figuratività: sarebbe stato impensabile cercare qualità esteticamente rilevanti in uno scarabocchio o in un omino testone nel clima culturale del Rinascimento. (Pinto – Bombi, 1999, pp. 138-139). Se l’evoluzione delle idee relative all’infanzia197, all’arte e al «primitivo» hanno concorso a far sì che l’interesse per il disegno del 197 Non si deve dimenticare che il concetto di infanzia, così come noi lo concepiamo oggi, è un’idea abbastanza recente. Esso risale alla seconda metà dell’Ottocento, primo periodo in cui si sono manifestati interessi per lo studio del comportamento infantile (infanzia come età carica di promesse in cui è possibile formare “l’uomo che verrà”), ma è soprattutto alla fine del Diciannovesimo secolo e durante il primo trentennio del Ventesimo, si è assistito ad uno straordinario fervore di iniziative a favore dell’infanzia. Durante il Novecento si iniziò a parlare di “diritti dell’infanzia”, e tra questi non vi erano solo i diritti all’istruzione, al mantenimento e alla protezione, ma anche “diritti specifici dell’infanzia” che consistevano essenzialmente nel sostenere la loro subalternità e dipendenza dagli adulti. Parallelamente si imponeva una conoscenza “scientifica” del bambino affinché le politiche sociali sull’infanzia fossero maggiormente efficaci. «In primo luogo veniva affidato alla scienza il compito di sconfiggere l’alto tasso di mortalità infantile (tra i 100 e i 250 bambini morti per mille nati vivi, nei paesi più civilizzati) […]. Si riteneva inoltre che la scienza potesse contribuire a svelare i misteri del funzionamento della mente infantile, misurare l’intelligenza dei bambini, dire alle madri come allevare i figli e fornire una guida per il trattamento di quei bambini il cui sviluppo o il cui comportamento non si conformassero agli standard» (Giani Gallino, 2008, p. 36). 255 bambino maturasse in ambito artistico e si sviluppasse nella direzione di una valutazione estetica, non di meno l’interesse degli psicologi, anche quando si dichiarano non interessati all’artisticità delle grafiche dei bambini, appare profondamente legato alla capacità infantile di fare e di fruire dell’arte. Dal Postmodernismo in poi, è come se il mondo dell’arte - quello del fare arte e quello della riflessione teorica sull’arte – abbia scelto e imboccato un percorso per così dire illustrativo, e perciò stesso dimostrativo, dell’arte infantile. O per meglio chiarire, chi ritiene che il disegno infantile sia arte, trova nell’avanguardia storica e nella postavanguardia materiali e argomenti, non solo per sostenere l’artisticità del disegno del bambino, ma addirittura per operare un confronto puntuale tra produzione infantile e produzione adulta, fino a proporre una sequenza cronologica, sia pure di opposta direzione. La “bava” di Turcano, primo anno di vita; i “gesti” degli action painters, secondo anno di vita; le “astrazioni” di Nicholson, terzo anno di vita; le figure che “fluttuano nel vuoto” di Chagall, quarto anno di vita; il quinto ci porterebbe a Klee e Mirò; il realismo intellettuale, infine, stadio emblematico per Luquet del disegno infantile, al cubismo. I più cauti parlano di analogie; sebbene non manchi chi postula vere e proprie omologie che, rimandando ad un’identità di strutture psicologiche, non possono non interessare la psicologia […]. La concezione che vuole il bambino capace di fare e fruire arte, sviluppatasi alla fine del secolo scorso arriva fino ai nostri giorni […]. Sarebbe necessario che arte infantile e disegno infantile fossero nella letteratura concetti ben differenziati, mentre il sospetto è proprio che la nozione di disegno infantile sia ricalcata su quella di arte infantile. Vero è che in buona parte della letteratura più recente compare l’esplicita negazione dell’arte infantile. Ma affermare che il disegno infantile non è arte, e continuare poi ad usare il corredo di formule linguistiche e concettuali che tradizionalmente hanno accompagnato la riflessione sull’arte, se è spia della difficoltà che oggi pone la soluzione elaborata nel passato, non da luogo purtroppo ad una riformulazione teorica, né tantomeno ad una diversa impostazione delle pratiche del disegno. Sicché, nonostante le dichiarazioni contrarie, parrebbe che la nozione di 256 arte, sia pure inavvertitamente, continui ad essere esplicativa dell’intera produzione disegnativa del bambino. In breve, l’ipotesi che si avanza è che arte infantile e disegno infantile siano locuzioni intercambiabili poiché i referenti teorici, più o meno espliciti per la prima e impliciti per il secondo, son gli stessi: quelli cioè elaborati per la classe di oggetti culturalmente chiamati opere d’arte. (Pizzo Russo, 1988, pp. 48, 61-62). Sembra difficile osservare alcune grafiche dei bambini e resistere alla tentazione di leggerle come “forme di arte astratta”. L’espressione “arte infantile”, di per sé già una combinazione terminologica, si diffonde a partire dalla metà dell’Ottocento dopo che una serie di processi culturali si sono sedimentati e affermati: una diversa concezione del bambino e dell’infanzia da una parte, una concezione romantica dell’arte e dell’artista dall’altra, tale da congegnarsi idealmente alla nuova immagine dell’infanzia. Durante il Romanticismo il modello della didattica artistica è individuato nella promozione della “spontaneità creatrice”, mentre l’infanzia, teorizzata già a partire da Jean-Jacques Rousseau al di fuori della società e delle sue norme, è disponibile a configurarsi come modello naturale/ideale e “stilistico”. Quando si è cominciato a parlare di arte infantile, l’artista era già intuitivo-irrazionale dall’occhio vergine-autoespressivo-ossessionato- sensitivo; tutto fuorché razionale. Era uno stereotipo; ma decisamente di segno opposto a quello che si era formato durante il Rinascimento quando Michelangelo sosteneva di dipingere con il cervello, Leonardo fondava la propria pratica sulla scienza, e, in generale, l’artista era portatore di un ordine razionale. Aveva comunque molte assonanze con l’immagine rousseauiana del fanciullo che stava divenendo corrente. Rousseau, del resto, come è stato fondamentale per la nuova concezione dell’infanzia, non di meno ha contribuito alla nuova concezione dell’arte. Si pensi solo all’artista bohémien, “nuovo ideale umano” contrapposto, idealmente al bourgeois. Fanciullo e artista 257 potevano gravitare nella stessa orbita perché la loro condizione umana veniva descritta pressappoco negli stessi termini198. Così mentre l’artista romantico inizia la sua lotta contro la tradizione e le convenzioni, esalta contemporaneamente tutti coloro che non sono portatori di questi valori: il bambino e il “primitivo”. Quando si predica l’antintellettualismo, bisogna trovare qualche condizione umana in cui ci siano felicità e benessere senza il dono della ragione, a meno che ci si appaghi della disperazione. Si può respingere il sapere a vantaggio dell’intuizione, della visione mistica, dell’istinto, o persino del fugace piacere sensibile, ma è difficile costruire una filosofia della vita senza indicare un essere umano che ne sia l’esemplificazione. (Boas, 1966, pp. 10-11). Dietro alla passione per “l’arte primitiva”199 e “l’arte infantile” la ricerca e la nostalgia per “ciò che si è stati”. Negli ambienti intellettuali e artistici si accumulano reperti archeologici (sono di questo periodo le scoperte delle grotte del paleolitico), bottini 198 Ibidem, p. 27. Nell’economia dell’argomentazione che si sta portando avanti vorremmo segnalare a proposito il saggio di Lévi-Strauss (1962) Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo. Lévi-Strauss riconosce un ruolo profetico a Rousseau come fondatore dell’etnologia affermando «senza tema di smentita […] che, quell’etnologia che ancora non esisteva egli l’aveva, un secolo prima che facesse la sua comparsa, concepita, voluta, preannunciata, ponendola di colpo al suo rango fra le scienze naturali e umane già costituite; e, persino, che egli aveva indovinato in quale forma pratica – grazie al mecenatismo individuale o collettivo – le si sarebbe consentito fare i primi passi»; ma anche per ciò che gli si deve in tema del mito del “primitivo”. Sebbene non gli si possa attribuire «la glorificazione dello stato di natura – dove si può vedere l’errore di Diderot ma non il suo» (Ibidem, p. 378). 199 Secondo Layton ci si è spesso avvicinati alle culture “altre” negando loro la storia, ossia una dimensione di sviluppo “temporale”. Il sospetto che «ben lontano dall’essere “fossili viventi”, le tradizioni artistiche contemporanee delle società diverse dalla nostra mostrino una grande differenza di forma rispetto alle loro origini» è piuttosto recente. L’autore preferisce sostituire il termine “arte primitiva” con “antropologia dell’arte”, sostenendo che il primo può essere usato «solo come una di quelle figure retoriche che utilizzano gli opposti per trarne un effetto drammatico». Ogni comunità dotata di una tradizione di espressione artistica possiede una cultura, in un certo senso, raffinata» (Layton, 1981, rispettivamente pp. 11 e 12). 258 etnografici (un’etnografia impegnata nella ricerca della comprensione della “storia dell’umanità”, la nostra), e prodotti infantili200. L’ambito scientifico elabora un potente strumento di spiegazione di tutti questi fenomeni: la legge della ricapitolazione genetica di Ernest Haeckel. Cresce così l’importanza attribuita allo sviluppo psicologico del bambino, termine di paragone, confronto e verifica delle sequenze storiche ricostruite dall’etnologia e dall’archeologia201. Interesse, quindi, per il primitivo. E che le prospettive siano diverse – evoluzionistica quella scientifica e romantica quella artistica – non indebolisce per nulla, anzi, la focalizzazione incrociata sull’oggetto, moltiplica l’interesse stesso. Si può così parlare di dominante primativistica per ciò che dopo Snow si è soliti chiamare le due culture, fermo restando, in quel preciso contesto storico, il differente accento valutativo: quanto costituiva progresso per gli uni, era regresso per gli altri. (Pizzo Russo, 1988, p. 31). 200 E’ a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che si assiste ad un’esplosione sincrona dell’interesse per ogni forma d’arte non convenzionale. Oltre alle forme “artistiche” di bambini e “primitivi”, matura in questo stesso periodo l’interesse per l’arte psicopatologica. «Per arte psicopatologica bisogna considerare, da un lato, la concezione della malattia mentale come regressione a stadi “primitivi”; dall’altro, il binomio artefollia. Tale binomio, come è noto, si trova già esplicitamente formulato fin dalle origini della civiltà occidentale. La rinascita del platonismo durante il Rinascimento portò alla ribalta la nozione classica della divina follia del poeta. Nella seconda metà del XVI secolo tale nozione venne estesa alle arti visive. Nel XIX la nozione, perduta l’aura sacrale – Genio e Follia del Lambroso è del 1864 - divenne un contrassegno fondamentale dell’artista» (Pizzo Russo, 1988, p. 54). 201 Nel secolo XIX oltre alla premessa fondamentale secondo cui le differenze culturali implicano differenze cognitive ebbero larga diffusione altre due ipotesi. La prima era la credenza universale che la società evolvesse e contemporaneamente progredisse verso una condizione culturalmente e tecnologicamente simile a quella dell’Occidente. La seconda ipotesi era il concetto biologico secondo cui gli organismi giovani “ricapitolano” la storia anatomica della loro specie durante lo sviluppo embrionale, un’idea questa che rafforzava la tesi evoluzionista. «Questa dottrina ebbe una grande diffusione tanto in psicologia che in antropologia, e solitamente viene riassunta nell’aforisma di E. Haeckel: “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”. Ad alcuni antropologi che guardavano con interesse alla dottrina evoluzionista queste due ipotesi suggerirono l’idea che gli adulti primitivi rappresentino una forma precoce degli adulti delle società avanzate; il bambino europeo rappresenterebbe a sua volta una forma precoce dell’adulto europeo. Pertanto, in base a questo ragionamento, l’adulto primitivo è un equivalente del bambino civilizzato» (Cole, Gay, Glick, Sharp, 1971, p. 25). 259 L’arte dei bambini di Corrado Ricci, intellettuale e critico d’arte, viene pubblicato nel 1887; il volume rappresenta il clima epocale, piuttosto che l’idea espressa nel titolo dall’autore: per Ricci i bambini «non riproducono artisticamente un oggetto, ma lo descrivono […]. L’arte come arte è loro sconosciuta» (Ricci, 1887, p. 67); pur tuttavia l’intenzione del libro è quella di «studiare come il senso dell’arte nasca e si sviluppi nei bambini» (ibidem, p. 9). Sebbene Ricci, nella sua analisi delle produzioni infantili, «primitive» e medioevali ravvisi profonde differenze, dovute alla «mancanza» che caratterizza l’arte dei bambini, rimane legato all’idea di poter scoprire l’artista a partire dal «talento» precocemente ravvisabile nelle primissime produzioni. La sua definizione di disegno come «descrizione» è servita inoltre da sfondo all’interpretazione intellettuale analizzata nel paragrafo precedente secondo la quale “il bambino disegna ciò che sa, e non ciò che vede”. Formula, questa, che si trascinerà stancamente fino ai nostri giorni con significati non sempre sovrapponibili. In linea di massima parrebbe un’implicita negazione dell’arte infantile, non foss’altro che per la dicotomia tra percezione e conoscenza sovrasensibile che ha attraversato la storia del pensiero. Su tale dicotomia, in un certo senso, si fonderà la contrapposizione moderna arte/scienza che dal XVII secolo in poi si è andata sempre più affermando. (Pizzo Russo, 1988, p. 33). Tale affermazione porterà anche a quello stereotipo dell’artista che ha creato il mito del bambino artista e alla nascita dell’”arte concettuale”. «Il bambino disegna ciò che sa e non ciò che vede» diventa la formula preferita dagli psicologi in un momento in cui le ricerche sulla percezione non erano ancora in grado di rendere conto della particolare configurazione del percetto; tuttavia anche quando la Gestalttheorie dimostrerà che il percetto non è copia fotografica della 260 realtà, verranno elaborati nuovi presupposti teorici per dare ai disegni dei bambini una diversa “esteticità” mentre il modello evoluzionistico che va dal realismo intellettuale a quello visivo sarà, come abbiamo visto, abbandonato. L’arte moderna contribuì inoltre a rendere il quadro più complesso. All’inizio del secolo molti artisti appartenenti o simpatizzanti dei movimenti d’avanguardia, iniziarono a prendere molto seriamente le produzioni artistiche dei bambini, non ancora “contaminate” dalla cultura occidentale e dalle pretese accademiche radicate nel naturalismo visivo. In momenti diversi della loro vita, artisti quali Léon Bakst, Marc Chagall, André Derain, Raoul Dufy, Vasilij Kandinskij, Ernest Ludwig Kirchner, Paul Klee, Mikhail Larionov, Lionel Feininger, Johannes Itten, André Masson, Joan Mirò e Gabriele Münter ne apprezzarono la profonda non convenzionalità, la semplicità delle forme, l’essenzialità dello stile. Gli artisti attribuirono valore soprattutto alla spontaneità e alla libertà dalle convenzioni che caratterizzano l’arte infantile. Desiderosi di rappresentare pensieri e sentimenti in modo semplice e diretto, videro nell’arte dei bambini l’espressione di una visione artistica incontaminata, veicolo di una verità interiore che risuonava in loro. Nel loro entusiasmo per l’arte infantile, dotarono il bambino di una mente curiosa, di una percezione superiore della realtà e di una ricca immaginazione capace di afferrare i misteri della natura e vedere le cose come sono realmente, senza pregiudizi. Questa nozione di una “visione originale” potrebbe riferirsi agli stimoli luminosi proiettati sulla retina o, metaforicamente, alla freschezza di vedere le cose per la prima volta. Implicita in questa idea è la convinzione che acquisire conoscenza e abilità interferisca con questo stato della mente primario e intuitivo. (Golomb, 2002, p. 124). Anche quando l’interesse degli psicologi è dichiaratamente svincolato dall’artisticità delle produzioni grafiche e rivolto allo studio del bambino che disegna allo scopo di analizzarne aspetti diversi 261 dello sviluppo, l’analogia istituita tra bambino e artista continua a regolare, più o meno inconsapevolmente, la ricerca e le applicazioni pedagogiche. Gli usi presuppongono l’interdipendenza, come esplicitamente dichiara Kramer, tra stile, sviluppo e personalità. Interdipendenza postulata per l’arte, o, più precisamente, solo per la pittura e non per le altre arti, e meno che mai per gli altri prodotti culturali. La terapia con l’arte, ma anche l’educazione con l’arte, alla quale, di fatto, nessuno educa, data la diffusa convinzione che ogni intervento educativo disturberebbe lo spontaneo processo creativo del bambino, si giustificano nello spazio teorico dell’arte. (Pizzo Russo, 1988, p. 63). Orientamento psicodinamico e psicometrico elaborano, a partire dai rispettivi campi d’indagine, spiegazioni diverse del disegno. Così se il primo utilizza il disegno per indagare la dimensione affettiva del bambino, perché “il bambino, non disegna ciò che vede o ciò che sa, ma ciò che è importante per lui positivamente o negativamente”, il secondo indaga lo sviluppo cognitivo perché “il bambino disegna ciò che sa” (Quaglia, 2003). Nonostante le diverse angolazioni, e ne potremmo citare altre, su una cosa tutti gli autori sembrano concordare, e cioè che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, nella fase della pubertà, la produzione grafica si esaurisca. Disegno e gioco simbolico sembrerebbero condividere l’appartenenza al mondo dell’infanzia e non a quello adulto. Si parla infatti di disegno infantile, o di arte infantile laddove l’aggettivo infantile descrive la tipica modalità grafica che caratterizza il bambino dai 3 agli 8/10 anni. Si è andata nel tempo instaurando una tendenza di fondo, sottesa agli studi psicologici sul disegno, per cui si è nei fatti preferito di far riferimento quasi esclusivo ai disegni infantili, assegnando in linea di massima le produzioni adulte ad altre discipline. Questo atteggiamento 262 fa sì che, quando si parla di disegno in psicologia, si parli soprattutto di età evolutiva. (Perussia, 1979, pp. 17-18). A questo si aggiunga che, data l’importanza attribuita nel tempo a questa attività “spontanea” il fatto che venga abbandonata, è interpretato per lo più come grave perdita di creatività, capacità immaginative ed espressive. Sostenere che con l’adolescenza il bambino smetta di disegnare significa contemporaneamente sostenere, e si è fatto, che l’adulto, a meno che non faccia un lavoro che lo preveda, o che non sia un artista, non disegni più202. D’altra parte, se è vero che sono stati proprio i disegni degli adulti a fornire la categoria di riferimento per l’analisi di quelli infantili, e che le tecniche diagnostiche e terapeutiche per gli adulti, incentrate sul disegno, prevedono che questo disegni, è altrettanto vero che in determinate circostanze anche l’adulto riempie “spontaneamente” di disegni, scarabocchi, asterischi… il foglio che ha davanti. Sappiamo anche che i comportamenti “spontanei” sono spesso comportamenti culturalmente regolati e che se al bambino non è data la possibilità di disegnare, non lo farà (Quaglia, 2003). Ora, a meno che di non considerare ogni intervento grafico arte, è giocoforza riconoscere che il disegno non è prerogativa solo del bambino e dell’artista, ma anche di quell’adulto non artista che pure disegna (Pizzo Russo, 1988, p. 72). L’affermazione che l’adulto non disegni è smentita nella realtà dai comportamenti e nell’attuale organizzazione delle pratiche 203 culturali 202 . «L’adulto, se non è un artista, non disegna» (Osterrieth,1973, p. 7). 203 È vero che alla richiesta di disegnare adulto e bambino rispondono diversamente: solitamente il bambino, più è piccolo, più risponde positivamente, al contrario dell’adulto che è spesso più restio o per niente entusiasta. Questo diverso comportamento, può indurre a ritenere più “spontaneo” disegnare per il bambino che non l’adulto, ma sicuramente non costituisce una prova del fatto che le cose vadano realmente così. Inoltre, chi lavora con i bambini sa benissimo che 263 Ci sembra piuttosto che la psicologia e il senso comune abbiano optato una scelta di campo specifica, peraltro piuttosto arbitraria e non sempre consapevole, che ha, in un certo senso, negato la pluridirezionalità dell’evoluzione del disegno, e lasciato sullo sfondo altre tipologie di espressione grafica, come ad esempio il disegno geometrico o tecnico: una messa tra parentesi della parte non artistica della produzione adulta. Anche quando si sostiene che il disegno del bambino non sia arte, si continua ad avere come termine di paragone solo il disegno artistico adulto come modello e non altre sue modalità di espressione grafica. Questo è confermato dalla differenza di valore attribuita ai diversi stadi nell’evoluzione disegnativa. Abbiamo visto che nella letteratura, lo stadio più apprezzato e studiato è quello dello schema figurativo (con rare eccezioni) sia per quegli autori interessati all’estetica dei disegni dei bambini, che per coloro che si sono occupati delle strutture cognitive soggiacenti quelle produzioni. Tale fase, variamente denominata dagli studiosi, è quella che va pressappoco dai 3 agli 8 anni, ed è quella per la quale i confronti con l’arte contemporanea sono ricorrenti. Sappiamo anche che, a lungo, lo stadio dello scarabocchio non ha suscitato particolare interesse, perché ritenuto “non-artistico”, per lo meno fino all’avvento dell’arte contemporanea. Tuttavia la similarità tra i sistemi di rappresentazione dell’artista e schemi di rappresentazione del disegno infantile non dovrebbe riguardare solo l’arte contemporanea e l’arte primitiva. A ben ragionare, se gli schemi rappresentativi dello stadio del realismo logico stanno ai sistemi rappresentativi dell’arte simil-infantile, allo stesso modo, gli schemi rappresentativi del realismo visivo dovrebbero stare ai sistemi di rappresentazione dell’arte classica. Sennonché i disegni dei bambini più piccoli vengono considerati arte e quelli dei bambini più grandi, no; in alla richiesta di disegnare non tutti i bambini rispondono in modo “entusiasmante” e ad alcuni l’attività grafica è nient’affatto o poco gradita. 264 altre parole, un sistema di rappresentazione funziona come criterio artistico legittimamente, l’altro no. (Pizzo Russo, 1988, p. 74). Ancora, se l’arte è la direzione ideale verso la quale l’evoluzione del disegno dovrebbe tendere è altrettanto vero che ribaltamento, trasparenza, rappresentazione di elementi non visibili (elementi che caratterizzano il disegno infantile) sono presenti anche nel disegno tecnico-scientifico. Ci sembra che il mantenimento della metafora del “bambino artista” abbia impedito alla letteratura sul disegno di indagare in modo sistematico l’elaborazione di tali procedimenti, come se il valore del disegno non dipendesse dall’osservazione di regole, ma dall’originalità o dal “talento” del suo creatore. Infine, nella concezione del disegno come “linguaggio affettivo” vi è un uso quasi sinonimico dei termini “creativo”, “espressivo” e “proiettivo”, che, ancora una volta, assimilano il disegno al disegno artistico che annovera, tra le sue funzioni, quella di esprimere sentimenti. Se proiettivo è parola chiave della psicologia dinamica, e creativo lo è della concezione moderna dell’arte, espressivo lo è di entrambi. L’arte come espressione è del resto all’origine della cultura occidentale […]. La convinzione che attraverso il disegno, attività ritenuta creativa, il bambino esprima i propri sentimenti non è solo degli psicologi che aderiscono al paradigma psicanalitico o ad un’altra qualsiasi teoria “dinamica”, ma anche per gli psicologi lontani, per assunti teorici e metodologici usati, da tale impostazione. (Ibidem, pp. 93-95). Secondo la psicologia il disegno ci racconta il Bambino. Esso non è un significante che rappresenta e rimanda ad un significato, quanto piuttosto un significante che rimanda ad un soggetto e diventa sostituto di processi di pensiero o di aspetti del suo io profondo e della sua affettività (Pizzo Russo, 1988). 265 3.2 La psicologia scientifica e i test psicometrici Mentre all’inizio del secolo scorso artisti e intellettuali apprezzavano esplicitamente l’arte infantile, per la “purezza”204, lo stile e per l’intelligenza di quegli equivalenti essenziali che fluttuavano nello spazio grafico-pittorico [figure 99 e 100, p. 61], un numero consistente di psicologi iniziarono a considerare alcune delle sue caratteristiche (come l’omissione di parti o la loro collocazione “sbagliata”, le trasparenze, i ribaltamenti, l’indifferenza per le dimensioni e le proporzioni tra oggetti all’interno della stessa composizione, la natura schematica delle raffigurazioni, che violano le “regole del realismo”) come manifestazioni tipiche di una mente immatura, ancora confusa, e concettualmente “carente”. La concezione secondo cui il “primitivismo” corrisponde a una fase che il bambino supererà “maturando”, era piuttosto diffusa all’inizio del’900, ed era riscontrabile in ambiti disciplinari diversi, dalla psicologia dello sviluppo all’antropologia. Questa concezione era anche coerente con le teorie di quegli storici d’arte che vedevano nel realismo (o naturalismo) la più raffinata forma artistica che una cultura può raggiungere e, all’opposto, con coloro che, artisti e critici, vedevano la fine dell’arte infantile causata dall’azione repressiva della nostra cultura. A partire dagli anni Venti la psicologia scientifica si impegnò attivamente nello studio del disegno dei bambini: partendo dal presupposto che il bambino “disegna quello che sa” e che le 204 «Il bambino ignora il senso pratico, poiché guarda ogni cosa con occhi nuovi e possiede ancora la capacità di percepire la cosa come tale. Il senso pratico lo apprende solo più tardi, lentamente, e passando attraverso numerose esperienze spesso tristi…. Gli adulti si impegnano a inculcare nel bambino questo senso pratico, e le critiche al disegno muovono da questo piatto punto di partenza: “Il tuo uomo non può camminare perché ha una gamba sola”; “Sulla tua sedia non puoi mica sederti, perché è tutta storta”. E così via. Il bambino ride di sé, mentre invece dovrebbe piangere» (Kandinskij, cit. in, Giani Gallino, 2008, p. 60). 266 produzioni grafiche sono una sorta di “copia” di processi cognitivi in corso, vennero elaborati test grafici allo scopo di misurare il “livello di sviluppo” di tali processi. La psicologia scientifica inserì il disegno all’interno di un quadro comportamentale tipico dell’essere umano, e la sequenza e l’organizzazione dei cambiamenti che in esso si verificano furono ispirati soprattutto a principi organizzativi intrinseci di tipo “maturativo”. A titolo esemplificativo prenderemo in considerazione i modelli sviluppati da due importanti psicologi: Florence Goodenought (1926) e Dale Harris (1963) che, trent’anni dopo, ristandardizzò ed estese il test elaborato dalla Goodenought. L’eco di tali strumenti e la metodologia utilizzata ebbe una grande influenza sulla ricerca loro contemporanea, nei decenni successivi e, in alcuni contesti, tutt’oggi. Come altri psicologi a loro contemporanei, essi utilizzarono il disegno come strumento per misurare “intelligenza”205 e grado di sviluppo mentale dei bambini in relazione agli stadi evolutivi. Le loro analisi consistevano nella rilevazione della presenza o dell’assenza di una serie codificata di elementi206 nei disegni stessi. In genere questi test (anche detti “test carta e matita”) non venivano usati da soli ma inseriti in una batteria di altri test e scale. Del resto, anche nella Scala di Binet e Simon era già prevista una prova di disegno, ma solo di tipo geometrico: si proponeva al bambino di cinque 205 Questi psicologi considerano l’intelligenza un’abilità intellettuale innata generale. «E’ ereditaria, o quantomeno innata, non dovuta ad un insegnamento o a un addestramento; è intellettuale, non emotiva o morale, e non soggetta all’influenza dell’operosità e dell’entusiasmo; è generale, non specifica, ad esempio non è limitata ad un particolare tipo di lavoro, ma partecipa a tutto ciò che facciamo, diciamo e pensiamo. Di tutte le nostre qualità mentali, è quella che ha la portata più vasta» (Burt, cit. in, Cole, 1996, p. 60). 206 «E’ singolare che Piaget, la cui teoria dello sviluppo infantile avrebbe avuto un profondo impatto nella psicologia evolutiva, abbia iniziato la sua carriera lavorando ai test di intelligenza nel laboratorio di Binet. Piaget non si accontentava di registrare il numero delle risposte sbagliate ai test di intelligenza, ma mirava a comprendere le basi delle diverse concezioni dei fenomeni da parte dei bambini nei vari stadi di sviluppo mentale» (Rogoff, 2003, p. 165). 267 anni di copiare un quadrato e a quello di sei un rombo, mentre a dieci anni si doveva produrre un prisma e una “greca”, ma a memoria. Ben presto furono poi inventati e validati da parte di numerosi psicologi una quantità di test di disegno, geometrico e figurativo, tutti con l’obiettivo di misurare lo sviluppo mentale. (Giani Gallino, 2008, p. 40). Il più conosciuto e ancor oggi usato è il test della Goodenought detto D-A-M (“Draw a man ”207 dal nome della consegna che veniva data al bambino) e la sua autrice riteneva che fosse valido per bambini e ragazzi di età compresa tra i tre e i dodici anni208. Secondo la Goodenought la frequenza con cui ogni caratteristica data tende ad apparire è una funzione dell’estensione con cui è stata integrata nel concetto in evoluzione e una misura del peso che dovrebbe esserle attribuito come indice di sviluppo concettuale. (Cit. in, Quaglia, 2003, p. 84). Il test, pubblicato per la prima volta nel 1926, aveva come obiettivo la misurazione “dell’intelligenza” del bambino intesa come capacità di “elaborare concetti”. Il disegno come riproduzione di “un’immagine mentale interiorizzata” era considerato un’elaborazione cognitiva, e quindi, espressione delle conoscenze del bambino. 