Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili - Arlian

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Sviluppo delle forme espressive grafiche infantili - Arlian
Università degli Studi di Siena
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali
Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca Etno-Antropologica
XXI° Ciclo.
Sviluppo delle forme espressive grafiche
infantili: storia, teorie, pratiche.
Una ricerca etnografico-cognitiva.
Coordinatore:
Chiar. mo Prof. Massimo Squillacciotti
Tesi di Dottorato di
Cinzia Maria Braglia
ANNO ACCADEMICO 2010-2011
Università degli Studi di Siena
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali
Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca Etno-Antropologica
XXI° Ciclo.
Cinzia Maria Braglia
Sviluppo delle forme espressive grafiche
infantili: storia, teorie, pratiche.
Una ricerca etnografico-cognitiva.
Coordinatore del Dottorato e Relatore:
Chiar. mo Prof. Massimo Squillacciotti
ANNO ACCADEMICO 2010-2011
2
Indice
Volume primo
Indice _________________________________________________________ I
Introduzione ___________________________________________________ 1
Capitolo primo LA NATURA CULTURALE DELLO SVILUPPO __________ 10
1
La teoria storico-culturale _________________________________________ 22
1.1
Filogenesi e storia culturale ____________________________________ 37
1.1.1
Coevoluzione di filogenesi e storia culturale___________________ 40
1.1.2
Primati e uomini_________________________________________ 57
1.1.3
Il livello storico-culturale: eterogeneità e gerarchia _____________ 66
1.2
Un approccio culturale all’ontogenesi ____________________________ 73
1.2.1
Il bambino sociale _______________________________________ 85
1.2.2
La mediazione attraverso artefatti ___________________________ 98
1.2.3
L’apprendimento come processo situato e distribuito ___________ 121
1.2.4
Contesti di insegnamento-apprendimento ____________________ 130
Capitolo secondo LA SIMBOLIZZAZIONE GRAFICA_________________ 149
2
Teoria delle rappresentazioni pittoriche e sviluppo dell’espressione grafica dalle
origini all’ottavo anno di vita. _________________________________________ 153
2.1
Il disegno come movimento___________________________________ 157
2.2
Dallo scarabocchio allo schema figurativo. Disegnare e raffigurare. ___ 176
2.2.1
La prospettiva intellettuale________________________________ 201
2.2.2
La prospettiva artistica ed estetica __________________________ 218
2.2.3
Schemi figurativi e sistemi di notazione non iconici ____________ 233
2.3
Il disegno come comunicazione e narrazione _____________________ 240
3
Contesti culturali e teorie psicologiche ______________________________ 253
3.1
Nascita di un mito: l’arte infantile ______________________________ 254
3.2
La psicologia scientifica e i test psicometrici _____________________ 266
3.3
I test proiettivi “carta e matita” ________________________________ 276
3.4
Il disegno tra rappresentazione e proiezione ______________________ 281
4
Aspetti cognitivi dell’espressione grafica: fare, conoscere, comunicare_____ 285
4.1
Il disegno tra casualità e intenzionalità __________________________ 286
4.2
Il disegno come “fare” e “saper fare” (aspetti procedurali del disegno?) 298
4.3
Il disegno tra esplorazione e conoscenza_________________________ 321
4.4
Raffigurazione dell’oggetto e funzione comunicativa del disegno _____ 339
Conclusioni__________________________________________________ 356
Bibliografia __________________________________________________ 370
Volume secondo
DOCUMENTI ETNOGRAFICI
I
II
Introduzione
Fra noi e “le cose come sono”
c’è sempre un filtro creativo.
I nostri organi di senso non usano percepire niente
e riportano solo ciò che produce senso.
Ciò ci rende “a un tempo creatore e creatura”.
G. Bateson
Il presente lavoro si propone di delineare un percorso teorico intorno
al rapporto tra pensiero e immagine in una prospettiva ontogenetica
che indaghi l’emergere di questa capacità finzionale, peculiare
nell’uomo, all’interno dei processi di apprendimento e di crescita del
bambino in un ambiente culturale ricco di artefatti che rimandano alla
storia sociale del gruppo cui appartiene e ne pre-determinano lo
sviluppo.
Nella prospettiva teorica qui proposta la parola immagine si riferisce
al suo significato più ampio di attività simbolica che realizza, con una
specifica azione espressiva e con gli strumenti a sua disposizione,
una “rappresentazione del mondo”.
D’altro canto conoscenza e pensiero sono considerati in senso lato
come attività di problem solving: si parte cioè dal presupposto che il
pensiero sia funzionale, attivo e fondato su un’azione orientata ad
uno scopo1.
1
«Ipotizzando una mente articolata come un incrocio tra una macchina di calcolo e
un archivio di informazioni, si finisce con l’ignorare che le menti si sono evolute per
fare accadere delle cose. Ci si dimentica che la reale mente è anzitutto un organo
deputato al controllo del corpo biologico in un contesto pratico. Le menti producono
azione, percezione e movimento» (Grasseni – Ronzon 2004, p. 12).
1
Il problem solving mette in evidenza la natura attiva del pensiero più che
puntare sulla cognizione come possesso passivo di oggetti mentali, quali
possono essere le nozioni o i percetti. Le persone esplorano, risolvono
problemi e ricordano, più che acquisire semplicemente ricordi, percetti e
abilità. Lo scopo della cognizione non è produrre pensieri ma dirigere
azioni interpersonali e pratiche intelligenti (Rogoff, 1990, p. 8).
Il pensiero è visto come guidato da un contenuto, con uno specifico
dominio e costruttivamente connesso ad uno stimolo, che non può
essere
considerato
indipendente
dai
“mondi
intenzionali”,
storicamente variabili e culturalmente diversi, nei quali gioca un ruolo
co-costruttivo (Shweder, 1990).
In questo senso ogni attività simbolica è “finzione” non nel senso di
“simulazione”, “imitazione”, “copia” di un universo percettivo dato (sia
esso esterno o interno), quanto piuttosto in riferimento al suo
carattere
di
sostituto
formale
di
un’assenza,
prodotto
dell’intenzionalità che crea forme specifiche che “stiano per” l’oggetto
e che siano riconoscibili dopo che l’azione produttiva si sia conclusa
(Borutti, 2003).
La ricerca muove da un interesse prevalente per lo sviluppo e
l’acquisizione delle abilità cognitive, considerate in interazione con
interventi educativi diversi: la natura culturale dello sviluppo e lo
stretto legame tra pratiche e cognizione. All’interno del dominio
generale della cultura e dello sviluppo, sarà dedicata particolare
attenzione al significato evolutivo dell’educazione, particolarmente
dell’istruzione formale come importante istituzione socio-culturale2.
2
Come avremo modo di vedere più dettagliatamente di seguito, il concetto di
sviluppo cui si fa riferimento in questa ricerca si basa sulle transizioni di natura
qualitativa (ma anche quantitativa) che permettono al bambino di gestire in modo
più efficace i problemi che via via gli si pongono, facendo affidamento sulle risorse
e sui vincoli, forniti da altre persone e dalle pratiche culturali, per la definizione e
soluzione dei problemi. Proprio perché il bambino, nel suo sviluppo, si appropria
degli strumenti e delle abilità intellettuali della comunità culturale che lo circonda, è
essenziale sia il ruolo delle interazioni informali che il ruolo delle istituzioni formali
della società, come elementi fondamentali del processo dello sviluppo cognitivo.
2
Nello specifico ci occupiamo dell’emergere della capacità simbolica
nelle produzioni grafiche di bambini e bambine di età compresa tra i
tre e i sette anni che frequentano la scuola dell’infanzia e di come
queste si configurano come “sistemi di attività” che incorporano sia
aspetti produttivi che comunicativi.
L’indagine si incentra sulle caratteristiche della linea e delle
formazioni di linee (scarabocchi e disegni) e sulla loro evoluzione nel
corso del tempo. Formazioni di linee si trovano anche in pittura, ma
la maggior parte del materiale raccolto ed esaminato è rappresentata
da disegni eseguiti con il pennarello o la matita su carta. Non è stato
preso in considerazione l’uso del colore perché la scelta delle tonalità
è spesso limitata al materiale messo a disposizione dall’adulto.
Inoltre, l’aver ristretto la ricerca alle formazioni di linee, ha consentito
il confronto tra grafiche prodotte da bambini di paesi diversi (italiani e
tedeschi), e di documentare comparativamente la scelta operata
nella costruzione delle linee.
Ogni bambino, nella “scoperta” del significato simbolico del tratto
grafico, segue la medesima evoluzione: dagli scarabocchi emergono
dapprima forme di base, che, combinate in diverse maniere, danno
vita a simboli più complessi. Attraverso l’esercizio e un lungo
processo di apprendimento lo schema figurativo diventa infine codice
comunicativo-narrativo: la dimensione culturale, intenzionale e
simbolica è intrinsecamente sociale, intersoggettiva e situata.
Nello sviluppo di questa capacità, occorre distinguere tra le pure e
semplici azioni senso-motorie compiute dal bambino attraverso il
mezzo espressivo durante le primissime fasi dello sviluppo e le
azioni intenzionali che da esse derivano, e che sono destinate a riprodurre un oggetto o una situazione specifica che “stia per” un
determinato aspetto del mondo. Quest’ultime si caratterizzano per
Vorremmo sottolineare inoltre che, pur concentrandoci essenzialmente sulla prima
e seconda infanzia, partiamo dal presupposto che lo sviluppo proceda per tutto
l’arco della vita e che le modalità di pensiero degli individui si ri-organizzino
attraverso l’acquisizione progressiva di conoscenze e abilità.
3
l’intenzione
di
presentare
un
aspetto
del
mondo
(reale
o
immaginario), intenzione che produce una relazione tra simbolo e
referente
sempre
più
culturalmente
connotata,
laddove
la
formalizzazione del messaggio visivo prevede una decodifica entro
un confine preciso.
Forme “primitive” di produzioni non sono qualificabili come
rappresentazioni: si tratta piuttosto di presentazioni, di breve durata,
difficili da interpretare, che non intendono ancora creare forme che
implichino una relazione con oggetti o aspetti del mondo.
Il bambino piccolo impegnato a scarabocchiare può forse evocare
immagini connesse con l’azione ma, in assenza di un prodotto finale
riconoscibile,
si
tratta
di
associazioni
prive
di
significato
rappresentazionale. Ogni rappresentazione è dunque, almeno
potenzialmente, consapevole, poiché implica il comprendere che
un’azione mentale, ad esempio un pensiero, possa indurre
all’intenzione di creare forme che “stiano per” l’oggetto e che siano
riconoscibili e condivisibili dopo che l’azione si sia conclusa.
La forma simbolica è in fondo l’elaborazione figurale-immaginativa del
lutto per l’assenza dell’oggetto concreto: è rinuncia alla sua presenza
effettiva, e elaborazione dell’assenza attraverso la finzione della forma
(Borutti, 2003, p. 289).
Essa implica un’attività che va oltre la percezione e la trasformazione
attraverso le possibilità offerte dal mezzo espressivo: il simbolo, sia
esso verbale, grafico o ludico, non riproduce, ma trasforma; l’attività
simbolica riorganizza il “già dato”, lo dispone in prospettive nuove e
se tali prospettive vengono valutate scegliendo le combinazioni utili,
essa si configura come attività euristica (Bruner, 1973).
La materialità dei prodotti dei bambini è significativa, in quanto ne
sancisce da una parte la condivisibilità sociale e dall’altra la
possibilità di ulteriori ispezioni percettive e categoriali che diventano
a loro volta oggetto di conoscenza.
4
Alla base del procedere figurale c’è un lungo processo di
apprendimento e di maturazione che, pur avendo premesse
biologiche, dipende, per la sua realizzazione dall’ambiente culturale.
Parte dei processi ontogenetici attraverso i quali l’eredità biologica si
realizza avviene nel bambino mentre interagisce con il proprio
ambiente. Il lungo periodo di immaturità nel quale questa interazione
ha luogo, se da un punto di vista evolutivo può costituire uno
svantaggio (in tale periodo il neonato si trova a dipendere
completamente da chi si prende cura di lui per la sua sopravvivenza),
dall’altro rende possibili percorsi ontogenetici nei quali la cognizione
e l’apprendimento hanno un ruolo significativo, e che tipicamente
conducono ad adattamenti comportamentali e cognitivi flessibili
(Tomasello, 1999).
La “nicchia ontogenetica” nella quale avviene lo sviluppo del
bambino è un ambiente culturalmente determinato, che non solo
configura ed esige forme determinate di adattamento, ma ne
prefigura e facilita l’ulteriore sviluppo.
Che gli organismi ereditino il loro ambiente non meno del loro genoma è
una verità mai troppo ripetuta. I pesci sono fatti per vivere nell’acqua, le
formiche sono fatte per vivere nei formicai. Gli esseri umani sono fatti
per vivere in un certo ambiente sociale, e senza di esso (se anche
riuscissero a sopravvivere) non si svilupperebbero normalmente sotto
l’aspetto sociale e cognitivo (Tomasello, 1999, pp. 102-102).
Il presente volume si articola in due parti: una dedicata alla
documentazione e alla presentazione di alcune ipotesi teoriche volte
ad indagare il nesso tra eredità biologica e culturale, l’altra, più
ampia, dedicata allo sviluppo del disegno infantile e all’analisi delle
dimensioni culturali, intenzionali e simboliche che questo tipo di
produzione sottende.
La ricerca si basa sull’analisi di circa un migliaio di disegni eseguiti
da bambini e bambine di età compresa tra i tre e i sette anni che
5
frequentano la scuola dell’infanzia3. I disegni selezionati (raccolti nel
volume a parte che accompagna la tesi), sono stati eseguiti in
particolare da bambini iscritti e frequentanti la scuola dell’infanzia di
Scandiano (Reggio Emilia) in un arco di tempo che va dall’anno
scolastico 2005/2006 all’anno scolastico 2008/2009; e da bambini
tedeschi iscritti e frequentanti il Kindertagesstätte St. ChristophorusHaus di Wolfsburg durante l’anno scolastico 2006/2007.
Dal 1992 lavoro come insegnante presso la scuola dell’infanzia di
Scandiano di Reggio Emilia e ho potuto raccogliere i disegni dei
bambini sia come “insegnante di sezione” che come “ricercatrice”
conosciuta da bambini, genitori e insegnanti; durante il dottorato di
ricerca, ho avuto invece la possibilità di lavorare come insegnante
madrelingua di italiano e atelierista presso la scuola dell’infanzia di
Wolfsburg (gennaio - luglio 2007) e questo mi ha consentito di
progettare attività specifiche che prevedessero l’uso del linguaggio
grafico.
I documenti etnografici sono stati raccolti in un volume a parte, in
allegato, e rappresentano il lavoro di circa ottanta bambini; la
quantità di disegni che è stata esaminata durante la ricerca e gli anni
di insegnamento è molto superiore a quella contenuta nell’allegato,
ma la raccolta è sufficiente a documentare le tesi che si intendono
sostenere.
Alcuni sono disegni dello stesso soggetto eseguiti da bambini diversi
[fig. 1-113-118 “tartarughe”, p. 5, 73, 76 rispettivamente4; fig. 29-3855-61-73-74-99-112 “la mia famiglia”, p. 20, 26, 35, 38, 46, 47, 61, 72
rispettivamente; fig. 52-54-78-93 “la fiaba de’ I tre Porcellini”, p. 33,
3
Le grafiche raccolte in Germania comprendono anche disegni di bambini di età
superiore ai sei anni e sei mesi [fig. 123, 124, 126 e 127, pp. 78-80 nel volume
delle grafiche]. Al momento in cui è stata condotta la ricerca i bambini che non
avevano compiuto il sesto anno di età entro il trenta giugno dell’anno scolastico in
corso potevano frequentare la scuola dell’infanzia l’anno successivo, posticipando
l’ingresso alla scuola primaria su richiesta dei genitori o suggerimento
dell’insegnante o del pediatra.
4
I numeri di pagina per le figure che riproducono le grafiche raccolte durante la
ricerca etnografica, si riferiscono all’impaginato in allegato che le raccoglie.
6
34, 49, 57 rispettivamente; fig. 56, p. 35 e 77, p. 48 “la fiaba di
Cappuccetto Rosso”; fig. 58, p. 36 e fig. 64, p. 39 “il gioco dei ragni”;
fig. 63, p. 39; fig. 84, p. 52 e fig. 130 p. 82 “il gioco dei canestri”; fig.
71, p. 45 “cani”; fig. 122-123-124-125-126-127 “i pensieri", p. 78, 79,
80 rispettivamente]; altri documentano l’evoluzione di un soggetto
grafico nell’arco di alcuni mesi [fig. 30, p. 21; fig. 31, p. 22; fig. 46, p.
30; fig. 68, p. 43; fig. 91, p. 56; fig. 101, p. 62; fig. 103, p. 64] o di
alcuni anni [fig. 94, p. 58] e sono grafiche prodotte dallo stesso
bambino. Le raccolte longitudinali sono state realizzate nella scuola
di Reggio Emilia, dove è prassi realizzare un raccoglitore individuale
che documenti l’evoluzione delle grafiche dei bambini nel corso del
triennio di frequenza a scuola, al quale mi è stato possibile attingere.
Infine, alcuni disegni sono stati scelti perché ritenuti significativi al
fine dell’indagine.
I disegni sono stati classificati con il nome del bambino, con il
numero progressivo dei disegni che venivano via via prodotti e con
l’età dell’autore, espressa in anni e mesi. Questo metodo di
classificazione si presta allo studio dello sviluppo individuale, studio
che solo in parte è stato completato e che sarebbe interessante
proseguire nel passaggio degli stessi bambini da un ordine di scuola
all’altro.
Le scuole dell’infanzia nelle quali è stata condotta la ricerca hanno
un’utenza di bambini provenienti da ambienti diversi, sia culturali che
sociali. Di conseguenza, i disegni sui quali si basa sono stati prodotti
da bambini di ambienti familiari differenti.
Le illustrazioni dei disegni non sono state minimamente modificate, e
l’ordine con cui sono state impaginate segue quello con cui vengono
trattate nel presente volume.
Difficilmente avrei potuto portare a termine questo lavoro senza i
preziosi consigli e soprattutto la fiducia e l’entusiasmo che Massimo
Squillacciotti mi ha saputo trasmettere in ogni momento, soprattutto
7
nei momenti di incertezza e difficoltà. Ma un sincero ringraziamento
va a tutti i docenti della scuola di dottorato dell’Università di Siena e
ai colleghi di dottorato che direttamente o indirettamente hanno
contribuito a sostenere, scientificamente e umanamente, l’attività di
ricerca svolta in questi anni. Non meno importante è stato per me il
confronto con i colleghi dell’Università di Modena e Reggio ed in
particolare con Giuseppe Malpeli, Giorgio Ghio, Laura Cerrocchi e
Antonio Gariboldi. Grazie, infine, a Marco Macchi per la perizia
tecnica e la pazienza dimostrata nella preparazione grafica del
secondo volume della tesi.
8
9
Capitolo primo
LA NATURA CULTURALE DELLO SVILUPPO
In questo capitolo verranno introdotti alcuni principi utili a descrivere
la natura culturale dello sviluppo cognitivo che fanno riferimento
principalmente alla prospettiva storico-culturale5.
Il fondatore di questo orientamento, Lev Semenovič Vygotskij (1934)
fu il primo psicologo moderno a ritenere che lo studio dello sviluppo
del bambino dovesse considerare anche le influenze culturali, e a
suggerire il meccanismo attraverso cui la cultura diviene una parte
della natura di ogni persona.
Egli compì sul piano teorico una critica alla concezione dell’uomo in
chiave biologica e naturalistica, contrapponendo a queste la sua
teoria dello sviluppo storico-culturale. Introdusse l’idea della storicità
della natura della psiche umana6, l’idea della trasformazione dei
5
Quest’orientamento è definito in modo intercambiabile “storico-culturale”, “socioculturale” o “storico-sociale”. Un attivo movimento continua ancora oggi ad
indagare e ampliare le intuizioni di inizio Novecento di Vygotskij, Lurija e Leont’ev e
altri studiosi sovietici come Bakhtin e Ilyenkov. Vygotskij (1896-1934) è stato uno
studioso praticamente sconosciuto in Occidente fino al 1962, quando fu pubblicata
la traduzione in inglese di Pensiero e linguaggio, seguita nel 1966 da quella in
Italiano. Per una biografia approfondita sull’autore e un’analisi dei suoi scritti (ivi
compresi quelli meno conosciuti) si rimanda a Veggetti 1994; Mecacci 1976; 1983.
6
«Ancora molti studiosi, al giorno d’oggi, tendono a rappresentarsi sotto una luce
non esatta l’idea di una psicologia storica. Essi identificano la storia con il passato,
per cui studiare qualche argomento storicamente diventa studiare questo o quel
fatto del passato. Da qui deriva quella concezione ingenua che vede una
insormontabile separazione tra lo studio di forme storiche e lo studio di forme
attuali. Invece compiere lo studio storico di un determinato argomento, significa
semplicemente applicare ad esso la categoria dello sviluppo. Studiare alcunché
storicamente significa studiarlo in movimento. È questa un’esigenza fondamentale
del metodo dialettico. Soltanto cogliere come oggetto d’indagine il processo dello
sviluppo di qualche fenomeno in tutte le sue fasi e in tutti i suoi mutamenti, dal
momento del suo insorgere fino alla sua scomparsa, significa scoprire la sua
natura e rivelare cosa esso è in sostanza, poiché “soltanto nel suo movimento un
10
meccanismi naturali dei processi psichici nel corso dello sviluppo
storico-sociale e ontogenetico nella concreta sperimentazione
psicologica. Una tale trasformazione era vista da Vygotskij come il
risultato necessario dell’appropriazione dei prodotti della cultura
umana da parte dell’uomo, nel processo della comunicazione di
questo con le persone circostanti (Leont’ev, 1975).
Il comportamento di un adulto contemporaneo culturalmente evoluto, se
si mette da parte per qualche minuto il problema dell’ontogenesi, il
problema dello sviluppo del bambino, è il risultato di due diversi processi
di sviluppo psichico. Da un lato il processo dell’evoluzione biologica
della specie che conducono al sorgere della specie dell’Homo sapiens;
dall’altro il processo dello sviluppo storico, mediante il quale l’uomo
primitivo si è evoluto culturalmente. […] Tutta la particolarità e la
difficoltà del problema dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori
consiste nel fatto che ambedue questi aspetti nell’ontogenesi sono fusi
insieme,
costituendo
realmente
un
processo
unitario,
sebbene
complesso. (Vygotskij, 1930-31, p. 105).
Vygotskij si oppose alle teorie a lui contemporanee che affermavano
che le proprietà delle funzioni intellettive del bambino nascono dalla
sola maturazione e allo stesso tempo costruì una penetrante critica
alla tesi che si potesse trovare una comprensione delle funzioni
psichiche superiori dell’essere umano moltiplicando e rendendo più
complessi i principi derivati dalla psicologia animale7.
corpo mostra che cosa è”. L’indagine storica del comportamento non è, dunque,
soltanto un supplemento o un sussidio all’indagine teorica, ma è anzi la base di
quest’ultima» (Vygotskij, 1930-31, p. 105).
7
«Il fatto è che la maturazione di per sé è un elemento secondario nello sviluppo
delle forme più complesse e “uniche” del comportamento umano. Lo sviluppo di
questi comportamenti è caratterizzato da complicate trasformazioni qualitative di
una forma di comportamento in un’altra. […]. Recentemente parecchi psicologi
hanno proposto di abbandonare questo modello botanico. In risposta a questo tipo
di critica, la psicologia moderna, nella presunzione di una maggiore scientificità, ha
adottato modelli zoologici come base per un nuovo approccio generale alla
comprensione dello sviluppo dei bambini. Un tempo prigioniera della botanica, la
psicologia infantile è ora ipnotizzata dalla zoologia. Le osservazioni cui questi
modelli più nuovi attingono vengono quasi interamente dal regno animale e si
11
Nella prospettiva storico-culturale lo sviluppo del bambino dipende in
ampia misura dal contesto storico e socioculturale in cui vive e da
come viene messo in grado di padroneggiare gli strumenti della
propria cultura (artefatti ideali e materiali).
Diversamente da Piaget, noi sosteniamo che lo sviluppo non va nel
senso della socializzazione, ma nel senso della trasformazione delle
relazioni sociali in funzioni psichiche. Perciò tutta la psicologia del
collettivo nello sviluppo infantile si presenta in una luce affatto nuova. Ci
si chiede solitamente come questo o quel bambino si comporti nella
collettività. Noi ci chiediamo come la collettività instaura in questo o in
quel bambino le funzioni psichiche superiori. (Ibidem, p. 202).
La costruzione della conoscenza appare come un processo
interattivo che è sempre situato in un contesto storico-culturale in cui
il bambino, attraverso gli strumenti forniti dalla cultura e mediante la
comunicazione conversazionale con i genitori e con altri partner,
impara a interpretare l’esperienza e a negoziare i significati della
situazione e dei compiti incontrati, in modo congruente e condiviso
con il sistema di regole proprie della cultura in cui vive.
Lo sviluppo costituisce un fatto culturale poiché, per sua natura, è
mediato dall’utilizzo degli strumenti elaborati dall’uomo nel corso del
tempo, che organizzano la mente “amplificandone” le capacità e
trasformando le funzioni psichiche naturali in funzioni storiche e
superiori (Vygotskij, Lurija, 1930); e poiché l’uso di tali strumenti è
sempre contestualizzato in situazioni specifiche, lo sviluppo possiede
una dimensione sociale. In questa concezione, ogni fenomeno
culturale è storico e sociale.
Fin dal primo giorno dello sviluppo del bambino le sue attività
acquisiscono un loro significato in un sistema di comportamento sociale
cercano risposte a problemi relativi ai bambini con esperimenti effettuati su
animali» (Vygotskij, 1978, pp. 35-36).
12
e, essendo dirette verso uno scopo definito, si rifrangono attraverso il
prisma dell’ambiente del bambino. Il tragitto dall’oggetto al bambino
passa attraverso un’altra persona. Questa complessa struttura è il
prodotto di un processo di sviluppo radicato profondamente nei legami
tra storia individuale e storia sociale. (Vygotskij, 1978, p. 51).
Il primato della dimensione sociale rispetto alla dimensione cognitiva
emerge nella “legge generale dello sviluppo”, la quale sostiene che
ogni funzione psichica superiore appare prima sul piano sociale del
funzionamento interpsicologico, cioè nello scambio di significati tra
individui, e solo in un secondo tempo su quello mentale del
funzionamento intrapsicologico.
Per noi dire che un processo è “esterno” equivale a dire che è “sociale”.
Ogni funzione psichica superiore è stata esterna perché è stata sociale
prima ancora che interiore e psichica, è stata cioè originariamente un
rapporto sociale tra due persone. Il mezzo per esercitare un’azione su
se stessi è inizialmente un mezzo per esercitare un’azione sugli altri, o
un mezzo che gli altri adoperano per esercitare un’azione sulla persona
singola. […].
Potremmo formulare come segue la legge genetica generale dello
sviluppo culturale: ogni funzione nel corso dello sviluppo culturale del
bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, prima su
quello sociale, poi su quello psicologico, dapprima tra le persone, come
categoria interpsichica, poi all’interno del bambino, come categoria
intrapsichica. […]. Dietro a tutte le funzioni superiori e ai loro rapporti
stanno geneticamente delle relazioni sociali, relazioni reali tra gli uomini.
(Vygotskij, 1930-31, pp. 200-201).
Questo è il percorso del processo di sviluppo delle funzioni psichiche
superiori, al quale Vygotskij dà il nome di sviluppo storico-culturale.
In base a questa dinamica, Vygotskij avanzò l’ipotesi, del tutto
teorica e strumentale, che nel corso dell’ontogenesi queste funzioni
si presentassero due volte: come forma di attività psichica organica-
13
naturale-spontanea e poi, verso l’età scolare, sotto forma mediatasuperiore. Occorre sottolineare, come fece lo stesso Vygotskij, che
queste due forme possono essere differenziate soltanto tramite
un’astrazione.
Si tratta di una teoria che assegna al contesto, inteso in senso
sociale e culturale, un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo e
che tenta di individuare l’intreccio, nel processo di apprendimento, di
natura e cultura.
Noi sosteniamo questo, e tutte le nostre ricerche rafforzano questa
convinzione, che proprio le diverse forme di fusione dei due processi
determinano le caratteristiche del bambino. Possiamo, perciò, con E.
Kretschmer, ripetere che la contrapposizione tra “natura” e “cultura”
nella psicologia umana è vera soltanto in un senso molto relativo. A
differenza di Kretschmer sosteniamo, però, che la differenziazione
dell’una dall’altra costituisce un presupposto indispensabile per
impostare giustamente una ricerca nel campo della psicologia umana.
(Ibidem, p.74).
In questa prospettiva gli eventi e le situazioni interpersonali svolgono
una funzione di strutturazione della mente se l’individuo che vi
partecipa è in grado di comprenderli come membro del gruppo di cui
fa parte. Pertanto lo sviluppo cognitivo dipende non solo dal rapporto
interpersonale ma anche dagli strumenti di cui una data cultura
dispone.
Il contesto socioculturale è, per Vygotskij, accessibile all’individuo
attraverso l’interazione con altri membri della società che hanno
familiarità con le abilità e gli strumenti tipici della propria cultura. Più
in particolare Vygotskij sottolinea come la mente abbia modo di
svilupparsi in situazioni nelle quali l’individuo meno competente – il
bambino – partecipa a situazioni problematiche sotto la guida di un
adulto – o di un individuo più competente – che struttura e modella
per lui la soluzione del problema. Perché si dia apprendimento è
14
necessario da un lato che il compito che l’attività condivisa propone
sia adeguato alle potenzialità cognitive di chi è chiamato ad
apprendere e, dall’altro, che l’individuo più esperto sia in grado di
modulare le difficoltà in funzione di tali potenzialità.
Applicata al contesto educativo, questa teoria conduce al concetto di
“zona
di
sviluppo
prossimale”8
intesa
come
quell’area
di
funzionamento psichico che il bambino non è ancora in grado di
raggiungere
autonomamente
ma
alla
quale
può
essere
progressivamente avvicinato grazie all’interazione con adulti o
coetanei più competenti, capaci di attivare e dirigere comportamenti
adeguati alla situazione.
La zona di sviluppo prossimale definisce quelle funzioni che non sono
ancora mature ma che sono nel processo di maturazione, funzioni che
matureranno domani ma sono al momento in uno stadio embrionale.
Queste funzioni potrebbero essere chiamate i “boccioli” o i “fiori” dello
sviluppo piuttosto che i “frutti” dello sviluppo. Il livello di sviluppo
caratterizza lo sviluppo mentale retrospettivamente, mentre la zona di
sviluppo prossimale caratterizza prospettivamente lo sviluppo mentale.
La zona di sviluppo prossimale fornisce agli psicologi e agli educatori un
mezzo attraverso il quale può essere capito il corso interiore dello
sviluppo. Usando questo metodo possiamo prendere in considerazione
non solo i cicli e i processi di maturazione che sono già completi ma
anche quei processi che sono al momento in uno stadio di formazione,
che stanno cominciando appena a maturare e a svilupparsi. […]. Lo
stato dello sviluppo mentale di un bambino può essere determinato solo
chiarendo i suoi due livelli: il livello di sviluppo effettivo e la zona di
sviluppo prossimale. (Vygotskij, 1978, p. 128).
8
«È la distanza tra il livello effettivo di sviluppo così come è determinato dal
problem-solving autonomo e il livello di sviluppo potenziale così come è
determinato attraverso il problem-solving sotto la guida di un adulto o in
collaborazione con i propri pari più capaci» (Vygotskij 1978, p. 127).
15
Questa visione richiede un’attenzione particolare alla capacità degli
adulti di organizzare gli ambienti dei bambini così da ottimizzare il
loro sviluppo secondo norme culturalmente definite. Si genera così
l’idea di una “zona di sviluppo prossimale” che predisponga
l’ambiente esperienziale prossimo e rilevante per lo sviluppo.
Nello spiegare le cause dello sviluppo Jerome Bruner (1983a, 1986)
riprende il punto di vista di Vygotskij sostenendo che i processi
mentali hanno un fondamento sociale e che la cognizione umana è
influenzata dalla cultura attraverso i suoi simboli, artefatti e
convenzioni. L’influenza della cultura si realizza grazie alle relazioni
sociali che il bambino stabilisce precocemente con chi si prende cura
di lui e in cui il ruolo dell’adulto viene caratterizzato secondo Bruner
come scaffolding. Nel corso della prima infanzia (in particolare
durante il primo anno di vita) compito fondamentale dell’adulto è
quello di facilitare e promuovere il “dialogo” dei sistemi di
comunicazione con il bambino. Da parte sua l’adulto è indotto ad
agire come se il bambino fosse già un partner attivo nello scambio
comunicativo, attribuendo ai suoi comportamenti un’intenzione e un
valore di segnali che essi, di fatto, non hanno.
Nelle prime interazioni l’adulto consente materialmente al bambino di
dare il ritmo all’interazione, inserendosi nelle pause fra le fasi di
attività di quest’ultimo. Il bambino sviluppa le proprie capacità non
attraverso comportamenti per tentativi ed errori, e nemmeno
attraverso la semplice imitazione, né affidandosi al proprio repertorio
innato o a semplici processi maturativi, bensì all’interno di strutture di
sequenze interattive che si ripetono con ritmi regolari. Bruner (1983a)
introduce la nozione di format9 per esplicitare la struttura che si viene
9
«Tali format sono assai utili per la costruzione della mente culturale del bambino,
poiché gli consentono di discriminare nel continuo flusso delle stimolazioni quei
movimenti e quei suoni che costituiscono unità cognitive e affettive rilevanti
all’interno della propria cultura. Essi inoltre riducono i gradi di variazione e
d’indeterminatezza delle situazioni e contribuiscono a rendere regolari e prevedibili
i contesti, effetto che, a sua volta, è alla base della regolarità e della stabilità dei
significati. Parimenti questa condizione consente anche all’adulto di verificare e di
16
a creare. Un format è una struttura di interazione standardizzata,
inizialmente un microcosmo tra adulto e bambino, un’interazione
abituale in cui adulto e bambino “fanno” delle cose insieme.
L’interazione tra adulto e bambino non svolge solo la funzione di
promuovere lo sviluppo delle capacità e delle competenze del
bambino in quanto soggetto psichico, ma anche quello di inserire
progressivamente il bambino nella dimensione simbolica della
propria cultura e di renderlo soggetto attivo nello scambio sociale con
gli altri individui e gruppi della società. In questa operazione la madre
non può non favorire anche lo sviluppo cognitivo, in quanto
quest’ultimo è legato ad «amplificatori» delle capacità motorie,
percettive e riflessive fornite dalla cultura (primo fra tutti il linguaggio).
La mente non si sviluppa in modo spontaneo e senza assistenza; lo
sviluppo intellettivo consiste nella capacità di usare come «protesi»
della mente le conoscenze e le procedure trasmesse dalla propria
cultura.
Ne consegue che, secondo Bruner (1986), l’interazione tra madre e
bambino
costituisce
il
primo
e
più
importante
luogo
di
«acculturazione», in quanto la madre si pone inevitabilmente come
figura di mediazione e anello di congiunzione fra il bambino e la
cultura di riferimento.
Mentre nel caso di molte abilità culturali gli adulti adottano un
atteggiamento
laissez
faire
–
cosa
che
avviene
in
misura
significativamente differente in culture differenti – in tutte le società
umane vi sono cose che gli adulti si sentono obbligati ad aiutare i
bambini ad apprendere […].
L’adulto osserva il bambino alle prese con un certo compito e cerca in
vari modi di facilitare il compito o di attirare l’attenzione del bambino su
certi suoi aspetti cruciali, o esegue egli stesso una parte del compito
così che il bambino non sia sopraffatto da troppe variabili. In alcune
valutare i progressi fatti dal bambino rispetto a specifiche abilità» (Anolli, 2006a, p.
68).
17
culture, questo modello di istruzione assume semplicemente la forma
dell’adulto che chiede al bambino di mettersi seduto e di osservarlo
mentre tesse un tappeto o prepara il pasto o coltiva l’orto (Greenfield e
Lave 1982). Ma in tutte le società umane vi sono abilità o conoscenze
che gli adulti si sentono obbligati a insegnare direttamente ai giovani,
tanto appaiono loro importanti (Kruger e Tomasello 1996). Esse variano
da attività fondamentali per il sostentamento alla memorizzazione degli
antenati della famiglia o rituali religiosi.
Il punto principale è che sia nello scaffolding sia nell’insegnamento
diretto l’adulto si preoccupa dell’acquisizione di una certa abilità o una
certa conoscenza da parte del bambino e, in molti casi, il suo
coinvolgimento nel processo non cessa finché il bambino non apprende
il materiale o non raggiunge un certo livello di competenza. (Tomasello,
1999, p. 103).
Bruner (1983a, 1986) osserva e analizza in quest’ottica le interazioni
precoci fra madre e figlio, nelle quali il bambino impara a
padroneggiare il linguaggio attraverso episodi condivisi di azione e
attenzione (ad esempio leggere un libro, indicare e nominare), che
includono elementi sia verbali (parole e frasi) che non verbali (gesti,
azioni, espressioni facciali). L’”impalcatura” fornita dall’adulto serve a
compensare il dislivello tra le abilità richieste dalla situazione e le
ancora limitate capacità del bambino, consentendo a quest’ultimo di
realizzare il compito richiesto dalla situazione e facendolo al tempo
stesso progredire verso livelli più avanzati di partecipazione10.
10
«E’ la madre che stabilisce gli “schemi” essenziali o i rituali secondo cui il
linguaggio viene usato; e lo fa tramite la pratica della lettura di libri illustrati,
mediante i modelli che segue nel fare le proprie richieste, nei piccoli giochi
quotidiani e così via. In tutte queste attività essa recita la propria parte in modo
sorprendente regolare. Nel corso della lettura, per esempio, articola le proprie
domande secondo una sequenza regolare: 1) vocativo, 2) quesito, 3) indicazione
del nome, 4) conferma. Per esempio: 1) Oh, guarda Richard!, 2) Che cos’è
quello?, 3) E’ un pesciolino. 4) Bravo! Questa sequenza rappresenta
un’impalcatura per l’insegnamento della referenza. All’inizio il bambino comprende
ben poco le parole della madre. In seguito comincia ad abbozzare una risposta che
ha l’aspetto del balbettio. Da allora, cioè dopo aver ottenuto questo risultato, la
madre insisterà per avere una qualche risposta che completi lo schema. Una volta
che il bambino sia arrivato a trasformare i propri balbettii di risposta in monosillabi,
essa alza di nuovo il prezzo: non accetterà il balbettio, ma solo la risposta più
18
Il bambino acquisisce la conoscenza del significato degli eventi che
vive mediante la partecipazione attiva a un contesto interattivo
alimentato dagli scambi ripetuti con l’adulto che si prende cura di lui.
Le cure parentali costituiscono un sistema di supporto indispensabile
per la crescita del bambino e sono intrinsecamente indirizzate dalla
cultura di riferimento: esse rimandano a precisi stili educativi che
definiscono gli ambienti di apprendimento significativi per il bambino
stesso. Nella prospettiva interazionista di Bruner le prime relazioni
sociali costituiscono la radice dello sviluppo mentale del bambino, a
condizione che l’adulto di riferimento sia in grado di svolgere la
funzione di struttura di sostegno11.
Ci sono molti modi in cui il comportamento degli adulti struttura e
organizza l’ambiente esterno del bambino, così da facilitare i suoi
processi di crescita e porre vincoli a ciò che può fare12. Dal canto suo
breve. Alla fine, quando il piccolo saprà maneggiare il nome di un oggetto, la
madre adotterà dei giochi in cui ciò che il bambino conosce e ciò che non conosce
ancora devono essere tenuti distinti. Mentre prima la domanda “che cos’è quello?”
veniva pronunciata con un tono finale ascendente, ora assume un tono
discendente, come ad indicare che chi la pone sa che il bambino conosce la
risposta. A questo punto il bambino pronuncerà la risposta con un inedito quanto
tipico atteggiamento di timidezza. Ma ben presto la madre alza di nuovo il prezzo:
“che cosa fa il pesciolino?”, e la domanda torna ad avere un tono finale
ascendente in quanto tende a portare di nuovo il bambino nella zona di sviluppo
prossimale, questa volta con lo scopo di padroneggiare la predicazione. La madre
si mantiene sempre sul confine in continua espansione della competenza del
bambino» (Bruner, 1986, pp. 95-96).
11
«Sebbene molti tipi di esperienza contribuiscano alla formazione della capacità
di essere solo, ve n’è uno che è fondamentale e senza il quale tale capacità non si
instaura: è l’esperienza di essere solo, da infante e da bambino piccolo, in
presenza della madre. In tal modo la capacità di essere solo ha un fondamento
paradossale, e cioè l’esperienza di essere solo in presenza di un’altra persona.
Soltanto quando è solo (cioè: solo in presenza di qualcuno) l’infante può scoprire la
propria vita personale» (Winnicott, cit. in, Liverta Sempio - Marchetti, 1995, pp.
XV).
12
«Ovviamente, non tutti sono tagliati a fungere da “sostituto della coscienza” di
altre persone. Ma l’indagine svolta da David Wood sull’insegnamento dimostra
inequivocabilmente che quella di insegnare è un’abilità che si può imparare. Uno
dei risultati conclusivi di un’altra ricerca – un risultato alquanto malinconico – mi ha
indotto a pensare che possono anche esistere delle microculture – talvolta non più
grandi della famiglia o della coppia – che contribuiscono a distruggere o
distruggono senz’altro tale abilità. La psicologa inglese Barbara Tizard riferisce
un’indagine da lei condotta per porre in relazione l’”intelligenza” delle domande dei
bambini con la “bontà” delle risposte dei genitori. Le malinconiche conclusioni a cui
perviene sono queste: quanto più è probabile che i genitori diano risposte
19
il bambino cresce e apprende in un ambiente protetto, scandito dai
compiti e dalle tappe che gli adulti hanno opportunamente
selezionato in base alla storia culturale del gruppo cui appartengono.
Uno dei più importanti fattori di variabilità culturale che riguarda i
bambini è il grado a cui a essi è consentito di partecipare alle attività
degli adulti. La “segregazione” dei bambini dalla vita degli adulti è data
per scontata nei contesti sociali di classe media, ma è rara in molte altre
comunità.
Le diverse opportunità dei bambini di imparare dalle attività quotidiane
degli adulti sono strettamente connesse a molte altre differenze nei
modelli culturali riguardanti la cura e l’educazione del bambino (Rogoff,
1990; Morelli, Rogoff, Angelillo, 2002). Il grado di partecipazione del
bambino alle attività degli adulti, o l’esclusione, sono legati a particolari
modelli culturali. [Esistono] differenze culturali nelle opportunità
concesse ai bambini di imparare assistendo o partecipando alla vita
della comunità sin dalla tenera età […]. Tali differenze si collegano ad
altri aspetti della vita del bambino, per esempio il ruolo della scuola e
dell’istruzione formale, le abilità cognitive promosse dal contesto, le
motivazioni e gli interessi del bambino, la comunicazione tra genitori e
bambino, e i rapporti tra coetanei. (Rogoff, 2003, p. 134).
Kenneth
Kaye
caratterizzare
(1982)
la
propone
condizione
del
l’idea
di
bambino
apprendistato
che
si
per
introduce
gradualmente ai contenuti della propria cultura partecipando ad
attività congiunte con l’adulto. In questo caso il rapporto tra adulto e
bambino viene assimilato al rapporto apprendista-maestro: appena
introdotto in una certa attività, il bambino è come il “novizio”, e
intelligenti, tanto più è probabile che i bambini pongano domande interessanti.
D’altro canto, però, stante la natura di queste correlazioni, l’esito della ricerca può
essere formulato alla rovescia: quanto più è probabile che i bambini pongano
domande interessanti, tanto più è probabile che i genitori diano risposte intelligenti.
L’esito di questa indagine implica che il fenomeno del “prestito di coscienza” alla
persona meno capace da parte della persona più capace, pur essendo
concretamente rilevabile, scaturisce però sicuramente non da un puro e semplice
atto di volontà, ma da una transazione “negoziabile”» (Bruner, 1986, pp. 94-95).
20
diventa
in
seguito
sempre
più
“esperto”
e
autonomo
nel
padroneggiare quell’attività mentre l’adulto diminuisce parallelamente
la propria assistenza e supervisione.
In questo processo, ciò che una generazione trasmette alla successiva
non è un corpus di progetti e disegni, o di informazioni in senso stretto,
ma degli specifici contesti di sviluppo in cui gli apprendisti, attraverso la
pratica e l’addestramento, acquisiscono e affinano le proprie capacità di
azione e di percezione. È questo ciò che Gibson (1979) chiama
“educazione dell’attenzione”. (Ingold, 2001, p.151).
Un’analisi integrata più recente della natura storica e culturale dello
sviluppo proviene da un approccio interdisciplinare che comprende
antropologia,
psicologia,
storia,
sociolinguistica,
pedagogia,
sociologia, neurologia e altri campi. Esso si basa su tradizioni di
ricerca che vanno dall’osservazione partecipante delle attività
quotidiane
in
una
prospettiva
antropologica,
alle
ricerche
psicologiche in contesti naturali e in laboratorio, alle analisi storiche
di resoconti e documenti.
La convergenza tra queste diverse tradizioni teoriche e di ricerca al
confine tra antropologia e psicologia, sta promuovendo un nuovo
modo di studiare gli aspetti culturali dello sviluppo umano e ha
condotto ad una significativa ridefinizione del concetto stesso di
apprendimento come esperienza mediata da un lato e processo
situato e distribuito dall’altro, fortemente dipendente dal contesto e
interpretato come processo sociale di co-partecipazione piuttosto che
acquisizione
individuale
di
contenuti
proposizionali
o
rappresentazionali. Lo sviluppo, contestualizzato all’interno di
aspettative sociali e culturali, si configura come un processo in cui gli
individui partecipano alle attività socioculturali della loro comunità,
che può essere compreso solo alla luce delle pratiche culturali e
delle condizioni di tali comunità, anch’esse in continua evoluzione
(Rogoff, 2003).
21
Comuni denominatori di queste teorie sono sia il riferimento ad un
paradigma
epistemologico
di tipo
costruttivista
per il quale
“conoscere” non è “rappresentarsi” un mondo “dato” quanto piuttosto
“costruirlo” (e si costruisce nella misura in cui si è coinvolti) o
“abitarlo”; sia l’enfasi posta sull’agire in quanto fondamento
dell’”essere-nel-mondo” degli organismi viventi, aspetto quest’ultimo
che trova ampio sostegno nell’attuale dibattito neuroscientifico
sull’aspetto
incorporato
e
ambientale
di mente,
pensiero e
cognizione.
1
La teoria storico-culturale
La concezione dello psicologo russo Lev Semenovič Vygotskij è
stata definita dallo stesso autore una teoria “storico-culturale” dello
sviluppo psichico.
Le esposizioni che ne sono state compiute sia in Russia (Leont’ev,
Lurija, 1959; Leont’ev 1990) che in altri paesi (Cole et al., 1978;
Mecacci, 1976; Veggetti, 1974, 1986, 1994; Wertsch, 1985a, 1985b)
concordano generalmente nella presentazione dei temi che la
riguardano: i rapporti tra sviluppo mentale e apprendimento, la
mediazione semiotica nella sociogenesi dei processi cognitivi (le
funzioni psichiche superiori), i rapporti tra pensiero e linguaggio, il
processo di formazione dei concetti.
Al bambino “eterno” di matrice piagetiana che attraversa tappe
universalmente scandite dal corso dello sviluppo e che solo in un
secondo tempo è influenzato dalla “cultura”, Vygotskij sostituisce il
bambino “storico”13 il cui sviluppo nell’ontogenesi si intreccia con altri
13
«Questa antistoricità ha colpito anche quegli studiosi contemporanei che si sono
proposti di uscire dal vicolo cieco della psicologia empirica con una teoria
strutturale dello sviluppo psichico o con una considerazione genetico-funzionale
dei problemi della psicologia della cultura. Questi studiosi sanno, è vero, che le
leggi psicologiche da loro scoperte con il metodo genetico sono valide solo per un
particolare “tipo” di bambino, per il bambino della nostra epoca. A questo punto
22
tre livelli evolutivi: lo sviluppo filogenetico, rappresentato dai lenti
cambiamenti genetici che caratterizzano la storia evolutiva della
specie umana; lo sviluppo storico-culturale che produce strumenti
materiali e simbolici, sistemi di valori, precetti, norme e documenti; lo
sviluppo microgenetico, che si riferisce all’apprendimento continuo
degli individui in un dato contesto, in base alla loro eredità genetica e
storico-culturale14.
Questi
livelli
evolutivi
sono
inscindibili:
i
comportamenti degli individui generano pratiche culturali che a loro
volta organizzano lo sviluppo degli individui stessi; in modo simile, lo
sviluppo biologico interagisce con le pratiche e istituzioni culturali; lo
sviluppo ontogenetico è parte della storia culturale e filogenetica, e
così via.
Per studiare tale processo è necessaria, secondo Vygotskij, una
metodologia storico-culturale15.
sembrerebbe quasi che si stesse a un passo dal riconoscere il carattere storico di
queste leggi, ma ecco che gli studiosi stessi regrediscono a una considerazione
puramente zoologica, sostenendo che le leggi che regolano lo sviluppo del
linguaggio nella prima infanzia, sono le stesse che presiedono, nel comportamento
dello scimpanzé, all’acquisizione della capacità di adoperare degli strumenti e sono
cioè leggi biologiche, nessuna concessione facendo alla specificità delle forme
superiori del comportamento umano.
Il concetto di struttura viene esteso a tutte indifferentemente le forme del
comportamento e della vita psichica. Così, nuovamente, alla luce, o meglio nelle
tenebre, della struttura, “tutti i gatti sono bigi”: con la sola differenza che un’eterna
legge della natura, la legge dell’associazione, è stata sostituita da un’altra legge,
pure eterna, della natura, quella della struttura. Anche qui non ci sono concetti
adeguati per esprimere l’aspetto culturale, storico del comportamento umano. Il
concetto di struttura si fa lentamente strada nella fisiologia dell’attività nervosa, poi
ancora più profondamente nella fisica, e così ciò che è stato storico (ogni
fenomeno culturale è per sua natura storico) si confonde ancora una volta con ciò
che è naturale, ciò che è culturale con ciò che è istintivo» (Vygotskij, 1930-31, p.
53).
14
Per un’analisi comparativa del modello epistemico piagetiano e della concezione
storico-culturale vygotskijana cfr. Bruner, 1997.
15
Il “problema del metodo in psicologia” è un tema molto caro a Vygotskij e si trova
in quasi tutti i suoi scritti (cfr. in particolare Vygotskij, 1930-31 e Vygotskij - Lurija
1930, in cui è contenuto il tentativo di servirsi del «metodo storico» per
l’impostazione dei più importanti problemi della psicologia genetica). D’altronde, la
rifondazione della psicologia in chiave marxista è un tema estremamente
contemporaneo a Vygotskij che lavora negli anni della Rivoluzione Bolscevica. In
questo periodo si consumano accesi dibattiti in una duplice direzione: da una parte
una forte critica alla psicologia del tempo a partire da concezioni marxiste (che si
traduceva in letture critiche di autori contemporanei quali Freud, Stern, Piaget,
Adler e della psicologia della Gestalt); dall’altra la definizione dell’oggetto stesso
23
Da tutte queste premesse deriva che
lo sviluppo umano implica una partecipazione degli individui a comunità
culturali, e può essere compreso solo alla luce delle pratiche culturali e
delle condizioni di tali comunità, che sono anch’esse in continua
evoluzione. (Rogoff, 2003, p.1).
La cognizione d’altronde non può che essere “cognizione culturale”
che si presenta come sintesi dell’evoluzione filogenetica, della
traiettoria storica e del percorso ontogenetico del soggetto:
attribuire la giusta importanza a questi processi permette di dare conto
non solo dei tratti universali della cognizione peculiari dell’uomo – come
la creazione e l’uso di artefatti materiali, simbolici e istituzionali, con le
della psicologia marxista. Vygotskij trovò nel metodo storico-culturale (o dialettico)
la chiave di volta per la fondazione di una nuova psicologia che si tradusse, sul
piano teorico, in una critica della concezione dell’uomo in chiave biologica e
naturalistica (voluta dalla riflessologia e dal comportamentismo), cui
contrapponeva la sua teoria dello sviluppo storico-culturale. La nuova metodologia
avrebbe dovuto contemplare da una parte lo sviluppo psicologico generale (una
dimensione storico-naturale-oggettiva della psiche), dall’altra chiarire in che
rapporti stesse la filogenesi umana con il contesto evoluzionistico della specie, e
descrivere in che momento e in che modo avvenisse lo sviluppo specificamente
umano. Le ipotesi che Vygotskij poneva alla base delle sue indagini sperimentali
erano fondamentalmente due: la natura mediata delle funzioni psichiche superiori
e la genesi dei processi mentali interni da un’attività originariamente esterna, dove,
come vedremo, “esterno” è sinonimo di “sociale”.
«Vygotskij vedeva nei metodi e nei principi del materialismo dialettico una
soluzione all’interpretazione dei paradossi scientifici che i suoi contemporanei si
trovavano a dover affrontare. Un dogma fondamentale di questo metodo è che tutti
i fenomeni devono essere studiati come processi in movimento e in
trasformazione. Per quanto riguarda l’argomento della psicologia, il compito degli
scienziati è di ricostruire l’origine e il corso dello sviluppo del comportamento e
della coscienza. Ogni fenomeno non solo ha una storia, ma questa storia è
caratterizzata da trasformazioni sia qualitative (cambiamenti nella forma, nella
struttura e nelle caratteristiche fondamentali) sia quantitative. Vygotskij adoperò
questo tipo di ragionamento per spiegare la trasformazione di processi psichici
elementari in processi psichici complessi. Lo scisma tra gli studi secondo la storia
naturale dei processi elementari e la riflessione speculativa sulle forme di
comportamento culturale potrebbe essere risolto tracciando le trasformazioni
qualitative del comportamento che avvengono nel corso dello sviluppo. Quindi,
quando Vygotskij definisce il suo punto di vista “inerente allo sviluppo” ciò non va
confuso con una teoria dello sviluppo infantile. Il metodo dello sviluppo, secondo
Vygotskij, è il metodo centrale della scienza psicologica» (Cole - Scribner 1978, p.
19).
24
loro storie cumulative – ma anche delle peculiarità di particolari culture,
ciascuna delle quali nel corso delle ultime decine di migliaia di anni della
storia umana ha sviluppato autonomamente, attraverso questi stessi
processi storici e ontogenetici, una varietà di abilità e di prodotti cognitivi
culturalmente unici. (Tomasello, 1999, p.30).
La tesi centrale della teoria storico-culturale è che la struttura e lo
sviluppo dei processi psicologici umani (le funzioni psichiche
superiori) emergono dall’attività pratica, mediata culturalmente e
suscettibile di sviluppo storico.
Nello sviluppo del bambino sono rappresentati (ma non si tratta di una
ripetizione) ambedue i tipi di sviluppo psichico che troviamo, separati,
nella filogenesi: sviluppo biologico e sviluppo storico, ossia uno sviluppo
naturale e culturale del comportamento16
e questo renderebbe complesso il problema dello studio dello
sviluppo del bambino in quanto il sistema di attività organiche,
proprie di una dimensione biologica, e il sistema di attività
strumentali, proprie dello sviluppo storico, non si avvicendano, ma
sono contemporanei. Lo sviluppo culturale non crea nulla rispetto a
quanto già predisposto dalla crescita e dalla maturazione ma
modifica profondamente le abilità naturali, subordinandole ai fini
specifici dell’uomo.
16
Vygotskij, 1930-31, p. 69. Va inoltre sottolineato che Vygotskij non intende
affatto sostenere la legge della ricapitolazione biogenetica: «con questo non
intendiamo dire che l’ontogenesi ripeta o riproduca in qualche sua forma o grado la
filogenesi, o che le sia parallela; stiamo invece esponendo un pensiero molto
diverso. […]. Nell’esporre i nostri esperimenti ci volgeremo spesso, per fini euristici,
ai dati della filogenesi, nei casi in cui avremo bisogno di una chiara definizione del
concetto di sviluppo culturale del comportamento. […]. Parlando dell’analogia tra le
due linee dello sviluppo infantile con le due linee della filogenesi, non intendiamo
estendere questa analogia alla struttura e al contenuto di questo e quel processo,
ma la limitiamo ad un solo momento: la presenza nella filogenesi e nell’ontogenesi
di due linee di sviluppo» (ibidem).
25
L’acquisizione dei valori della civiltà da parte di un bambino normale,
avviene di solito in maniera inscindibile dai processi della crescita e della
maturazione organica. I due piani dello sviluppo, naturale e culturale
coincidono e si fondano insieme. Le due serie di mutamenti confluiscono
l’una nell’altra e costituiscono sostanzialmente quell’unico processo
complesso che è la formazione biologico-sociale del bambino. Lo
sviluppo culturale assume un carattere affatto particolare, che non ha
paragoni
possibili
con
altri
fenomeni,
poiché
si
compie
contemporaneamente alla crescita organica e inseparabilmente da
questa, e perché il soggetto è costituito dall’organismo infantile in
evoluzione, sottoposto ai mutamenti della crescita. (Vygotskij, 1930-31,
p.70).
In base a questa prima definizione dello sviluppo infantile, Vygotskij,
insieme a Alexander R. Lurija e Alexej N. Leont’ev, prepara un
programma di ricerche empiriche che avrebbero dovuto trovare
evidenza della funzione determinante degli strumenti di mediazione
su tutti gli aspetti del comportamento o, come egli stesso si
esprimeva quando si riferiva agli aspetti specificamente culturali del
comportamento, sugli aspetti dell’attività (Veggetti, 1994).
La teoria genetica dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori
trova un’ampia trattazione in due scritti: La scimmia, l’uomo primitivo,
il bambino. Studi sulla storia del comportamento, preparato in
collaborazione con Lurija17 la cui prima pubblicazione risale al 1930 e
Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori che risale agli
anni 1930-1931.
Nel volume scritto con Lurija, Vygotskij parla di «comportamento» e
non ancora di funzioni psichiche superiori. Il metodo utilizzato dagli
autori per presentare i fondamenti della psicologia storico-culturale
consiste in una comparazione tra la specificità di ognuna delle tre
17
Lurija si occupa in particolare della stesura del terzo capitolo Il bambino e il suo
comportamento, mentre Vygotskij scrive i primi due capitoli: Il comportamento della
scimmia antropoide e L’uomo primitivo e il suo comportamento.
26
tendenze
dello
sviluppo
del
comportamento:
della
scimmia
antropoide, dell’uomo «primitivo» e del bambino.
Lo schema dei nostri saggi può essere così rappresentato: l’utilizzazione
e l’invenzione degli strumenti nelle scimmie antropoidi rappresenta il
completamento dello sviluppo organico del comportamento nella serie
evolutiva e prepara la trasposizione di tutto lo sviluppo su nuovi criteri,
creando il principale presupposto psicologico dello sviluppo storico del
comportamento; il lavoro e lo sviluppo, ad esso collegato, del linguaggio
umano e di altri segni psicologici, mediante il quale l’uomo primitivo
cerca di dominare il comportamento, indicano l’inizio dello sviluppo del
comportamento culturale o storico nel vero senso della parola; infine
nello sviluppo infantile, accanto ai processi della crescita organica e
della maturazione, emerge chiaramente una seconda linea di sviluppo e
cioè la crescita culturale del comportamento, basata sull’assimilazione di
procedimenti e metodi di comportamento culturale e di pensiero.
(Vygotskij – Lurija, 1930-31, p. 4).
Secondo gli autori questi tre momenti sono sintomi di nuove epoche
nell’evoluzione del comportamento e indizi di cambiamento del tipo
stesso di sviluppo.
Abbiamo dunque sempre preso in considerazione le tappe cruciali e
critiche nello sviluppo del comportamento. Un tale momento critico e
cruciale riteniamo coincida nel comportamento della scimmia con l’uso
degli strumenti, nel comportamento dell’uomo primitivo con il lavoro e
l’uso dei segni psicologici e nel comportamento del bambino con lo
sdoppiamento della linea del suo sviluppo in sviluppo psicologiconaturale e psicologico-culturale. […].
Abbiamo cercato in primo luogo di evidenziare la profonda specificità di
ognuna delle tre tendenze dello sviluppo del comportamento, la diversità
del metodo e del tipo di sviluppo. Ci hanno soprattutto interessato i
caratteri
differenziali
e
non
quelli
similari
di
questi
processi.
Contrariamente alla teoria del parallelismo, noi siamo partiti dal
presupposto che lo studio delle principali caratteristiche distintive di ogni
27
processo di sviluppo, caratteristiche che lo distinguono dal comune
concetto dell’evoluzione, può portare direttamente a chiarire il tipo e le
regolarità specifiche di ognuno dei tre processi esaminati. (Ibidem, pp. 45).
Per Vygotskij fra gli animali e l’uomo ci sarebbe un salto qualitativo
caratterizzato dallo sviluppo di processi psichici superiori dipendenti
dal contesto storico-sociale; i processi psichici superiori pur
conservando
la
stessa
natura
biologica
di
quelli
inferiori,
rappresentano una nuova organizzazione funzionale di quest’ultimi,
generatasi sotto l’influsso dei fattori sociali e culturali. Sia le funzioni
psichiche inferiori che quelle superiori sono “processi materiali” che
si svolgono a livello neurologico18, con la differenza che i processi
psichici superiori si sviluppano in relazione all’ambiente sociale e
culturale.
Nessuno ha mai trovato, osservando la vita degli animali, strumenti o
metodi tradizionali diversi nelle diverse popolazioni e che indicassero
una trasmissione di scoperte, una volta fatte, da una generazione
all’altra, alcuna presenza di segni su pietre arenarie o creta che
potessero essere presi per un disegno che rappresentasse qualche
cosa o perfino un ornamento scarabocchiato per gioco, alcunché che
indichi un linguaggio, cioè suoni equivalenti a nomi. […].
Ma non bisogna dimenticare che le differenze quantitative si trasformano
in quelle qualitative. Ciò che esiste come embrione in una specie può
diventare un tratto distintivo in un’altra specie di animali. L’elefante
stacca i rami per scacciare le mosche. Ciò è interessante e istruttivo. Ma
18
A ogni livello dello sviluppo del comportamento, afferma Vygotskij riportando le
teorie di Ludwig Edinger, si accompagna una crescita delle strutture celebrali.
Scrive inoltre citando Bühler: «nelle scimmie antropoidi e ancor più nell’uomo,
avviene un nuovo aumento del peso relativo del cervello, che spetta alla corteccia
celebrale. Nuovi campi con innumerevoli intrecci di fibre si intersecano con quelli
vecchi sulla corteccia del cervello. Nell’uomo questo riguarda prima di tutto i più
importanti centri della parola» (ibidem, p. 49). Affermando che i processi cognitivi
(le funzioni psichiche superiori) sono un prodotto dell’attività celebrale, Vygotskij
divenne uno dei primi sostenitori delle possibili convergenze tra psicologia
cognitiva, neurologia e fisiologia (Cole, 1978).
28
nella storia dello sviluppo della specie “elefante” l’uso dei rami nella lotta
contro le mosche forse non ha avuto nessun ruolo essenziale. Gli
elefanti non sono diventati elefanti perché i loro antenati di tipo più o
meno elefantico agitavano i rami.
Un’altra cosa è l’uomo. Tutta l’esistenza dell’aborigeno australiano
dipende dal suo boomerang, come tutta l’esistenza dell’Inghilterra
moderna dipende dalle sue macchine. Togliete all’australiano il suo
boomerang, fategli lavorare la terra ed egli, per necessità, cambierà tutto
il suo modo di vita, tutte le sue abitudini, tutto il suo modo di pensare,
tutta la sua natura. (Ibidem, pp. 53-54).
Nel corso dello sviluppo storico dell’umanità – afferma Vygotskij,
riprendendo le teorie di Marx – non sono soltanto cambiati i rapporti
tra l’umanità e la natura, ma è cambiata la natura stessa dell’uomo:
«questa modificazione della natura da parte dell’uomo è alla base di
tutta la storia umana» (Vygotskij, 1930-31, p.123). Di questo sviluppo
storico dell’uomo si sa molto poco in quanto si dispone di scarso
materiale.
Il grande e differenziato mondo degli animali, bloccatosi ai diversi livelli
dell’”origine
delle
specie”,
offre
quasi
un
panorama
vivente
dell’evoluzione biologica e permette di aggiungere ai dati dell’anatomia e
della fisiologia comparata i dati della psicologia comparata.
Lo sviluppo del bambino è un processo che si compie ripetutamente
davanti ai nostri occhi. Esso ammette i più diversi metodi di studio. Il
processo di modificazione storica della psicologia umana invece è posto
in condizioni assai peggiori di studio. Le scomparse epoche storiche
hanno solo lasciato documenti e tracce riguardo al passato.
Secondo questi documenti e tracce può essere ristabilita più facilmente
la storia esterna della specie umana. Non è rimasto, però, nessun
elemento
completo
e
oggettivo
dei
meccanismi
psicologici
di
comportamento. Perciò la psicologia storica dispone di assai meno
materiale.
29
Per questo una delle sue fonti più ricche è lo studio dei cosiddetti popoli
primitivi. Alcuni popoli del mondo non civilizzato che si trovano a livelli
più bassi dello sviluppo culturale, di solito chiamati, anche se in verità in
senso convenzionale, primitivi. Questi popoli non possono essere a
pieno diritto chiamati primitivi, poiché in loro, decisamente in tutti, esiste
un grado minore o maggiore di civilizzazione. Tutti sono già usciti dal
periodo preistorico di esistenza dell’uomo. Molti hanno delle tradizioni
antichissime. Alcuni hanno esperito l’influenza di lontane e potenti
culture. Oggi in nessun luogo esiste l’uomo primitivo nel senso vero e
proprio della parola. (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 64-65).
In sostanza, avverte Vygotskij, l’uomo così detto «primitivo» è già un
soggetto di sviluppo storico, affermazione che egli pone con
chiarezza fin dall’inizio, differenziando in tal modo le sue concezioni
da quelle della psicologia comparata a lui contemporanea, che
affermava l’inferiorità del tipo biogenetico del «primitivo». Dopo avere
riportato ricerche di etnografi ed etnologi a lui contemporanei quali
Taylor, Spencer, Lévy-Bruhl, Thurnwald conclude:
se proviamo a sommare i risultati di queste ricerche sulle differenze
fisiologiche del primitivo, si può arrivare a concludere che la ricerca
scientifica non dispone attualmente di un materiale in qualche modo
positivo, atto ad indicare un particolare tipo biologico al quale sarebbe
opportuno ascrivere, come causa principale, l’origine di tutta la
specificità del comportamento dell’uomo primitivo. Al contrario, le
differenze accertate dagli studiosi, da una parte, risultano assai
insignificanti,
mentre
dall’altra
sono
profondamente
dipendenti
dall’esercizio e risultano quindi profondamente dipendenti dallo sviluppo
culturale. (Ibidem, p. 75).
In sostanza tra le operazioni intellettive del «primitivo» e quelle
dell’uomo «civile» ci sarebbe una continuità dovuta all’uso di segni
per controllare i processi psichici naturali, viceversa l’adattamento e il
30
dominio dei processi naturali è ciò che manca al bambino rispetto al
primitivo.
Il bambino nasce in un ambiente produttivo-culturale già pronto e in
questo consiste la sua differenza decisiva e radicale dal primitivo. Ma il
fatto è che egli nasce separato da esso e che non vi si inserisce subito.
Questo inserimento nelle condizioni civili non equivale affatto al
semplice atto di indossare un vestito nuovo: esso è accompagnato da
profonde trasformazioni nel comportamento, dalla formazione di nuovi
suoi meccanismi, fondamentali e specifici. Per questo è del tutto
naturale che in ogni bambino ci deve essere il periodo primitivo
preculturale; questo periodo dura un certo tempo ed è caratterizzato
dalle sue particolarità nella struttura della vita psichica del bambino, da
tratti originali primitivi nell’assimilazione del pensiero.
Inserendosi nel suo ambiente, il bambino inizia subito a mutarsi e a
cambiare: ciò avviene molto presto, perché la situazione socio-culturale
già pronta crea in lui quelle necessarie forme di adattamento che da
tempo erano state create dagli adulti che lo circondano.
Tutto il comportamento del bambino si riordina; in esso si produce
l’abitudine di frenare il diretto soddisfacimento delle sue necessità e
inclinazioni, di trattenere le risposte dirette agli stimoli esterni in modo da
impadronirsi di una data situazione meglio e più facilmente, per vie
traverse, elaborando procedimenti culturali adeguati. (Ibidem, p. 168).
Il comportamento del bambino in varie età, presenta significative
differenze qualitative che affondano le proprie radici non solo nelle
modificazioni fisiologiche, ma anche nella diversa capacità di
utilizzare le forme culturali.
In breve possiamo dire che il bambino attraversa determinati stadi di
sviluppo culturale, ognuno dei quali è caratterizzato da un diverso
rapporto del bambino con il mondo esterno, da un diverso tipo di
utilizzazione degli oggetti e da diverse forme di invenzione e di uso di
determinati procedimenti culturali, sia esso un qualche sistema
31
elaborato nel processo di sviluppo della cultura, o un procedimento,
inventato durante la crescita e l’adattamento della personalità. (Ibidem,
p. 126).
Lo sviluppo del comportamento del bambino è visto come
caratterizzato da quattro stadi19.
Il primo è quello prettamente organico: nella fase neonatale il
bambino è alle prese con sensazioni organiche limitate al suo corpo
e determinate dai principali istinti, in quanto manca di qualsiasi
strumento nell’adattamento alla realtà20.
In un secondo stadio il bambino dispiega una serie di processi
psichici che sono inizialmente «naturali»; si tratta di uno stadio
transitorio, che corrisponde al primo anno di vita circa, in cui il
bambino sta preparando i suoi strumenti per entrare nella
dimensione dello sviluppo culturale che gli si presenta nel terzo
stadio.
[Questo] è caratterizzato dalla genesi, nel comportamento del bambino,
di processi mediati che ristrutturano il comportamento con l’utilizzazione
di segni-stimolo. Questi metodi di comportamento, acquisiti nel processo
19
Ognuno di questi stadi sarà ripreso nello scritto Storia dello sviluppo delle
funzioni psichiche superiori (cui si rimanda) per quanto riguarda lo sviluppo del
linguaggio, dell’attenzione volontaria e della memoria nel bambino; per quanto
riguarda lo sviluppo del linguaggio in particolare cfr. Vygotskij, 1934.
20
«L’adulto non solo è legato all’ambiente circostante da mille legami più intimi,
egli stesso è il suo prodotto, la sua sostanza è nella sostanza dell’ambiente
circostante. La situazione è del tutto diversa per il neonato. […]. E’ vero che il
mondo è per lui pieno di rumori e macchie, ma i suoi organi di senso ancora non gli
servono: egli ancora non percepisce singole impressioni, non riconosce gli oggetti,
non distingue nulla in questo caos generale; il mondo delle cose note e percepite
non esiste per lui, ed egli vive in mezzo ad esso come un eremita. […]. Nell’adulto
un enorme e determinante ruolo è svolto da quelle funzioni di comportamento che
lo collegano all’ambiente e che sono il prodotto di questa azione sociale e
culturale, cioè le sue percezioni, la sua pratica, il suo intelletto; nel bambino questo
posto dominante è occupato da sensazioni organiche, limitate al suo corpo
(costanti eccitazioni interne – inclinazioni primitive, l’eccitazione della mucosa della
bocca, ecc.); ciò che è più importante nel comportamento dell’adulto, è assente nel
bambino; per lui nella fase primitiva di sviluppo vi sono altri valori, altre proporzioni,
altre leggi; il bambino piccolo si differenzia dall’adulto, in un certo senso, non meno
che la crisalide dalla farfalla» (Vygotskij - Lurija, 1930, pp. 134-135).
32
dell’esperienza culturale, trasformano le principali funzioni psicologiche
del bambino, le equipaggiano con nuovi strumenti, le sviluppano.
(Ibidem, p. 174).
Sul piano delle funzioni psichiche, il bambino inizia ad usare alcuni
strumenti per potenziare la propria memoria, per esempio, inizia ad
essere in grado di utilizzare delle figurine per ricordare delle liste di
parole. Adopera tuttavia strumenti esterni, che trova perlopiù già
pronti nel contesto in cui si svolge la sua esperienza e questo è un
tratto caratterizzante che differenzia il comportamento del bambino
dal «primitivo» che, invece, crea da solo i propri strumenti di
adattamento attivo alla natura21. Questo stadio viene definito come
quello del comportamento secondo un metodo culturale esterno.
Il quarto stadio dello sviluppo del comportamento è caratterizzato
dall’uso di strumenti astratti, i segni (come le parole e i diversi sistemi
semiotici), con valore strumentale per dominare le funzioni psichiche.
Ciò che egli faceva prima con l’aiuto di segni esteriori, comincia ora a
farlo con l’aiuto di procedimenti interiori che sostituiscono interamente
quei segni esteriori sui quali egli ha imparato. Il bambino che ricordava
prima con i cartoncini, ora comincia a memorizzare mediante un sistema
interiore, pianificando e collegando il materiale alla sua esperienza
precedente in modo che le immagini interiori, nascoste all’occhio
estraneo e rimaste costantemente nella memoria, hanno ora un ruolo
21
«Più sopra abbiamo fatto notare che l’uomo primitivo, al quale occorre ricordare
il numero dei capi di bestiame o delle misure di grano, invece di ricordare questo in
modo diretto, praticava delle tacche e, marcando con esse il quantitativo
necessario, raggiungeva due scopi in una volta: usando un metodo primitivo egli,
con maggior forza che col metodo naturale, ricordava il materiale a lui necessario e
nel contempo alleggeriva la propria naturale memoria del carico superfluo.
Possiamo dire che anche il bambino percorre un cammino simile, con la sola
differenza che l’uomo primitivo inventava i suoi sistemi di memorizzazione da solo,
mentre il bambino in fase di sviluppo il più delle volte riceve sistemi già pronti, che
lo aiutano a ricordare e non fa altro che inserirsi in essi, impara ad usarli, ad
assimilarli e, per il loro tramite, a trasformare i sui processi naturali» (Vygotskij Lurija, 1930, p. 177).
33
funzionalmente ausiliario, servono da anello di congiunzione per il
ricordo. (Ibidem, p. 223).
Utilizzando dati di ricerca empirica, l’esposizione dimostra come la
struttura delle funzioni psichiche si modifichi attraverso la mediazione
interna: l’attenzione diventa volontaria e ciò permette al bambino di
riprodurre certi contenuti appresi nel momento in cui vuole riprodurli.
In questo passaggio il linguaggio verbale acquista un ruolo
dominante; la memoria perde la caratteristica eidetica (e cioè il suo
fondarsi su immagini concrete e vivide) e diventa logico-verbale.
Il linguaggio acquista un ruolo dominante, diventa il procedimento
culturale più usato, arricchisce e stimola il pensiero, e la psiche del
bambino si riadegua, acquista una nuova struttura. I meccanismi verbali,
che prima si esprimevano chiaramente nel periodo del linguaggio attivo,
in questo periodo di accumulazione iniziale si trasformano in un
linguaggio interiore silente, che diventa uno dei principali strumenti
ausiliari del pensiero. In effetti, quanti complessi e precisi compiti
intellettuali sarebbero rimasti insoluti se noi non possedessimo il
linguaggio interiore, grazie al quale il pensiero può assumere forme
precise e chiare, grazie al quale diventano possibili prove verbali (o
meglio
intellettuali)
preliminari
di
singole
soluzioni
e
la
loro
pianificazione. […].
Trasferendosi
dall’esterno
all’interno,
il
linguaggio
forma
un’importantissima funzione psicologica, che rappresenta in noi
l’ambiente esterno, stimola il pensiero, e, come pensano alcuni autori,
pone le basi per lo sviluppo della coscienza.
Quelle primitive forme dell’attività verbale del bambino, i periodi della
chiacchiera infantile del “monologo collettivo”, tutto ciò è la preparazione
a quegli stadi di sviluppo in cui il linguaggio diventa un importantissimo
meccanismo di pensiero; solo in quest’ultimo periodo il linguaggio da un
procedimento formato dall’esterno si trasforma in processo interiore e il
34
pensiero dell’uomo acquista nuove ed enormi prospettive di ulteriore
sviluppo22.
Il lavoro in esame si chiude con due paragrafi dedicati alla
descrizione del comportamento del bambino «normale» e con deficit
o handicap. Secondo gli autori, ritardo mentale e handicap
priverebbero il bambino non tanto delle funzioni psichiche “naturali”,
ma
proprio
dei
procedimenti
culturali
per
potenziarle.
Ciò
spiegherebbe ad esempio la contraddizione per cui si osserva, a
volte, in bambini ritardati una memoria formidabile.
La differenza tra il bambino ritardato e quello normale spesso si
dimostra non nelle particolarità naturali dell’uno e dell’altro, ma nella
diversa utilizzazione delle doti naturali, dipendenti evidentemente dalla
diversa formazione culturale del bambino. Nei deboli e negli imbecilli ciò
è ostacolato dai difetti oggettivi nello sviluppo del cervello, nello scolaro
ritardato da un’insufficiente influenza dell’ambiente culturale. Ma se nei
primi spesso non vediamo una grande influenza dell’educazione, se
essa si scontra con gravissime difficoltà costituzionali, per quanto
riguarda i bambini ritardati della scuola normale, restiamo pieni di sano
ottimismo: inculcando nel bambino determinati procedimenti culturali di
comportamento, possiamo lottare con successo contro il ritardo infantile
non come fatto biologico, ma come fenomeno di insufficiente sviluppo
culturale. […].
Tutti questi fatti ci obbligano naturalmente a rivalutare alquanto il nostro
atteggiamento verso le capacità naturali e acquisite e a porre la
questione della capacità culturale, come uno dei problemi più importanti
della psicologia moderna23.
22
Ibidem, pp. 214-215. Con queste affermazioni risultano delineate, in questo
lavoro, alcune delle concezioni di Vygotskij sui rapporti tra pensiero e linguaggio
che verranno approfonditi in un volume successivo dal titolo Pensiero e linguaggio
(1934) in cui criticando Piaget, l’autore afferma che ciò che nella concezione
piagetiana viene indicato come “linguaggio egocentrico” e che assume la
caratteristica di “monologo collettivo” rappresenta in verità una forma di pensiero
esteriorizzata.
23
Ibidem, pp. 242-243. In stretto collegamento con la definizione della concezione
storico-culturale dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori e della funzione
35
Lo studio comparato dei diversi tipi di sviluppo culturale (nel bambino
con handicap e nel bambino normodotato) diventa metodo principale
di indagine (insieme al metodo genetico) per l’analisi delle funzioni
psichiche superiori proprio per la forma che esso assume nella
patologia: il valore euristico di questa metodologia consiste nella
possibilità di focalizzare l’apporto culturale allo sviluppo del bambino
e di studiare com’esso si innesta sullo sviluppo biologico24.
del loro controllo Vygotskij elabora, sulla base dell’attività clinica, i principi per il
lavoro riabilitativo e rieducativo. Per un’analisi comparata dello sviluppo normale
delle funzioni psicologiche e della loro disgregazione (in particolare un’analisi
genetica del pensiero concettuale dell’adolescente e una comparazione con quello
dello schizofrenico) si rimanda al saggio Deterioramento dei concetti nella
schizofrenia. Contributo al problema della psicologia nella schizofrenia (1932);
mentre per un’analisi del ritardo mentale in connessione con disturbi nell’attività
intellettiva si veda Il problema del ritardo mentale, saggio per la costruzione di
un’ipotesi di lavoro (1935); entrambi contenuti in Storia dello sviluppo delle funzioni
psichiche superiori. Sintetizzando le posizioni principali, in parte già contenute in
Studi sulla storia del comportamento, egli afferma che compito della psicologia
deve essere quello di partire non da ciò che al bambino manca, ossia dal deficit
sensoriale o dal ritardo (cosa che snatura la psicologia ponendola al livello della
fisiologia o della biologia) ma quello di partire dalla considerazione della dotazione
naturale, che nel bambino handicappato è a volte più forte di quella del bambino
normale, e di creare, su questa base, dei percorsi ausiliari, delle vie indirette per lo
sviluppo culturale. Pertanto, se la differenziazione tra il bambino normale e quello
handicappato sta sul piano culturale, la natura dell’intervento deve essere
propriamente educativa.
24
«La particolarità fondamentale dello sviluppo infantile sta nella fusione dei due
processi di sviluppo culturale e biologico. Nel bambino che presenta qualche
difetto fisico, non si osserva la fusione di questi due processi. I due piani dello
sviluppo abitualmente, in modo più o meno sensibile, divergono. Causa di questa
divergenza è il difetto organico. La cultura umana si è venuta costituendo nelle
condizioni di una determinata stabilità e costanza del tipo biologico umano. Per
questo i suoi strumenti materiali, l’adattamento, i suoi istinti e le istituzioni e gli
apparati sociali e psicologici sono determinati in funzione di un’organizzazione
psicofisiologicamente normale.
L’uso di questi strumenti e di questi apparati richiede come suo presupposto
essenziale la presenza degli organi e delle funzioni peculiari dell’uomo.
L’acquisizione dei valori della civiltà da parte del bambino è condizionata alla
maturazione delle funzioni e degli apparati corrispondenti. A un determinato stadio
del suo sviluppo biologico il bambino apprende l’uso della lingua, se il suo cervello
e l’apparato fonatorio si sviluppano normalmente. A un altro stadio, superiore, dello
sviluppo, il bambino apprende il sistema del calcolo decimale e la lingua scritta, più
tardi ancora le fondamentali operazioni aritmetiche.
Il legame, la coincidenza di questo o di quello stadio, o forma, dello sviluppo con
determinati momenti della crescita organica è sorto oramai da secoli, millenni, e ha
istituito una simbiosi a tal punto stretta tra i due fenomeni, che la psicologia
infantile non ha più fatto distinzione tra i due fenomeni, considerando così l’idea
che l’acquisizione delle forme culturali del comportamento sia un sintomo naturale
36
Questa complessa opera, sommariamente riassunta in questo
paragrafo, espone i fondamenti della psicologia storico-culturale e
della teoria strumentale in psicologia delineando proprio la natura
degli strumenti culturali che provocano l’ominizzazione delle funzioni
psichiche naturali, il loro divenire più complesse (sia sotto l’aspetto
genetico che funzionale) e dunque superiori come Vygotskij le
definisce nello scritto Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche
superiori.
1.1
Filogenesi e storia culturale
La psicologia storico-culturale considera dunque la cognizione
umana come il risultato di trasformazioni avvenute all’interno di vari
domini dello sviluppo: filogenesi, storia culturale e ontogenesi.
Essa pone inoltre molta fiducia in una rigorosa successione
temporale tra i diversi domini:
per noi [il collegamento tra le tre tendenze dello sviluppo] consiste nel
fatto che ciascun processo di sviluppo prepara dialetticamente il
successivo e si trasforma in un nuovo tipo di sviluppo. Noi non pensiamo
che tutti e tre i processi convergano linearmente, ma riteniamo che ogni
tipo superiore di sviluppo inizi là dove termina il precedente e si ponga
come sua continuazione nel nuovo indirizzo. (Vygotskij – Lurija, 1930,
p.6).
dello sviluppo organico come il manifestarsi si qualsiasi altra caratteristica
somatica. […].
Tutta la patologia tradizionale, tutta la teoria dello sviluppo e delle caratteristiche
del bambino anormale, più ancora che la stessa psicologia infantile, era centrata
sull’idea dell’omogeneità e dell’unità del processo dello sviluppo infantile, e poneva
su un unico piano le caratteristiche primarie, biologiche, del bambino non normale
e le secondarie, culturali, della complicazione del difetto. Questo era causato, in
linea generale, dal fatto che la gradualità e la consequenzialità del processo di
acquisizione dei valori della civiltà sono condizionati dalla gradualità dello sviluppo
organico» (Vygotskij, 1930-31, pp. 75-76).
37
Come ha fatto notare James Wertsch (1985a) l’idea che ogni livello
“superiore” inizi precisamente nel punto in cui termina quello
precedente implica una teoria del “punto critico” nelle origini della
cultura, del tipo proposto da Alfred Kroeber (1917), che sosteneva
una concezione della cultura come realtà superorganica, disgiunta
dalla filogenesi25.
In quanto alla teoria del punto critico della comparsa della cultura, essa
postula che lo sviluppo della capacità di acquisire cultura fu un tipo di
avvenimento improvviso, tutto-o-nulla, nella filogenesi dei primati. In
qualche
preciso
momento
nella
nuova
irrecuperabile
storia
dell’ominazione avvenne un’alterazione organica e prodigiosa, ma
probabilmente
secondaria
in
termini
genici
o
anatomici
–
presumibilmente nella struttura della corteccia – in cui un animale i cui
genitori non erano stati predisposti a “comunicare, apprendere e
insegnare” […] venne predisposto e “con ciò egli cominciò ad essere in
grado di agire come ricevitore e trasmettitore, e ad iniziare
quell’accumulazione che è la cultura”. Con lui era nata la cultura e, una
volta nata, iniziò il suo corso in modo del tutto indipendente dall’ulteriore
evoluzione organica dell’uomo. […]. Non solo è diventato ora fuorviante
usare l’immagine della “promozione” a un gradino superiore per la
comparsa dell’uomo, ma “è ugualmente dubbio se dobbiamo parlare
ancora in termini di comparsa della cultura, come se anche la cultura
fosse improvvisamente balzata nell’esistenza insieme con l’uomo”.
(Geertz, 1973, p.83).
25
Interessante notare come lo stesso Vygotskij ravveda nel «paradosso biologicoculturale» dello sviluppo infantile la differenza tra la linea di sviluppo filogenetica e
ontogenetica: «se nello sviluppo biologico dell’uomo domina un sistema di attività
organiche e nello sviluppo storico un sistema di attività strumentali se nella
filogenesi di conseguenza tali sistemi sono rappresentati e si sono sviluppati
isolatamente l’uno dall’altro, nell’ontogenesi essi si sviluppano insieme e
contemporaneamente. […]. Questo significa che nell’ontogenesi lo sviluppo del
sistema di attività rivela un duplice condizionamento. […]. Questo fatto merita il
nome di paradosso biologico-culturale dello sviluppo infantile» (Vygotskij, 1930-31,
p. 72).
38
La stessa teoria del “punto critico” è presente anche nel passaggio
dalla scimmia all’uomo, mentre una teoria del “livello” storicoculturale raggiunto nei diversi contesti culturali, che giustifica la
distinzione tra uomo «primitivo» e «civile» riporta ad un concetto,
molto diffuso durante il Diciannovesimo e Ventesimo secolo,
dell’evoluzione come progresso lungo una sola dimensione.
Sembrerebbe che una volta raggiunto un livello di competenza
riconoscibile come umano, tutto il successivo cambiamento tecnologico,
dalla caccia e raccolta del paleolitico all’industria moderna, potrebbe
avere avuto luogo senza ulteriori mutamenti significativi nella dotazione
di base ereditaria della specie umana.
In breve, sembra che mentre il cambiamento di utensili dal Basso all’Alto
Paleolitico appartiene all’evoluzione, il cambiamento da quest’ultimo alle
moderne tecnologie industriali appartiene alla storia. Quando parliamo di
evoluzione, si da per scontato che i cambiamenti degli utensili
dipendano da, e possono perciò essere indici di cambiamenti delle
forme e capacità umane. […].
La nozione di “capacità” sembra implicare una certa visione della natura
umana, che comprende una serie di strutture universali o di
comportamenti, pienamente formati nella vita di ogni individuo fin
dall’inizio, e successivamente riempiti di tanti contenuti particolari e
culturali. Così, le capacità sarebbero innate, prodotto di un processo
evolutivo, mentre il contenuto acquisito cambierebbe nella storia […].
Non possiamo mettere gli universali dalla parte dell’evoluzione e i
particolari dalla parte della storia. Piuttosto, se la storia deve
comprendersi come un processo per cui le persone, attraverso le proprie
attività stabiliscono le condizioni ambientali all’interno delle quali i propri
discendenti
raggiungono
la
maturità,
sviluppando
delle
abilità
appropriate a una certa forma di vita, questo non è che l’estensione di
un processo nel dominio umano che è in atto in tutto il mondo organico.
Questo processo è un processo evolutivo. (Ingold, 2001, pp. 174-175).
39
Il presente paragrafo ha lo scopo di allineare la teoria-storico
culturale ai dati e alle teorie interpretative a noi più contemporanee
per quanto riguarda il dominio filogenetico e storico-culturale; mentre
l’ontogenesi nei suoi contesti storico-culturali, sarà trattata in un
paragrafo a parte.
1.1.1
Coevoluzione di filogenesi e storia culturale
Nell’ambito della ricerca paleoantropologica, a partire dagli anni
Settanta, una serie di dati viene a mettere in crisi l’idea di evoluzione
come processo lento, graduale e inesorabile tramite selezione
naturale. Le nuove formulazioni post-darwiniste oppongono al
gradualismo darwinista una visione sistemica che rende conto, in
maniera articolata, della struttura complessa della realtà (in cui geni,
individui,
popolazioni,
specie,
ambiente
interagiscono
continuamente) e del pluralismo evolutivo dei tempi dell’evoluzione,
dei fattori che la determinano e delle unità che ne sono coinvolte
(Eldredge, 1995).
Per quanto riguarda i “tempi” dell’evoluzione le tracce che si sono
andate raccogliendo sulla storia delle forme ominidi testimoniano che
non vi è stata una successione lineare di trasformazioni genetiche
all’interno di un unico ceppo originario (dalle quali è stato possibile
far “decollare” lo sviluppo culturale) ma che, al contrario, l’evoluzione
ha
proceduto
in
modo
«ramificato»
per
«speciazione».
Il
meccanismo della speciazione offre un’immagine dell’evoluzione
biologica simile a quella di un «cespuglio» per cui, da un ceppo
originario può venire a distaccarsi, in maniera improvvisa e
imprevedibile, una linea evolutiva originale, la cui direzione evolutiva
è anch’essa assolutamente imprevedibile. Quando si verifica la
«gemmazione» di una nuova specie, la popolazione che è rimasta
isolata dal ceppo originario (e che inizia a riprodursi all’interno di una
nicchia ambientale specifica) si lega al proprio ambiente in un
40
sistema co-evolutivo complesso, i cui esiti appaiono imprevedibili e
resi ulteriormente complessi dalle interrelazioni che si instaurano tra
sistemi co-evolutivi diversi (Ehrlich, 2000). Nessuna specie presenta
al proprio interno forme di trasformazione graduale: esse al contrario
godono di una stabilità interna che si mantiene inalterata fino
all’intervento, anch’esso improvviso, di estinzioni o di nuove
ramificazioni (Gould, 1982).
All’interno di questo complesso contesto filogenetico, le ricerche
paleoantropologiche hanno rilevato che la mediazione attraverso
artefatti ha fatto la sua comparsa nella linea degli ominidi milioni di
anni prima dell’avvento dell’Homo sapiens, argomento a sfavore di
una teoria del punto critico e a favore di un processo di profonda
interazione tra filogenesi e storia culturale26. La maggior parte degli
studi fanno risalire la costruzione e l’uso documentato di strumenti
all’Homo habilis (che visse approssimativamente tra i 2,5 e 1,7
milioni di anni fa), il primo tra i nostri antenati ad avere il pollice
completamente opponibile e a presentare tracce fisiche di sviluppo
celebrale asimmetrico27.
26
Per una rassegna degli studi recenti sui processi di antropogenesi cfr. Groppo Locatelli, 1996.
27
«Gli utensili associati a questi fossili di Homo sono un insieme di pietre da cui
erano state staccate delle scaglie percuotendole con altre pietre e con quelle
stesse schegge, che spesso erano state ulteriormente modificate. Si pensa che i
resti delle pietre originali, detti nuclei, fossero usati per lavori grossolani, mentre le
scaglie venissero lavorate per compiere quelli più delicati. I primi utensili di pietra
sono tendenzialmente piccoli (da tre a quattro centimetri e mezzo) e non sono
riconducibili a categorie separate che consentano facilmente ai ricercatori di
stabilirne l’uso. A prima vista questi manufatti sono piuttosto insignificanti, ma si
capisce che sono stati modellati di proposito, perché di norma i processi naturali
non scheggiano le pietre nello stesso modo e spesso sono fatti di un tipo di pietra
che solo dagli esseri umani potrebbe essere stata introdotta nei depositi in cui
sono stati trovati i manufatti. […].
Il fatto che i nostri antenati ominidi fossero in grado di produrre utensili del genere
dimostra che possedevano non solo una buona manualità, ma anche la capacità di
progettare (come gli utensili dovessero essere usati), di fare previsioni essenziali
(perché le pietre, spesso nuclei parzialmente lavorati, venivano tenute da parte in
caso di necessità, come provano i frequenti rinvenimenti lontano dalla roccia
madre) e di valutare le caratteristiche di diversi tipi di materiale. […].
La tecnologia olduvaiana di Homo habilis, però, non fu un fuoco di paglia. Fu la
tecnologia umana della pietra per più di 800 000 anni. Tuttavia, studi recenti
suggeriscono che, più di quanto si pensasse prima, la tecnologia fosse diversa da
41
Sembra che gli ominidi abbiano subito una radiazione adattiva e che
l’albero genealogico della loro storia evolutiva, anziché una successione
in linea retta dall’Australopithecus a noi, sia più che altro un cespuglio
filogenetico. Oggi, la nostra storia fisico-culturale indica più chiaramente
che per lungo tempo i ritmi dell’evoluzione fisica e di quella culturale si
sono trovati appaiati solo in parte: le culture primitive sono rimaste
sorprendentemente statiche durante un periodo di crescita consistente
della dimensione dell’encefalo, benché la sola grandezza non ci dica
tutto quello che dobbiamo sapere sull’evoluzione del cervello (viceversa,
sarebbe un elefante o una balena azzurra a scrivere questo libro).
Comunque, dopo si verificarono mutamenti culturali a una velocità
stupefacente senza che dai crani fossili si potesse desumere alcun
cambiamento significativo nell’aspetto fisico degli esseri umani o nelle
caratteristiche del loro cervello. (Ehrlich, 2000, p 131).
La comparsa dell’Homo sapiens, che aveva un volume celebrale
molto maggiore dei suoi predecessori28, non è accompagnata da
un posto all’altro, a seconda tanto delle condizioni ambientali quanto dell’abilità
degli ominidi che fabbricavano gli utensili. Le nature umane potrebbero essersi
differenziate su base geografica più di due milioni di anni fa, proprio com’è oggi per
le nature degli scimpanzé» (Ehrlich, 2000, pp. 112-113).
28
Il rapporto dedotto dai reperti archeologici tra i cambiamenti tecnologici e la
massa celebrale degli ominidi in evoluzione non è ancora del tutto chiaro. «Da un
lato abbiamo la teoria secondo cui le nuove attività culturali e le tecniche più
avanzate si sarebbero sviluppate gradualmente, insieme all’ampliamento della
massa celebrale, e le apparenti rivoluzioni che riguardano gli strumenti e la
manualità sarebbero solo il risultato della casualità dei campioni o di altre
coincidenze. Tali coincidenze sono a volte definite tecnicamente “artefatti statistici”.
Queste spiegazioni sono simili ad altre (utilizzando la catena statistica di Markov)
riferite a periodi di stasi o punteggiatura nel repertorio fossile della vita (Bergman e
Feldman, 1995). All’estremo opposto, i cambiamenti tecnologici potrebbero essere
associati a una serie di esplosioni demografiche la cui causa è sconosciuta, ma
che potrebbe essere stata il risultato di un rapido incremento delle doti mentali che
hanno a loro volta aumentato la possibilità di sopravvivenza (Polgar, 1972). Il
dubbio è se i cambiamenti tecnologici abbiano favorito l’esplosione demografica
permettendo l’intensificazione della produzione o se piuttosto siano stati provocati
dalla necessità di una produzione più efficiente creata dall’esplosione demografica,
specialmente se si considera la rivoluzione agraria. Una rivoluzione potrebbe
essere avvenuta più o meno all’epoca in cui apparve Homo habilis, un’altra alla
comparsa di Homo ergaster/erectus (che portò al primo “fuori dall’Africa”), un’altra
ancora con l’evoluzione dell’arcaico Homo sapiens nell’uomo moderno (il secondo
“fuori dall’Africa” e il Grande salto della rivoluzione agraria). Le masse celebrali
42
cambiamenti drastici del repertorio archeologico. La tecnologia
acheuleana associata all’Homo erectus persistette nelle prime
popolazioni della nostra specie in Africa e in Europa, fino a circa
250.000 anni; mentre la tecnologia musteriana (Paleolitico Medio)
durò fino a 50.000 anni fa. Quando circa 40.000 anni fa apparve
l’Homo sapiens sapiens la gamma degli artefatti si era invece
considerevolmente estesa, al punto da includere non solo una
grande varietà di strumenti, ma anche figurine di pietra, calendari
lunari e pitture rupestri29.
Oggi l’ipotesi più accreditata considera la cultura come il risultato
dell’azione concomitante di molti fattori, genetici ed extragenetici30:
alla luce dei risultati acquisiti dalla genetica e dallo studio della
cultura, la distinzione natura-cultura sembra aver perso significato e
importanza31; in riferimento a questa integrazione spesso si dice che
la nostra vita concettuale è “incarnata” (embolie). Non esiste una
«natura umana» indipendente dalla cultura: per definizione la “natura
umana” è
culturalmente
situata
(Anolli,
2004).
Si parla di
interdipendenza reciproca tra fattori culturali e genetici per
aumentarono significativamente al primo di questi due passaggi, raggiungendo le
dimensioni attuali solo negli ultimi 200 000 anni circa» (Ehrlich, 2000, p. 471).
29
«Il Grande balzo in avanti fu annunciato dalla comparsa di armi nuove, di utensili
di pietra più elaborati e di punte di pietra raffinate, accompagnati da strumenti e
armi fatti di materiali diversi: punte d’osso, arpioni di corno e aghi d’avorio. Furono
inventati lo spago, il filo e i vestiti cuciti. Fatto ancora più importante, a partire da
40 000 anni fa, fiorì improvvisamente l’arte, che produsse magnifiche pitture
rupestri, statuine e gioielli. Si cominciò ad accompagnare le sepolture con
manufatti per sostenere, difendere e divertire i defunti e a mettere decorazioni sulle
salme» (ibidem, p., 210-211).
30
Per un’esposizione sulle teorie biologiche degli ultimi due secoli cfr. Jablonka Lamb, 2005.
31
Occorre tuttavia precisare che la cultura si fonda su alcune “premesse” come il
bipedismo e la stazione eretta (Leroi-Gourhan, 1965); l’aumento del quoziente di
encefalizzazione in seguito alla conquista della stazione eretta; la neotenia, come
condizione di non completa maturità biologica del neonato al momento del parto,
che implica il prolungamento dello stadio infantile; la capacità di produrre una
gamma estesa di suoni vocalici grazie all’evoluzione dell’apparato vocale. Per
un’analisi delle premesse “remote” e “recenti” della cultura cfr. Anolli, 2006a, cap.
II.
43
sottolineare il processo “co-costruttivo” piuttosto che “interattivo” fra
gene e cultura (Lewontin, 2000).
Con il netto trionfo dell’Homo sapiens e la fine delle glaciazioni, il
legame tra mutamento organico e culturale venne, se non spezzato,
almeno notevolmente indebolito. Da allora l’evoluzione organica della
linea umana è molto rallentata, mentre la crescita della cultura ha
continuato a procedere con sempre crescente rapidità. È perciò inutile
postulare un modello di evoluzione umana discontinuo, tale da
comportare una “diversità di genere” o un ruolo non selettivo della
cultura durante tutte le fasi dello sviluppo degli ominidi per mantenere la
generalizzazione stabilita empiricamente che “per quanto riguarda la
loro capacità [innata] di imparare, conservare, trasmettere e trasformare
la cultura, i diversi gruppi di Homo sapiens si devono considerare
egualmente competenti”. L’unità psichica forse non è più una tautologia,
ma è ancora un fatto. (Geertz, 1973, p. 89).
Forse ancor prima, ma sicuramente con l’avvento dell’Homo sapiens,
un nuovo principio di sviluppo o evoluzione culturale, quello che
Michael Tomasello definisce effetto dente d’arresto, inizia ad
interagire con i principi evolutivi che governano altre specie32.
L’enigma fondamentale è questo. I sei milioni di anni che separano gli
esseri umani dalle altre grandi scimmie antropomorfe sono, in termini
evolutivi, un tempo molto breve, tanto che gli uomini e gli scimpanzé
moderni condividono qualcosa come il 99% del patrimonio genetico – lo
stesso grado di parentela che corre tra altri generi prossimi come leoni e
tigri, cavalli e zebre, ratti e topi (King e Wilson 1975). Vi è dunque un
problema di tempo. In effetti, non c’è stato abbastanza tempo perché la
normale evoluzione biologica basata sulla variazione genetica e sulla
selezione naturale creasse, l’una dopo l’altra, le abilità cognitive
necessarie agli esseri umani per inventare e mantenere tecnologie e
32
Per la ricognizione di ipotesi interpretative alternative per quanto riguarda il
Grande balzo si rimanda a Ehrlich, 2000.
44
tradizioni
d’uso
degli
strumenti,
forme
di
comunicazione
e
rappresentazione simbolica, organizzazioni e istituzioni sociali in tutta la
loro complessità. E l’enigma non fa che infittirsi se teniamo conto delle
attuali ricerche paleoantropologiche secondo le quali a) fino a due
milioni di anni fa la linea evolutiva umana non ha dato mostra di
alcunché di diverso dalle tipiche abilità cognitive delle grandi scimmie, e
b) i primi vistosi segni di abilità cognitive specie-specifiche sono emersi
solo negli ultimi 250.000 anni con il moderno Homo sapiens (Foley e
Lahr 1997; Klein 1989; Stringer e McKie 1996). (Tomasello, 1999, p.21).
Secondo Tomasello
a questo enigma non vi è che una soluzione possibile. Vi è, intendo dire,
un solo meccanismo biologico noto che possa produrre in così breve
tempo cambiamenti comportamentali e cognitivi come questi – che si
parli di sei milioni, due milioni o un quarto di milione di anni fa. Questo
meccanismo biologico è la trasmissione sociale o culturale, che opera
su scale temporali inferiori, e per molti ordini di grandezza, rispetto
all’evoluzione organica. In generale, la trasmissione culturale è un
processo evolutivo relativamente comune che permette agli individui di
risparmiare tempo e fatica, per tacere dei rischi, sfruttando le
conoscenze e le abilità già acquisite dai conspecifici. (Ibidem, pp. 2122).
Anche se esistono esempi di trasmissione culturale in altre specie
animali (negli uccelli che apprendono dai genitori i canti della loro
specie, nei ratti che mangiano solo ciò che mangia la propria
madre….) i meccanismi comportamentali e cognitivi che sostengono
la trasmissione culturale nell’uomo e nelle altre specie animali sono,
secondo questo autore, estremamente differenti: attivazione di
schemi comportamentali fissi nella prole per quanto riguarda gli
animali, apprendimento imitativo e per istruzione per quanto
concerne l’uomo.
45
Tomasello sottolinea inoltre che nelle tradizioni e negli artefatti della
cultura umana si accumulano cambiamenti in modalità sconosciute
alle altre specie («effetto dente d’arresto»):33 ogni generazione può
contare sulle “scoperte” della generazione o delle generazioni che
l’hanno preceduta e introdurre, se ne ravvisa la necessità, modifiche
a comportamenti o artefatti che a loro volta andranno ad accumularsi
per le generazioni successive34.
Di conseguenza, mentre il cambiamento genetico è principalmente
darwiniano (ovvero si verifica attraverso la selezione naturale, che
agisce sulla variazione non guidata), l’evoluzione culturale è lamarkiana,
nel senso che le scoperte utili di una generazione vengono trasmesse
direttamente a quella successiva (Gould, 1987). (Cole, 1996, p. 174).
Il concetto di accumulazione culturale presuppone, secondo
Tomasello, una trasmissione sociale “fedele” da una generazione
33
«Può forse sorprendere che per molte specie animali la difficoltà maggiore non
stia nella componente creativa, ma piuttosto nell’azione stabilizzatrice dell’”effetto
dente d’arresto”. Per esempio, tra i primati non umani molti individui producono
regolarmente intelligenti innovazioni e invenzioni comportamentali, ma poi i loro
compagni non mettono in atto quelle forme di apprendimento sociale che, nel
tempo, permetterebbero all’”effetto dente d’arresto” culturale di agire (Kummer e
Goodall 1985)» (Tomasello, 1999, p. 23).
34
«Vi sono tradizioni culturali che con l’accumularsi delle modificazioni apportate
nel tempo da individui differenti diventano più complesse e riescono a fare fronte
ad una più ampia varietà di funzioni adattive – ciò che va sotto il nome di
evoluzione culturale cumulativa o “effetto dente d’arresto”. Per esempio, gli oggetti
che l’uomo ha usato come martelli sono andati incontro a una significativa
evoluzione nella storia umana. Ne danno prova, tra gli artefatti di cui abbiamo
testimonianza, i vari strumenti più o meno simili a martelli che gradualmente hanno
ampliato la loro sfera funzionale via via che venivano modificati e rimodificati alla
luce di nuove esigenze – all’inizio semplici pietre, poi attrezzi compositi costituiti da
una pietra legata ad un bastone, quindi i vari tipi di martelli di metallo e infine i
martelli meccanici (alcuni con funzione di estrazione di chiodi, vedi Basalla 1988).
Anche se non vi sono testimonianze altrettanto dettagliate, è verosimile che nel
tempo alcune convenzioni e alcuni rituali (per esempio, le lingue e i rituali religiosi
umani) siano divenuti anch’essi più complessi a mano a mano che venivano
modificati per soddisfare nuovi bisogni comunicativi e sociali. Questo processo può
essere più caratteristico di alcune culture umane rispetto ad altre, o di certi tipi di
attività rispetto ad altri, ma in tutte le culture si possono trovare almeno alcuni
artefatti prodotti dall’”effetto dente d’arresto”. Il comportamento di altre specie
animali, scimpanzé compresi, non mostra traccia di processi di evoluzione
culturale cumulativa» (ibidem, p. 58).
46
all’altra, tale da impedire “slittamenti” all’indietro. Essa è garantita da
una particolare forma di cognizione sociale, ossia la capacità
peculiare dell’uomo di comprendere i conspecifici come esseri simili
a loro stessi: nella filogenesi l’uomo avrebbe sviluppato una nuova
forma di cognizione sociale, la quale avrebbe reso possibili nuove
forme di apprendimento culturale responsabili di nuovi processi
sociogenetici e di evoluzione culturale cumulativa.
L’evoluzione culturale cumulativa può dunque spiegare molte delle
conquiste
cognitive
più
impressionanti
dell’uomo.
Tuttavia,
per
apprezzare fino in fondo il ruolo dei processi storico-culturali nella
costituzione dell’odierna cognizione umana, occorre guardare a ciò che
accade nell’ontogenesi umana. La cosa più notevole è che l’evoluzione
culturale cumulativa assicura che l’ontogenesi abbia luogo in un
ambiente di artefatti e di pratiche sociali in continuo rinnovamento, che,
in ogni momento, rappresentano qualcosa che rimanda all’intero sapere
collettivo dell’intero gruppo sociale nella sua intera storia culturale. I
bambini entrano a far parte pienamente di questa collettività cognitiva fin
da quando, pressappoco a nove mesi d’età, abbozzano i primi tentativi
di condividere stati attentivi con (e di apprendere imitativamente da e
attraverso) i propri conspecifici. L’emergere di queste nuove forme di
attenzione congiunta non rappresenta altro che l’emergere ontogenetico
dell’adattamento sociocognitivo specifico della nostra specie attraverso il
quale ci identifichiamo con gli altri e li comprendiamo come agenti
intenzionali al pari del Sé. (Tomasello, 1999, pp. 25-26).
Quest’ultima affermazione di Tomasello può essere messa in dialogo
con un’altra supposizione problematica della prima psicologia
storico-culturale riguardante l’esistenza di una gerarchia genetica
all’interno di ciascun dominio di sviluppo e tra un dominio e l’altro.
(Vygotskij – Lurija, 1930). Scrive in proposito Michael Cole:
sono
incerto
su
quale
significato
attribuire
all’asserzione
che
l’ontogenesi sia ad un “livello superiore” rispetto alla filogenesi o alla
47
storia culturale, se non che le ontogenesi sono sempre costituite dagli
sviluppi più recenti della filogenesi e della storia culturale. (Cole, 1996,
p. 145).
Qualunque ricostruzione storica dei processi di cambiamento che si
sono prodotti nel corso della filogenesi soffre per la scarsità dei dati
paleoantropologici e per la necessità di ricorrere a deduzioni per
integrare in modo coerente ciò che è noto con ciò che è plausibile.
Occorre aggiungere che ogni ipotesi (a posteriori) sull’antropogenesi
corre il rischio di produrre una falsa teleologia. Ciò rende difficile (se
non impossibile) un consenso generale tra gli studiosi che se ne
occupano.
La verità è che non sappiamo ancora esattamente cosa abbia provocato
il Grande balzo, e potremmo non saperlo mai. Quello che è
incontestabile è che gli esseri umani sono stati un mucchio di creature
alquanto ottuse in lenta evoluzione per milioni di anni prima del balzo che ci ha portati alla condizione di dominatori della Terra e di esploratori
dello spazio nel giro di qualche decina di millenni. (Ehrlich, 2000, p.200).
Secondo Tomasello, nel corso della filogenesi, si è evoluto un nuovo
“meccanismo” cognitivo, la capacità di “leggere la mente dell’altro”35
che ha reso possibili nuove forme di apprendimento culturale e di
35
«I programmi che si sono evoluti più di recente nel cervello umano ci danno la
capacità di risolvere problemi di relazione e di causalità che per altri animali è
difficile o impossibile decifrare. Gli esseri umani, e probabilmente alcuni dei nostri
parenti più stretti, hanno la nozione di causalità incorporata nel sistema nervoso.