207 La scelta del disegno di un uomo si giustifica con il fatto che è la prima figura con cui i bambini si cimentano ed è loro assai familiare; la sua evoluzione sembra inoltre essere abbastanza regolare e complessa per indicare significative differenze tra i disegnatori. 208 «Data la sua versatilità, il test è stato sperimentato e validato poi da numerosissimi ricercatori in tutto il mondo con molte varianti, anche con ragazzi di fascia d’età superiori, oppure con adulti, e con adulti e bambini ritardati, e spesso comparato con altre scale per il controllo intellettivo. Anche in Francia, più tardi, il test aveva avuto un’ampia diffusione con il nome di Test du Bonhomme. In Italia la pubblicazione completa del manuale è apparsa solo negli anni’70, nonostante il fatto che il test fosse da tempo utilizzato. A livello internazionale il test è stato utilizzato da più autori non solo come strumento psicometrico, ma anche per studiare la personalità dei soggetti, in considerazione del fatto che alcuni dettagli dei disegni erano considerati particolarmente significativi» (Giani Gallino, 2008, p. 43). 268 Avvalendosi di un campione di tremilaseicento disegni di bambini di età compresa tra i tre e i dodici anni, la Goodenought209 elencò i cinquantun elementi grafici che sarebbero dovuti apparire nella rappresentazione della figura umana, assegnando un punto per ciascun elemento: la presenza della testa, della bocca, del collo, delle braccia e delle gambe, le loro proporzioni, i vestiti e così via. La somma di tutti gli elementi, in base all’età, consente di ottenere una stima dello sviluppo del disegno, che viene messo in relazione allo sviluppo mentale dei bambini. Dale B. Harris (1963) ha riproposto il test della Goodenought210. Quest’autore considera lo sviluppo dei disegni da un punto di vista strettamente cognitivo e assume la prospettiva come modello per la valutazione dei disegni. 209 «Negli stessi anni in cui la Goodenought operava negli Stati Uniti, in Francia H.M. Fay (1923, 1934) elaborava la sua scala per misurare lo sviluppo intellettuale con riferimento alle capacità grafiche. L’istruzione è “disegna una donna che passeggia mentre piove”. La scala dei punteggi è stata calcolata in seguito alla somministrazione dei disegni a seimila bambini tra i sei e i quattordici anni. La valutazione avviene in base agli elementi espressi nel disegno e, precisamente, in base alle cinque idee contenute nell’istruzione. La donna; l’atto di passeggiare; il paesaggio nel quale passeggia; la pioggia; l’atto di ripararsi dalla pioggia. Ognuno di questi elementi è disegnato con un certo numero di particolari, che determinano la valutazione che può andare da 0 punti a 2 punti» (Ibidem, p. 86). 210 «Otre a questo test (validato per l’Italia da Polacek e Carli nel 1976), sono molto usati nel nostro paese anche quelli che richiedono di disegnare “una donna che passeggia sotto alla pioggia” (H. M. Fay revisione italiana di Falorni 1959), e il test di differenziazione dello schema corporeo proposto da Witkin (1963), che – a differenza delle prove precedenti – si può somministrare collettivamente e porta giudizi sul grado di differenziazione cognitiva o dipendenza/indipendenza dal campo. Tutti questi test non vanno confusi con quelli che utilizzano la rappresentazione di figure umane come indici dell’adattamento emotivo-affettivo. Facili da somministrare per il gradimento che incontrano da parte dei bambini (anche se non sempre facili da interpretare), i test pittorici sono assai usati dagli psicologi e, a nostro avviso piuttosto impropriamente, anche dagli insegnanti e perfino da qualche genitore. E’ invece importante ricordare che, nonostante l’apparente inoffensività, gli strumenti psicodiagnostici possono sempre attivare dinamiche psicologiche, intrapsichiche e interpersonali che richiedono la specifica professionalità di uno psicologo competente per essere correttamente governate. Questi test prendono in considerazione solo il prodotto pittorico, senza tener conto dei numerosi fattori che possono incidere durante la progettazione e l’esecuzione: risultano infatti di scarsa tenuta quando si confrontano esecuzioni ripetute» (Pinto Bombi, 1999, p. 122). 269 L’analisi di una corretta riproduzione dei rapporti diviene così misura dello sviluppo concettuale dei bambini. Ne consegue che l’incapacità dei bambini di ottenere una proiezione prospettica visivamente corretta sarebbe da riferirsi ad una loro sostanziale immaturità intellettiva. (Quaglia, 2003, p. 87). Nel test, denominato anch’esso D-A-M o test di Harris-Goodenought, si chiede al bambino di disegnare la figura di un uomo, di una donna (entrambi raffigurati per intero) e del Self 211 su tre fogli diversi. Durante l’esecuzione viene cronometrato il tempo di esecuzione e non è consentito al bambino l’uso della gomma per cancellare. In questo test vi è un maggior numero di item di controllo: da cinquantuno (modello originario) a settantatre per la figura maschile e settantuno per quella femminile. Il test della Goodenought non è stato esente da critiche, soprattutto in relazione alle sue modalità e impostazioni. Scrive a proposito Arnheim: un tentativo di stabilire un rapporto tra intelligenza e abilità nel disegnare è stato fatto da Florence Goodenought, sulla base di criteri alquanto meccanici di realismo e compiutezza dei dettagli. Varrebbe la pena di seguire questo filo conduttore usando invece criteri strutturali per la valutazione dei disegni e un metodo più adeguato di quello fornito dai reattivi per il quoziente d’intelligenza per determinare il grado di maturità globale. (Arnheim, 1954, p. 159). Arnheim osteggiava non solo il test della Goodenought ma tutte le pratiche psicometriche in generale, né credeva nell’esistenza di un rapporto rigido tra l’età del bambino e l’evoluzione dei suoi disegni. Egli sostiene che i bambini disegnano “ciò che vedono” e critica la teoria intellettuale con argomenti psicologici: 211 In Italia il test è stato denominato “Test della Figura Umana” e non sempre è prevista la raffigurazione del Self. 270 la teoria intellettualistica sembra essere stata suggerita dal prodotto pittorico, il disegno infantile, piuttosto che da quanto si conosce circa la mente infantile. In realtà una concezione secondo la quale i bambini creano immagini di cose visibili per mezzo di concetti intellettivi è in contrasto stridente con l’osservazione generale che, ai primi stadi dello sviluppo umano, la vita mentale si lega in modo estremamente diretto alle esperienze percettive. (Arnheim, 1966, p. 414.) Tuttavia il punto di vista di Arnheim difficilmente viene considerato e il disegno, visto come indicatore dello sviluppo cognitivo, continua a promuovere ricerche volte a misurare lo sviluppo intellettuale del bambino212. I mutamenti che col tempo pervengono a livello delle strutture formali, il progressivo aumento dei dettagli, le proporzioni e le articolazioni delle figure sempre più marcate in senso realistico, continuano ad essere lette e a suggerire una visione stadiale del disegno, e a giustificare ipotesi di connessione tra disegno e processi intellettivi. Probabilmente la teoria intellettualistica deve la propria origine e la propria durevolezza al fatto che finché la percezione viene considerata una registrazione “fotografica” puramente passiva dell’immagine retinica, è possibile spiegare le deviazioni sorprendenti rispetto a quell’immagine soltanto attraverso l’intervento di processi più alti, quali la concettualizzazione intellettiva (Arnheim, 1966, p. 40). Un’influenza importante sullo studio del disegno come indice della maturità concettuale o mentale del bambino viene sostenuta, come 212 «Inoltre, i bambini non disegnano, dipingono e modellano soltanto per le ragioni che ci interessano qui in modo particolare. Amano esercitarsi, allenare i muscoli, ritmicamente o disordinatamente; amano veder apparire qualcosa dove prima non c’era nulla, specialmente se questo qualcosa stimola i sensi col colore forte o con una massa di forme; amano pure toccare, appiccicare, distruggere. Imitano ciò che vedano altrove. Tutto ciò lascia le proprie tracce e impedisce al quadro di un bambino di costituire sempre una registrazione del suo pensiero» (Arnheim, 1969, pp. 300-301). 271 abbiamo avuto modo di vedere, anche da Piaget che postula una stretta corrispondenza tra i disegni dei bambini e il ragionamento spaziale-matematico (Piaget 1923, 1924, 1926, 1945; Piaget Inhelder, 1948, 1966). Piaget era convinto che il modo migliore per descrivere la vita mentale fosse in termini di stadi evolutivi qualitativamente differenti. In una prima fase dello sviluppo, il bambino usa dei simboli che mancano della differenziazione e producono una comprensione distorta del sé e degli altri. La vita mentale del bambino è dominata dall’egocentrismo cognitivo, vale a dire dall’incapacità di tenere in considerazione prospettive diverse che, secondo Piaget, è una caratteristica del pensiero prelogico e dei suoi limiti concettuali. (Golomb, 2002, p. 10). Ricordiamo che egli interpretò la teoria di Luquet come coincidente con la propria teoria stadiale e i vari tipi di “realismo” attraversati dal bambino nello sviluppo grafico furono in essa trasposti 213. Sappiamo che la concezione globale che Piaget elabora dello sviluppo cognitivo è quella di una progressione stabile verso una specifica meta: nel pensiero quel traguardo è il ragionamento logicomatematico; nelle arti visive è il realismo ottico. Per Piaget «il disegno è una rappresentazione, ossia presuppone la costruzione di un’immagine ben diversa dalla percezione stessa» (Piaget – Inhelder, 1948, p. 51); costruzione che non consiste in una semplice “estrazione” dei caratteri morfologici dell’oggetto: 213 In verità Luquet non menziona mai nessuna età precisa, da collegarsi a differenti fasi di realismo: l’unica indicazione, neppure questa rigorosa, è quella secondo cui il realismo visivo si realizza quasi sempre verso gli otto o nove anni. Piuttosto Luquet introduce questo o quel disegno di un bambino di una determinata età, mentre parla di una certa fase, ma al tempo stesso rimanda anche di continuo ad altri bambini e ad altri disegni che a loro volta erano stati indicati come tipici di fasi precedenti o seguenti, e per ognuno invita a osservare varie caratteristiche precise (giustapposizioni, trasparenze, ribaltamenti, oggetti tangenti), che possono comparire in età differenti, precoci ma talvolta anche tardive (Luquet, 1927). 272 la ricostruzione delle forme non consiste semplicemente nell’isolare delle qualità percettive, né a fortiori nel trarre senz’altro queste forme dall’oggetto, ma […] essa si basa su un rapporto attivo e, di conseguenza, implica un’astrazione a partire dalle azioni stesse del soggetto, e dalle loro coordinazioni successive. (Golomb, 2002, p. 83). È per questo motivo che “il bambino disegna ciò che sa e non ciò che vede”: nei suoi celebri studi sul disegno infantile, Luquet ha proposto degli stadi e delle interpretazioni tutt’oggi ancora validi. Prima di lui, gli autori sostenevano due opinioni contrarie: gli uni ammettevano che i primi disegni infantili sono essenzialmente realisti, poiché si attengono fino a tardi a dei modelli effettivi senza disegni di immaginazione, gli altri insistevano al contrario sull’idealizzazione di cui testimoniano i disegni primitivi. Luquet sembra aver troncato definitivamente il dibattito mostrando che il disegno del bambino fin verso gli 8-9 anni è essenzialmente realista nell’intenzione ma che il soggetto comincia col disegnare ciò che sa d’un personaggio o d’un oggetto molto prima di esprimere graficamente ciò che vede del medesimo: osservazione fondamentale, di cui rinverremo tutta la portata a proposito dell’immagine mentale che, essa pure, è concettualizzazione prima di giungere a buone copie percettive […] ubbidisce più a leggi vicine a quelle della concettualizzazione che a quelle della percezione. (Piaget – Inhelder, 1966, pp. 61-62) L’opposizione tra vedere e sapere, ripresa e lungamente osteggiata da Arnheim e in generale da tutta la scuola della Gestalt, è una concezione sottolineata più volte da Piaget: l’adesione di Piaget alla teoria intellettuale per quanto concerne lo sviluppo del disegno infantile, deriva proprio dal diverso ruolo dato da Piaget alla percezione nella conoscenza, e dalla concezione stessa della conoscenza che l’autore sostiene. 273 Esaminando la dinamica dei processi cognitivi e il rispettivo valore epistemologico assegnato alle varie funzioni, risulterà chiaro che la conoscenza nel suo equilibrio finale, per la scuola di Ginevra, è conoscenza logico-matematica […]. Con la formula “il bambino disegna ciò che sa e non ciò che vede”, da ambigua e frusta, diventa particolarmente pregnante. Perde di fatto ogni legame con la distinzione “arte concettuale”/”arte percettiva”, e, carica della fitta rete dei concetti della psicologia e dell’epistemologia genetica, acquisisce uno spessore teorico reale all’interno della psicologia. (Pizzo Russo, 1988, pp. 112123). Come abbiamo avuto modo di vedere, i dati provenienti da diverse fonti sostengono sì una traiettoria evolutiva nei termini di “una sequenza ordinata nell’acquisizione delle abilità grafiche rappresentazionali” e questo vale per i bambini delle diverse culture, per quelli “dotati”, per i bambini con ritardo mentale, e probabilmente per i bambini autistici savant, ma il realismo fotografico non è una competenza universalmente acquisita. La proiezione “realistica” è piuttosto una problematica costruzione culturale e una conquista (altrettanto culturale) che rappresenta valori che risalgono al Rinascimento. Un problema che questa impostazione solleva è senz’altro relativo allo scarso valore riconosciuto all’esercizio e l’esercizio che il bambino dedica a questa attività è direttamente o indirettamente, sollecitato e promosso dall’ambiente socio-culturale in cui vive. Alcune monografie critiche sul “talento artistico” dei bambini, sottolineano l’importanza che hanno avuto fattori quali la cultura grafica in cui il bambino ha vissuto e la quantità di tempo dedicata alla produzione per lo sviluppo del loro “talento” (Golomb, 2002). Ciò nonostante si continua a sostenere che «in linea di massima questi stadi dello sviluppo artistico sono abbastanza rispettati nell’evoluzione di qualsiasi bambino», con la sola precisazione che valgono per i bambini di normale intelligenza (Lowenfeld - Brittain, 274 1947, p. 53). Vale a dire l’età di cui si deve tenere presente non sarebbe quella cronologica, ma quella “mentale”. Ma se l’esercizio può «indurre differenze talmente importanti da falsare ogni altro criterio di valutazione» (Oliverio Ferraris, 1973, p. 63) allora riteniamo che sia difficile continuare a parlare di “stadi” anche se il criterio scelto si riferisce all’età mentale. D’altra parte il realismo visivo non è uno stadio da tutti acquisito nelle stesse modalità: le ricerche dimostrano che c’è un “rallentamento” se non un “arresto” nello “sviluppo” grafico in adulti e adolescenti, mentre nei acquisizione bambini “dotati”, si del realismo visivo; verificherebbe una precoce gli adolescenti difficilmente raggiungono il realismo visivo se non sono sottoposti ad un apprendimento specifico o se non hanno a disposizione modelli da copiare. Forse gli psicologi hanno usato il termine realismo (e le relative traiettorie di sviluppo) in un modo eccessivamente esemplificato. Luquet (1913, 1927) utilizzò il termine per indicare l’intenzione del bambino di rappresentare un oggetto o un evento reale. Ma la “realtà” è un referente complesso e può essere rappresentata i diversi modi, incluso il mondo interno, il mondo esterno e un misto di entrambi, in stili molto differenti. Persino la tendenza alla decorazione crea una realtà pittorica da fruire, da godere e su cui riflettere […]. Il realismo è soltanto uno dei molti possibili stili di raffigurazione; tuttavia, poiché esso è alla base dei processi percettivi ed è uno stile molto apprezzato nella nostra cultura, lo riteniamo erroneamente una fase intrinseca dello sviluppo grafico umano. (Oliverio Ferraris, 1973, p. 47). Piaget e Inhelder utilizzarono il disegno soprattutto come pretesto, in un’accezione del tutto particolare fortemente condizionata dalla loro concezione dello sviluppo cognitivo, dell’epistemologia genetica. 275 quella, appunto, Il disegno è stato utilizzato in modo pretestuoso anche da altri ricercatori. Nel paragrafo che segue presenteremo l’approccio simbolico-interpretativo, che ne fece lo strumento per indagare gli aspetti motivazionali e affettivi del bambino. 3.3 I test proiettivi “carta e matita” In generale, tutte le teorie stadiali, tracciando una regolarità nell’evoluzione del grafismo in relazione ad un più ampio sviluppo generale, ne autorizzano l’uso per individuare e misurare il grado di tale sviluppo: i test grafici di Binet e Simon (1916), Fay (1923), Goodenought (1926), Harris (1963) vedono nella crescente realisticità dei disegni un indice dello sviluppo cognitivo del bambino. Dagli anni Quaranta, il disegno attira l’attenzione di un gruppo di ricercatori come metodo “proiettivo” che consente di indagare la dimensione emotiva del bambino. «Se l’arte è espressione dell’inconscio, proiezione di questo, qualsiasi disegno, purché non tecnico-scientifico, è espressione-proiezione dell’inconscio e, più in generale, della personalità dell’autore»214. Per gli autori di questo approccio tutti i disegni sono in qualche misura proiettivi, anche quello di chi ne fa arte o professione. Ogni artista – è affermazione di Leonardo – quando rappresenta una figura umana, rappresenta se stesso. Nei bambini tutto ciò è ancora più vero. (Medioli Cavara, 1986, p. 14). Il “Test della casa, dell’albero e della persona” (H-T-P, House-TreePerson) di Joan Buck (1948), e il “Disegno della Persona” (D-A-P, Draw-a-Person) sono alcuni dei test elaborati non più allo scopo di 214 Pizzo Russo, 1988, p. 94. La parafrasi è tratta da Corman (1967). 276 valutare lo sviluppo concettuale del bambino, ma piuttosto gli aspetti della sua personalità215, attraverso tecniche di tipo proiettivo. Il valore espressivo del disegno è inscritto nel movimento stesso del gesto. Il tratto può essere, infatti, la registrazione di un gesto incerto e titubante ovvero rabbioso e aggressivo. Quando però si parla di proiezione si indica qualcosa che va oltre lo stato emotivo del disegnatore o i tratti peculiari della sua personalità. Se l’espressività è riferibile alla manifestazione di un aspetto della vita affettiva, ad un modo di sentire e di essere della persona, la proiezione è in relazione con la dimensione più profonda dell’individuo, è un atto di esternalizzazione dei suoi contenuti più intimi. Il disegno dunque, nei suoi aspetti espressivi, informa della personalità del soggetto, nei suoi aspetti proiettivi, informa dei conflitti della personalità del soggetto. (Quaglia, 2003, pp. 112-113). Il tema principale proposto nei test proiettivi, come in quelli psicometrici, è la figura umana sia da sola -“Disegno della figura umana” (Machover, 1949) - che in relazione ad altre figure generalmente familiari (Corman, 1967) - ma altri temi sono presi in considerazione come “l’albero” (Koch, 1949) e “la casa” (Minkowska, 1949)216 ritenuti altamente “simbolici”. 215 «In psicologia sebbene per personalità s’intenda l’insieme delle funzioni psichiche, poi di fatto non se ne tiene conto nell’uso. Non solo si distingue tra test di personalità (e i test proiettivi sono test di personalità) e intellettivi, ma sotto la voce personalità vengono di solito trattati i soli aspetti emotivi-affettivi. Tale stato di cose opera un restringimento semantico della parola che nell’uso si distingue dalla parola intelligenza. Tra le tecniche proiettive i test di disegno sono detti espressivi (cfr. A Anastasi, 1954, p. 281: una caratteristica distintiva dei metodi espressivi “consiste nel fatto che essi vengono impegnati sia come strumenti terapeutici che come strumenti diagnostici. Mediante le possibilità di auto-espressione offerte da queste tecniche l’individuo – si ritiene – non soltanto scopre le proprie difficoltà, ma, nello stesso tempo, se ne libera”). Persino nelle ricerche di psicologia ambientale il disegno, usato per studiare la rappresentazione dello spazio (mappe mentali), è considerato tecnica proiettiva di tipo espressivo (cfr., T. F. Saarinen, 1973). Nella letteratura sul disegno infantile se c’è chi distingue l’espressivo dal proiettivo (D. Widlöcher, 1965), c’è anche chi considera equivalenti i due termini (ad es. G. Crocetti, 1986)» (Pizzo Russo, 1988, pp. 132-133). 216 Per una rassegna esaustiva delle diverse tipologie di test proiettivi che si sono succeduti storicamente cfr. Quaglia, 2003. 277 Naturalmente veniva richiesta una preparazione molto differente e assai più approfondita per la lettura e l’interpretazione dei disegni. Diversa era anche la modalità di somministrazione, sempre individuale, che richiedeva un rapporto vis-à-vis tra paziente (bambino ma anche adulto) e psicoterapeuta, il quale doveva seguire con attenzione tutto il processo grafico e memorizzare mentalmente sia le verbalizzazioni, sia il comportamento non verbale e l’espressione delle emozioni sul volto di chi disegnava, in modo da trarne spunto per l’indagine e l’interpretazione successiva. (Giani Gallino, 2008, p. 44). I disegni dei bambini vengono letti da questi studiosi in relazione al loro contenuto emozionale e proiettivo; ad esempio, in relazione alla dimensione delle figure si sostiene che le dimensioni dei personaggi rifletterebbero i sentimenti che i bambini proverebbero nei propri riguardi. Figure molto grandi esprimerebbero sentimenti di autostima accentuata; disegni minuscoli indicherebbero un sentimento di inadeguatezza o di fragilità. (Quaglia, 2003, p. 115). Nel corso degli anni psicologi, psicoterapeuti e psicanalisti hanno prodotto un’ingente quantità di test. Illustriamo brevemente, a titolo esemplificativo, il “Disegno della famiglia” nella versione elaborata da Luis Corman (1967). La consegna dell’analista solitamente è “Disegnami una famiglia”, o “Immagina una famiglia di tua invenzione e disegnamela”. Al test segue un colloquio che prevede domande del tipo: “Dove sono?”, “Cosa fanno?”, “Chi è il più buono?”, “Chi è il meno buono?”, “Chi è il più contento?”, e così via. Il test di Corman prevede tre livelli di interpretazione: grafico, delle strutture formali, del contenuto. Al «livello grafico» vengono applicate le regole generali della grafologia: ampiezza e forza del tratto, grandezza delle figure, stereotipie, zone della pagina più disegnate e zone lasciate bianche. A «livello delle strutture formali» anche 278 Corman, in sintonia con le teorie intellettuali, scrive: «il grado di perfezione del disegno esprime la maturità del soggetto e può essere un indice del suo grado di sviluppo» (Corman, 1967, p. 37). A «livello del contenuto», indipendentemente dalla consegna, la famiglia disegnata è considerata in relazione alla famiglia reale e con questa confrontata. Gli indici che vengono presi in considerazione sono: la presenza di tutti i membri, l’ordine di rappresentazione dei diversi personaggi, le dimensioni delle singole figure, la collocazione del soggetto, la cura e la ricchezza dei particolari di ogni personaggio. Rispetto all’ordine di rappresentazione, particolare importanza è assegnata al personaggio che viene disegnato per primo: esso rivelerebbe la fonte di maggior interesse per il bambino all’interno della propria famiglia («personaggio valorizzato»). Al contrario, il personaggio disegnato per ultimo indica il «personaggio svalorizzato». Al bambino è data la possibilità di intervenire sul proprio elaborato aggiungendo personaggi, cancellandone altri, modificando quelli già disegnati. Il «personaggio aggiunto» sarebbe qualcuno che non fa parte della famiglia, ma che esprime le tendenze del disegnatore. L’analisi degli spazi che dividono le figure, consentono di individuare la qualità delle relazioni (desiderate o temute) che legano il bambino agli altri componenti del nucleo familiare. Da Corman in poi l’uso del disegno è diventato una pratica molto diffusa nella psicologia clinica, spesso accompagnata da altre forme di espressione: il colloquio, il gioco simbolico, l’elaborazione plastica, la costruzione di ambienti o oggetti, una rappresentazione teatrale. In questa impostazione il “simbolo grafico” è caricato di significati nascosti, ignoti allo stesso disegnatore, che devono essere riconosciuti e interpretati. Esso si configura come un’interpretazione personale e/o creativa, una costruzione di significato simile ad una narrazione ma con importanti differenze relative soprattutto ai diversi 279 gradi di consapevolezza con cui viene prodotto il messaggio e al forte grado si polisemia degli equivalenti utilizzati. Il legame non arbitrario ma motivato, tra rappresentazione grafica e ciò che rappresenta, slitta da quest’ultimo termine a chi l’ha rappresentato. Parafrasando Peirce: il disegno, agli occhi dello psicologo, sta per il bambino sotto qualche rispetto. “Sotto qualche rispetto” nel nostro contesto significa che il disegno rappresenta, del soggetto, non la sua totalità, ma la sua personalità. Il quadro rappresenta comunque il soggetto. Per un capriccio della lingua, nota Goodman, “un oggetto rappresentato diventa un soggetto”. Nel nostro contesto il capriccio della lingua viene inteso in maniera letterale. L’oggetto del bambino è il bambino. L’interpretazione del disegno infantile ruota così attorno al presupposto, poco semiotico, che, se il disegno è il significante, la psiche del bambino è il significato. (Pizzo Russo, 1988, p. 96). Il ricorso ai test carta-matita, d’altronde, sembra essere suggerito sia per le caratteristiche di immediatezza e semplicità, sia perché il compito richiesto non genera solitamente ansia nel bambino (affermazioni forti, che non ci sentiamo di sostenere, in quanto spesso smentite nella pratica didattica). Disegnare è un’attività naturale come il gioco. Di là dei vantaggi pratici che questi strumenti offrono, resta, tuttavia, aperto il problema relativo al loro valore e soprattutto alla loro validità. Difficile è valutare che cosa effettivamente i reattivi grafici “misurino”. Numerosi sono stati i tentativi di associare ad una casistica psicopatologica una tipologia di caratteristiche qualitative. […]. Lo scoglio più difficile da superare non è rappresentato tanto dall’area che si vuole indagare, vale a dire dagli aspetti della personalità del disegnatore, ma dall’impossibilità di valutare l’incidenza della personalità dello psicologo nelle risposte interpretative. […]. Il disegno infantile non è una fotografia del mondo esterno e neppure una fotografia del mondo interno [...]. Gli indicatori grafici non certificano, 280 ma suggeriscono; non rivelano verità, ma esprimono tendenze. (Quaglia, 2003, pp. 117-137). Senza concordare pienamente con le affermazioni di Rocco Quaglia, soprattutto relativamente alla parte che tratta disegno e gioco come attività “naturali”, e alla possibilità implicita di poter suddividere gli aspetti della “personalità” del bambino da altri aspetti, riteniamo tuttavia importante la sottolineatura dell’autore fatta a proposito del contesto (relazionale-affettivo, ma non solo) in cui i test vengono somministrati come elemento fondamentale per una lettura degli elaborati stessi. La nozione di “disegno infantile” allora, lungi dall’essere una nozione neutra, rimane un problema ancora aperto nella letteratura sull’argomento. Come abbiamo avuto modo di vedere nel corso di questa trattazione esso è stato studiato dai diversi autori o come la rappresentazione di una realtà esterna (una sorta di “copia” di contenuti mentali, a loro volta imperfetti riflessi di una realtà fisica), o come la proiezione di una realtà interna (una sorta di inconscio fluire di sensazioni interne, personali e soggettive). Nel paragrafo successivo proporremo un nuovo indirizzo di ricerca che tenta di conciliare queste due diverse impostazioni. 3.4 Il disegno tra rappresentazione e proiezione Attualmente psicologi di vario orientamento si trovano d’accordo rispetto alla necessità di svincolarsi da questa visione dicotomica del disegno: “modello interno” vs “modello interno”. Se da una parte la psicologia dello sviluppo si accosta al disegno, come ad ogni altra attività del bambino, legando in modo forte l’aspetto cognitivo a quello affettivo; dall’altra in campo clinico e psicodinamico sono presi maggiormente in considerazione i vincoli posti dallo sviluppo cognitivo e dai fattori tecnico-procedurali 281 nell’interpretazione simbolica dei disegni. In entrambi i casi si riconosce all’attività grafica una complessità, che richiede modelli interpretativi di ampio respiro. A ciò si aggiunge il contributo della prospettiva artistico-estetica che considera il disegno come processo estetico-creativo, che chiama in causa i rapporti tra cognizione, percezione e emozione. In questa prospettiva Tambelli, Zavattini e Mossi (1995) hanno utilizzato di recente il “Disegno della famiglia” di Corman rifiutando sia una un’interpretazione basata sulla presunta rappresentazione realistica dei rapporti familiari, sia un’interpretazione in termini di elaborazione fantastica inconscia indipendente dall’esperienza, o per lo meno responsabile della sua distorsione, e proponendone una versione socio-cognitiva in cui il bambino, attraverso il disegno, esprime contemporaneamente le sue conoscenze, le sue esperienze e la sua personale versione della realtà. Per questi autori in particolare “Disegno della famiglia” è la rappresentazione di una rappresentazione ovvero il prodotto di una costruzione costituita sia dalle proiezioni che derivano dai vissuti affettivi del bambino che dalle relazioni reali esterne. Esso si configura come vera narrazione, che non replica la realtà, ma la deforma e la distorce sia alla luce delle vicende reali vissute che dei “modelli operativi interni”217 del disegnatore. Il bambino, dunque, vive vicende reali, si costruisce dei modelli operativi interni e costruisce modelli narrativi. Il modello operativo interno è inteso dagli autori come un sistema motivazionale che regola il comportamento permettendo al bambino 217 Il concetto di modello operativo interno (MOI) è stato proposto da Bowlby (1979) come un’alternativa ai concetti psicanalitici relativi alle strutture mentali che si formano sulla base delle relazioni interpersonali. I MOI sono memorie delle relazioni, che acquisiscono un valore strutturale per la mente. Nella prospettiva relazionale la mente sviluppa le sue strutture e i suoi processi funzionali all’interno delle relazioni di attaccamento. Esse, non vengono semplicemente ricordate, ma offrono anche le regole per organizzare i ricordi e i contenuti dell’esperienza. La mente, a differenza di quanto suggeriva l’approccio pulsionale e della psicologia freudiana, costruisce le regole del suo funzionamento durante lo sviluppo, nel rapporto e nel contatto con le altre persone. 