Sembra anche che noi esseri umani siamo predisposti a interpretare il
comportamento degli altri secondo la nostra percezione delle loro convinzioni e dei
loro desideri (piuttosto che attribuire le azioni altrui a forze esterne). Sospetto che
fino ad un certo punto si possa riscontrare quella predisposizione anche in altri
primati superiori […]. Ma la differenza di grado della capacità cognitiva fra la specie
Homo sapiens e gli altri primati viventi è così grande che equivale a una differenza
di tipo. Non c’è alcun indizio che gli scimpanzé siano in grado di compiere una
rilevazione e un’analisi del comportamento degli altri loro simili complesse come
quelle che possiamo compiere noi sul modo di agire delle altre persone. Non
sentiremo mai di psicanalisti o di consulenti per il lavoro tra gli scimpanzé»
(Ehrlich, 2000, p. 150).
48
sociogenesi36. Questa ipotesi ci sembra interessante perché
suggerisce l’opportunità di considerare il rapporto tra individuo e
contesto relativamente a due aree distinte di ricerca: lo sviluppo
cognitivo (con particolare attenzione ai processi di apprendimento), e
il nascere ed evolvere delle “teorie della mente”37 nel bambino.
Approccio contestualistico alla cognizione e all’apprendimento da un
lato e ricerche sulle teorie della mente dall’altro, rappresentano
attualmente due dei settori di maggiore interesse all’interno delle
riflessioni sullo sviluppo del bambino.
Tornando agli studi a noi contemporanei per quanto riguarda la
coevoluzione di filogenesi e storia culturale, segnaliamo come le
ricerche
e
gli
approfondimenti
degli
anni
Ottanta
abbiano
ulteriormente contribuito ad allargare la considerazione sistemica dei
processi evolutivi alla pluralità dei fattori dell’evoluzione e ai soggetti
evolutivi coinvolti.
Spesso si presenta l’evoluzione come un fenomeno che accade più o
meno sotto vuoto e ce l’immaginiamo come un susseguirsi di moscerini
36
Scrive a proposito Tomasello «sfortunatamente, nell’odierno clima intellettuale la
mia posizione potrà apparire a qualche studioso come di tipo essenzialmente
genetico: l’adattamento sociocognitivo che caratterizza l’uomo moderno sarebbe
una sorta di formula magica che differenzia la nostra specie dagli altri primati. Ma
questa è un’idea sbagliata che ignora in sostanza tutto il lavoro che deve essere
fatto dagli individui e dai gruppi di individui, in tempi storici e ontogenetici, per
creare le abilità e i prodotti cognitivi peculiari della specie umana. Dal punto di vista
storico, un quarto di milioni di anni è un tempo assai lungo durante il quale molto
può avvenire nell’universo culturale, e chiunque abbia avuto a che fare con dei
bambini sa quante esperienze di apprendimento possono aver luogo nel corso di
qualche anno – o addirittura qualche giorno o qualche ora – di interazione continua
e attiva con l’ambiente.
Qualunque seria indagine sulla cognizione umana, perciò, deve tener conto di
questi processi storici e ontogenetici, che sono resi possibili, ma niente affatto
determinati, dall’adattamento biologico che è alla base del tipo di cognizione
sociale che è peculiare dell’uomo» (Tomasello, 1999, pp. 28-29).
37
«In generale essa può essere definita come la capacità di “leggere” la mente
degli altri (mindreading), attribuendo loro stati e processi mentali che possono
essere diversi dai propri. Nello specifico la Teoria della mente, che compare nel
corso dell’infanzia, è la capacità di interpretare, spiegare e prevedere le azioni dei
consimili, attribuendo loro stati e processi mentali quali desideri, modelli
interpretativi, credenze e intenzioni. Questa teoria implica quindi la capacità di
rappresentare a se stessi le rappresentazioni mentali altrui (metarappresentazioni
o rappresentazioni di secondo livello)» (Anolli, 2006a, p. 47).
49
sempre più bramosi di sorseggiare DDT per cena, o magari come una
sequenza di figure solitarie che attraversano la pagina: scimmia/uomoscimmia/uomo di Neanderthal caracollante/essere umano in posizione
perfettamente eretta. In una rappresentazione di questo tipo è facile
soffermare l’attenzione sulle righe del testo e perdere di vista un fatto
fondamentale del nostro passato e del nostro presente: senza
l’esistenza di molti altri tipi di organismi e degli ambienti che hanno
contribuito a creare, non ci sarebbero né moscerini della frutta, né esseri
umani. Le nostre nature umane dipendono completamente dalle “nature”
di altre specie. Co-evolviamo contemporaneamente con molte di esse,
influenzando gli uni il percorso evolutivo degli altri. Quelle sequenze
mentali ci portano anche a pensare alle nostre e alle loro nature come al
prodotto di un cambiamento strettamente genetico e a perdere di vista il
ruolo cruciale dell’ambiente e (specialmente nella storia dell’uomo)
dell’evoluzione culturale.
Pur con la nostra intelligenza, noi esseri umani per la nostra
sopravvivenza abbiamo ancora bisogno di una varietà di altre forme di
vita di una certa parte dei 10 milioni di specie o più con cui dividiamo la
Terra. Oggi la nostra dipendenza da queste comunità di esseri viventi è
in qualche modo diversa da quella dei nostri antenati cacciatoriraccoglitori o da quella degli antichi primati che acchiappavano gli insetti
nei cespugli nel Paleocene, 60 milioni di anni fa. Ma non è meno
completa. Come tutti gli altri organismi, dobbiamo scambiare con
l’ambiente materiali ed energia e quindi siamo noi stessi elementi degli
ecosistemi – cioè delle comunità di specie e degli ambienti fisici con cui
queste interagiscono. (Ehrlich, 2000, pp. 57-58).
I fattori che determinano l’evoluzione lungo la scala filogenetica
vengono ora considerati plurali: non solo l’evoluzione procede per
«salti»
(e
non
attraverso
impercettibili
cambiamenti
genetici
all’interno di una specie), ma accade anche che tali salti evolutivi,
piuttosto che essere finalizzati a un’ottimizzazione adattiva, siano in
gran parte legati a fenomeni non interpretabili in termini di
50
«adattamento»
(adaptation)
ma
piuttosto
di
«exattamento»
(exaptation).
Una
caratteristica
sorprendente
della
modificazione
adattiva
nell’evoluzione organica è che le nuove strutture non compaiono dal
nulla, come se fossero disegnate apposta de novo per un obiettivo. La
selezione naturale può solo funzionare su uno stock di materiali già a
disposizione. Questo significa che, cambiando le condizioni ambientali,
le strutture che sono venute adattandosi a un certo tipo di funzione
vengono cooptate per funzioni completamente diverse, per le quali
tornano buone. Queste nuove funzioni condizionano perciò anche il
processo successivo di adattamento. I paleontologi Stephen Jay Gould
e Elizabeth Vrba hanno coniato il termine exattamento (exaptation) per
riferirsi a questo processo di cooptazione di strutture per svolgere un
compito diverso da quello per cui si erano originariamente adattate
(Gould, Vrba, 1982). In generale, possiamo affermare che tutti i tipi di
adattamento si fondano sull’exattamento. (Ingold, 2001, p. 167).
Gould e Vrba (1982) hanno individuato la chiave di volta dei
cambiamenti evolutivi nell’intrinseca «ridondanza multifunzionale»
degli organismi viventi e, in particolare, della specie umana38.
Accanto a “tempi” e “fattori” evolutivi, un ulteriore approfondimento si
sta dispiegando nei confronti delle “unità” componenti l’evoluzione.
Il darwinismo, nella versione datene dopo i successi della genetica,
si era limitato a considerare la selezione al livello della genetica delle
«popolazioni»: al livello della competizione che si svolge nell’ambito
di una singola popolazione di organismi per il successo riproduttivo.
Al contrario, sostiene il paleontologo Niles Eldredge, occorre
considerare che i comportamenti dei sistemi su larga scala (ad
esempio, l’evoluzione della specie) non rispecchiano i processi che
hanno luogo nelle parti che li compongono (ad esempio, le
«popolazioni»); o, come sostenuto da Paul Ehrlich (2000), occorre
38
Cfr. sull’argomento la sintesi introduttiva fornita in M. Ceruti, 1995.
51
considerare i rapporti tra «microevoluzione» e «macroevoluzione». Si
tratta di configurare un’ecologia complessa in cui organismi e
ambienti co-evolvono sulla base della complessa interazione fra
unità gerarchiche diverse: i geni, gli individui, le popolazioni, le
specie, le unità tassonomiche di ordine superiore (Eldredge, 1995).
In tale rinnovata prospettiva, il richiamo a una storia dei diversi e
variabili modi in cui il sistema-uomo e il sistema-ambiente
concorrono alla produzione reciproca di vincoli e possibilità (Ceruti,
1986) all’interno dei quali coevolvere e determinarsi, ha permesso di
affrontare
l’antico
dissidio
fra
corpo-mente,
istinto-ragione,
sentimento-intelletto.
Perché la metafora dell’adattamento funzioni le nicchie ambientali e
ecologiche devono esistere prima degli organismi che li riempiono
(Lewontin 1983). Così nel neodarwinismo l’ambiente è specificato
indipendentemente dagli organismi come un insieme di vincoli,
l’organismo è specificato indipendentemente dall’ambiente come un
insieme di geni, cosicché lo sviluppo non è che l’effetto combinato di
queste cause esterne e interne. Invertendo l’ordine del ragionamento,
noi argomentiamo invece che sia l’organismo che l’ambiente emergono
da un continuo processo di sviluppo. Inoltre, la loro interfaccia non è un
contatto estrinseco tra domini separati e mutuamente esclusivi, poiché
implicata nell’organismo stesso è l’intera storia delle sue relazioni.
(Ingold, 2001, p. 92).
A fronte del persistere di una visione dualistica e gerarchica della
realtà umana e naturale, emerge, da più parti, l’esigenza di avviare
un riesame della «specie-uomo» in una chiave evolutiva che
delegittimi ogni bipolarità oppositiva e scardini la base stessa della
scissione tra natura e cultura. Si tratta, in tal senso, di rilevare come
ciò che costituisce lo «specifico» della specie umana non sia altro
che il prodotto più recente e quantitativamente più avanzato della
storia evolutiva della “natura” in quanto sistema.
52
Che cosa è esattamente questa natura umana di cui si sente tanto
parlare? La nozione dominante è che sia una singola e immutabile
qualità ereditaria: una proprietà comune a tutti i membri della specie.
Questa nozione è implicita nell’uso universale del termine al singolare.
Io credo che il termine singolare ci porti fuori strada. Per dare una
similitudine grezza, “la natura umana” sta a “le nature umane” come “il
vulcano” sta a “i vulcani”. Non si discuterebbe mai delle caratteristiche
“del vulcano”. Anche se tutti i vulcani condividono certe caratteristiche,
usiamo sempre la forma plurale del termine quando ne parliamo in
generale. E questo perché, anche se qualunque vulcano ha più
caratteristiche in comune con gli altri vulcani che non con un dipinto o un
fiocco di neve, riconosciamo automaticamente l’ampia diversità
compresa all’interno della categoria “vulcani”. Come per il “vulcano”, a
volte c’è motivo di parlare di natura umana al singolare in riferimento a
ciò che tutti condividiamo: per esempio, la facoltà di comunicare con il
linguaggio, il possesso di una ricca cultura e la capacità di sviluppare
un’etica complessa. Dopo tutto ci sono aspetti quanto meno quasiuniversali delle nostre nature umane e dei nostri genomi e la diversità tra
loro è piccola in relazione alle differenze tra, diciamo, le nature umane e
quelle degli scimpanzé o fra i genomi umani e quelli degli scimpanzé.
[…].
Contrariamente alla nozione prevalente la natura umana non è la stessa
da una società all’altra o da un individuo all’altro, e non è neppure una
qualità costante di Homo sapiens. Le nature umane sono i
comportamenti, le credenze e gli atteggiamenti di Homo sapiens e
anche le strutture fisiche mutevoli che governano, sostengono e
contribuiscono al particolare funzionamento della nostra mente […]. Non
esiste un’unica natura umana, non più di quanto esista un unico genoma
umano, anche se ci sono caratteristiche comuni a tutte le nature umane
e a tutti i generi umani. […].
La persistenza è spesso vista come una caratteristica umana
fondamentale: dopotutto “non si può cambiare la natura umana”, ma,
naturalmente, si può – e lo facciamo continuamente. Le nature degli
americani di oggi sono molto diverse rispetto al 1940. Di fatto, le nature
53
umane di oggi, in ogni luogo, sono prodotti diversi del cambiamento, di
lunghi processi di evoluzione genetica e, soprattutto, culturale. Un
milione di anni fa, come hanno dimostrato i paleontologi, gli archeologi e
altri scienziati, la natura umana era una qualità radicalmente diversa,
presumibilmente più uniforme. Allora il cervello umano era meno pronto,
la lingua non aveva completamente sviluppato una sintassi, la società
non era formalmente stratificata in classi e gli esseri umani non avevano
ancora imparato ad attaccare pietre lavorate ad aste di legno per
costruire martelli e frecce.
Fra un milione di anni le nature umane saranno, di nuovo,
inconcepibilmente differenti da quelle di oggi. I processi che hanno
cambiato i primi esseri umani in quelli moderni continueranno fintanto
che ci saranno esseri umani. (Ehrlich, 2000, pp. 16-18)
Le acquisizioni evoluzionistiche determinano la convinzione che non
esiste «una natura umana» data e immutabile così come non
esistono barriere tra i sistemi viventi in base alle quali costruire rigide
gerarchizzazioni. Al contrario di quello che la classica visione
gerarchica e teleologica della natura suggerisce, il mondo vivente
appare caratterizzato da una radicale continuità tra le specie viventi,
continuità che si attualizza concretamente in un’estrema varietà di
percorsi co-evolutivi: le differenze tra uomo e natura, tra la specie
umana e le altre specie vengono interpretate come un originale
contributo di ciascuna specie al complessivo equilibrio dell’intero
ecosistema.
Dobbiamo sostituire la concezione dominante del processo evolutivo in
termini statistici con una concezione topologica. Secondo questa,
l’evoluzione deve essere ridefinita come una modulazione nel tempo di
un sistema totale di relazioni. Il ruolo di fattori endogeni ed esogeni, dei
prodotti dei geni e degli stimoli ambientali indipendenti, è perciò quello di
“selezionare”, tra le variabili possibili modulazioni del campo di relazioni,
quelle
forme
che
vediamo
emergere
effettivamente.
Per
fare
un’analogia, tutte le sezioni coniche, dall’ellisse all’iperbole, possono
54
essere generate da un’equazione di base cambiando i valori di un
parametro. Ma non sono questi di per sé ad indicare la forma della
curva, poiché questa è descritta dall’intera equazione. (Ingold, 2001,
pp.93-94).
Ogni caratteristica di ogni organismo è il prodotto di un’interazione
tra corredo genetico e ambiente.
La dicotomia naturale-acquisito (nature-narture), che da decenni domina
le discussioni sul comportamento, è ampliamente falsa: tutte le
caratteristiche di tutti gli organismi sono realmente il risultato
dell’influenza simultanea di entrambe. In molti casi i geni non dettano il
destino (fanno eccezione quei difetti genetici cui al momento non si può
rimediare), ma spesso definiscono una gamma di possibilità di un dato
ambiente […]. I tentativi di distinguere naturale e acquisito quasi sempre
finiscono per fallire. Anche se ho scritto di come l’espressione dei geni
dipende dall’ambiente in cui vengono espressi, un altro modo di
guardare lo sviluppo della natura avrebbe potuto essere quello di
esaminare il contributo di tre fattori: geni, ambiente, interazione geniambiente. Tuttavia è difficile distinguere i diversi contributi. Non si può
fare neppure in ambito sperimentale, dove è possibile dire a livello
matematico qualcosa sui contributi comparati di ereditarietà e ambiente,
perché c’è un “termine di interazione”. Questo termine non si può
scomporre fra naturale e acquisito dal momento che l’effetto di ciascuno
dipende dal contributo dell’altro. (Ehrlich, 2000, pp. 14-15).
Tutto questo ha portato a considerare la cultura come un fatto
dichiaratamente biologico, legato e conseguente all’apprendimento
inteso come «strategia di sopravvivenza biologica» (Laporta, 1993,
p. 193).
Gli esseri umani allora non nascono identici biologicamente o
psicologicamente, per poi differenziarsi a seconda delle culture. Ci deve
essere qualcosa di sbagliato in una teoria che si fonda sulla tesi
55
manifestamente ridicola che “i bambini sono tutti uguali dappertutto”
(Toby, Cosmides, 1992, p. 3). Perfino i genitori di gemelli monozigoti
sanno che questo è falso! La fonte della difficoltà sta nella nozione di
cultura come ingrediente in più, che deve essere aggiunto per
completare l’essere umano. Al contrario, tutte quelle abilità specifiche
che sono state classicamente attribuite alla cultura sono in realtà
incorporate nel processo di sviluppo come proprietà degli organismi
umani. In questo senso sono pienamente biologiche. La cultura, perciò,
non è super-organica o sovra-biologica. Non è qualcosa di aggiunto agli
organismi ma una misura della differenza tra di loro. E queste differenze
deriva dai modi in cui sono posizionati l’uno rispetto all’altro, e rispetto
agli elementi non umani dell’ambiente, in vasti campi di relazioni.
(Ingold, 2001, p. 77).
Allargando lo sguardo ai “sistemi viventi” occorre sottolineare che,
ogni essere vivente, in quanto «sistema aperto», sopravvive non solo
perché alimentato da materia ed energia, ma anche perché
contemporaneamente nutrito da informazioni e conoscenze, nel
senso che la sua “natura” gli impone forme particolari e specifiche di
“comprensione” della realtà e di “riconoscimento” di quello che è più
utile alla propria sopravvivenza. Si tratta dell’attivazione, da parte di
tutti gli organismi viventi, di fondamentali e specifiche forme di
apprendimento come strategie di conoscenza, riconoscimento e
scelta delle condizioni della sopravvivenza, motivate dal bisogno di
conservare la vita39.
La ricaduta epistemologica principale, anche per le scienze sociali, di
questo modello di sistemi viventi, è che quello che siamo abituati a
39
Il passaggio da un approccio scientifico meccanicistico e gerarchico a un
approccio probabilistico e “reticolare” promuove e si accompagna alla formulazione
del paradigma della complessità; un pensiero ecologico capace di scoprire gli
elementi di appartenenza ad una comune “rete vitale” (Capra, 1996) e, quindi,
capace di rispondere al suggestivo interrogativo di Gregory Bateson: «quale
struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e
quattro con me? E me con voi?» (Bateson, 1979, p. 21). Cfr. anche id. 1972;
Bateson - Bateson, 1987.
56
considerare “il mondo là fuori” è in realtà la nostra esperienza
accoppiata a un mondo. Contro l’idea di farsi un modello del mondo, si
fa così valere il concetto biologico e sistemico di accoppiamento
strutturale: apprendiamo quando aggiustiamo il nostro accoppiamento
strutturale (couplage) col mondo. Non è possibile trarci fuori da questo
intreccio conoscitivo, e uscire dal cerchio, poiché il “bagaglio di
regolarità proprie dell’accoppiamento di un gruppo sociale costituisce la
sua tradizione biologica e culturale” (Maturana, Varela 1984, p.194).
Vivere è di per se stesso conoscere, poiché per esistere occorre
conservare l’accoppiamento strutturale come essere vivente con un
ambiente. Ogni tipo di sapere in questo senso è un’azione. La
cognizione a sua volta consiste nella capacità dei sistemi viventi di far
emergere (secondo il lessico biologico dell’autopoiesi), di porre innanzi
(secondo il lessico filosofico dell’ermeneutica), di co-costruire (secondo il
lessico epistemologico costruttivista) significato e ordine. (Grasseni –
Ronzon, 2004, pp. 23-24).
1.1.2
Primati e uomini
Riprendiamo ora la “teoria del punto critico” per quanto riguarda “il
salto qualitativo” di specie tra uomo e primate sull’uso di strumenti, in
parte già chiarito dal paragrafo precedente.
Nell’introduzione a Studi sulla storia del comportamento abbiamo
visto come Vygotskij e Lurija (1930) si propongano di attuare
un’analisi comparata «delle principali caratteristiche distintive» dei tre
processi di sviluppo dell’animale superiore (l’antropoide), dell’uomo
«primitivo» e del bambino, per dimostrare che «ciascun processo di
sviluppo prepara dialetticamente il successivo e si trasforma in un
nuovo tipo di sviluppo».
Lo sviluppo storico, quello propriamente umano, è l’ultimo stadio, il
quarto, dello sviluppo del comportamento; esso non presenta delle
modifiche morfologiche di organi naturali nei confronti dei precedenti,
ma comporta quelle modificazioni del comportamento strumentale
57
così profonde da far affermare a Vygotskij (1930-31) che: «il
comportamento
umano
si
differenzia
da
quello
animale
qualitativamente» in quanto il tipo stesso dell’adattamento umano
alle condizioni di vita è diverso. A differenza di Darwin, gli psicologi
storico-culturali hanno sostenuto con forza una discontinuità di
principio tra l’uomo e le altre specie. Nella scala dello sviluppo del
comportamento che separa le forme di vita più semplici dall’uomo,
vengono individuati tre stadi.
Il primo stadio è costituito in tutti gli animali, uomo compreso, dalle
reazioni ereditarie che adempiono la funzione biologica della
conservazione e della continuazione della specie (gli istinti). Tutto il
comportamento di insetti e invertebrati si esaurisce con simili reazioni
istintive.
Su
questo
stadio
se
ne
struttura
un
secondo,
quello
dell’addestramento o dei riflessi condizionati, che si differenzia dal
precedente per il fatto che le reazioni non sono ereditarie ma
sorgono dall’esperienza diretta dell’organismo.
In sostanza l’addestramento non crea nuove reazioni negli animali, ma
combina solo le reazioni innate, come anche crea i nuovi nessi
condizionati tra le reazioni innate e gli stimoli dell’ambiente circostante.
In questo modo il nuovo stadio dello sviluppo del comportamento sorge
immediatamente sulla base del precedente […]. Se gli istinti sono mezzi
di adattamento a condizioni ambientali che sono più o meno costanti,
consolidate, stabili, i riflessi condizionati rappresentano un meccanismo
assai più elastico, sottile e perfezionato di adattamento all’ambiente, la
cui essenza consiste nel fatto che le reazioni istintive ereditarie si
adattano alle condizioni individuali e personali di un dato animale.
(Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 10-11).
58
Il pieno sviluppo di questo stadio di comportamento si trova negli
animali vertebrati40.
Su questo secondo stadio nello sviluppo del comportamento se ne
«edifica» un terzo, l’ultimo per il regno animale41. Esso caratterizza il
comportamento delle scimmie antropoidi (scimpanzé, bonobo,
gorilla, gibbone, orangutan) che inventano e utilizzano strumenti per
raggiungere i propri scopi. Riprendendo le osservazioni di Wolfgang
Köhler42 sulla psicologia delle scimmie, gli autori concludono che
40
«Nonostante tutti i successi dell’addestramento negli animali inferiori, l’istinto
rimane in essi la forma di comportamento dominante e prevalente. Negli animali
superiori, al contrario, si manifesta uno spostamento verso la prevalenza dei
riflessi condizionati nel sistema generale di reazioni. In questi animali, per la prima
volta, si manifesta la plasticità delle capacità innate, si manifesta l’infanzia nel
senso proprio di questa parola e il gioco infantile collegato ad essa» (Vygotskij –
Lurija, 1930, p. 11).
41
«La documentazione fossile, enormemente aumentata soprattutto nell’ultimo
mezzo secolo, mostra una serie notevole di creature con caratteristiche variamente
intermedie tra quelle degli esseri umani e quelle delle altre grandi scimmie
antropomorfe. Molti trovano affascinante questa continuità […].
Oltre a quella dimostrata dai crani, è stata dimostrata una continuità analoga nei
confronti particolareggiati delle nostre strutture fisiche, dei nostri geni, con quelli
delle scimmie attuali e degli altri primati […].
Per trovare il progenitore comune che condividiamo con le scimmie del Vecchio
Mondo, dobbiamo soltanto risalire il nostro albero genealogico di quasi 30 milioni di
anni (più o meno a metà fra noi e la fine dell’era dei dinosauri). Se prendiamo in
considerazione lo scimpanzé piuttosto che le altre scimmie, la distanza dal
progenitore comune è soltanto di circa un sesto. […]. In anni recenti, attraverso
l’uso delle moderne tecniche della biologia molecolare, i ricercatori hanno scoperto
che nella diramazione dell’albero evolutivo, noi siamo posizionati proprio in mezzo
alle grandi scimmie. È stato solo 5 milioni di anni fa che i nostri progenitori si sono
staccati dalla linea evolutiva che portava allo scimpanzé e al bonobo, mentre i
progenitori dei gorilla hanno lasciato la linea scimpanzé-uomo circa sette milioni di
anni fa. Genealogicamente, noi siamo vicini allo scimpanzé e al bonobo più di
quanto questi ultimi siano vicini al gorilla» (Ehrlich, 2000, p. 86).
42
W. Köhler (1887-1967) fu uno dei massimi esponenti della psicologia della
Gestalt; teoria piuttosto attiva in Europa nel periodo tra le due guerre mondiali in
cui è centrale il concetto di fenomeni psichici (percezione, apprendimento ecc…)
intesi come totalità organizzate e strutturate da principi autonomi.
Nel presente testo si fa riferimento agli studi compiuti da Köhler (1917) sul
comportamento dei primati posti in situazioni problematiche come, ad esempio,
riuscire a raggiungere del cibo collocato oltre le sbarre della gabbia, fuori dalla
portata diretta delle loro “mani”. La soluzione trovata dall’animale consiste nel
ricorrere a qualche elemento della situazione, per esempio, a un bastone,
usandolo come strumento per avvicinare a sé il cibo, cioè come mezzo per
raggiungere lo scopo. Si tratta di un comportamento che compare
improvvisamente, non a seguito di una catena per prove ed errori. Köhler ritenne
questo tipo di comportamento il risultato di un processo di ristrutturazione del
campo cognitivo compiuto dall’animale: il bastone fa parte degli elementi presenti
59
l’invenzione
e
l’uso
di
strumenti
sia,
per
lo
sviluppo
del
comportamento dell’uomo, il fattore più importante e più originale. Lo
studio delle scimmie ha un importante valore euristico «non solo per
spiegare lo sviluppo del comportamento verso l’alto, dalla scimmia
all’uomo, ma anche per una giusta spiegazione del comportamento
verso il basso dall’istinto all’intelletto attraverso i riflessi condizionati»
(ibidem, p. 14).
La linea di demarcazione tra il comportamento della scimmia e
dell’uomo è vista da una parte nell’assenza di linguaggio e dall’altra
nel ruolo che ha l’uso degli strumenti per la scimmia:
in
generale
questo
tipo
di
comportamento
non
è
la
base
dell’adattamento della scimmia […]. Nella storia dello sviluppo della
scimmia ancora non è avvenuto quel salto che consiste nel processo di
trasformazione della scimmia nell’uomo e che consiste nel fatto che gli
strumenti di lavoro diventano la base dell’adattamento alla natura. Nel
processo di sviluppo della scimmia questo salto è già stato preparato,
ma non è stato ancora compiuto. (Ibidem, pp. 54-55).
L’attività più complessa che l’animale svolge adoperando gli
strumenti non viene modificata dall’uso stesso dello strumento:
nessuna scimmia, anche la più intelligente della stazione di Tenerife,
nella quale Köhler ne osserva il comportamento, riesce a conservare
il bastone con cui è stato raggiunto il cibo che desidera, una volta
che questo è stato preso. Nello sviluppo psicologico umano, afferma
Vygotskij «avviene, con l’introduzione e l’uso degli strumenti, una
frattura analoga a quella che si verifica nella sfera del suo
adattamento biologico» e cita le parole di Bacone che spesso
figurano nel frontespizio dei lavori suoi e di Lurija: «non solo la mano,
nel campo visivo dell’animale anche prima della soluzione del problema; attraverso
la ristrutturazione del campo i diversi elementi della situazione, tra cui il cibo e il
bastone, vengono organizzati in una nuova totalità mutando le relazioni reciproche
e il bastone, da elemento irrilevante in rapporto al cibo, acquista il significato di
oggetto che serve per raggiungerlo.
60
o l’intelletto in sé possono sussistere, tutto si compie mediante gli
strumenti e i mezzi ausiliari» (ibidem, p. 59). Con l’ingresso dell’uomo
nello sviluppo storico ha inizio anche il rapido processo del
perfezionamento degli strumenti di lavoro:
il perfezionamento dei “mezzi di lavoro” e dei “mezzi di comportamento”,
come la lingua e altri sistemi di segni, che sono mezzi ausiliari nel
processo di acquisizione del comportamento, viene messo al primo
posto, sostituendo lo sviluppo della mano nuda e dell’intelletto stesso.
(Ibidem, pp. 59-60).
L’uso di strumenti che si riscontra negli animali superiori pur
costituendo un embrione di attività lavorativa, non assurge mai a
lavoro, il quale presuppone che, attraverso i segni, l’uomo acquisisca
il controllo del proprio comportamento. Questa è appunto la
caratteristica del periodo storico nello sviluppo del comportamento
umano. Con questo ha inizio lo sviluppo culturale, il cui contenuto
essenziale è dato dall’uso dei segni, anche più primitivi, come quelli
già chiaramente presenti presso l’uomo «primitivo».
Abbiamo precedentemente esposto come le teorie evoluzionistiche a
noi contemporanee abbiano in parte scardinato questo modello
lineare di evoluzione, e quanto possa essere problematico porre
barriere tra sistemi viventi in base alle quali costruire rigide
gerarchizzazioni.
Negli ultimi decenni le ricerche sui primati hanno attestato l’esistenza
di uso di strumenti come parte significativa della vita degli scimpanzé
allo stato brado (Goodall, 1986), di insegnamento attivo alla prole
(Boesch, 1993), dell’uso di un certo tipo di linguaggio e della
presenza di cultura (Savage-Rumbaugh et al., 1986) mettendo in
dubbio la teoria della discontinuità comportamentale.
Riprendendo gli stessi temi Tomasello e colleghi (Tomasello, 1990,
1994; Tomasello, Kruger e Ratner, 1993) sono giunti tuttavia alla
conclusione che se si vuole affermare che gli scimpanzé “possiedono
61
una cultura”, essa dovrà essere intesa in senso diverso rispetto alla
cultura che attribuiamo agli esseri umani:
tra i gruppi [di scimpanzé studiati allo stato brado] vi sarebbero
differenze di comportamento superficialmente simili alle differenze
culturali umane, ma svincolate da qualsiasi forma di apprendimento
sociale. In questi casi la “cultura” è una semplice conseguenza di forme
di apprendimento individuale dipendenti dalle diverse ecologie locali
delle diverse popolazioni – e perciò questo processo è detto
modellamento ambientale. (Tomasello, 1999, p.47).
Nondimeno, gli studi odierni sulla composizione genetica di
scimpanzé ed esseri umani hanno concluso che essi si differenziano
solo nell’1% dei genomi, e che anche quella percentuale minima è
distribuita in maniera tale che è difficilmente confrontabile.
Moltissime differenze fenotipiche cruciali dipendono da quel due
percento scarso di differenza. Alcune di quelle differenze fenotipiche,
naturalmente, sono fisiche e quindi impressionanti. Gli esseri umani
sono le uniche scimmie viventi dotate di postura del tutto eretta. In
confronto agli scimpanzé siamo anche praticamente senza peli,
abbiamo incisivi e canini molto più piccoli e il pollice completamente
opponibile. Le femmine umane sono diverse da quelle di scimpanzé, e
pure da quelle di tutti gli altri nostri parenti […].
Il cervello degli uomini e delle donne è approssimativamente tre o
quattro volte più grande di quello degli scimpanzé. Infatti, la maggior
parte della differenza di qualità fra gli esseri umani e le altre scimmie sta
nella capacità del cervello – l’organo responsabile di molti degli aspetti
tipici della parte non fisica della natura umana, di capacità umane che
sono universali o quasi.
L’aspetto universale più ovvio della natura umana è l’uso del linguaggio
[…]. E’ scarsamente provato che i nostri parenti stretti usino la
comunicazione vocale in modo significativo più degli altri mammiferi.
(Ehrlich, 2000, pp. 89-90).
62
Aspetto, quest’ultimo, già evidenziato dallo stesso Vygotskij. Gli
esseri umani utilizzano capacità esclusive in connessione con un
cervello che consente loro comportamenti estremamente flessibili,
basandosi su interpretazioni che vanno spesso oltre la situazione
data. Abbiamo anche visto che siamo l’unica specie ad avere
“empatia cognitiva” ovvero la capacità di formarci una teoria della
mente: strumento indispensabile per la sopravvivenza in un ambiente
altamente socializzato.
I nostri progenitori, più di ogni altro primate, si specializzarono nel vivere
di espedienti, il che produsse un’altra differenza di qualità. Svilupparono
la strategia di fronteggiare sia la preda che il nemico con la
pianificazione, con attrezzi costruiti accuratamente e con una complessa
cultura in evoluzione; per dirla con gli antropologi John Tooby e Irven
DeVore, l’uomo si evolse verso la “nicchia cognitiva” – una nicchia
creata proprio dagli ominidi. Non sappiamo con esattezza come i nostri
antenati siano giunti sulla via della specializzazione, ma è senz’altro
questo che ha reso il nostro cervello molto diverso da quello dei nostri
parenti più prossimi. […].
La differenza di grado nel bagaglio culturale fra noi e gli altri animali è
talmente grande che ha creato molte differenze di qualità. Il motivo è
che grazie al linguaggio e alla capacità di risolvere problemi e
immagazzinare informazioni di cui il cervello umano è dotato, la
conoscenza racchiusa nella cultura umana si può espandere e
condividere in modo semplice e veloce […]. Naturalmente, è
esattamente la capacità umana di immagazzinare e condividere la
cultura che ha portato l’arte, la religione, le lettere e la scienza, che sono
una parte così tipica della natura umana. (Ibidem, pp. 90-91).
Nella critica agli studi sui primati che sottolineano una continuità
comportamentale tra scimmie antropomorfe e uomini Tomasello
sottolinea come molti fenomeni (l’uso di strumenti, la trasmissione
culturale, l’uso e l’invenzione di segnali gestuali a scopi comunicativi)
63
che
apparentemente
possono
sembrare
simili
ai
processi
comportamentali dell’uomo, in verità sono sorretti da processi di
cognizione e apprendimento sociale differenti. La continuità nell’uso
di strumenti da una generazione all’altra, esempio di trasmissione
culturale nelle teorie di Boesch (1993) e McGrew (1992), secondo
Tomasello dipenderebbe interamente dal fatto che gli individui
“riscoprono” le innovazioni apportate dalle generazioni precedenti, in
quanto vivono nella stessa “nicchia ecologica” (e questo è il motivo
per cui tra i primati la cultura non si «accumula», ma si «diffonde»);
al
contrario
gli
esseri
umani
si
dedicano
attivamente
all’insegnamento, e si dimostrano abili nell’imitare il processo
comportamentale di diverse nicchie ecologiche.
Secondo Tomasello vi sono molti tipi differenti di eredità e di
trasmissione culturale che corrispondono ad altrettanti meccanismi di
apprendimento: esposizione, incentivazione dell’attenzione verso
uno stimolo (esperienza di apprendimento individuale), riproduzione
di
un
comportamento
(apprendimento
per
emulazione),
apprendimento imitativo.
Gli scimpanzé si dimostrano molto intelligenti e creativi nell’uso di
strumenti e nel comprendere i cambiamenti provocati nell’ambiente
dall’uso di strumenti da parte di qualcun altro, ma non sembrano
comprendere il comportamento strumentale dei conspecifici allo stesso
modo dell’uomo. Nel caso degli esseri umani, lo scopo o l’intenzione del
dimostratore è parte essenziale di quel che viene percepito, e in effetti lo
scopo appare come qualcosa di distinto dai mezzi comportamentali che
possono essere usati per raggiungerlo. La capacità umana di separare
scopi e mezzi permette di isolare le tecniche o le strategie d’uso degli
strumenti adottate dal dimostratore – il comportamento che egli attua per
raggiungere lo scopo, data la possibilità di raggiungerlo anche in altri
modi. Incapaci di separare nelle azioni degli altri lo scopo dai mezzi
comportamentali, gli scimpanzé si concentrano sui mutamenti di stato
(compresi i mutamenti di posizione spaziale) degli oggetti implicati nella
dimostrazione, dove le azioni del dimostratore sono solo un movimento
64
fisico tra i tanti. Gli stati intenzionali del dimostratore e, di conseguenza, i
suoi metodi in quanto entità comportamentali a sé stanti, non sono parte
della loro esperienza. (Tomasello, 1999, p. 49).
Ciò che distingue i primati dall’uomo non sarebbe una «differenza
quantitativa» nell’uso di strumenti che nel tempo si è trasformata in
una «differenza qualitativa» quanto piuttosto una nuova forma di
cognizione sociale.
Un’importante puntualizzazione di Tomasello merita di essere
sottolineata. Passando in rassegna diversi studi che dimostrano
capacità molto simili tra le scimmie e l’uomo (uso complesso di
strumenti,
insegnamento,
apprendimento
per
imitazione,
comunicazione simbolica, uso del gesto per indicare qualcosa allo
scopo di attirare l’attenzione di qualcun altro), Tomasello nota che si
tratta di scimmie “culturalizzate”, ovvero di scimmie che sono vissute
a stretto contatto con l’uomo e che hanno ricevuto un certo
addestramento. Egli conclude che un ambiente sociocognitivo simile
a quello dell’uomo è indispensabile affinché avvenga lo sviluppo di
abilità sociocognitive simili a quelle umane e di capacità di
apprendimento per imitazione:
il fatto che gli scimpanzé e i bonobo allevati fin dall’inizio e per molti anni
in un ambiente culturale umano possano sviluppare alcuni aspetti della
cognizione sociale e dell’apprendimento culturale dell’uomo dimostra in
modo particolarmente incisivo l’importanza dei processi culturali
nell’ontogenesi, e il fatto che altre specie animali non facciano altrettanto
dimostra le formidabili abilità di apprendimento sociale delle grandi
scimmie antropomorfe. Ma rispondere a una cultura e creare ex novo
una cultura sono due cose differenti 43.
43
Tomasello, 1999, p. 56. Scrive a proposito Bruner analizzando gli studi sulle
prestazioni delle scimmie “culturalizzate”: «tutto questo suggerisce con forza che il
complesso mente/cervello degli umanoidi non si limiti semplicemente a “crescere”
secondo una tabella di marcia geneticamente predestinata, ma che tragga
vantaggio dall’accudimento in un ambiente di tipo umano. Prendendo spunto dal
libro di Gerald Edelman sul “darwinismo neurale”, sembra ragionevole supporre
65
1.1.3
Il
livello
storico-culturale:
eterogeneità
e
gerarchia
Se dunque occorre ricalibrare la teoria storico-culturale per quanto
concerne il “salto” dell’uomo moderno postulando una profonda
coevoluzione tra filogenesi e storia culturale, occorre anche
ridimensionarne la posizione per quanto riguarda l’idea che un solo
fattore possa spiegare tutto ciò che distingue la nostra specie dalle
altre.
A livello storico-culturale occorre inoltre ancorare le differenze
culturali osservate nelle prestazioni cognitive all’interno delle diverse
società, e dunque rivedere quell’uomo «primitivo» dal quale è
possibile ricavare la storia dello sviluppo storico dell’uomo «civile».
I testi che delineano i principi fondamentali della psicologia storicoculturale, pur riconoscendo una sostanziale identità biologica tra
uomo «primitivo» e «civile», avvalorano una concezione che vede
nell’evoluzione degli strumenti di mediazione (artefatti materiali e
simbolici) una corrispondente evoluzione del pensiero e che, di
conseguenza, giustifica lo studio delle popolazioni “tradizionali” allo
scopo di ricostruire lo sviluppo storico del pensiero dell’uomo tout
court.
Lo sviluppo dell’uomo come tipo biologico, è già, in linea di massima,
concluso al momento dell’inizio della storia dell’uomo. Ciò certamente
non significa che la biologia umana si sia fermata nel momento in cui è
iniziato lo sviluppo storico della società. Certamente non è così.
La natura plastica dell’uomo ha continuato a modificarsi. Tuttavia tale
cambiamento biologico della natura umana è già divenuto una
che ammesso che lo scimpanzé possieda un bagaglio neurale di supporto alla sua
“zona di sviluppo potenziale”, questo può semplicemente morire quando non è
attivato dall’opportunità di sviluppare aspettative reciproche affini a quelle culturali»
(Bruner,1996, p. 197).
66
grandezza dipendente e subordinata allo sviluppo storico della società
umana […].
Lo sviluppo umano, che noi troviamo anche nei popoli più primitivi, è
sviluppo sociale. Per questo ci dobbiamo attendere di scoprire qui un
processo di sviluppo molto particolare e profondamente diverso da
quello che abbiamo osservato nell’evoluzione dalla scimmia all’uomo.
Diciamo, in anticipo, che il processo di trasformazione dell’uomo
primitivo in quello civile per la sua stessa natura è differente dal
processo
di
trasformazione
della
scimmia
in
uomo.
Oppure
diversamente: il processo dello sviluppo storico del comportamento
umano ed il processo della sua evoluzione biologica non coincidono;
l’uno non è la continuazione dell’altro, ma ognuno di questi processi è
soggetto alle sue particolari leggi. (Vygotskij – Lurija, 1930, pp. 75-76).
Gli psicologi russi facevano riferimento soprattutto ai dati e alle teorie
di sociologi e antropologi a loro contemporanei, tra i quali Lucien
Lévy-Bruhl (1910) e Richard Thurnwald (1922).
Riprendendo le teorie di Lévy-Bruhl essi affermano che ai diversi tipi
di società corrispondono diversi tipi di psicologia dell’uomo
che si differenziano l’uno dall’altro così come si differenzia la psicologia
degli animali vertebrati e invertebrati.
Certo, come nei diversi animali, così nelle diverse strutture sociali
esistono caratteristiche comuni che sono proprie di ogni tipo di società
umana
–
lingua,
tradizioni,
istituzioni.
Ma,
accanto
a
queste
caratteristiche comuni le società umane, come gli organismi, possono
rappresentare strutture profondamente differenti una dall’altra e quindi le
rispettive differenze nelle funzioni psichiche superiori. Perciò occorre
rinunciare a ridurre dall’inizio le operazioni psicologiche ad un tipo unico,
indipendentemente dalla struttura della società, e a spiegare tutte le
rappresentazioni collettive con un unico meccanismo psicologico e
logico che rimane sempre immutato. (Ibidem, pp. 67-68).
67
Per
completare
la
descrizione
del
tratto
differenziale
comportamento e del pensiero dell’uomo «primitivo»
44
del
Vygotskij
introduce un’analisi sulla specificità delle funzioni psichiche, in
particolare sulla memoria che sotto l’aspetto “naturale” è superiore a
quella dell’uomo civile45. Memoria, pensiero, linguaggio e calcolo
sono le funzioni che egli esamina. In queste analisi non mancano
affermazioni forti che riguardano «la matematica civile», la
successione lungo una scala evolutiva dal «più primitivo» al
«primitivo medio» al «primitivo superiore» a seconda del livello di
complessità degli strumenti di mediazione (del linguaggio in
particolare) utilizzati dalle diverse società (cfr. Vygotskij – Lurija,
1930, pp. 61-128).
Per quanto riguarda il “livello” di pensiero dei popoli «primitivi»,
Vygotskij si trova in disaccordo con Lévy-Bruhl laddove quest’ultimo
44
Come abbiamo precedentemente chiarito, per gli psicologi storico-culturali, la
differenza tra l’uomo «primitivo» e l’uomo «civile» non è in nessun modo ascrivibile
ad una differenza di tipo biologico, ma essa sarebbe dovuta alla «arretratezza
culturale» del primo rispetto al secondo. «L’uomo primitivo, con tutto il suo
bagaglio di personalità, con tutto il suo comportamento, si differenzia
profondamente dall’uomo civile. Per chiarire in che cosa consista questa differenza
che determina in generale il punto di partenza e di arrivo dello sviluppo storico del
comportamento umano, inizieremo dalle differenze visibili che saltano agli occhi».
Successivamente vengono elencate alcune differenze riscontrate da antropologi
ed esploratori quali «l’acutezza della vista, la finezza dell’udito e dell’olfatto, la sua
enorme resistenza, la furbizia istintiva, il senso dell’orientamento, la conoscenza
dell’ambiente circostante, dei boschi, del deserto, del mare» (Vygotskij – Lurija,
1930, pp. 69-70). Tutte queste differenze risultano collegate non a un diverso
sviluppo biologico, ma a una certa “mancanza” di sviluppo culturale che causa una
conseguente arretratezza nel campo delle funzioni psicologiche.
45
«Lo sviluppo storico della memoria inizia nel momento in cui l’uomo passa per la
prima volta dall’uso della propria memoria, come funzione naturale, al dominio di
essa» (Vygotskij – Lurija, 1930, p. 84). Il processo che porta al dominio della
memoria e al dominio di qualsiasi forma naturale di comportamento, implica che
l’uomo acquisisca una conoscenza sufficiente delle leggi di funzionamento della
propria memoria e le utilizzi. Non si tratta di una conoscenza formale, o teorica, ma
della capacità di usare segni artificiali per potenziarla. Gli psicologi russi hanno
fatto ricorso agli scritti di Thurnwald per quanto attiene ai dati sulle variazioni
culturali nell’uso di sistemi di mediazione “decisivi” dal punto di vista storico, come i
sistemi di calcolo e di scrittura. Le fotografie di Thurnwald delle cordicelle annodate
che gli Incas adoperavano come dispositivi mnemonici (quipu) sono uno degli
esempi iconici che Vygotskij e colleghi adoperavano come esempio di
“rievocazione mediata”. Inoltre, la scuola storico-culturale, ha incorporato lo
sviluppo sequenziale dei sistemi di scrittura, da quelli pittografici a quelli
ideografici, nello studio dello sviluppo della scrittura nei bambini.
68
ne assolutizza il “carattere magico” attribuendo ad esso il significato
di “tratto primario” del pensiero, mentre sussiste accordo per quanto
riguarda la convinzione che i «popoli primitivi» non pensino in termini
di concetti, ma di situazioni concrete, ovvero in termini di
«complessi»46.
Il quadro del progresso cognitivo che si accompagna a quello
socioeconomico-culturale è complicato dal fatto che Vygotskij e
colleghi sostenessero l’eterogeneità dei livelli di funzionamento
cognitivo, a seconda del genere di attività a cui le persone
generalmente si dedicano: introducendo forme più complesse di vita
economica e un livello generalmente “più alto” di vita culturale, si
sarebbero ottenuti altrettanti cambiamenti di pensiero.
Così, ad esempio, l’eccellente memoria naturale dell’uomo primitivo nel
processo di sviluppo culturale diminuisce lentamente riducendosi infine
a zero; in questo aveva profondamente ragione Baldwin quando
sosteneva che ogni evoluzione è nella stessa misura involuzione, cioè
che ogni processo di sviluppo racchiude in sé, come sua componente
costitutiva, i processi inversi di involuzione e di estinzione delle vecchie
forme.
Sarebbe sufficiente confrontare la memoria del messaggero africano,
che trasmette parola per parola una lunga missiva del capo di una
qualsiasi tribù africana e che usa esclusivamente la memoria naturale
eidetica, con la memoria “dell’ufficiale dei nodi” peruviano, le cui funzioni
erano la legatura e la lettura dei quipu, per vedere in che direzione va lo
sviluppo della memoria umana con la crescita della cultura e, anzitutto,
da che cosa e come viene guidato.
46
«Il pensiero primitivo, dotato di una sua logica specifica, è un pensiero per
complessi», afferma Vygotskij, introducendo qui il termine che utilizzerà in
Pensiero e linguaggio e che farà corrisponderee alla seconda fase dello sviluppo
dei concetti nel bambino. «Un tale pensiero e una tale logica, come vediamo, si
basano su complessi: i complessi sono costituiti da legami concreti, e questi
legami concreti, certamente, possono esistere in gran numero per lo stesso
oggetto» (Vygotskij – Lurija, 1930, p, 106) e proprio il pensiero per complessi fonda
la logica della partecipazione.
69
“L’ufficiale dei nodi” è, nella scala dello sviluppo culturale della memoria,
ad un livello superiore del messaggero africano, non perché la sua
memoria naturale è superiore, ma perché egli ha imparato ad utilizzare
meglio la sua memoria, a dominarla mediante segni artificiali.
Saliamo ancora di un gradino ed esaminiamo la memoria che
corrisponde allo stadio successivo nello sviluppo della scrittura […].
(Ibidem, p. 90).
Le stesse argomentazioni “evoluzioniste” furono utilizzate per
spiegare i dati etnografici raccolti da Lurija negli anni Trenta in
Uzbekistan47 presso le comunità rurali da poco sottoposte ad un
47
All’epoca in cui gli psicologi storico-culturali scrivevano, l’Unione Sovietica fu
sottoposta ad una massiccia campagna di alfabetizzazione. Nelle repubbliche
sovietiche dell’Asia Centrale, gli psicologi storico-culturali ebbero modo di
osservare un grande esperimento culturale: la combinazione tra la
collettivizzazione e il diffondersi dell’istruzione formale offriva l’opportunità di
studiare, per un breve periodo, l’interazione tra sviluppo culturale e sviluppo
individuale in un’unica comunità.
«Si doveva trovare il modo di dimostrare che i processi psicologici superiori (in
prima linea i processi cognitivi) non sono affatto un semplice rispecchiamento della
logica generale, ma hanno origini storiche e sociali, che anche processi come la
generalizzazione e il pensiero concettuale, la deduzione e l’inferenza logica, non
sono universali ma risalgono a fattori di tipo sociale, in stretto collegamento con le
forme generali delle azioni sociali umane, e che la loro struttura si modifica
nettamente al mutare dei modi di vita sociale.
L’inizio degli anni’30 era un periodo particolarmente adatto per condurre la
necessaria sperimentazione.
Nelle regioni più remote del nostro paese, particolarmente nelle Repubbliche
dell’Asia Centrale, la Rivoluzione era arrivata un po’ in ritardo rispetto alla Russia
europea. Era appena ricominciata l’effettiva ricostruzione sociale, attraverso
modificazioni fondamentali nella vita economica (sostituzione del lavoro agricolo
individuale con le fattorie collettive), mentre si istituiva un’ampia rete di scuole per
gli analfabeti e un gran numero di giovani aveva per la prima volta l’opportunità di
accedere alla cultura moderna o anche solo a forme elementari di scolarizzazione.
Allo stesso tempo, le vecchie tradizioni, che sappiamo quanto siano rigide,
sopravvivevano immutate. Non era forse quello il momento migliore per osservare i
cambiamenti intervenuti nei processi cognitivi e mostrare l’impatto delle modalità di
vita sociale sul loro sviluppo?
L’idea di inviare nelle Repubbliche asiatiche un’apposita spedizione psicologica
nacque verso la fine degli anni’20 e nel 1930-31 si organizzarono due spedizioni in
Asia Centrale (ma si sarebbero potuti scegliere per la ricerca su campo anche certi
remoti villaggi russi). Vygotskij impostò il programma dei lavori e la ricerca ebbe
inizio […].
Si formulò tutta una serie di interrogativi da indagare: la percezione dei colori e
delle Gestalt visive ha la stessa forma, che si suppone universalmente stabile? I
processi di generalizzazione e astrazione sono gli stessi che studiano i logici e gli
70
massiccio programma di alfabetizzazione (ritenuta foriera di una
«trasformazione mentale») e di mutamento economico (politiche di
collettivizzazione che alterarono profondamente le forme dell’attività
economica e l’organizzazione sociale).
Allo scopo di valutare «lo sviluppo mentale» dei soggetti in rapporto
alle attività che svolgevano e al grado di scolarizzazione cui erano
state sottoposte, Lurija utilizzò, tra le altre cose, il test Stanford-Binet.
Questo test, sul quale avremo modo di tornare successivamente, era
basato in generale sulla teoria di Jean Piaget e prevedeva compiti di
classificazione, logica e memoria.
Un esempio di problema logico su cui Lurija testava adulti di diversi
gradi di istruzione era il sillogismo. Egli riportò che alla richiesta di
fare inferenze in base alle premesse del sillogismo, gli intervistati
scolarizzati risolvevano il problema come atteso, mentre non
avveniva altrettanto per quelli non istruiti. Gli stessi risultati si
ottenevano nei compiti di classificazione e di memoria.
Le deduzioni principali che gli psicologi trassero dal loro lavoro nelle
regioni dell’Asia Centrale sono così riassunte da Lurija:
vi sono marcati cambiamenti nella natura dell’attività cognitiva e nella
struttura dei processi mentali strettamente associati all’assimilazione di
nuove sfere dell’esperienza sociale. Le forme più elementari di attività
cognitiva iniziano ad andare al di là della stabilizzazione e della
riproduzione dell’attività pratica individuale, e cessano di essere
puramente concrete e situazionali. L’attività cognitiva umana diviene
parte di un più ampio sistema dell’esperienza umana generale, che
intanto si è stabilizzata nel processo della storia sociale, codificato nel
linguaggio. (Cit. in, Cole, 1996, p. 152).
psicologi di vari paesi, secondo modalità specifiche alle rispettive culture? In che
modo ragionano e deducono soggetti analfabeti provenienti da ambienti sociali
diversi? Come procedono nella soluzione dei problemi? Esistono differenze
fondamentali non solo nel contenuto, che sarebbe ovvio, ma anche nelle strutture
psicologiche dei processi cognitivi? Infine (ma non era certo l’ultima delle nostre
curiosità), mutamenti rapidi e radicali nella vita sociale, un’autentica rivoluzione
sociale e culturale, si traduce in profonde modificazioni psicologiche delle persone
coinvolte?» (Lurija, 1976, pp. 48-49).
71
Dalla stessa ricerca emerse inoltre che la struttura psicologica del
pensiero logico deduttivo non è una caratteristica universale del
pensiero, e che tutti i processi cognitivi «non scaturiscono da alcun
universale logico, ma dipendono invece profondamente dalle forme
pratiche della vita sociale e sono creati e trasformati ad opera del
processo storico di sviluppo della società» (Lurija, 1976, p. 55).
Un’importante conseguenza di questa conclusione riguarda la
necessità, ribadita dallo stesso Lurija, di partire dalla vita pratica e
sociale delle persone per «impostare correttamente i problemi di
fondo delle leggi psicologiche che governano i processi cognitivi» e
un rifiuto integrale del test di Stanford-Binet per misurare il livello di
sviluppo del pensiero nelle culture non alfabetizzate. Infatti, Lurija
osservò che i soggetti da lui studiati erano in grado di ragionare e
avanzare deduzioni logiche su argomenti pratici: in tal caso
mostravano eccellenti capacità di giudizio ed erano in grado di trarre
le “corrette” conclusioni48.
Mentre il risalto alla struttura mediata dei processi cognitivi e la
“storicità” della natura della mente sono il postulato della prima teoria
storico-culturale, saranno gli sviluppi successivi di tale teoria che, a
partire dagli anni Sessanta e Settanta insisteranno fermamente
sull’importanza dell’azione mediata in un contesto “rimediando” in tal
modo all’apparente contraddizione in cui Vygotskij e colleghi cadono
laddove esprimono giudizi di carattere generale sul modo di pensare
48
Questo tipo di ricerca è stato replicato in altre parti del mondo da Cole, Gay,
Glick et al., (1971); Fobih, (1979); Scribner, (1975, 1977); Sharp, Cole, Lave,
(1979); Tulviste, (1991). Ad esempio, se agli intervistati, rispetto al sillogismo,
veniva chiesto non di trarre una conclusione ma di limitarsi a valutare se le
premesse ipotetiche si accordavano logicamente alle conclusioni del ricercatore,
erano disposti a considerare le relazioni logiche tra le asserzioni (Cole et al.,
1971). Il sillogismo appartiene a un genere linguistico specialistico, che richiede
pratica per essere padroneggiato (Scribner, 1977). La disponibilità ad accettare
una premessa che non può essere verificata, e a ragionare su di essa, è
tipicamente “scolastica”. Questo tipo di test di abilità logica riflette un
addestramento piuttosto specifico ad una forma linguistica.
72
degli individui basandosi sulla storia del pensiero e delle culture a
tecnologia avanzata.
Come ha fatto notare Michael Cole l’uso di strumenti implica sia la
mediazione che la specificità del contesto, e un approccio contesto
specifico porta con se un’accidentalità storica dei processi mentali.
Gli psicologi storico-culturali russi avevano ragione ad insistere sulla
natura mediata della mente e sull’aspetto strumentale dei mediatori ma,
affermando l’esistenza di ampie differenze culturali nel pensiero, non
applicavano la teoria secondo la quale processi e contenuti del pensiero
differiscono a seconda di particolari circostanze. Considerare la
mediazione degli strumenti come fulcro del pensiero comporta,
logicamente, l’inclusione di restrizioni del pensiero a livello di contesto:
tutti gli strumenti devono simultaneamente conformarsi alle costrizioni
che emergono dall’attività che essi mediano, nonché alle caratteristiche
fisiche e mentali degli esseri umani che li utilizzano. Non esistono
strumenti universali, svincolati dal contesto, indipendenti da compiti e
agenti […].
Fin tanto che vi sono differenze nel genere di problemi riconosciuti e
inglobati nelle pratiche culturali nelle diverse società, sarà necessario
adottare, conseguentemente, la posizione del relativismo culturale:
nessuna nozione universale che riguardi una caratteristica psicologica
unica, generale, che sia denominata “livello di pensiero” o con
qualunque altro nome surrogato, potrà mai essere universalmente
appropriata. (Cole, 1996, pp. 153-155).
1.2
Un approccio culturale all’ontogenesi
Lo sviluppo ontogenetico si inserisce dunque all’interno di un
complesso sistema “in sviluppo”, che riguarda contemporaneamente
filogenesi e storia culturale: esso è intrinsecamente radicato
nell’eredità che gli uomini condividono alla nascita in quanto membri
della specie e della storia culturale della loro comunità.
73
Il retaggio filogenetico ci restituisce innanzitutto una condizione
d’immaturità psicobiologica del neonato al momento della nascita49.
La prole della specie umana è inetta e presenta una condizione di
“incompetenza sostanziale”, in quanto è incapace di sopravvivere da
sola. Inoltre, a differenza degli altri primati, i neonati50 umani
impiegano molto più tempo a raggiungere la maturità (condizione di
prematuranza).
Tale condizione è il risultato di un compromesso biologico tra le
dimensioni e la conformazione del canale da parto della donna da un
lato e le notevoli dimensioni del cervello e della scatola cranica del feto
dall’altro. Se il cervello fosse stato più grande, il parto sarebbe potuto
49
Ricordiamo che al momento della nascita il bambino ha già alle spalle nove mesi
di vita “prenatale”. Oltre a sviluppare il patrimonio genetico trasmessogli dai
genitori, il feto è comunque esposto a una serie di fattori ambientali, a causa dello
stretto rapporto con la madre nella fase intrauterina. L’ambiente uterino protegge e
nutre l’organismo in formazione (lo mantiene ad una temperatura costante e,
attraverso il liquido amniotico, lo preserva dagli urti); tuttavia attraverso il sangue
materno, oltre al nutrimento e all’ossigeno, passano anche sostanze chimiche,
ormoni e virus che possono lasciare tracce sullo sviluppo successivo. Inoltre, se il
sangue materno è carente di sostanze necessarie all’organismo in crescita, lo
sviluppo armonico di organi e apparati può risultare alterato. Il feto dimostra altresì
di possedere meccanismi elementari di apprendimento (familiarizzazione
prenatale) come l’assuefazione (che si traduce in una diminuzione del battito
cardiaco in corrispondenza della sovraesposizione ad un determinato stimolo), il
condizionamento classico, e l’inversione delle sillabe. Queste forme di
apprendimento consentono al bambino di entrare più facilmente in contatto con la
madre al momento della nascita. «In effetti gli esseri umani apprendono dalla
cultura in cui vivono già prima di nascere. L’esperienza maturata quand’era feto
consente al neonato di individuare molti aspetti della sua vita prenatale. È in grado
di riconoscere la voce della madre, di distinguere tra racconti familiari e sconosciuti
(ascoltati ripetutamente nelle ultime settimane prima della nascita) e persino di
discriminare tra la lingua madre e altre lingue» (Rogoff, 1990, p. 65).
Occorre anche puntualizzare che il bambino viene al mondo con le competenze
necessarie per sopravvivere all’ambiente extrauterino (il riflesso respiratorio mette
in funzione i polmoni, che consentono al bambino di prendere ossigeno dopo che il
cordone ombelicale è stato reciso; mentre il riflesso di suzione gli permette di
ingerire cibo), ma il passaggio dalla vita interuterina a quella extrauterina richiede
un adattamento di tutti gli organi alle nuove esigenze e una diversa modalità di
interdipendenza dalla madre (o da chi si prende cura del bambino). Per una
rassegna dei principali mutamenti fisici, motori, psichici e affettivi del bambino dalla
fase prenatale alla fase adulta cfr. Camaioni – Di Blasio, 2002.
50
La crescita postnatale viene suddivisa solitamente in cinque fasi: il periodo
neonatale (dalla nascita al ventottesimo giorno); la prima infanzia (da zero a due
anni); la seconda infanzia (da due a sei anni); la terza infanzia (da sei a dieci anni);
l’adolescenza (da 10 anni al completo sviluppo sessuale).
74
diventare un evento troppo rischioso. L’esito di tale compromesso è uno
stato di rilevante immaturità biologica al momento della nascita, che
implica un prolungamento dello stadio fetale in ambiente extrauterino
(neotenia). In particolare al momento della nascita il cervello umano è
solo il 23% delle sue dimensioni finali (rispetto al 65% nei macachi e al
41% negli scimpanzé). Solo a tre anni il cervello umano è all’80% circa
del suo sviluppo totale. (Anolli, 2006a, p. 61).
Il cervello si sviluppa per tre quarti dopo la nascita e ciò favorisce in
modo
rilevante
la
flessibilità
e
l’apprendimento
in
funzione
dell’esperienza, che svolge un ruolo importante nella formazione e
organizzazione dell’architettura celebrale51.
Uno dei più recenti contributi in campo neurobiologico è quello fornito
dagli studiosi interessati a fondare una “fisiologia della mente”
capace di connettere “mente” e “corpo”, e di considerarli nella loro
costitutiva unità52. In tale prospettiva, una particolare centralità
51
«Lo sviluppo celebrale (e soprattutto corticale) fin da subito è influenzato in
modo radicale dalle condizioni culturali dell’ambiente. Teniamo presente che il
cervello del neonato continua a crescere a ritmi fetali assai rapidi dopo la nascita.
In particolare, si stima che la sua corteccia celebrale cresca al ritmo di due milioni
di sinapsi al minuto (Rose, 2005). Si tratta di collegamenti nervosi che, in buona
parte hanno luogo a seguito dell’esposizione a stimoli ambientali, dalla percezione
del volto materno all’allattamento, ai rumori esterni e così via» (Anolli 2006a, p.
61).
A ciò si aggiunga che il bambino presenta, al momento della nascita un repertorio
di riflessi (rotazione del capo, suzione, Moro, Babinskiy, presa, marcia autonoma)
un tempo definiti «riflessi primari» in quanto si riteneva che il cervello del neonato
funzionasse come un insieme di reazioni motorie involontarie a determinati stimoli,
in opposizione alle reazioni volontarie dell’età adulta. Questa definizione e
concezione viene oggi rifiutata dalla comunità scientifica. «Già nelle prime fasi di
sviluppo il sistema nervoso è capace di produrre spontaneamente movimenti
ritmici (come la suzione e la respirazione) o fasici. La versione per la quale il
neonato è un organismo inerte finché non viene stimolato è stata soppiantata da
una diversa concezione circa il funzionamento del sistema nervoso e il
comportamento del neonato, che non soltanto reagisce agli stimoli ma è anche
capace di produrre spontaneamente movimenti autoregolati. Tra la concezione
neurofisiologica classica e quella moderna la differenza è profonda: da una parte il
neonato viene visto come un insieme meccanico di sistemi isolati, inerti fino a
quando non vengono stimolati, dall’altro come un organismo attivo, composto da
sottosistemi interconnessi, pronto a modulare la sua attività in funzione delle
condizioni ambientali» (Camaioni - Di Blasio, 2002, p. 46).
52
«Per quanto sulle prime possa sorprendere, la mente esiste dentro e per un
organismo integrato: le nostre menti non sarebbero quello che sono se non fosse
per l’azione reciproca di corpo e cervello – nel corso dell’evoluzione, durante lo
75
occupano le teorie epigenetiche53 espresse nella teoria del
darwinismo neuronale di Gerald Edelman e nella teoria dell’epigenesi
per stabilizzazione selettiva di Jean-Pierre Changeux (Changeux Connes, 1989; Edelman, 1987, 1989, 1992).
Il cervello, in questo ambito di studi, è “l’organo della mente”, nel
senso che le manifestazioni del pensiero sono considerate un
prodotto
derivato
e
collegato
all’organizzazione
neuronale.
Recuperando la teoria selettiva di origine darwiniana, questo
paradigma contesta che il cervello sia una tabula rasa pronta ad
essere istruita dall’ambiente; piuttosto, gli stimoli ambientali svolgono
una funzione di “selezionare” le risposte dell’organizzazione
neuronale fra tutte quelle previste dal patrimonio genetico. In tal
modo l’ambiente funziona come “specializzatore” e allo stesso tempo
sviluppo dell’individuo e nel momento presente. La mente dovette essere prima per
il corpo, o non sarebbe potuta essere. Sulla base del riferimento che il corpo
fornisce con continuità, la mente può allora avere a che fare con molte altre cose,
reali e immaginarie. Quest’idea si radica sui seguenti enunciati: 1) il cervello
umano e il resto del corpo costituiscono un organismo non dissociabile, integrato
grazie all’azione di circuiti regolatori neurali e biochimici interagenti (che includono
componenti endocrini, immunitari e nervosi autonomi); 2) l’organismo interagisce
con l’ambiente come un insieme: l’interazione non è del solo corpo né del solo
cervello; 3) i processi fisiologici che noi chiamiamo “mente” derivano dall’insieme
strutturale e funzionale, piuttosto che dal solo cervello: soltanto nel contesto
dell’interagire di un organismo con l’ambiente si possono comprendere appieno i
fenomeni mentali. Il fatto che l’ambiente sia, in parte, un prodotto dell’attività stessa
dell’organismo semplicemente sottolinea la complessità delle interazioni che
bisogna tener in conto […].
Quando si parla di cervello e di mente, non è consuetudine fare riferimento agli
organismi. Di fronte all’evidenza che la mente scaturisce dall’attività dei neuroni, si
discute solo di questi, come se il loro funzionamento potesse essere indipendente
da quello del resto dell’organismo […]. L’attività mentale – nei suoi aspetti più
semplici come in quelli più alti – richiede sia il cervello che il resto del corpo.
Quest’ultimo, a mio avviso, fornisce al primo più che un puro sostegno e una
modulazione: esso fornisce la materia di base per le rappresentazioni celebrali»
(Damasio, 1994, pp. 24-25).
53
Il termine «epigenetica» è stato utilizzato da Waddington (1957) per indicare che
l’espressione dei programmi genetici assume differenti percorsi di sviluppo nella
produzione di organi e tessuti in relazione alle condizioni ambientali. «A partire da
uno stadio iniziale di cosiddetta totipotenzialità, lo sviluppo consiste nel progressivo
restringimento dei percorsi e degli esiti evolutivi possibili in funzione congiunta sia
delle informazioni genetiche disponibili sia delle condizioni ambientali contingenti e
causali (epigenesi probabilistica). All’interno dei cosiddetti paesaggi epigenetici si
ottiene così una specifica canalizzazione dello sviluppo, intesa come espressione
dei vincoli e delle opportunità offerti congiuntamente dai fattori genetici e da quelli
ambientali» (Anolli, 2006a, p. 63).
76
come “riduttore” delle competenze dei soggetti con cui è in
relazione54.
Changeux propone un esempio molto chiaro di questo processo,
riferendosi allo sviluppo del linguaggio. Senza voler in questa sede
ripercorrere gli stadi di apprendimento del linguaggio, (che seguono
lo stesso ordine nelle comunità culturali più disparate) ci basti
sottolineare che i bambini, nei loro primi mesi di vita, dispongono di
una vastissima gamma di possibilità foniche e sonore. Utilizzano un
balbettio amplissimo che, progressivamente, con l’uso e con
l’esercizio vocalico, tendono ad adeguare ai suoni prodotti e sentiti
nel proprio ambiente: alla straordinaria varietà iniziale, segue una
riduzione di suoni, una “selezione” che determina la specializzazione
fonetica, legata al sistema linguistico della comunità di appartenenza.
Il neonato, quindi, nasce con la capacità di acquisire le lingue più
diverse, ma con il graduale apprendimento della propria lingua
madre, va progressivamente a limitare il proprio patrimonio
vocalico55.
Ma per operare in tal modo il cervello deve entrare nel mondo
possedendo una robusta dose di “conoscenza innata” su come regolare
se stesso e il resto del corpo. Via via che il cervello incorpora
54
«Alla nascita è presente la maggior parte dei neuroni (cellule celebrali), anche se
le connessioni tra i neuroni (sinapsi) sono ancora imperfette. Inoltre, sulla
superficie cellulare si sono formate quelle strutture (assoni e dendriti), attraverso
cui sostanze chimiche e informazioni vengono ricevute e inviate da una cellula
all’altra. Paradossalmente all’inizio il numero di sinapsi, assoni e dendriti è molto
superiore a quello che sarà poi il numero definitivo. In altri termini, si parte da una
sovrapproduzione per passare ad una parziale eliminazione, e questo fenomeno
riguarda anche il numero di neuroni (morte cellulare)» (Camaioni - Di Blasio, 2002,
pp. 56-57).
55
«La rapidità di sviluppo del linguaggio del bambino dipende sia dalla capacità di
percepire differenze nel linguaggio sia dall’esperienza nell’ascolto delle
conversazioni degli altri (Jusczyk, 1997; Werker, Desjardins, 1995). Nel corso del
primo anno di vita, egli diviene sempre meno sensibile alle differenze dei suoni che
ascolta raramente, mentre presta sempre più attenzione alle caratteristiche proprie
della lingua parlata da chi gli sta attorno. Fino a sei mesi, in ogni parte del mondo,
la lallazione dei bambini si basa sugli stessi suoni, comuni a tutte le lingue. Ma tra i
sei mesi e un anno, i bambini si “specializzano” nella loro lingua madre, e
cominciano ad abbandonare i suoni che essa non utilizza» (Rogoff, 2003, p. 65).
77
rappresentazioni disposizionali di interazioni con entità e scene
significative per la regolazione innata, esso accresce le possibilità di
includere entità e scene che possono o no essere significative per la
sopravvivenza. E allorché ciò avviene, il nostro senso crescente di quel
che il mondo esterno può essere viene appreso come modificazione
dello spazio neurale nel quale corpo e cervello interagiscono. Non è solo
la separazione tra mente e cervello a essere mitica: probabilmente
anche la separazione tra mente e corpo è altrettanto fittizia. La mente è
incorporata, nel senso più pieno del termine, non soltanto intrisa nel
cervello. (Damasio, 1994, pp. 175-176).
La
neotenia
produce
inoltre
una
condizione
di dipendenza
fondamentale e prolungata dagli adulti che si prendono cura del
bambino (in particolare dalla madre): essi costituiscono un sistema di
supporto indispensabile per la crescita e il primo “strumento” che
consente al bambino di appropriarsi della cultura in cui vive. Le cure
parentali sono intrinsecamente indirizzate dalla cultura di riferimento
e rimandano a precisi stili educativi; esse sono inoltre espressione di
etnoteorie parentali ovvero di sistemi sufficientemente espliciti di
credenze su come i bambini vadano allevati56.
Il comportamento del bambino va considerato alla luce della relazione –
biologica e insieme culturale – instaurata con le persone che lo
accudiscono, e delle usanze culturali che incoraggiano la sua
partecipazione alla vita della comunità. Anche quando non “insegnano”
esplicitamente qualcosa ai bambini, gli adulti ogni giorno sono presi a
modello in ciò che fanno, e inoltre strutturano l’ambiente, le interazioni e
i comportamenti dei bambini in modi rispondenti alle forme di
apprendimento locali.
Nel corso dell’infanzia il bambino partecipa sempre più attivamente alle
attività socioculturali, perfezionando il modo di gestire le relazioni con gli
altri, che organizzano il processo di apprendimento, lo guidano nelle
56
Cfr. anche Tobin, Wu, Davidson, 1989.
78
attività condivise, e lo aiutano ad adattare il livello di partecipazione al
grado di competenza raggiunto […].
Le interpretazioni locali di queste forme di sostegno interpersonale
all’apprendimento si sono formate in seguito a una lunga evoluzione
biologica e culturale. Nella nostra specie, ogni generazione viene al
mondo predisposta ad adottare gli usi e i costumi dei nostri antenati,
grazie alla condivisione di una serie di attività promosse culturalmente.
Ciò può spiegare il rapido sviluppo, nei bambini, della capacità di
partecipare alle conoscenze e alle usanze culturali – imparando a
tessere o a leggere, badando al bestiame o ai fratelli più piccoli,
andando a scuola, o rispettando i particolari ruoli di genere previsti nelle
comunità. Lo sviluppo delle differenze di genere e dei ruoli ad essi
associati
illustra
in
modo
particolarmente
efficace
la
natura
“biologicamente culturale” dello sviluppo umano. (Rogoff, 2003, pp. 6667).
Oltre
a
dover imparare
a
diventare
soggetto
culturalmente
competente, il neonato è fin dalla nascita oggetto culturale: oggetto
di un’interpretazione culturale da parte degli adulti.
Mettendo in luce l’eterocronia tra domini genetici (di norma, il
mutamento culturale procede più rapidamente di quello filogenetico e
più lentamente di quello ontogenetico) Cole (1996) analizza i
meccanismi di prolessi57 che condizionano lo sviluppo mentale
dell’individuo.
I genitori iniziano a parlare quasi subito del e al bambino, a volte
prima ancora che nasca, e questo sarebbe motivato in parte da
caratteristiche
filogeneticamente
determinate
(le
differenze
anatomiche tra maschio e femmina), e in parte da caratteristiche
culturali che i genitori hanno appreso dalla propria esperienza
57
«La rappresentazione di un atto o sviluppo futuro come esistente nel presente»
(Cole, 1996, p. 163). Il materiale utilizzato da Cole in questa ricerca è costituito da
registrazioni di conversazioni tra ostetrici e genitori al momento della nascita dei
bambini.
79
personale (compresi quelli che ritengono essere i tratti distintivi di
bambini e bambine).
Utilizzando questa informazione, derivata dal loro passato culturale e
dando per scontata la continuità culturale (ossia postulando che il
mondo in cui vivrà il figlio sarà abbastanza simile a quello in cui hanno
vissuto loro), i genitori progettano un possibile futuro per il bambino […].
Due caratteristiche di questo sistema di trasformazioni sono essenziali
per capire il ruolo della cultura nel costruire lo sviluppo del bambino. La
prima, più ovvia, è un esempio di prolessi: i genitori rappresentano il
futuro nel presente. La seconda caratteristica, forse meno ovvia, è che il
richiamo (puramente ideale) del passato operato dai genitori e il futuro
che
essi
immaginano
per
il
bambino
diventa
una
restrizione
materializzata fondamentale che grava sulle esperienze di vita del
bambino nel presente […]. In altre parole, gli adulti creano letteralmente
diverse forme materiali d’interazione basate su concezioni del mondo
derivate dalla loro esperienza culturale. È opportuno notare come
questa situazione differisca da quella insita nel concetto di sviluppo
basato sulla teoria dell’apprendimento. Gli adulti non si limitano ad
ampliare il repertorio già esistente di comportamenti del bambino e a
modificarlo poco alla volta, piuttosto per loro, il bambino è un oggetto
culturale, ed è in questi termini che lo trattano. (Cole, 1996, pp. 164165).
In questo caso possiamo ulteriormente chiarire l’enfasi posta dagli
psicologi storico-culturali sull’origine sociale delle funzioni psichiche
superiori: esiste un’enorme differenza tra la socialità di alcune specie
animali e l’essere “sociale” proprio degli esseri umani.
Il termine “cultura”, in questo caso è riferito alle forme di attività
richiamate alla memoria che sono ritenute idonee, mentre con il termine
“sociale” si designano le persone il cui comportamento si conforma alla
struttura culturale data e la pone in atto […].
80
Solo un essere umano che utilizza la cultura potrà “penetrare” nel
passato culturale, proiettarlo nel futuro e quindi “riportare” quel futuro
concettuale nel passato, al fine di creare l’ambiente socioculturale del
nuovo venuto. Infine, l’analisi dei commenti dei genitori nel momento in
cui vedono per la prima volta il figlio ci aiuta a capire come la cultura
contribuisca sia alla continuità che alla discontinuità dello sviluppo
individuale. Pensando al futuro dei figli, i genitori presumono che le cose
continueranno ad andare come sono sempre andate.
Tale ipotesi di stabilità ricorda l’immagine eloquente proposta da White
(1942), che vede la mente culturalmente costituita, dal punto di vista
temporale, come “un continuum che si estende all’infinito, in entrambe le
direzioni”. In tal modo, il medium culturale consente agli individui di
“proiettare” il passato nel futuro, creando così un quadro interpretativo
stabile, che viene poi riletto nel presente come uno degli elementi
rilevanti della continuità psicologica. (Ivi).
Lo sviluppo del bambino avviene dunque grazie all’interdipendenza
intrinseca tra fattori biologici (informazioni genetiche) e condizioni
ambientali, che si esprimono in termini di vincoli e possibilità offerte
dalla nicchia ontogenetica nella quale cresce, una «nicchia
ontogenetica eminentemente culturale» (Tomasello, 1999, p. 104).
I bambini, come i piccoli di altre specie, crescono in un ambiente
“arredato” dal lavoro delle generazioni precedenti, e mentre crescono
essi incorporano letteralmente le forme del loro abitare, nel proprio
corpo – in abilità, sensibilità e disposizioni specifiche. Ma non le portano
nei propri geni, e nemmeno è necessario immaginarsi un qualche
veicolo di trasmissione inter-generazionale di informazione – culturale
piuttosto che genetica – per rendere conto della diversità dei modi di vita
umani. (Ingold, 2001, p. 136).
Come più volte sottolineato dalla scuola storico-culturale, proprium
della “natura umana” è quello di produrre un mondo artificiale e
convivere con esso. Tale convivenza implica che la stessa natura
81
umana si trasformi, venendo coinvolta in complessi processi di coevoluzione con gli «strumenti culturali».
La cultura crea forme particolari di comportamenti; essa muta il tipo
stesso dell’attività delle funzioni psichiche, innalza nuovi piani nel
sistema in sviluppo del comportamento umano […]. Nel processo dello
sviluppo storico l’uomo sociale cambia modi e criteri del suo
comportamento, trasforma le disposizioni e le funzioni naturali, elabora e
crea nuove forme di comportamento, specificatamente culturali […].
Quando parliamo di uno sviluppo culturale del bambino noi intendiamo
indicare quel processo, corrispondente allo sviluppo psichico, che si
compie nel corso dello sviluppo storico dell’umanità. […].
Sarebbe difficile respingere a priori l’idea che il tipo particolare
dell’adattamento umano alla natura, che differenzia radicalmente l’uomo
dagli animali e che rende per principio impossibile la semplice
trasposizione delle leggi della vita animale (lotta per l’esistenza) nella
scienza della società umana, che questo nuovo tipo di adattamento, che
è alla base di tutta la vita storica dell’umanità, sia impossibile senza
nuove forme di comportamento, di questo fondamentale meccanismo di
equilibrazione dell’organismo con l’ambiente. Una nuova forma di
rapporto con l’ambiente, sorta in presenza di determinati presupposti
biologici, ma superante i limiti della biologia non poteva non dar vita a un
sistema nuovo, qualitativamente diverso e diversamente organizzato, di
comportamento. (Vygotskij, 1930-31, p. 68).
Nel
corso
dell’ontogenesi,
vi
è
un
mutamento
strutturale
fondamentale: un organismo che vive in un ambiente culturale, ma
che non è in grado di farne uso, diviene un organismo per il quale la
mediazione delle azioni attraverso la cultura è una “seconda natura”
(Cole, 1996).
In questo processo rivestono un’importanza fondamentale gli
artefatti, mediatori materiali/ideali dell’esperienza, strumenti-vincolo
per l’azione. I bambini non nascono con la competenza necessaria a
mediare l’azione attraverso gli artefatti, ma apprendono ad utilizzarli
82
nel contesto sociale e attraverso le persone che si prendono cura di
loro: «l’apprendimento così concepito non coincide con lo sviluppo,
ma attiva lo sviluppo mentale infantile, risvegliando quei processi
evolutivi che, al di fuori di esso, sarebbero inattuabili» (Vygotskij,
1930-31, p. 307).
Secondo questa ipotesi interpretativa l’apprendimento è definibile in
senso lato come cambiamento e quindi trasformazione58. Nelle prime
fasi della vita umana viene solitamente designato con il termine
“sviluppo”, indipendentemente dalle assunzioni teoriche più o meno
innatiste o ambientaliste degli studiosi che si servono di questa
metafora di origine biologica59; ma la contrapposizione tra sviluppo e
58
Sull’identità tra apprendimento e cambiamento (sviluppo, adattamento
intelligente ed evoluzione) e sui diversi “tipi” di cambiamento, cfr. Bateson, 1979.
59
«Per molto tempo nella psicologia infantile ci si è rifiutati di considerare
l’esperienza culturale del bambino come una forma di sviluppo. Di solito si diceva:
si può considerare sviluppo soltanto ciò che procede dall’interno, ciò che viceversa
procede dall’esterno è apprendimento, educazione, perché non esiste in natura un
bambino che maturi per via naturale le sue funzioni aritmetiche, mentre, non
appena raggiunge l’età scolare, o appena un po’ prima, apprende per via esterna,
dalle persone che lo circondano, una serie di concetti aritmetici e di operazioni ad
essi relative. […].
Ogni nuova forma dell’esperienza culturale non è semplicemente esterna,
indipendente dalla situazione dell’organismo in un certo momento dello sviluppo; in
realtà l’organismo, assimilando le influenze esterne, e assimilando una serie di
forme del comportamento, assimila queste in dipendenza dal livello dello sviluppo
psichico in cui si trova. Accade qualcosa che ricorda ciò che, nella crescita del
corpo, si chiama nutrimento, cioè si verifica l’assimilazione di determinate cose
dall’esterno, di materiale esterno, che tuttavia viene elaborato e assimilato
dall’organismo in modo specifico. […].
Se a qualcuno riuscisse di dimostrare sperimentalmente che è possibile esser
immediatamente capaci di una qualsiasi operazione intellettuale, considerata nel
suo stadio più evoluto, si sarebbe con questo dimostrato sperimentalmente che si
tratta non di sviluppo, ma di apprendimento esterno, e cioè di una qualche
modificazione in funzione di influenze puramente esterne. L’esperimento ci
insegna, viceversa, che ogni azione esterna è il risultato di una legge genetica
interna. Sulla base di prove sperimentali possiamo dire che nessun bambino,
persino un bambino prodigio, può raggiungere istantaneamente l’ultimo stadio di
sviluppo delle operazioni senza aver percorso il primo e il secondo. In altre parole,
lo stesso instaurarsi di una nuova operazione intellettuale si fraziona in una serie di
stadi internamente collegati l’un l’altro e tali che ognuno di essi trapassa nell’altro.
[…]. Abbiamo tutti i fondamenti per applicare al processo di accumulazione
dell’esperienza interna, il concetto di sviluppo» (Vygotskij, 1930-31, p.206).
83
apprendimento è per lo più strumentale a certe impostazioni
teoriche60.
L’apprendimento è una condizione essenziale ed ineliminabile del
processo di crescita, una dimensione del vivere; esso si configura
come sviluppo eminentemente contestualizzato e storico.
Il concetto di apprendimento nella teoria storico-culturale viene
declinato in termini processuali che ne evidenziano sia la funzione
adattiva, biologicamente definibile, che la funzione di crescita e
cambiamento.
Quest’ultima
è
culturalmente
“costruita”
come
peculiare modalità di interpretare e selezionare esperienze, eventi,
contenuti di conoscenza sulla base di specifici orientamenti di
significato.
L’apprendimento può essere dunque inteso come un processo
significativamente connotato dalla configurazione cognitiva del
soggetto (al quale viene riconosciuto un ruolo attivo di costruzionedecostruzione di strutture e schemi di conoscenza) e delle
determinazioni
bio-culturali
che
l’hanno
prodotta,
ma
anche
sostanzialmente modulato dalle relazioni e dalle caratteristiche dei
contesti in cui si produce.
Attraverso un significativo recupero del pensiero di Vygotskij le teorie
storico-culturali
a
noi
più
contemporanee,
propongono
un’interpretazione dell’apprendimento come esperienza mediata e
come processo socialmente condiviso e culturalmente costruito, in
cui giocano un ruolo essenziale le relazioni intersoggettive e le
risorse culturali presenti in un determinato contesto61.
60
Ad esempio, in una concezione teorica di tipo piagetiano, il cambiamento è
spiegato in termini di un evolversi interno e, in un certo senso, necessario delle
strutture, mentre all’apprendimento è riservato un ruolo del tutto marginale di
facilitazione del passaggio da uno stadio all’altro in determinate condizioni di
maturazione cognitiva. Per contro, in un approccio behaviorista si attribuisce
all’apprendimento la funzione di modellare l’individuo, che è considerato
plasmabile attraverso l’imitazione e il rinforzo.
61
Si confrontino ad esempio le ricerche di Feuerstein (1988), quelle di Wertsch
(1985), Cole (1996), Resnick (1994), Rogoff (2003, 1990), Lave e Wenger (1991),
gli studi che dagli anni Settanta ad oggi si sono prodotti nell’ambito del Laboratory
of Comparative Human Cognition (in cui si evidenzia la funzione giocata dagli
84
La tesi centrale della teoria storico-culturale è che la struttura e lo
sviluppo dei processi psicologici umani emergano dall’attività pratica
(originariamente esterna e interpsicologica) mediata culturalmente e
soggetta di sviluppo storico (Cole, 1996).
Prima di riprendere ciascuno dei termini implicati in questa
formulazione, dedicheremo un paragrafo alla competenza sociale del
bambino
e
quindi
alla
sua
particolare
predisposizione
all’apprendimento.
1.2.1
Il bambino sociale
«L’apprendimento umano presuppone una natura sociale specifica e
un processo attraverso il quale i bambini si inseriscono gradualmente
nella vita intellettuale di coloro che li circondano» (Vygotskij, 1978, p.
130).
Negli ultimi decenni le ricerche psicologiche sulle competenze
percettive e cognitive precoci si sono arricchite di nuovi dati che
hanno contribuito a modificare l’immagine del neonato da mero
recettore di stimoli, a soggetto attivo dotato di capacità che hanno
bisogno dell’interazione con l’ambiente per potersi dispiegare ed
evolvere. Nel neonato, assieme alle capacità percettive62, risulta
particolarmente consistente la competenza sociale.
artefatti e dai codici culturali nella costruzione del sapere e della conoscenza a
livello interindividuale e intraindividuale) e il culturalismo di Bruner.
62
«La percezione [al contrario della sensazione] è un processo attivo e dinamico di
elaborazione degli stimoli sensoriali che procede attraverso l’analisi, la selezione, il
coordinamento e l’elaborazione delle informazioni. Quali rapporti esistono tra
sensazioni e percezioni nel corso dello sviluppo? Sappiamo che i neonati sono
dotati di capacità sensoriali e, fin dalla nascita, sono in grado di rispondere a
stimoli luminosi, acustici e di reagire a sollecitazioni tattili e gustative […].
Già dal secolo scorso sono state proposte prospettive differenti [da quella
empirista], basate sull’idea che la strutturazione percettiva della realtà contenga
elementi già organizzati a cui l’essere umano è predisposto e che, quindi, può
cogliere in modo immediato grazie alla sua dotazione innata. Non sarebbe così
necessaria un’elaborazione mentale, vale a dire un’interpretazione cognitiva di
interpretazione dei dati percepiti, poiché esisterebbe una corrispondenza tra le
85
La preferenza precoce per il volto umano, più volte accertata, non
sembra oggi essere oggetto di dibattito63. Sono in molti a ritenere che
tale preferenza sia innata e abbia valore adattivo in quanto
servirebbe a favorire la relazione tra esseri umani, in particolare la
relazione di attaccamento alla madre. Il bambino è inoltre in grado di
distinguere un volto allegro da uno triste e di imitare le espressioni di
coloro che interagiscono con lui (Meltzoff, Moore 1977, 1989).
Abbiamo poi visto come il processo di abituazione alla voce della
materna sembri essere in atto già nello stadio fetale; mentre fin dalle
prime fasi dello sviluppo i bambini riconoscono le altre persone come
esseri animati, distinti dagli oggetti fisici64.
strutture percettive di cui è dotato l’organismo e la struttura della realtà (qualità
della forma, valore dell’insieme non ricavabile dalla semplice somma delle parti,
ecc.) non riconducibile agli elementi forniti dalla sensazione. In anni recenti, la
sperimentazione psicologica ha fornito un notevole contributo allo studio dello
sviluppo percettivo dei bambini, sottolineando come essi nascano con una gamma
di facoltà percettive assai più ampia di quella ipotizzata dagli empiristi, anche se
non vi è dubbio che la stessa capacità infantile di apprendere dall’esperienza sia
nettamente superiore a quella ipotizzata dagli innatisti.
Riconoscere l’esistenza di abilità percettive e di predisposizioni innate non deve,
tuttavia, far dimenticare né i limiti del neonato né l’importanza dell’apprendimento
che si realizza nei primi anni di vita. Le capacità precoci ma ancora rudimentali del
neonato di percepire ed esplorare non sono, infatti, che punti di partenza di un
lungo processo di progressiva comprensione dell’ambiente. Grazie all’esplorazione
e all’esperienza, il piccolo dell’uomo scopre sia le caratteristiche permanenti di ciò
che lo circonda sia le proprietà transitorie di oggetti e di persone. Sin dall’inizio
però il processo di esplorazione dell’ambiente non è casuale e col trascorrere del
tempo, diventa sempre più sistematico e mirato, permettendo di apprendere
efficacemente come sia strutturato il mondo» (Camaioni – Di Blasio, 2002, pp. 6061).
63
«Nell’arco di tre o quattro giorni di vita, il neonato è capace di riconoscere e
discriminare il volto della madre grazie all’attivazione di un sistema sottocorticale
situato nel collicolo superiore. Infatti, dopo 9-12 ore di esposizione visiva al volto
materno durante l’allattamento, il neonato preferisce e dedica più tempo al volto
della madre rispetto a quello di un’altra donna che abbia lo stesso colore dei capelli
e della pelle» (Anolli, 2006a, p. 65). Per una rassegna degli studi sulla percezione
e l’attenzione selettiva per il volto da parte del bambino cfr. Camaioni - Di Blasio,
2002, pp. 61-80.
64
«Persino un bambino molto piccolo tratta le persone in modo diverso dagli
oggetti. Se vede un oggetto in movimento che poi si ferma, perde ogni interesse;
se invece interagisce con una persona il cui volto si fa improvvisamente immobile,
rimanendo tale a lungo, si spaventa (Tronick et al. 1978). Il bambino si aspetta non
solo che un volto si muova, ma anche che lo faccia in modo da rispondere
adeguatamente alle sue azioni. […]. Per quanto ne sappiamo la nostra specie non
presenta caratteristiche particolari rispetto alla conoscenza del mondo fisico: da
tutti gli studi comparativi condotti sull’argomento è emerso che la stessa
86
Alcune di queste capacità sono tipiche dei primati e sono condivise
da bambini e piccoli di scimmie antropomorfe, vi sono però due
comportamenti sociali che fanno pensare che i bambini non siano
semplicemente sociali come gli altri primati, ma piuttosto ultrasociali
(Tomasello, 2005).
Il primo
riguarda
il tentativo
dei bambini di adeguarsi al
comportamento degli adulti durante le prime interazioni sociali. Già
poco dopo la nascita ripetono alcuni movimenti corporei degli adulti,
specialmente quelli della bocca e della lingua: tirare fuori la lingua,
aprire la bocca e muovere la testa; non essendosi mai guardati allo
specchio è come se essi “sapessero” istintivamente che la lingua che
vedono corrisponde a quella cosa che hanno in bocca e che non
hanno mai visto (Meltzoff - Moore 1977, 1989). E’ stata inoltre
osservata in bambini di sei settimane la protrusione della lingua a
seguito dell’imitazione di un adulto che la muoveva da un lato all’altro
della bocca (Meltzoff, 1995).
E’ perciò possibile che l’imitazione neonatale rifletta non solo la
tendenza del bambino a mimare i movimenti che conosce già, ma
anche, in certo modo, a “identificarsi” con i conspecifici (Meltzoff e
Gopnik 1993). Questa conclusione è in accordo con l’idea di Stern
(1985) secondo cui l’adeguarsi dei bambini agli stati emozionali degli
adulti è il riflesso di un processo di identificazione molto profondo.
(Tomasello, 1999, p. 81).
Il secondo comportamento tipico, di cui abbiamo trattato analizzando
l’interazione adulto-bambino e il ruolo di sostegno degli adulti che si
prendono cura di lui, è la capacità, poco dopo la nascita, di
partecipare a protoconversazioni: interazioni sociali in cui adulto e
conoscenza degli oggetti caratterizza sia il bambino sia altri animali, soprattutto i
primati, i quali sembrano concepire il corpo proprio come gli esseri umani. La
situazione tuttavia è radicalmente diversa nel caso della conoscenza sociale»
(Bloom, 2004, p. 29).
87
bambino focalizzano l’attenzione l’uno sull’altro (guardandosi,
toccandosi, “parlando” l’un l’altro) alternando i turni dell’interazione65.
Benché queste interazioni possano assumere forme differenti nelle
differenti culture – specialmente per quanto riguarda il tipo e l’entità del
contatto visivo faccia a faccia – esse sembrano comunque essere un
tratto universale dell’interazione adulto-bambino nella specie umana.
(Ibidem, p. 80)
A questo si aggiunga che a partire dal secondo mese di vita, appare
il “sorriso sociale”66 che suscita un maggiore senso di connessione
65
«Colwyn Trevarthen, in origine zoologo, ma in seguito impegnato in un centro di
studi cognitivi, fu tra i primi a notare la straordinaria sincronia tra gli schemi gestuali
e vocali di un bambino piccolo e quelli di sua madre. La cosa non poteva essere
spiegata, osservò, come un semplice, graduale “adattamento seriale” delle reazioni
del bambino alla madre seguito dalla reazione materna al bambino e così via.
Pareva piuttosto che assomigliasse a quel controllo di ordine superiore che
Leshley considerava essenziale in tutti gli schemi interattivi o ricorsivi che hanno
luogo in un intervallo di tempo definito, come avviene nel corso di un’esecuzione
musicale o dell’uso di un linguaggio che implica delle regole lessicali o
grammaticali. Ma nella situazione madre-bambino due organismi erano coinvolti
nella creazione di questa sincronia estesa […].
Per cercare di dare una spiegazione del fenomeno, Trevarthen prese a prestito dal
filosofo scozzese MacMurray il termine “intersoggettività”. Poco dopo Daniel Stern,
uno psichiatra infantile che si occupava del legame fra la madre e il bambino
piccolo, fu colpito dallo stesso fenomeno e lo chiamò “sintonizzazione” fra madre e
figlio. Non ci volle molto tempo perché fiorissero gli studi su questo argomento
appassionante […] mi limiterò a citare alcuni dei molti risultati interessanti che sono
emersi: 1) c’è un’unità neurale nella corteccia umana preposta all’elaborazione del
contatto percettivo da occhio a occhio, che ne evidenzia la base biologica; 2)
mentre i piccoli dei primati non umani non sembrano caratterizzati da un’analoga
preferenza per il contatto da occhio a occhio, ci sono abbondanti prove che anche
le giovani scimmie, per decidere dove indirizzare la loro ricerca in un dato territorio,
controllano la direzione dello sguardo di un altro animale che, nel corso di
precedenti tentativi, aveva dimostrato di sapere dove era nascosto il cibo; 3) è
stato osservato che spesso il comportamento sociale dei primati è basato
sull’intento di ingannare in maniera piuttosto machiavellica i conspecifici, e questo
suggerisce che debbano possedere una qualche forma di teoria della mente; 4) il
contatto con gli occhi che si prolunga oltre un certo tempo, molto breve, scatena un
comportamento antagonistico e minaccioso negli individui adulti di sesso maschile
delle scimmie catarrine, e in particolare nei babbuini; ma neanche gli esseri umani
lo prendono alla leggera» (Bruner, 1996, pp. 189-190).
66
«Il sorriso sociale è di natura esogena e si distingue dal sorriso endogeno, che
compare nelle prime settimane di vita, durante le fasi di sonno Rem, e che è una
manifestazione automatica» (Anolli, 2006a, p. 83).
88
tra adulto e bambino, che a sua volta rinforza le dinamiche
protoconversazionali.
A partire dal sesto mese di vita il bambino inizia a includere un terzo
oggetto entro la cornice della relazione con l’adulto passando da un
tipo di relazione diadica (in cui la sua attenzione si focalizza o
sull’adulto o su un oggetto) a un’interazione triadica67.
Questo progresso psicologico è fondamentale poiché conduce alla
condivisione congiunta dell’attenzione, grazie alla quale bambino e
adulto orientano il loro interesse sul medesimo oggetto-evento. Essi
guardano congiuntamente il medesimo oggetto e poi si guardano
reciprocamente negli occhi, provando soddisfazione da tale condivisione
(Stern, 1985). Tale processo comune di messa a fuoco attentiva su
qualcosa di esterno alla coppia adulto-bambino consente loro di porre le
premesse di ciò che costituirà in seguito la referenza di un discorso o di
una conversazione […].
L’attenzione condivisa comporta un incipiente incontro di menti fra
adulto e bambino. Tale incontro dipende non solo dal fatto di condividere
lo stesso fuoco dell’attenzione, ma anche di prendere parte al medesimo
contesto e di sviluppare i medesimi assunti. In funzione di questo
processo, madre e lattante, nel momento in cui condividono un certo
interesse, lo costruiscono in modo convenzionale secondo gli standard
della cultura di appartenenza. (Anolli 2006a, p. 66).
Tra i nove e i dodici mesi vi è la comparsa osservabile di
comportamenti intenzionali da parte dei bambini68: iniziano ad
67
È oggi in corso un acceso dibattito sul tipo di cognizione sociale infantile che è
alla base di questi primi comportamenti triadici. Per una rassegna degli studi in
corso cfr. Tomasello, 1999, pp. 88-92.
68
Il problema dell’intenzionalità è stato analizzato da Bruner in relazione alla
continuità tra comunicazione prelinguistica e linguistica. Dal punto di vista
comportamentale, l’intenzione viene definita da Bruner (1973) come un processo
caratterizzato da: a) anticipazione della comparsa dall’atto; b) selezione dei mezzi
appropriati per conseguire lo stato finale; c) ordine d’arresto definito dallo stato
finale.
Ma per Bruner (1975, 1986) risulta difficile capire che cosa il bambino intenda
veramente comunicare nella fase prelinguistica. Per questa ragione, poiché la
89
orientare attivamente l’attenzione degli adulti utilizzando gesti deittici
o performativi (come l’indicare o quello di mostrare un oggetto
affinché
qualcuno
lo
veda)
accompagnati
dallo
sguardo
al
destinatario del gesto. A differenza delle azioni di tipo strumentale
come l’afferrare, questi gesti sono inadeguati a raggiungere obiettivi
in modo diretto, ma sono adeguati a comunicare tali obiettivi ad un
altro soggetto. Si creano vere e proprie scene di attenzione
congiunta69 tra adulto e bambino, all’interno delle quali questi gesti
comunicazione presuppone, per definizione, l’intenzione di comunicare, è
preferibile parlare di funzioni che la comunicazione assolve, e determinare come
esse si realizzano.
Spostando la questione dell’intenzionalità comunicativa del bambino (nella fase
prelinguistici) al tema delle funzioni comunicative, Bruner ammette che forse non
sapremo che cosa il bambino intenda comunicare, ma possiamo in ogni caso
osservare per quale fine comunica. Come abbiamo precedentemente visto i
bambini piccoli scambiano esperienze vocali con le loro madri che attivamente
interpretano, selezionano, commentano, ripetono le vocalizzazioni e i primi suoni
emessi: intendono quei gesti in termini conativi – che cosa il bambino vuole –
valutandone la sincerità e la consistenza. In particolare i format forniscono la base
per interpretare correttamente le intenzioni comunicative della madre e del
bambino, concretizzando, socializzando e strutturando le intenzioni di quest’ultimo.
Riprendendo la teoria di Grice, Bruner sostiene che parlare di intenzionalità
comunicativa nel bambino prelinguistico non significa assegnargli una vera e
propria “intenzione” né attribuirgli un’intenzione semantica; bensì significa
riconoscergli la capacità di porsi in relazione e di avere uno scambio dotato di
senso con l’adulto. Pertanto nello sviluppo dell’intenzionalità il ruolo più importante
è giocato dall’interpretazione dell’adulto, mentre per quanto riguarda il bambino, la
nozione di intenzione viene assimilata a quella pragmatica.
D’altra parte, riconosce Bruner (1990), apprendere il linguaggio consiste anche
nell’apprendere le procedure comunicative che rendono possibile e attendibile
l’interpretazione e l’intenzione del parlante.
69
«Le scene di attenzione congiunta sono interazioni sociali nelle quali il bambino
e l’adulto prestano congiuntamente attenzione a una terza cosa, nonché
all’attenzione reciproca verso quella cosa per un certo arco di tempo
ragionevolmente esteso. I termini che sono stati usati sono quelli di interazione di
attenzione congiunta, episodio di attenzione congiunta, impegno di attenzione
congiunta, e format di attenzione congiunta. Sto introducendo qui un termine
nuovo, ancorché affine, allo scopo di dare il giusto rilievo a due punti essenziali, a
volte trascurati nelle trattazioni precedenti di questo fenomeno.
Il primo punto riguarda gli elementi inclusi nelle scene di attenzione congiunta. Da
un lato, le scene di attenzione congiunta non sono eventi percettivi: esse includono
solo una sottoparte del mondo percettivo del bambino. D’altro lato, le scene di
attenzione congiunta non sono neanche eventi linguistici: vi è in esse più di quello
che è esplicitamente indicato da qualsivoglia insieme di simboli linguistici […]. Una
sorta di terra di mezzo tra il mondo percettivo, più ampio, e il mondo linguistico, più
ristretto. Il secondo punto che va sottolineato è il fatto che la comprensione di una
scena di attenzione congiunta da parte del bambino include come parte integrante
il bambino stesso e il suo ruolo nell’interazione considerati dallo stesso punto di
90
possono avere valore richiestivo (come tentativo di far sì che gli
adulti facciano qualcosa in relazione ad un oggetto o ad un evento)
e/o dichiarativo (attirare l’attenzione di qualcuno su qualcosa)70.
Nell’evoluzione del gesto dell’indicare Vygotskij aveva visto una parte
importante dello sviluppo del linguaggio e più in generale di tutte le
funzioni psichiche superiori; esso fornisce inoltre un’importante
esemplificazione
della
dinamica
di
ricostruzione
interna
di
un’operazione esterna e di apprendimento attraverso un’altra
persona; per questo vale la pena di vederlo nel dettaglio.
All’inizio questo gesto non è niente di più che un tentativo non riuscito di
afferrare qualcosa, un movimento indirizzato ad un certo oggetto che
designa un’attività prossima. Il bambino cerca di afferrare un oggetto al
di sopra della sua portata: le sue mani, tese verso quell’oggetto, restano
sospese nell’aria. Le sue dita fanno movimenti per afferrare. In questo
stadio iniziale l’indicare è rappresentato dai movimenti del bambino, che
sembrano indicare un oggetto (questo e nient’altro).
Quando la madre viene in aiuto al bambino e realizza che i suoi
movimenti indicano qualcosa, la situazione cambia radicalmente.
L’indicare diventa un gesto per le altre persone. Il tentativo non riuscito
del bambino genera una reazione non da parte dell’oggetto che egli
vuole afferrare, ma da parte di un’altra persona. Di conseguenza, il
significato originario di quel movimento per afferrare non riuscito è
stabilito da altri.
vista “esterno” dal quale sono considerati l’altra persona e l’oggetto, in modo che vi
sia un unico format rappresentazionale – cosa che è di cruciale importanza per il
processo di acquisizione dei simboli linguistici […].
Il punto è che le scene di attenzione congiunta sono definite intenzionalmente;
esse, cioè, traggono la loro identità e la loro coerenza dal fatto che il bambino e
l’adulto comprendono “ciò che stiamo facendo” nei termini delle attività dirette a un
obiettivo nelle quali siamo impegnati» (Tomasello, 1999, pp. 122-123).
70
«I gesti dichiarativi sono particolarmente importanti perché indicano chiaramente
che il bambino non vuole semplicemente che accada qualcosa, ma desidera
condividere l’attenzione con un adulto. Perciò la tesi di alcuni studiosi, me
compreso, è che il semplice atto di indicare un oggetto a qualcun altro al solo
scopo di condividere l’attenzione verso di esso sia un comportamento
comunicativo specificamente umano [Gòmez, Serriá e Tamarit 1993], l’assenza del
quale è anche un importante criterio diagnostico della sindrome dell’autismo
infantile (Baron-Cohen 1993)» (Ibidem, p. 84).
91
Soltanto più tardi, quando il bambino riesce ad abbinare il suo
movimento per afferrare, non riuscito, alla situazione obiettiva nel suo
intero, egli comincia ad intendere questo movimento come indicare. In
questo frangente avviene un cambiamento nella funzione di quel
movimento:
da movimento orientato verso un oggetto
diventa
movimento diretto ad un’altra persona, un mezzo per stabilire dei
rapporti. Il movimento dell’afferrare si trasforma nell’atto dell’indicare.
Come risultato di questa trasformazione, il movimento stesso è quindi
semplificato fisicamente, e il risultato è la forma di indicare che
potremmo chiamare vero gesto. Diventa un vero gesto solo dopo che
manifesta obiettivamente tutte le funzioni di indicare per altri ed è dagli
altri considerato come un gesto del genere. Il suo significato e le sue
funzioni sono create dapprima da una situazione obiettiva e in seguito
dalle persone che circondano il bambino. (Vygotskji, 1978, pp. 86-87)
Il gesto dell’indicare inizia con un movimento che viene prima
compreso dagli adulti (si tratta in questo caso di ritualizzazioni
diadiche, di procedure affinché vengano fatte certe cose), e
successivamente
dal
bambino
stesso.
Questo
“gioco”
di
assegnazione dell’intenzione ai gesti e ai vocalizzi del bambino
rientra nel più vasto principio di cooperazione fra adulto e bambino,
proposto da Paul Grice71. Da una parte, la madre agisce come se il
bambino fosse consapevole e intenzionale, dall’altra, il bambino si
aspetta la “comprensione” dei suoi messaggi.
E’ questa fitta trama di reciprocità con gli stati intenzionali del partner
che costituisce l’essenza della negoziazione socio-cognitiva a livello
umano, culturale – della “sintonizzazione”, per usare un termine di Stern.
Non esiste “allo stato selvatico”, nemmeno in primati estremamente
intelligenti e socialmente sensibili come scimpanzé e orangutan.
(Bruner, 1996, p. 197).
71
«Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento
in cui avviene, dall'intento comune accettato o dalla direzione dello scambio
verbale in cui sei impegnato» (Grice, 1975, p. 55).
92
La capacità di indicare presuppone, secondo Tomasello, la
comprensione da parte del bambino dell’interlocutore come agente
intenzionale al pari del Sé72 (Tomasello, 2001). Si tratta di veri e
propri gesti comunicativi in quanto sono usati con questo tipo di
intenzione, sono convenzionali e si riferiscono a un oggetto o evento
esterno (Bates, 1979).
Un’altra mia tesi è che dovremmo considerare l’attenzione come un tipo
di percezione intenzionale (Tomasello, 1995). Gli individui scelgono
intenzionalmente di prestare attenzione a certe cose e non ad altre in
modi che sono collegati direttamente al perseguimento dei loro scopi
[…]. L’emergere pressoché simultaneo di numerosi e differenti
comportamenti di attenzione congiunta, tutti fondati, in qualche modo,
sulla comprensione delle altre persone come esseri che percepiscono,
72
Secondo Tomasello per comprendere gli altri come agenti intenzionali i bambini
fanno ricorso all’esperienza che essi hanno di se stessi «e questa esperienza del
Sé nelle prime fasi dello sviluppo va incontro a un cambiamento, in particolare per
quel che riguarda l’auto-agentività. L’ipotesi è che quando questa nuova
esperienza dell’auto-agentività emerge, emerga anche, come sua conseguenza
diretta, una nuova comprensione degli altri. Questo approccio può essere
considerato come una sorta di simulazione nella quale gli individui comprendono le
altre persone, in un certo senso, in analogia con il Sé (dal momento che gli altri
sono “come me”) in un modo che non è applicabile, almeno nello stesso senso,
agli oggetti inanimati. […].
D’accordo con Meltzoff e Gopnik, ritengo che l’emergere della comprensione da
parte dei bambini del fatto che altre persone sono “come me” sia il risultato di un
adattamento biologico peculiare dell’uomo […]. Questa comprensione è un
elemento chiave dell’emergere nei bambini, a nove mesi di età, della
comprensione degli altri come agenti intenzionali. Più precisamente, essa diventa
un elemento chiave quando fa la sua apparizione un secondo fattore, che spiega
perché l’età di nove mesi sia tanto speciale. Questo fattore è la comprensione da
parte del bambino delle proprie azioni intenzionali […] in particolare la mia ipotesi è
che quando i bambini giungono a una nuova comprensione delle proprie azioni
intenzionali essi usino il principio del “come me” per comprendere allo stesso modo
il comportamento delle altre persone. E vi sono prove del fatto che quello tra gli
otto e i nove mesi sia in effetti un momento critico per la comprensione da parte dei
bambini delle proprie azioni intenzionali» (Tomasello, 1999, pp. 93-94).
Il tipo di comprensione delle azioni intenzionali da parte del bambino cui si riferisce
Tomasello, non implica che i bambini siano in grado di concettualizzare i propri
stati intenzionali prima di poterli usare per simulare il punto di vista degli altri. «Essi
semplicemente percepiscono il modo generale di funzionare dell’altro attraverso
un’analogia col Sé, e la loro capacità di individuare un particolare stato mentale in
particolari circostanze dipende da molti fattori» (ibidem, p. 98).