282 di crearsi delle aspettative e di valutarne le conseguenze. Si tratta di un processo rappresentativo dinamico di natura relazionale, che permette al bambino la simulazione mentale dell’esperienza, riproducendo le sue relazioni con il mondo esterno e consentendone la categorizzazione. Tuttavia i modelli operativi interni non sono la copia esatta di ciò che il bambino realmente vive in altre parole sono “costruzioni” che esprimono il punto di vista, la teoria che gli individui hanno su di sé e sulle relazioni affettive per loro rilevanti […]. Parimenti vi è una discrepanza tra modelli operativi interni che sono inconsci, non verbali, privati e costituiti da eventi soggettivamente esperiti e modelli narrativi che sono generalmente consci, verbali, raccontabili, sociali e costituiti da referenti esperiti attraverso le parole. (Tambelli, Zavattini, Mossi, 1995, p. 33). Nell’approccio socio-cognitivo, la rappresentazione è il risultato dell’interiorizzazione di schemi senso-motori, come nella teoria di Piaget, ma ad essa non si giungerebbe attraverso un processo maturativo a prescindere dal contesto sociale e culturale. L’intuizione neo-pragmatica piagetiana della sostanziale continuità fra azione e pensiero rimane valida ma con una correzione fondamentale, e cioè la considerazione dell’azione come azione sociale, anche quando riguarda apparentemente solo il bambino e oggetti fisici, perché, come sosteneva Vygotskij (1978), il tragitto dall’oggetto al bambino e dal bambino all’oggetto passa necessariamente attraverso un’altra persona e dunque la capacità rappresentativa, come tutte le funzioni psichiche superiori, nasce a livello interpsichico per poi diventare intrapsichica. In questa prospettiva, dunque, le rappresentazioni infantili sono costitutivamente rappresentazioni sociali e per essere decodificate vanno contestualizzate, tenendo conto anche dello statuto che il 283 bambino ha nella struttura della società: i bambini e gli adulti stanno tra loro in un rapporto da categoria dominata a dominante. Questo rapporto di potere contrassegna le rappresentazioni del bambino, come di qualunque oggetto di rappresentazione, come un’impronta che indica il posto occupato dal soggetto. (Tambelli, Zavattini, Mossi, 1995, p. 35). La rappresentazione viene considerata come costruzione cognitiva che scaturisce da un sistema di relazioni sociali ed affettive a più livelli. Abbiamo precedentemente visto la definizione che Quaglia dà del valore proiettivo del disegno: qualcosa che va oltre l’espressività e arriva ai tratti della personalità, delle dimensioni profonde, intime e informa sulla conflittualità del suo autore, ma che tuttavia non si risolve nella copia del mondo interiore dell’autore del disegno, ma piuttosto la suggerisce. Il disegno assume la forma di narrazione nel momento stesso in cui traduce, attraverso un mezzo espressivo, l’esperienza e le intenzioni del suo autore, comunicandoci, contemporaneamente, aspetti della sua vita affettiva ed emotiva. Il bambino che disegna si impadronisce di forme canoniche e tende da un lato a riprodurle, in una sorta di conservatorismo economico per tanti aspetti, ma inevitabilmente viola quei canoni grafici, rielaborando creativamente i modelli. Il punto allora non sarebbe allora se il bambino disegna ciò che sa, ciò che vede o ciò che può (Pinto, Bombi, 1999), ma che nei suoi disegni realizza una visione del mondo (Minkowska, 1948), che è frutto della rappresentazione della realtà, della proiezione dei suoi stati interni più intimi, delle abilità e delle tecniche. (Donsì – Parrello, 2005, p. 37). 284 4 Aspetti cognitivi dell’espressione grafica: fare, conoscere, comunicare Nei paragrafi precedenti abbiamo presentato lo sviluppo del grafismo, cercando di evidenziare come, quando e a quali condizioni il gesto del bambino si organizza in traccia grafica; il momento della riorganizzazione della traccia in disegno (ossia il momento in cui dal gesto fine a se stesso si passa alla riorganizzazione del gesto in vista di un significato); i problemi che la segmentazione stadiale solleva. Abbiamo anche visto come l’interesse per il disegno non abbia sempre comportato una riflessione esplicita sul “meccanismo di produzione”, ma si sia concentrato su aspetti diversi, in base a complesse ragioni culturali che, di volta in volta, hanno restrinto il campo problematico e messo in risalto aspetti diversi su cui si è appuntata la ricerca. In questo paragrafo riprenderemo alcuni dei temi trattati precedentemente allo scopo di esaminare le specificità dell’attività grafica e il modo in cui essa cooperi allo sviluppo di un sistema di simbolizzazione più ampio, in cui precede e accompagna l’acquisizione di altre modalità di rappresentazione. Durante tale operazione ci serviremo di ipotesi, risultati, ricerche e spiegazioni elaborate dalla psicologia della percezione. E’ interessante anzi notare, a questo punto, come l’acquisizione percettiva e la rappresentazione grafica a fini comunicativi possano essere considerati due facce della stessa medaglia. La percezione può essere infatti assimilata ad un processo di “decodificazione” della realtà esterna all’osservatore; essa comporta un’attribuzione di senso e un’acquisizione di significato che avviene coesistenzialmente alla strutturazione delle immagini. 285 La rappresentazione concreta, invece, può essere vista come una “messa in codice” cioè un processo attraverso il quale si scelgono, si costruiscono, si giustappongono i segni grafici col fine di raggiungere quel significato; si tratta cioè della formalizzazione di un messaggio visivo la cui decodifica sia prevista entro un preciso confine. (Massironi, 1982, p. 6). Lo sviluppo dell’abilità grafica procede attraverso l’acquisizione e l’arricchimento progressivo di determinati elementi formali e la costante e continua verifica dei rapporti tra traccia grafica e significato all’interno di un contesto specifico. 4.1 Il disegno tra casualità e intenzionalità Tra i vari autori che si sono occupati dello sviluppo grafico infantile sembra esserci un netto contrasto circa la casualità o l’intenzionalità che guida originariamente il bambino. Si definisce casuale la prima traccia grafica del bambino nel momento stesso in cui essa non costituisce la meta verso cui tende il gesto che la produce. Secondo quest’ottica il bambino produce casualmente delle tracce che poi associa, per analogia, alle forme del mondo reale. Questa scoperta mette il bambino in condizione di trasformare gradualmente il proprio gesto da casuale ad intenzionale. (Di Rienzo – Nastasi, 1989, p. 38). Si tratta ad esempio della classica posizione di Luquet (e di Piaget) cui si oppone la visione di Arnheim e Kellogg per i quali il progresso grafico è intenzionale fin dall’inizio: è intenzione del bambino creare sostituti attraverso un determinato materiale. In linea con i principi della teoria percettiva della Gestalt la Kellogg sottolinea che «l’interesse visivo», assieme al piacere motorio, 286 stimoli il bambino di due anni a scarabocchiare: ma «la stimolazione visiva va oltre la vista e l’illuminazione». Prendendo le mosse da queste premesse, la Kellogg si oppone sia a coloro che sostengono che gli scarabocchi dei bambini più piccoli siano insignificanti, che a coloro che vedono nell’interesse per l’imitazione delle forme esterne lo stimolo a disegnare nei bambini più grandi. La teoria della Gestalt ci dice che quando un bambino guarda i suoi scarabocchi, la retina dei suoi occhi vede milioni di puntini riflessi dalle linee e dalla carta. Il cervello del bambino deve organizzare questi punti in forme riconoscibili, e cioè in forme che “abbiano un senso”. Inoltre, secondo la teoria della Gestalt, la percezione ha un fondamento fisiologico: l’organizzazione percettiva è qualcosa che nasce come caratteristica fisiologica del sistema nervoso. (Kellogg, 1969, pp. 10-14). Riprendendo la teoria della percezione di Richard Gregory (1966) considera poi le configurazioni ricercate attraverso lo scarabocchio, come il risultato di ciò che il bambino «si aspetta di percepire e a cui la sua percezione è abituata»218. L’intento rappresentativo determina gli schemi figurativi a cominciare dai primi scarabocchi controllati. L’intenzione rappresentativa del bambino ri-guarderebbe un’area di concetti e relazioni che derivano da acquisizioni di tipo visivo e che concernono quantità, qualità, distribuzioni, inclusioni, esclusioni, suddivisioni… e le loro modificazioni e variazioni. 218 Kellogg, 1969, p. 11. «La ragione per cui un cieco non vede è che la sua retina non può trasmettere adeguati impulsi nervosi al cervello, e questo anche se il suo cervello è normale. E anche una persona che abbia delle retine normali, ma una lesione al cervello, non può non percepire un oggetto, dal momento che entrambi gli organi gli sono necessari. Come afferma Gregory “la retina è in realtà una parte specializzata della superficie del cervello che è spuntata fuori e che è sensibile alla luce”. Uno stimolo luminoso sulla retina induce gli impulsi nervosi a raggiungere le cellule nell’area occipitale della corteccia celebrale. “La funzione degli occhi consiste nel fornire al cervello l’informazione, codificata nell’attività neuronale”. Il cervello agisce sull’energia neurale che gli arriva, selezionandola e organizzandola in base alla maturità, all’esperienza e all’aspettativa dell’individuo. Quello che quest’ultimo percepisce è almeno in parte la conseguenza di ciò che si aspetta di percepire e alla cui presenza è abituato» (Ibidem, pp. 12-13). 287 Si veda ad esempio la figura 101, p. 62, in cui Glenis (4,10; 4,11), a distanza di un mese, produce spontaneamente due mandala molto simili tra loro. D'altronde, esistono usi codificati nella nostra stessa cultura, che non prevedono la rappresentazione di oggetti, ma di rapporti e relazioni, come i diagrammi e i grafi utilizzati in matematica o in statistica. Interessante e pertinente ci sembra a proposito l’analisi condotta da Manfredo Massironi sul disegno. Egli conduce «un primo tentativo […] di definire una sistematica interpretativa dell’universo del disegno» (Massironi, 1982, p. 2) e descrive come la notazione grafica possa prendere forme diverse per soddisfare una varietà di funzioni comunicative. I contenuti relativi a diagrammi e reticolati sono assimilabili, come nel caso degli aggregati, dei diagrammi prodotti dai bambini, dei mandala, dei soli e delle radiali (per utilizzare la terminologia della Kellogg) a relazioni e rapporti tra gli oggetti come essi vengono registrati nella percezione. Il fine a cui sovrintendono non è la rappresentazione di oggetti, ma un’area di concetti e relazioni concernenti qualità, quantità, distribuzione, suddivisione e le loro modificazioni e variazioni. Si può dire che tali concetti si formano e derivano da acquisizioni di tipo eminentemente percettivo. Poiché il sistema visivo risulta essere particolarmente adatto a cogliere alcune relazioni tra gli stimoli, come posizionamenti reciproci, grandezze relative, inclinazioni, variazioni, (quantità), ecc. risulterà che tutti i contenuti riconducibili a quelle caratteristiche si presteranno ad essere trasmessi sinteticamente ed esaurientemente mediante un adeguato approntamento di materiale idoneo […]. Possiamo indicare tale materiale come un insieme di variabili visive costituite dal: a) piano con le sue dimensioni; b) una forma percepibile definita “macchia” che può variare nei modi seguenti: posizione (sul piano), grandezza, 288 intensità, tessitura, colore, orientamento, forma. Il punto e la linea rientrano nel concetto di “macchia” […]. La linea può assumere tutte le variazioni della macchia, ma non significherà mai superficie, verrà letta come misurabile lungo una sola dimensione. (Ibidem, pp. 99-100). Così, ad esempio, la “macchia” di Giulia (3,9) in figura 102, p. 63, attraverso i suoi elementi costitutivi (posizione, grandezza, intensità, tessitura, colore, orientamento, forma), può rimandare a valutazioni di tipo percettivo che riguardano «posizionamenti reciproci, grandezze relative, inclinazioni, variazioni…». I bambini arrivano a condividere le stesse formule grafiche degli adulti solo dopo un lungo processo di apprendimento. Se la percezione consiste non di una registrazione “fotograficamente” fedele ma nella conquista delle componenti strutturali globali, sembra evidente che tali concetti visivi non possiedono forma esplicita. (Arnheim, 1954, p. 147). In altri termini, la forma percettiva non si “materializza” nell’oggetto durante la percezione, ma è piuttosto “estratta” dal soggetto. In questo senso non si può nemmeno sostenere che attraverso il disegno il bambino imiti la forma degli oggetti fornendone una copia, ma che piuttosto scopra un equivalente «che rappresenta fatti salienti del modello tramite le risorse di un medium particolare» (Ivi). Percepire un oggetto, così come rappresentarlo, è “trovare” la struttura di una forma: ma mentre nel primo caso la forma è compresa, nel secondo la forma è prodotta attraverso un medium 289 particolare. Si osservino le grafiche spontanee di Sana (4,6/4,7) in figura 103, p. 64. I sistemi di rappresentazione concreta sono dei procedimenti raffinati, escogitati per creare illusioni. E mentre, per la psicologia della percezione, l’illusione costituisce la dimostrazione dell’autonomia dei processi superiori che presiedono alla conoscenza rispetto ai dati fisici esterni, per l’illustratore l’”illusione” è il fine da raggiungere, è il modo per costruire situazioni consonanti con quanto si suppone che avvenga nell’elaborazione di chi osserva. (Massironi, 1982, p. 6). I sistemi di rappresentazione concreta si materializzano poi attraverso strumenti che hanno a loro volta un effetto sulla tipologia di forma «trovata». Il cerchio, ad esempio, viene direttamente derivato da un mezzo grafico i cui strumenti principali sono linee monodimensionali. Il percetto che ha dato luogo al cerchio condurrebbe ad una rappresentazione diversa a seconda che la si tentasse con il pennello, con blocchi cubici, in creta, in tessuto, ma qualunque sia il medium, vi sarà similarità strutturale tra la rappresentazione e il concetto percettivo. (Arnheim, 1954, pp. 47-48). Tale similarità strutturale se da una parte rende conto della precoce comprensione delle immagini, dall’altra ha spinto molti studiosi a ritenere che il disegnare fosse originato dall’imitazione della realtà. Sappiamo che il bambino è in grado di imitare, ma un conto è imitare un’altra persona, un altro è imitare attraverso il disegno le caratteristiche di un oggetto. Gli elementi del medium disegno, attraverso i quali si dovrebbe “imitare l’oggetto”, sono la bidimensionalità del foglio e le linee che su di esso si possono tracciare. Proprio perché l’oggetto è tridimensionale e non costituito da linee, non è possibile parlare di imitazione ma piuttosto di “invenzione” di forme che stanno al posto 290 di alcune caratteristiche percettive. Ogni medium ha caratteristiche specifiche che gli sono proprie e «prescrive il modo migliore di rendere le caratteristiche di un modello» (ibidem, p. 123). Gli elementi con cui si realizza il disegno devono essere elaborati dal bambino, essi non sono “dati” e questo spiega il motivo per cui la realizzazione delle prime forme grafiche possa essere un’impresa molto laboriosa. Secondo Ernest Gombrich il meccanismo psichico che presiede il gioco simbolico può aiutarci a comprendere «le radici della forma». Nel saggio A cavallo di un manico di scopa egli medita su un cavallino di legno composto da un manico di scopa e da una testa rudimentale e si chiede se questo possa essere considerato un’immagine. Se per immagine si intende «l’imitazione di una forma esterna di un oggetto, certo la forma esterna di un cavallo qui non è imitata» (Gombrich, 1963, p. 3). Né può essere considerata un’astrazione. L’artista, così leggiamo, astrae la “forma” dall’oggetto che vede. Lo scultore di solito astrae la forma a tre dimensioni, e si astrae dal colore; il pittore astrae contorni e colori, e si astrae dalla terza dimensione. A questo proposito si sente dire che la linea tracciata da un disegnatore è “una straordinaria prova di astrazione” perché non “esiste in natura” […]. Eppure basta dare un’occhiata al nostro cavallino balocco per accorgerci che l’idea dell’astrazione come di un atto mentale complicato ci fa approdare ad alcune conseguenze curiose ed assurde. (Gombrich, 1963, p. 4). Racconta poi la storia di un ubriaco che si ferma davanti ad ogni lampione che incontra per strada e che si toglie il cappello per salutare: dovremmo forse dire che l’alcool ha tanto aumentato la sua capacità d’astrazione che oramai gli riesce isolare la qualità formale dello star 291 ritto, o essere in posizione verticale, tanto dal lampione che dalla figura umana? (ivi). Se così fosse il lampione sarebbe un’astrazione di “uomo”; e lo stesso varrebbe per il manico di scopa astrazione di “cavallo”; ma astraendo dal cavallo non si ottiene un manico di scopa. Il giocattolo non è quindi né una copia del cavallo (un suo “ritratto”), né il suo equivalente concettuale (derivante da un’astrazione operata dal soggetto che rappresenta la «cavillosità»). Il cavallo a manico di scopa serve da «sostituto»: è una rappresentazione che funziona come un cavallo. Come per il giocattolo, così per il disegno, concetti quali copia, imitazione, astrazione, concetto, non spiegano le prime forme grafiche. Ma per noi, che siamo sempre circondati da cartelloni pubblicitari, e dai giornali con le loro illustrazioni di merci e di avvenimenti, è difficile liberarci da un partito preso, dalla prevenzione, cioè, che tutte le immagini vanno “lette” come se si riferissero a una qualche realtà immaginaria o vera. (Ibidem, p. 8). Il bastone è stato promosso dal bambino a cavallo, in quanto si può cavalcare. Il tertium comparationis, ossia il fattore comune, non era tanto la forma, quanto la funzione. O, per essere più precisi, quell’aspetto formale dell’oggetto che aveva i requisiti minimi per l’adempimento della funzione […]. In questo senso i sostituti affondano le radici in un substrato di funzioni biologiche comuni a uomini e animali […]. Un’immagine, in questo senso biologico, non è l’imitazione della forma esterna di un oggetto, ma l’imitazione di certi suoi aspetti privilegiati o comunque pertinenti. (Ivi). All’origine «rappresentare è creare sostituti con un certo materiale» e, parafrasando Gombrich quanto maggiore sarà il desiderio per il 292 bambino di sperimentarsi nell’attività rappresentativa, tanto minore potrà essere il numero di tratti sufficienti per costituire «un’immagine minima», un’immagine cioè che funzioni come semplice sostituto. [Figura 104, p. 65]. Ai fini dell’identificazione del sostituto, il grado di somiglianza potrà andare da un minimo ad un massimo. Occorre inoltre tener presente che «le immagini non solo rappresentano, ma sono ciò che rappresentano». Per Arnheim (1966) ogni immagine può funzionare o come somiglianza, o come «autoimmagine»219. Le autoimmagini «sono immagini: ma sono le proprie stesse caratteristiche quelle che principalmente rivelano» (Arnheim, 1966, p. 396). Così come il cavallo a manico di scopa non ci informa sulle caratteristiche fisiche dei cavalli, ma tutt’al più “rivaleggia” con esse; allo stesso modo i primi schemi figurativi dei bambini non rimanderebbero necessariamente alle qualità formali di oggetti esterni, anche se «condividono parte dei poteri dei loro prototipi» (ibidem, p. 400). Eloquenti a questo proposito, le «autoimmagini» di Oussama (5,7/5,9) in figura 105, 106, 107 e 108 (pp. 66-69) rispettivamente. Si tratta di grafiche prodotte da un bambino inserito a scuola nel mese 219 Il comportamento dei bambini davanti allo specchio può essere esemplificativo dei due modi ravvisati da Arnheim attraverso i quali assumiamo le immagini: come somiglianza o come autoimmagine. Riprendendo le ricerche di René Zazzo sull’identificazione dell’immagine speculare, possiamo asserire che innanzitutto il riconoscimento non avviene che tra i 18 e i 24 mesi (esso non sarebbe affatto primitivo come sostenuto da Lacan) ed esso non da luogo ad un’«assunzione giubilatoria [ma la reazione che lo precede e accompagna] è di confusione e evitamento […]. I comportamenti contraddittori e paradossali del bambino ci fanno credere che, malgrado la costruzione oramai avanzata di uno spazio delle rappresentazioni, egli rimanga ancora a lungo affascinato, prigioniero della realtà dell’immagine. È come se lo specchio fosse contemporaneamente specchio e vetro» (Zazzo, 1983, pp. 172-192). La difficoltà del bambino è quella di non riuscire a staccarsi dal riflesso della sua immagine e di considerarla autoimmagine, dotata di una “realtà” indipendente. Lo spaesamento del bambino è dovuto al fatto che si riconosce in quell’immagine, ma tuttavia si sente altrove. I casi di autoscopia (allucinazione di se stesso) e di autoscopia negativa (lo specchio non rimanda la propria immagine), sono considerati da Zazzo come ulteriore conferma dello stadio in cui l’immagine speculare funziona come doppio. 293 di marzo a 5 anni compiuti, nato e vissuto in Marocco fino all’età di tre anni, di lingua araba. Arrivato in Italia aveva frequentato per tre mesi (aprile-giugno) un’altra scuola dell’infanzia. A marzo dell’anno seguente ha iniziato a frequentare la scuola dell’infanzia di Reggio Emilia nella quale è stata condotta la ricerca. Oussama ha sempre disegnato con grande piacere sia “spontaneamente” (spesso si organizzava autonomamente in questo genere di attività) che “su consegna”. Il problema di Oussama con i disegni a tema (o, piuttosto, dell’insegnante con i disegni a tema di Oussama) riguardava la decodifica del messaggio verbale: non riusciva a comprendere la richiesta dell’adulto. Alla fine dell’anno scolastico, quando bambino ha iniziato a capire alcune parole di italiano e a produrre brevissime frasi, le sue produzioni si sono fatte “più fedeli” alla consegna anche se nelle grafiche persistevano motivi non figurativi [figura 109, p.70]. «La morale della favola si può riassumerla dicendo che forse la sostituzione precede l’intenzione di fare un ritratto, e la creazione precede quella della comunicazione» (Gombrich, 1963, p.9). E con questa sintetica conclusione ci sembra possibile risolvere la dicotomia del disegno tra casualità e intenzionalità: il bambino produce sostituti grafici (autoimmagini) che da un certo momento in poi funzionano anche come somiglianza; successivamente “metterà in codice” le sue grafiche, che potranno narrare ad un interlocutore eventi e vissuti. Vale la pena a rappresentazione questo in punto relazione di ridefinire a quello di il concetto di figurazione (o raffigurazione) secondo una prospettiva psico-evolutiva. Rappresentare è, genericamente, “stare al posto di”; mentre raffigurare è “riprodurre attraverso la forma”. La raffigurazione in particolare si riferisce all’invenzione (e non alla scoperta) di forme grafico-pittoriche che possono stare per un oggetto; è una “tecnica di rappresentazione” che favorisce 294 l’evocazione di un’immagine “convincente”, senza per questo che ci sia con-fusione tra il simbolo e il suo referente. La rappresentazione sta alla base di tutta l’esperienza figurativa e, in un certo senso, costituisce la fase “precedente” a quella della raffigurazione. E’ quando il bambino tratta le sue rappresentazioni anche come somiglianza che esse iniziano a trasformarsi in raffigurazioni. Eloquente, in questo senso è la comparsa dello scarabocchio onomatopeico che, come abbiamo visto compare in una certa fase dello sviluppo del grafismo. Esso sta per un’immagine vivida e persino cinetica, ben presente nella mente del bambino. Pur in assenza di schemi figurativi il bambino si dimostra in grado di rappresentare la realtà: attraverso tracce grafiche “soggettive” sonorizzate. C’è rappresentazione quindi e le continuità successive tra quella forma raffigurazioni della di stessa esperienza. Ma, avverte ancora Gombrich, non appena i più afferrano che un’immagine può non avere un’esistenza indipendente, e che può riferirsi a qualcosa fuori di sé, quindi essere il documento di un’esperienza visuale, piuttosto che la creazione di un sostituto, da quel momento le leggi fondamentali dell’arte primitiva possono essere impunemente violate […]. Ne deriva che l’idea del quadro quale rappresentazione di una realtà fuori di sé, ci porta ad un interessante paradosso […] non possiamo più concepire che nessun punto della tela sia privo di “significato”: ogni punto deve rappresentare qualcosa. (Gombrich, 1963, pp. 16-17). L’inizio dell’attività raffigurativa coincide con l’intenzione da parte del bambino di creare un “equivalente”, una forma specifica che possa stare al posto di un oggetto a cui assomiglia “in qualche modo”. Questo riconoscimento implica il passaggio dallo “scarabocchio rappresentativo” a forme che, per così dire, superano se stesse 295 (Golomb, 2002); passaggio che abbiamo precedentemente definito “dal segno al disegno”. In una prima fase un segno, un tracciato o una figura con caratteristiche proprie, può stare al posto indifferentemente di un semplice movimento o di tanti significati diversi. Questi scarabocchi non figurativi, ossia il tipo cinestetico sono in generale rappresentativi220, non nel senso di raffigurare “qualcosa”, bensì nel senso “stare per qualcosa”; ed è proprio perché “stanno per” che essi acquistano la funzione di simboli (un significante che rimanda ad un significato). In questa fase dello sviluppo ai diversi tracciati, il bambino attribuisce, solitamente in un secondo momento, un significato che può cambiare diverse volte per la stessa figura. Ciò che motiva il bambino è l’intento rappresentativo e non ancora quello raffigurativo. Quando Erika (4,1) disegna e chiama la sua produzione “le palline che fanno un girotondo” [figura 110, p. 71] sottolinea “un’equivalenza” tra la forma che hanno preso le linee sul foglio e una qualche altra forma che appartiene al mondo reale. Attraverso questa azione dimostra di possedere una comprensione intuitiva del fatto che una cosa possa rappresentarne un’altra senza esserne una replica; il bambino “pratica” un’azione simbolica attraverso un medium specifico. Possiamo ipotizzare che in questo caso un’intenzione rappresentativa abbia condotto Erika “casualmente” a raffigurare un oggetto specifico. Secondo la Kellogg il bambino come l’adulto, si deve servire delle forme base del disegno per raffigurare oggetti e paesaggi. Ed è appunto la modalità di composizione delle forme, che distingue il lavoro spontaneo del bambino dal lavoro dell’adulto, così come la composizione delle linee base distingue le Gestalt dell’arte infantile dai simboli dell’alfabeto. I bambini 220 Ci riferiamo a quelli che precedentemente abbiamo classificato “scarabocchi controllati”. 296 usano sempre le stesse formule per disegnare barche e veicoli a ruote, indipendentemente dal fatto che li abbiano visti o no. È facile che il bambino non dia definizioni figurative a queste formule prima che le senta da un adulto. A questo punto, forse per la prima volta, può vedere una certa somiglianza tra i suoi disegni, quelli degli adulti, le fotografie e la sua esperienza visiva di barche e veicoli. (Kellogg, 1969, p. 151). La raffigurazione chiama in causa l’intenzionalità a priori di produrre le caratteristiche formali degli oggetti del mondo esterno, secondo un codice culturalmente definito, nonché la capacità di collegare intenzioni e produzioni materiali: l’intenzione di rappresentare un aspetto del mondo reale o immaginato, crea una relazione di “somiglianza” tra simbolo e referente, “somiglianza” che, come abbiamo più volte sottolineato, può andare da un minimo ad un massimo. I disegni sono equivalenti: non sono né imitazioni né copie della realtà. Essi contengono solo alcune delle proprietà dell’originale e all’interno dei diversi contesti culturali, convenzioni più o meno esplicite, determinano quali proprietà debbano essere incluse e in che modo. I disegni di Oussama, sembrano avvalorare le teorie di coloro che sostengono che lo spostamento nella direzione della raffigurazione in senso sempre più “realisticamente codificato” (realismo visivo) abbia un’origine culturale. Tutta l’arte è un “fabbricare immagini” e, tutto il fabbricare immagini è radicato nella creazione di sostituti. Perfino l’artista “illusionista” è costretto a prendere come suo punto di partenza l’immagine convenzionale fatta dall’uomo, l’immagine concettuale. Strano a dirsi non può semplicemente “imitare la forma esterna di un oggetto”, se prima non ha imparato a costruirla […]. Wölfflin osservò una volta che tutti i quadri devono di più ad altri quadri che non alla natura. È una verità ben nota a chi studia le tradizioni della pittura, ma ancora mal compresa per quel che riguarda le conseguenze 297 psicologiche che se ne possono dedurre. La ragione sarà forse che, contrariamente a quanto credono e sperano molti artisti, l’”occhio innocente” che dovrebbe vedere il mondo con freschezza, in realtà non lo vede affatto, e anzi frizza e brucia acciaccato dalla tragedia caotica di forme e di colori che gli si para dinanzi221. In questo senso il «vocabolario convenzionale delle forme basilari» è indispensabile al bambino sia come punto di partenza, che per mettere a fuoco l’organizzazione del suo materiale, affinché si “configuri” come codice comunicativo. 4.2 Il disegno come “fare” e “saper fare” (aspetti procedurali del disegno?) Il sapere sul disegno nella nostra cultura continua di fatto ad avere una circolazione ristretta e, soprattutto quando investe problemi più squisitamente tecnici relativi alla produzione, rimane tacito appannaggio di coloro che sanno disegnare; non fa parte delle conoscenze generali ritenute formative. Si pensi alla scrittura. L’alfabetizzazione comporta una riflessione, anche minima, sull’uso. Siamo informati sull’esistenza delle regole di produzione. Studiamo grammatica e sintassi e sappiamo, sia pur vagamente, di essere eredi di una tradizione plurimillenaria non solo nell’uso ma anche nella riflessione. Nessuno ritiene che ciò sia negativo per la libertà di espressione del futuro scrittore o del futuro poeta. Lo studioso del linguaggio poi, che è sempre produttore e fruitore, parte anche da un sapere collettivo codificato. Lo psicologo che si occupa di disegno, normalmente, non sa disegnare. Ciò, oltre che significare 221 Gombrich, 1963, pp. 15-16. Per «immagine concettuale» Gombrich intende «quel tipo di rappresentazione ideografica che, più o meno, è comune ai disegni dei bambini e a varie forme di arte primitiva e primitivismo» (Ibidem, p. 14). Si tratta di quegli schemi figurativi che hanno indotto i teorici della teoria intellettuale a sostenere che il bambino disegni “quello che sa e non quello che vede”. 298 letteralmente, significa, per le ragioni sopradette, anche che non sa di disegno. (Pizzo Russo, 1988, p. 144). Qualsiasi intenzione espressiva passa necessariamente attraverso dei media che influenzano l'idea iniziale, trasformandola: il disegno è prima di tutto un “fare”; ma non essendoci linea diretta tra intenzione e medium (il medium interviene sull’intenzione limitandola e al contempo offrendole possibilità espressive) il disegno, tutto il disegno, è per di più, un “saper fare”222. Malgrado tutta l’importanza del “sapere che”, non si può dire che sia l’unico elemento chiave dello sviluppo. “Sapere come” è ugualmente importante, anche se più raramente studiato. Abbiamo bisogno di sapere, per esempio, come cercare un oggetto o un’informazione, come arrivare da X a Y, come ricordare, come apprendere, come progettare e organizzare una serie di azioni; in breve come tradurre il “sapere che” in azione. Si è tentati di supporre che, una volta impadronitisi dell’informazione, l’azione vera e propria possa aver luogo senza problemi. Per fare un esempio, siamo stati tentati di considerare l’inversione e altri errori di orientamento nella scrittura e nel disegno soltanto come “problemi di percezione” o indifferente all’importanza dell’orientamento. Certo, quello che il bambino vede o intende è una componente importante, ma non è una spiegazione sufficiente. Per dirla con David Olson, nessun disegno è “una rappresentazione automatica di un qualche mondo percettivo”. Ciò che si vede o si intende deve essere tradotto nell’azione del disegnare; e ciò che dobbiamo comprendere in maniera più completa è la natura di tale traduzione e di tale azione. (Goodnow, 1977, p.12). 222 «Molte opere sulle manifestazioni grafiche infantili hanno spesso il torto di muoversi sul terreno di una eccessiva superficialità finendo con il perdere di vista contenuti culturali molto più ampi. Ci si comporta insomma come se il bambino fosse un essere venuto da un altro pianeta e le sue manifestazioni, pertanto, non avessero niente a che fare con l'eterno problema dell'artista di trovare un medium per dare corpo e immagine ai contenuti dell'esperienza» (Piantoni, 1992, p. 94). 299 E’ proprio “il raffigurare” che implica qualcosa di specifico e diverso rispetto all’ascoltare-vedere-narrare: in questo genere di attività bambini devono risolvere il problema di agire “una grammatica” e “una sintassi” grafica per la comunicazione di un’esperienza personale. Riteniamo che per comprendere l’attività grafica del bambino sia pregiudiziale occuparsi delle caratteristiche di questo medium e degli usi culturali che, di fatto, ne vengono fatti. Tenere presente, quindi, non solo quanto la nostra cultura considera arte, ma anche quanto etichetta come disegno tecnico-scientifico. Non come modalità separate e opposte, in quanto fondate sul sentimento l’una e sulla ragione l’altra, con tutto il corredo di coppie oppositive che ne conseguono, ma il disegno in quanto tecnica che lungo i secoli è stata utilizzata per assolvere funzioni molteplici, specializzandosi in campi operativi diversi come mostra la ricca, variegata, complessa e intricata fenomenologia. (Pizzo Russo, 1988, p. 146). Nell’analizzare il ruolo del disegno (sia artistico che tecnico scientifico) nell’interpretazione ottica della realtà, Massironi giunge alla conclusione che i diversi tipi di disegni che si possono produrre, corrispondono anche a “funzioni” ben distinte all’interno di schemi di raffigurazione dissimili. Sono anzi le funzioni, in un certo qual modo, a determinare la configurazione significante all’interno della quale agisce effettivamente il disegno (Massironi, 1982). Dal nostro punto di vista si tratta di una metodologia interessante perché evita una classificazione dei disegni dei bambini basata su un palinsesto unicamente “concettuale” e lontano dal contesto d’uso. Il criterio di “funzione” permette di isolare gli elementi sostanziali dei vari schemi di raffigurazione, precisandone l’origine, attraverso la modalità d’uso. Ma vediamo nel dettaglio la teoria di Massironi. 300 In Vedere con il disegno l’autore si propone di analizzare il funzionamento del disegno smontandone cognitivamente il meccanismo: analizzare il disegno cercando di approfondire tutti gli elementi e i processi che intervengono nella determinazione del dato rappresentato. Si vuole cioè tentare lo smontaggio del sistema del disegno nelle sue componenti elementari e la determinazione degli effetti delle intenzioni fra tali componenti. (Massironi, 1982, pp. 9-10). L’autore propone di distinguere gli elementi del disegno in primari, «strutturalmente fondamentali per indagare il modo di costruirsi della notazione grafica» (ibidem, p. 10) e secondari. Gli elementi secondari sono quelli relativi ai portati del luogo e del tempo e della cultura che produce il disegno, oltre a quelli propri della personalità e dello stile dell’autore [e] possono essere diversi da tempo a tempo, da luogo a luogo, da disegnatore a disegnatore, al limite da disegno a disegno. (Ivi). Gli elementi primari individuati sono: la caratteristica del segno (traccia); la posizione fenomenica del piano di rappresentazione; il processo di enfatizzazione-esclusione degli elementi messi in rapporto al fine della rappresentazione (lo scopo informativo immediato a cui tende). Gli elementi secondari sono il campo d’indagine della storia e della critica d’arte, mentre quelli primari possono rientrare nel campo di studio della psicologia. Massironi differenzia poi, all’interno degli elementi primari quelli di “primo livello” (la traccia) da quelli di “secondo livello” (il piano della rappresentazione) poiché la posizione del piano di rappresentazione è un elemento che non si può dare da solo e va mediato attraverso le tracce di primo livello. 301 Le caratteristiche del segno (la traccia) «sono definite dal tipo di vissuto percettivo che inducono nell’osservatore». Per l’autore esistono solo tre modi di utilizzazione della traccia: il segno oggetto, il segno contorno, il segno tessitura223. Il segno oggetto (la «linea oggetto di Arnheim») è quello nel quale la traccia si identifica con l’oggetto rappresentato: per esempio una linea sinuosa al posto di un serpente. Questo segno è il più sintetico in assoluto: prevede con la sua sola presenza di individuare un’esistenza e di creare un rapporto tra figura e sfondo: la caratteristica di questo tipo di segno è di essere aperto e di presentarsi come isomorfo rispetto ad un oggetto ad esso assimilabile o anche come oggetto autonomo indipendentemente dal significato cui può essere ricondotto. (Massironi 1982, p. 11). Il segno contorno o «linea-margine» delimita una superficie e «ciò avviene quando il segno è chiuso» In questo caso oggetto della percezione è (anche) la superficie racchiusa dal segno. Tale segno «acquista una funzione unilaterale, appartiene sempre cioè alla figura e mai allo sfondo. Il segno abdica così alla sua caratteristica di oggetto a favore dello spazio che esso racchiude» (ibidem, p. 12) Il segno tessitura è il «tratteggio» di Arnheim, solitamente studiato come chiaroscuro quando veniva utilizzato per dare spessore alle figure. Quando la traccia sul piano si ripete sempre uguale a se stessa, o mutando in progressione sistematica, con intervalli regolari, oppure anche irregolari, ma sempre molto piccoli, la superficie interessata da 223 Come lo stesso Massironi puntualizza, queste tre utilizzazioni della linea sono le stesse individuate da Arnheim (linea-tratteggio, linea-oggetto, linea-margine) in Arte e percezione visiva. Se per il tratteggio bisogna considerare soprattutto il capitolo relativo alla luce, per la linea-oggetto e la linea-margine, nel capitolo sullo sviluppo, dopo la precisazione che la linea è il primo elemento dell’attività artistica infantile, vi è un puntuale riferimento al doppio carattere che questa assume nel giro di poco tempo, diventando linea margine (cfr. Arnheim, 1954). 302 questo tipo di intervento viene definita “tessitura”. La traccia grafica può assumere qualsiasi andamento o caratteristica lineare, incrociata, tratteggiata, punteggiata, imprecisa, ecc224. Le linee utilizzate nelle tre modalità sopra riportate, possono essere tracciate con strumenti, e di conseguenza apparire come «precise», o a mano libera e apparire «variate». Per quanto riguarda la superficie su cui si dispongono le tracce (il piano di rappresentazione e non il piano fisico di supporto) essa viene definita in relazione al piano di visione (al nostro modo di guardare gli oggetti). Essa può assumere vari gradi di inclinazione e in tal modo diventare parte strutturale del processo di raffigurazione. Tale funzione strutturale e strutturante dell’immagine grafica è assolta facendo sì che la superficie di supporto informi circa la posizione di osservazione degli oggetti rappresentati. Usiamo il termine posizione nel suo doppio significato di collocazione fisica dell’osservatore rispetto alle cose osservate e di intenzione comunicativa privilegiata di alcuni contenuti percettivocognitivi, rispetto ad altri possibili. (Massironi, 1982, p. 17). Secondo Massironi, a seconda di come l’osservatore vede il disporsi delle superfici degli oggetti rappresentati, si producono in lui aspettative e approcci diversi al disegno, da cui deriva l’importanza della disposizione di tali piani. Riprendendo la distinzione operata da Gibson225 sui modi fondamentali di osservare e rappresentare gli oggetti, Massironi 224 Ibidem, pp. 12-13. Massironi ricorda che l’affinamento nell’uso della tessitura è stato uno dei risultati dell’introduzione della prospettiva, in particolare della “prospettiva aerea”, «che vuole dare il senso della profondità solo con lo sfumare dei contorni e delle superfici a seconda della dislocazione degli oggetti in profondità» (Ibidem, p. 15). La funzione della tessitura nella percezione della profondità è stata sottolineata anche da Gibson che ha introdotto il termine di “gradiente di stimolazione” (cfr. Gibson, 1979). 303 individua due modalità possibili di declinazione del piano di rappresentazione, ovvero del disporsi degli oggetti nella rappresentazione grafica. Il piano di visione è frontale «quando i piani rappresentati incontrano perpendicolarmente l’asse ottico»226 e, di conseguenza, il vissuto percettivo indotto dal segno grafico è di «emersione»; il piano di visione è invece inclinato quando si presenta come longitudinale o variamente inclinato rispetto all’asse ottico e l’effetto percettivo è di «sfondamento»227. Le possibili combinazioni degli elementi di primo e secondo livello non sono casuali, ma consequenziali a precise scelte che regolano, sia pure implicitamente, l’articolazione degli elementi a seconda dei contenuti e delle finalità che il disegno si propone. Contenuti e finalità sono culturalmente determinati. 225 «L’interazione visiva con i piani di cui sono costituiti gli oggetti è, secondo Gibson, la condizione che ci permette di vedere la profondità e di assumere informazioni circa lo spazio del nostro agire. Se però si passa dall’esperienza diretta degli oggetti alla loro trascrizione grafica si hanno due tipi di rendimenti percettivi; quando i piani rappresentati sono prevalentemente longitudinali la superficie del segno si sfonda e gli oggetti appaiono vivere in uno spazio complesso e polidimensionale, mentre quando i piani sono fronto-paralleli, gli oggetti così raffigurati paiono emergere dalla superficie e, proprio in forza della loro dichiarata bidimensionalità, costituirsi come concettualizzazioni, quasi astrazioni cognitive» (Massironi, 1982, p. 24). 226 Ibidem, p. 19. I due piani di visione possono poi convivere in alcune opere d’arte contemporanea (come ad esempio nei quadri di Escher) o in figure oggetto di indagine psicologica (le cosiddette “figure incoerenti” o “impossibili”) il cui scopo è proprio quello di indurre vissuti di conflitto o di ambiguità. «Il fruitore di immagini di questo tipo si trova a vivere un’esperienza complessa che lo porta a verificare concretamente come l’atto percettivo sia cognitivamente complesso; infatti si trova ad attraversare coscientemente alcuni passaggi in cui visione e pensiero si integrano: la condizione osservata è assunta come problematica e conflittuale, viene esperito un vissuto di incongruità che attrae e infastidisce allo stesso tempo per cui si innescano tentativi di soluzione del conflitto a livello sia percettivo che mentale» (ibidem, p. 20). 227 «La rappresentazione dei piani inclinati rispetto alla linea di vista ha trovato nel metodo prospettico le regole per la sua trascrizione; mentre quel filone della geometria descrittiva formalizzatosi nelle proiezioni mongiane ha individuato i sui fondamenti nella presentazione dei piani frontali degli oggetti, questa scelta ha avuto una lunga serie di precedenti intuitivi e di esiti tecnici anche prima di Monge, così come era avvenuto per certe e parziali rappresentazioni della profondità prima di Brunelleschi e dell’Alberti» (Ibidem, pp. 23-24). 304 Trattandosi di disegno «la prima scelta consisterà nel prediligere le qualità visive e nel trascurare le altre […]; ma per rendere informativo l’elaborato si dovranno effettuare dalle scelte anche tra le qualità visive» (ibidem, p. 56). Questo porta, durante il processo rappresentativo ad enfatizzare alcune caratteristiche percettive e ad escluderne altre: «in ogni immagine alcuni tratti, elementi, o caratteristiche, sono evidenziati in modo che risultino ben leggibili, altri invece vengono completamente trascurati, volutamente ignorati, cancellati come se non esistessero». E proprio per questo «ogni rappresentazione grafica […] è sempre un’interpretazione e quindi un tentativo di spiegazione della realtà stessa» (ibidem, rispettivamente pp. 56 e 55). Tuttavia con il termine “oggetto” bisogna intendere non solo quanto esiste materialmente, ma anche quanto può essere immaginato, pensato, supposto, progettato, ipotizzato, così come ciò che può esistere per effetto della suggestione, dell’errore, delle allucinazioni, del sogno, ecc. (Ibidem, pp. 73-74). Tutto questo è disegnabile: tramite il disegno può essere reso visibile anche l’invisibile che può riguardare l’area del “fantastico” o, nella vasta area scientifica, il campo degli “oggetti osservabili”228. La ricca produzione “ipotetigrafica”, e l’abbondante letteratura scientifica sull’importanza dell’immagine visiva nelle scoperte scientifiche 228 Massironi propone di chiamare quest’ultimo campo ipotetigrafia che «può essere definita sinteticamente come quell’elaborato grafico con cui forme e strutture non visibili del mondo naturale vengono raffigurate visivamente». Esempi di ipotetigrafia sono gli “anelli” con i quali vengono rappresentate le molecole, la doppia elica del DNA, lo schema del sistema solare… tutte cose che non esistono se non nei nostri sistemi di conoscenza. «L’essenza dell’ipotetigrafia poggia sulla convinzione che il primo passo sulla via del dimostrare sia costituito dal mostrare. Cioè porre in evidenza mediante artifici visivi quella parte, quel nocciolo di contenuto che risulta irriducibile all’espressione verbale» (Ibidem, p. 159). 305 evidenzia un fatto spesso trascurato e cioè che la percezione presiede non solo l’acquisizione e l’organizzazione dei dati provenienti dal di fuori, ma anche di quelli provenienti dal di dentro. E con ciò non si vuole intendere solo il momento dell’autopercezione o della percezione di sé come è sovente indagare in ambito psicologico, ma anche quella capacità di osservare il frutto dei nostri pensieri e delle nostre meditazioni, come dati da filtrare allo stesso modo dei dati sensoriali sì da constatare la funzionalità operativa nei confronti del problema che stiamo affrontando. (Ibidem, p. 136). A partire dalla combinazione degli elementi primari e secondari, tenuta presente la qualità del segno (preciso o variato) Massironi elabora la seguente tabella229: P.= preciso V.= variato X.= frequente O.= presente, non frequente FUNZIONE COMUNICATIVA Illustrativa PREMINENZA DI PIANI LONGITUDINALI PREMINENZA DI PIANI FRONTALI Segno oggetto Segno margine Segno tessitura Segno oggetto Segno margine P P P P P V O V X V V P V X Operativa X Tassonomica Diagrammi V Segno tessitura X O O X Segnaletica 229 O X X O O X X La tabella, nelle intenzioni dell’autore, ha solo valore illustrativo e non ha pretesa di essere esaustiva dell’enorme varietà che presenta la produzione grafica. Le funzioni comunicative presenti nella tabella sono insiemi macroscopici che potrebbero essere divisi in sottoinsiemi. All’interno della funzione illustrativa, ad esempio, possono essere messi, separatamente il fumetto, la caricatura, l’immagine satirica, il disegno in prospettiva… 306 Tabella 1: articolazione delle componenti del disegno a seconda del fine comunicativo che la notazione grafica si propone. (Massironi, 1982). La portata dello strumento d’analisi ci sembra notevole sia applicato in riferimento allo sviluppo grafico, che considerato come strumento critico per gli studi che sono stati fatti a riguardo. Se osserviamo la differenza tra il disegno a funzione operativa (disegno che riguarda quegli schemi grafici che devono essere interpretati da un esecutore per realizzare un’opera: schemi elettrici, piante di case…) e quello a funzione illustrativa230, vediamo che cambia non solo il piano di rappresentazione ma anche la tipologia di tratto in rapporto all’uso della traccia. Disegno a funzione tassonomica231 e a funzione operativa mantengono invece lo stesso 230 «La funzione illustrativa può accogliere al suo interno quel corpus di elaborati grafici che si propongono di rappresentare gli oggetti, le scene, i paesaggi cercando di approntare e organizzare gli stimoli percettivi in modo da produrre nell’osservatore vissuti analoghi a quelli provenienti da oggetti, scene, paesaggi dello stesso tipo osservati nella realtà. Non è certamente preclusa, a questo tipo di notazione, la possibilità di rappresentare, in maniera illustrativa-spettacolare, situazioni od oggetti inesistenti. Queste immagini sono però costruite come se fossero osservate in un’ipotetica realtà che viene descritta illustrativamente, cioè allusivamente, in modo che chi la osserva l’assuma come percettivamente credibile: rappresentazione di un mondo riconoscibile anche se sconosciuto. Questo processo può instaurarsi proprio perché le modalità di realizzazione dell’elaborato seguono le regole e utilizzano gli strumenti propri della funzione illustrativa» (Massironi, 1982, pp. 29-30). 231 «Le immagini elaborate in vista di una funzione tassonomica presentano dei tratti costanti […] il più caratteristico dei quali consiste nell’uso del piano di rappresentazione frontale su cui però il segno variato e la tessitura contribuiscono a fornire l’impressione di un’immagine di tipo illustrativo. Le regole strutturali su cui si basa la rappresentazione tassonomica sono le seguenti: a) uso del piano frontale; b) segno variato nelle sue tre declinazioni; c) abolizione dello sfondo visto come elemento di disturbo alla lettura del disegno. In ciò si assiste ad un superamento del metodo prospettico: non è stato facile ed immediato, per i disegnatori, rinunciare a quella conquista suggestiva anche quando le esigenze comunicative lo richiedevano […]. Ora, invece, non solo si rinuncia allo sfondo, d) ma si forza anche la rigida fissità del punto di vista pur di andare ad indagare i tratti significativi delle strutture». Il disegno «sembra rappresentare un individuo della specie osservato-copiato dal vero, ma ad un più attento esame ci rendiamo conto che ciò non è vero; l’immagine che guardiamo è sì un individuo della specie descritta, ma è un 307 piano di rappresentazione ma variano rispetto alla tipologia di tratto utilizzato per i diversi segni. Differenti esigenze di visibilità assieme ad altrettante diverse modalità di intendere la visibilità, ci restituiscono il disegno come strumento cognitivo e come modalità espressiva-comunicativa altamente articolata (e codificata). Una prima considerazione che possiamo azzardare tenendo presente la tabella, che, come sottolineato dall’autore, non ha pretese di esaustività rispetto alle ancora varie modalità codificate dalla nostra cultura di “fare disegno”, è che gli studi sul disegno infantile, sia quelli di matrice “intellettuale” che “artistica”, si sono concentrati sugli elementi secondari del disegno (uso dei piani di rappresentazione), piuttosto che su quelli primari. Al contrario, la ricerca della Kellogg (l’analisi minuziosa degli scarabocchi base, il loro posizionarsi in modelli di posizione, la formazione dei diagrammi, degli aggregati, dei soli, delle radiali e dei primi schemi figurativi) può essere considerata un primo sistematico tentativo di studio degli elementi primari. Una seconda considerazione riguarda l’attenzione che è stata riservata al disegno a funzione illustrativa, il cui sviluppo ha segnato, nella teoria di molti, il traguardo finale dello sviluppo del disegno infantile tout court. Se ci volessimo attenere alla tabella potremmo poi scoprire che il disegno illustrativo è caratterizzato dall’uso di piani longitudinali o variamenti inclinati, un uso dello spazio rappresentativo non caratteristico del disegno dei bambini: quest’ultimo risulta essere più individuo emblematico, costruito appositamente per esporre dichiaratamente quegli attributi visivi su cui potrà basarsi un discorso di ordinamento e di sistematizzazione morfologica […] E’ per questa ragione che ancora oggi si preferisce usare il disegno piuttosto della fotografia; perché la fotografia, riprendendo un individuo non potrebbe prescindere dai tratti singolari e fuorvianti, mentre il disegno lo può fare in maniera elegante e convincente» (Ibidem, pp. 45-48). 308 vicino al disegno scientifico o, ancora di più, a quello tassonomico, visto che è eseguito a mano libera. Alcuni disegni dei bambini sembrano poi più vicini al disegno geometrico (per uso di proiezioni e ribaltamenti) che a quello “naturalistico”. Tuttavia il disegno “spontaneo” dei bambini è ancora precedente qualunque modalità codificata di produzione, ad uno stadio precedente l’articolazione dei diversi contenuti storico-culturali riportata in tabella, quindi, non può nemmeno essere considerato propriamente né tassonomico, né illustrativo, né scientifico fermo restando che, realizzandosi lo sviluppo in un contesto culturale caratterizzato da una differenziazione delle regioni grafiche, le diverse regioni dovrebbero essere tenute tutte presenti quanto meno come esiti dello sviluppo stesso. (Pizzo Russo, 1982, p. 153). Senza incorrere nell’errore di leggere la genesi del disegno come finalizzata in un senso piuttosto che in un altro, vorremmo poter considerare l’età evolutiva come quel periodo in cui il bambino della nostra cultura sviluppa i concetti rappresentativi di base necessari ai molteplici esiti specialistici. Il disegno, tutto il disegno, «è ciò che rende visibile la natura delle cose» (Arnheim, 1954, p. 147) ma il compito apparentemente elementare di raffigurare su un foglio le proprietà “essenziali” della sagoma di un oggetto è tutt’altro che facile. Abbiamo visto in un paragrafo precedente come Arnheim, per spiegare lo sviluppo del concetto rappresentativo, ricorra al processo di differenziazione individuandone la direzione dal «generale al particolare»232. La legge di differenziazione è essenziale per 232 Dello stesso parere è anche Gombrich secondo il quale «la nostra mente, ben inteso, funziona in base alla differenziazione, piuttosto che per generalizzazione; e un bambino per molto tempo seguiterà a chiamare tutti i quadrupedi “cavallino”, finché non avrà imparato a distinguere le varie specie di quadrupede e le loro “forme”» (Gombrich, 1963, pp. 4-5). 309 comprendere l’andamento evolutivo degli elementi primari (sia di primo che di secondo livello) individuati da Massironi. Relativamente alla produzione di segni, sappiamo che il bambino già a 2 anni, è in grado di produrre i tre tipi di linea (oggetto, margine, tessitura): negli scarabocchi base individuati dalla Kellogg, tutte e tre le tipologie di segni non solo sono presenti, ma caratterizzano la composizione degli scarabocchi. Quando il bambino inizia a comprendere il valore segnico delle sue linee, usa di preferenza il segno-margine e il segno-oggetto in funzione rappresentativa, mentre il segno-tessitura è utilizzato solo per riempire spazi vuoti. Esempio eloquente di segno-oggetto, è la grafica di Dorian (4,1) nella rappresentazione del padre in figura 67, p. 42; mentre in figura 111, p. 71, Leon (4,6) utilizza le due tipologie di linea nella medesima grafica: una linea a spirale aperta (scarabocchio n. 15 nella classificazione della Kellogg) per “l’elefante”, e segni margine per “i bambini che stanno giocando il gioco degli animali”. Felix (5,10) in figura 45, p. 29, utilizza la stessa tipologia di segno per rappresentare il corpo dei suoi canguri e rispondere alla necessità informativa rispetto alle caratteristiche dinamico-funzionali dei suoi soggetti. In un secondo momento, anche il segno-tessitura assumerà valore rappresentativo per caratterizzare ad esempio la terra, il prato, il cielo, il fumo del camino o per altri elementi. Diverse tipologie di segno possono coesistere nella medesima grafica, come in figura 112, p. 72, in cui Fabrizio (6,3) utilizza il segno-margine per rappresentare la casa, il sole, il volto delle figure; il segno-tessitura per il cielo, il fumo che esce dal camino, i capelli; il segno-oggetto per le mani e, in modo ancora non del tutto differenziato segno-oggetto e segno-margine per la rappresentazione del corpo delle diverse figure (tronco/gambe). 310 Segno-oggetto, segno-margine, segno-tessitura si compongono per dare forma a concetti rappresentativi sempre più differenziati e complessi: la forma si differenzia per suddivisione e per fusione. Le difficoltà che sorgono in questo processo dialettico riguardano la relazione tra le unità che hanno “preso forma” e la soluzione a questo problema comporta la comprensione che la parte va modificata nell’interesse del tutto; [in quanto] la forma ed il comportamento particolare della parte sono comprensibili soltanto entro la funzione di essa entro l’insieme. In quanto problema conoscitivo, l’interazione pone difficoltà a tutti i livelli del pensiero teorico; in quanto problema di interazioni personali, resta per molti sempre insolubile. (Arnheim, 1969, p. 312). Nei primi stadi dello sviluppo, la relazione tra le parti non modifica i singoli elementi, né essa viene trattata in relazione al tutto. In figura 112, p. 72, ad esempio, il camino è perpendicolare al tetto, ma non alla casa. In figura 113, p. 73, riportiamo invece alcune soluzioni elaborate dai bambini per rappresentare una tartaruga233. Emily [114-a] sceglie una vista dall’alto (o dal basso?) per rappresentare il guscio, la coda e le (sei) zampe, e una prospettiva frontale per il muso; Giulia [114-b] sceglie invece una vista di lato per 233 Nel periodo in cui sono state raccolte le grafiche, i bambini stavano partecipando ad un laboratorio di teatro della durata complessiva di nove ore (un incontro settimanale della durata di un’ora) condotto da un esperto esterno che proponeva loro, utilizzando come sussidio didattico un libro illustrato (cfr. C. Carminati, R. Angarano, Il carnevale degli animali ispirato alla grande fantasia zoologica di Camille Sain-Saën, Fabbri Editori, 2004), la narrazione di storie che avevano come protagonista un animale diverso per ogni incontro. Nel corso del laboratorio, i bambini avevano la possibilità di osservare le immagini che raffiguravano gli animali (durante la narrazione, ma anche nei giorni successivi, in quanto il libro era a loro disposizione in sezione) e di sperimentarne, attraverso la drammatizzazione, le “caratteristiche” attraverso le attività che di volta in volta erano proposte dall’esperto. L’argomento del laboratorio era poi approfondito nei giorni successivi con le insegnanti di sezione attraverso conversazioni, visione di altri libri che trattassero l’animale oggetto del laboratorio, rappresentazioni graficopittoriche e plastiche. 