93
agiscono e sono guidati da scopi […] suggerisce con forza che i
comportamenti di attenzione congiunta non siano solo moduli cognitivi
isolati o sequenze comportamentali apprese indipendentemente l’una
dall’altra. Essi sono il risultato dell’emergere della comprensione degli
altri come agenti intenzionali.
Forse nessun comportamento di attenzione congiunta, da solo, prova in
modo inequivocabile questa comprensione, ma il dato globale è
convincente – si pensi, in particolare, a quei comportamenti di
attenzione congiunta che richiedono che il bambino
determini
precisamente a che cosa l’adulto sia interessato o che cosa stia
facendo, e che dunque rivelano una chiara comprensione dell’attenzione
dell’adulto. Ma ai bambini resta da scoprire ancora molto sulle altre
persone e sul loro comportamento. In particolare nell’acquisizione delle
loro abilità di comunicazione linguistica i bambini apprendono molte
cose su come seguire e orientare – con la massima precisione –
l’attenzione dell’adulto. E, naturalmente, i bambini di un anno non sanno
abbastanza del nesso tra percezione e azione per intervenire
efficacemente nel processo – producendo, per esempio, indizi percettivi
ingannevoli che inducano gli adulti ad acconsentire ai loro desideri
(un’abilità, questa, che richiede altri due o tre anni di pratica
nell’interazione sociale). Quelli che stiamo osservando qui sono i
primissimi passi del processo. (Tomasello, 1999, p. 91)
La comparsa dell’intenzionalità (come capacità di manifestare ad altri
le proprie intenzioni e come capacità di capire che gli altri sono
agenti intenzionali) rappresenta una tappa fondamentale per lo
sviluppo
delle
funzioni
psichiche
superiori.
Essa
rafforza
l’apprendimento per imitazione (da cui deriva una sempre maggiore
convenzionalizzazione dei gesti) e favorisce la dissociazione fra
mezzi e fini, ovvero una diversa comprensione del rapporto tra
azione e risultato (Piaget, 1937).
Alla fine del primo anno di vita si assiste alla comparsa di un nuovo
tipo di gesti definiti rappresentativi o referenziali. A differenza dei
gesti deittici, questi gesti non esprimono solo un’intenzione
94
comunicativa ma anche un referente specifico, che non varia a
seconda del contesto (aprire e chiudere la mano per dire “ciao”,
scuotere la testa per dire “no”...). Sono gesti che nascono all’interno
di format interattivi con le persone che si prendono cura del bambino,
e che vengono appresi per imitazione.
Nello stesso periodo compaiono le prime parole che, al pari dei gesti,
sono all’inizio molto legate a situazioni specifiche73. Gli studi sulla
relazione tra repertorio comunicativo gestuale e vocale hanno
evidenziato che i gesti referenziali sono un fenomeno caratteristico
del primo sviluppo linguistico: fino a un anno d’età la modalità
prevalente di comunicazione è attraverso i gesti referenziali, che
vengono utilizzati per esprimere significati per i quali i bambini non
posseggono ancora le parole; quando il linguaggio verbale si
consolida e il vocabolario raggiunge le cinquanta parole, l’uso dei
gesti referenziali inizia a diminuire fin quasi a scomparire.
73
«L’età di comparsa delle prime parole varia considerevolmente ma in generale si
colloca tra gli 11 e 13 mesi di età. I bambini tendono inizialmente a parlare delle
“stesse cose”: le prime parole stanno ad indicare persone (mamma, papà, nonni,
fratelli/sorelle) e oggetti (giocattoli, cibo, vestiario) familiari, oppure azioni che il
bambino compie abitualmente (dormire, salutare, leggere, nascondere, affermare,
negare). […]. Tutte queste parole vengono usate in contesti specifici ritualizzati,
sono cioè legate alle situazioni e agli eventi che servono a significare
(“contestualizzate”). È utile differenziare questo uso non referenziale delle parole
da un uso referenziale, che compare più tardi ed è legato alla capacità del
bambino di comprendere il carattere arbitrario della relazione tra suono e
significato (Camaioni, Volterra e Bates 1986). Ad esempio, la parola “ciao” all’inizio
accompagna il gesto di abbassare la cornetta del telefono, mentre in seguito il
bambino la utilizza ogni volta che qualcuno se ne va. Analogamente “mamma”
funziona spesso come una richiesta generica e “papà” viene usato soltanto in
situazioni specifiche (ad esempio, quando il padre ritorna a casa dal lavoro) o nel
contesto di giochi particolari. In seguito queste parole vengono usate in modo
referenziale, ovvero per nominare e chiamare la madre o il padre in una varietà di
situazioni.
Questo fenomeno di progressiva decontestualizzazione lo si trova anche nella
comprensione del linguaggio. Intorno agli 8-10 mesi il bambino comprende
semplici frasi dell’adulto soltanto in contesti specifici (ad esempio risponde al
proprio nome o ad ordini del tipo “no!”, “non si fa!”), e all’interno di routine (“batti le
manine”, “fai ciao”) in cui esegue l’azione richiesta.
La comprensione precede e influenza la produzione linguistica, nel senso che il
bambino comprende espressioni che soltanto in un secondo momento sarà capace
di produrre spontaneamente» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 137-138).
95
Nei mesi successivi la produzione vocale aumenta considerevolmente,
cosicché a sedici mesi il numero di gesti e di parole prodotte è circa lo
stesso.
Dopo questa età l’uso di gesti referenziali decresce, mentre il numero di
parole continua a crescere, cosicché le due modalità comunicative dopo
uno sviluppo parallelo si differenziano, e la modalità vocale prevale su
quella gestuale. Ciò dipende anche dal fatto che l’ambiente offre al
bambino più modelli vocali che gestuali e apprezza i primi assai più che i
secondi. (Camaioni – Di Blasio, 2002, p. 137).
Lo sviluppo del linguaggio prende dunque avvio dalla comparsa
dell’intenzionalità e da una sempre maggiore articolazione della
comunicazione non verbale (accompagnati da un contemporaneo
sviluppo dell’apparato fonatorio).
Le prime scene di attenzione congiunta corrispondono ai primi
episodi di «sintonizzazione intenzionale dell’attenzione del novizioapprendista con movimenti degli altri» (Ingold, 2001, p. 151) in
contesti sociali interattivi. Nello sviluppo delle diverse abilità
l’ambiente fornisce quelle condizioni variabili per la crescita delle
strutture neurofisiologiche che sottendono le diverse capacità
(motorie, percettive, linguistiche…).
La comprensione umana dei conspecifici come esseri intenzionali si
sviluppa progressivamente nel corso dell’ontogenesi e porta il
bambino alla formulazione, all’età di quattro anni, della cosiddetta
teoria della mente (altrui)74 come capacità specie-specifica di
attribuire stati mentali alle altre persone. Questo fatto ha molti e
profondi effetti sul modo in cui i bambini interagiscono tra di loro e
con gli adulti75.
74
Per un’esaustiva rassegna dei più recenti contributi sullo studio dello sviluppo di
teorie della mente cfr. Liverta Sempio, - Marchetti, 1995.
75
«Se nei primi mesi di vita il bambino si mette in relazione con l’adulto come un
soggetto animato e se all’età di un anno lo considera come un soggetto
intenzionale, soltanto verso i tre o quattro anni egli è in grado di trattarlo come
soggetto mentale. Considerare l’altro come un soggetto mentale significa
96
Nel presente contesto, il più importante di questi effetti è quello di
permettere al bambino di accedere alle forme di eredità culturale
peculiari dell’uomo. Un bambino che comprenda che le altre persone
hanno relazioni intenzionali con il mondo, può trarre profitto dai modi in
cui gli altri individui cercano di conseguire i propri scopi. I bambini, a
questo punto dello sviluppo, sono in grado di cogliere la dimensione
intenzionale degli artefatti usati dalle persone come mediatori delle loro
strategie attentive e comportamentali nelle specifiche situazioni in cui
esse perseguono i loro scopi. (Tomasello, 1999, p. 101).
attribuirgli credenze, modelli interpretativi e punti di vista che possono essere
diversi dai propri.
La teoria della mente (ToM) va intesa come la capacità di “leggere” la mente degli
altri (mindreading), nonché d’interpretare, spiegare e prevedere le loro azioni,
attribuendo a essi stati e processi mentali quali desideri, modelli interpretativi,
credenze e intenzioni. La ToM è stata illustrata secondo diversi modelli. Fra gli
altri, l’approccio modularista considera la mente come un insieme di moduli
specializzati e indipendenti, di natura obbligatoria e impenetrabili alla coscienza,
ritenendo il “sistema per leggere la mente” come innato e composto da diversi
sottosistemi (Baron-Cohen, 1995).
Al contrario, il modello della teoria delle teorie prevede che lo sviluppo della ToM
avvenga secondo i principi generali sottesi alla costruzione di una qualsiasi teoria
scientifica, attraverso l’elaborazione di previsioni, supposizioni, modelli
interpretativi, ecc. (Gopnik e Meltzoff, 1997). A sua volta, secondo il modello della
simulazione la ToM si sviluppa grazie alla capacità di assumere il punto di vista
degli altri: la propria esperienza, a guisa di un simulatore, diventa il modello per
infierire informazioni sugli stati interni altrui.
Quest’ultimo modello merita di essere approfondito. La comprensione degli stati
mentali altrui si sviluppa nel bambino insieme alla capacità di assumere il loro
punto di vista a livello cognitivo. La conoscenza psicologica e sociale è molto
diversa dalla conoscenza fisica; vanno quindi previsti meccanismi esplicativi
differenti. […].
Una conferma neurofisiologica importante a questo modello deriva dalla scoperta e
dallo studio dei neuroni specchio, che si trovano nella porzione rostrale della
corteccia premotoria ventrale e che si attivano sia durante l’esecuzione di azioni
nella manipolazione di oggetti, sia durante la semplice osservazione di azioni
analoghe eseguite da parte di un altro (Rizzolatti, 2005; Rizzolatti, Fogassi e
Gallese, 2001). In questo caso tali neuroni si eccitano come se fosse l’organismo
stesso a eseguire i movimenti. In altri termini, l’osservazione di un’azione implica la
simulazione della medesima. Pertanto la comprensione degli stati mentali degli altri
si fonda sulla possibilità di stabilire un’equivalenza motoria fra ciò che fanno gli altri
e ciò che fa l’osservatore e sul principio conseguente della somiglianza degli altri a
sé. Questa forma di empatia vale anche per le emozioni e le sensazioni […]. Per
tale ragione, sulla base di quest’architettura nervosa, è corretto parlare di un
sistema multiplo di condivisione dell’intersoggettività e dei processi culturali che ci
consente di riconoscere gli altri come simili a noi» (Anolli, 2006a, pp. 74-75).
97
1.2.2
La mediazione attraverso artefatti
L’importante intuizione che i teorici storico-culturali condividono è che
la vita umana prende forma e si sviluppa pienamente in un ambiente
unico,
che
include
l’insieme
degli
artefatti
(ideali/materiali)76
accumulati dal gruppo sociale nel corso del suo sviluppo storico. La
caratteristica della nostra specie riguarda la capacità di svilupparsi
all’interno di tale ambiente e di provvedere alla sua riproduzione di
generazione in generazione.
La presenza di stimoli creati accanto a quelli dati è, a nostro parere, la
caratteristica distintiva della psicologia dell’uomo.
Noi chiamiamo “segni” questi “stimoli-mezzi” artificiali introdotti dall’uomo
nella situazione e svolgenti una funzione di autostimolazione. A questo
termine diamo un senso più ampio e al tempo stesso più preciso di
quello che ha nell’uso abituale. In base a questa nostra definizione,
dunque, ogni stimolo condizionato creato dall’uomo e assunto come
mezzo per dirigere il proprio o l’altrui comportamento è un segno.
(Vygotskij, 1930-31, p. 123).
76
«Un artefatto è un aspetto del mondo materiale che è stato modificato durante la
storia della sua incorporazione nell’azione umana rivolta ad un obiettivo. In virtù dei
cambiamenti prodotti nel processo della creazione ed uso, gli artefatti sono
simultaneamente ideali (concettuali) e materiali. Sono ideali in quanto la loro forma
materiale è stata modellata dalla loro partecipazione alle interazioni di cui hanno
prima costituito una parte che ora invece mediano.
Così definite le proprietà degli artefatti si applicano con egual forza sia che si
consideri il linguaggio, sia forme più usuali di artefatti, come tavoli e coltelli, che
sono parte della cultura materiale. Ciò che differenzia la parola “tavolo” da un
tavolo reale è l’importanza relativa degli aspetti materiali e ideali e dei tipi di
coordinazione che permettono. Nessuna parola esiste indipendentemente dalla
sua istanza materiale (come, ad esempio, una configurazione di onde sonore, i
movimenti delle mani, la scrittura o l’attività neuronale), mentre ogni tavolo
personifica un ordine imposto degli esseri umani pensanti […].
Si noti che, in questo modo di pensare, la mediazione degli artefatti si applica
egualmente agli oggetti e alle persone. Ciò che differisce nei due casi sono il modo
in cui idealità e materialità sono fusi fra i membri di queste due categorie
dell’essere e i tipi di interattività di cui sono capaci.
Questa concezione afferma anche l’unità primordiale del materiale e del simbolico
nei processi cognitivi umani» (Cole, 1996, pp. 109-110).
98
La creazione e l’uso di segni (o, se si preferisce, di artefatti) impone
all’uomo la significazione come nuovo principio regolativo del
comportamento, che si affianca e specializza il più primitivo sistema
di segnalazione (caratteristico del mondo animale) da cui deriva.
L’esperienza dell’uomo è mediata dagli artefatti, che si pongono tra il
soggetto che conosce e l’oggetto della sua conoscenza, creando un
nuovo tipo di adattamento.
Gli artefatti non esistono in modo isolato, ma sono connessi tra loro e
con la vita sociale in modo più o meno organico.
Cole (1996), riprendendo una proposta fatta da Marx Wartofsky
(1973) che descriveva gli artefatti (includendo strumenti e linguaggio)
come delle «oggettivazioni delle esigenze e delle interazioni umane
già investite di contenuto cognitivo ed emotivo», sviluppa la nozione
di artefatto distinguendone tre categorie (Wartofsky, cit. in, Cole,
1996, p. 113).
Gli artefatti primari sono quelli impiegati direttamente per l’attività
umana. «Gli artefatti primari sono strettamente connessi al concetto
di
artefatto
come
materia
trasformata
dall’attività
umana
antecedente, sebbene io non faccia una distinzione, fra produzione
di beni materiali e produzione di vita sociale in generale». (Ibidem).
Gli artefatti primari consistono dunque in strumenti e dispositivi che i
soggetti di una data comunità usano abitualmente per interagire tra
loro e con l’ambiente (dal martello ai nuovi mezzi di comunicazione)
e costituiscono la “cultura materiale”.
Gli artefatti secondari sono delle rappresentazioni degli artefatti
primari e dei modi di azione ad essi associati: consistono in modelli
mentali e simbolici, intesi sia come schemi cognitivi impiegati per
rappresentare gli oggetti sia come aspetti più astratti (norme,
credenze tradizionali, le costituzioni…) presenti nell’interazione
sociale.
99
Un tipo importante di questi artefatti sono i modelli culturali, che
“riproducono non solo il mondo degli oggetti fisici, ma anche mondi più
astratti come l’interazione sociale, il discorso e anche il significato delle
parole” (D’Andrade, 1984). (Cole, 1995, p. 191).
Gli artefatti secondari giocano un ruolo centrale nel preservare e
trasmettere forme di azione e credenze culturali; essi costituiscono la
cosiddetta “cultura ideale”.
Gli artefatti terziari è una classe di artefatti
che può arrivare a costruire “un mondo” relativamente autonomo, in cui
le regole, le convenzioni e gli esiti non sembrano più direttamente pratici
o sembrano persino costituire una sfera di attività non pratica, o di gioco
“libero”. (Cole, 1996, p. 113).
Rientrano in questo ambito i diversi fenomeni e processi artistici nelle
loro diverse espressioni creative; qui siamo in presenza della “cultura
espressiva”.
Gli artefatti occupano una posizione di mediazione tra l’uomo e
l’ambiente, poiché essi non solo sono dati, ma l’ambiente culturale
ne organizza l’uso in attività specifiche (da cacciare a cucinare a
lavorare il legno a pianificare il futuro…). La mediazione è un
processo attivo che contribuisce in modo rilevante a organizzare,
gestire e controllare le attività e le interazioni fra le persone. Gli
artefatti giocano un ruolo essenziale nel dare forma all’azione, ma
non la determinano in modo automatico: essi esercitano la loro
efficacia solo quando le persone li usano in modo appropriato. Vanno
intesi come convenzioni e costituiscono pratiche sociali che si
trovano, nello stesso tempo, sia all’interno della mente sia all’esterno
nel contesto pubblico.
100
Grazie agli artefatti il rapporto tra soggetto e ambiente è reso culturale.
La presenza di un’azione mediata, tuttavia, non significa che il percorso
di mediazione sostituisca quello naturale […].
Come esito di questa condizione si crea un’interdipendenza costante tra
le possibilità di una data azione, l’impiego appropriato degli strumenti
attualmente a disposizione, il loro continuo miglioramento e l’invenzione
di nuovi strumenti che vengono ad aumentare le potenzialità dell’azione
medesima. Su tale interdipendenza si fonda il progresso della
tecnologia, che costituisce un fattore non secondario di evoluzione delle
singole culture, a qualunque livello si collochino.
L’inserimento di nuovi strumenti culturali nell’attività di mediazione
inevitabilmente la trasforma .[…]. La mediazione svolta dalla cultura è
universale e trasversale in quanto investe tutti gli ambiti dell’esistenza
umana, da quelli alimentari a quelli medici e biologici, a quelli religiosi e
politici, sociali, ludici e artistici […].
La cultura appare dunque come una lente incorporata in noi che distorce
la percezione e la valutazione di qualsiasi evento. Si tratta di una lente di
cui non ci rendiamo conto fino a quando non incontriamo culture di altre
comunità che fanno riferimento ad artefatti diversi. Tali differenze fanno
emergere (a volte in modo repentino) la coscienza della propria
appartenenza culturale, il senso della propria identità culturale, nonché
la distanza da altre culture (Anolli, 2006a, pp. 18-19).
In generale con il termine «esperienza di apprendimento mediata» si
indica il modo in cui gli stimoli ambientali sono trasformati da un
«agente mediatore» sulla base di intenzioni, orientamenti culturali,
investimenti
affettivi
attraverso
procedure
di
selezione
e
organizzazione che fanno leva su frame, funzioni di filtraggio e di
modulazione. Se le esperienze di esposizione diretta agli stimoli
sollecitano l’attivazione di determinati processi cognitivi, l’esperienza
di apprendimento mediato dai diversi artefatti in uso presso la cultura
cui si appartiene, rappresenta il fondamento su cui si costruiscono le
“strutture” cognitive individuali e, pertanto, riveste un ruolo essenziale
nella loro emergenza e sviluppo.
101
Infatti l’incorporazione di artefatti nell’uso permette e allo stesso tempo
impone una riorganizzazione percettiva e motoria nell’interazione con
l’ambiente, come anche una ripianificazione delle azioni e delle relazioni
sociali. Da sempre, in realtà, gli artefatti rientrano nell’attività cognitiva e
trasformativa umana e si trovano sempre incorporati in sistemi socioculturali di ampio respiro che organizzano le pratiche in cui vengono
utilizzati (Hutchins 1993). (Grasseni – Ronzon, 2004, p. 156).
Questa nuova relazione strutturale dell’individuo con l’ambiente è
stata tradizionalmente rappresentata dai teorici dell’approccio
storico-culturale con un triangolo, come nella Fig.1.
Figura 1: triangolo della mediazione in cui soggetto (S) e oggetto (O) sono visti non
solo “direttamente” connessi, ma anche, al tempo stesso, “indirettamente” connessi
attraverso il medium costituito dagli artefatti (X).
Le funzioni «naturali» («non mediate»; «rudimentali») sono quelle
lungo la base del triangolo che corrispondono alla classica situazione
“stimolo-risposta”
(S-X)77;
le
funzioni
77
«superiori»,
«culturali»
«Bisogna sottolineare che ciò che si considera “diretto” non può essere
adeguatamente concepito come “naturale”. Piuttosto la via “diretta”, come quella
mediata, dipende da un ambiente modificato da (antecedenti) azioni umane che
hanno avuto successo ed è fino a questo livello intrisa da interazioni umane. Di
102
(«mediate») sono quelle in cui i rapporti tra soggetto e ambiente (tra
soggetto e oggetto, stimolo e risposta…) sono mediati da una
qualche forma di artefatto (S-X-R), cui Vygotskij e colleghi si sono
riferiti con il termine «strumenti-stimolo»; «mezzi ausiliari»; «segnali
artificiali» o, più semplicemente «strumenti»78.
Un esempio tipico riportato da Vygotskij per esemplificare la
relazione tra operazioni mediate e naturali, è il nodo al fazzoletto per
ricordare.
Se si riflette sul fatto che, praticando un nodo per ricordare, in sostanza
l’uomo costruisce un processo della memoria all’esterno, costringe un
oggetto esterno a ricordargli un incarico da compiere, o meglio
esteriorizza un suo processo interiore trasformandolo in un’attività
esteriore, se si pensa dunque a ciò che di fatto si verifica in tutti questi
casi, già questo fatto stesso ci potrà dare un’idea del carattere affatto
particolare delle forme superiori del comportamento. In un caso ci
troviamo di fronte a qualcosa che viene ricordato, nell’altro a un uomo
che ricorda qualcosa. In un caso il legame temporaneo s’instaura grazie
alla coincidenza di due stimoli che agiscono contemporaneamente
sull’organismo; nell’altro l’uomo crea egli stesso un nuovo legame
temporaneo nel cervello mediante il collegamento artificiale di due
stimoli. (Vygotskij, 1930-31, pp. 132-133).
conseguenza, ciò a cui i primi teorici storico-culturali si sono riferiti con il nome di
processi “diretti, naturali” deve essere messo tra virgolette, per ricordarci che il
mondo fisico è il mondo-come-condizionato dalla cultura e non in maniera totale,
“dato naturalmente” (Sahlins, 1976)» (Cole, 1995, cit., p. 100).
78
L’invenzione e l’uso di segni come mezzi ausiliari per risolvere determinati
compiti psicologici presenta un’analogia con l’uso degli strumenti materiali che
l’uomo, nel corso dello sviluppo storico, ha inventato e utilizzato per il suo
adattamento all’ambiente. Pertanto Vygotskij (1930-31, 1978) parla di una funzione
strumentale del segno. Sia lo strumento che il segno hanno in comune la funzione
di mediazione e possono essere ricondotti ad un’unica categoria. Una differenza
tra segno e strumento, su un piano puramente logico, riguarda il fatto che lo
strumento orienta il comportamento verso l’esterno (portando trasformazioni negli
oggetti cui è rivolto), mentre il segno è un mezzo di attività orientato internamente
che mira a padroneggiare il comportamento. «Vorrei soltanto dire che nessuno dei
due, in qualsiasi circostanza può essere considerato isomorfo rispetto alle funzioni
che compie, e che essi non possono neppure spiegare in modo del tutto
esauriente il concetto di attività mediata. Si potrebbero nominare moltissime altre
attività mediate; l’attività cognitiva non si limita all’uso di strumenti o di segni»
(Vygotskij, 1978, cit., pp. 84-85).
103
La comparsa e l’uso di strumenti non sostituisce la forma “naturale”
di comportamento; piuttosto l’incorporazione di strumenti nell’attività
crea una nuova relazione strutturale in cui le vie culturali (mediate) e
naturali (non mediate) operano sinergicamente.
Nella storia dello sviluppo culturale del bambino incontriamo il concetto
di struttura due volte: innanzitutto nel momento iniziale come punto di
partenza del processo stesso; in secondo luogo quando bisogna
interpretare il processo dello sviluppo culturale come la trasformazione
di questa prima struttura iniziale e la nascita di nuove strutture sulla sua
base, caratterizzata da una nuova correlazione tra le parti. Chiamiamo
primitive le prime strutture; si tratta di una totalità psicologica naturale
determinata soprattutto dalle caratteristiche biologiche dello psichismo.
Chiameremo le seconde, che sorgono nel processo dello sviluppo
culturale, strutture superiori, in quanto rappresentano delle forme di
comportamento geneticamente più complesse e più alte. […].
Nella struttura superiore il fine funzionale determinante, o fuoco, di tutto
il processo, è il segno e il modo in cui lo si impiega. Così come l’impiego
di un determinato strumento determina tutta la struttura di un’attività
lavorativa, allo stesso modo il carattere del segno impiegato è quel
momento fondamentale da cui dipende la costruzione di tutto il
rimanente processo. Cosicché il rapporto fondamentale che sta alla
base della struttura superiore è una particolare forma di organizzazione
di tutto il processo, consistente nel fatto che l’intero processo si
costruisce mediante l’introduzione nella situazione di stimoli artificiali noti
che svolgono la funzione di segni 79.
79
Vygotskij, 1930-31, pp. 166-168. Scrive a proposito Damasio: «l’essere umano
[è] un organismo che viene dato alla vita dotato di meccanismi autonomi di
sopravvivenza, al quale l’educazione e l’acculturazione apportano un insieme di
strategie di decisione socialmente ammissibili e desiderabili, che a loro volta
rafforzano la sopravvivenza, ne migliorano la qualità e servono da base per la
costruzione di una persona. Alla nascita, il cervello umano comincia a svilupparsi
dotato di pulsioni e istinti che comprendono non solo un corredo fisiologico per la
regolazione del metabolismo, ma anche dispositivi di base per rafforzare
comportamento e cognizione sociale. Dallo sviluppo dell’età infantile esso emerge
dotato di ulteriori livelli di strategie di sopravvivenza: la base neurofisiologica di tali
strategie aggiunte è intrecciata con quella del repertorio degli istinti, e non solo ne
104
Struttura primaria (come processo di crescita e maturazione
organica) e secondaria (lo sviluppo culturale) non si avvicendano
nell’ontogenesi, ma sono contemporanei: la distinzione è, di fatto,
un’astrazione,
un
modo
per
descrivere
un
processo
molto
complesso. Le due serie di cambiamento confluiscono l’una nell’altra
e costituiscono quell’unico processo che è la formazione della
personalità biologico-sociale del bambino80.
Accanto ad una specie di “dispositivo innato” per l’apprendimento si
pone altresì un “sistema di supporto”; tale sistema è fornito dal
mondo sociale ed è in qualche modo, ma regolarmente, in armonia
con il sistema di apprendimento del bambino.
È tale sistema di supporto all’apprendimento che aiuta il bambino ad
attraversare le zone di sviluppo prossimale fino a conseguire il
controllo completo e consapevole dell’uso degli strumenti e, di
modifica l’uso, ma ne estende anche la portata. Nel loro disegno formale
d’assieme, i meccanismi neurali su cui poggia il repertorio sopraistintivo possono
essere simili a quelli che governano le pulsioni biologiche, e da queste possono
essere vincolati. Tuttavia essi richiedono l’intervento della società, per diventare
ciò che verranno, e perciò hanno riferimento sia in una data cultura sia nella
neurobiologia generale. Inoltre, fuori da questa doppia costrizione, le strategie di
sopravvivenza di quel repertorio generano qualcosa che probabilmente è proprio
solo degli esseri umani: un punto di vista morale, che all’occasione, può
trascendere gli interessi del gruppo ristretto, e anche quelli della specie»
(Damasio, 1994, pp. 185-186).
80
Per spiegare questo meccanismo Vygotskij riprende da Jennings il concetto di
sistema di attività. L’uomo, come ogni altra specie, dispone di forme e modi di
comportamento (attività) che costituiscono un sistema condizionato dagli organi e
dalla loro stessa organizzazione sistemica.
Scrive Vygotskij: «l’ameba, per esempio, non può nuotare come l’infusore e
l’infusore non possiede un organo per spostarsi volando. Partendo da questo
concetto, estremamente importante in campo biologico, gli studiosi della psicologia
del bambino sono giunti ad individuare un momento decisivo, di frattura, nello
sviluppo del neonato. L’individuo umano non fa eccezione alla legge generale di
Jennings. Anch’esso possiede un sistema di attività, che pone entro certi limiti il
suo sistema di comportamento. In questo sistema non rientra, per esempio, la
possibilità di volare. L’uomo però supera tutti gli animali per la possibilità illimitata
che ha di ampliare, mediante strumenti, il raggio della sua attività. Il suo cervello e
la sua mano hanno reso illimitatamente ampio il sistema delle sue attività e cioè il
campo delle forme di comportamento accessibili. Perciò il momento decisivo nello
sviluppo del bambino, che definisce il campo delle forme di comportamento a lui
accessibili, è costituito dal primo passo verso un’interdipendente utilizzazione e
invenzione degli strumenti, che, nel bambino, avviene al termine del primo anno di
vita» (Vygotskij, 1930-31, pp. 70-71).
105
conseguenza,
del
proprio
comportamento.
Esso
opera
intenzionalmente scelte orientative per innescare processi di
apprendimento e per costruire le coordinate all’interno delle quali
inscrivere gli apprendimenti futuri mediante una selezione degli input
ambientali adeguati, una loro organizzazione sequenziale, la
ricognizione di stimoli specifici, la ripetizione e la variazione delle
sollecitazioni.
E’ attraverso gli altri che i bambini vengono a contatto con cornici
concettuali, categorie interpretative e coordinate cognitive che,
progressivamente, acquisiscono ed interiorizzano come proprie, per
poterle
utilizzare
successivamente
in
modo
autonomo
nell’organizzazione e selezione degli stimoli ambientali. In questo
senso, il mondo sociale ha un importantissimo ruolo formativo,
perché fornisce al bambino strumentalità cognitive e trame di
significati in cui inscrivere ed organizzare esperienze e conoscenze.
L’importante implicazione finale del principio della mediazione
culturale è che gli esseri umani, compresi quelli delle generazioni
precedenti, giocano un ruolo cruciale nella formazione delle capacità
cognitive del bambino: poiché egli nasce in una condizione di
inettitudine, in un ambiente umano socialmente organizzato e
culturalmente mediato, il suo pensiero deriva dalla propria natura
sociale (Cole, 1995).
Questo rilievo è assunto nella legge generale dello sviluppo che, lo
ricordiamo, sostiene che ogni funzione psichica superiore appare
prima sul piano sociale del funzionamento interpsicologico, cioè nello
scambio di significati tra individui, e solo in un secondo tempo su
quello mentale del funzionamento intrapsicologico.
Uno dei percorsi principali dello sviluppo culturale è l’imitazione degli
adulti,
che
consente
al
bambino
di
entrare
nello
«spazio
intenzionale», nella dimensione «ideale» degli artefatti81. A partire
81
Esiste una notevole differenza tra l’imitazione caratteristica dei primati e quella
degli esseri umani. Riprendendo gli studi condotti da Köhler sull’imitazione degli
scimpanzé Vygotskij sostiene che “l’imitazione” è possibile soltanto nella misura in
106
dal primo anno di vita, il bambino si impegna con assiduità crescente
nella riproduzione dell’uso intenzionale degli artefatti passando da un
rapporto prevalentemente “sensomotorio-manipolativo” dominato
dalla percezione, ad un rapporto basato principalmente sulla
prospettiva e sulla ricognizione degli aspetti intenzionali degli
artefatti, sul loro significato82.
In questo processo di apprendimento imitativo, è come se il bambino si
unisse all’altra persona nel dichiarare “per” quale scopo “noi” usiamo
questo oggetto: usiamo i martelli per dare martellate e le penne per
scrivere. In tal modo, il bambino giunge a vedere in alcuni artefatti e
oggetti culturali, oltre alle loro proprietà sensomotorie, anche quelle che
potremmo chiamare proprietà intenzionali, che sono basate sulla
comprensione delle relazioni intenzionali che le altre persone hanno con
cui si accompagna alla comprensione; dallo studio dell’imitazione è inoltre
possibile stabilire il livello delle azioni accessibili all’intelletto dell’animale da un lato
e del bambino dall’altro. «Ricercando i limiti dell’imitazione possibile a un
determinato animale, indaghiamo anche i limiti del suo intelletto. L’imitazione è
perciò un metodo d’indagine estremamente attendibile soprattutto in campo
genetico. Se vogliamo sapere quanto un determinato intelletto è maturo per una
data funzione, possiamo studiarlo attraverso l’imitazione». (Vygotskij, 1930-31, p.
184). Nel caso di primati sarebbe più corretto parlare di emulazione piuttosto che di
imitazione, in quanto il comportamento riproduttivo non implica la comprensione
delle intenzioni di colui che si sta “imitando” (Tomasello,1999).
82
Un aspetto particolare della percezione umana (che compare molto presto) è,
secondo Vygotskij, la percezione degli oggetti reali ovvero la percezione non solo
di colori e forme degli oggetti, ma del loro significato. Essa è caratteristica
dell’uomo e non avrebbe nessuna analogia nel mondo animale.
«Gli esseri umani non vedono soltanto qualcosa di rotondo e nero con due
lancette, vedono un orologio e possono distinguere una lancetta dall’altra. Quindi
la struttura della percezione umana si potrebbe esprimere figurativamente con un
rapporto in cui l’oggetto è il numeratore e il significato è il denominatore
(oggetto/significato). Questo rapporto simbolizza l’idea che tutta la percezione
umana è composta di percezioni generalizzate piuttosto che isolate. Per il bambino
l’oggetto domina nel rapporto oggetto/significato e il significato è subordinato»
(Vygotskij, 1978, pp. 143-144).
Nel corso dello sviluppo il rapporto tra l’oggetto e il suo significato è destinato a
rovesciarsi (questo processo è favorito, come vedremo, dall’uso del linguaggio) e il
significato è destinato a dominare la relazione oggetto/significato. Sinteticamente
potremmo schematizzare lo sviluppo della percezione come segue: percezionemanipolazione dell’oggetto; oggetto/significato come scoperta della relazione duale
della rappresentazione e del significato intenzionale degli artefatti;
significato/oggetto come dominio del significato sulla percezione e uso
consapevole dei simboli.
107
quell’oggetto o artefatto – cioè le relazioni intenzionali che le altre
persone hanno con il mondo attraverso l’artefatto. (Tomasello, 1999, p.
108).
Ciò è particolarmente evidente nei primi giochi di finzione durante i
quali i bambini estraggono le proprietà intenzionali di vari oggetti (i
loro «significati» nella terminologia utilizzata da Vygotskij) e le usano
per giocare, andando oltre le proprietà percettive degli oggetti
stessi83.
Ci sembra interessante segnalare che, contrariamente a quanto
sostenuto da Piaget (1945), lo stesso atteggiamento ludico non è
innato, ma deriva dalle prime interazioni ludiche tra adulto e bambino
durante i primi mesi di vita (Spiz, 1958; Winnicott, 1971; Schaffer,
83
«Nel gioco le cose perdono la loro forza determinante. Il bambino vede una cosa
ma agisce in modo diverso in relazione a quel che vede. Quindi è raggiunta una
condizione in cui il bambino comincia ad agire indipendentemente da quello che
vede. Certi pazienti con il cervello leso perdono la capacità di agire
indipendentemente da ciò che vedono. Nel considerare tali pazienti ci si può
rendere conto che la libertà di azione di cui godono gli adulti e i bambini più maturi
non è acquisita in un baleno ma deve passare attraverso un lungo processo di
sviluppo.
L’azione in una situazione immaginaria insegna al bambino a guidare il suo
comportamento non solo secondo la percezione immediata degli oggetti e la
situazione che lo colpisce immediatamente ma anche secondo il significato della
situazione. […].
Nel gioco il pensiero è separato dagli oggetti e l’azione nasce dalle idee più che
dalle cose: un pezzo di legno inizia ad essere una bambola e un bastone diventa
un cavallo. L’azione che segue delle regole comincia ad essere determinata dalle
idee e non dagli oggetti stessi» (Vygotskij, 1978, pp. 142-143).
Lo stesso Piaget a proposito del gioco infantile e in particolare del gioco del fare
finta, sostiene che esso marchi in maniera cruciale una tappa dello sviluppo in
quanto il piccolo, usando gli oggetti simbolicamente, dimostra di essere in grado di
distinguere tra la cosa immediatamente percepita e la rappresentazione della cosa,
la quale è semplicemente evocata. «In quanto implicante la rappresentazione, il
gioco simbolico non esiste presso l’animale e non appare che nel secondo anno
dello sviluppo infantile. […] Il simbolismo inizia, di fatto, con le condotte individuali
che rendono possibile l’interiorizzazione dell’imitazione (sia delle cose che delle
persone)» (Piaget, 1945, pp. 164-165).
L’emergere del gioco di finzione e del gioco simbolico, meriterebbe indubbiamente
una trattazione a parte, data l’importanza che esso riveste nel sostenere
l’emergere del pensiero simbolico del bambino. Per una trattazione esaustiva
sull’argomento e la ricchezza dei contributi bibliografici cfr. Bondioli 1989, 1996.
108
1977; Bondioli, 1987; Sutton-Smith 1979; Tomasello, Striano, Rochat
1999).
Gli studi relativi alle interazioni ludiche adulto-bambino mostrano che
gli interscambi giocosi tra madre e bambino sono canali di
trasmissione dell’atteggiamento ludico, ovvero di un orientamento
non letterale, simulativo nei confronti del mondo.
Ciò che il bambino comprende in queste interazioni – il “senso” o la
lezione che ne ricava – è che, tra i molti modi in cui le cose possono
essere fatte e le azioni compiute, ve ne è uno secondo il quale esse
vengono fatte per il piacere di farle o per il reciproco piacere di farle
(Bondioli, 1996, p. 105).
La scena di attenzione congiunta creata dall’interazione ludica viene
inscritta all’interno di una cornice particolare che, seguendo Gregory
Bateson, marca le azioni in senso ludico: «le azioni che in questo
momento stiamo compiendo non denotano ciò che denoterebbero le
azioni per cui esse stanno»84.
84
Bateson, 1972, p. 219. Per Bateson il gioco è soprattutto una questione di
comunicazione che riguarda non tanto il contenuto dei messaggi, ma come essi
vengono interpretati. L’interpretazione comporta che azioni, gesti e parole siano
incorniciate: la cornice in cui esse sono collocate ne permette l’assegnazione del
significato. Il gioco è un esempio di distinzione di tipi logici – mappa/territorio –
distinzione che consente di contestualizzare gesti e parole. «Gioco non è il nome
di un atto o di un’azione; è il nome di una cornice per l’azione» (Bateson, 1979, p.
187). Quando si gioca si compiono gesti e azioni reali ma per comprendere il loro
significato occorre fare un salto logico, scoprire e comprendere la cornice che li
rende comprensibili. L’inquadramento è collegato a «premesse», cioè a regole di
interpretazione di ciò che è dentro la cornice. Ogni inquadramento è perciò
metacomunicativo.
La “definalizzazione” del gioco, che rimanda ad attività finalizzate ma ne modifica il
senso, non comporta, secondo Bateson, che esso non sia possibile di
apprendimento ma solo che il tipo di apprendimento che esso inaugura è di ordine
diverso da quello messo in atto quando ad esempio si impara ad andare in
bicicletta o a preparare un pasto. In Verso un’ecologia della mente Bateson lo
indica come apprendimento 2, in Mente e natura come deutero-apprendimento: «io
sostengo che esiste un apprendimento del contesto, un apprendimento che è
diverso da ciò che vedono gli sperimentatori, e che questo apprendimento del
contesto scaturisce da una specie di descrizione doppia che si accompagna alla
relazione e all’interazione (Ibidem, p. 181). Ciò che viene appreso è la possibilità
stessa di istituire mappe e territori; giocare non significa comportarsi secondo ruoli
e regole, ma istituirli, e l’atto stesso di farlo comporta apprendimento circa il fatto
che l’esperienza si organizza in termini di tipi e categorie di comportamenti.
109
L’adulto, nell’interagire ludicamente con il bambino inizialmente
“gioca” per il bambino, più che con il bambino (allo stesso modo in
cui inizialmente parla per piuttosto che con il bambino all’interno dei
primi format interattivi), istituendo la cornice ludica e dirigendo
l’avvenimento; progressivamente il bambino imparerà a giocare i
diversi ruoli che caratterizzano la situazione ludica diventando
sempre più attivo e prendendo sempre più l’iniziativa85. In questa
prospettiva il gioco solitario del bambino piccolo con gli oggetti non è
la prima forma di gioco ma una riproduzione, un’imitazione differita,
con le cose, dei giochi che l’adulto ha fatto con lui86.
Giocando si apprende ad apprendere: è questo il significato di deuteroapprendimento.
La congiunzione del modello di Vygotskij con quello di Bateson può risultare
proficuo nella misura in cui anche Bateson sottolinea il carattere intrinsecamente
relazionale dell’apprendimento, che comporta un’interpretare l’esperienza secondo
quadri appresi in contesti di comunicazione e interazione. Imparare a giocare, così
come imparare il significato degli «strumenti» significa apprendere che del mondo
possono darsi diverse interpretazioni.
85
«Riassumendo possiamo dire che le funzioni svolte dall’adulto come “iniziatore”
ludico sono le seguenti:
- l’adulto inizialmente crea la cornice ludica e esegue un gioco (iniziatore ludico);
- l’adulto rinforza i comportamenti del bambino trasformando atti senza significato
in atti aventi un significato ludico;
- il comportamento dell’adulto è contingente rispetto a quello del piccolo; l’adulto
assume i ruoli ludici non svolti dal bambino ed è pronto a modificarli in funzione
della progressiva capacità del bambino di assumerli e di attivare nuove forme di
gioco;
- l’adulto accetta di non essere l’unico “compagno” di giochi del bambino e si fa
“tramite” della relazione del bambino con altri bambini.
Come conseguenza il piccolo diventa sempre più attivo nel gioco condiviso:
a) inizialmente si mostra attento e divertito quando la madre gioca con lui;
b) tra i 7 e i 10 mesi mostra di comprendere la struttura di semplici giochi
(“cucù”, “dare e prendere”, “costruire e distruggere”) ed è in grado di
prevedere le azioni materne;
c) verso gli otto mesi assume per circa la metà del tempo di gioco un ruolo
attivo;
d) a partire dai 12 mesi prende sempre più spesso l’iniziativa e alterna i ruoli;
e) tra i 15 e i 18 mesi produce variazioni di giochi noti e ne inventa di nuovi.
Infine il piccolo, che ha appreso modelli di gioco con l’adulto, trasferisce questi
modelli nel gioco con gli oggetti e con altri partner (coetanei, altri adulti)»
(Bondioli, 1996, pp. 107-108).
86
«C’è molto poco di immaginario. E’ una situazione immaginaria, ma è
comprensibile solo alla luce di una situazione reale che è appena avvenuta. Il
gioco è più vicino al ricordo di qualcosa che è effettivamente avvenuto che
110
L’adulto
svolge
un
ruolo
fondamentale
nell’acquisizione
dell’atteggiamento ludico e dell’orientamento simulativo […].
Si potrebbe pensare che una volta acquisito un atteggiamento ludico il
bambino possa essere lasciato a se stesso nella sua avventura giocosa
col mondo […]. Ma l’addestramento al gioco, da parte dell’adulto,
continua per introdurre il bambino in un universo ludico più complesso
quale è quello del gioco simbolico, nel quale la riproduzione “per finta” di
scene e gesti di vita quotidiana comporta la capacità di far uso e di
manipolare simboli e significati. Il gioco di finzione è un gioco con i
significati delle cose più che con le cose stesse e anch’esso, nella sua
struttura come nei suoi contenuti tipici, richiede addestramento e
apprendimento. (Bondioli, 1996, p. 109).
Secondo Vygotskij l’evoluzione del gioco andrebbe nel senso della
realizzazione sempre più cosciente degli scopi per cui si gioca.
L’azione nella sfera immaginaria, in una situazione immaginaria, la
creazione di intenzioni volontarie, e la formazione di programmi di vita
reale e di motivi volitivi, tutti compaiono nel gioco e fanno di esso il livello
più alto di sviluppo prescolare […].
Alla fine dello sviluppo, emergono le regole e tanto più sono rigide tanto
maggiori le esigenze della loro applicazione da parte del bambino, tanto
maggiore la regolamentazione dell’attività del bambino, e più teso e
acuto diventa il gioco […]. Di conseguenza, un complesso di aspetti
originariamente non sviluppati vengono alla ribalta alla fine del gioco
(aspetti che all’inizio erano secondari o incidentali occupano alla fine
una posizione centrale, e viceversa). (Vygotskij, 1978, pp. 150-151).
Va comunque notato che il concetto stesso di gioco sia mediato
culturalmente: che cosa possa essere considerato come tale, in che
modo venga connesso ad apprendimenti significativi, quali siano i
all’immaginazione. E’ più la memoria in azione che una nuova situazione
immaginaria» (Vygotskij, 1978, pp. 150-151).
111
contesti nei quali si può o non può esprimere, quali siano gli agenti
deputati al suo insegnamento… è questione relativa a valori
implicitamente ed esplicitamente condivisi all’interno di un orizzonte
culturalmente connotato. Tali valori vengono anch’essi appresi e
contribuiscono a definire le cornici ludiche, in senso batesoniano, che
assegnano significato ai comportamenti e alle azioni ludiche.
Più o meno nello stesso periodo in cui appaiono i primi giochi
simbolici, ovvero a partire dal secondo anno d’età87, ha luogo
l’acquisizione dei simboli linguistici88.
Proprio perché lo stesso Vygotskij osserva che l’acquisizione del
linguaggio rappresenta un caso paradigmatico del processo di
interiorizzazione dei segni, e quindi dello sviluppo delle funzioni
psichiche superiori, esso può essere preso come modello per ogni
apprendimento culturale89. Riportiamo dunque di seguito una sintesi
del processo di apprendimento del significato delle parole nello
sviluppo del bambino.
La funzione iniziale del linguaggio è la funzione della comunicazione, del
legame sociale, dell’azione su coloro che sono attorno, sia dalla parte
87
Secondo Tomasello i bambini imparano a usare gli oggetti come simboli
pressappoco nello stesso modo in cui imparano ad usare i simboli linguistici. Cfr.
Tomasello, 1999, pp. 107-111 e 156-159.
88
E’ durante il secondo anno di vita che si attesta il fenomeno denominato
“esplosione del vocabolario”. «In questa fase il ritmo di espansione è di 5 o più
nuove parole (fino anche a 40) per settimana, cosicché alla fine del periodo in
questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma
può raggiungere anche 600 parole. Il bambino diventa capace di attribuire alle
parole uno status propriamente simbolico ed è in grado di capire non solo che tutte
le cose hanno un nome, ma anche che c’è un nome per qualsiasi cosa. La
capacità di attribuire piena autonomia simbolica alla parola fa sì che il bambino
apprenda nuovi vocaboli con grande rapidità, e impari anche ad usare
flessibilmente le parole che conosce» (Camaioni - Di Blasio, 2002, pp. 138-139).
89
Nell’evolversi del pensiero vygotskijano, si presenta sempre più chiaramente
definita la posizione relativa alla funzione del segno-strumento nella
ristrutturazione delle funzioni psichiche superiori. Si fa quindi strada, nell’insieme
degli scritti che precedono la sua ultima opera, la descrizione dell’importanza del
linguaggio nello sviluppo culturale. Questo tema troverà una trattazione elettiva nel
volume Pensiero e linguaggio, cui si rimanda, in cui Vygotskij descrive lo sviluppo
delle forme di concettualizzazione, spontanea e scientifica, in connessione con il
linguaggio.
112
degli adulti che dalla parte del bambino. Così il primo linguaggio del
bambino è puramente sociale; non sarebbe corretto chiamarlo
socializzato poiché a questa parola è legato qualcosa che è non sociale
all’inizio e diventa tale solo nel processo del suo cambiamento e
sviluppo. (Vygotskij, 1934, p. 57)
Dopo
uno
stadio
iniziale,
fondamentalmente
pre-verbale
e
«primitivo» in cui il bambino emette grida o altri suoni, insorge uno
stadio in cui per il bambino la parola che designa un oggetto è una
proprietà dell’oggetto stesso: «in altre parole il legame esterno tra gli
stimoli, o il legame tra le cose, viene preso per un legame
psicologico». Questo non significa che il bambino “scopre” che le
cose hanno nomi, ma piuttosto il linguaggio si sviluppa attraverso
reazioni verbali che si verificano nel contesto socio-culturale in cui
vive: il bambino semplicemente usa le parole, così come fanno le
persone che costituiscono la realtà sociale che li circonda. In questa
fase i bambini rifiutano l’arbitrarietà della lingua e si aspettano delle
parole “trasparenti”, che rivelino nella loro forma la qualità delle cose
(Simone, 1988).
Gli esperimenti e l’osservazione quotidiana dimostrano chiaramente che
è impossibile per i bambini piccoli separare il campo del significato dal
campo visivo perché c’è una così intima fusione tra significato e quello
che è visto. Perfino un bambino di due anni a cui si chiede di ripetere la
frase: “Tania è in piedi” quando Tania è seduta davanti a lui, la cambierà
in “Tania è seduta”. In certe malattie si osserva la stessa situazione […].
Una separazione tra i campi del significato e della visione avviene per la
prima volta in età prescolare […]. (Vygotskij, 1978, pp. 142-143).
Dallo stadio in cui considera le parole come proprietà delle cose (lo
stadio “magico” o della psicologia «naïf») il bambino passa allo
stadio in cui adopera le parole come segni esterni: si tratta dello
113
stadio “egocentrico” del linguaggio90 durante il quale, parlando con
se stesso, enuncia le azioni che deve compiere. In questo stadio i
problemi psichici interni vengono risolti esternamente dal bambino
per mezzo delle parole così come quando, nello stesso periodo,
ricorre al calcolo sulle dita per contare.
A questo terzo stadio ne segue un quarto, lo stadio del
«ripiegamento» verso l’interno: il linguaggio diventa intellettivo e il
pensiero diventa verbale. Nel campo del linguaggio a questo stadio
corrisponde il linguaggio silenzioso, ovvero il pensiero verbale91. Il
90
Per analizzare il processo dinamico tra esistente tra pensiero e parola Vygotskij
in Pensiero e linguaggio (1934) propone di analizzare la forma del linguaggio
interiore, o endofasia. Questa forma è stata erroneamente considerata come un
riflesso verbale inibito nella parte motoria (Behtérev) o come un linguaggio
esteriore privato dell’aspetto sonoro (Watson). Esso è in realtà strutturalmente,
funzionalmente e geneticamente diverso dal linguaggio esteriore; Vygotskij fonda
queste affermazioni su una critica alla concezione del linguaggio egocentrico
esposta da Piaget, al quale riconosce il merito di avere riscontrato per primo
questa particolare forma di linguaggio e soprattutto di avere considerato la psiche
del bambino non quantitativamente, ma qualitativamente diversa da quella adulta.
Tuttavia Piaget aveva messo in relazione questa forma di linguaggio (ripetitivo e
non rivolto all’altro anche se usato in contesti collettivi) come l’espressione
dell’egocentrismo della mente infantile. Egli aveva descritto il percorso genetico di
pensiero e linguaggio in modo tale da vederlo come un passaggio da uno stato
iniziale di «pensiero autistico» (una forma di pensiero indipendente dalla realtà),
uno stadio secondario in cui il bambino acquista una forma di pensiero individuale
non socializzato (espressione dell’egocentrismo, di cui appunto il linguaggio
egocentrico sarebbe espressione sintomatica), e uno stadio finale in cui, grazie
all’acquisizione del linguaggio comunicativo (espressione della socializzazione) il
bambino giunge al pensiero logico.
Alla luce di questa interpretazione, afferma Vygotskij, il linguaggio egocentrico
sarebbe una forma di linguaggio destinata a scomparire e priva di una funzione
specifica nel contesto della psiche infantile. Egli replicò gli esperimenti di Piaget
controllando come variabili indipendenti proprio la possibilità di essere compreso e
la vocalizzazione (vietandola espressa mente o facendo svolgere i giochi
spontanei ai bambini in presenza di un forte rumore). In queste situazioni, il
linguaggio egocentrico non si presentava affatto. Egli deduce dunque che non si
tratta di una forma che è l’espressione dell’egocentrismo del pensiero, ma di una
forma di linguaggio verbale che rappresenta un precedente evolutivo del
linguaggio interiore: una transazione tra lo stadio dello sviluppo che opera con
funzioni interpsichiche, esteriorizzate, derivate dalla situazione sociale, e lo stadio
in cui le funzioni divengono intrapsichiche, attraverso la loro interiorizzazione, che
da luogo alla funzione regolativa interiore del proprio comportamento, che è la
pianificazione.
91
«Se ora dalla genesi del linguaggio interno passiamo a come funziona il
linguaggio interno dell’adulto, ci ritroviamo subito di nuovo con la stessa domanda:
il pensiero e il linguaggio sono necessariamente legati nel comportamento
dell’adulto, questi due processo possono essere identificati? Tutto quello che
114
linguaggio interiorizzato è una forma di pensiero che si struttura
utilizzando le regole della lingua, le parole e i loro significati; è
pensiero verbale al quale il linguaggio conferisce una forma logica,
analitica e sequenziale.
Il linguaggio egocentrico del bambino è uno dei fenomeni del passaggio
delle funzioni interpsichiche a quelle intrapsichiche, cioè delle forme di
attività sociale, collettiva del bambino alle sue funzioni individuali.
Questo passaggio è una legge generale dello sviluppo di tutte le funzioni
psichiche superiori che compaiono inizialmente come forme di attività di
collaborazione e solo in seguito sono trasferite dal bambino nella sfera
delle sue proprie forme psichiche di attività. Il linguaggio per se stessi
nasce dalla differenziazione della funzione inizialmente sociale del
linguaggio per gli altri. Non una socializzazione progressiva, apportata
dal bambino dall’esterno, ma un’individualizzazione progressiva, nata
sulla base della socialità interna del bambino, è il tratto principale dello
sviluppo infantile. (Vygotskij, 1934, p. 350).
L’acquisizione del linguaggio non è solo una conseguenza
dell’apprendimento culturale, ma anche il mezzo privilegiato dalla
nostra cultura per la trasmissione culturale.
Il secondo processo dello sviluppo culturale è l’insegnamento attivo
che si attua nella realtà dell’educazione e dell’istruzione92.
sappiamo a questo proposito ci obbliga a rispondere negativamente a questa
domanda.
La relazione tra pensiero e linguaggio potrebbe essere rappresentata
schematicamente in questo caso da due circonferenze che si intersecano, che
mostrerebbero che i processi del linguaggio e del pensiero coincidono in parte.
Questa è quella che si chiama sfera del “pensiero verbale”. Ma questo pensiero
verbale non esaurisce né tutte le forme del pensiero, né tutte le forme del
linguaggio. Vi è una grande area di pensiero che non ha alcuna relazione diretta
con il pensiero verbale. E’ innanzitutto il caso, come ha già indicato Bühler, del
pensiero strumentale e tecnico e in generale di tutta quella area che si chiama
intelligenza pratica» (Vygotskij, 1934, 118).