311 il corpo e non “sacrifica” parte del guscio (come invece aveva fatto con uno dei due occhi nella rappresentazione del muso), rispettando la prospettiva scelta per il corpo, preferendo una rappresentazione per intero dello stesso con vista dall’alto. Mariano [114-c] opera la stessa scelta fatta da Giulia (una rappresentazione di “profilo”) ma, a differenza di Giulia, è disposto a “sacrificare” due gambe e parte della forma del guscio per sottolineare la vista di lato, ma non rinuncia ai lineamenti del muso: i due occhi mettono in prospettiva frontale la testa della tartaruga. Linda [114-d] propone il guscio visto dall’alto, il corpo, nell’insieme, sembra essere visto di lato, e il muso è rappresentato di fronte. Infine la tartaruga di Nadia [114-e] ha guscio e corpo visti dall’alto e il muso di profilo. In molti degli esempi precedenti possiamo vedere lo stesso procedimento: particolarmente informativo a riguardo è il disegno di Martina (5,11) in figura 61, p. 38, in cui la prospettiva dall’alto della carrozzina, contrasta fortemente con quella frontale delle altre figure della famiglia. Lungo lo sviluppo, da soluzioni «su scala ristretta e locale» il bambino passa a soluzioni in cui il contesto di riferimento si fa sempre più ampio più ampio, e gli elementi si articolano maggiormente in connessioni reciproche. Abbiamo anche visto che tra gli elementi primari Massironi distingue quelli di primo livello (le varie tipologie di segni) e quelli di secondo livello (il piano fronto-parallelo e quello longitudinale o variamente inclinato); sembrerebbe che questi due piani siano di secondo livello anche da un punto di vista dello sviluppo del grafismo. Mentre nello “stadio” dello scarabocchio, il bambino sperimenta le diverse tipologie di segno [figure 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, pp. 7-16; figure 24 25, 26, 27, pp. 18-19; figure 30, 31 pp. 21-22; figura 39, p. 26], il disegno prevede un’attenzione crescente rispetto all’uso del piano di rappresentazione [si rimanda in particolare alle figure 51, 52, 53, 54, 55, pp. 33-35; figure 58, 59, 60, 312 61, 62, 63, 64, 65, 66, pp. 36-41; figure 81, 82, 83, 84, 85, 86, pp. 5053; figure 92 e 93, p. 57; figura 95, p.59]. Del resto le rispettive rappresentazioni non discendono direttamente dalle proprietà strutturali del medium bidimensionale, qual è quello del disegno, ma dalla conoscenza e dall’acquisizione di particolari tecniche rappresentative – la prospettiva e le proiezioni ortogonali – estremamente sofisticate e capaci di rendere conto delle tre dimensioni dello spazio attraverso le due dimensioni del piano. (Pizzo Russo, 1982, p. 238). Il foglio bidimensionale impone determinate condizioni alla realizzazione della tridimensionalità: i bambini possono scegliere di rappresentare per ognuna delle figure che intendono raffigurare il piano di base che meglio le caratterizza [come ad esempio in figura 114, p. 74], oppure danno vita al fenomeno della “trasparenza”, che può essere letta come l'interazione di due piani fronto-paralleli “visti” uno dietro all’altro. Finché la veduta bidimensionale non si differenzia dalla veduta proiettiva, la superficie pittorica piana serve a rappresentare entrambe. Questo si ottiene in due modi. Il bambino può servirsi della dimensione verticale della superficie piana per fare una distinzione tra alto e basso e di quella orizzontale per distinguere tra destra e sinistra, ottenendo così quello che chiamerò lo “spazio verticale”. Oppure può usare le due dimensioni per indicare le direzioni della bussola proiettate sul piano del terreno, il che produce uno “spazio orizzontale”. Oggetti in posizione eretta, come esseri umani, alberi, pareti, gambe di tavoli, risultano in maniera chiara e caratteristica nello spazio verticale, mentre giardini, strade, piani di tavoli o tappeti esigono lo spazio orizzontale. Un’ulteriore difficoltà sorge per il fatto che nello spazio verticale uno solo degli innumerevoli piani verticali può venir rappresentato in maniera diretta, cosicché la raffigurazione di una casa è possibile solo per quanto riguarda la facciata frontale, 313 ma non per quelle laterali contemporaneamente. Per questo deve ricorrere a qualche espediente di rappresentazione indiretta. Allo stesso modo, nello spazio orizzontale possono apparire piatti sul tavolo ma non, nella stessa figura, il cane sotto il tavolo. (Arnheim, 1954, pp. 173-174). In figura 60, p. 37, Jonny (5,6) utilizza la dislocazione degli elementi della rappresentazione all’interno del “piano verticale” per rendere la terza dimensione: il palcoscenico è collocato in alto (più “lontano”), sotto i personaggi, e nella parte finale gli spettatori visti “a rovescio”. Nelle figure 114 e 115, p. 74 abbiamo due diversi esempi di “trasparenza” dovuti invece all’incrociarsi dei diversi piani della rappresentazione. Nella prima figura Glenis (6 anni) sovrappone il piano orizzontale dell’auto, con quello verticale del guidatore, mentre nella seconda immagine, Marta cerca di rendere la terza dimensione con un procedimento “più tecnico”: prima si disegna, e poi “si traveste” sovrapponendo i due piani verticali. Si rivedano ad esempio i disegni precedenti raffiguranti case o palestre: essi possono essere considerati «equivalenti bidimensionali» dei medesimi soggetti, piuttosto che case o palestre “trasparenti”. Arnheim (1954) dichiara che si tratta di accorgimenti prospettici che hanno le loro esemplificazioni, oltre che nei disegni infantili, nelle pitture murali egiziane e ci invita ad essere cauti nella valutazione di questo procedimento raffigurativo in quanto la rappresentazione pittorica è basata sul concetto visivo dell’oggetto tridimensionale nella sua totalità; il metodo di copiare un oggetto o un insieme di oggetti da un punto di osservazione fisso – all’incirca il procedimento impiegato con la macchina fotografica - non è più fedele alla concezione visiva globale di quanto non sia quello usato dagli egiziani. (Ibidem, p. 105). 314 e, aggiungeremo noi, dai bambini. In questo e in altri casi dimostrano una sensibilità eccezionale e immediata per le condizioni imposte dal medium, e sono spesso molto competenti nell’utilizzare informazioni aggiuntive per realizzare le loro rappresentazioni. Dopotutto le loro produzioni non fanno altro che contraddire una convenzione che “raramente” è messa in discussione: quella di includere in un disegno soltanto ciò che è visibile da un unico punto di vista. «Per quanto riguarda gli artisti primitivi, possiamo supporre che la convenzione non venga seguita e possiamo chiedere a noi stessi: perché dovrebbe esserlo?» (Goodnow, 1977, p.72). I concetti rappresentativi di questo tipo presentano tuttavia delle “ambiguità” dovute al fatto che le unità bidimensionali dei disegni sono a seconda della necessità, degli equivalenti di solidi oppure gli aspetti bidimensionali della superficie esterna degli oggetti stessi o entrambi contemporaneamente […]. Ed è proprio a causa di questa ambiguità che questo metodo viene usato soprattutto in stadi evolutivi primitivi e viene abbandonato molto presto dai bambini occidentali234. La legge della differenziazione e le peculiarità del medium grafico, consentono di dare una spiegazione coerente a tutte le caratteristiche “tipiche” del disegno infantile, caratteristiche che hanno portato alle due grandi correnti interpretative, della concezione intellettuale e dinamica. 234 Arnheim, 1954, p. 173. Secondo A. Oliverio Ferraris «con l’acquisizione della prospettiva la rappresentazione si subordina a un unico punto di vista e il ragazzo impara a immobilizzare gli altri aspetti della realtà in funzione di quell’unico scelto, il che può impoverire quella visione dinamica delle cose che è la caratteristica principale della fase evolutiva precedente. Nel periodo pre-prospettico il bambino, rappresentando diverse angolazioni di uno stesso soggetto, fa confluire tutta la somma delle sue conoscenze intellettuali e delle sue emozioni sulle cose che rappresenta; riferisce cioè la realtà sulla base dei suoi apprendimenti, delle sue relazioni mentali, mnemoniche e psichiche». (Oliverio Ferraris, 1973, p. 56). 315 Nel disegno di Jonny (5,7) in figura 116, p. 75, confluiscono gran parte di queste caratteristiche: la compresenza di diversi punti di vista (il gatto, il mulino, il grano e il bidone visti di fronte; la strada dall’alto); il fenomeno della “trasparenza” (il mulino) e del ribaltamento (il gatto e il bidone che si “aprono” lungo la strada). Altre caratteristiche del medium bidimensionale condizionano l’esito finale della rappresentazione: analizzando gli aspetti processuali che la raffigurazione comporta abbiamo visto come in ogni disegno sia sempre implicita una sequenza e una direzione di movimento che ha effetto sulle possibili fasi successive, aumentando o limitando le facoltà di scelta. Questo condiziona la scelta e la modalità rappresentativa degli elementi da enfatizzare o eliminare, a seconda di quello che vuole essere “il messaggio” finale. Ad esempio, in figura 117, p. 75, Alexey (5,10) è “costretto” ad indicare la strada di casa al contadino che guida il trattore: avendo finito lo spazio a disposizione nella parte inferiore del foglio, e avendo proposto un altro tema rappresentativo, trova nella freccia (elemento grafico a tutti gli effetti, anche se non ha carattere mimetico) una soluzione convincente per dare continuità alla sua rappresentazione. L’ordine in cui sono stati disegnati gli elementi, non è lo stesso in cui di seguito sono stati verbalizzati. La sequenza rappresentativa è stata: trattore/contadino/terra/erba/nuvole/pioggia/pozza/bambino/freccia/c asa. In didascalia riproponiamo l’ordine in cui ha successivamente verbalizzato all’adulto il disegno. La tartaruga di Desiree (5,7) in figura 118, p. 76, sembra invece piuttosto “sbilanciata in avanti”. La sequenza con cui la bambina ha disegnato è stata: guscio, testa con tratti del volto, prima gamba a sinistra, seconda, terza e quarta (da sinistra a destra), coda, particolari del guscio. Affinché la sua tartaruga potesse stare “in 316 piedi” ha dovuto allungarle le gambe creando uno strano effetto di piegamento. Il problema degli “spazi disponibili” può spiegare diverse caratteristiche delle grafiche dei bambini, comprese le posizioni assegnate ai dettagli. Nella rappresentazione grafica di Fabrizio (6,3) in figura 112, p. 72, non solo la casa è posta sopra alla famiglia, come se fosse sospesa in aria, ma due delle figure rappresentate (lui e il fratello) non hanno le braccia. La consegna era il disegno della famiglia (una consegna molto utilizzata in ambito clinico), e Fabrizio ha iniziato a disegnare nell’angolo in basso a sinistra e ha proceduto verso destra. La prima figura, le cui braccia sono perpendicolari al corpo, ha causato l’omissione delle braccia della seconda, dal momento che Fabrizio ha posizionato la testa della seconda troppo vicina alla prima; la terza figura aveva invece spazio disponibile per includere le braccia, ma non la quarta. Infine l’unico spazio disponibile rimasto per disegnare anche la sua casa era quello in alto. Il contrario di quello che è successo a Livia (5 anni), [fig. 100, p. 61], che nel disegno dello stesso tema, avendo iniziato a disegnare dalla sua casa, è stata costretta a mettere poi i componenti della famiglia “in aria”. Analoghi problemi di “spazio disponibile” si possono osservare anche in figura 2a (una torta esageratamente grande rispetto alle persone); in figura 83, p. 51, (un serpente realisticamente attorcigliato per stare nel foglio); nelle figure 33, p. 23, e 65, p. 40, (dove le lunghe gambe delle figure completano lo spazio disponibile nel foglio). Allo stesso modo, i treni di Jonny [figura 94, p. 58] vanno a sinistra (quando è stato in grado di produrre una locomotiva soddisfacente, la disegnava per prima in basso a sinistra) mentre, i trattori di Alexey [figure 95, p. 59 e 117, p. 75] vanno tutti a destra. Alexey è infatti mancino, e inizia a disegnare sempre partendo dall’angolo in basso a destra, procedendo verso sinistra. 317 Nel suo disegno Glenis (6,3), in figura 119 p. 76, ha dovuto organizzare lo spazio del foglio su “due piani”. Ha disegnato prima un grosso camion con il rimorchio che avrebbe dovuto portare i regali di Natale. Lo spazio disponibile rimasto per disegnare la casa era quello sopra al camion, mentre, la macchina, messa a fianco della casa, non può che andare “là in fondo”, fuori dal foglio, come ha indicato durante la verbalizzazione. Si confronti questa immagine con la figura 86, p. 53, (Jonny 5,8). In questo caso è interessante notare le somiglianze tematiche e stilistiche delle due rappresentazioni: entrambe i disegni fanno riferimento a situazioni di “regali”; hanno in primo piano un camion con rimorchio caratterizzato da elementi molto simili tra loro (si vedano ad esempio l’antenna con il filo a zig-zag o la scritta con il nome dell’autore del disegno), una casa (attraversata da una scala, con la stessa porta, e la medesima tipologia di finestra e antenna) e un’auto; i camion sono rappresentati nella parte inferiore del foglio, la casa sopra ai camion e le automobili nella stessa posizione. Ci sono poi molti elementi comuni: altoparlanti, uno stesso motivo decorativo che corre su un lato del camion, uno stesso numero (1 nella grafica di Glenis, 10000 e 0001 in quella di Jonny), diagrammi con croce greca racchiusi in un quadrato (finestre ?)… Nella stessa mattina i due bambini (molto amici tra di loro) si erano organizzati autonomamente nei tavoli della sezione (come spesso facevano durante le ore di attività libera) e si erano confrontati diverse volte durante la produzione, scambiandosi pensieri, commenti, temi. Le due verbalizzazioni sono invece molto diverse: mentre Jonny narra con ricchezza di particolari la storia che la sua grafica rappresenta; Glenis si dimostra disinvolto nella prima parte, e impacciato nella seconda (il tema della macchina del presidente Obama mi è sembrato inventato sul momento, non essendo né argomento di conversazione tra i due durante la produzione, né argomento di conversazione in classe quanto piuttosto argomento di 318 cronaca del periodo…). Il prodotto non restituisce l’aspetto relazionale e nemmeno la dinamica di scambi di temi, idee, emozioni avvenuti durante la produzione, che hanno avuto senz’altro un ruolo fondamentale nel prodotto finale, come del resto, in generale, non lo restituiscono tutti gli altri prodotti… che si presentano dotati di una loro ontologia, indipendente e lontana dal contesto di produzione. La legge della differenziazione è utile anche per comprendere un altro aspetto dello sviluppo relativo alle aree di contenuto. Massironi dimostra che lo sviluppo di determinate aree di contenuto nella storia, ha comportato un diverso trattamento degli elementi primari (di primo e secondo livello) in vista delle particolari finalità che via via andavano determinandosi. Oggi «la produzione disegnativa può essere suddivisa in grandi blocchi in cui i metodi e le tecniche grafiche utilizzate risultano strutturalmente differenti» (Massironi, 1982, p. 65). In questo senso, occorre vedere il disegno non più come sistema aperto, completamente soggetto all’invenzione, ma regolato da norme abbastanza vincolanti, e quello che è più importante, non stabilite una volta per tutte, ma che vengono formalizzandosi in tempi successivi, man mano che un contenuto informativo esige prepotentemente un codice di comunicazione: come è stato per la prospettiva prima, le proiezioni ortogonali poi; del disegno caricaturale, dei diagrammi, o dei marchi e segnali nel periodo attuale. (Ibidem, p. 75). Le regole che presiedono alla produzione-fruizione delle varie aree di contenuto sono state elaborate nel corso dei secoli per rispondere a precisi fini comunicativi che via via si sono delineati. Quando parliamo del disegno del bambino siamo al di qua della differenziazione delle aree di contenuto e progressiva costituzione delle relative regole di produzione e di fruizione. Siamo nel momento in cui si sta sviluppando il codice minimo per elaborare equivalenti indifferenziati 319 rispetto alle aree di contenuto. Il livello di articolazione del concetto rappresentativo, precedente alla differenziazione delle aree di contenuto, è il livello massimo che nella nostra cultura viene raggiunto senza un intervento educativo specificatamente rivolto al disegno. (Pizzo Russo, 1988, p. 241). In quest’ottica, il realismo visivo, come disegno che include le regole prospettiche, non è propriamente una fase dello sviluppo del disegno del bambino, bensì una delle modalità adulte di disegnare, nonché, fatto ben più importante, il modello prevalente di valutazione “del disegno” nella nostra cultura. Se volessimo poi considerare il realismo intellettuale potremmo vedere in esso sia l’esito di una fase di sviluppo del disegno infantile che una modalità rappresentativa presente nel disegno adulto specialistico (in quello architettonico, operativo, geometrico e in alcune correnti artistiche come nel cubismo). Realismo intellettuale e il realismo visivo possono essere letti come due tendenze evolutive individuabili nel corso dello sviluppo, e, nei loro esiti adulti e specialistici, alla luce della tabella di Massironi, come caratterizzate, l’una dal piano fronto-parallelo, e l’altra da quello longitudinale o variamente inclinato. Dopo lo scarabocchio (realismo fortuito) e il breve periodo del realismo mancato, la fase del realismo intellettuale, variamente denominata dagli studiosi, sarebbe allora quella fase durante la quale il bambino sviluppa i concetti rappresentativi di base, precedenti ad ogni specializzazione, e necessari ad ogni ulteriore sviluppo, sia esso nella direzione del realismo intellettuale adulto o del realismo visivo inteso nella maniera luquetiana. (Pizzo Russo, 1988, p. 243). Se poi prendiamo in considerazione il realismo visivo individuato da Piaget, che corrisponde alla conquista dello spazio euclideo, potremmo affermare che esso non è lo stadio conclusivo del disegno 320 infantile, ma il momento evolutivo durante il quale il bambino della cultura occidentale, diventa sempre più sensibile alle nozioni della geometria che la scuola gli va insegnando. «Ma proprio per questo può essere inteso come un inizio di differenziazione guidata dall’ambiente» (ivi) e il momento in cui viene collocato da Piaget (attorno agli otto-dieci anni), può essere considerato momento cruciale per l’avvio di tutte le specializzazioni previste dalla tavola di Massironi, piuttosto che il momento del “declino dell’arte infantile”. 4.3 Il disegno tra esplorazione e conoscenza Disegnare, dipingere, modellare sono attività che dipendono dalla percezione ma che, contemporaneamente, ne prendono le distanze: entra in questione una mediazione, la ricerca di un sistema di rappresentazione che riproduca nel mezzo e col mezzo propri del disegno e della pittura o di altre condizioni tecniche le acquisizioni percettive. E così il bambino che pure vede, sa fare tante cose, sul piano della rappresentazione, a una certa età, non possiede, oltre agli scarabocchi, altro che il cerchio: è il suo semplicissimo ma duttile sistema di rappresentazione. Erroneamente lo faremmo corrispondere al suo mondo percettivo già complesso e differenziato. (De Bartolomeis, 1984, pp. 186-187). In questo paragrafo considereremo i disegni come sistemi di rappresentazione; e vedremo come l’attività grafica sia per il bambino mezzo per conoscere, interrogarsi, porsi e risolvere problemi; strumento per agire e ed esplorare. Ciò ci condurrà a toccare indirettamente il rapporto tra conoscenza/media da una parte e media/processi cognitivi dall’altra. 321 Il bambino che dipinge fa qualcosa di più che esercitarsi in una libera manipolazione e in una pura sperimentazione con il colore e la forma: esprime - in una certa misura e con il sistema rappresentativo di cui è capace - il grado, la struttura, il contenuto e la direzione dei suoi adattamenti […]. La concezione evolutiva del narrare e del ragionare infantili ci porta di fronte al sentimento, ma senza unilateralità; cioè possiamo dire che l’affettività ha in essi un posto determinante ma non al punto di fare del bambino un essere incapace di pensiero problematico, di movimento logico e di cosciente inserimento nella realtà. Dunque l’affettività è importante a causa sia della particolare struttura delle attività infantili sia delle loro particolari emozioni; ma non si deve dimenticare che il bambino, per vivere, deve adattarsi alla realtà e non vi si può adattare senza l’impiego degli strumenti intellettuali richiesti per la soluzione di problemi. (Ibidem, pp. 190-191): Ogni rappresentazione grafica, per quanto possa essere fedele alla realtà, è sempre un’interpretazione, una finzione, un tentativo di spiegazione della realtà stessa. Massironi avverte che nella storia dell’arte e dei processi rappresentativi si sia spesso verificato un equivoco: ritenere che il fine di tali processi consistesse in una riproduzione veridica, fedele ed equivalente alla realtà raffigurata, piuttosto che nell’elaborazione di un suo sostituto235. 235 «Nella comunicazione grafica-disegnativa si può notare sovente che un atteggiamento del fruitore è quello d’impegnarsi nei confronti dell’immagine in maniera analoga a ciò che avverrebbe nei confronti degli oggetti rappresentati, qualora fossero presenti. E ciò che più colpisce è il fatto che questi comportamenti si esplicano nonostante tutti i fruitori siano pienamente coscienti che non dell’oggetto si tratta, ma di una sua apparenza fantasmatica, che però viene assunta in funzione suppletiva e utilizzata come una protesi cognitiva utile a riempire il vuoto dovuto alla mancanza dell’oggetto. Elenchiamo allora di seguito alcune condizioni in cui il comportamento del fruitore della rappresentazione concreta diventa simile a quello del fruitore dell’oggetto; oppure si pone nei confronti del sistema di rappresentazione in posizione o critica o benevola, vedendo in tale sistema quasi un metodo di produzione degli oggetti e non delle loro immagini. 322 Dalle affermazioni di Giotto alla nascita della prospettiva, dalla scoperta della fotografia a quella dello stereoscopio, l’equivoco si è ripetuto. Oggi nessuno crede più nella pretesa oggettività dei mezzi di comunicazione e ciò non per subdolo comportamento dell’emittente, ma per un fatto intrinseco al processo: ogni messa in codice esige delle scelte. (Massironi, 1982, p. 55). Il disegno si situa nell’ordine della rappresentazione. Per disegnare occorre elaborare un equivalente strutturale delle qualità di un “oggetto” nelle caratteristiche del medium proprio di questa attività. La prima scelta consisterà nel privilegiare le qualità visive e nel 1. Se, mostrando un’illustrazione ad una persona, le si chiede: Questo che cosa è?, la risposta sarà: “E’ un cavallo” o “un uomo” e non “Questo è il disegno” o “la foto” o “la pittura” di un cavallo o di un uomo, rispettivamente 2. A volte i bambini si divertono a metterci in imbarazzo con domande del tipo: “Esiste un cane azzurro?” Ed alla nostra risposta negativa, ribattono “Sì che esiste, perché io te lo disegno”. Per loro fra oggetto e sua rappresentazione non c’è molta differenza. 3. Non c’è molta differenza nel passaggio dal vivo all’immagine sostitutiva in certe pratiche magiche o religiose. 4. Tutte le regole religiose collegate all’iconoclastia nascono dal concepire le immagini come blasfeme in quanto rappresentano una forma di concorrenza alla divinità nell’atto creativo di una realtà concreta. 5. Spesso nei manifesti pubblicitari, per le strade, si trovano scritte o interventi di passanti […] che fanno intuire una manipolazione, non nei confronti dell’elemento concreto – un foglio di carta – ma nei confronti della cosa raffigurata […]. 6. Mitologie, leggende, racconti, o poesia nelle culture dei più lontani popoli della terra parlano di immagini create da artisti che, per qualche ragione, diventano realtà: è esemplare a questo proposito il mito di Pigmalione. 7. Diversi artisti nei loro scritti hanno sottolineato la facoltà evocatrice derivante dal loro potere di costruire immagini: facoltà che permette loro di dar vita in modo potente e concreto a realtà strane o buffe o lontane […]. 8. E’ invalso nella pubblicità l’uso di far dialogare la rappresentazione in forma diretta con il possibile fruitore: uso del “tu” confidenziale, indicazioni minacciose, ammiccamenti. 9. Va menzionato anche l’impiego che viene fatto dell’immagine nelle operazioni di dimostrazione – o persuasione – scientifiche, religiose, ecc. in cui l’immagine funziona come sostituto o come evocazione dell’oggetto o del fatto di cui si parla. In questi casi, il fatto che si usino immagini di sostegno rende più credibile la proposizione verbale» (Massironi, 1982, pp. 58-59). 323 trascurare le altre. Nel rappresentare una tartaruga ci si dovrà concentrare sulla forma del guscio, sulla forma delle zampe e non sulla viscosità che le è propria; ma per rendere informativo l’elaborato si dovranno effettuare delle scelte anche tra le qualità visive: «l’accettabilità dell’immagine di un oggetto dipende dal criterio del disegnatore e dallo scopo della raffigurazione» (Arnheim, 1954, p. 147). Studiare il disegno significa prendere in considerazione la capacità umana di significare, quella capacità per cui un semplice cerchio può rappresentare un bambino, un albero, un occhio e tante altre cose. La costruzione delle rappresentazioni concrete tiene conto dei processi percettivi e produce elaborati che favoriscono nell’osservatore impressioni simili a quelle prodotte dagli oggetti raffigurati. Nasce allora l’equivoco della equivalenza dei due momenti. Ma quando diciamo che un’immagine sembra vera, con la locuzione “sembra” affermiamo due vissuti contrastanti: siamo cioè coscienti di trovarci di fronte ad informazioni visive molto convincenti, dello stesso tipo di quelle forniteci dal mondo reale, ma nello stesso tempo siamo sicuri che sono fittizie, provenienti cioè da una parziale illusione di realtà. Ciò avviene per effetto di una trasposizione materiale di dati. La materia molteplice e variabile delle cose rappresentate, viene trascritta in un’altra materia che è quella del segno sulla superficie, nella molteplicità e variabilità del segno. (Massironi, 1982, pp. 55-56). Come ha opportunamente precisato Arnheim indiscutibilmente i bambini vedono più di quello che disegnano; all’età in cui già riescono facilmente a distinguere tra persona e persona e notare la più piccola alterazione in un oggetto familiare, i loro disegni restano del tutto indifferenziati e le ragioni di ciò sono da ricercarsi nella natura e nella funzione del processo rappresentativo. (Arnheim, 1954, p. 147). 324 Dallo studio psicologico dell’arte Arnheim argomenta che l’attività artistica è una forma di ragionamento236. L’immagine disegnata non è copia dell’oggetto, né replica esatta dell’immagine mentale237 di quell’oggetto; anzi, nel disegnare, l’immagine mentale “c’è e non c’è”. 236 Abbiamo precedentemente visto che cosa intenda Arnheim con arte, ovvero «ciò che rende visibile la natura di un oggetto». Secondo l’autore «pensare esige immagini, e le immagini contengono pensiero. Perciò, le arti visive costituiscono un terreno familiare del pensiero visuale […]. Trattare l’arte come una forma di pensiero visuale può apparire indebitamente unilaterale. L’arte adempie ad altre funzioni, spesso considerate primarie. Crea la bellezza, la perfezione, l’armonia, l’ordine. Rende visibili cose invisibili, o inaccessibili, o del tutto fantastiche. Dà espressione alla gioia o alla tristezza. Nulla di tutto ciò si nega qui; ma per adempiere a tali funzioni, occorre compiere un vasto lavoro di pensiero visuale. La creazione della bellezza pone problemi di selezione e di organizzazione. Similmente, rendere visibile un oggetto significa coglierne i tratti essenziali […]» (Arnheim, 1969, p. 299). 237 Nella concezione di Arnheim, l’immagine mentale viene ad occupare un posto di primo piano. «Un atto percettivo non è mai isolato; esso non è che la fase più recente di un flusso di innumerevoli atti consimili, svolti nel passato e sopravvissuti nella memoria. Similmente, le esperienze del presente, immagazzinate ed amalgamate con la sollecitazione del passato, precondizionano i percetti del futuro. Pertanto la percezione, nel suo senso più ampio, deve includere la capacità mentale di produrre immagini». Non solo perché «pensare esige immagini» ma anche perché «i concetti sono immagini e le operazioni del pensiero sono il trattamento di tali immagini» (Ibidem, rispettivamente, pp. 96, 299 e 267). Il riconoscimento del valore delle immagini è uno sviluppo recente in neuropsicologia, frutto della rivoluzione cognitiva che ha fatto seguito al dominio del comportamentismo. «Si afferma sovente che il pensiero è fatto di immagini e di molto altro, che è fatto anche di parole e di simboli astratti non figurativi. Certo, nessuno può negare che il pensiero comprenda anche parole e simboli arbitrari; ma a quella affermazione sfugge che sia parole sia simboli arbitrari sono basati su rappresentazioni topograficamente organizzate e possono diventare immagini. In massima parte, le parole che usiamo nel nostro discorso interno, prima di pronunciare o di scrivere una frase, esistono nella nostra coscienza come immagini visive o uditive; se non diventassero (per quanto fugacemente) immagini, non sarebbero alcunché di conoscibile. Questo è vero anche per quelle rappresentazioni topograficamente organizzate che non vengono seguite alla chiara luce della coscienza, ma che sono attivate in modo celato […]. Sembra che non vi sia possibilità anatomica di avere informazioni sensoriali complesse nella corteccia di associazione che fa da base alle rappresentazioni disposizionali senza che prima si formino nelle cortecce sensitive di ordine inferiore […]. I commenti appena fatti si applicano altrettanto bene ai simboli che si usano nella soluzione mentale di un problema matematico. Se quei simboli non fossero esprimibili in immagini, noi non li conosceremmo, e non saremmo capaci di manipolarli in modo cosciente». Damasio argomenta portando esempi di matematici e fisici (tra i quali Einstein) che dichiarano come il loro pensiero sia dominato dalle immagini, spesso visive. «Quindi il punto è che le immagini sono, probabilmente, il contenuto principale dei nostri pensieri, a prescindere dalla modalità sensoriale nella quale esse sono generate e dal fatto che riguardino una cosa o un processo implicante cose, o che riguardino parole o altri simboli – di un 325 La situazione può essere illustrata dall’esempio di un artista che disegni a memoria qualcosa che conosce. Se ne sta nel suo studio e disegna un elefante. Se gli chiedete in base a quale modello stia disegnando, può negare nel modo più convinto di avere, nella propria mente, qualcosa di simile ad una figurazione esplicita dell’animale. Eppure, mentre lavora, giudica costantemente la correttezza di quanto sta producendo sulla carta, correggendone e modificandone di conseguenza le forme. Con che cosa le confronta? […] E’ facile evadere al problema, perché l’operazione sembra aver luogo nel mondo esterno percepito, sul tavolo da disegno: quando appaiono le linee e i colori, appaiono esatti o errati a chi li disegna, e sembra siano essi a determinare da soli che cosa egli debba farne. Alcuni aspetti del suo giudizio possono in realtà dargli l’impressione di dipendere dal solo percetto, ad esempio i fattori formali dell’equilibrio e la buona proporzione. In realtà, tuttavia, anch’essi sono inseparabili dal problema “è questa la mia nozione di un elefante?”, e a tale problema si può rispondere soltanto facendo riferimento a qualche standard nella mente del disegnatore. (Arnheim, 1969, pp. 116-117). Si osservi a questo proposito l’interpretazione grafica che Alessandro (5,4) da di un elefante in figura 120, p. 77. L’immagine mentale può dunque essere considerata «una configurazione di forze visive che determina il carattere dell’oggetto visivo», «uno scheletro strutturale» che, in quanto tale, «può essere rivestito da una grande quantità di forme» (Arnheim, 1954, pp. 9091). Essa è necessaria per spiegare il modo di procedere del disegnatore, ma non è “un disegno interno” che viene copiato sulla carta: con il disegno si entra nel campo delle “immagini espresse” che non è quello delle immagini mentali. dato linguaggio – che corrispondono a una cosa o a un processo. Celati dietro quelle immagini, mai o molto di rado conoscibili da parte nostra, vi sono svariati processi che guidano la produzione e il dispiegamento delle immagini nello spazio e nel tempo; essi utilizzano regole e strategie incorporate nelle rappresentazioni disposizionali. Sono essenziali per il nostro pensare, ma non sono il loro contenuto dei nostri pensieri» (Damasio, 1994, pp. 163-164). 326 Non ripeterò mai troppo fermamente né troppo spesso che la creazione di immagini, artistica o altro, non consiste semplicemente nella proiezione ottica dell’oggetto rappresentato ma è un equivalente, reso tramite le proprietà di un mezzo espressivo particolare, di quanto si vede nell’oggetto238. Il concetto visivo d’un oggetto, possiede tre importanti proprietà: «concepire l’oggetto come tridimensionale, di configurazione costante, e non limitato ad alcun aspetto proiettivo» (Arnheim, 1954, p. 100). Sono queste proprietà che devono essere elaborate attraverso il medium espressivo. La realizzazione di un’immagine concreta comporta l’utilizzazione di strumenti, mezzi materiali che, in parte, condizioneranno la forma del pattern di pensiero239. E, d’altra 238 Arnheim, 1954, p. 94. «La dottrina illusionistica [quella che secoli fa sosteneva, e tutt’ora sostiene, che l’arte mira ad un’illusività ingannatrice e che ogni deviazione da questo ideale meccanico va spiegata, scusata, giustificata] si genera da una duplice applicazione di quello che in termini filosofici ci è noto come “realismo ingenuo”. Secondo tale punto di vista non esiste differenza alcuna tra l’oggetto fisico e l’immagine dello stesso percepita dalla mente. La mente vede l’oggetto come esso è. Analogamente l’opera dello scultore, o pittore, viene considerata semplicemente come una replica del percetto. Proprio come si suppone che la tavola vista dall’occhio sia identica alla tavola in quanto oggetto materiale, così pure la tavola dipinta dal pittore sulla tela non è che la ripetizione della tavola da lui vista. Al massimo, l’artista può “migliorare” la realtà o arricchirla mediante l’intervento della fantasia, trascurando, cioè, o aggiungendo dettagli, scegliendo esempi adatti, ridisponendo a suo piacimento il normale ordine delle cose […]. Il procedimento riduce l’arte ad una sorta di chirurgia plastica. Gli “illusionisti” dimenticano la basilare differenza tra il mondo della realtà e l’immagine di esso come viene riprodotta mediante i colori o nel marmo» (Ibidem, pp. 94-95). 239 «Ogni medium prescrive il modo migliore di rendere le caratteristiche di un modello. Per esempio, un oggetto rotondo può essere rappresentato da una linea circolare mediante la matita. Il pennello, che produce larghe macchie, può riprodurre l’equivalente dello stesso oggetto con una chiazza di colore in forma di disco. Quando il medium sia la creta o la pietra, avremo l’equivalente della rotondità nella sfera. Un danzatore lo potrà creare tracciando un movimento circolare, ruotando attorno al suo asse d’equilibrio, o disponendo un gruppo di danzatori in cerchio. Quando si tratti di un medium che non consente la forma curva, la rotondità può venir espressa mediante delle linee diritte […]. Una forma che esprime ottimamente la rotondità in un determinato medium può non esser più tale per un altro medium. Il cerchio p il disco può rappresentare la soluzione perfetta per la pittura sulla superficie piana. Nella scultura, che è tridimensionale, per contro, il cerchio e il disco, essendo una combinazione di 327 parte, l’immagine espressa è il risultato finale che può esser frutto di uno o più tentativi e di una ricerca più o meno laboriosa. Il lessico grafico utilizzato dai bambini nella rappresentazione di figure umane, animali, piante e di tutti gli altri soggetti, trae la propria origine dagli scarabocchi, dai diagrammi, dalle associazioni, dagli aggregati, dai soli, dalle radiali e dai mandala che i bambini hanno precedentemente sperimentato, e di cui hanno apprezzato nel corso dello sviluppo l’equilibrio formale; da qui deriva uno stile personale (che corrisponde all’uso ripetuto di determinate unità grafiche) e un senso estetico riconoscibile nelle diverse rappresentazioni. Attraverso la composizione dei diversi segni, i bambini costruiscono immagini sempre più complesse e ricche, espandendo e affinando i concetti rappresentativi di cui dispongono. La selezione dei concetti visuali, e l’assegnazione ad essi di compiti specifici, comporta quel tipo di risoluzione di problemi che ho precedentemente definito l’intelligenza della percezione. Percepire un oggetto significa trovarvi una forma sufficientemente semplice, afferrabile. La stessa cosa vale per i concetti rappresentativi che occorrono per la costruzione di un quadro. Derivano dal carattere del medium (disegnare, dipingere, modellare), e interagiscono con i concetti percettivi. Le soluzioni del problema mostrano parecchia ingenuità. Persino nei bambini piccoli, variano grandemente da persona a persona. Si sono magari visti migliaia di disegni infantili, ma non si cessa mai di restare colpiti dall’originalità inesauribile delle soluzioni sempre nuove al problema di come disegnare una figura umana o un animale, con poche linee semplici. rotondità e piattezza, costituiranno un’imperfetta rappresentazione della rotondità […]. Tale traduzione dell’aspetto degli oggetti fisici nella forma appropriata a un determinato medium non è una convenzione esoterica escogitata dagli artisti. Modelli scalari, disegni alla lavagna, carte stradali, tutto ciò è ben lontano dagli oggetti che si vogliono raffigurare. Ci riesce facile scoprire e accettare il fatto che un oggetto visivo sulla carta può rappresentarne uno enormemente differente in natura, purché ne sia l’equivalente strutturale in quel determinato medium» (Ibidem, pp. 123-124). 328 Pensare esige qualcosa di più che pensare i concetti e assegnar loro certi compiti. Esige che si svelino relazioni, che si scopra una struttura in sé elusiva. L'attività produttrice di immagini serve a dar senso al mondo. (Arnheim, 1969, pp. 302-303). Sussiste una specie di continuità tra il pensare, il vedere e il disegnare. L’attività grafica costringe il dialogo tra occhio e mano, tra il vedere e il fare, tra la riflessione e l’azione. Mentre la percezione rileva le componenti invarianti degli oggetti, strutturando le immagini secondo i principi gestaltici della massima economia degli stimoli visivi, per trasmettere un significato univoco di riconoscimento nel minor tempo possibile240, la rappresentazione va oltre la visibilità, perché il suo compito non è limitato al riconoscimento della forma, 240 «Possiamo far corrispondere la visione delle invarianti percettive al guardare quotidiano, nel quale noi non rileviamo le singole componenti del percetto ma cogliamo l’oggetto nella sua pienezza oggettuale, con tutto il suo portato cognitivo e operativo, con le sue affordance. Nella nostra esperienza percettiva gli oggetti vengono colti per il loro significato pratico, per come si offrono per soddisfare alcune nostre esigenze pratiche. Ragion per cui la loro visione si basa sul rilievo degli invarianti morfologici che ne consentono il riconoscimento nei diversi orientamenti. Questo tipo di visione primaria pre-attentiva, funzionale al riconoscimento immediato nel flusso continuo di proiezioni ottiche sempre diverse è una visione di tipo sintetico, in cui l’insieme, il tutto prevale sulle qualità e sulle proprietà delle singole componenti. Essa in buona sostanza risponde a un principio gestaltico. Il compito della percezione visiva è quello di raccogliere informazioni provenienti dal flusso ottico su quanto del nostro ambiente si presenta come persistente, stabile, rispetto a quanto continua a mutare […]. L’atto grafico fondamentale da cui ha origine ogni disegno è, per Gibson, la registrazione progressiva del movimento con cui la mano impugnando uno strumento imprime una traccia su una superficie; questo movimento viene sia sentito sia visto dal soggetto che disegna, è il segno di una cinestesia visiva. Disegnare non è mai copiare, perché copiare un pezzo di ambiente è impossibile, solo un altro disegno può essere copiato, quindi non esiste una ri-presentazione letterale di un precedente assetto ottico. Si può solo preservare qualche sua invariante così come fa la fotografia, perché le informazioni presenti in un dato ambiente sono illimitate. Inoltre “la separazione della struttura invariante dalla struttura prospettica è il cuore del problema. Gli invarianti mostrano un mondo in cui non c’è nessuno, ma la prospettiva mostra dov’è l’osservatore in quale momento”. Il bambino, precisa Gibson, quando disegna un piano rettangolare e quattro piedi agli angoli ha disegnato i quattro invarianti del tavolo che ha rilevato […]. Ogni cosa, in virtù dei fenomeni di costanza percettiva, si mostra sempre uguale a se stessa, per lo sguardo ecologico, e sempre diversa per forma, colore, dimensione, orientamento, per lo sguardo del disegnatore» (Di Napoli, 2004, pp. 309-311). 329 ma alla costruzione di quella particolare visibilità attraverso quel particolare medium. Attraverso i loro disegni i bambini non creano un linguaggio completamente arbitrario; scoprono invece stimoli che sono in qualche modo simili ai tratti in base a cui il sistema visivo normalmente codifica le immagini degli oggetti nel campo visivo e tramite i quali guida le azioni241. Quando si traversa un museo e si osserva la configurazione data alla testa umana dagli scultori di età e di culture diverse, ci si rende conto che lo stesso semplice prototipo si può riflettere in un’infinità di rappresentazioni ugualmente valide […]. Ciascuna ha la sua validità, ciascuna ottiene il risultato voluto. Questa capacità di inventare un pattern incisivo, soprattutto quando è applicata a forme familiari come la testa o la mano, è nota come immaginazione artistica, che non è in primo luogo l’invenzione di un soggetto nuovo e nemmeno la creazione di una qualsiasi nuova configurazione: più correttamente la si può definire come il fatto di trovare una forma nuova ad un vecchio contenuto, o, - se non si vuole usare la comoda dicotomia tra forma e contenuto – un nuovo concetto per un vecchio soggetto. In effetti, l’invenzione di nuove cose o situazioni è valida soltanto in quanto esse valgono ad interpretare un vecchio – ossia universale – elemento dell’umana esperienza […]. 241 «Il disegno, pur non avendo nessuna proprietà dell’oggetto e non essendo simile allo stesso, funziona come se lo fosse. I dati sulle condizioni che devono realizzarsi perché il disegno sia facile da comprendere (e il disegno schematico è più facile da comprendere del disegno realistico) impongono di riflettere sulla differenza tra percepire un disegno e produrre un disegno, distinzione occultata dal continuo confronto col linguaggio parlato per il quale, anche se in certe condizioni (prime fasi di sviluppo del linguaggio, uso delle lingue straniere, mutismo), la comprensione supera la produzione, parlare e ascoltare è un processo integrato. Per percepire un disegno “semplice” il nostro sistema visivo funziona come per percepire e codificare il mondo stesso. Perciò tutti, in linea di massima, siamo in grado di “leggere” un disegno nella misura in cui siamo in grado di percepire e codificare gli oggetti. Fare un disegno, viceversa, significa inventare un equivalente bidimensionale dell’oggetto tridimensionale rispettando “quei tratti in base a cui il sistema visivo normalmente codifica le immagini degli oggetti” […]. Fare disegni allora, è più difficile che percepire disegni, soprattutto se il percepire si riduce al riconoscimento e i tratti grafici sono organizzati in modo da facilitare quest’ultimo» (Pizzo Russo, 1988, pp. 118-119). 330 L’immaginazione visiva è un dono della mente umana, dono che nel soggetto medio si manifesta fin dai primi anni d’età. (Arnheim, 1954, pp. 124-125). Così come il vedere non si può risolvere nel disegnare, il disegno non può riprodurre tutto ciò che si vede242. Mentre la visione riguarda la produzione di concetti visivi, attraverso il disegno, il bambino elabora concetti rappresentativi in grado di esprimere i contenuti del suo pensiero visivo. E’ evidente che l’oggetto di per sé stesso determina soltanto un minimo di tratti strutturali, richiedendo sempre l’intervento dell’immaginazione, nel senso letterale della parola, ossia di quell’attività che permette di tradurre le cose in immagini […]. La mente, quando per qualche ragione è libera dalla consueta sottomissione alla molteplicità della natura, organizza le forme secondo le tendenze che governano il proprio funzionamento. Possediamo ampie prove che in questo caso essa tende verso la strutturazione più semplice, cioè verso la configurazione più regolare, più simmetrica, più geometrica possibile nelle circostanze date. (Arnheim, 1954, pp. 125-127). Interessante ed eloquente ci sembra a questo proposito il disegno di Martina (5,11) in figura 121, p. 77. Si tratta di alcune prove di “copia 242 «La prima ragione riguarda la natura selettiva dei mezzi di comunicazione […]. La seconda ragione è connessa con i punti di riferimento, che si radicano nella memoria a lungo termine. Ogni nuova informazione viene subito riferita a tali punti, sebbene noi siamo raramente consci che stiamo facendo tali riferimenti. Noi ci consideriamo come se prendessimo atto di nuovi dati nella loro propria costituzione, ignorando che le percezioni di oggi sono inevitabilmente modificate da quelle di ieri […]. Il terzo punto è legato alla natura della percezione. La maggior parte delle persone sono pronte a riconoscere che la percezione è il prototipo, l’unità di base, dell’esperienza, in modo che la struttura dell’atto percettivo ha probabilità notevoli di riflettersi in attività mentali più complesse, compresi gli atti di comunicazione. Si è anche generalmente d’accordo che l’apprendimento svolge un ruolo importante nella percezione e che, quando l’apprendimento si è realizzato, gli abiti rientrano nella riattivazione della percezione in modo che la nostra consapevolezza degli oggetti famigliari si colora sempre di ciò che noi crediamo che siano; in altre parole la percezione residua che agisce come segno o strumento dell’esperienza originaria finisce per restare erosa e impoverita» (Parry, cit. in, Massironi, 1982, p. 57). 331 dal vero” del naso visto allo specchio. Nella rappresentazione la bambina si limita all’enumerazione di alcuni tratti particolati e usa delle forme geometriche e ben definite per identificare il più esattamente possibile la qualità, la funzione, l’importanza e i rapporti reciproci tra i tratti che ha individuato. Come abbiamo precedentemente visto gli stadi iniziali di evoluzione del linguaggio grafico producono forme fortemente astratte «perché lo stretto contatto con la molteplicità del mondo fisico non è, o almeno non ancora, pertinente ai compiti della pittura» (Arnheim, 1954, p. 128). Nel corso dello sviluppo gli usi della cultura implicano processi di espansione e raffinamento del codice grafico, definendo le operazioni “lecite” o “comprensibili” possibili243. In questo, come in altri casi, è possibile sostenere che il disegno svolga la funzione di produrre visione, e quindi conoscenza: la messa in codice del percetto promuove la sua visibilità, evidenziando caratteristiche, proprietà, aspetti che soltanto quando sono disegnati possono essere ri-visti. Quando disegniamo il contorno di un oggetto, sia pure in maniera estremamente impacciata, creiamo per il senso della vista qualcosa che 243 «Per la lettura delle rappresentazioni pittoriche dello spazio esistono modalità corrette e scorrette, e la modalità giusta è determinata in ogni caso dallo stile di un dato periodo o stadio di sviluppo». «La forma è determinata non soltanto dalle proprietà fisiche del materiale, ma anche dallo stile di rappresentazione proprio di una specifica cultura o di un singolo artista. Una chiazza di colore piatta può costituire una testa umana nel mondo pittorico essenzialmente bidimensionale di Matisse: ma la stessa chiazza apparirebbe piatta invece che rotonda in uno dei dipinti fortemente tridimensionali di Caravaggio […]. Si nota che in determinate condizioni culturali un’arte più realistica non servirebbe meglio allo scopo dell’artista, ma al contrario l’ostacolerebbe. Le immagini primitive, ad esempio, non sorgono né da una curiosità distaccata, né da un’attività “creativa” fine a se stessa; non sono certo fatte per produrre piacevoli illusioni. L’arte primitiva, invece, è uno strumento pratico per molti importanti compiti della vita giornaliera: dà corpo a poteri sovrumani così da renderli attivi in concrete azioni; rimpiazza oggetti reali, animali o uomini, e in tal modo si addossa i loro compiti; registra e trasmette informazioni; rende possibile l’esercizio di “influssi magici” su creature e cose lontane» (Arnheim, 1954, rispettivamente pp. 118, 123 e 128). 332 non potremmo creare per quello del tatto: produciamo qualcosa che mostra la visibilità di un oggetto, e facendo questo, creiamo qualcosa di diverso e di nuovo rispetto a ciò che prima costituiva la conclusione del nostro processo di percezione visiva […]. Dovremo riconoscere che anche nel più impacciato tentativo di rappresentazione figurativa c’è qualche cosa che sorpassa la semplice percezione visiva […]. V’è in essa qualcosa di nuovo: la mano che traccia un segno compie uno svolgimento ulteriore dell’attività del senso visivo, cominciando esattamente dal punto in cui l’occhio aveva raggiunto il culmine della propria attività […]. Per quanto la cosa possa sembrare paradossale, bisogna dire che l’arte comincia solo quando cessa la visione. (Fiedler, cit. in, Di Napoli, 2004, p. 292). E’ il tipo di informazione aggiuntiva richiesta al pensiero affinché sia possibile “mettere in forma” le sue immagini percettive, che consente al bambino di fare esperienza del mondo attraverso il medium grafico e di rendere comprensibile ad altri e a se stesso la propria esperienza: vedere per disegnare significa attivare un processo visivo conoscitivo autentico della cosa in visione. L’occhio del disegnatore, a differenza di quello del pescatore, della sentinella, che guardano sapendo già che cosa devono vedere, e che hanno affinato il loro sguardo al riconoscimento di quanto dà loro da vedere il visibile; lo sguardo del disegnatore vede quel che ancora non conosce, ciò che ancora non sa cosa sia autenticamente. Il pescatore e la sentinella hanno cura del cristallino, il pittore e il disegnatore hanno cura della retina, i primi vedono sostantivi, cose e oggetti noti, mentre i secondi vedono colori e forme singolari. (Di Napoli, 2004, p. 280). La raffigurazione di ogni soggetto comporta una re-visione concettuale. Rappresentare ad esempio un re, significa ri-percorrere 333 i tratti che caratterizzano la figura umana, il suo abbigliamento, il suo ruolo; messo a fianco di una regina sarà caratterizzato da altri tratti e pensato attraverso altre modalità. Queste ed altre “conoscenze” sono implicite nel concetto di “re”, di “regina” e “di re e di regina”. Ad un’unica parola, corrispondono e vengono esplicitate nella rappresentazione grafica una serie di conoscenze aggiuntive, sulle quali il bambino opera materialmente. Allo stesso modo, rappresentare un principe a cavallo significa trovare sia le forme più appropriate per ognuno dei due soggetti, che risolvere il problema della loro interazione (e non solo della loro relazione). Si tratta di un problema aggiuntivo, che deve trovare una soluzione attraverso la rappresentazione grafica; si tratta di un problema conoscitivo che implica una riflessione aggiuntiva sulle conoscenze precedenti. La rappresentazione grafica presuppone un atto ricettivo del quale costituisce la restituzione, la ri-presentazione: viene restituito al mondo ciò che del mondo era stato percepito, la percezione prima, e la restituzione poi, si pongono come i due movimenti-momenti (antecedente-seguente, interno-esterno), attraverso cui l’oggetto riferito viene sottoposto ad un processo di selezione, enfatizzazione, astrazione e simbolizzazione delle sue proprietà fenomeniche. L’atto del rappresentare implica l’istituzione di una doppia distanza rispetto al rappresentato, sia spaziale (dislocazione), sia temporale (successione); impone cioè una netta differenziazione tra ciò che costituisce il soggetto e ciò che costituisce l’oggetto […]. L’atto stesso del rappresentare essenzialmente significa ri-presentare, produrre cioè una seconda presenza, ma con mezzi e segni materialmente diversi dalla materia di cui è fatta la cosa che si vuole rappresentare; dunque letteralmente significa ri-produrre il medesimo con il diverso. La relazione tra l’immagine e la cosa si basa sul rapporto di rassomiglianza che le unisce e che tuttavia le distingue. (Ibidem, pp. 319-321). 334 In un paragrafo precedente abbiamo visto come “creare una somiglianza” significhi evidenziare i tratti più rilevanti di un soggetto, e di quanto apprendimento sia richiesto al bambino per arrivare a comprendere quali siano “i tratti più rilevanti” secondo gli usi propri della cultura cui appartiene. Il disegnatore finisce per funzionare come un operatore che favorisce il processo percettivo del soggetto. Egli seleziona in funzione del modo di vedere che gli è dettato dalle proprie propensioni e dal consenso della società cui appartiene. Come il sistema percettivo del soggetto filtra gli stimoli visivi, li organizza e sceglie, fra le infinite possibilità di senso, quale significato realizzare, così opera preventivamente il disegnatore. Per fare questo deve attuare scelte radicali, proporre enfatizzazioni coinvolgenti, erigere ampie parentesi entro cui rinchiudere ciò che per il momento potrebbe confondere o far venire dubbi; deve in sostanza innescare quel processo di conoscenza che è tale proprio perché egli opera delle scelte interpretative direzionate; deve proporre dei punti di vista che spesso diventano dei filtri convenzionali di osservazione, ma che a loro volta saranno in altri casi negati. Nel momento che si configura come visivamente legittima, una trascrizione grafica tende ad escludere tutte le altre possibili trascrizioni e le altre interpretazioni. Ma tale negazione è la porta aperta attraverso cui si potrà fare avanti una nuova proposta, una nuova dizione, un nuovo significato. (Massironi, 1982, p. 61). Non esiste un solo modo di rappresentare un oggetto; come non esiste un solo modo di guardarlo; così, la scelta operata dal bambino nella rappresentazione di determinati tratti visivi a scapito di altri corrisponde ad un momento d’interpretazione, di conoscenza, di comunicazione. Si trova allora che smontare il significante non ci porta a scoprire il significato, ma a costruire altri significanti; così il disegno che rappresenta un oggetto, mentre ci da delle informazioni su quell’oggetto, 335 si propone come nuovo oggetto che necessita di spiegazione e così di seguito. Allora la rappresentazione funziona come una produzione, anzi, […] è la progettazione che sta a monte della produzione: il lay-out è quell’oggetto che come un universo di oggetti racchiude in sé non solo “lo schema di un funzionamento”, ma “la dinamica di un comando”, “la trasmissione di un’ideologia”, “la condizione di un rapporto”, “l’imporsi della prevaricazione”, “l’inverarsi della valorizzazione”, “il programmarsi dell’appropriazione”, “l’organizzarsi dell’insubordinazione”, e così avanti. (Ibidem, pp. 70-71). Le ricerche psicologiche sperimentali hanno fornito varie interpretazioni dei processi percettivi, evidenziando come essi non costituiscano una mera registrazione degli stimoli esterni: la percezione presiede e innesca attività complesse di elaborazione, comprensione, trasformazione, completamento, adattamento ad esigenze individuali, attribuzione di qualità… agli stimoli esterni (o interni) che, attraverso quest’attività, vengono compresi e “visti”. Non esistono invece ricerche che riguardano la produzione di stimoli visivi fatti in funzione dell’osservatore di quelle immagini. Nasce quindi il problema di che cosa il disegnatore consideri utile, in maniera più o meno cosciente, per la resa visiva del suo elaborato; che cosa assuma come aspettativa del fruitore da soddisfare. Queste sono, presumibilmente, le condizioni che determinano le scelte degli indici che concorrono alla sua realizzazione finale. Dovendo definire la nuova condizione prodotta dal testo grafico, ci si trova di fronte ad un meccanismo complesso. Infatti il contenuto cognitivo dell’emittente-disegnatore, viene da questi codificato utilizzando alcuni stimoli visivi e alcune procedure conosciute della dinamica percettiva che egli sa manipolare. Tali stimoli saranno vissuti da un soggetto percipiente come informazione elaborata; quindi come riproposizione di seconda istanza degli stimoli dell’oggetto rappresentato. Egli si troverà così ad interpretare il nuovo oggetto costituito dal materiale grafico e si renderà conto che il referente di ciò 336 che sta osservando non è l’oggetto rappresentato, ma una sua interpretazione per così dire primaria. In questa catena (oggetto rappresentato-interpretazione dell’oggetto ritratto) egli non si trova allontanato, estraniato dal significato di quell’oggetto, anzi quell’interpretazione e trascrizione rendono la cosa rappresentata più consona alle sue aspettative, o carica di altri e nuovi significati, o più chiara in quanto meno ambigua. (Ibidem, p. 137). La capacità di rendere visibile una conquista percettivo-conoscitiva, oltre che nella rappresentazione di oggetti esterni si manifesta anche nel riuscire ad organizzare segni grafici per comunicare i risultati di un ragionamento. In figura 122-127, da p. 78 a p. 80, troviamo alcune riproduzioni di modelli ipotetici di funzionamento “dei pensieri”. Dopo una conversazione guidata a piccolo gruppo con domande stimolo quali: cosa sono i pensieri, a che cosa servono, dove sono; è stato chiesto ai bambini di rappresentarli. In figura 122, p. 78, Linda (6,3) colloca il cervello nella pancia; Dieu Anh (6,8) e Alina (6,10), rispettivamente in figura 123, p. 78 e 124, p. 79, paragonano i pensieri a dei “biglietti” (“zeltel”). Alina in particolare differenzia i pensieri “giusti” e “sbagliati” collocandoli in zone diverse della “grande scatola” che contiene i pensieri all’interno del cervello. Joël (7 anni) in figura 127, p. 80, fa uscire i suoi pensieri dalla testa trasformandoli in lettere e verbalizza “qualche volta penso con parole e qualche volta con immagini”. I bambini si sono trovati a dover rappresentare qualcosa di poco noto. Ciò che viene espresso visivamente è, in questo caso, non la forma di un oggetto ma una forma che rende conto di come possono stare insieme ed interagire gli elementi di un ragionamento alla luce delle conoscenze che essi hanno (si noti la stereotipia di alcuni cervelli) e di quelle acquisite durante la conversazione guidata. Potremmo dire che si tratta di un modello ipotetico di funzionamento 337 che ha lo scopo di chiarire e comunicare il comportamento supposto degli elementi interagenti presi in considerazione. I bambini hanno costruito un’ipotetigrafia, ovvero un prodotto grafico che contribuisce a dare forma visiva alle ipotesi che essi hanno formulato per spiegare il comportamento dei pensieri nella loro vita. Si tratta di un prodotto grafico che anziché tendere al massimo di economia e semplicità, tende piuttosto al massimo di chiarezza e logicità. Si tratta di uno sforzo immaginativo notevole in cui una parte importante viene giocata anche dalla parola, necessaria a definire la cosa rappresentata e i legami intercorrenti tra i segni grafici e i contenuti da essi veicolati. Pur partendo da una condizione percettiva, in questo caso è evidente come l’impegno dei bambini in questa attività si sposti velocemente sul piano del ragionamento, della comprensione, dell’attenzione, dell’individuazione di relazioni logicamente accettabili; e ciò diversamente da quanto si verifica, ad esempio, nella copia dal vero di un soggetto in cui si riscontra quasi una messa tra parentesi di quel particolare tipo di attività intellettive. Le difficoltà circa la causa della rappresentazione scaturiscono dal fatto che la rappresentazione di origine sensibile dipende al contempo da una elaborazione significante operata dal soggetto e dall’effettiva sottomissione di questi a un contenuto percettivo venuto dall’esterno […]. Nella rappresentazione interviene il sistema pensiero-linguaggio: la rappresentazione è una percezione interpretata, un sensibile e al contempo (mediante dei concetti) una descrizione. (Gil, cit. in, Massironi, 1982, p. 56). 