92
La «ricrescita culturale» del bambino avviene attraverso l’apprendimento inteso
come «una modificazione relativamente duratura e stabile del comportamento a
seguito di un’esperienza, di solito ripetuta più vote» (Anolli, 2006a, p. 76). In
questo senso l’apprendimento è, dal nostro punto di vista, distinto dalle
115
Mentre l’apprendimento sociale procede dal basso verso l’alto, con gli
individui privi di conoscenze o di abilità che cercano di acquisirle dagli
altri, l’insegnamento procede dall’alto verso il basso, con gli individui in
possesso di conoscenze o di abilità che cercano di trasferirle a coloro
che non le posseggono […]. D’altra parte, nonostante la grande
variabilità interculturale, in tutte le culture umane gli adulti istruiscono i
giovani in modo attivo e sistematico. Assieme all’apprendimento
imitativo, anche l’istruzione attiva è molto probabilmente cruciale per il
tipo di evoluzione culturale peculiare dell’uomo. (Tomasello, 1999, pp.
52-53).
Dal momento che l'interazione sociale è costituita principalmente
dalla parola ed è mediata dalla stessa, ciò che viene interiorizzato
nel flusso di pensiero del bambino sono i significati e le forme
generati durante lo scambio verbale, che sono a loro volta prodotti di
un più ampio sistema storico-culturale che esprime gli innumerevoli
modi di interpretare intersoggettivamente il mondo che si sono
accumulati, in tempi storici, in una determinata cultura.
modificazioni del comportamento dovute a programmi genetici e a circuiti nervosi
sottesi ai riflessi, dai processi maturativi e dalle condotte istintive.
Solitamente di distinguono due tipologie di apprendimento: l’apprendimento
individuale (come capacità di acquisire nuove conoscenze a seguito di
un’esperienza personale) e l’apprendimento sociale (come capacità di acquisire
nuove conoscenze e pratiche a seguito dell’interazione sociale). Anolli,
riprendendo le ricerche di Boyd e Richerson (2005) sottolinea come in ambienti
stabili l’apprendimento sociale risulti più vantaggioso di quello individuale in quanto
il primo risulta più affidabile e il secondo più soggetto ad errori. In ambienti variabili
si ha il rapporto inverso: maggiore rilevanza dell’apprendimento individuale in
quanto l’apprendimento sociale risulta meno affidabile.
«Si è visto che le specie con un elevato livello di apprendimento sociale
presentano anche un eguale elevato livello di apprendimento individuale.
L’apprendimento sociale svolge la funzione di accelerare e rendere meno casuale
l’apprendimento individuale (Galef, 1996). In generale, l’incremento
dell’encefalizzazione è strettamente connesso a forme rilevanti di attaccamento ai
genitori, al ritardo della maturazione sessuale e a un arco di vita abbastanza
prolungato: tutte condizioni che favoriscono l’apprendimento sociale (Eisenberg,
1981)» (Anolli, 2006a,pp. 76-77). Ciò che rende l’apprendimento sociale specifico
nella nostra specie si basa su due dispositivi: l’imitazione (vs emulazione) e
l’insegnamento attivo.
116
Attraverso il linguaggio, il bambino sviluppa una particolare forma di
cognizione, o come direbbe Howard Gardner (1983), una particolare
forma di intelligenza, che definisce le categorie cognitive con cui
descrivere e spiegare i fenomeni.
Gardner definisce simbolo
una qualsiasi entità materiale o astratta che possa denotare qualsiasi
altra entità o che possa riferirsi ad essa […]. Sono simboli parole,
diagrammi, numeri e una vasta gamma di altre entità. E’ simbolo un
qualsiasi elemento – una linea non meno di una pietra – purché venga
usato (e interpretato) come rappresentante una qualche sorta di
informazione. (Gardner, 1983, p. 321).
Oltre a questa funzione rappresentativa un simbolo ha anche una
funzione espressiva:
può trasmettere un certo stato d’animo, un certo sentimento o una certa
tonalità […] solo finché la comunità in oggetto decida di interpretare un
particolare simbolo in modo particolare. (Ibidem, p. 322).
Da questa definizione emerge che non solo le parole, ma anche altri
artefatti (suoni, gesti, grafismi…) possono essere usati in veste di
simboli. Come le parole, anche questi simboli possono funzionare
isolatamente o entrare come componenti in sistemi più elaborati. Se
le parole vengono organizzate nel linguaggio parlato e scritto, i
numeri e altri sistemi astratti vengono organizzati nel linguaggio
matematico, i gesti in sistemi di danze, codici rappresentativi ed
espressivi, «strumenti» che ci consentono di descrivere ed esprimere
aspetti della realtà.
Susanne Langer (1969) afferma che la capacità di trattare con
simboli (parole, dipinti, diagrammi e composizioni musicali) è il
carattere distintivo della conoscenza umana. Le modalità di pensiero
artistico sono altrettanto valide di quelle matematiche o scientifiche;
117
la differenza consiste nel tipo di simboli usati e nel tipo di processo
cognitivo messo in atto. La Langer non privilegia simboli astratti e
logici – matematica, metalinguaggio, linguaggi specialistici – e parla
di forme simboliche non solo discorsive come il linguaggio orale e
scritto ma anche «presentazionali» (simboli ostensivi quali dipinti).
Accanto al linguaggio matematico la Langer colloca la musica, il
mito, il rito, l’arte come altrettante forme simboliche93.
Gardner, servendosi delle argomentazioni della Langer, osserva che
l’atto creativo assume una sua specificità in funzione del tipo di
simboli con cui ha a che fare e giunge per questa via e attraverso
studi neurofisiologici sulla specificità delle funzioni celebrali e di
psicologia
evolutiva
a
ipotizzare
l’esistenza
di
«intelligenze
multiple»94 connesse ai diversi sistemi simbolici.
A mio giudizio, una competenza intellettuale umana deve comportare un
insieme di abilità di soluzione di problemi, consentendo all’individuo di
risolvere genuini problemi o difficoltà in cui si sia imbattuto e, nel caso, di
creare un prodotto efficace; inoltre deve comportare la capacità di
trovare o creare problemi, preparando in tal modo il terreno
all’acquisizione di nuova conoscenza. (Gardner, 1983, pp. 80-81).
93
L'accezione di simbolo cui si riferisce l’autrice si illustra unicamente in
contrapposizione a segnale. Segnale è ciò che indica l'esistenza di qualcosa.
Segnale è il ruggito di un leone, che indica l'esistenza di un leone nelle nostre
immediate vicinanze. Segnali della mia ira sono le vampe di rossore che salgono al
viso, il tono della mia voce. Per la Langer tutto ciò che ha carattere di segno, ma
non di segnale, deve essere annoverato nell'ambito dei simboli. Ed allora saranno
simboli le parole del linguaggio verbale o scritto, in quanto “presentano” un'idea.
Presentando un'idea si connettono insieme formando una frase, un discorso. La
nozione di simbolo può essere attinta dal linguaggio verbale o scritto - ma esempi
tratti soltanto da quest’ambito implicherebbero, secondo la Langer, un’indebita
restrizione. La sua “scoperta” è che vi sono anche simboli non discorsivi (Langer,
1969).
94
«Diventa necessario dire – e dirlo una volta per tutte – che non c’è, non potrà
mai esserci, un elenco singolo inconfutabile e universalmente accettato delle
intelligenze umane […]. Queste intelligenze sono finzioni – nel migliore dei casi
finzioni utili – per parlare di processi e abilità che (come il resto della vita) formano
un continuo. La natura non presenta discontinuità brusche […]. Le varie
intelligenze sono definite e descritte separatamente nel preciso intento di illuminare
problemi scientifici e affrontare pressanti problemi pratici» (Gardner, 1983, pp. 8090).
118
Gardner definisce come forme di intelligenza solo le abilità
valorizzate culturalmente, che si rivelano di qualche importanza
all’interno di un contesto culturale.
Al tempo stesso, riconosco che l’ideale delle qualità apprezzate
differisce marcatamente, a volte anche in modo radicale, fra una cultura
umana e l’altra, nell’ambito della creazione di nuovi prodotti o della
formulazione di nuovi problemi di importanza relativamente modesta in
taluni contesti.
I requisiti preliminari sono un modo per assicurare che un’intelligenza
umana sia veramente utile e importante, almeno in certi contesti
culturali. Questo criterio da solo può condurre a escludere certe capacità
che, sulla base di altre ragioni, potrebbero soddisfare i criteri che mi
accingo a fissare. Per esempio, l’abilità di riconoscere le facce è una
capacità che sembra essere relativamente autonoma ed essere
rappresentata in un’area specifica del sistema nervoso umano. Essa
esibisce inoltre una storia di sviluppo sua propria. Eppure, a quanto so,
benché gravi difficoltà nel riconoscimento di facce possano creare
dell’imbarazzo a qualche individuo, non pare che questa abilità sia molto
apprezzata da molte culture. Né ci sono molte opportunità di trovare
problemi nel campo del riconoscimento delle facce. (Ibidem, p. 81).
Tra gli elementi che Gardner ritiene indispensabili per poter definire
un’abilità o un insieme di abilità come forma particolare di intelligenza
vi sono le seguenti caratteristiche che hanno importanza dal nostro
punto di vista: a) una storia di sviluppo caratteristica nel corso
dell’ontogenesi, con periodi critici (come pure pietre miliari)
identificabili connessi all’apprendimento o alla maturazione, assieme
a un complesso di prestazioni «terminali» esperte; b) una storia
evolutiva e una sua plausibilità dal punto di vista filogenetico; c) una
tendenza “naturale” dell’abilità specifica a materializzarsi in sistemi
119
simbolici,
sistemi
di
significati
elaborati
culturalmente
che
95
racchiudono forme importanti di sapere .
Lo studio di come tali sistemi simbolici evolvano nel corso
dell’ontogenesi permette di considerare «l’intelligenza come proprietà
emergente in uno specifico contesto storico-culturale che allo stesso
tempo include un insieme particolare di artefatti, con cui gli agenti
interagiscono» (Grasseni – Ronzon, 2004, p. 157).
Per spiegare lo sviluppo di un pensiero mediato dalla cultura dunque
è necessario specificare non solo gli «strumenti» attraverso i quali il
comportamento viene mediato ma anche le circostanze nelle quali
esso ha luogo, ossia la nicchia di sviluppo all’interno della quale esso
avviene96.
95
Gardner (1983) identifica «otto segni» che identificano un’intelligenza. Accanto a
quelli già citati vi sarebbero: l’isolamento di facoltà in conseguenza di un danno
celebrale; la possibilità di trovare individui che presentino profili “eccezionali” come
gli idiots savantes o altri prodigi; un’operazione o un insieme di operazioni centrale
identificabile; prove a sostegno fornite da compiti psicologici sperimentali e da
risultati psicometrici (Ibidem, pp. 83-86).
Va inoltre notato che le intelligenze non sono equivalenti a sistemi sensoriali in
quanto sono capaci di realizzarsi (almeno in parte) attraverso più di un sistema
sensoriale. Sono più ampie di meccanismi di elaborazione specifici e più limitate e
ristrette di capacità «generali» come analisi, sintesi o il senso del Sé (Ibidem, pp.
86-88).
96
Nel corso degli anni sono stati proposti diversi modi di concettualizzare l’unità
d’analisi che lega il bambino al suo ambiente socioculturale e al mutamento
evolutivo. Bronfenbrenner (1979) parla di “nicchie ecologiche” in riferimento alle
proprietà e alle condizioni degli ambienti fisici e psichici che favoriscono o
ostacolano lo sviluppo; Charles Super e Sara Harkness (1972, 1986), fanno
riferimento a “nicchie evolutive” come insiemi di: ambiente fisico e sociale, modalità
di accudimento e di educazione (regolate culturalmente), psicologia di chi si
prende cura del bambino (incluse le credenze dei genitori sui bisogni del bambino,
le finalità educative, e le conoscenze condivise sulle cure e le pratiche educative);
Cole (1996) identifica varie pratiche culturali come unità prossimali dell’esperienza
infantile molto simili alle nicchie evolutive di Super e Harkness; Jaan Valsiner
(1987) distingue le nicchie in base al coinvolgimento degli adulti: nella Zona di
Movimento libero (la nicchia più interna) l’adulto struttura l’accesso del bambino a
determinati ambienti, oggetti, eventi e strumenti e lo incentiva in vari modi ad agire
in determinate maniere, creando la Zona dell’Azione Incentivata adatta allo stato di
sviluppo corrente del bambino, in modo da guidarne lo sviluppo futuro. E’
importante sottolineare che tutti questi approcci concordano nel sostenere che se è
vero che gli adulti creano le nicchie evolutive e, in virtù del loro ruolo e, impongono
determinate restrizioni nell’organizzazione del comportamento al loro interno, la
realizzazione degli eventi che vi si verificano dipende in ampia misura dal bambino
e dall’ambiente socio-culturale, i quali giocano un ruolo attivo.
120
1.2.3
L’apprendimento come processo situato e
distribuito
Occorre dunque tener presente la collocazione “ecologica” dei
processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza
nell’ambito di peculiari configurazioni contestuali, individuando come
unità di analisi una complessa realtà di natura essenzialmente sociocognitiva – “costruita” dai soggetti in esso implicati, che si evolve
attraverso processi di cambiamento e sviluppo che si danno sulla
base di una costante e reciproca interazione tra individuo e
contesto97.
Questa visione dei processi di apprendimento viene a costruirsi sulla
base di una prospettiva di matrice storico-culturale che vede il
contesto in cui un’attività cognitiva ha luogo come parte integrante di
quella attività e non solo come la dimensione fisico e socio-culturale
in cui essa si inscrive. Tale dimensione ha una funzione costitutiva
97
Segnaliamo a proposito il lavoro pionieristico compiuto da Margaret Mead (1935)
che per prima ha evidenziato come i momenti di attività condivisa, più o meno
intenzionalmente “educativi”, abbiano sempre conseguenze sullo sviluppo. Molte
ricerche, sulla stessa scia hanno contribuito a definire il rapporto tra sviluppo
individuale e processi culturali. Il modello psicoculturale di Beatrice e John Whiting
(1975) si è occupato ad esempio del rapporto tra sviluppo individuale da un lato e
aspetti immediati, partner sociali, valori culturali e sistemi istituzionali dall’altro.
Secondo tale prospettiva, per comprendere lo sviluppo è necessario acquisire
dettagliate informazioni sulle situazioni in cui esso ha luogo: tanto le situazioni
“immediate” quanto i processi culturali meno diretti che riguardano il bambino e le
persone che lo circondano (e coloro che li hanno preceduti). In questo modello
viene evidenziato maggiormente l’insieme delle situazioni che il bambino vive e lo
sviluppo è visto come il prodotto di una serie di condizioni sociali e culturali in cui il
bambino è immerso (Whiting - Whiting, 1975). Un’ultima segnalazione di contributi
riguardanti gli studi pionieristici sugli aspetti contestuali dello sviluppo è il classico
Ecologia dello sviluppo umano di Urie Bronfenbrenner. In questa prospettiva
l’ambiente è costituito tanto dai contesti di cui il bambino ha diretta esperienza,
quanto dai sistemi culturali e sociali, che pongono in relazione situazioni diverse,
quali la casa, la scuola, il luogo di lavoro dei genitori… Bronfenbrenner era
interessato a specificare le proprietà degli ambienti fisici e psichici che favoriscono
o ostacolano lo sviluppo all’interno delle “nicchie ecologiche” in cui un individuo
vive. Egli definisce l’ecologia dello sviluppo umano come «lo studio scientifico del
progressivo adattamento reciproco tra un essere umano attivo che sta crescendo e
le proprietà, mutevoli, delle situazioni ambientali immediate in cui l’individuo in via
di sviluppo vive, anche nel senso di definire come questo processo è determinato
dalle relazioni esistenti tra le varie situazioni ambientali e dai contesti più ampi di
cui le prime fanno parte» (Bronfenbrenner, 1979, pp. 54-55).
121
nei processi di apprendimento individuali che devono essere
interpretati come contestualmente situati e distribuiti98 tra il soggetto,
gli artefatti culturali e le relazioni sociali in cui è implicato.
Ogni processo di apprendimento si produce in un particolare setting
e in un particolare contesto, le cui caratteristiche svolgono un ruolo
essenziale e costitutivo del processo stesso. In questo senso si può
sostenere che si tratti di un processo «situato» sia in quanto
collocato in un tempo e in uno spazio specifico, sia in quanto
determinato dalle relazioni sociali e dai significati culturali che
appartengono a quel determinato contesto sia, infine, in quanto parte
essenziale di pratiche99 che generano conoscenze nell’ambito di una
varietà di dimensioni della vita (Lave – Wenger, 1991).
98
«L’espressione cognizione situata oggi indica un insieme non compatto di teorie
e prospettive che propongono una visione contestualizzata (e, perciò,
particolaristica) e sociale della natura del pensiero e dell’apprendimento. Gli
studiosi della cognizione situata hanno come punto di partenza la natura distribuita
dell’attività cognitiva – il fatto che, nelle normali circostanze, l’attività mentale
implica una coordinazione sociale. Completare un lavoro, calcolare qualcosa, sono
quasi sempre azioni fatte in coordinazione con altri. Ciò che rende un individuo
competente non è solo ciò che conosce, ma anche come la sua conoscenza si
accorda con quella degli altri individui con i quali l’attività deve essere coordinata.
Inoltre, l’attività è spesso condivisa con degli strumenti (Hutchins, 1991) e anche
con le cose fisiche di ogni giorno su cui le persone ragionano (Lave, 1988). C’è,
perciò una distribuzione del lavoro cognitivo non solo tra le persone ma anche tra
persone e strumenti. Essere competente significa risultare in grado di usare
strumenti particolari in modi particolari. Gli strumenti in se stessi rappresentano
una porzione dell’intelligenza necessaria per portare a termine un qualsiasi
compito particolare. La natura distribuita della prestazione competente significa
che la competenza è altamente specifica della situazione. Si deve essere capaci di
comportarsi in una particolare situazione, con strumenti particolari e con particolari
altre persone. La prospettiva della cognizione situata, allora, tende ad allontanare
dalla ricerca delle strutture generali della conoscenza e a portare verso lo studio
degli ambienti particolari dell’attività cognitiva e verso la conoscenza che si
accorda con questi ambienti. Allo stesso tempo sottolinea la natura sociale
dell’attività e dello sviluppo cognitivi» (Resnick, 1994, pp. 75-76).
99
«Che una “svolta pratica” nella teoria contemporanea sia oramai conclamata
(Schatzki, Knorr-Cetina, von Savigny, a cura, 2001) si rende evidente nel modo in
cui, in antropologia, filosofia, scienze cognitive, linguistica e psicologia, ci si
propone di ripensare attraverso il concetto di pratica le teorie della società, della
conoscenza e del significato. Il fatto che il concetto di pratica oramai si imponga sia
nelle scienze sociali che in quelle umanistiche è il risultato di una tendenza di
lunga durata. Secondo l’ampia sintesi di Sherry Ortner (1984), la “pratica” si è
costruita progressivamente come una categoria oppositiva, per contrasto con le
categorie maggiormente usate dalle teorie antropologiche e sociologiche degli anni
Sessanta (il simbolo, la struttura, il sistema energetico-ambientale), come pure in
seguito alle istanze prodotte dalla critica marxista degli anni Settanta. I precursori
della “svolta pratica” sarebbero quindi quei molti che, a vario titolo e con diverse
122
Riprendendo il significato etimologico di “contesto” (contextere) come
“intrecciare” Cole sottolinea come esso non possa essere ridotto a
“ciò che ci circonda”, ma come costituisca piuttosto
una relazione qualitativa fra minimo due entità analitiche (fili) intese
come due momenti di un unico processo […]. I confini tra “il compito e il
suo contesto” non sono ben delineati e statici ma ambigui e dinamici.
matrici teoriche, hanno sottolineato l’importanza dell’azione e dell’agente rispetto
alla struttura; della comunicazione e della performance rispetto a norme e regole;
del “dramma” e dell’interpretazione dei soggetti rispetto all’idea di società come
organismo o macchina. La rivalutazione dei desideri, dell’interazione,
dell’esperienza dei soggetti, attori, individui, è un processo che già negli anni
Ottanta interessava non solo l’antropologia ma l’arte, la storia, la sociologia, la
storia e la filosofia della scienza e la critica letteraria. Nel contempo, pur
sottolineando la riscoperta della cosiddetta agency degli individui, ci si chiedeva e
si studiava come essa interagisse, e addirittura contribuisse a produrre e riprodurre
gli stessi “sistemi sociali” e le loro “strutture” (Giddens, 1984) attraverso gli aspetti
routinari della pratica» (Grasseni - Ronzon, 2004, pp. 13-14).
I primi contributi in questa direzione possono essere considerati i lavori di Marcel
Mauss (1936) nello studio pionieristico sulle tecniche del corpo come variabili
culturali, socialmente acquisite, creatrici di un sapere pratico e non discorsivo; di
André Leroi-Gourhan (1964) e le sue analisi sul gesto tecnico-operativo produttore
di artefatti; di Pierre Bourdieu (1972) che delinea una vera e propria teoria della
pratica che, una volta appresa tramite processi di mimesis, “prova ed errore” o
istruzione esplicita è incorporata a livello soggettivo dai diversi attori sociali in un
habitus «inteso come un sistema di disposizioni durature e trasferibili che,
integrando tutte le esperienze passate, funziona in ogni momento come matrice
delle percezioni, delle valutazioni e delle azioni» (Bourdieu, 1972, p. 211).
Il tema della pratica è stato variamente declinato dalla “svolta pragmatica” in
filosofia (Dewey, Ryle, Austin, Wittgestein, Rorty); o ancora, in ambito sociologico,
dall’etnometodologia (Garfinkel, Lynch, Sudnow).
Uno scenario più ampio è costituito dal dibattito a noi contemporaneo sulla teoria
della pratica (practice theory) che si propone un superamento della distinzione tra
conoscenza ed esperienza, ovvero tra pensiero teorico e pratico per impostare lo
studio dei contesti di lavoro come contesti di acquisizione e uso di competenze e di
performance cognitive. Secondo questa prospettiva tutti i processi di pensiero
sono pratici, nel senso che tutti sono inseriti in quadri di attività storicamente e
culturalmente determinati.
«In questa prospettiva il pensiero pratico non è un residuo o succedaneo del “vero”
pensiero (e la competenza pratica non è il parente povero di quella teorica), ma
piuttosto ogni attività cognitiva, proprio perché nei contesti di vita reale è mediata
culturalmente e finalizzata al perseguimento di specifici obiettivi, può essere
definita come pensiero in azione che necessita di conoscenza pratica. In questa
prospettiva quindi pratico non è contrapposto a teorico, ma piuttosto diventa un
qualificatore e un descrittore di tutti i processi cognitivi messi in atto nello
svolgimento di attività reali, anche lavorative, essendo un aspetto necessario al
raggiungimento degli scopi di quelle attività. In questo senso è quindi pratico tutto
quel pensiero mediato culturalmente, situato in quadri di attività storicamente e
culturalmente determinati e legato al raggiungimento di determinati obiettivi»
(Zucchermaglio, 1995, p. 240).
123
Come regola generale, ciò che è considerato come oggetto e ciò che è
considerato come “ciò che circonda l’oggetto” si forma nel momento in
cui vengono nominati […].
Un “atto nel suo contesto”, inteso in riferimento alla metafora
dell’”intrecciare”, richiede un’interpretazione relazionale della mente;
oggetti e contesti si presentano insieme come parte di un unico
processo di sviluppo bio-socio-culturale […].
In poche parole, dato che ciò che chiamiamo mente opera per mezzo di
artefatti, essa non può essere incondizionatamente circoscritta nella
testa o nel corpo, ma deve essere vista come distribuita tra gli artefatti,
che sono tra di loro intrecciati e che intrecciano azioni umane individuali
con e come parte degli eventi permeabili e mutevoli della vita.
L’assetto rilevante del contesto dipenderà in modo decisivo dagli
strumenti attraverso i quali si interagisce con il mondo, e questi
dipendono a loro volta dagli obiettivi che si hanno e da altre condizioni
imposte all’azione […]. In base a questa concezione del contesto, la
combinazione
di
obiettivi,
strumenti
e
situazione
costituisce
contemporaneamente il contesto del comportamento e i modi in cui i
processi cognitivi possono essere ritenuti connessi a quel contesto.
(Cole, 1996, pp. 124-125).
In un senso più generale ogni comportamento non può che essere
inteso in senso relazionale, ossia in relazione ad un contesto.
Cole (1996) propone poi di espandere il triangolo base di mediazione
proposto dai teorici storico-culturali russi (fig. 1) per rappresentare i
molteplici modi in cui gli artefatti culturali mediano l’attività degli
individui come membri di un gruppo sociale.
Egli riprende il diagramma elaborato da Yrjo Engeström (1987) il
quale si riferisce alla “situazione” che si presenta all’interno di un
particolare contesto come un sistema di attività che
integra il soggetto, l’oggetto e gli strumenti (strumenti materiali ma anche
i segni e i simboli) in un sistema unificato.
124
Un sistema d’attività incorpora sia l’aspetto produttivo orientato
all’oggetto che l’aspetto comunicativo del comportamento umano
orientato alla persona. Produzione e comunicazione sono inseparabili. In
realtà, un sistema di attività umana contiene sempre sub-sistemi di
produzione, distribuzione, scambio e consumo. (Engeström, cit. in Cole,
1996, p. 127)
Strumenti
(artefatti mediazionali)
Bambino
Regole sociali
Mondo
Comunità
Divisione del
lavoro
Figura 2: Il triangolo della mediazione di base allargato (dopo Engeström, 1987) per
includere altri soggetti (Comunità), le regole sociali e la divisione del lavoro tra il
soggetto e gli altri (ruoli).
La relazione superiore (Subject-Instruments-Object) rappresenta il
livello dell’azione elaborato dalla scuola russa.
Questo è il livello dell’azione mediata, attraverso la quale il soggetto,
agendo sull’oggetto, lo trasforma. Ma l’azione esiste “in quanto tale” solo
in relazione ai componenti della parte bassa del triangolo. (Ibidem, p.
128).
Se guardiamo questi tre momenti in rapporto con quelli disposti lungo
la base del triangolo, possiamo vedere un numero di linee lungo le
quali l’azione individuale è parte di un ordine sociale più ampio.
125
La comunità fa riferimento a coloro che condividono lo stesso oggetto in
generale; le regole fanno riferimento alle norme e alle convenzioni
esplicite che confinano l’azione all’interno del sistema d’attività; la
divisione del lavoro fa riferimento alla divisione, fra i membri della
comunità, delle azioni orientate sugli oggetti. I vari componenti di un
sistema di attività non esistono isolatamente gli uni dagli altri; al
contrario si costruiscono, rinnovano e trasformano costantemente come
risultato e causa della vita umana. Nella teoria dell’attività, riassunta
nella figura, i contesti sono sistemi d’attività. Il sub-sistema associato
alle relazioni soggetto-mediatore-oggetto esiste solo in relazione agli
altri elementi del sistema. E’ una concezione del contesto interamente
relazionale. (Ibidem).
L’azione mediata è vista come un costituente di, e come costituita
da, l’attività mediata collettiva.
Ciò si collega ad una prospettiva di lettura dei processi cognitivi e
d’apprendimento che mette in discussione il paradigma secondo cui
è possibile individuare un nucleo cognitivo indipendente dai contesti
socio-culturali e dalle intenzioni umane. Ogni atto cognitivo deve
essere inteso come una specifica risposta ad una determinata serie
di circostanze, e solo attraverso la comprensione di tali circostanze e
della «costruzione» che i soggetti implicati danno di una particolare
situazione, diventa possibile comprendere la natura e il significato
dell’atto in questione.
L’apprendimento, pertanto, è un processo «situato» in quanto
emergente da specifiche situazioni e da peculiari configurazioni
contestuali in riferimento alle relazioni sociali, alle trame di
significato, agli oggetti, agli strumenti e agli artefatti culturali presenti
in esse.
Questi elementi ne costituiscono una parte integrante ed essenziale,
tanto che non si può pensare all’apprendere come ad un processo
che si svolge unicamente su un piano intraindividuale attraverso
procedure di acquisizione ed elaborazione di dati esperienziali, ma
126
come un processo che si costruisce in situazione, in dipendenza
degli artefatti culturali e degli strumenti di cui si fa uso, delle relazioni
sociali in cui si è implicati. Ogni esperienza di apprendimento si
configura, pertanto, come unica e peculiare sulla base dei diversi
contesti che la determinano.
Ne deriva la necessità di un riconoscimento della collocazione
dell’apprendere in tutte le dimensioni in cui si declina e si svolge il
processo di formazione umano; dell’apprendimento che si da non
solo e non tanto nei contesti formativi “formali” e istituzionali, ma
anche e soprattutto in quelli non formali e informali, nelle comunità
culturali d’appartenenza, negli ambienti di lavoro, nei luoghi in cui si
svolge il vivere quotidiano100; del ruolo svolto dagli artefatti e dai
100
Negli anni Sessanta e Settanta, gli psicologi transculturali cercarono di
applicare i test cognitivi sviluppati in America e Europa ai bambini di altri paesi
(Cole, Gay, Glick e Sharp, 1971, Scribner 1975, 1977; Sharp, Cole, Lave, 1979).
Questi test si basavano sulla teoria evolutiva di Piaget, o comunque erano test di
classificazione, logica e memoria. L’obiettivo era di usare strumenti di misura
slegati dalle attività quotidiane, per esaminare le abilità degli individui
indipendentemente dalle loro conoscenze precedenti basate sull’esperienza
quotidiana.
«Alla base vi era la convinzione che la competenza “reale” delle persone che si
ipotizzava caratterizzasse la loro abilità a destreggiarsi nelle diverse situazioni,
dovesse essere studiata attraverso problemi insoliti, di cui non si conoscessero in
anticipo le modalità risolutive. Il livello di competenza era considerato una
caratteristica personale generale, fondante quasi ogni aspetto del comportamento,
senza tener conto delle variazioni tra le varie situazioni. Con i test si cercava di
studiare gli stadi generali di sviluppo cognitivo, o le abilità generali di
classificazione, logica e memoria. Ci si attendeva che alcuni individui si trovassero
ad uno stadio più “avanzato” o mostrassero – in generale – migliori abilità logiche,
mnestiche o classificatorie rispetto ad altri» (Rogoff, 2003, p.36).
I ricercatori rimasero sconcertati dal constatare che gli stessi soggetti che avevano
ottenuto risultati molto bassi nei test cognitivi, mostravano notevoli capacità di
ragionamento e memoria (abilità che i test avrebbero dovuto misurare) nelle attività
quotidiane. Assumendo che la cognizione fosse una competenza generale, questa
discontinuità risultava inspiegabile. Furono allora modificati i test, rendendone più
familiare forma e contenuto, allo scopo di ottenere risposte più aderenti alle abilità
sottostanti; autori come Sylvia Scribner (1975, 1977) e Michael Cole (Cole et al.
1971) iniziarono a notare che, benché si credesse che i test fossero indipendenti
rispetto all’esperienza delle persone, in realtà vi era un legame tra performance ai
test e grado di scolarizzazione.
La possibilità di generalizzare automaticamente lo sviluppo cognitivo fu
ulteriormente messa in discussione dai risultati della ricerca culturale, secondo cui
gli individui non attraversano gli stessi stadi evolutivi, e le prestazioni alle prove
variavano sensibilmente in base ai materiali, ai concetti e ai compiti stessi. I
ricercatori iniziarono ad abbandonare l’idea che il pensiero consistesse in una
127
codici culturali, dagli oggetti e dagli strumenti d’uso, dagli ambienti
fisici e sociali nei processi d’apprendimento e di costruzione della
conoscenza.
Per Barbara Rogoff i bambini sono «apprendisti del pensiero» il cui
sviluppo è un processo di apprendistato che avviene grazie alla loro
partecipazione guidata nell’attività sociale.
Per ampliare la nostra prospettiva sulla natura collaborativa dei processi
di apprendimento, in situazioni che possono contenere o meno espliciti
insegnamenti, ho proposto il concetto di partecipazione guidata alle
attività culturali (Rogoff 1990). Tale concetto da risalto ai diversi modi in
cui i bambini imparano, partecipando e facendo riferimento ai valori e
alle usanze delle loro comunità culturali. Con il concetto di
partecipazione guidata non mi riferisco a un particolare metodo di
sostegno all’apprendimento. Partecipazione guidata può essere una
spiegazione, uno scherzo, un rimprovero, e forme di controllo sociale più
o meno sottili, con cui gli adulti e i coetanei fanno notare al bambino i
suoi difetti e sbagli commessi.
In aggiunta, la partecipazione guidata include i tentativi dei partner
sociali – e degli stessi bambini – di evitare alcune forme di
apprendimento. Al fine di proteggerli, gli adulti evitano di parlare ai
bambini di molti argomenti […]. I vincoli imposti dagli adulti sono
espressione della natura partecipativa e guidata dello sviluppo.
Nel concetto di partecipazione guidata, il termine “guidata” è dunque
inteso in senso generale, includendo ma non limitandosi alle interazioni
che contengono espliciti insegnamenti. Oltre alle interazioni finalizzate
all’insegnamento, la partecipazione guidata contempla i rapporti
ravvicinati e quelli a distanza in cui i bambini prendono parte a valori,
usanze e competenze della comunità, senza espliciti insegnamenti e a
volte persino in assenza dell’altro. In molti casi, essa si compie
generica elaborazione delle informazioni, indipendente dal tipo di informazione e
dalla familiarità degli individui con le attività testate (LCHC, 1983).
128
attraverso strumenti particolari o partecipando a istituzioni culturali.
(Rogoff, 2003, p. 293).
Il processo d’apprendimento è visto come processo di partecipazione
dinamica ad attività culturali. In questo senso esso si differenzia dalla
prospettiva dell’”influenza sociale”, secondo cui la socializzazione è
promossa dagli adulti che organizzano l’apprendimento del bambino.
Al contrario il concetto di partecipazione evidenzia il ruolo attivo
essenziale giocato dai bambini non solo nell’apprendimento, ma
anche nell’ampliamento delle usanze della comunità.
Per Jean Lave ed Etienne Wenger l’apprendimento consiste in un
cambiamento del grado di coinvolgimento degli individui, in veste di
partecipanti periferici legittimi nelle comunità di cui fanno pratica.
La principale caratteristica definitoria dell’apprendimento inteso come
attività situata è un processo che chiamiamo partecipazione periferica
legittima. Con questa espressione intendiamo richiamare l’attenzione sul
fatto che le persone che apprendano partecipano inevitabilmente a una
comunità di praticanti, e che la piena acquisizione di conoscenze e
abilità richiede ai nuovi arrivati di indirizzarsi verso una piena
partecipazione
alle
pratiche
socioculturali
di
una
comunità.
L’espressione “partecipazione periferica legittima” ci permette di parlare
delle relazioni fra nuovi arrivati e veterani nonché di attività, identità,
strumenti e comunità di conoscenza e pratica. Si riferisce al processo
mediante il quale i nuovi arrivati entrano a far parte di una comunità di
pratica. Le intenzioni di apprendere si esprimono, e il significato
dell’apprendimento si configura, nel processo con il quale una persona
diventa partecipante a pieno titolo di una pratica socioculturale. Questo
processo sociale comprende, anzi, sussume, l’apprendimento di abilità
consapevoli. (Lave – Wenger, 1991, p. 19).
Si tratta di una teoria in cui l’apprendimento non è semplicemente
situato nella pratica sociale, ma ne è parte integrante. Attraverso
l’ascolto, l’osservazione, l’acquisizione tacita di modalità cognitive e
129
di trame di significato, colui che apprende nell’ambito di uno specifico
contesto formativo diventa partecipe di una peculiare dimensione
culturale alla quale appartiene in modo sempre più legittimo nel
momento in cui quanto appreso è accettato e riconosciuto come
significativo.
In verità, nulla viene davvero trasmesso. La crescita della conoscenza
pratica nella storia di vita di una persona è il risultato non della
trasmissione di informazioni ma di una riscoperta guidata. Con questo
intendo dire che ad ogni generazione, gli apprendisti imparano per
mezzo del loro essere situati in determinati contesti nei quali, alle prese
con certi compiti, viene loro mostrato cosa fare e a che cosa prestare
attenzione, sotto la tutela di mani più esperte. Mostrare qualcosa a
qualcuno significa rendere qualcosa presente a quella persona, di modo
che essa lo apprenda direttamente, attraverso lo sguardo o l’ascolto o il
tatto. La responsabilità del tutore sta nel creare le condizioni in cui si
fornisce all’apprendista la possibilità di tale esperienza immediata. Posto
in una situazione di questo tipo, l’apprendista viene istruito a porgere
attenzione a questo o quest’altro aspetto di ciò che vede, sente o tocca,
in modo da “sentirlo” da solo […].
Ciò che ciascuna generazione contribuisce alla prossima non sono
regole e rappresentazioni per la produzione del comportamento
appropriato, ma piuttosto circostanze specifiche nelle quali i successori,
crescendo in un mondo sociale, possono sviluppare le proprie abilità e
disposizioni incorporate e le proprie capacità di coscienza e sensibilità.
Apprendere in questo senso è tutt’uno con ciò che James Gibson, il
pioniere della psicologia ecologica, chiamò “educazione dell’attenzione”
(Gibson, 1979). (Ingold, 2001, p. 69).
1.2.4
Contesti di insegnamento-apprendimento
Una riflessione antropologica sull’apprendere in quanto processo
contestualmente determinato impone a diversi livelli un’indagine
130
critica e una “rivisitazione” di alcuni “contesti” della formazione in cui
si è tradizionalmente ipotizzata la localizzazione dei processi di
apprendimento e di costruzione della conoscenza.
Il primo di questi “contesti” è identificabile con la mente, che,
nell’ambito di una tradizione di pensiero e di ricerca ampliamente
diffusa e condivisa, è stata intesa in passato come dimensione
essenzialmente intrapersonale e localizzabile su base individuale.
Su questi principi, l’apprendimento è stato interpretato come prodotto
di processi cognitivi individualmente attivati e costruiti e di
motivazioni e stati affettivi essenzialmente legati alla sfera personale
del soggetto.
Un errore fondamentale consisteva nel voler separare “l’individuo” dal
resto del mondo, attribuendogli una serie di caratteristiche generali, solo
secondariamente “influenzate” dalla cultura. In modo simile, la “cultura”
era spesso considerata un assortimento statico di caratteristiche.
(Rogoff, 2003, p. 35).
In tale prospettiva, il “luogo” dell’apprendere (e quindi del formarsi)
era identificato con la “mente”, riconosciuta come l’insieme di stati
psicologici di cui ciascuno è portatore, ovvero come espressione
dell’organizzazione e del funzionamento celebrale di un singolo
individuo.
Tale interpretazione della mente e dei processi d’apprendimento è
stata progressivamente messa in crisi dagli sviluppi della ricerca
nell’ambito
dell’antropologia,
della
psicologia
culturale,
delle
neuroscienze, delle scienze cognitive, della filosofia della mente e
della psicologia dell’apprendimento, in cui si è evidenziata, come
abbiamo visto, una significativa attenzione alla connotazione
contestuale sia dell’architettura neurale che dei processi cognitivi.
Nell’indagare i rapporti tra pensiero ed esperienza culturale, molti
autori si sono ispirati alla teoria storico-culturale di Vygotskij che
sottolinea il rapporto tra abilità individuali e partecipazione a contesti
131
socioculturali ricchi d’artefatti. In quest’ambito il cambiamento più
rilevante si è avuto a partire dagli anni Ottanta, quando si è iniziato a
considerare la dimensione antropologico-culturale al di là dei
confronti interculturali tra le culture “altre” e la nostra cultura di
riferimento. Un tale indirizzo di ricerca (Scribner e Cole, 1981; Lave,
1988) ha avuto un’influenza notevole nel chiarire la non universalità
di alcuni aspetti cognitivi, sociali e interattivi del comportamento
umano e nel mostrare la specificità culturale di strategie culturali fino
ad allora considerate generali. Da questi studi è emerso un quadro
generale in cui le capacità cognitive, le “menti”, mostrano di essere
specifiche in rapporto allo svolgimento di compiti particolari che sono
diversamente valorizzati dalle culture (Rogoff, 2003).
Questo insieme di contributi è stato recentemente compreso sotto
l’ampia categoria della psicologia culturale che prende esplicitamente
le distanze da quella cross-culturale o interculturale101.
101
La psicologia interculturale si è preoccupata di mostrare in che misura e in quali
modi noi siamo influenzati dalla cultura nella quale viviamo o, se vogliamo, ha
cercato di rispondere a quesiti del tipo «c’è una cultura A che “produce” individui
a1 e una cultura B che “produce” individui b1; conoscendo A e B quali saranno le
differenze tra a1 e b1? Mente e cultura sono considerate come separate e
concepite come una variabile indipendente (la cultura) che esercita la sua
influenza sulla variabile dipendente (la mente). In questa prospettiva è legittimo
domandarsi se i bambini nati nella Costa d’Avorio sviluppino il pensiero operatorio
con la stessa velocità dei bambini ginevrini o londinesi.
Di fronte a ricerche di questo tipo la psicologia culturale solleva molti dubbi. Essi
sono basati sull’assunzione che mente e cultura non possono essere separate e
manipolate come fossero due variabili, una dipendente e l’altra indipendente.
Supponiamo di voler osservare come rispondono alla scala d’intelligenza
Therman-Merill i bambini maschi ugandesi confrontati con quelli inglesi o svizzeri,
come ha fatto Vernon, e di scoprire che i bambini inglesi o svizzeri sono molto più
capaci. Lo psicologo culturale si domanderebbe cosa è che rende più bassa la
prestazione dei primi nei test di intelligenza.
Se mente e contesto culturale non possono essere separati, non ha senso
applicare le stesse prove a due tipi di bambini così diversi. Infatti la stessa
situazione sperimentale, anche se è identica nelle due situazioni – anzi proprio per
questo – verrebbe interpretata diversamente, e questo renderebbe i due contesti di
prova psicologicamente diversi e non compatibili […]. Ciò che emerge è allora che
la persona è abile a fare le cose che sono importanti per sé e che ha occasione di
fare spesso. Questo fa sì che le differenze culturali nella cognizione consistano più
nelle situazioni in cui vengono applicati particolari processi cognitivi che
nell’esistenza di un processo cognitivo generale, presente in un gruppo culturale e
assente in un altro.
132
La psicologia culturale102, più che una disciplina che studia i rapporti
tra sviluppo cognitivo e cultura, in termini di effetti e differenze nello
sviluppo cognitivo stesso
è un’opzione teorica nuova che analizza le prestazioni (verbali,
manipolative, interattive e persino percettive) di bambini e adulti in
riferimento ai modi in cui interpretano gli aspetti simbolici dei compiti che
gli vengono proposti. Secondo tale prospettiva, la mente è “contentdriven, domain-specific, and constructively stimulus-bound” (Shweder,
1990, p. 13) e non può essere districata dai mondi intenzionali che sono
La psicologia culturale si distingue dunque dalla psicologia interculturale per il
modo di concepire i rapporti tra mente e cultura. Si tratta di una questione
scientifica che peraltro ha un’importante implicazione ideologica. Quando si fanno
dei confronti tra culture è inevitabile la presenza di un aspetto valutativo, in termini
di cultura più “avanzata”, così come è possibile la presenza di assunti etnocentrici
che ci fanno pensare che usare i blocchi logici sia un modo “neutro” per misurare
l’intelligenza, quando invece esso è chiaramente uno strumento di misura saturo di
significati culturali […]. Se si vuole la psicologia culturale costituisce un approccio
piuttosto “politicizzato” al rapporto tra mente e cultura, perché essa prende
particolarmente a cuore il problema di ciò che potremmo definire la “colonizzazione
della diversità”. Vale a dire quel complesso di attitudini mentali, ipotesi teoriche e
pratiche di ricerca con le quali si tenta di ridurre l’”altro culturale” entro le proprie
categorie culturali d’appartenenza» (Smorti, 2007, pp. 21-22).
102
Cole riassume le acquisizioni delle sue ricerche personali affermando di voler
raggiungere, con la sua concezione della psicologia culturale, «la possibilità di
tornare ai primi decenni della psicologia e intraprendere il cammino non percorso,
quello in cui la cultura è posta sullo stesso piano della biologia e della società nel
formare la natura umana individuale» (Cole, 1996, p. 97). A questo tentativo dà il
senso di «fondare una seconda psicologia». Nell’esaminare i termini del dibattito a
lui contemporaneo rispetto alla psicologia culturale Cole ritiene che «le principali
caratteristiche della psicologia culturale siano le seguenti:
Enfatizza l’azione mediata in un contesto.
Insiste sull’importanza del “metodo genetico” inteso in senso ampio per
includere i livelli storico, ontogenetico e microgenetico di analisi.
• Cerca di fondare la sua analisi sugli eventi della vita quotidiana.
• Suppone che la mente scaturisca dall’attività congiunta e mediata delle
persone. La mente è, dunque, in un certo, importante, senso, “co-costruita”
e distribuita.
• Suppone che gli individui siano soggetti attivi del proprio sviluppo ma che
non agiscano in situazioni completamente da loro determinate.
• Rifiuta la scienza esplicativa di causa-effetto e di stimolo-risposta, in favore
di una scienza che ponga in rilievo la natura emergente della mente
nell’attività e che riconosca un ruolo centrale all’interpretazione all’interno
della propria struttura esplicativa.
• Attinge alle metodologie delle discipline classiche così come delle scienze
sociali e biologiche»
(ibidem, p. 99).
•
•
133
storicamente variabili e culturalmente diversi e in cui ha un ruolo cocostruttivo. (Pontecorvo, 1995, p. 16).
Quest’approccio sottolinea la centralità del soggetto come essere
riflessivo che formula piani, possiede obiettivi ed è in grado di
modificare il proprio ambiente: l’uomo è visto come attivo produttore
di significati che agisce sulla base dei significati che produce (Bruner,
1990). Ne deriva che il livello d’analisi scelto per lo studio del
comportamento dell’uomo è il contesto culturale in cui tale
comportamento ha luogo.
L’assunto che la mente sia, almeno in parte, culturalmente costituita,
deriva dal riconoscimento che l’individuo partecipa e modifica la propria
cultura con la sua soggettività, la quale, d’altro canto, è già informata da
significati e pratiche culturali, per cui non si può fare una distinzione
netta tra ciò che è mente e ciò che è cultura. (Ibidem, p. 23).
Si tratta di un approccio non riduzionistico, né in senso psicologico,
né in senso sociologico.
L’insieme di competenze interattive che caratterizzano l’essere
umano fin dalla nascita, la sua immaturità prolungata, la dipendenza
dalle cure parentali, la capacità di “leggere le menti altrui”, queste ed
altre
caratteristiche
fanno
dell’essere
umano
un
essere
«biologicamente culturale» (Rogoff, 1990).
Gli psicologi culturali si oppongono dunque al postulato dell’unità
psichica, ovvero all’affermazione secondo cui i processi cognitivi
siano gli stessi in tutti gli individui indipendentemente dalla cultura e
dalle pratiche culturali in essa agite e vissute, ed affermano la
necessità di teorie esplicative culturalmente differenziate per
spiegare lo sviluppo103.
103
«La psicologia culturale non nega che possano esistere processi psicologici
universali, solo che, quando questi “universali” esistono, essi sono dovuti al fatto
che gli individui attribuiscono significati culturalmente simili e utilizzano pratiche
134
Ne è derivato un significativo spostamento dell’attenzione sulle
interazioni socio-culturali e sulle variabili contestuali implicate nei
processi cognitivi e di apprendimento, riconosciute come costitutive
dei processi stessi. Viene posta molta enfasi sul ruolo del linguaggio
e dell’interazione come veicoli attraverso cui i significati sono
negoziati, creati, tramandati e trasformati.
Oggi lo studio dello sviluppo cognitivo non si limita a prendere in
considerazione il modo in cui l’individuo, nel corso dell’infanzia, arriva a
comprendere il mondo che lo circonda, ma si sofferma sul processo di
attiva partecipazione ad attività socioculturali condivise che consente
questo apprendimento. (Rogoff, 2003, p. 241).
Su queste basi, le rappresentazioni e i modelli della mente e
dell’organizzazione cognitiva individuale si sono sempre più orientati
verso una visione contestualista, distribuita e socio-culturalmente
situata della mente104. Ogni configurazione cognitiva deve essere
dunque intesa come un complesso prodotto di elementi biologici e
socio-culturali. Ne deriva che i processi di pensiero e di
apprendimento in essa inscritti non possono verificarsi se non in
riferimento ai peculiari contesti in cui i singoli soggetti si trovano
implicati: un’attenzione preponderante alla funzione di mediazione
svolta dagli altri soggetti e dagli elementi ambientali e socioculturali
(artefatti primari, secondari e terziari) in relazione ai processi di
apprendimento e costruzione della conoscenza.
culturali simili. Insomma, secondo questo principio, non si dovrebbe tanto tendere
a costruire teorie generali, quanto teorie particolari in rapporto a situazioni culturali
o a gruppi culturali specifici» (Pontecorvo, 1995, p. 24).
104
Cfr. a questo proposito la definizione data da David Olson dell’intelligenza come
«abilità in un medium culturale» (Olson, 1979, p. 53); il modello delle “intelligenze
multiple” proposto da Gardner (Gardner, 1983; 1999), cui si può affiancare il
modello di Robert Sternberg, secondo cui l’intelligenza umana è il prodotto di
elementi individuali – di natura bio-psicologica – e di elementi socio-culturali
riferibili alle diverse e differenti dimensioni contestuali e situazionali (Sternberg,
1987, 1997).
135
In questo senso, un contesto dell’apprendimento fondamentale
nell’analisi dello sviluppo ontogenetico, è costituito dalla famiglia,
intesa, in senso generale, come l’ambiente “abitato” dalle persone
che si prendono cura del bambino. Esso è il contesto primario in cui
vengono a costituirsi le strumentalità cognitive da utilizzare in
funzione dell’apprendimento e in cui si esplicano le coordinate socioculturali e le prospettive per gli apprendimenti futuri.
Il ruolo della famiglia e della comunità nello sviluppo del bambino
differisce in modo piuttosto evidente nelle varie parti del mondo. Cause
importanti di variabilità culturale sono riconducibili alla probabilità di
sopravvivenza o di morte del bambino, alla presenza di fratelli e di una
famiglia allargata, all’opportunità per il bambino di partecipare
estensivamente alla vita della propria comunità, e ai prototipi culturali
relativi alle relazioni sociali (”per coppie” o “per gruppi”).
Nel mondo, l’allevamento dei bambini impegna la famiglia, il vicinato e la
comunità in ruoli diversi […].
L’accordo su chi si prenderà cura del bambino nelle diverse circostanze
è strettamente connesso al sostegno offerto dalla comunità e dalla
famiglia allargata […]. Le pratiche culturali riguardanti la cura dei
bambini sono ereditate dal passato da ciascuna generazione, che le
adatta alle circostanze e alle credenze, in parte riconducibili alle politiche
nazionali e internazionali. (Rogoff, 2003, p. 101).
I caregiver operano scelte organizzative per i bambini, selezionando
attività e materiali che ritengono adeguati per una certa fascia d’età.
Queste scelte vengono spesso effettuate senza l’intenzione di fornire
una particolare esperienza di apprendimento, o, al contrario,
possono essere intenzionalmente indirizzate alla socializzazione o
all’educazione del bambino.
La famiglia costituisce il primo contesto in cui inizia a prendere forma
la storia cognitiva del bambino. In ogni cultura, lo sviluppo è orientato
verso finalità particolari, secondo le competenze promosse dalla
cultura stessa attraverso istituzioni e «strumenti» locali. Lo stesso
136
concetto di «traguardo evolutivo» deriva da un modo particolare di
concettualizzare
l’infanzia,
come
preparazione
alla
vita
(Rogoff,2003). Il contesto famigliare organizza l’apprendimento del
bambino in funzione del suo ingresso nelle diverse comunità di
pratiche che definiscono la società cui appartiene. In questo
contesto, ricco di qualità affettive, attraverso apprendimenti spesso
“impliciti”, vengono a costituirsi procedure cognitive che preparano la
comparsa della teoria della mente (Liverta Sempio, Marchetti,
Lecciso, 2005).
Gli adulti e i bambini organizzano le esperienze di socializzazione
attraverso la scelta di situazioni e di modalità di strutturazione che
funzionino tanto a distanza quanto nel corso dell’interazione sociale
esplicita. Sia i caregiver sia i bambini contribuiscono alla definizione
delle attività e dei ruoli di questi ultimi non solo attraverso l’adattamento
implicito e pragmatico dell’attività a competenze e interessi, ma anche
mediante più esplicite modalità organizzative, capaci di agevolare una
maggiore partecipazione alle attività della cultura di appartenenza.
Nelle interazioni esplicite, gli adulti e i bambini lavorano insieme alla
strutturazione dei ruoli dei bambini, ripartendo tra loro la responsabilità
dell’attività: mentre gli adulti sostengono e ampliano le abilità dei più
piccoli e suddividono i compiti in sotto-obiettivi più gestibili, i bambini
guidano o, addirittura, gestiscono gli sforzi degli adulti. La struttura
necessaria a sostenere l’apprendimento e la partecipazione dei bambini
evolve man mano che essi acquisiscono le abilità necessarie per
assumere responsabilità sempre maggiori. Tale trasferimento di
responsabilità è realizzato da adulti e bambini congiuntamente. (Rogoff,
1990, pp. 99-100).
La specializzazione dei ruoli nella cura dei bambini, ci porta all’analisi
di un terzo contesto dell’apprendimento, la scuola intesa come
l’istituzione formativa tradizionalmente deputata, nella nostra cultura,
137
alla gestione e all’organizzazione dei processi di apprendimento105.
Le ricerche transculturali hanno dimostrato che esiste uno stretto
legame tra scolarizzazione e prestazioni ai test di classificazione e
memoria (Rogoff, 1981; Wagner - Spratt, 1987; Cole, 1990) e che
strumenti culturali quali la scrittura106 e la matematica107 stimolano
particolari forme di pensiero108 nelle società in cui le pratiche
dell’alfabetizzazione sono onnipresenti e interrelate109.
105
«Nei paesi industrializzati, la responsabilità della comunità nei confronti della
cura e dell’educazione del bambino si compie attraverso operatori specializzati e
retribuiti, quali insegnanti, educatori, assistenti sociali, pediatri, e anche istituzioni
per l’infanzia e pubblicazioni specializzate su questi temi […]. Di fatto sono gli
“esperti” a stabilire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato nella cura e
nell’educazione dei bambini. Ciò si riflette anche nelle leggi che regolano i diritti dei
genitori e nelle politiche promosse dagli enti sociali […].
Da un punto di vista storico, gli insegnanti sono probabilmente i più importanti
operatori specializzati nella cura e nell’educazione del bambino. Il loro ruolo è
emerso verso la fine dell’Ottocento, quando in molti paesi la scuola divenne un
aspetto centrale della vita dei bambini» (Rogoff, 2003, pp. 130-131).
106
Cfr., Havelock, 1963; Ong, 1967, 1977, 1982; Goody, 1986, 1987; Goody Watt, 1963; Olson, 1979; Olson - Torrance (a cura di) 1991.
107
Le ricerche transculturali sulle abilità matematiche, come quelle
sull’alfabetizzazione, hanno indicato il ruolo fondamentale degli strumenti culturali
utilizzati per lo svolgimento di tali pratiche; strumenti quali abachi, sistemi di calcolo
scolastici, sistemi metrici, rappresentazione dei numeri attraverso l’indicazione di
parti del corpo o gettoni d’argilla (Ellis, 1997; Nicolopoulou, 1997; Saxe, 1981,
1991). Le strategie utilizzate per risolvere problemi matematici dipendono
strettamente dalle finalità del calcolo e dalla disponibilità di strumenti (Cole, 1996;
Lave, 1988; Scribner, 1984).