338 4.4 Raffigurazione dell’oggetto e funzione comunicativa del disegno Lasciare una traccia, costruire rappresentazioni attraverso il disegno e creare immagini, sono mezzi utilizzati dal bambino per esplorare oggetti e situazioni. Le forme create possono riprodurre oggetti reali, immaginari, ipotesi, situazioni vissute o fantastiche. Via via che il bambino cresce e diventa più esperto attraverso la pratica con il codice grafico, si scontra con problemi nuovi ed elabora strategie di risoluzione. L’attività grafico-pittorica conferisce il potere di fare e disfare, di conoscere l’oggetto e se stessi più intimamente, cosa a cui i bambini sono molto appassionati. Il loro coinvolgimento nel “fare arte” è in gran parte diretto all’interiorità e tende verso una sempre maggiore articolazione: disegnare e dipingere sono enunciazioni espressive a proposito di ciò che si conosce, si prova e si vuol capire. È un dialogo con se stessi che, come qualsiasi attribuzione di significato, è intrinsecamente espressivo. È un’attività di problem solving sovente permeata di emozioni intense e di interessi che sono vicine al cuore dell’artista.(Golomb, 2002, p. 45). Golomb distingue, a proposito dell’intenzione e della motivazione dei bambini al disegno, due tendenze: una narrativa e una espressiva. La tendenza narrativa è motivata dal desiderio di raccontare una storia, di trasmettere informazioni relative alla natura e alla funzione degli oggetti, alla disposizione di una scena e alle azioni e intenzioni dei protagonisti. Il desiderio di essere competenti dal punto di vista narrativo governa, con lo scopo di trasmettere in modo efficace il messaggio la differenziazione e la coordinazione tra i vari elementi della composizione. La tendenza espressiva si manifesta nella scelta di forme e colori che trasmettono un messaggio affettivo, nell’esagerazione della 339 dimensione e dei cromatismi di alcune parti del corpo, e nel piacere estetico della decorazione. (Ivi). L’autrice sottolinea come a volte sia possibile leggere negli elaborati dei bambini la tensione tra le due tendenze: il desiderio di rendere meno ambigua la rappresentazione (per motivi narrativi) e «la tendenza giocosa a utilizzare l’espressione fine e se stessa» (ivi). Queste tendenze condurrebbero, secondo Golomb, allo sviluppo di stili differenti di rappresentazione e comporterebbero diversi tipi di soddisfazione per il bambino. A titolo esemplificativo possiamo vedere come in figure 128 e 129, p. 81, l’aspetto espressivo prevalga su quello narrativo nelle grafiche di Emily (6,1) e Linda (4,5) rispettivamente. In figura 130, p. 82, tutta l’esperienza vissuta in palestra da Jonny (5,8), il gioco del fare canestro, viene ri-trascritta attraverso una vera e propria narrazione grafica244: il tema è completamente rielaborato attraverso una narrazione mista di elementi fantastici (la stanza dell’operatrice, Katia, nel soffitto della palestra; una macchina fotografica nascosta; una specie di meccanismo che, messo sulla testa dei bambini, fa fare loro canestro, “il satellite”… non a caso Liam “ce l’ha rotto”) e realmente vissuti. In Jonny, la tendenza narrativa sembra dominare anche le altre produzioni grafiche [fig. 54, p. 34; 60, p. 37; 64, p. 39]. 244 La consegna dell’adulto, dopo una conversazione a grande gruppo sulle attività svolte il giorno precedente, in cui i bambini, a turno, elencavano e spiegavano tutte le attività proposte dalla conduttrice del laboratorio era di disegnare l’attività che era piaciuta di più tra quelle di cui si era parlato. Jonny ha scelto l’attività in cui i bambini, in fila indiana, davanti ad un canestro, dovevano cercare di fare centro. I bambini avevano a disposizione solo alcuni palloni: il primo della fila, dopo un tentativo di canestro, aveva il compito di raccogliere il pallone che aveva utilizzato, mettersi in coda alla fila e passarlo al bambino che aveva davanti (l’ultimo della fila) che a sua volta lo dava a quello davanti a lui e così via. In questo modo i primi bambini, con il pallone in mano, potevano tentare il canestro, raccogliere il pallone, accodarsi e far avanzare la fila in modo scorrevole. Tra i bambini della sezione, Liam era quello che si arrabbiava di più, perché non riusciva mai a fare canestro, e spesso la rabbia si trasformava in drammatiche scenate di pianto. 340 Le figure 50, p. 32 e 2-a, p. 6, possono invece essere considerate come esempi di grafiche in cui coesistono le due tendenze. Nella prima Linda (5,4) si attiene alla consegna: disegnare la sorpresa dell’uovo di pasqua, ma poi riempie il disegno con motivi decorativi che non hanno valore rappresentativo, quanto, piuttosto, espressivo; in figura 2a (Giulia 5,7) la torta si stacca dalla composizione e risalta per la meticolosità con cui vengono riempiti di colore i diversi strati che la compongono e per le dimensioni, mentre rimane sullo sfondo il tema del disegno (“un disegno per il papà”). Interessante confrontare la grafica di Jonny (5,8) con quella di Salvatore (5,4) e di Glenis (6,3), in figura 130, p. 82; 63, p. 39; e 84, p. 52 rispettivamente. Si tratta di disegni della stessa attività, esegui da tre bambini diversi dopo la stessa conversazione a grande gruppo. La loro comparazione evidenzia la dialettica tra enfatizzazione ed esclusione del processo rappresentativo e il suo costituirsi come codice parallelo a quello orale. In ogni immagine alcuni tratti, elementi, caratteristiche sono evidenziati in modo che risultino ben leggibili, altri vengono completamente trascurati, volutamente ignorati, cancellati, come se non esistessero oppure, al contrario, sono trasformati e trasfigurati. Così sia Jonny che Salvatore “ci dicono” che Liam non è stato in grado di fare canestro, ma mentre Jonny ricorre ad una modalità fantastica di argomentare (sia attraverso il disegno che attraverso la verbalizzazione che lo esplicita), Salvatore documenta il fatto attraverso una grafica simmetrica in cui si vede “Liam che non riesce a fare canestro” e “io che faccio canestro” rispettivamente a sinistra e a destra del foglio; mentre la distanza tra le due diverse esperienze è sottolineata graficamente da “il cerchio dove ci si siede” posto tra i due bambini. Questo disegno è interessante perché evidenzia un altro problema che nella rappresentazione deve essere risolto: la rappresentazione del “movimento nel tempo” ovvero la traduzione 341 mediante un disegno, i cui elementi sono simultanei ed invariabili, di uno spettacolo in cui elementi si sostituiscono gli uni agli altri mentre altri restano invariati, senza che sussista una relazione di continuità tra i vari momenti. (Luquet, 1927, p. 181). La soluzione cui ricorre Salvatore è quella di disegnare la sequenza degli spostamenti del pallone nello spazio245. Anche questa immagine rappresenta una rielaborazione grafica “fantastica” dell’accaduto: il fine comunicativo, ossia il messaggio che Liam, a differenza dell’autore, non è riuscito a fare canestro, trova una sua modalità espressiva attraverso una grafica che “tradisce” il reale svolgimento dell’evento; in realtà, i bambini erano in fila indiana e ognuno aspettava il proprio turno246. 245 «Fatti, cose e personaggi sono colti dal bambino nello spazio e nel tempo, in modo che si dovrebbe sempre parlare di raffigurazioni spazio-temporali. Secondo l'opinione corrente, invece, un disegno o un dipinto fisserebbero soltanto un momento del tempo. Ma in realtà non è così» (Piantoni, 1992, p. 30). 246 Nell’analizzare quali livelli di conoscenza possono essere perseguiti e trasmessi dalla notazione grafica da un lato e dal linguaggio-scrittura dall’altro, Massironi dichiara che «la notazione grafica ha una funzione solo assertiva. Non può esprimere una negazione. Non si può rappresentare un oggetto come “non alto”, può essere rappresentato solo come “basso”, la definizione di “non alto” o “non basso” hanno un senso solo nell’enunciato verbale, non in una stesura iconica. Non si può rappresentare una superficie come “non rossa”, ma solo come “verde” o “nera” o “gialla” ecc. L’immagine iconica non pertiene alla logica formale, non può rientrare nella dinamica del “vero” versus “falso”. L’immagine presentata o rappresentata è sottratta alla determinazione di “verità”. Si possono costruire figure indecidibili o incongrue o ambigue, ma nel momento che vengono mostrate esse rendono presente l’indecidibilità, l’incongruità, l’ambiguità. Il dilemma vero-falso non riguarda l’immagine perché non può essere rappresentato il “falso”. La condizione di “falso” può risiedere soltanto in un legame posto dall’esterno fra un’immagine e un’asserzione verbale che la riguardi […]. L’immagine per se stessa può essere assunta e viene sempre assunta come “vera” e ciò in conseguenza del suo essere per molti versi sempre e solo “falsa” (vale a dire presentazione fantasmatica di qualcosa di possibilmente esistente, ma che della cosa esistente ha solo l’aspetto) e così essendo troppo complicato assumere come frequente la falsificazione di una falsificazione, si è portato ad accogliere quel “falso” come “vero” pur nell’indifferenza di fatto della figura nei confronti di questi due poli. L’impossibilità di decidere se è “vero” o “falso” quanto rappresentato in un’immagine ci porta ad usare frequentemente, a cercare, e a leggere sempre con avidità, la didascalia che accompagna l’immagine. Anche in una fotografia 342 Quest’ultimo fatto è invece rappresentato nel disegno di Glenis (6,3) in figura 84, p. 52, che si presenta come più “lineare”: i bambini solo in fila indiana, “girati” verso il canestro, tutti con il pallone in mano, tranne lui, che ha “fatto canestro con la palla”. L’attività dei canestri viene ri-presentata in modalità e forme dettati da un’intenzione comunicativa specifica, intenzionale e volontaria che determina la scelta degli elementi strutturali che costituiscono le diverse grafiche. Questi esempi sono sì collegati al linguaggio verbale (nel senso che riproducono anche le conoscenze dei bambini emerse durante la conversazione a grande gruppo), ma si presentano altresì come una forma di scrittura nel senso tecnico e generale della parola […]. Il legame che unisce il linguaggio all’espressione grafica è coordinativo e non subordinativo, come invece succede con la scrittura lineare, in cui l’espressione grafica è completamente subordinata all’espressione fonetica. (Squillacciotti, 1995, p. 148). Nell’analisi condotta da Massironi sull’immagine come equilibrio tra enfatizzazione ed esclusione l’autore sottolinea come osservando attentamente un’immagine grafica, da essa emerga con una certa facilità quanto vi è di sottolineato, prescelto e rinforzato, mentre riesce più difficile elencare un certo numero di elementi tralasciati, anche se solitamente questi ultimi sono in numero assai maggiore. Ciò dipende dalle qualità coinvolgenti ed assorbenti dell’immagine, che si propone sovente dal punto di vista cognitivo come un surrogato molto convincente della realtà. andiamo a cercare quel breve tratto verbale che ci aiuti nella nostra decisione cognitiva […]. Ma l’uso della didascalia ci rassicura perché contribuisce a far rientrare i dati percettivi acquisiti nella meccanica di una logica conseguente. Le registrazioni sensoriali sono il mezzo attraverso cui il mondo che è fuori di noi viene a far parte della nostra coscienza; ogni stimolazione quindi, di qualsiasi genere sia, mette in moto un’intrinseca disposizione ad assumere come reale quanto verificato sensibilmente» (Massironi, 1982, p. 95). 343 Nel momento in cui le stimolazioni offerte dal disegno mimano quelle provenienti da quell’immagine, un’ipotetica siamo realtà trascinati parimenti dalla congruente logica serrata con della rappresentazione. Osservando un’immagine, di tal genere, non si ha quasi mai l’impressione di mancanza. Pur avendo coscienza di essere intenti ad osservare una rappresentazione, non si percepisce quanto rappresentato come mero sostituto, ma, di solito, come una realtà a sé stante, in qualche modo completa e buona, non carente. Si può interpretare questo fatto dicendo che il lavoro di enfatizzazione tende a non lasciare vuoti. (Massironi, 1982, pp. 56-57). La parte che viene enfatizzata nel processo rappresentativo è sempre convincente, anche quando ciò che viene proposto (come nel disegno di Jonny, ma ancor più in quello di Salvatore) non è ciò che è effettivamente accaduto247. Essa è così attraente e informativa da non farci sentire “la mancanza” di ciò che è trascurato e questo è valido non solo per il contenuto della rappresentazione, ma anche per gli elementi che fanno parte della scena che si vuole rappresentare. Lo stesso fenomeno si verifica nel processo percettivo quando la messa a fuoco del nostro sguardo su un oggetto o un evento, ci fa trascurare, non vedere, tutto il resto. K. Koffka (1935) definisce con i termini “cosa” e “non cosa” la gerarchia di qualità che esiste fra le diverse parti del campo percettivo. Da queste indicazioni risulta intuibile che il primo fenomeno che involontariamente ma necessariamente trascuriamo nella rappresentazione concreta è lo sfondo, e quello che enfatizziamo è la figura. Si può vedere come nei disegni dei bambini e nelle arti primitive in genere, non venga praticamente trattato lo sfondo relativo 247 Anche la grafica di Glenis non ci dice “la verità”. Tutti i bambini, nel suo disegno, hanno il pallone; anche Glenis ha dovuto “piegare” l’accaduto affinché il suo messaggio risultasse chiaro e non ambiguo. 344 all’ambiente in cui sono inseriti i protagonisti rappresentati. Ma anche il disegnatore più avveduto attua automaticamente una cernita degli elementi da fare risaltare o da trascurare nella stesura del suo elaborato, e tale cernita è determinata solitamente dalla tecnica appresa, dalle convenzioni stilistiche e dai condizionamenti correnti. (Ibidem, p. 60). In particolare il processo di enfatizzazione/esclusione non è un processo solipsistico che il bambino attua isolatamente. Si tratta di un atto comunicativo “situato” in un contesto specifico, la scuola, in cui hanno un importante valore per il bambino, le richieste del “lettore” del messaggio grafico, ovvero quelle dell’insegnante, il cui obiettivo è quello di far sì che il bambino sviluppi un codice grafico specifico. Rappresentare iconicamente l’oggetto significa allora trascrivere per mezzo di artifici grafici (o di altro genere) le proprietà culturali che gli vengono attribuite. Una cultura, nel definire i propri oggetti, si rifà ad alcuni codici di riconoscimento che individuano tratti pertinenti e caratterizzanti del contenuto. Un codice di rappresentazione iconica stabilisce quindi quali artifici grafici corrispondono ai tratti del contenuto, ovvero agli elementi pertinenti fissati dai codici di riconoscimento. La maggior parte delle rappresentazioni iconiche schematiche verificano letteralmente questa ipotesi (il sole come cerchio con raggi, la casa come quadrato sormontato da un triangolo eccetera). Ma anche nei casi di rappresentazione più “realistica” si possono individuare blocchi di unità espressive che rinviano non tanto a ciò che dell’oggetto si vede ma a ciò che si sa, o a ciò che si è imparato a vedere. (Eco, 1975, pp. 272273). Gli “scolari”, nel processo di rappresentazione grafica, dovranno dunque enfatizzare ed escludere elementi grafici specifici sia in funzione del significato che intendono esprimere che delle richieste dell’insegnante che a sua volta nel processo di lettura-valutazione dei prodotti dei bambini, fa riferimento, più o meno consapevolmente, 345 ad un codice iconico248 specifico, che è quello, nella scuola, di tipo “artistico”. Accade spesso che il prodotto grafico cambi in relazione alla situazione comunicativa che si verifica tra adulto e bambino durante la sua realizzazione, alle reciproche relazioni interpersonali, alle richieste di “approfondimento” dell’adulto rispetto ad un soggetto o di aiuto del bambino rispetto ad un problema grafico. Tutto ciò non “si vede” nel disegno in cui sono simultaneamente visibili soltanto gli elementi che esso contiene. Le “mancanze” si avvertono solo durante l’operazione del fare, quando la necessità di costruire un’immagine soddisfacente porta il bambino (e l’insegnate) ad osservare in maniera analitica le indicazioni fornite dalla grafica. Solo allora è possibile constatare la mancanza di un particolare, l’ambiguità di una relazione, la non leggibilità di alcuni elementi. Ma queste mancanze sono determinate dal fatto che il sapere del lettore del disegno non può supplire in maniera soddisfacente la loro assenza, perché il suo sapere, la sua conoscenza non sono sintonizzati con quella del progettista. Si crea un vuoto, un buco nell’informazione, per evitare il quale il progettista è costretto a dettagliare il suo disegno in maniera sempre più particolareggiata (Massironi, 1982, pp. 67-68). Come le narrazioni verbali, i disegni possono essere letti come coproduzioni tra interlocutori: nel disegno, come nel linguaggio c’è un adattamento del messaggio al contesto, che indirizzerebbe tanto la selezione di cosa rappresentare e come rappresentarlo, quanto la scelta della prospettiva e la coordinazione tra gli elementi considerati. (Donsì – Parrello, 2005, p. 10). 248 «Si può allora parlare di codice iconico come del sistema che fa corrispondere a un sistema di veicoli grafici unità percettive e culturali codificate, ovvero unità pertinenti di un sistema semantico che dipende da una precedente codifica dell’esperienza percettiva» (Eco, 1975, p. 274). 346 In generale i temi che i bambini ritraggono attraverso le loro narrazioni grafiche riflettono esperienze vissute e costituiscono descrizioni (spontanee o indotte) di eventi sociali cui hanno preso parte: compleanni, vacanze, momenti di vita scolastica o familiare, uscite domenicali con la famiglia, episodi divertenti o momenti “drammatici”, messaggi per amici o insegnanti… Attraverso il disegno il bambino da ordine alle proprie esperienze e le rende “pubbliche”. Nel disegnare seleziona ciò che per lui è rilevante comunicare di un vissuto, affinché la sua comunicazione risulti efficace ed esteticamente piacevole. Per David Olson «i campi esecutivi o media di maggiore rilievo per lo sviluppo percettivo dei bambini sono quelli che hanno un rapporto con l’attività nei vari media culturali quali disegnare, parlare e contare» (Olson, 1979, p. 49). L’esperienza con i media del disegno e del linguaggio «dà alla mente le sue proprietà peculiari», perché sviluppa ed articola la percezione proprio «in rapporto ai nuovi compiti o requisiti richiesti dai nuovi media» (ibidem, p. 59). Lontano dall’esserne copie, disegno e linguaggio sono modi organizzativi e strutturanti la realtà e la struttura della conoscenza è data dai vari media culturali. «Ciascun medium o forma di attività, o “linguaggio” ha le proprie caratteristiche, e codificare l’informazione in tale linguaggio significa dare una particolare impronta a quell’informazione» (ibidem, p. 218). Se la conoscenza e il modo in cui può essere espressa sono interdipendenti, ciò non significa che sia possibile identificare il pensiero con uno degli strumenti semiotici, né tantomeno che sia possibile codificare tutta la realtà attraverso uno dei media (sia esso linguaggio verbale o grafico). «Nessun sistema di rappresentazione può esaurire quella realtà» (ibidem, p. 219); né la conoscenza elaborata attraverso l’esercizio di un medium è completamente traducibile in un altro medium. Come 347 ha evidenziato Marshall McLuhan «tutte le parole del mondo non bastano a descrivere un oggetto come un secchio, ma ne bastano poche per dire come si fa un secchio» (McLuhan, 1964, p. 169). Olson, critico nei confronti dell’indifferenza per i media da parte della psicologia e della pedagogia, cita Arnheim e Gombrich come studiosi che hanno saputo mettere in risalto il valore formativo dei media249. Abbiamo visto come per Arnheim e Gombrich, il concetto di copia o di imitazione fosse inadeguato a spiegare una rappresentazione grafica di qualunque tipo. Il disegno è per questi autori elaborazione, creazione, invenzione, costruzione di equivalenti o sostituti nelle proprietà del medium. Attraverso gli studi della Callaghan, sappiamo che il bambino molto piccolo è in grado di cogliere la somiglianza strutturale tra un oggetto e l’immagine che lo rappresenta, capacità «elementarissima» per Arnheim. Di fatto non solo i bambini, ma anche «le scimmie 249 «Benché molti scrittori trattino il tema della psicologia dell’arte, furono in particolare Gombrich (1960) e Arnheim (1954), ad insistere per primi sugli effetti variabili dei diversi media; McLuhan (1962, 1964) dimostrò per primo, in un senso generale, l’importanza del medium sulla struttura del mondo percettivo indipendentemente dal contenuto specifico del medium stesso. La sua scoperta è stata spesso utilizzata per scopi polemici in psicologia perché non è stato possibile fare nessuna congettura sul modo in cui i media possono avere questo effetto. Quanto è stato detto nelle pagine precedenti dimostra come siano possibili gli effetti differenti dei media; l’informazione è selezionata per scegliere fra le alternative; pertanto, la padronanza di un nuovo medium richiede la selezione di una nuova informazione […]. Le prove di McLuhan sugli effetti psicologici dei vari media sono raccolte da fonti letterarie e storiche; per questo uno psicologo nutrirebbe dei sospetti» (Olson, 1979, p. 54-55). Il sospetto dello psicologo ha ovviamente riguardato anche gli studi e le prove relative alle arti visive. Continua poi oltre «Nelle osservazioni iniziali sullo sviluppo delle rappresentazioni concettuali, è stato sottolineato che il termine “rappresentazione” veniva impiegato da Gombrich e da Arnheim, che lo usavano come un atto esecutivo quale si ha “nell'usare un cerchio per rappresentare la testa di un uomo”, in modi diversi Piaget, Cassirer, Bruner e Gibson. Questi ultimi usano il termine rappresentazione per riferirsi a processi immaginativi, processi che si realizzano nella mente, non sulla tela o sulla carta. Secondo il punto di vista portato avanti in questo capitolo, il primo uso è giustificabile sul piano psicologico. E' ridondante parlare di rappresentazioni nella mente. Si può invece dire che i tentativi di atti esecutivi nella rappresentazione artistica, nel linguaggio, e in altri media offrono l’occasione per ottenere un’informazione più ricca dal mondo percettivo. Come ho detto in precedenza, anche l’attività interiorizzata è una interpretazione errata. Non è l’attività che viene interiorizzata, ma l’attività offre l’occasione per ottenere un’informazione nuova dal mondo percettivo» (Ibidem, p. 58). 348 riconoscono quasi spontaneamente le immagini al tratto di oggetti familiari». (Arnheim, 1954, p. 123). Percepire un disegno, riconoscendolo come raffigurante un oggetto, non è in nessun modo produrlo. La presenza di concetti percettivi non assicura la comparsa di concetti rappresentativi, e lo stesso vale per la loro espressione verbale. E questo è il motivo per cui, nelle prime manifestazioni grafiche, i bambini sono in grado di dare il nome alla propria produzione solo dopo averla vista: c’è riconoscimento di un concetto percettivo nella grafica prodotta, ma non ancora elaborazione a priori di un concetto rappresentativo adeguato ad esprimere un atto percettivo. Così, se il riconoscimento accomuna bambini e scimmie, la produzione li differenzia. L’invenzione di forme grafiche è specifica della specie uomo: disegnare non è percepire. Per Olson, che si è soffermato sulla differenza tra percepire e disegnare rispetto alla copia di disegni, il fallimento del bambino piccolo nel disegno di copia è spiegabile non tanto ricorrendo ad un’inadeguata rappresentazione mentale, quanto elaborando una teoria percettiva adeguata. Le teorie percettive «sono necessariamente inadeguate finché non cominciamo a precisare i modi in cui i tentativi di esecuzione nei vari media determinano quale informazione sarà colta percettivamente» (Olson, 1979, p. 43). La teoria di Arnheim risponde a questa esigenza, laddove l’autore precisa che «la differenza non è innanzitutto tra percezione e rappresentazione, ma tra percezione dell’effetto e percezione della forma, dove quest’ultima è necessaria alla rappresentazione» (Arnheim, 1954, p. 149). Se è vero che il termine percezione può essere considerato sinonimo di riconoscimento, è altrettanto vero che «il riconoscimento non è mai completo; è sempre una funzione delle alternative prese in considerazione» (Olson, 1979, pp. 39-40). La differenza tra percepire (riconoscere) un disegno e copiarlo, consiste nel fatto che il bambino, guardando un modello 349 coglie un’informazione sufficiente per scegliere il modello fra tante alternative, ma non raccoglie un’informazione sufficiente per riprodurlo […]. Eseguire un atto quale copiare, fare, o parlare, richiede informazioni percettive diverse da quelle necessarie per percepire o riconoscere un evento fra un insieme di semplici alternative. (Ibidem, pp. 40-41). Il bambino che rappresenta “l’omino testone” non ha ancora sviluppato la capacità di raccogliere l’informazione percettiva pertinente al compito della riproduzione grafica in senso figurativo. La mente si sviluppa «non con l’interiorizzazione del medium in forma di discorso interiore, o di attività interiorizzata, ma per la necessità di informazioni ulteriori che possono guidare gli atti esecutivi» (ibidem, p. 58) nei vari media culturali. Contrariamente all’opinione che lega il concetto al linguaggio fino al determinismo linguistico, Arnheim sostiene che il linguaggio verbale aiuti il pensiero indirettamente, collaborando con il linguaggio visivo che costituisce un medium più adeguato al pensiero stesso. Il “medium” visivo è tanto enormemente superiore perché offre equivalenti strutturali di tutte le caratteristiche degli oggetti, eventi e relazioni. La varietà delle forme visuali disponibili è grande quanto quella dei possibili suoni del linguaggio, ma quello che conta è che esse si possono organizzare secondo pattern prontamente definibili, di cui le forme geometriche sono l’illustrazione più tangibile. La virtù principale del “medium” visuale è quella di rappresentare le forme in uno spazio bidimensionale e tridimensionale, in confronto con la sequenza monodimensionale del linguaggio verbale. Questo spazio polidimensionale non soltanto offre al pensiero efficaci modelli di oggetti fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente le dimensioni che occorrono al ragionamento teorico. (Arnheim, 1969, p. 273). La polidimensionalità caratterizza ciò che Arnheim chiama la «cognizione intuitiva», la monodimensionalità o linearità caratterizza 350 la «cognizione intellettiva»250. L’una è il procedimento del pensiero quando tratta l’insieme nell’interazione reciproca e simultanea delle varie componenti; l’altra quando procede all’isolamento delle diverse componenti e relazioni ordinandoli in sequenza. Prigioniera in un mondo quadridimensionale di continuità e di simultaneità spaziale, la mente opera da un lato intuitivamente, cogliendo i prodotti delle forze di campo liberamente interagenti; dall’altro, traccia intellettivamente sentieri monodimensionali attraverso il paesaggio spaziale. (Ibidem, p. 289). 