108
«Esaminando la ricerca sulle abilità cognitive di persone scolarizzate e non,
sono giunta alla conclusione che gli individui scolarizzati acquisiscono un’ampia
varietà di abilità cognitive che sono in relazione con le attività scolastiche [Rogoff,
1981]: l’istruzione formale stimola le abilità percettive nell’uso di convenzioni
grafiche per rappresentare la profondità in stimoli bidimensionali e nell’analisi di
modelli bidimensionali. Le persone scolarizzate vengono addestrate a ricordare
intenzionalmente unità non connesse di informazioni e sono più portate delle altre
a ricercare spontaneamente strategie volte a organizzare informazioni tra loro non
collegate per poterle memorizzare. Gli individui scolarizzati organizzano più
facilmente gli oggetti presentati nel test in base a una struttura tassonomica,
raggruppando oggetti categorialmente simili, mentre gli individui privi di istruzione
formale impiegano spesso raggruppamenti funzionali di oggetti che vengono
utilizzati insieme. Mostrano, inoltre, maggiori abilità nel passare a parametri di
classificazione alternativi e nel fornire spiegazioni nel tipo di organizzazione
adottato. L’istruzione formale non sembra avere a che fare con l’apprendimento di
regole o con il pensiero logico, almeno non finché l’individuo non abbia compreso il
problema secondo la prospettiva dell’esaminatore. I soggetti non scolarizzati
sembrano preferire, comunque, una conclusione fondata sulla base dell’esperienza
piuttosto che contare esclusivamente sui dati forniti dal problema. È possibile che
l’istruzione formale sia necessaria per la risoluzione di problemi basati sulle
operazioni formali di Piaget.
138
La relazione tra scolarizzazione e abilità cognitive può sembrare ampia,
in parte a causa delle relazioni storiche tra test sulle abilità intellettive e
istruzione formale. Come evidenziato da Cole, Sharp e Lave (1976), i
primi test di intelligenza messi a punto da Binet erano basati su compiti
scolastici, dato che il suo obiettivo era quello di predire le prestazioni
scolastiche. Non è un caso che i nostri parametri di intelligenza siano
riferiti all’istruzione formale. Questa relazione può derivare anche dal
fatto che, come osserva Neisser (1976), le abilità di coloro che
elaborano i test (gli accademici) sono scelte come basi per definire
l’intelligenza. (Rogoff, 1990, pp. 52-53).
La scuola è un’istituzione complessa che si rivolge ai bambini, alle
famiglie e indirettamente a tutta la società. Questo contesto
Sono giunta alla conclusione che i dati non confermano il concetto di abilità
generali; piuttosto, individuano un effetto della scolarizzazione sulla performance, o
una relazione locale tra pratiche scolastiche e attività cognitive specifiche (vedi
anche Wagner, Spratt, 1987)» (Rogoff, 1990, p. 52).
109
Scribner e Cole (1981) hanno tratto le stesse conclusioni cui è giunta Rogoff
attraverso ricerche in Liberia con i bambini Vai sottoposti a diverse forme di
alfabetizzazione (Vai, coranica, inglese). I risultati di questi autori indicano che
l’alfabetizzazione è legata alle abilità cognitive attraverso le specifiche pratiche di
letto-scrittura, con forme diverse di lingua scritta (fonetica, con o senza la divisione
delle parole, alfabetica) e generi diversi (prosa saggistica, lettere, storie, elenchi,
poesie) che stimolano abilità cognitive diverse. «L’educazione scolastica formale è
costituita come una serie di pratiche, così come l’alfabetizzazione in Vai o le forme
Vai di alfabetizzazione coranica. La superiorità degli individui scolarizzati nei
compiti da noi assegnati non è dovuta alla loro capacità di leggere e scrivere per
sé, così come nel caso di individui alfabetizzati in Vai o tramite l’insegnamento
coranico. Per esempio, il fatto che l’istruzione scolastica favorisca l’abilità di
illustrare verbalmente i processi di problem solving è spiegabile nel più naturale dei
modi, semplicemente dal fatto che tali abilità sono requisiti del tipico dialogo
docente-allievo in ambiente scolastico (Griffin e Mehan, 1981; Mehan, 1979).
Spesso, gli insegnanti chiedono agli studenti di rispondere a richieste del tipo:
“Perché hai dato quella risposta?” oppure “Vai alla lavagna e spiegaci quello che
hai fatto”.
Se localizziamo il mutamento cognitivo nelle pratiche culturali e applichiamo
questo principio alle pratiche dell’educazione scolastica (come a quelle relative alla
stesura di lettere e all’annotazione di fatti) e trattiamo gli esperimenti cognitivi alla
stregua di modelli delle pratiche correlate, potremmo raggiungere quella simmetria
tra metodi sperimentali e pratiche quotidiane […].
Il nostro approccio orientato alle pratiche culturali e basato sulle attività ha posto in
risalto che, se gli usi della scrittura sono pochi, lo sviluppo di abilità che questi
agevolano sarà anch’esso limitato a un ristretto numero di compiti, in un novero di
domini di attività e contenuti proporzionatamente ristretto» (Cole, 1996, pp. 202203).
139
d’apprendimento è profondamente radicato nelle comunità, nei paesi
e nelle culture; in tal senso, riflette e nello stesso tempo influenza il
cambiamento sociale. Obiettivi e mezzi valorizzati dalle tradizioni
della società si intrecciano con le pratiche scolastiche. La scelta di
una tecnologia particolare (l’uso di un tipo linguaggio per spiegare un
evento, una certa modalità di relazione, l’opportunità di ricorrere a
determinati strumenti per risolvere un particolare problema),
l’organizzazione del contesto relazionale d’apprendimento (la classe
omogenea per età o per abilità; l’organizzazione dell’apprendimento
in forma diadica, per piccoli, medi o grandi gruppi), la strutturazione
dello spazio “fisico” in cui ha luogo (la classe, il laboratorio, il
cortile…) riflette il consenso generale della società riguardo
all’approccio condiviso, in sintonia con i sistemi di valori e gli obiettivi
culturali (Berger, Luckmann, 1996; Wertsch, 1987).
Come altre istituzioni sociali, la scuola permette di fare pratica nell’uso di
strumenti e tecnologie specifiche per risolvere problemi particolari.
Questi strumenti comprendono dispositivi di memorizzazione; generi
diversi di linguaggio, come i testi saggistici, le narrazioni storiche, le
procedure di calcolo e di archiviazione, l’aritmetica e la scrittura.
Le istituzioni della società e gli strumenti del pensiero portano con sé
valori che definiscono quali siano gli obiettivi importanti da raggiungere, i
problemi fondamentali da risolvere e gli approcci sofisticati da utilizzare
per affrontare quei problemi e per raggiungere quegli obiettivi. I valori
variano in relazione all’importanza che attribuiscono all’indipendenza o
all’interdipendenza, alla responsabilità sociale a fronte del progresso
tecnologico, all’analisi di quesiti o di schemi inseriti in contesti pratici,
alla velocità d’azione rispetto all’intenzionalità pianificata, e in relazione
a molti altri criteri. (Rogoff, 1990, p. 225).
140
L’apprendimento come sviluppo contestualizzato e storico110, la
concezione della costruzione della conoscenza come attività situata
e distribuita che si dischiude all’interno di comunità di pratiche come
proprietà emergente che riguarda l’intero contesto, l’importanza
attribuita alla conoscenza pratica, il passaggio da una concezione
dell’apprendimento come fenomeno individuale all’apprendimento
come processo di partecipazione al mondo sociale e culturale hanno
recentemente portato i ricercatori ad analizzare che cosa si apprenda
effettivamente a scuola a partire dal tipo d’organizzazione dell’attività
che è tipico della scuola stessa oltre che a valorizzare l’importanza di
altri contesti (informali e non-formali) di apprendimento.
L’aspetto paradossale è che, nel momento in cui conoscenza e
apprendimento sono stati riconosciuti come attività che si praticano e si
esercitano in luoghi sociali naturali quali la famiglia (Ochs, Taylor 1992;
Fasulo, Pontecorvo, 1994), laboratori di ricerca, luoghi di lavoro ad alta
tecnologia (Hutchins, Palen, 1993) e/o ad alta interazione (Suchman,
1993), investigazioni scientifiche di archeologia (Goodwin, 1994) e di
chimica (Goodwin, 1993), diventa arduo presupporre o dare per
scontato che attività cognitive complesse si possano verificare anche in
luoghi “artificiali”, per quanto ad esse deputati dalla società, quali sono le
scuole, le Università o i laboratori di sperimentazione psicologica!
(Pontecorvo, 1995, p. 30).
Alla scuola è richiesto di “mettersi in rete” con altri contesti
d’apprendimento,
quelli
non
formali
(gli
altri
soggetti
“intenzionalmente” formativi) e informali e di confrontarsi con una
varietà di problematiche, relative sia alla qualità degli apprendimenti
che si producono in questi contesti, sia al valore formativo di tali
dimensioni dell’apprendere, in cui emergono significative istanze di
formazione del sé. La dimensione di questi spazi sta assumendo una
110
Per un’analisi tra istituzioni prescolari e contesti culturali cfr. Tobin, Wu,
Davidson, 1989.
141
notevole ampiezza e rappresenta il contesto in cui viene a definirsi la
maggioranza delle esperienze d’apprendimento nell’ambito dei
processi di formazione individuali:
si apprende sempre più
diffusamente attraverso occasioni e proposte formative costruite e
scelte sulla base di specifici e settoriali bisogni di conoscenza
(apprendere l’uso di nuove tecnologie, nuove procedure operative,
diversi software…) o sulla base di più generiche istanze di “crescita
culturale” o di “cambiamento educativo”. In questo scenario,
particolare rilevanza assume il ruolo svolto dalle nuove tecnologie
informatiche che, nel quadro dei sistemi formativi contemporanei
vengono a delineare i «luoghi di interfacciamento» con il sistema
sociale.
Lauren Resnick (1987) individua quattro elementi di discontinuità tra
l’apprendimento che si verifica a scuola e quello che si verifica al di
fuori della scuola. L’apprendimento scolastico si configura per lo più
come un processo individuale, che valorizza attività di «puro
pensiero» privo di strumenti materiali111, un pensiero veicolato per lo
più da strutture simboliche decontestualizzate, focalizzato su
strutture di conoscenza generali più che su saperi e conoscenze
specifiche e funzionali.
Nel considerare alcuni dei modi in cui si apprende al di fuori della
scuola Resnick suggerisce di recuperare, nella pratica didattica,
l’efficacia formativa dell’apprendistato: la ricerca di Jean Lave (Lave
– Wenger, 1991) sull’apprendistato della sartoria in Liberia sottolinea
come sia possibile raggiungere una competenza esperta con poco
insegnamento diretto, molta osservazione, attraverso esercizi
111
«Nella scuola, il maggior merito è indirizzato ad attività di “puro pensiero”, quello
che gli individui sanno fare senza il supporto esterno di libri e appunti, calcolatrici,
o altri strumenti complessi. Sebbene alcune volte l’uso di questi strumenti possa
essere permesso durante l’apprendimento scolastico, essi sono sempre assenti
durante le verifiche e gli esami. Almeno implicitamente, quindi, la scuola è
un’istituzione che valorizza il pensiero che procede autonomamente, senza l’ausilio
di strumenti materiali e cognitivi. Diversamente, la maggior parte delle attività
mentali al di fuori sono intimamente connesse con gli strumenti, e l’attività cognitiva
emergente è formata ed è dipendente dal tipo di strumenti disponibili» (Resnick,
1987, p. 63).
142
semplici e un graduale inserimento in pratiche concrete via via più
complesse.
Nell’esaminare il difficile rapporto che si stabilisce tra le conoscenze
acquisite a scuola e quelle quotidiane possedute da chi impara (che
può assumere le forme di «totale incomunicabilità» quando si
determina l’incapsulamento) Engeström (1991) presenta tre diverse
prospettive teoriche: quella di Davidov dell’«ascensione dall’astratto
al concreto», quella di Lave e Wenger della «partecipazione
periferica
legittima»
e
la
propria,
dell’«apprendimento
per
espansione». Caratteristica comune ai tre modelli è quella di
affrontare
l’incapsulamento
dal
punto
di
vista
dell’intervento
educativo, individuando in esso le ragioni dell’insuccesso e le
possibili soluzioni.
Riposizionare l’apprendimento all’interno delle comunità di pratica
comporta anche una distinzione/decentramento tra i processi di
apprendimento e di insegnamento: se ciò che effettivamente struttura
le opportunità di apprendimento sono le pratiche di lavoro, occorre
rivedere anche la relazione, fortemente asimmetrica, tra chi insegna
e chi apprende.
Etienne Wenger nel considerare le comunità di pratica come «storie
condivise di apprendimento» (Wenger, 1998, p. 102), assegna
all’insegnamento e all’apprendimento uno status indipendente, al fine
di evidenziare sia l’autonomia dei processi di apprendimento sia gli
equivoci che si creano quando si privilegia la “struttura pedagogica”
come fonte di apprendimento.
Focalizzarsi
sull’insegnamento
non
equivale
a
focalizzarsi
sull’apprendimento. Le due cose non sono speculari. In un contesto
didattico, come un’aula scolastica o una sessione formativa, la
reificazione dell’apprendimento combinata con l’autorità istituzionale può
dare facilmente l’impressione che sia l’insegnamento a produrre
l’apprendimento. Eppure l’apprendimento che si verifica effettivamente
non è altro che una risposta alle intenzioni pedagogiche del contesto.
143
L’insegnamento non produce l’apprendimento. Crea un contesto nel
quale avviene l’apprendimento, che può avvenire anche in altri contesti.
- L’apprendimento e l’insegnamento non sono intrinsecamente legati.
L’apprendimento
avviene
in
gran
parte
senza
l’insegnamento,
l’insegnamento avviene in gran parte senza l’apprendimento.
- Nella misura in cui l’insegnamento e l’apprendimento sono legati alla
pratica, quel rapporto non è di causa ed effetto, ma di risorse e
negoziazione.
In altre parole, l’insegnamento non causa l’apprendimento: ciò che viene
appreso potrebbe anche non essere ciò che viene insegnato, o più in
generale ciò che intendeva l’organizzazione istituzionale del processo
didattico. Apprendere è un processo emergente e continuativo, che
potrebbe usare l’insegnamento come una delle sue tante risorse
strutturanti. Da questo punto di vista, gli insegnanti e i materiali didattici
diventano risorse per l’apprendimento in maniera molto più complessa
che attraverso le loro intenzioni pedagogiche. (Ibidem, p. 297).
L’apprendimento
non
è
mai
semplicemente
questione
di
“trasmissione di conoscenze e acquisizione di abilità”. Eppure, le
rappresentazioni che informano la pratica educativa vedono lo
scolaro come una persona che “apprende conoscenze” (nel senso
che le internalizza), che possono “essere scoperte”, o “trasmesse da
altri”, o “sperimentate nell’interazione con gli altri”. Esito del
paradigma dell’internalizzazione è l’istituzione di una dicotomia tra
“interno” ed “esterno”, che rimanda ad un’idea “celebrale” della
conoscenza e che assume colui che è “sottoposto al processo di
apprendimento” come unità d’analisi. A questo tipo di paradigma si
oppone l’apprendimento come partecipazione crescente a comunità
di pratiche, in cui pensiero e sapere sono relazioni tra persone attive
“nel e con” il mondo socialmente e culturalmente strutturato e in cui
l’apprendimento può essere inteso come “produzione storica,
trasformazione e cambiamento delle persone” che agiscono in quel
contesto.
144
Mentre i dibattiti pedagogici si concentrano su dicotomie quali
autorità/libertà,
istruzione/scoperta,
individuale/apprendimento
collaborativo,
apprendimento
formazione
“direttiva”/
esperienza diretta, Wenger sottolinea come il vero problema che sta
alla base di tutti questi dibattiti sia l’interazione tra il deliberato
(pianificato) e l’emergente, «vale a dire la capacità dell’insegnare e
dell’apprendere di interagire fino a diventare risorse reciprocamente
strutturanti» (Ivi).
Anziché
sulla
diade
insegnante-discente,
questa
prospettiva
focalizza l’attenzione su un campo di attori piuttosto variegato
composto da novizi ed esperti, caratterizzato da rapporti asimmetrici
e tra pari, da sistemi di attività più o meno accessibili e trasparenti e
su una conseguente pluralità di forme di relazione e partecipazione.
Lave e Wenger (1991) sollevano una serie di questioni, tra le quali
alcune
riguardano
l’importanza
determinati
il
ruolo
dell’accesso
ambienti,
gli
della
al
conoscenza
potenziale
usi
del
di
nella
pratica,
apprendimento
linguaggio
e
delle
di
storie
nell’apprendimento dall’esperienza e di come la conoscenza
acquisisca valore per la persona che apprende nel momento in cui
prendono forma le identità di piena partecipazione.
Secondo
Wenger
gli
aspetti
individualistici
dell’impostazione
cognitiva, lungi dal sottolineare attenzione nei confronti della
persona, tendono in verità a promuovere una concezione non
personale
della
conoscenza,
delle
abilità,
dei
compiti
e
dell’apprendimento.
Di
conseguenza,
tanto
le
analisi
teoriche
che
le
prescrizioni
pedagogiche risentono in genere dei limiti dovuti al fatto di fare
riferimento ad “ambiti di conoscenze” reificati e a meccanismi di
apprendimento
universali
intesi
in
termini
di
acquisizione
e
assimilazione. D’altro canto, insistere a voler partire dalla pratica sociale,
riconoscere la centralità della partecipazione e porre al centro dell’analisi
il mondo sociale solo in apparenza porta a mettere in secondo piano la
145
persona. In realtà il concetto di partecipazione a una pratica sociale –
soggettiva e oggettiva – induce a considerare in modo esplicito la
persona. E questa attenzione promuove una concezione del sapere
inteso come attività di persone specifiche in circostanze specifiche […].
Le attività, i compiti, le funzioni, e le cognizioni non esistono
isolatamente, ma sono parte di sistemi di relazioni più ampi in cui hanno
significato. Questi sistemi di relazioni si producono, riproducono e
sviluppano all’interno di comunità sociali, che in parte sono sistemi di
relazioni fra persone. La persona è definita da queste relazioni e al
contempo le definisce. L’apprendere implica quindi il divenire una
persona diversa in relazione alle possibilità aperte da questi sistemi di
relazioni.
Ignorare
questo
aspetto
dell’apprendimento
significa
trascurare il fatto che l’apprendimento comporta la costruzione
dell’identità. (Wenger, 1998, p. 35).
Il costrutto della partecipazione legittima periferica in questo caso
aiuta e suggerisce di tematizzare la «formazione» in termini di
partecipazione a una comunità di pratiche specifica che si costituisce
come «comunità di apprendimento» in cui i temi dell’identità e di
come vengono acquisite le conoscenze diventano primari rispetto
all’acquisizione di abilità specifiche e di informazioni.
Il lavoro mentale socialmente condiviso, un coinvolgimento più diretto
con i referenti, l’impegno esplicito nella costruzione e interpretazione dei
significati, il pensare intorno a particolari ambiti di conoscenza (e non in
vista di abilità generali): queste sono le caratteristiche dei programmi più
efficaci nell’insegnare a pensare anche nel contesto della scuola […]. In
questa linea teorica, alle scuole è richiesto di sviluppare abiti mentali di
questa natura attraverso il loro divenire vere e proprie comunità di
“apprendisti discenti” (Brown, Ellery-Campione, 1994) dove si impara a
pensare e a ragionare e dove si è introdotti alle attività e alle pratiche di
discorso scientifico che sono specifiche di una varietà di domini di
conoscenza (Pontecorvo, Girardet, 1993). E’ comune a questi modelli il
fatto che la conoscenza sia prodotta, e verificata nell’interazione e che
146
l’expertise sia distribuita in modo da fornire una più ricca base di
conoscenza per tutti. (Pontecorvo, 1995, p.32).
147
148
Capitolo secondo
LA SIMBOLIZZAZIONE GRAFICA
La pittura
è una bugia che dice la verità
(Picasso)
La mano, l’occhio e il segno sono gli elementi essenziali dell’attività
grafica.
L’occhio e la mano sono il padre e la madre dell’attività artistica. Il
disegnare, dipingere e modellare fanno parte del comportamento
motorio umano, ed è lecito supporre che essi si siano sviluppati da due
più antichi e più generali aspetti di tale comportamento: il movimento
fisionomico e descrittivo. (Arnheim, 1954, p. 150).
Il disegno chiama in causa la polarità funzionale mano-utensile e si
configura come modalità di espressione specifica: la mano è
creatrice di immagini e di simboli che, sotto la guida dell’occhio, si
sviluppano e si affiancano al linguaggio verbale112.
112
Le ipotesi sull’evoluzione cui si fa riferimento in questa parte del saggio sono
fondamentalmente quelle di A. Leroi-Gourhan (1965) sul versante della biologia e
della paleoantropologia e quelle di J.C. Eccles (1989) nell’ambito propriamente
neurologico, dove l’attenzione viene prevalentemente focalizzata sul cervello e sui
suoi cambiamenti lungo la scala filogenetica. Entrambi gli autori si richiamano alla
teoria evoluzionista darwiniana (collocazione dell’uomo nella scala animale,
modificazione della specie legata alla selezione naturale e sessuale) tuttavia ciò
che maggiormente sottolineano è il processo evolutivo del mondo vivente nel suo
complesso (vegetale e animale insieme) in accordo con le teorie ecologiche
sostenute in questa tesi.
149
Come per le abilità linguistiche e ludiche, anche per il simbolismo
grafico si può parlare di processo di sviluppo che trova in ogni
bambino un modo personale di evolversi113 e uno “stile” che
sottolinea modalità individuali di vedere, sentire, esprimere significati,
all’interno di una cornice comune di evoluzione che si dispiega per
“tappe”.
Nel nostro contesto culturale il simbolismo grafico si realizza
complessivamente
dal
grafismo
cinestesico
alla
figurazione,
passando attraverso fasi intermedie che evidenziano da un lato i
processi evolutivi delle capacità motorie, attentive, percettive e
dall’altro, il progressivo possesso di strumenti culturali. Questo
processo
è
inserito
in
un
contesto
di
apprendimento,
prevalentemente quello scolastico, che si avvale di determinate
pratiche culturali e di codici pedagogici specifici.
Lo sviluppo dell’abilità grafica non è un’acquisizione mentale
individuale, né un’evoluzione continuativa dello strumento espressivo
in sé, ma una “trasformazione sociale” che si radica in contesti di
interazione con altre persone all’interno di una cornice di
condivisione di scopi, strumenti e attività.
Questo quadro rimanda alle teorie che fanno riferimento al modello
vygotskijano (1934; 1930-31) il quale sottolinea come i processi
psichici superiori siano sempre situati in un contesto storico-sociale
dal quale traggono origine e alimento.
Il livello e la forma del sostegno fornito ad ogni linguaggio simbolico
varia a seconda dello specifico dominio o sistema simbolico.
Sappiamo che, come esseri umani, investiamo molto nell’iniziare i
più piccoli all’uso del linguaggio verbale sin dalla nascita (Bruner,
113
Con questo si vuole riconoscere come, all’interno di una stessa cultura, gli
individui, anche se trattati nei modi più appropriati ed equivalenti, possono differire
significativamente l’uno dall’altro in capacità intellettuali, nell’abilità di imparare,
nell’uso delle loro facoltà, in originalità e creatività.
150
1983a). Il sostegno nella comprensione e nella produzione dei
simboli grafici è meno forte, soprattutto nella nostra cultura, rispetto
ad altri contesti storico-culturali.
Inoltre
le variazioni individuali riscontrate in altri campi […] relativamente al
disegno si accentuano, proprio perché il comportamento grafico
dell’adulto, nell’interazione con il bambino è meno uniforme. Tutti i
bambini sono continuamente esposti al linguaggio e tutti vengono
sollecitati a parlare; mentre non tutti vengono sollecitati a disegnare.
Quegli adulti che curano questo aspetto dello sviluppo possono farlo, e
di fatto lo fanno, nelle maniere più varie. (Pizzo Russo, 1988, p. 213).
Tuttavia, nel corso dello sviluppo, grazie alla frequenza della scuola
dell’infanzia prima e della scuola dell’obbligo dopo, grazie ai diversi
rapporti (diretti e indiretti) con i codici iconici che si trovano
nell’ambiente che li circonda, tutti i bambini raggiungono lo stadio
della figurazione nella produzione di simboli grafici.
Ma poiché gli ambienti non sono omogenei, quanto alla presenza e
all’uso di carta e matita, né tanto meno il comportamento degli adulti
segue norme uniformi nel fornire ai bambini stimoli e modelli per il
disegno, va da sé che i bambini iniziano a tracciare segni ad età molto
diverse e i loro primi tracciati possono assumere varie configurazioni,
dipendendo, anche queste ultime, sia dallo sviluppo psicomotorio che
dal contesto ambientale che tale sviluppo ha assicurato. (Ibidem, p.
212).
Il disegno coniuga il fare con il conoscere e il comunicare
muovendosi contemporaneamente su più piani: espressivo, cognitivo
e comunicativo-informativo.
In particolare l’analisi dell’attività grafica, nella fase più avanzata del
suo sviluppo, prevede la considerazione di due processi, ugualmente
fondamentali, che si riferiscono a procedimenti di “lettura-scrittura”
151
del mondo: il processo esplorativo-conoscitivo da un lato e quello
espressivo-interpretativo dall’altro, entrambi fondati sull’uso di segni
e che presuppongono la padronanza da parte del bambino di quei
processi cognitivi che sono diretti a scopi rappresentativi.
Ogni disegno può essere considerato come un sistema di riferimento
costituito da una rete di rapporti esterni (informazioni sull’oggetto e
sul contesto relazionale implicito o esplicito) utilizzati come stimolo e
strumento per articolare complesse connessioni interne che
restituiscono informazioni sul punto di vista del disegnatore.
In questo capitolo verranno prese in considerazione le principali
teorie dello sviluppo del grafismo, secondo la classificazione stadiale
che tradizionalmente ne è stata fatta e attraverso le principali linee
interpretative
percorse
da
autori
e
ricercatori.
Data
la
sovrabbondante letteratura sul disegno, quella che viene proposta di
seguito, non può che esserne una selezione, senza pretese di
esaustività.
Si cercherà poi di evidenziare come l’interesse per il disegno abbia di
volta in volta riguardato aspetti diversi del fenomeno e di come il
concetto di “arte infantile” abbia condizionato e tutt’ora condizioni il
dibattito teorico, i campi di ricerca e le modalità di utilizzo dei disegni
dei bambini.
Nel
paragrafo
conclusivo
riprenderemo
i
temi
trattati
precedentemente allo scopo di esaminare le specificità dell’attività
grafica come codice espressivo-comunicativo e, in tale operazione ci
serviremo di ipotesi, risultati e ricerche elaborate dalla psicologia
della percezione.
Nel corso di questo capitolo verranno altresì presentati i materiali
raccolti durante la ricerca: essi saranno un utile strumento esplicativo
rispetto ai temi che verranno di volta in volta tratti e le analisi che ne
saranno fatte serviranno a supportare le tesi illustrate.
152
2
Teoria delle rappresentazioni pittoriche e sviluppo
dell’espressione grafica dalle origini all’ottavo
anno di vita.
Gli scarabocchi sono un inizio ed è agli inizi che si pongono le premesse
di ogni aspetto della personalità futura. Non tutti i bambini che
scarabocchiano diventano scrittori o artisti, ma scrittori e artisti hanno
iniziato scarabocchiando. Non è neppure possibile distinguere per
qualità formali gli scarabocchi di chi è divenuto artista da colui che ha
completamente
smesso
di
disegnare,
ma
ciò
non
comporta
necessariamente una vanificazione dell’atto di scarabocchiare. (Quaglia,
2003, p. 61).
La variabilità con cui ogni bambino attraversa le fasi di sviluppo di
seguito presentate è un fattore di cui occorre tener presente
nell’analisi dello sviluppo grafico e che dipende sia delle singole
individualità che dell’influenza esercitata dall’ambiente.
Tale variabilità si evidenzia anche nel confronto tra le grafiche
raccolte durante la ricerca [vedi volume allegato] e le età dei bambini
che le hanno prodotte.
Lo stesso bambino può servirsi di un’intera gamma di tecniche nello
spazio di un solo giorno, settimana o mese (Arnheim, 1954), inoltre
bambini della stessa età disegnano figure in maniere molto diverse.
Si vedano ad esempio le figure 1, p. 5; 113, p. 73; 118, p. 76
“tartarughe”. Le figure 52, p. 33; 54, p. 34; 78, p. 49; 93; p.57 “la
fiaba de’ I tre Porcellini”. Le figure 56, p. 35 e 77, p. 48 “la fiaba di
Cappuccetto Rosso”. Le figure 58, p. 36 e 64, p. 39 “il gioco dei
ragni”. Le figure 63, p. 39; 84, p. 52; 130, p. 82 “il gioco dei canestri”.
La figura 71, p. 45 “cani”.
Gli autori di questi disegni sono tutti bambini di età compresa tra i 5 e
i 6 anni che, pur frequentando la stessa sezione di scuola
dell’infanzia (Scandiano, Reggio Emilia) da tre anni e con le stesse
153
insegnanti, danno interpretazioni grafiche completamente diverse dei
soggetti che intendono rappresentare.
Accanto ad una variabilità di “stile personale” nella valutazioneanalisi delle grafiche occorre considerare il contesto della loro
produzione e gli scopi per cui sono state prodotte. I bambini possono
scegliere di disegnare ad esempio figure “più complesse”, quando si
tratta di un unico soggetto o del protagonista di una scena, e figure
“più semplici” quando queste fanno parte di una scena dove luogo e
azione sono aspetti più importanti.
A titolo esemplificativo si osservi la figura 2, p. 6, dove Giulia (5,7) in
tre momenti diversi dello stesso mese, si rappresenta in altrettante
modalità, a seconda della posizione che il suo Sé occupa nella
narrazione grafica: in 2a l’ospite di una festa di compleanno (in cui il
soggetto più importante sembra essere la torta di compleanno del
papà); in 2b la co-protagonista, insieme a due amiche, di un’attività
vissuta in palestra; in 2c la protagonista di un’altra attività in palestra
vissuta la settimana successiva.
Il confronto tra i tre disegni di Giulia evidenzia inoltre quanto si possa
rivelare fallace l’uso dei disegni (specie di uno solo) come misura
dello «sviluppo cognitivo»; le tre rappresentazione sembrano
suggerire diverse idee del sé in relazione a un più ampio contesto
rappresentativo che comprende lo scopo per cui il disegno è stato
prodotto, la comprensione della consegna dell’adulto, la scelta di
determinati soggetti per esprimere un contenuto... e tanto altro.
Le teorie che stabiliscono una forte corrispondenza tra l’evoluzione
della rappresentazione grafica e il più generale sviluppo cognitivo
(orientamento psicometrico), autorizzano l’uso dei disegni per
cogliere e “misurare” lo sviluppo intellettivo del bambino. Tale utilizzo
si è rivelato arbitrario alla luce di nuovi modelli di interpretazione e
lettura dei prodotti dei bambini e di una maggiore considerazione
delle diversità individuali, dei fattori esperienziali e delle differenze
culturali
nella
definizione
degli
154
obiettivi
dello
sviluppo
che
intervengono in ogni processo di ideazione e produzione di artefatti
materiali e simbolici114.
Solo ai fini di una teoria sistematica lo sviluppo della forma può venir
presentato come una standardizzata sequenza di passi, ben distinti gli
uni dagli altri. E’ possibile, e anche utile, isolare le varie fasi e allinearle
in termini di complessità crescente; ma questa sequenza corrisponde
soltanto approssimativamente a ciò che realmente avviene in qualsiasi
esempio concreto. Bambini diversi toccheranno le diverse fasi in periodi
di tempo diversi […]. Lo sviluppo della struttura percettiva non è che un
fattore al quale altri fattori si possono sovrapporre modificandolo nel
processo globale dell’evoluzione mentale. Inoltre, stadi dell’evoluzione
più remoti possono permanere anche quando siano stati raggiunti stadi
più progrediti; e, quando si trova di fronte a una difficoltà, il bambino può
retrocedere a una situazione primitiva […]. Si dovrebbe anche tener
presente il fatto che non esiste un rapporto fisso tra l’età del bambino e il
grado d’evoluzione dei suoi disegni. Esattamente come i bambini della
stessa età variano per quella che viene indicata come età mentale o
114
Le teorie stadiali forniscono un quadro normativo anche per quanto riguarda lo
sviluppo del disegno, dandoci un’idea di cosa possiamo aspettarci da un bambino
a una data età. Nel corso del tempo, esse sono state tuttavia oggetto di numerose
critiche da parte di autori quali Golomb (2002), Tallandini, Valentini, (1990),
Thomas, Silk (1990) per citarne alcuni. Eleonora Cannoni così riassume le
principali critiche ad esse rivolte:
•
una suddivisione evolutiva in stadi penalizza l’idea della continuità dello
sviluppo umano. Non è facile identificare il momento in cui si verifica un
cambiamento “studiale”: si assiste piuttosto a modificazioni quasi
insensibili, e forse di tanto in tanto a qualche improvvisa scoperta. Inoltre,
accanto ai progressi, nel disegno si verificano anche temporanei regressi
•
la sequenza evolutiva individuata non sempre viene rispettata fedelmente:
è possibile sia saltare del tutto uno stadio passando direttamente al
successivo, sia che due stadi si fondano tra loro, dando vita ad un “ibrido”
•
il livello evolutivo delle abilità pittoriche non sembra strettamente collegato
con l’età cronologica; molti adolescenti e adulti non raggiungono mai lo
stadio del realismo visivo […]; viceversa, bambini nella fase dello
scarabocchio possono disegnare una figura umana completa se un adulto
enuncia loro verbalmente la progressione delle parti del corpo.
L’autrice conclude affermando che «sulle abilità pittoriche sembra invece influire
l’esperienza, ossia il livello di familiarità e di confidenza sia nell’eseguire disegni
personali (produzione pittorica), sia nell’osservare quelli prodotti da altri (fruizione
pittorica)» (Cannoni, 2003, pp. 20-21).
155
intelligenza, così varia pure il grado di maturità che si riflette nei loro
disegni. (Arnheim, 1954, pp. 158-159).
Tenuto conto di queste importanti premesse, gli studiosi che si sono
occupati dell’evoluzione del disegno individuano generalmente tre
momenti fondamentali relativi rispettivamente alla genesi dei primi
tracciati
(sedici-diciotto
mesi/tre
anni),
al
passaggio
dallo
scarabocchio allo “schema figurativo” (tre/sei anni) e alla comparsa
della figurazione come linguaggio simbolico vero e proprio (sei/otto
anni). Si tratta di una cornice convenzionale, utile a tratteggiare lo
sviluppo del disegno: le età in cui i diversi autori situano la comparsa
di un particolare fenomeno sono indicative e la variabilità
interindividuale molto forte.
In questo paragrafo, per ogni fase dello sviluppo grafico si
prenderanno in esame ipotesi e teorie, nonché orientamenti che
studiosi dell’argomento hanno via via elaborato per rendere conto di
questa manifestazione specificatamente umana115. Uno spazio
privilegiato sarà riservato al passaggio dallo scarabocchio allo
schema figurativo, trattandosi del periodo di sviluppo oggetto, nello
specifico, della ricerca.
Diverse discipline si sono occupate dello studio del disegno:
psicologia, pedagogia, sociologia, antropologia e discipline artistiche.
115
«Di fatto, non solo i bambini ma anche “le scimmie riconoscono quasi
spontaneamente le immagini al tratto di oggetti familiari”. Lo scimpanzè Viki usava
le fotografie per ottenere da Keith e Cathy Hayes gli oggetti che voleva, percepire
un disegno, riconoscendolo come raffigurante un oggetto, non è tuttavia in nessun
modo produrlo […].
Così, se il riconoscimento di disegni accomuna bambini e scimmie, la produzione li
differenzia. L’invenzione di forme grafiche è specifica della specie uomo […].
“Nessuna scimmia, non importa di che età ed esperienza, è stata finora capace di
uno sviluppo grafico fino allo stadio pittorico della semplice rappresentazione”. Del
resto, ad un’analisi attenta della documentazione sull’arte degli scimpanzè e
sull’attività grafica iniziale del bambino, si evince che le capacità del bambino e del
primate divergono da molto prima […]. Per lo scimpanzè l’imitazione dell’azione
grafica dell’adulto si ferma allo stadio dello scarabocchio, mentre il bambino
procede nell’’imitazione” della forma dei segni tracciati dall’adulto, e nell’imitazione
della forma degli oggetti”. “Imitare” la forma degli oggetti non deve essere tanto
semplice se nessuno dei 32 primati infraumani, di cui riferisce Morris, vi è riuscito»
(Pizzo Russo, 1988, pp. 196-198).
156
In ambito più strettamente psicologico, sono stati fatti usi svariati
delle manifestazioni grafiche dei bambini: ne sono stati ricavati test
psicometrici di diversi tipi, sono stati utilizzati come misura della
creatività infantile e come rilevatori di tratti della personalità nei
setting psicanalitici. Quel che segue non può che essere una mappa
orientativa di autori e teorie utile ad evidenziare i rapporti tra lo
sviluppo del pensiero simbolico, l’ambiente in cui tale sviluppo ha
luogo e quella forma specifica di espressione che è l’attività grafica.
In questo senso non verranno prese in considerazione le teorie
psicanalitiche e cliniche in modo specifico, ma verranno selezionati
alcuni autori e modelli teorici e ne saranno lasciati sullo sfondo altri,
presentati tuttavia nella sezione bibliografica.
2.1
Il disegno come movimento
Secondo molti autori, all’inizio, il di-segnare non è altro che l’incontro
casuale tra un gesto e una superficie in grado di registrarne il
percorso; per altri si tratta di una scoperta preparata ed attesa, frutto
dell’osservazione e imitazione di figure con le quali il bambino ha una
relazione affettivamente importante116.
116
«A riferire qualcosa sul significato dei primi tracciati non sono i bambini che
disegnano, ma quelli che non disegnano. Non è difficile appurare che i bambini che
non disegnano, in realtà, sono bambini che non hanno mai avuto modo di
osservare i genitori scrivere o, in ogni modo, hanno genitori che non favoriscono le
condizioni per disegnare, non fornendo ai figli né le possibilità materiali né rinforzi
affettivi. Imitare l’adulto per il bambino non è un puro esercizio intellettivo, ma è un
apprendere ad essere nel sentirsi come l’altro. L’attività grafica, come qualsiasi
altra attività fondamentale, si genera e si sviluppa all’interno di una relazione
affettivamente importante. Inizialmente il bambino imita il gesto dell’adulto, un
gesto che “fa” cose di estrema serietà […]. Soltanto in un secondo momento
subentrerà l’interesse del bambino per la propria produzione, passando
dall’imitazione del gesto all’imitazione del prodotto del gesto, cioè ai tracciati.
Questo passaggio avviene a condizione che gli adulti si interessino ai disegni dei
bambini valorizzandoli. Nessun apprendimento avviene per caso e ogni gioia
autentica del bambino si esprime all’interno del dialogo relazionale con i genitori.
Non esiste un piacere che possa sorgere e alimentarsi nel vuoto affettivo. Il
piacere motorio promosso dall’attività grafica diviene così piacere imitativo, mentre
il piacere visivo per le linee è in funzione della gioia che il bambino vede quando
157
Sia in un caso che nell’altro, l’origine del linguaggio grafico è un
movimento che lascia una traccia [figure 3 e 4, p.7].
Con il gesto ha inizio lo sviluppo del linguaggio figurativo sia sul piano
ontogenetico sia su quello filogenetico. In quanto libero, spontaneo,
svincolato da qualsiasi rapporto di dipendenza con gli strumenti e con le
tecniche, il gesto, animato da una forza ancestrale, esprime la presenza
vitale, primordiale, istintiva, preculturale e astorica che soggiace in ogni
uomo. La pittura gestuale, l’informale europeo e l’action painting
americano, facendo appello a quanto di arcaico permane nella natura
umana, propongono, appunto, il ritorno alle origini; a quell’espressività
primitiva e selvaggia governata da forze brutali, allo scopo di ritrovare
nell’unità uomo-natura-materia l’autenticità e l’unicità del gesto aurorale.
In fondo il gesto non può esprimere qualche cosa d’altro all’infuori del
proprio essere-azione, atto esistenziale, espressione del dinamismo
psico-cosmico dell’Essere. (Di Napoli, 2004, pp. 212-213).
Le prime organizzazioni grafiche prodotte dal bambino, indicate col
termine di scarabocchio117, sono collocate, nella nostra cultura,
mostra i suoi tracciati agli adulti. I gesti di un bambino non visto si perdono nel
vuoto» (Quaglia, 2003, pp. 50-51).
117
«Ma cosa si intende per scarabocchio? Intanto, se “è disdicevole che lo
scarabocchio abbia per gli adulti una connotazione negativa”, tale connotazione
non è, oramai da molto tempo, la più frequente. Anzi, la connotazione prevalente è
positiva. Lo è, quantomeno, nella letteratura specialistica. Ma qui, il significato di
scarabocchio, sebbene l’esemplificazione grafica di esso sia uno scarabocchio per
lo più circolare o, meno frequentemente, pendolare, non è per nulla univoco. Può
essere quello comune di groviglio di linee variamente orientate, e/o stadio iniziale
dell’attività grafica, o ancora linee in funzione non rappresentativa; l’analisi può
essere basata sul tracciato, sul gesto tracciante, su entrambi; la descrizione può
tenere presente la variabile età, oppure prescinderne; l’opposizione può essere
con il disegno in quanto rappresentativo, o con il segno in quanto lineare e non
massivo; e così via. Ne risulta un insieme eterogeneo esemplificabile con le
diverse classificazioni: da quella della Eng che distingue lo scarabocchio in
pendolare, circolare, a forme sparse; a quella di Meyers che quadripartisce in
tracciati lanciati, “di va e vieni”, circolari, variati; a Lowenfeld e Brittain che parlano
di scarabocchio disordinato, controllato, identificato da un nome; a Bernson con la
distinzione di scarabocchio vegetativo-motorio, rappresentativo, comunicativosociale; a Ada Fonzi che distingue lo scarabocchio in disinteressato e interessato;
a Cyril Burt che parla di uso della matita senza uno scopo, uso intenzionale della
matita, uso imitativo, scarabocchio localizzato; fino ad arrivare a Rhoda Kellogg
che descrive venti scarabocchi-base» (Pizzo Russo, 1988, pp. 206-207).
158
approssimativamente tra i sedici e i diciotto mesi di vita118. Esse
sarebbero più il risultato di “colpi di mano” che di “sfregamenti”:
mentre il controllo motorio del bambino è ancora limitato, la carica
d’energia e di entusiasmo che mette in questo genere di attività è
solitamente grande.
Ad un certo punto, di solito verso i due anni, il bambino, quando gli viene
dato un lapis, comincerà a tracciare dei segni sulla carta. Per quanto lo
scarabocchiare possa cominciare anche più presto, di solito i bambini
molto piccoli considerano il lapis come qualcosa da guardare, da
succhiare e da stringere. I primi scarabocchi sono dei segni eseguiti a
caso, il bambino può guardare anche altrove mentre scarabocchia. Da
ciò però gli deriva una grande soddisfazione perché è impegnato in
118
«La letteratura sull’argomento riporta la comparsa dello scarabocchio ad età
molto diverse: dai 2 ai 3 anni (Osterrieth, 1973) o dai 2 ai 4 anni (Lowenfeld e
Brittain, 1947) è l’età più frequentemente indicata. Tuttavia è stata riscontrata una
produzione di soli scarabocchi anche in bambini di età superiore ai 4 anni, se si
prendono in considerazione dati provenienti dalla ricerca interculturale. Gorge
Rioux, ad esempio, in ambiente nord-africano, alla richiesta di un disegno a
piacere e di uno a tema, in soggetti dai 6 anni e 5 mesi ai 12 anni e 4 mesi,
frequentanti una prima classe preparatoria, ha riscontrato il 5% di scarabocchi e,
per inciso, lo stesso autore nota la scomparsa totale dello scarabocchio,
indipendentemente dall’età, dopo un anno di scolarizzazione» (Ibidem, p. 266).
Gli studi longitudinali attestano la comparsa dello scarabocchio molto prima dei
due anni. Per uno dei bambini studiati da Paolo Bonaiuto è a 6 mesi e 15 giorni
(Bonaiuto, 1970); età davvero eccezionale se si considera lo scarabocchio sotto il
profilo della maturazione neurofisiologica.
L’arco cronologico andrebbe quindi da 6 mesi e 15 giorni a 12 anni e 4 mesi che, in
termini di sviluppo psichico, sono età difficilmente equiparabili. Se in un primo
momento la maturazione neurofisiologica gioca un ruolo decisivo, la stessa, non
può essere chiamata in causa per spiegare lo scarabocchio in età successive. «In
sostanza si dimentica l’ambiente, che quand’anche si limitasse a fornire al
bambino l’occorrente per l’attività grafica, svolgerebbe già un ruolo tutt’altro da
sottovalutare. Anche se, ovviamente, non si può misconoscere l’importanza della
maturazione per la comparsa dell’attività grafica, lo sviluppo psicomotorio è
condizione necessaria ma non sufficiente: il bambino può essere pronto a tracciare
segni, ma se l’ambiente non conosce il medium del disegno, il bambino non
disegnerà» (Pizzo Russo, 1988, p. 204).
Conviene dunque, in termini generali, individuare la soglia prima della quale non vi
sono condizioni di possibilità né di scarabocchi né di disegni, più che indicare l’età
della loro comparsa. Di fatto, la maggior parte degli studi longitudinali segnala la
comparsa dello scarabocchio verso la fine del primo anno di vita, e l’età riportata
da Bonaiuto, alla luce delle osservazioni rivolte non specificatamente al disegno
ma più in generale allo sviluppo della prima infanzia, può essere considerata la
soglia maturativa prima della quale non ci sono nemmeno le condizioni di
possibilità dello scarabocchio.
159
un’attiva esperienza cinestetica, una delle prime a consentirgli di
esprimersi in modo diverso dal piangere. Tutti i fanciulli del mondo
iniziano con lo scarabocchiare […]. Possiamo perciò dire che lo
scarabocchio è un aspetto naturale dello sviluppo dei fanciulli e come
tale riflette il globale sviluppo fisico e mentale […].
Il lapis può essere tenuto dritto o inclinato, oppure afferrato con il palmo
della mano oppure tenuto tra le dita. Il fanciullo è in genere affascinato
dai suoi scarabocchi e ne deriva una grande soddisfazione, senza con
ciò voler tentare nessuna immagine visiva ma prendendo solo piacere
dal movimento in quanto attività cinestetica. (Lowenfeld - Brittain, 1947,
pp. 103-104).
Il
bambino
produce
«scarabocchi
disordinati»119
compiendo
movimenti più ampi possibili utilizzando l’intera circonduzione del
119
Victor Lowenfeld e W. Lambert Brittain distinguono tre stadi di sviluppo dello
scarabocchio: lo stadio dello scarabocchio disordinato, lo stadio dello scarabocchio
controllato e lo stadio in cui viene attribuito un nome agli scarabocchi. «Durante le
prime fasi dello scarabocchio i segni fatti sulla carta possono andare in molte
direzioni. Molto dipende dal fatto che il bambino disegni stando sul pavimento,
oppure stia in piedi e disegni su un tavolo basso. La maniera in cui viene tenuto il
pastello influenza anch’essa il tipo di segno. È importante notare che la grandezza
dei movimenti riprodotti sulla carta è in rapporto con la grandezza del bambino […].
Poiché i piccoli autori degli scarabocchi non hanno ancora un controllo muscolare
del tutto sviluppato, di solito ripetono solo i segni più larghi. Bisogna ricordare che il
bambino scarabocchia compiendo i movimenti più ampi che gli sono possibili,
anche se ad un adulto il risultato può apparire solo come un disegno di esigue
proporzioni» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 105).
Gli “scarabocchi disordinati” sono stati studiati in modo approfondito da Rhoda
Kellogg. Nella terminologia dell’autrice essi vengono definiti “scarabocchi-base”.
«Gli scarabocchi-base sono venti tipi di segni che i bambini fanno già all'età di due
anni e in alcuni casi anche prima. I movimenti che essi compiono, comportano
variazioni di tensione muscolare che non richiedono l’uso della vista: a due anni, i
bambini possono eseguire tutti gli scarabocchi senza il controllo degli occhi; se
fosse possibile registrare con uno strumento i movimenti della punta delle dita di
un neonato che agita le braccia nell’aria, ne risulterebbero proprio questi
scarabocchi. Anche i bambini ciechi possono farli, ma naturalmente non traggono
nessun piacere visivo dai risultati del gesto e non hanno quindi stimoli a comporre
scarabocchi.
Gli scarabocchi-base ci aiutano a capire come nei bambini molto piccoli la facoltà
di disegnare, anche se in modo estremamente rudimentale, sia naturale. Anche gli
animali possono tracciare delle linee su una superficie, ma nessuno di essi è in
grado di fare tutti gli scarabocchi-base; per farli tutti è necessario il sistema
nervoso e muscolare dell’uomo, ed è quindi evidente che la capacità di comporre
scarabocchi non è un’acquisizione recente della specie» (Kellogg, 1969, p. 17).
L’autrice definisce gli scarabocchi-base come «le strutture portanti del disegno» in
quanto sarebbero a fondamento di tutte le produzioni grafiche. Con la Kellogg lo
160
braccio, e continua a farlo, anche se il risultato è costituito da segni
brevi, dovuti alla non completa aderenza dello strumento al foglio120
e al fatto che spesso il bambino stia guardando altrove durante la
produzione.
In questo tipo di attività il bambino è impegnato complessivamente:
c’è una partecipazione di tutto il corpo allo sforzo grafico che non si
limita all’azione della mano e del braccio; c’è ancora un richiamo ad
abilità e competenze che fanno capo a settori diversi: motorio,
intellettivo, percettivo.
Sono qui gli inizi del movimento espressivo, cioè le manifestazioni del
momentaneo stato d’animo del disegnatore oltre che dei tratti
permanenti della sua personalità. Queste qualità mentali sono
costantemente riflesse dalla velocità, dal ritmo, dalla regolarità o
dall’irregolarità, dalla forma dei movimenti corporei, e lasciano quindi il
segno sui tratti a matita o a pennello. (Arnheim, 1954, p. 150).
Rudolf Arnheim121 osserva che questa prima fase risulta legata ai
movimenti descrittivi122 del gesto (pertanto le prime manifestazioni
scarabocchio perde il suo carattere di “stadio” e acquista quello di “alfabeto” del
disegno.
120
Già ad un anno circa d’età il bambino è in grado di produrre quello che è stato
denominato lo “scarabocchio di corpo”, un insieme di grandi tracce che
concretizzano la sua presenza “dinamica”. Questo tipo di attività è proposta spesso
ai bambini che frequentano i servizi dell’infanzia 0-3: vengono loro dati a
disposizione grandi fogli su cui possono sedersi e disegnare (un tipo di attività che
può essere proposta anche ai bambini che ancora non deambulano) e grossi
supporti traccianti (pennelli, pennellesse, pennarelli o altri tipi di colori che possono
essere facilmente impugnati e manipolati dai bambini). Il prodotto che ne risulta è
spesso un gioco di linee e colori con un grande buco bianco in mezzo, che
corrisponde alla seduta del bambino. Nello “scarabocchio di corpo” verticale, fogli
di grandi dimensioni (alti quasi il doppio del bambino e lunghi il più possibile) sono
collocati di fronte ai bambini. I bambini possono camminare disegnando o fare
cerchi e vortici utilizzando il movimento di tutto il braccio o di entrambe le braccia.
All’interno di queste sperimentazioni il cui scopo è la registrazione del movimento e
la stimolazione dell’attenzione del bambino al rapporto tra movimento e grafismo,
sono previste anche attività centrate sulle “vere” tracce: lasciare impronte di mani e
di piedi; utilizzare stampi naturali o artificiali.
121
Il metodo di trattazione delle rappresentazioni infantili da parte di Arnheim è di
tipo psicogenetico. Egli sostiene, come sarà maggiormente chiarito in seguito,
161
grafiche sono caratterizzate dalla predominanza della linea sulla
macchia) e ne sottolinea il perdurare dell’importanza nel tempo.
Il gesto della mano che accenna alla forma di un animale nell’aria
durante una conversazione non è molto lontano dall’atto di fissare la
stessa impronta nella sabbia o su una parete […]. Questo aspetto
rappresentativo del comportamento motorio è ben evidente nel bambino
piccolo. Jacqueline Goodnow registra che i bambini dell’asilo, cui è stato
richiesto di accoppiare una serie di suoni con una serie di puntini,
disegnano i puntini in fila da sinistra a destra ma non lasciano spazi
vuoti sulla carta in corrispondenza degli intervalli tra gruppi di suoni.
Invece usano sovente pause motorie: fanno due puntini, si fermano, altri
due puntini, e così via. Per loro questo corrisponde al modello sonoro,
anche se sulla carta gli intervalli non risultano. (Ibidem, pp. 150-151).
I
primi
prodotti
grafici
sono
esecuzione-registrazione
di
comportamenti motori che traducono una modalità sincretica di
sentire:
come
sottolineato
da
Arnheim,
non
si
tratta
di
rappresentazioni, ma piuttosto di presentazioni; sono
una forma della gradevole attività motoria con la quale il bambino
esercita gli arti, con il piacere addizionale di produrre tracce visibili
attraverso i gesti vigorosi delle braccia avanti e indietro. Produrre
qualche cosa che prima non esisteva è un’esperienza gradevole.
Quest’interesse per il prodotto fine a se stesso […] è un semplice
piacere sensoriale, che perdura invariato anche nell’artista adulto.
(Ibidem, p. 150).
un’origine motoria della rappresentazione (anche artistica) nel senso che il
comportamento motorio ha in sé un valore descrittivo: produce rappresentazioni.
122
«La spontaneità del gesto è governata dall’intenzione di imitare le proprietà
delle azioni o degli oggetti […]. Sembra lecito presumere che la sorgente
dell’attività artistica deliberata stia nel movimento descrittivo» (Arnheim, 1954, p.
150). Anche per Piaget, che considera il movimento descrittivo «germe
dell’imitazione», la sorgente del disegno può essere ravvisata nel gesto (Piaget,
1945, p.110); tuttavia secondo Piaget, che distingue percezione e attività
percettiva, «il disegno traduce i movimenti di esplorazione del soggetto molto più
che la sua percezione visiva» (Piaget - Inhelder, 1948, pp. 45-46).
162
È l’inizio di un processo di reificazione destinato ad avere sempre
maggior importanza: «lo scarabocchio, realizzandosi, diviene per il
bambino un oggetto privilegiato perché è l’oggetto che egli stesso sta
creando. Lo scarabocchio si individualizza, si condensa in qualcosa
che si stacca su uno sfondo» (Neville, cit. in, Pizzo Russo, 1988, p.
206).
Per Arnheim la forma, la dimensione e la disposizione dei tratti che
compongono lo scarabocchio è determinata sia dalla costruzione
meccanica del braccio e della mano quanto «dal temperamento e
dall’umore del bambino» (Arnheim, 1954, p. 150).