250 «Esistono due tipi di pensiero percettivo, che distinguerò come cognizione intuitiva e cognizione intellettiva. La cognizione intuitiva ha luogo in un campo percettivo di forze liberamente interagenti. Si consideri, ad esempio, il modo in cui una persona coglie un’opera di pittura. Passando in rassegna lo spazio racchiuso nella cornice, l’osservatore percepisce le diverse componenti del quadro, le forme ed i colori e le relazioni fra di essi. Tali componenti esercitano i propri effetti percettivi l’uno sull’altro in modo tale che l’osservatore riceve l’immagine totale come risultato dell’interazione tra le componenti stesse. Tale interazione di forze percettive costituisce un complesso di campo altamente complesso, pochissima parte del quale, di norma, raggiunge la coscienza. Il risultato finale diviene conscio come il percetto del quadro, organizzato in un certo modo e consistente di forme e colori il cui carattere particolare è determinato dal loro posto e funzione entro l’insieme. Gran parte del pensiero e dell’attività risolutrice di problemi procede nella, e per mezzo della, cognizione intuitiva […]. Ma esiste un altro procedimento, e precisamente quello della cognizione intellettiva. Supponiamo che un osservatore, anziché assorbire l’immagine del quadro intuitivamente, intenda identificare le diverse componenti e relazioni di cui l’opera consiste. Egli descrive ciascuna forma, precisa ciascun colore, e prepara una lista di tutti questi elementi. Procede poi ad esaminare le relazioni fra i singoli elementi, gli effetti, ad esempio, del contrasto, o l’assimilazione che producono l’uno sull’altro. Dopo avere raccolto tutti questi dati, cerca di combinarli, e pertanto di ricostruire l’insieme. Che cosa ha fatto questo osservatore? Ha isolato elementi e relazioni fra elementi del campo percettivo, allo scopo di fissare la particolare natura di ciascuno. A questo modo si sviluppano concetti stabili e indipendenti dalle entità più o meno stabili e più o meno circoscritte che costituiscono il campo percettivo. Cristallizzando adeguatamente i concetti percettivi tratti dall’esperienza diretta, la mente acquista le forme stabili, che le sono utili per il pensiero coerente. Le componenti dei processi del pensiero intuitivo interagiscono con un campo continuo. Quelle dei processi intellettivi si susseguono in successione lineare […]. Esempi rappresentativi di processi di pensiero intellettivi sono le successioni di concetti nelle sequenze verbali, il conteggio o la somma di elementi, le catene di proposizioni logiche nei sillogismi o nelle dimostrazioni matematiche». (Arnheim, 1969, pp. 274-276). 351 Se oggi la neuropsicologia, abbandonata la tesi della “dominanza celebrale”, porta avanti quella della “specializzazione emisferica”, e gli psicologi ci parlano di due codici, l’impostazione di Arnheim ci mette in guardia da tutta una serie di rischiose interpretazioni, che hanno accompagnato e che accompagnano lo sviluppo di questi settori di ricerca. «La dissociazione tra pensiero visivo e pensiero verbale, tra creatività (artistica e scientifica) e riproduzione verbale richiama la specializzazione dei due emisferi»251. Ma a torto. Poiché il funzionamento separato dei due emisferi vale solo per stimoli molto semplici e il processo di categorizzazione dell’emisfero sinistro si sviluppa producendo – in collaborazione con quello dell’altro emisfero – la comunicazione e il pensiero logici (da logos, il termine greco per concetto, parola) e proposizionali espressi sotto forma di linguaggio. Il processo di categorizzazione dell’emisfero destro si sviluppa producendo invece – sempre in collaborazione con quello dell’altro emisfero – la comunicazione e il pensiero razionali (da ratio, il termine latino per ragione, calcolo) e apposizionali espressi nella musica e nella matematica. (Pribram, 1985, p. 270). Perciò disegnare con la parte destra del cervello è un titolo fuorviante, quantomeno perché la base della sequenzialità dell’azione del disegnare è funzione dell’emisfero sinistro252. Gardner, che pure tiene in grande considerazione gli studi sulla localizzazione celebrale («il cervello può essere suddiviso in regioni specifiche, ciascuna delle quali emerge come relativamente importante per certi compiti e come relativamente meno importante per altri»), opportunamente precisa che 251 Mecacci, 1984, p. 120. Il periodo riportato è opportunamente criticato dall’autore. 252 Disegnare con la parte destra del cervello è il titolo di un famoso libro di Betty Edwads (1979), dal promettente sottotitolo Guida allo sviluppo della creatività e delle doti artistiche. 352 pochi compiti dipendono per intero da una sola regione celebrale. Ogni volta che si esamina un compito ragionevolmente complesso, si trovano invece input provenienti da un certo numero di regioni celebrali, ciascuna delle quali fornisce un contributo caratteristico. Per esempio, nel caso del disegno a mano libera certe strutture dell’emisfero sinistro assumono una funzione cruciale fornendo i particolari, mentre talune strutture dell’emisfero destro sono ugualmente necessarie a fornire la padronanza del contorno complessivo dell’oggetto raffigurato. Una compromissione dell’uno o dell’altro emisfero celebrale avrà come conseguenza un qualche deterioramento della prestazione. (Gardner, 1983, p. 74). Ciò che i disegni dei bambini “descrivono” non è una forma di imitazione più o meno aderente a qualche immagine fantastica o reale (l’attività stessa da cui scaturisce non è attività imitativa); ogni disegno attesta «una mente che scopre liberamente elementi strutturali di rilievo nel soggetto, e che trova forme adeguate ad esse nel medium di linee tracciate su un foglio di carta» (Arnheim, 1969, p. 301). I linguaggi sono media culturali che specificano e specializzano la capacità umana dei diversi sensi. Nella visione e nell’udito, le forme, i colori, i movimenti, i suoni, sono suscettibili di organizzazione precisa ed altamente complessa nello spazio e nel tempo. Pertanto questi due sensi sono i “media” per eccellenza per l’esercizio dell’intelligenza. (Ibidem, pp. 23-24). I media culturali, come il linguaggio verbale e il disegno, non si limitano a trascrivere i prodotti del pensiero ma sono “pensiero essi stessi”, in quanto non solo possono costituire «un ausilio nel processo di elaborazione delle soluzioni di problemi» (ibidem, p. 155) ma, poiché qualsiasi medium possiede specifiche proprietà, struttura il pensiero secondo peculiari modalità. 353 Allora il processo di produzione del pensiero, nel soggetto in formazione, è innanzitutto un processo di affermazione di forme storico-evolutive che procedono man mano che il soggetto prende possesso di sé e della realtà circostante, in relazione con lo specifico ambiente, fisico e culturale, in cui si trova a crescere e a operare. In questo senso il pensiero, come grado zero, precede teoricamente il soggetto ma si realizza concretamente, storicamente, materialmente solo attraverso il suo stesso operare, o meglio l’operare del soggetto nella sua forma storica determinata.(Squillacciotti, 1995, p. 153). I vari modi della significazione ovvero le diverse forme di espressione del pensiero sottendono una volontà di comunicazione che può essere considerata lo scopo ultimo a cui tendono tutti i sistemi di segni. I sistemi di segni si diversificano non perché nascano da bisogni diversi, ma per meglio adattarsi, a seconda delle condizioni contingenti e delle potenzialità intrinseche ad ogni mezzo, ad un unico fondamentale bisogno di comunicazione. Tenendo conto della complessità dei modi in cui avviene la conoscenza umana (tenendo conto delle variabili intrapersonali come di quelle interpersonali) si può intuire come debbano essere inevitabilmente molteplici le forme della significazione […]. Oltre a stabilire delle graduatorie e dei primati di comunicabilità fra i vari sistemi, e oltre a studiare separatamente i percorsi che essi seguono, potrebbe risultare importante uno studio sistematico di tutte quelle condizioni marginali in cui uno strumento comunicativo si arresta e cerca aiuto in un altro, e particolarmente […] dei casi in cui il discorso verbale si ritrae per lasciare spazio a quei modi di significazione grafica che ne integrano e dilatano i limiti comunicativi: vedere cioè il legame fra illustrazione e testo […]. Da questi studi potrebbe risultare che tra i vari percorsi della significazione vi è una continuità e che il passaggio dall’uno all’altro è estremamente sfumato e non così netto come le varie gerarchie preposte fra i sistemi di segni, o gli esami condotti su esami separati 354 potrebbero far pensare. E ciò risulterebbe in consonanza con l’unitarietà del sistema che produce e utilizza i sistemi di segni, l’interrelazione e integrazione fra i diversi procedimenti cognitivi umani. (Massironi, 1982, pp. 111-112). 355 Conclusioni Alla luce del lungo percorso fin qui condotto sia sulla natura culturale dello sviluppo che sulle forme espressive grafiche, in quest’ultima parte del lavoro tenteremo una sintesi ed una trascrizione dello sviluppo del disegno a partire dalla teoria storico-culturale, in quanto dal confronto tra le diverse teorie esposte risulta la più portante l’analisi di campo oggi ed in grado di tradurre nello specifico la moderna impostazione della prospettiva etno-cognitiva. Si tratta inoltre di verificarne l’efficacia analitica alla prova con i documenti raccolti nella pratica di campo. La teoria di Vygotskij si basa sul presupposto che lo sviluppo cognitivo non possa essere compreso se non in riferimento al contesto sociale in cui è inserito. Esso avviene grazie al supporto sociale nell’interazione del bambino con gli altri e comprende lo sviluppo di abilità attraverso l’utilizzo di strumenti culturalmente e storicamente determinati, che mediano l’attività cognitiva. Anche lo sviluppo dell’abilità grafica si configura come “trasformazione sociale” piuttosto che come acquisizione mentale individuale: essa è radicata in contesti di interazione con altre persone con cui si condividono scopi, strumenti e attività. Il concetto di abilità cui facciamo riferimento considera l’abilità come un saper fare tacito e incorporato (embodied), non codificabile in regole o programmi di istruzione specifici253. Esso dà luogo ad un 253 «Vorrei analizzare tre punti che credo siano cruciali per poter apprezzare le abilità tecniche. Prima di tutto, le abilità non sono, come argomentato classicamente da Marcel Mauss (1939), delle tecniche del corpo individuale, considerato come un oggetto isolato, 356 agire situato che consiste nel saper eseguire una serie di azioni in contesti specifici, facendo riferimento alla propria passata esperienza. Lo sviluppo dell’abilità è visto come una progressiva “educazione dell’attenzione” in contesti di apprendimento formali, non formali e informali. Cosicché potremmo dire che diventiamo noi stessi attraverso gli altri, e che tale regola si riferisce non solo alla personalità nel suo complesso, ma anche alla storia di ogni singola funzione. In questo sta la sostanza del processo dello sviluppo culturale, espresso in una formula puramente logica. La persona diventa “per sé” per il fatto che è “in sé” e attraverso il fatto che si manifesta “per gli altri”. Questo è il processo di formazione della persona. (Vygotskij, 1930-31, p. 200). Nel processo di sviluppo il bambino può accedere al contesto storicosociale attraverso l’interazione con i membri della società che hanno maggiore dimestichezza con le abilità e gli strumenti della società stessa. Tale interazione è essenziale per lo sviluppo cognitivo: la mente del bambino si sviluppa in situazioni in cui egli partecipa ad eventi “problematici” sotto alla guida di un adulto – o una persona più competente di lui – che struttura e modella la soluzione al problema adeguandola alle potenzialità cognitive del bambino, ovvero agendo all’interno della sua “zona di sviluppo prossimale”. Secondo Vygotskij come lo strumento primario della ragione culturale. Esse sono proprietà dell’intero sistema di relazioni costituito dalla presenza dell’agente (umano e non umano) in un ambiente riccamente strutturato. Perciò, lo studio delle abilità richiede un approccio ecologico, che situi l’operatore esperto, fin dall’inizio, nel contesto di un coinvolgimento attivo con i fattori costituenti il suo ambiente circostante. Secondo, la pratica abile non è semplicemente l’applicazione meccanica di una forza esterna ma comporta le qualità della cura, del giudizio e della destrezza (Pye, 1968). Questo significa che qualunque cosa un operatore esperto faccia alle cose, questo si radica in un coinvolgimento attento e percettivo con le cose. In altre parole, guarda e sente mentre è all’opera. Anzi, è precisamente perché il coinvolgimento dell’operatore esperto con il proprio materiale è attento, che l’attività abile porta con sé la sua intrinseca intenzionalità, e ciò indipendentemente da eventuali piani o progetti che essa dovrebbe porre in esecuzione. Terzo, le abilità sono refrattarie alla codificazione in forme programmatiche quali regole e diagrammi (Dreyfus, Dreyfus 1987). Perciò, non è attraverso la trasmissione di tali programmi che si acquisisce l’abilità, ma piuttosto attraverso un miscuglio di improvvisazione e imitazione nel contesto della pratica stessa (Lave, Wenger 1991). […]. L’innovazione e l’improvvisazione sono due lati di un processo di apprendimento che potrebbe riassumersi come riscoperta guidata» (Ingold, 2001, pp. 150-151). 357 e la prospettiva storico-culturale, il funzionamento cognitivo autonomo del bambino si sviluppa attraverso esperienze con gli strumenti culturali in processi di attività condivise con partner più esperti. Il pensiero di Vygotskij si presenta in risonanza con quello di Bateson (1972, 1979), Ingold (2001), Damasio (1994), Ehrlich (2000) e di tutti coloro che invitano a pensare in modo unitario mente e ambiente: sia l’organismo che l’ambiente emergono da un continuo processo di sviluppo [e] la loro interfaccia non è un contatto estrinseco tra domini separati e mutuamente esclusivi, poiché implicata nell’organismo stesso è l’intera storia delle sue relazioni ambientali. (Ingold, 2001, p. 92). La teoria storico-culturale è stata ulteriormente elaborata dalla psicologia culturale di Cole (1996) che si è occupato del ruolo della mediazione operata dagli artefatti nello sviluppo cognitivo, mentre la teoria dell’attività di Leont’ev (1975) e Vygotskij è stata ripresa e sviluppata da Engeström (1987). Gli studiosi della cognizione distribuita, accogliendo le proposte di Vygotskij, hanno ulteriormente sottolineato la natura sociale dell’attività e dello sviluppo cognitivo concentrando le loro ricerche sugli ambienti particolari dell’attività cognitiva e sul tipo di conoscenza che si accorda con questi ambienti (Lave, 1988; Hutchins, 1991, Lave - Wenger, 1991). Per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo nel corso dell’ontogenesi, Rogoff (1990) ha ripreso la metafora dell’apprendistato per sottolineare la natura collaborativa dei processi di apprendimento. Il concetto di apprendistato come modello per lo sviluppo cognitivo dei bambini è affascinante perché dirige la nostra attenzione sul ruolo attivo del bambino nell’organizzazione della crescita; sul supporto attivo e sull’utilizzo di altre persone nelle interazioni sociali; sull’organizzazione di compiti e attività e sulla natura – strutturata sul piano socioculturale – 358 dei contesti istituzionali, delle tecnologie e degli obiettivi delle attività cognitive. […]. Gli apprendisti cercano attivamente di dare senso alle situazioni nuove, e a volte svolgono un ruolo determinante nel mettere se stessi in condizioni di apprendere. Allo stesso tempo i partner, che sono più abili e competenti, riescono più facilmente ad individuare modi più efficaci per entrare in sintonia con loro e aiutarli così ad ampliare le loro conoscenze. […]. Il processo di problem solving condiviso – con un soggetto attivo che apprende partecipando ad un’attività culturalmente organizzata insieme a un partner più esperto – è fondamentale per l’apprendistato, tanto quanto le caratteristiche della partecipazione guidata che mi preme sottolineare: l’importanza delle attività di routine, la comunicazione implicita ed esplicita, una strutturazione collaborativa delle attività e il trasferimento della responsabilità all’apprendista. (Rogoff, 1990, pp. 4445) La scuola è un contesto scandito dai compiti e dalle tappe che gli adulti hanno selezionato in base alla propria storia culturale. Il comportamento degli adulti struttura e organizza l’ambiente per facilitare i processi di crescita del bambino e porre vincoli a ciò che può fare. L’educazione scolastica formale è costituita da una serie di pratiche (Cole, 1996; Wenger, 1998); se lo sviluppo cognitivo è localizzabile all’interno delle pratiche culturali è possibile applicare questo principio alle pratiche dell’educazione scolastica relative al disegno, e trattarne lo sviluppo attraverso i comportamenti culturali ad esso correlati. Potremmo dunque riposizionare la questione dell’opposizione tra cambiamenti “generali” e “specifici” nella cognizione, associandoli alle modificazioni nell’organizzazione culturale del comportamento. Abbiamo visto come il disegno sia un processo evolutivo e come l’obiettivo dell’insegnamento relativo a questo tipo di attività sia quello di procurare ai bambini un mezzo per riorganizzare la loro attività interpretativa utilizzando il linguaggio grafico (sia a livello di 359 comprensione che di produzione). Abbiamo inoltre tentato di dimostrare nei paragrafi precedenti che disegnare rappresenti un’elaborazione della capacità preesistente di “leggere il mondo” facendo uso di strumenti. La figura che segue ripete la struttura del triangolo della mediazione utilizzata dalla teoria storico-culturale per rappresentare la mediazione attraverso gli strumenti, ma sostituisce il disegno all’artefatto, e ci ricorda che disegnare, nel senso più ampio del termine, comporta il coordinamento tra informazioni provenienti da due percorsi. Qualunque disegnatore deve “vedere” il mondo come se si rifrangesse attraverso il disegno; ma, poiché questo sia possibile deve anche essere in grado di accedere al mondo direttamente. L’acquisizione del linguaggio grafico comporta una riorganizzazione qualitativa del comportamento “primario”, una nuova modalità di mediazione. Figura 3. Il triangolo della mediazione, dove “disegno” sostituisce la rappresentazione generica soggetto-medium-oggetto. Sappiamo che quando i bambini arrivano alla scuola dell’infanzia, non sono ancora in grado di espandere la loro capacità di comprendere le esperienze attraverso il disegno, e che, alla fine del loro percorso scolastico, raggiungeranno traguardo. 360 questo importante Secondo la “legge genetica generale dello sviluppo culturale” di Vygotskij le funzioni che in un primo momento appaiono condivise sul piano interpsicologico possono poi diventare funzioni intrapsicologiche: in questo caso ciò che ci interessa è il punto finale dell’abilità del bambino di disegnare maturata nell’interazione con l’adulto come precondizione perché questa nuova struttura dell’abilità, che si manifesta a partire dalla capacità di produrre scarabocchi che, attraverso la coordinazione oculo-motoria vengono composti in modelli di posizione, emerga come funzione cognitiva individuale. La figura sottostante illustra in forma grafica il fatto che, all’inizio dell’istruzione scolastica, è possibile utilizzare sistemi di mediazione preesistenti come risorse per creare i necessari vincoli che consentono la possibilità di sviluppo dell’abilità grafica254. Figura 4. I sistemi di mediazione da coordinare che emergono quando un bambino impara a disegnare a scuola. A) Il bambino è in grado di mediare le interazioni con il mondo attraverso un adulto. B) L’adulto è in grado di mediare le interazioni con il mondo attraverso il disegno. C) Il rapporto bambino-disegno-mondo è l’obiettivo dell’istruzione scolastica. A sinistra della figura abbiamo rappresentato il dato che all’ingresso della scuola i bambini hanno già alle spalle anni di esperienza nel mediare le loro interazioni con il mondo esterno attraverso gli adulti. Al centro abbiamo raffigurato il dato che gli adulti-insegnanti, siano in grado di utilizzare il codice grafico pittorico. Da ultimo, a destra della 254 La realizzazione grafica dei processi di apprendimento di cui trattiamo di seguito, è una reinterpretazione dei modelli proposti da Cole (1996). 361 figura, troviamo rappresentato il sistema di mediazione che il bambino deve ancora sviluppare. Dopo qualche mese di frequenza, i bambini più piccoli iniziano a denominare gli scarabocchi a posteriori: l’invenzione della forma precede, da un punto di vista evolutivo, la “scoperta”255 che questa forma possa avere delle relazioni con il mondo esterno. Nella pratica didattica lo sviluppo del grafismo viene stimolato dalle insegnanti attraverso attività specifiche progettate e mirate: dall’esplorazione/sperimentazione di strumenti, tecniche e materiali a proposte esplicite di disegno. Solitamente l'intervento diretto dell’adulto muove da un ascolto iniziale delle esperienze, dei desideri e delle proposte dei bambini a una successiva elaborazione e restituzione in chiave progettuale che tiene conto della maturazione delle capacità percettive, visive e manipolative dei bambini. Altre volte, è l’adulto che propone, a seguito di un’esperienza, la sua trascrizione grafica: nelle scuole di Reggio Emilia questa è una vera e propria routine. Tra le strategie utilizzate dall’adulto per stimolare nei bambini l’interesse per le attività grafico, pittoriche e plastiche c’è la strutturazione di spazi adeguati a questo genere di attività, organizzati ed attrezzati con materiali e strumenti diversificati facilmente accessibili; arredato con grafiche di bambini e immagini e stimoli che possono supportare la progettazione in corso. Nella scuola di Scandiano ogni sezione dispone ad esempio di “un mini atelier” per le attività grafico-pittoriche e plastiche; mentre per attività specifiche è possibile disporre del “grande atelier” (uno spazio comune alle altre sezioni predisposto a questo genere di attività), che 255 «Qualcosa forse va detto anche a proposito dell’invenzione e della scoperta. Inventare vuol dire pensare a qualcosa che prima non c’era. Scoprire vuol dire trovare qualcosa che prima non si conosceva ma che esisteva» (Munari, 1977, p. 22). 362 si differenzia da quelli delle sezioni per la diversità dei materiali e degli strumenti disponibili. È attraverso lo scambio con le insegnanti, gli adulti256, i bambini più grandi ed esperti e la frequenza a scuola che il bambino scopre che i suoi tracciati devono essere usati per rappresentare entità esterne. L’iniziale “in sé” degli schemi figurativi autonomamente prodotti (le autoimmagini, nella terminologia di Arnheim), diventa disegno “per gli altri”: il bambino “scopre” quale uso deve fare delle immagini che produce e vi si conforma (anche se non riesce immediatamente a modificare i suoi tracciati) cercando di rendere i suoi disegni somiglianti, in senso adulto, agli oggetti della realtà. La figura 5, di seguito, mostra lo stadio in cui i sistemi di mediazione dati e quelli che si stanno sviluppando sono giustapposti, e il momento in cui il sistema adulto preesistente vi si sovrappone a sua volta. Il sistema di mediazione “interpsicologico” instaura, indirettamente, un duplice sistema per il bambino: egli deve ora coordinare le informazioni visive del suo disegno riferite alla realtà esterna (secondo il modello adulto) con quelle fondate sulla sua precedente esperienza visiva della realtà stessa. 256 «L’influenza degli adulti sull’attività artistica dei bambini si manifesta prima a casa e più tardi a scuola. […] I genitori influenzano l’attività artistica dei bambini prima che frequentino la scuola anche col semplice fatto di procurargli materiali adatti al disegno o trascurando di farlo oppure proibendo loro di usarli in casa. [I libri da colorare] contribuiscono a fissare nella mente del bambino determinate formule progettate dagli adulti per rappresentare gli oggetti. Conseguenze analoghe producono i libri illustrati, le illustrazioni delle riviste, i giornali, i fumetti e i cartoni animati televisivi. Immagini esposte alle pareti di casa, nelle chiese, nei negozi o nei musei che vengono mostrate e spiegate continuamente ai bambini favoriscono l’assorbimento mentale e visivo delle Gestalt fatte dagli adulti, cui sono associati determinati significati figurativi» (Kellogg, 1969, p. 169-170). 363 Disegno Bambino Disegno Mondo Bambino Adulto Mondo Adulto Figura 5. La giustapposizione tra sistemi di mediazione esistenti e in via di formazione, che devono essere coordinati. A) I due sistemi esistenti. B) I due sistemi esistenti più il sistema in via di formazione. Con il tempo e la pratica i bambini sono in grado di interpretare i simboli grafici come indicatori delle intenzioni altrui e possono produrre intenzionalmente disegni per comunicare conoscenze, esperienze o una particolare prospettiva. L’acquisizione del punto di vista culturale trasforma il disegno in codice non solo “per gli altri” ma anche e soprattutto “per sé”. La natura collaborativa e sociale da cui nasce l’attività disegnativa nel contesto scolastico può essere rappresentata più incisivamente attraverso il modello esteso di mediazione proposto da Engeström. 364 Disegno Bambino Mondo Regole: disegno artistico in senso figurativo Comunità: sezione di scuola dell’infanzia Divisione del lavoro verticale, (in base allo status): insegnantescolaro Figura 6. il disegno come attività rappresentata nei termini del modello di sistema di attività esteso. Nella i singoli triangoli delle figure precedenti, focalizzati esclusivamente su un presunto rapporto diadico tra adulto e bambino, sono espansi per rappresentare il coinvolgimento dei diversi partecipanti coinvolti in questo tipo di attività. Nella parte alta del grafico abbiamo il bambino che attraverso il disegno, conosce oggetti, eventi, situazioni (un generico “mondo” inteso non solo come esistente materialmente, ma anche in quanto può essere immaginato, pensato, supposto, ipotizzato, progettato). Il disegno esiste però in quanto tale solo in relazione alla parte bassa del triangolo dove la comunità può essere rappresentata dalla sezione frequentata da quell’ipotetico bambino, abitata da insegnanti e coetanei; la divisione del lavoro si riferisce ai ruoli ricoperti dalle persone nella sezione, ovvero insegnanti e “scolari”; le regole che il bambino dovrà rispettare sono, limitatamente alla produzione, quelle del disegno “artistico” in senso figurativo. In questo contesto, la competenza disegnativa si traduce nell’acquisizione di una “tecnica di rappresentazione” specifica che favorisce l’evocazione di un’immagine culturalmente convincente, in senso illustrativo, della realtà. 365 Ora il bambino non solo sa disegnare, ma la sua conoscenza si accorda con quella di coloro con i quali tale conoscenza deve essere coordinata. Siamo usciti da una scuola il cui fine principale è il buon parlatore. Avendo introiettato l’ideologia che la sorregge, non avvertiamo nessun disagio nel dichiarare di non saper disegnare e nessuna seria difficoltà per il fatto che il bambino molto presto smetta. Ci siamo formati in un sistema educativo “fondato - come dice Arnheim – sullo studio delle parole e dei numeri”. La nostra organizzazione mentale è perciò in sintonia con una teoria dello sviluppo che definisce l’ultimo stadio del pensiero come pensiero formale e la conoscenza come conoscenza logico-matematica. Contro ciò che il disegno potrebbe significare per lo sviluppo della personalità, lottano inveterate abitudini di pensiero che ci impediscono di comprenderne l’importanza. (Pizzo Russo, 1988, p. 250) Il disegno infantile si inserisce nel più ampio sviluppo della capacità rappresentativo-finzionale del pensiero e segna un’importante svolta nella maturazione cognitiva del bambino. Esso è legato ad altre abilità rappresentative (linguaggio verbale e gioco simbolico in primo luogo), ma se ne differenzia, sia per la specificità dell’attività cognitiva che lo sottende (e del tipo di intelligenza che sviluppa) sia per gli aspetti esecutivi che comporta. L’atteggiamento nei confronti del disegno nella nostra cultura è tuttavia contraddittorio: se da un lato se ne esalta lo sviluppo “spontaneo”, se ne riconosce lo statuto di linguaggio, se ne sottolinea l’importanza nello sviluppo del pensiero simbolico, il valore “proiettivo” e catartico, nello stesso tempo è considerato un mezzo espressivo elitario e appannaggio di pochi. Come ha giustamente sottolineato Umberto Eco una persona che sa parlare non suscita molta curiosità e non sembra avere particolari abilità, mentre una persona che sa disegnare viene 366 vista come “diversa”: essa sa articolare secondo leggi ignote gli elementi di un codice che il gruppo ignora. (Eco, 1975, p. 281). La finalità assegnata al disegno infantile a scuola è, di fatto, quella artistica. La letteratura sul disegno infantile ne ha idealizzato la genesi, o considerandolo “arte”, o assumendo l’arte come unico modello di confronto o approdo del disegno del bambino. Da questo è derivato un modello pedagogiche che, nella prassi, si traduce nel non intervento: il disegno è una questione di “talento” e non è necessario “insegnare a disegnare”. «Il mestiere dell’artista non è forse di quelli che si possono e si devono apprendere da sé?» (Arnheim, 1954, p. 175). In questo modo, non solo non viene preso seriamente in considerazione il fatto che il disegno non è solo quello artistico, ma nemmeno il fatto che l’artista, e chi fa un uso professionale del disegno, ha dovuto imparare a disegnare. Una pedagogia della “spontaneità” non è inoltre supportata dai dati della ricerca, che indicano come le direzioni dello sviluppo non siano “naturali”, ma che, al contrario, siano definite (più o meno consapevolmente) dalla scuola in sintonia con i valori culturali e sociali diffusi, e perché riteniamo che i processi simbolici possano arricchirsi e potenziarsi attraverso strategie educative intenzionalmente predisposte. L’andamento evolutivo del disegno infantile (il suo “spontaneo” apparire alla scuola dell’infanzia e il suo altrettanto “spontaneo” scomparire nella scuola primaria e secondaria) suggerisce piuttosto un’attenta revisione dei metodi, degli strumenti e delle finalità della pratica educativa e soprattutto conoscenza che la informa. 367 un’analisi della teoria della 368 369 Bibliografia ABRAHAM, A. (1976) Le identificazioni del bambino attraverso il disegno. Tr. it. Ferro, Milano 1985. ACERBI, A. (2005) Antropologia cognitiva: uno stato dell'arte. Sistemi Intelligenti, 17 (3), pp. 469-487. ANATI, E. (1988) Origini dell’arte e della concettualità. Jaca Book, Milano 1989. ANDERSSON, S.B. (1995a) Local conventions in children’s drawings: A comparative study in tree cultures. Journal of Multicultural and Cross-Cultural Research in Art Education, 13, pp. 101-111. ANDERSSON, S.B. (1995b) Projection System and X-ray strategies in children’s drawings: A comparative study in tree cultures. 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