Anche se gli scarabocchi dei bambini possono sembrare tutti uguali,
essi sono già altamente personali nella forma, nella composizione,
nel tratto e nel dinamismo: lo scarabocchio «porta la firma dell’autore
accanto ai contrassegni della specie». (Bernson, 1968, p. 35).
Del resto non bisogna parlare di scarabocchio in generale perché già
al suo interno si delineano differenze nel senso del controllo e
dell’organizzazione.
Solo lo scarabocchio «incontrollato» (fino ai due anni circa) è in
prevalenza movimento123. Dopo un periodo di solito non molto lungo
di esperienza con gli strumenti e con l’attività, cominciano a rendersi
evidenti segni di controllo e di organizzazione, cioè una prima
tendenza verso espressioni “figurali”: gli scarabocchi cominciano ad
avere valore e funzione di rappresentazione.
123
«Gli scarabocchi comprendono tutti i segni che risultano da un movimento
spontaneo, eseguito o meno con il controllo degli occhi. Quando gli scarabocchi
vengono fatti con il controllo visivo, danno una gamma infinita di effetti ottici,
tuttavia ciascun disegno, modello, forma, struttura, simbolo figurativo o linguistico
può essere scomposto negli scarabocchi che lo compongono, vale a dire nei suoi
elementi lineari di base.
È difficile trovare esempi puri di questi scarabocchi nei disegni dei bambini di due
anni; a quest’età, normalmente essi sovrappongono uno scarabocchio ad un altro.
La mano del bambino muta spesso direzione, forse per evitare la fatica muscolare,
e di solito i cambiamenti di direzione modificano la forma dello scarabocchio.
Sovente a tre, quattro anni, il bambino disegna sullo stesso foglio un solo tipo di
scarabocchio» (Kellogg, 1969, p. 21).
163
Crediamo tuttavia che non sia corretto parlare di «attività puramente
motoria degli esordi» (Lowenfeld - Brittain, 1947).
La mia esperienza evidenzia piuttosto un’attenzione per la traccia già
dalle primissime manifestazioni: i bambini sembrano interessati fin
dall’inizio ai segni che lasciano sui fogli e il vederli comparire dà loro
un innegabile piacere. Né, prescindendo dall’attrazione per la traccia,
sarebbe possibile capire il comportamento di Jacqueline riferito da
Jean Piaget (1945) quando, a 1 anno e 21 giorni, smette di imitare il
padre che disegna perché, avendo capovolto la matita, essa non
lascia traccia sul foglio. In questo esempio si palesa il precoce
interesse della bambina per il segno e non per il solo movimento124.
Si chiede a proposito Rhoda Kellogg:
perché un bambino traccia dei segni sulla carta o delle linee nella
polvere? Perché smette subito di scarabocchiare se il suo gesto non
lascia traccia, se ad esempio il gessetto gli si rompe in tanti pezzi
inutilizzabili? Perché una finestra appannata lo attrae solo fino a quando
il vapore gli permette di vedere le linee tracciate dal suo dito? La
risposta è che l’interesse visivo, sia esso primario o no, è una
componente essenziale dello scarabocchiare. (Kellogg, 1969, p. 11).
Possiamo allora dire che l’elemento percettivo è presente fin dagli
esordi: il gesto, la traccia lasciata dal gesto, i mezzi con cui e su cui
si lascia la traccia sono tutti elementi che entrano nella vicenda
percettivo-espressiva.
124
Piaget inserisce l’attività con la matita nel V stadio del periodo sensomotorio,
caratterizzato dalle “reazioni circolari terziarie”. A proposito delle prime esperienze
di imitazione della figlia Jacqueline riferisce: «a 1;0 (21) [Jacqueline] imita l’azione
del disegnare. Le metto sotto gli occhi un foglio di carta e traccio qualche segno
con la matita. Poso quindi la matita: lei se ne impossessa subito ed imita il mio
gesto con la mano destra. Non riesce dapprima a scrivere, ma, raddrizzando per
caso la matita, traccia qualche segno e, subito, le viene da continuare. Passa
quindi la matita alla mano sinistra, ma capovolgendola. Cerca allora di disegnare
con la parte sbagliata; constatando l’insuccesso, essa non rigira la matita, ma la
rimette nella mano destra e aspetta» (Piaget, 1945, p. 75).
164
Esistono
inoltre
differenze
nel
comportamento
dei
bambini
relativamente all’attenzione che essi dedicano ai loro tracciati, a
partire dall’interesse che ciascuno manifesta: c’è chi si stanca subito
e chi no, alcuni non staccano mai lo sguardo dal foglio, mentre altri
guardano altrove; alcuni sembrano più interessati alla mano che si
muove sul foglio, altri al tracciato; ci sono quelli che continuano a
disegnare solo sul foglio e con la matita, altri che sembrano trovare
maggiore soddisfazione a scarabocchiare sui muri o su qualunque
altro supporto.
Ricordiamo che date le diversità ambientali in cui i bambini hanno o
non hanno la possibilità di scarabocchiare e l’enorme variabilità
individuale che presentano fin dalla nascita, la prima traccia e
l’andamento delle successive può presentare variazioni notevoli da
bambino a bambino.
Il segno grafico non è il primo doppio che il bambino riesce a
staccare da sé125, né la sua prima “presentazione”; tuttavia
costituisce l’inizio di un processo di obiettivizzazione e di fissazione.
Essa è qualcosa di persistente e duraturo nel tempo (informazione
visiva) che si contrappone alla traccia sonora (informazione acustica)
la cui caratteristica è l’immediato svanire. Essa si pone come visibile
e tangibile “duplicazione” del sé: è autonoma e permanente anche
quando il suo autore non è più presente.
Anche se la traccia sonora svanisce in fretta, essa ha tuttavia
carattere “imperativo”: gli adulti rispondono immediatamente ai
vocalizzi del bambino, stimolandone la produzione ulteriore e
creando format interattivi importantissimi per lo sviluppo del linguaggio
(Bruner, 1983a).
125
Pierre Naville vede nello scarabocchio la fine di un periodo in cui il bambino è
impegnato attivamente a lasciare tracce organiche o corporee di sé (come ad
esempio la saliva, l’impronta della mano o del piede). Secondo questo autore il
bambino prova un piacere istintivo a ripetere ogni tipo di azione che lascia un
segno del sé. Lo scarabocchio si inserirebbe alla fine di questo periodo (e non
all’inizio dell’attività grafico-rappresentativo) e sarebbe espressione della vita
vegetativa e istintiva dell’uomo. Cfr. Quaglia, 2003.
165
In questo senso, è possibile sostenere che il significato sociale delle
prime manifestazioni grafiche nella nostra cultura è, a differenza di
quelle sonore, rimandato nel tempo e tuttavia il bambino prosegue
attivamente
nell’esplorazione
e
nell’apprendimento
di
questo
linguaggio.
L’interesse percettivo, presente, come abbiamo visto, fin dall’inizio,
non va tuttavia confuso con il crescente controllo del gesto; né il
bambino scopre «che vi è una connessione tra i suoi movimenti ed i
tracciati sul foglio […] all’incirca sei mesi dopo che ha cominciato a
scarabocchiare» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 240).
Il fatto che crescendo il bambino abbia un maggiore controllo sul suo
tracciato non va interpretato, a nostro avviso, come causato dalla
«scoperta» del nesso movimento-segno; l’esercizio, che la scoperta
del nesso causale promuove, contribuisce piuttosto allo sviluppo
della coordinazione visivo-motoria necessaria alla produzione del
segno grafico. Così il bambino gradualmente abbandona questa
attività “disordinata” e “presentativa” e inizia attivamente a produrre
segni e a cercare di controllarli; è questo il momento dello
scarabocchio controllato126 in cui «scopre» le possibilità offerte dal
controllo visivo.
Nel disegno di Caterina (3,11) in figura 5, p. 8 il controllo visivo è
espresso dalle tonalità utilizzate per coprire zone diverse del foglio e
dalla volontà di rimanerne all’interno.
Mentre i primi scarabocchi comprendono «tutti i segni spontanei,
eseguiti o meno con il controllo degli occhi» (Kellogg, 1969) gli
scarabocchi controllati prevedono una supervisione dell’occhio che
guidi il comportamento della mano, senza che questa supervisione
sia necessariamente programmata dall’inizio.
126
«In un determinato momento il bambino scopre che c’è un rapporto tra i suoi
movimenti ed i segni ottenuti sulla carta […] è un passo molto importante perché il
bambino scopre, in tal modo, la possibilità di un controllo visivo sui segni da lui
effettuati» (Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 105).
166
In questo periodo i bambini si dedicano agli scarabocchi con grande
entusiasmo, perché il coordinamento tra sviluppo visivo e sviluppo
motorio è una conquista estremamente importante. La gioia di questa
scoperta stimola il bambino a variare i movimenti. Il ripetersi di certi
movimenti indica un sopravvenuto controllo su certi movimenti
essenziali.
Le
linee
possono
essere
tracciate
orizzontalmente,
verticalmente e circolarmente […]. Il bambino non ha alcun intento
creativo oltre a quello di muovere il pastello sulla carta. Tutta la sua gioia
è determinata dalla sensazione cinestetica e dalla sua padronanza.
(Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 240).
Ma mentre il bambino scarabocchia sul foglio, la carta stessa gli offre
uno stimolo visivo che muta in relazione alla sua attività grafica.
L’immagine nel suo insieme – spazi bianchi e segni – si modifica
sotto ai suoi occhi e il bambino reagisce alla nuova immagine che si
crea, in un “gioco” di rimandi continui. Gli scarabocchi, in questa
fase, sono collocati in posizioni diverse del foglio, sotto il controllo di
una sufficiente coordinazione oculo-manuale.
La Kellogg chiama questi scarabocchi «modelli di posizione»127 per
sottolinearne la collocazione rispetto al foglio. Ciascun modello di
posizione rivela, secondo l’autrice, un tipo di percezione associato
allo scarabocchiare. Ad esempio lo scarabocchio di Caterina della
figura 5, nella classificazione della Kellogg, corrisponde al modello di
posizione n.10, dove lo scarabocchio occupa due terzi del foglio
(Kellogg, 1969).
Se le linee e gli spazi che ha dinnanzi glielo suggeriscono, [il bambino]
può essere indotto a completare un modello di posizione. Può
ovviamente seguire un progetto iniziale e disporre le linee nella pagina
secondo una precisa intenzione, oppure la sua percezione delle linee,
127
«Gli scarabocchi-base si possono riconoscere in tutte le formazioni di linee
eseguite su qualsiasi superficie, mentre la posizione di un segno va riferita ad un
perimetro ben definito, a una qualche “cornice” […]. Sono riuscita ad individuare
diciassette modelli di posizione nell’arte infantile, ma ve ne potrebbero esser altri
che ricorrono con una certa frequenza» (Kellogg, 1969, pp. 28-30).
167
degli spazi e dei rapporti figura-superficie può non agire per nulla; il
bambino può essere così assorto nel tracciare una linea da ignorare
completamente il foglio di carta nel suo insieme. Si hanno tuttavia prove
che spesso il bambino vede il foglio come un tutto unico e reagisce di
conseguenza;
succede
spesso
che
i
bambini
collochino
intenzionalmente i loro segni lungo il lato del foglio. (Kellogg, 1969,
p.30).
I modelli di posizione sono le prime documentazioni di struttura
controllata.
Ricordano forme non casuali, come la mezza circonferenza, il quarto di
circonferenza, rettangoli, triangoli, archi e molte altre ancora […]. Questi
modelli sono eseguiti spontaneamente, non sono copiati o suggeriti
dall’insegnante e spesso sono la risposta allo stimolo visivo che gli offre
il suo stesso scarabocchio. I modelli suggeriscono le forme che il
bambino farà più tardi, riempiendo una certa superficie o disegnando un
contorno. (Ibidem, p. 35).
Anche gli scarabocchi base suggeriscono forme come il cerchio, il
triangolo o il rettangolo, tuttavia in questi tracciati i movimenti della
mano non sono necessariamente guidati dall’occhio, cosa che non
accade nei modelli di posizione, in cui la supervisione dell’occhio
condiziona il tratto [figura 6, p.8].
Lo scarabocchio è dunque all’inizio un evento cinetico che provoca
piacere motorio e visivo, un’espressione dei movimenti della mano e del
braccio sostenuti da un’attività globale di tutto o parte del corpo in cui
non interviene altro fattore intellettivo se non l’intenzione di lasciare una
traccia. (Oliverio Ferraris, 1973, p. 20).
Il bambino prende lentamente coscienza dei rapporti di causa ed
effetto tra il suo gesto e la traccia, in modo che la traccia,
provocando una reazione sul gesto, ne diviene causa a sua volta. In
168
questo senso si può parlare dello sviluppo dell’attività graficorappresentativa come una lenta conquista intenzionale da parte del
bambino verso un tipo di comportamento sempre più significativo
che, a partire da una “naturale vitalità motoria”, si mette in relazione
ad un’istintiva forma di “provocazione” nel voler ottenere effetti sul
mondo.
Da questo momento in poi il bambino varia i suoi movimenti (che si
fanno via via più scorrevoli) e cerca attivamente di cambiare la
direzione e la forma delle sue linee: compaiono linee verticali,
orizzontali, circoli, zig-zag e ghirigori. Il bambino si rende conto di
poter decidere lo “stile” della linea che realizza.
Si veda a questo proposito la grafica di Daniele [figura 7, p. 9] dove
lo spazio grafico è riempito da diverse tipologie di segni e colori:
puntini, linee vaganti aperte e attorcigliate, linee diagonali multiple,
cerchi a linee multiple sovrapposte.
L’intenzione di controllare il gesto nasce dall’esame della traccia ed è
resa possibile dalla contemporanea maturazione della motricità fine,
in particolar modo dalla motilità della mano-avambraccio e
dall’evoluzione del controllo visivo sulla traccia.
Soffermiamoci sulle abilità tecniche e cognitive richieste dall’attività
grafica. Per riuscire a disegnare il bambino deve prima “imparare” a
servirsi della propria mano e delle proprie dita128: lo sviluppo motorio
128
Nel corso del primo anno e mezzo di vita si sviluppa la manipolazione come
abilità motoria specifica, il cui progresso dipende sia dalla maturazione
neuromuscolare sia dall’esercizio. Alla nascita è presente una forma primitiva di
prensione (il riflesso di presa): se il palmo della mano del neonato viene toccato, lui
stringe le dita attorno alla mano o a qualunque oggetto afferrabile. «Se la presa del
neonato è abbastanza forte da sostenere il peso del suo corpo, essa è del tutto
inefficace come strumento. Intorno al primo mese di vita il riflesso di presa
comincia ad indebolirsi e scompare del tutto verso i due mesi. Pressappoco alla
stessa età il bambino inizia a sviluppare la prensione vera e propria, la quale si
differenzia dal riflesso in quanto è fin dall’inizio sotto il controllo volontario: il
bambino si tende verso un oggetto che attira la sua attenzione e lo afferra, più tardi
è anche in grado di manipolarlo e di lasciarlo andare.
Nello sviluppo di questa capacità si individuano alcune fasi che riguardano sia il
movimento del braccio verso l’oggetto (avvicinamento) sia il gesto della prensione
vera e propria […].
169
determina come tenere lo strumento tracciante e come usarlo. Nei
primi incontri con la matita il bambino solitamente usa le cinque dita
serrate a pugno (come tutti i primati) per afferrarla; il passaggio dal
pugno alla prensione fra pollice, indice e medio è un apprendimento,
che richiede diversi incontri con lo strumento e che spesso viene
sollecitato da adulti che intervengono attivamente a “correggere”
l’impugnatura.
Variazioni di lunghezza della matita causano variazioni nella prensione e
quindi nel tracciato. Il bambino sperimenta approcci diversi con la matita
e verso i tre anni perviene a controllarla alla maniera degli adulti ma solo
a cinque anni è del tutto esperto nel tenerla. Per lasciare poi una traccia
qualsiasi su un foglio di carta, la matita deve essere considerata dal
bambino termine transitorio o mezzo per raggiungere uno scopo, e non
confusa con l’azione stessa dell’afferrare. (Pizzo Russo, 1988, p. 205).
Piaget ravvisa una prima distinzione mezzo-scopo nelle «reazioni
circolari secondarie» (distinte in “tipiche” e “derivate”), azioni che
caratterizzano quel comportamento che consistente «nel ritrovare i
gesti che hanno esercitato per caso un’azione interessante sulle
Il gesto della prensione attraversa un’evoluzione progressiva. All’inizio l’oggetto
viene afferrato dalla parte cubitale della mano (sotto il mignolo), senza utilizzare il
pollice (prensione cubito-palmare). In seguito viene condotto verso il palmo e
afferrato utilizzando tre dita insieme: pollice, indice e medio (prensione digitopalmare). Infine l’oggetto viene posto sotto all’indice, e la prensione implica
l’opposizione tra pollice e indice (pressione radio-digitale) […].
La diversità tra prensione precoce e tardiva si spiega con il processo di
differenziazione cui vanno incontro le modalità sensoriali (visive, tattili, uditive)
inizialmente indifferenziate. Nel neonato il semplice vedere un oggetto determina
l’avvicinamento del braccio ad esso. In seguito alla maturazione e alla
differenziazione tra i due canali sensoriali, l’attivazione di uno di essi (la vista) porta
ad un’inibizione dell’altro (la prensione). Quando infine i due canali oramai
differenziati si coordinano tra loro, il movimento di orientamento verso l’oggetto
ricompare sotto il controllo visivo.
L’abilità di controllare l’informazione “direzione” per guidare la prensione
dell’oggetto diventa sempre più precisa nei mesi successivi, insieme alla capacità
di controllare la postura e l’orientamento del corpo. Alla fine del primo anno di vita il
bambino è così abile da programmare la direzione del movimento anticipando la
futura posizione di un oggetto che si muove davanti a lui» (Camaioni - Di Blasio,
2002, pp. 51-53).
170
cose»129.
I primi adattamenti «quasi intenzionali»
e «quasi
intelligenti», volti a «conservare e riprodurre il risultato interessante
scoperto per caso»130 nascerebbero proprio dai tentativi operati dal
bambino nel mettere in relazione le proprie azioni e i risultati ottenuti.
Tuttavia
il nesso causale, casualmente scoperto, è più facile da scoprire e
mantenere quando l’effetto prodotto è un movimento […].
Se il nesso causale movimento-suono è meno semplice del nesso
movimento-movimento, le cose si complicano ulteriormente nel caso del
segno grafico. Gli effetti suono e segno grafico, prodotti dalla propria
azione, sono entrambi qualitativamente diversi da quest’ultima. E però,
mentre il suono che l’oggetto produce, sebbene sia diverso dal
movimento che l’ha causato, è pur sempre dell’oggetto, l’effetto prodotto
dall’uso della matita non viene ad interessare l’oggetto matita, ma
l’oggetto foglio di carta. Ed è un effetto che si conserva nel tempo.
(Pizzo Russo, 1988, p. 206).
Lo
scarabocchio
controllato
diventa
oggetto
privilegiato
dell’attenzione del bambino, nel suo essere “quel particolare effetto”
che il bambino sta cercando.
L’organizzazione del tratto comincia con tracce curvilinee [figure 5 e
6, p. 8; figura 7, p. 9]:
129
Piaget, 1937b, p. 171. Le reazioni circolari secondarie “tipiche” comparirebbero
nel III periodo dello stadio sensomotorio, ma non sono una condotta esclusiva di
questo stadio. «Quando il bambino in uno stadio ulteriore (oppure l’adulto) scopre
un risultato fortuito, ciò avviene quasi sempre in un contesto di ricerca o di
sperimentazione e da allora l’azione di riprodurre l’effetto ottenuto costituisce
un’azione derivata» (Ibidem, p. 234). Le attività con la matita, come abbiamo
precedentemente visto, sono collocate da Piaget al V stadio, caratterizzato dalle
«reazioni circolari terziarie».
130
Ibidem, pp. 205-206. Prosegue oltre «la parte di intelligenza implicata in tali
comportamenti consiste dunque semplicemente nel riprodurre la serie di movimenti
che hanno dato luogo ad un risultato interessante e l’intenzionalità di queste
condotte non consiste nel cercare di riprodurre il risultato ottenuto».
171
la costruzione del corpo umano, basata sul principio della leva, favorisce
il movimento curvilineo. Il braccio ruota attorno all’articolazione della
spalla, e una più sottile possibilità di rotazione è garantita dal gomito, dal
polso, dalle dita. Quindi i primi tratti rotatori nel disegno del bambino
indicano un organizzarsi del comportamento motorio in accordo con il
principio della semplicità. (Arnheim, 1954, pp. 152-153).
L’attività grafica dipende dal controllo esercitato dall’attenzione e
dagli occhi sulle braccia e sulle mani, ma anche dalla posizione del
corpo, dalla prensione delle mani e, non ultimo, dalla capacità di
tenere fermo il foglio.
La maturazione biologica e le condizioni neurologiche assolverebbero, in
questo caso, un ruolo importante nello sviluppo del disegno, in quanto il
bambino può misurare l’ampiezza del suo gesto, può limitare il
movimento della mano controllando il pollice, può tornare al punto di
partenza in virtù della posizione di perno che il gomito assume. (Quaglia,
2003, p. 13).
L’attenzione si focalizza sempre più sulla linea che, per mezzo
dell’occhio, acquista potere sulla mano controllandola. Da questo
momento in poi il bambino darà sempre maggiore importanza a ciò
che sperimenta visivamente, rispetto a ciò che sperimenta
cinestesicamente; la fonte del piacere e il fuoco dell’attenzione si
sposteranno sempre più dall’effetto cinetico a quello visivo.
La linea visivamente più semplice è la linea retta. Considerando il
cerchio non tanto come linea quanto come il contorno di una superficie,
la linea retta è la prima configurazione lineare concepita dalla mente.
Questo dato è complicato dal fatto che per il braccio e per la mano, che
devono eseguire materialmente la linea retta, essa non è affatto
semplice: al contrario, per produrne una bisogna attivare un complesso
sistema muscolare, perché l’avambraccio, il braccio, la mano e le dita
funzionano come una leva che naturalmente percorre un tracciato curvo.
172
[…]. È quindi difficile per il bambino di produrre una linea
ragionevolmente diritta. Il fatto che, ad onta di ciò, egli la usi tanto
spesso dimostra quanto ne apprezzi la semplicità visuale.
La linea retta è un prodotto del senso della vista, su mandato del
principio di semplicità. È caratteristica delle configurazioni create
dall’uomo, mentre in natura si trova raramente perché la natura è una
così complessa combinazione di forze che la drittezza, prodotto di
un’unica forza senza interferenze, ha raramente la possibilità di
concretarsi. (Arnheim, 1954, p. 159).
Il bambino conquista il “controllo semplice” (o controllo di partenza)
che gli consente di guidare la mano verso un tracciato già effettuato:
può scegliere di ripartire da un punto del tracciato precedente per
dare inizio a una nuova linea. La tappa successiva è caratterizzata
dal “controllo doppio” (o controllo della partenza e dell'arrivo): riesce
ormai a far partire la linea da un punto preciso e farla arrivare in un
punto pre-determinato dello spazio.
L’intera fase dello scarabocchio è compresa, quindi, tra il momento in
cui l’occhio comincia a seguire la mano e il momento in cui la mano è
guidata dall’occhio, e la linea progressivamente si trasforma in una linea
di contorno. Inoltre, il doppio controllo consente al bambino di eseguire
una grande varietà di figure geometriche: cerchi, ovoidi, triangoli,
quadrati. Tutti i successivi perfezionamenti tecnici dipendono così da un
crescente controllo motorio e da uno sviluppo percettivo integrato alla
funzione motoria. (Quaglia, 2003, pp. 13-14).
Lo scarabocchiare (come più tardi, il disegnare) è per il bambino un
tipo di attività così affascinante e coinvolgente che alcuni autori ne
parlano come di un vero e proprio gioco.
Per Georges-Henri Luquet (1927) è «gioco d’esercizio» che
evolverebbe in «gioco impegnato»; per Jerome Bruner (1976) «gioco
di destrezza», che consentirebbe al bambino di maturare atti motori
173
che saranno successivamente incorporati in programmi d’azione più
complessi.
Gli adulti stessi condividono e sostengono tale idea: affiancano
pennarelli, matite colorate, album da disegno e altri materiali per
l’attività grafica a bambole e automobiline tra i regali tradizionalmente
fatti ai bambini.
Alcune attività infantili osservate nei primi tre anni di vita sembrerebbero
rappresentare proprio un trait d’union tra gioco e disegno. Qualche
bambino mentre scarabocchia accompagna l’attività grafica con azioni
(per esempio riproducendo verbalmente il rumore del treno o
salterellando sulla sedia come un coniglio) o con narrazioni. Intorno ai 2
anni nel gioco di finzione il bambino usa gli scarabocchi al pari di altri
oggetti: così come una scatola di liquirizie può diventare un’astronave,
allo stesso modo dei segni su un foglio possono essere usati come un
giocattolo. (Cannoni, 2003, pp. 44-45).
Sia nel gioco che nel disegno si evidenzia uno sviluppo parallelo,
poiché scaturiscono entrambi da aspetti motori del comportamento, e
tra i due e i quattro anni si hanno analoghe manifestazioni creative e
cognitive sia nell’uno che nell’altro. Tuttavia il rapporto tra attività
grafica e attività ludica si evidenzia in particolare durante le fasi
successive dello sviluppo, quando oltre al piacere intrinseco provato
dal bambino durante i due tipi di attività, emergono gli aspetti che li
accomunano, in riferimento al loro carattere simbolico.
Il disegno nasce quindi come gesto e “movimento esercitativo”: il
bambino non ha intenzioni riproduttive - imitative della realtà che lo
circonda, ma si misura esclusivamente con i suoi movimenti e con gli
effetti che tali movimenti producono.
La possibilità di articolare la produzione grafica consente di
cominciare ad attribuire ad una traccia grafica una precisa funzione
rappresentativa:
174
in particolare si nota una differenza evidente tra quello che è il semplice
prodotto di una rotazione e la forma intenzionalmente rotonda e chiusa,
guidata dall’occhio del disegnatore. Si può anche supporre che dalla
prima esperienza del bambino, la curva lineare tracciata dalla matita o
dal pennello si trasformi in un oggetto visivo bidimensionale, un disco
percepito come una “figura” posta contro uno sfondo […]. Questa
trasformazione percettiva promuove un’altra tappa fondamentale nella
genesi dell’attività figurativa: l’intuizione che le forme disegnate nel foglio
o plasmate con la creta possono stare al posto di altri oggetti esterni, a
cui sono legate come il significante al significato. (Arnheim, 1954, p.
153).
All’inizio
le
tracce
semplicemente
curvilinee
l’avvio
di
e
un
le
forme
processo
di
circolari
indicano
controllo
e
di
organizzazione; esse non hanno per il bambino il significato di
rappresentare eventi, elementi naturalistici curvilinei o circolari; le
une e le altre sono indifferenziate.
La forma organizzata circolare che, come vedremo, si instaura ben
presto in forza della sua semplicità sotto il rispetto motorio e visuale
non è specifica, non si differenzia da altre forme; essa può
rappresentare una quantità enorme di oggetti che nella realtà non
hanno forma circolare o sferica131.
131
«Si è detto che il bambino, per le sue prime configurazioni, si ispira ai vari
oggetti rotondi che si è visto intorno. Gli psicologi freudiani le fanno derivare dal
seno materno, gli junghiani dal mandala; altri pensano al sole e alla luna. Sono
speculazioni basate sulla convinzione che ogni qualità formale dei dipinti debba
derivare in qualche modo dall’osservazione del mondo fisico, mentre la tendenza
di base, nel comportamento motorio e visivo, verso le forme più semplici è del tutto
sufficiente a spiegare la priorità delle forme circolari: il cerchio è la forma più
semplice offerta dal medium pittorico perché ha una simmetria centrale in tutte le
direzioni. Una volta emersa dal mondo pittorico, comunque, la forma circolare
entra in contatto con le forme analoghe degli oggetti percepiti nell’ambiente.
Questa analogia poggia agli inizi su una base molto ampia e indifferenziata. Per
capire l’uso, nei primi anni, della forma rotonda va ricordato che anche l’adulto usa
il cerchio o la sfera per raffigurare qualsiasi configurazione e nessuna in
particolare. Sfere, dischi, anelli, che sono la forma più indifferenziata e universale,
occupano un posto preminente nei più primitivi modelli della configurazione della
terra e dell’universo, non tanto sulla base di osservazioni ma perché si tende a
rappresentare le forme e i rapporti spaziali sconosciuti nel modo più semplice»
(Arnheim, 1954, p. 154).
175
Ad esempio, in figura 8, p.9, Patrik (4,5) disegna una serie di cerchi
concentrici partendo da quello più interno e procedendo verso
l’esterno. Aggiunge poi alcuni cerchi più piccoli nelle zone interne
dove lo spazio lo consente, poi una riga, e tanti piccoli puntini. Alla
richiesta dell’insegnante di esplicitare che cosa abbia disegnato,
verbalizza indicando le singole figure: “uccello, giraffa, serpente,
formica, coccodrillo, delle righe che ci vanno intorno delle formiche”.
«Sarebbe sbagliato dire che il bambino non tiene conto, o tradisce
nel riprodurla, la forma degli oggetti, perché egli li dipinge come
rotondi solo per l’occhio dell’adulto» (Arnheim, 1954, p. 155).
L’indipendenza di questo risultato grafico dalla realtà è per Arnheim
la prova che esso è un’invenzione che funziona come generale
sistema di rappresentazione: il bambino che scarabocchia, e
successivamente disegna, non riproduce una forma reale particolare
per adoperarla estensivamente, ma «inventa» (nei limiti di certi
condizionamenti motori) un pattern strutturale.
2.2
Dallo scarabocchio allo schema figurativo. Disegnare e
raffigurare.
Lo stretto legame tra segno e gesto-movimento132 fa sì che la
produzione grafica che ne risulta sia composta da tracce di forme
132
Per la mano che disegna, non tutti i movimenti sono equivalenti. Lo stesso
Arnheim riconosce l’esistenza di movimenti che risultano più naturali di altri, e che,
di conseguenza, vengono preferiti soprattutto dal disegnatore inesperto. «Se
pensiamo alle abilità tecniche necessarie a disegnare, ci rendiamo conto
facilmente di come la biomeccanica degli arti superiori (braccia, mani, dita) e le
caratteristiche del nostro sistema visivo si traducono in veri e propri vincoli
percettivo - motori (o esecutivi). Ad esempio la lateralizzazione della manualità
sembra incidere sulla direzione delle linee tracciate: se i destrimani per disegnare
una linea tendono a muoversi da sinistra verso destra, i mancini solitamente si
muovono in direzione opposta. A questi vincoli di “ordine inferiore” se ne
aggiungono altri di “ordine superiore”, i vincoli cognitivi, ciascuno legato a
specifiche caratteristiche della nostra attività di pensiero: per esempio è difficile
disegnare a memoria un oggetto strano, oppure pianificare bene una figura che si
esegue per la prima volta o, ancora, trovare un equivalente efficace per una forma
complessa» (Cannoni, 2003, p. 32).
176
diverse. Sotto gli occhi del bambino, compare un panorama di segni
ricco e sempre più articolato in forme rudimentali di diagrammi,
diagrammi regolari e irregolari, associazioni.
Segni sparsi o concatenati, aggregati133 di forme che occupano uno
spazio senza un ordine riconoscibile; agglomerati di forme a sé stanti
che danno l’idea di un insieme; segni in fila o in sequenza; schemi
molto controllati e “celebrali” sono le strutture compositive più usate
dopo lo scarabocchio originario [figure 9 e 10, p. 10].
Queste forme si compongono nello spazio “casualmente”, senza un
particolare criterio. Con la pratica e l’evoluzione si evidenziano
tuttavia alcune modalità di organizzazione nello spazio grafico,
sempre più precise e ricorrenti. Si tratta di strutture compositive
trasversali a tutte le tecniche figurative (artistiche e non) che il
bambino svilupperà in seguito.
Peter Van Sommers ha analizzato le competenze articolatorie richieste dal disegno
e ha individuato la seguente tipologia di movimenti spontanei per la mano (di cui
riferiamo quelli relativi ai destrimani):
- la mano nel tracciare un cerchio tende a eseguire un movimento antiorario con
origine nella parte bassa a destra e termine nella parte in basso al centro
(prendendo come riferimento un orologio, il punto corrisponde alle ore sei). Questo
movimento non si chiude completamente ma lascia aperta la circonferenza nella
parte che va dalle sei alle quattro;
- tendiamo a disegnare linee inclinate verso di noi, iniziando a tracciarle dall’alto a
sinistra verso il basso a destra (dalle undici alle cinque);
- le linee orizzontali preferite dalla mano sono quelle che vanno da sinistra verso
destra con andamento ascendente, dal basso verso l’alto;
- nessuno riesce a tracciare l’arco di cerchio rimasto aperto, quello nella parte in
basso a destra (nello spazio compreso dalle sei alle quattro), perché le particolari
articolazioni che la mano intrattiene con il polso e con il braccio non lo consentono;
e se, forzando, si tenta di entrarci, la fluidità del gesto ne risente in modo evidente.
L’autore sostiene che questi elementi siano universali e alla base dell’evoluzione di
tutti i sistemi di scrittura; essi sarebbero strutture profonde non modificabili dalle
abitudini culturali, poiché ubbidiscono ad una logica interna, modellata su un
arcaico coordinamento occhio-mano (Van Sommers, 1984).
133
«Quando il bambino comincia a comporre aggregati – insieme di tre o più
diagrammi – si comporta come l’artista con il suo repertorio di forme visive. Il
numero di aggregati possibili è infinito. Di solito il bambino che a due-tre anni ha
avuto la possibilità di scarabocchiare spesso e liberamente, a tre-quattro anni
disegnerà un gran numero di aggregati complessi, svilupperà uno stile personale
nel costruirli e l’insegnante o il genitore sovente saranno in grado di riconoscere i
suoi disegni tra quelli di altri bambini» (Kellogg, 1969, p 67).
177
Dallo stadio del modello (che comprende la produzione di
scarabocchi-base e modelli di posizione), il bambino passa allo
stadio della forma134 e della composizione formale135 in cui si affina il
controllo volontario dell’attenzione sul gesto (intenzione), l’esercizio
della memoria136 e la ricerca attiva di configurazioni sempre più
strutturate e complesse (pianificazione) [figure 11 e 12, p. 11].
Il sistema dell’arte infantile è un sistema logico visivo poiché il bambino
procede per tappe: apporta varianti alle Gestalt che già conosce e
queste, di riflesso, gli suggeriscono nuove Gestalt. Se è libero di creare
nuove forme, progredisce spontaneamente nella sua attività, poiché
sono proprio le nuove Gestalt che lo stimolano e mantengono vivo il suo
interesse.
L’uniformità dell’arte infantile da un capo all’altro del mondo mi induce a
credere che la mente umana sia predisposta a ricordare – vale a dire, a
134
«Nello sviluppo artistico del bambino lo stadio del modello è seguito da quello
della forma. Questo stadio include i diagrammi – forme definite contornate da una
linea – come pure le forme rudimentali di diagramma che precedono i diagrammi
[…]. I tipi di diagrammi possibili che risultano dall’analisi dei disegni dei bambini
sono sei. Cinque di essi sono geometricamente regolari: il rettangolo (o il
quadrato), l’ovale (o il cerchio), il triangolo, la croce greca e la croce diagonale.
Anche se mancano di precisione geometrica, questi cinque diagrammi sono
normalmente disegnati dai bambini con sufficiente chiarezza, spesso con linee
singole e continue. Il sesto diagramma, di forma irregolare, serve a classificare
tutte quelle formazioni di linee intenzionali che circoscrivono un’area irregolare […].
Nel processo evolutivo i diagrammi indicano un progresso del bambino nell’uso più
controllato delle linee e nell’esercizio della memoria» (Kellogg, 1969, pp. 49-53).
135
«Poco dopo avere incominciato a fare diagrammi, il bambino li elabora in ciò
che io definisco associazioni (insiemi di due diagrammi) o aggregati (insieme di tre
diagrammi); questi insiemi sono caratteristici dello stadio della composizione
formale dell’arte spontanea» (Ivi).
136
«I diagrammi comunque sono una prova evidente dell’intenzionalità e dell’uso
della memoria nei disegni infantili. E’ probabile che il bambino, facendo i
diagrammi, si ricordi di forme analoghe presenti nei suoi scarabocchi precedenti e
che queste forme gli vengano in mente quando usa carta e matita. […]. Che ruolo
ha la memoria nei primi scarabocchi infantili? Io penso che questo ruolo sia molto
importante anche se non ho ancora prove del tutto soddisfacenti per dimostrarlo.
Disegnando forme simili forse il bambino manifesta la sua predisposizione a
vedere e a completare certe formazioni di linee piuttosto che il ricordo di
scarabocchi precedenti. Tuttavia è possibile che bambini di due anni rifacciano lo
stesso disegno nel corso di una lezione senza copiare dal lavoro già fatto: in
questo caso è chiaro che sono in gioco entrambe, predisposizione e memoria […].
Che la memoria e l’intenzionalità basata su di essa, abbiano un ruolo importante,
appare chiaro dal momento in cui il bambino è in grado di disegnare i diagrammi»
(Ibidem, p. 57).
178
preferire – certe variazioni della forma e a scartarne altre. Quelle
scartate o sono troppo complicate per essere colte al primo sguardo o
troppo difficili per essere riprodotte abbastanza spesso da poterle fissare
nella mente.
I neurologi cercano di stabilire quanti stimoli “vecchi” e quanti stimoli
“nuovi” siano richiesti dal sistema nervoso per funzionare in modo
equilibrato; a me sembra che l’attività artistica sia per i bambini una
fonte di stimoli equilibrata ed autoregolata, almeno fino a quando gli
adulti non intervengono. (Kellogg, 1969, p. 97).
Seguendo i presupposti della psicologia della Gestalt, secondo la
quale l’esperienza percettiva si struttura in configurazioni irriducibili
alla somma degli elementi che lo compongono, la Kellogg sostiene
che il bambino che scarabocchia organizzi cognitivamente punti e
linee in forme dotate di “senso”137 secondo un “ordine visivo primario”
che «esiste indipendentemente dal pensiero razionale, dallo sviluppo
del linguaggio o dalle condizioni emotive e si esprime nelle
formazioni gestaltiche» (ibidem, p. 74).
Si veda a questo proposito grafica di Marika (3,7) in figura 13, p. 12,
che compone un arco lungo la diagonale del foglio utilizzando il
tratteggio (scarabocchio 6 nella classificazione della Kellogg, ovvero
una linea verticale multipla) e alternando diversi colori.
137
«Poiché lo scarabocchiare implica la percezione e la percezione coinvolge il
cervello, le teorie generali sull’arte infantile dovranno prima o poi prendere in
considerazione il suo funzionamento. W. Kohler, uno psicologo della Gestalt ha
avanzato l’ipotesi che certe funzioni fisiologiche del cervello siano responsabili
della tendenza a organizzare i dati visivi in forme piacevoli o “buone”, vale a dire in
forme simmetriche, semplici e regolari. Il meccanismo mediante il quale vengono
ricordate le forme “buone” che si possono ritrovare negli scarabocchi è così
descritto da Penfield e Roberts:
V’è ragione di credere che esistano nel cervello aree specializzate in cui possono essere immagazzinati
“modelli di passaggio” degli impulsi nervosi. Il modello di passaggio di potenziali elettrici attraverso determinati
neuroni (cellule nervose) e le fibre connettive forma un’unità…Ciascun passaggio di un flusso di impulsi neurali
lascia dietro di sé una facilitazione persistente, tale che gli impulsi possano ripercorrere la stessa strada più
facilmente. È questa grossomodo la base neurale della memoria.
Partendo da questa ipotesi si potrebbe arrivare un giorno a dimostrare che i primi
scarabocchi costituiscono una testimonianza dei processi mentali naturali della
specie» (Kellogg, 1969, pp. 35-36).
179
La percezione, secondo la psicologia della Gestalt, è regolata da
alcuni criteri, tra cui il principio della buona forma, in virtù del quale
gli stimoli visivi tendono ad organizzarsi in forme simmetriche e
regolari basate sull’equilibrio, sulla proporzione e sulla strutturazione
delle linee138 [figura 14, p. 12].
Per la Kellogg, scarabocchiare non è solo un atto percettivo e
motorio, ma anche un atto cognitivo:
la mia ricerca avvalora la convinzione che gli occhi e il cervello
dell’uomo siano predisposti a vedere le forme globali; che questa
predisposizione influisca sulla coordinazione oculo-manuale nel fare gli
scarabocchi; che il bambino crescendo disegni le forme in modo sempre
più determinato e chiaro e che preferisca quelle dotate di equilibrio.
(Ibidem, p. 300).
Ad ogni “stadio” i bambini risponderebbero alla presenza dell’ordine
di una forma: pur sperimentando diversi scarabocchi, diagrammi e
combinazioni, le unità da loro ricordate e ripetute sarebbero quelle
dotate di una “buona forma visiva” o un buon equilibrio139 [figura 15,
p. 13].
138
I recenti studi sulle basi neurologiche della percezione hanno confermato le
conclusioni ottenute in via sperimentale dalla psicologia della Gestalt agli inizi del
Novecento. I vari elementi che concorrono alla costruzione delle immagini sono
interpretazioni contestuali della teoria della percezione in senso gestaltico. Per
un’aggiornata rassegna degli studi gestaltisti cfr. Branzaglia, 2003.
139
«La maggior parte dei disegni che il bambino fa tra i tre e i cinque anni è
costituita da aggregati, che continuano ad essere presenti anche negli stadi
successivi. La preferenza per l’equilibrio e la regolarità che sembra innata nei
bambini impedisce che gli aggregati risultino miscugli disordinati di forme. […].
L’equilibrio può essere di tre tipi: verticale, orizzontale e globale. Nell’equilibrio
verticale la maggior parte dei segni presenti nella parte superiore della figura è
controbilanciata da altri segni posti in basso. Nell’equilibrio orizzontale alla maggior
parte dei segni di sinistra corrispondono segni analoghi a destra. L’equilibrio
globale, come nel rettangolo o nell’ovale, è dato dalla somma dei due tipi di
equilibrio» (Kellogg, 1969, p. 68).
180
Il mandala140, una forma chiusa, di solito ovoidale, con linee che si
incrociano nel centro, è secondo la Kellogg, una forma che mostra
un equilibrio straordinario, una combinazione di unità e contrasto. È
quest’equilibrio, sostiene la studiosa, che spiega sia l’apparire del
mandala in molte forme di arte nella storia, sia il piacere che provano
i bambini di ogni età nel disegnarlo [figure 14, p. 12; 16, p. 13; 17 e
18, p. 14].
Se le mie ricerche sono corrette, il mandala è, in parte, una chiave della
sequenza che dai disegni astratti porta a quelli figurativi. Il bambino dal
mandala passa al sole, poi alla figura umana, e così aggiunge
gradualmente ai nuovi disegni molte configurazioni proprie dei suoi
precedenti lavori spontanei. Questo sistema logico-visivo dello sviluppo
spiega la forma globale della prima figura umana disegnata dal
bambino, forma che di solito all’adulto sembra contorta.
In realtà, la forma mandaloide della prima figura umana è un segno della
profonda sensibilità artistica del bambino. Il mandala è importante non
solo in quanto parte della sequenza evolutiva dell’arte infantile, ma
anche come legame tra l’arte infantile e quella degli adulti.
Il prevalere di queste forme in arte è la prova più ovvia di questo
legame. Sia nell’arte infantile che in quella degli adulti i quadrati e i
cerchi divisi da una o più croci sono numerosi […]. Il mandala dimostra
che gli adulti condividono la visione estetica dei bambini. Il mandala è
una Gestalt cui rispondono positivamente sia i bambini sia gli adulti.
(Ibidem, pp. 82-87).
140
«Mandala è una parola sanscrita che significa cerchio. Nella religione orientale
essa viene usata per indicare varie formazioni di linee, ma soprattutto forme
geometriche a struttura concentrica. Gli stessi tipi di formazioni di linee ricorrono
anche nei disegni dei bambini. I mandala fatti dai bambini sono spesso delle
associazioni formate da un cerchio o da un quadrato, divisi in quattro parti da una
croce greca o una croce diagonale; oppure sono aggregati, formati da un cerchio o
un quadrato divisi in otto parti da due croci appaiate. Anche cerchi e quadrati
concentrici sono mandale» (Ibidem, p. 81).
181
“Soli” o “radiali”141 sono tipi di forme simili al mandala e vengono
ripetuti nello stesso modo dai bambini.
Il “sole”, inteso nel suo significato ristretto di “struttura compositiva”,
associa il contrasto nel tipo di linea e l’equilibrio nel modo in cui una
delle unità (una linea, un cerchio, un occhiello) viene ripetuta e fatta
ruotare in maniera regolare intorno al centro costante dell’altra (il
cerchio).
La Kellogg ritiene che queste forme di ordine visivo siano
intrinsecamente affascinanti, che cioè non ci sarebbe bisogno di
apprendere che si tratti di “buone” forme [figure 19 e 20, p. 15; figura
21, p. 16].
Queste strutture posseggono qualità gestaltiche così forti che i
bambini le riutilizzano volentieri: in fasi successive è possibile
rivederne la comparsa per rappresentare mani, visi, corpi, o altri
oggetti [figura 22, p. 16; figura 23, p. 17].
Le Gestalt solari dei primi scarabocchi, insieme ai mandala,
sarebbero per il bambino lo stimolo visivo per la realizzazione di soli
sempre più strutturati. I soli con segni centrali [figura 20, p. 15] di
norma precedono quelli con il centro vuoto
evidentemente le formazioni dei soli con il centro vuoto rappresentano
una rottura rispetto alla forma del mandala e di alcuni aggregati circolari.
Questo passaggio sembra richiedere troppo tempo e “pensiero”.
(Kellogg, 1969, p. 97).
141
«Due analoghe formazioni di linee sono considerate rispettivamente soli e
radiali. Il sole non è un’associazione o un aggregato perché al centro non vi sono
linee incrociate, ma è in genere formato da un ovale (o da un cerchio) oppure da
un rettangolo (o da un quadrato) con brevi linee che incrociano il perimetro. A volte
le linee iniziano dal perimetro e si estendono all’esterno, più raramente iniziano dal
perimetro prolungandosi all’interno del cerchio o del quadrato. La radiale può
essere o un’associazione formata da due croci, o un aggregato formato da tante
croci centrate sul medesimo punto, oppure essere composta da linee rette o curve
che irradiano da una piccola area centrale invece che da un unico punto.
A differenza dal sole, il mandala è diviso da una o più croci e, diversamente dalla
radiale, ha un perimetro di chiusura» (Ibidem, pp.81-82).
182
Nelle figure 24 e 25, p. 18, lo stesso bambino sperimenta diverse
tipologie di soli, arrivando, dopo alcune prove, al sole con centro
vuoto [figura 25].
Le osservazioni della Kellogg richiamano da vicino quelle di Semir
Zeki secondo il quale «tutte le arti visive sono espressione del nostro
cervello e quindi devono obbedire alle sue leggi, nell’ideazione,
nell’esecuzione o nella valutazione». (Zeki, 1999, p. 17).
La tesi di Zeki è che sia possibile fondare una “teoria neurologica
dell’estetica” ovvero una neuroestetica. Funzione dell’arte (e del
cervello) sarebbe quella di «rappresentare le caratteristiche costanti,
durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti, situazioni e
così via, permettendoci di acquisire conoscenza» (Ibidem, p. 26). In
questa formulazione, la visione è un processo attivo in cui il cervello,
nella
sua
ricerca
di
conoscenza
del
mondo
visivo,
opera
costantemente una scelta tra tutti i dati disponibili e, confrontando
l’informazione selezionata con i ricordi immagazzinati, genera
l’immagine visiva, con un procedimento molto simile a quello messo
in atto dagli artisti. Se la visione è dunque una ricerca attiva di dati
essenziali, la produzione artistica sarebbe, secondo questo autore, la
rappresentazione di quei dati.
La scoperta della specializzazione funzionale ha contribuito a cambiare
le nostre idee sulla natura della visione, inducendoci a considerarla un
processo attivo – una ricerca fisiologica dell’essenziale e dell’invariante
che svincola il cervello dai continui mutamenti, e dalla dipendenza da
essi, e lo affranca inoltre dall’atto visivo momentaneo e accidentale. Il
cervello, insomma non è un semplice cronista che si limita a registrare in
modo passivo la realtà fisica del mondo esterno, ma partecipa
attivamente alla creazione dell’immagine visiva, in base a regole e a
programmi suoi propri. Questo è l’unico ruolo che gli artisti hanno
attribuito all’arte, e il ruolo che alcuni filosofi si sono augurati avesse la
pittura. (Zeki, 1999, p. 91).
183
Colore, forma, movimento, volti, espressioni facciali e linguaggio del
corpo sono attributi della visione cui corrispondono sia sistemi
specializzati
di
elaborazione
dell’informazione
visiva
(specializzazione funzionale della corteccia) che funzioni di primo
piano nell’arte. Questo autore, attraverso esperimenti di laboratorio,
trova interessanti corrispondenze tra ciò che viene prodotto in arte e
il campo ricettivo di alcune cellule del campo visivo: «per questa
ragione parlo di arte del campo ricettivo, convinto di questa piena
corrispondenza tra dimensione artistica e fisiologica delle singole
cellule studiate attraverso i loro campi» (Ibidem, p. 125).
Seguendo le argomentazioni di Zeki è possibile ipotizzare che i
bambini, durante le loro esplorazioni grafiche accentuino quegli
stimoli che sono i più efficaci per attivare cellule particolari del
cervello.
Gli
studi
sullo
sviluppo
del
sistema
percettivo
nell’infanzia
avvalorerebbero ulteriormente i dati raccolti dalla Kellogg.
La psicologia distingue tre principali momenti di questo sviluppo,
caratterizzati da altrettante modalità visive: la percezione sincretica
(globale-indifferenziata, caratteristica dei bambini fino all’età di sei
anni circa), analitica (che si sviluppa tra i sei e gli otto anni, e che
permette una migliore capacità di analisi e di esplorazione
sistematica degli stimoli visivi) e, in ultimo, la percezione sintetica
(globale-differenziata,
percezione
alla
corrisponde
cognizione).
alla
Mentre
subordinazione
l’adulto
che
della
osserva
un’immagine percepisce un insieme strutturato e può scegliere di
analizzare l’insieme o le parti che lo compongono spostando il fuoco
della sua attenzione dall’uno all’altro a seconda del compito, per il
bambino il tutto o i dettagli (a condizione che siano particolarmente
significativi o “vistosi”) attirano la sua attenzione; insieme ed elementi
sono disgiunti gli uni dagli altri senza nessuna integrazione. Il
184
sincretismo percettivo infantile142 fa sì che per il bambino la
percezione della struttura di un insieme ostacoli la percezione delle
parti che lo costituiscono.
La percezione visiva richiede che vengano considerati sia i singoli elementi
sia la loro appartenenza ad un insieme sovraordinato che li comprende e li
organizza. Ebbene, i bambini di 3-4 anni percepiscono il livello
sovraordinato e quello subordinato, come un insieme, mostrando di non
essere in grado di comprendere in modo flessibile l’organizzazione di
una struttura percettiva che si compone sia di parti che di un insieme. Se
mostriamo ad un bambino il modello isolato di una figura e poi gli
chiediamo di trovarlo in un’immagine più grande in cui il modello è
“mascherato”, ci accorgiamo che fino a 5-6 anni i bambini hanno grande
difficoltà a risolvere il compito perché non sono in grado di contrastare,
utilizzando una strategia analitica che implica abilità cognitive superiori,
le forze percettive dell’organizzazione […]. Il sincretismo infantile non
dovrebbe essere inteso nel significato restrittivo di un generico
globalismo, bensì come una carenza di organizzazione articolata e
flessibile del campo percettivo, e quindi come tendenza a cogliere le
strutture spontaneamente prodotte, con più immediata evidenza, dal
gioco delle condizioni oggettive. (Camaioni – Di Blasio, 2002, p. 85).
142
«Estrarre elementi da strutture percettive unitarie che vengono percepite come
un insieme coerente comporta maggiore difficoltà. Effettivamente dai 3 anni ai 5
anni si manifesta una prevalenza di identificazioni riguardanti l’insieme, che si
attenua e scompare negli anni successivi, mentre vanno crescendo sia le risposte
concernenti i dettagli sia quelle che tengono conto dell’insieme dei dettagli.
Con l’età si affinerebbero le capacità analitiche e le abilità di cogliere i particolari.
Tuttavia non è corretto impostare il problema in termini di contrapposizione tra
visione globale e visione analitica. I dati sperimentali di Vurpillot (1972) mostrano
che a partire dai tre anni e mezzo i bambini sono in grado di accedere
percettivamente sia a configurazioni complesse sia alle unità che le compongono.
Non si tratta quindi di un problema connesso alla visione in quanto tale, ma
piuttosto ad altre condizioni che generano il prevalere dell’una o dell’altra
organizzazione percettiva. Entrano qui in gioco sia le influenze derivanti
dall’ambiente sia le proprietà strutturali degli stimoli, così come sono state studiate
dalla psicologia della Gestalt. Quando l’insieme corrisponde ad una forma
semplice o ad una struttura forte, esso tende ad imporsi, ma se le singole parti
rappresentano oggetti familiari o particolari vistosi (sempre gestalticamente
organizzate in un tutto) vengono preferite all’insieme non noto. I bambini possono
percepire i dettagli se questi sono significativi o vistosi» (Camaioni - Di Blasio,
2002, p. 84).
185
Il bambino ha a disposizione una gamma completa di segni e di
forme, che lo stimola visivamente inducendo anche la possibilità di
fare delle distinzioni o di trovare delle analogie. Si forma così lo
stimolo a scegliere e a costruire forme sempre più specifiche di
organizzazione [figure 26 e 27, p. 19].
Ovviamente i bambini trovano forme ovali o rettangolari nel mondo che li
circonda: la luna, le facce e i corpi umani, i tronchi dell’albero, le
formazioni di nuvole e le strutture circolari o rettangolari delle case fanno
parte dell’esperienza di quasi tutti i bambini. Tuttavia l’intero processo
evolutivo delle forme nell’arte infantile sembra essere in gran parte
indipendente da queste osservazioni (basti pensare alle figure umane
disegnate dai bambini). Ad ogni modo l’inclinazione a fare forme è così
forte e prorompente da sembrare innata, che nasca o no da esperienze
diverse dagli scarabocchi. (Kellogg, 1969, p. 34).
Secondo la Kellogg mandala e soli stimolerebbero il bambino al
disegno della prima figura umana. Dopo che il bambino ha disegnato
la prima figura umana con linee ben definite, continua comunque
nell’esplorazione della struttura solare, sperimentando varie tipologie
di raggi e generando diverse composizioni formali (come il simbolo
del fiore). Tuttavia
non dobbiamo attribuire la definizione di “uomo” alla prima figura umana,
per la ragione che non possiede né i caratteri del sesso né dell’età.
Questo stimolo è particolarmente evidente nei disegni del sole con
faccia, nei quali il sole è unito ad aggregati circolari, e nei disegni del
sole umanizzato, che risultano più dal sole che dal mandala. Le
definizioni di “capelli” o “ciglia” ai tratti del sole umanizzato provengono
dagli adulti. In questa fase dello sviluppo le linee che vengono così
definite non sono figurative: infatti, se lo fossero, comparirebbero anche
nelle figure umane fatte più tardi, cosa che invece non accade. Queste
186
linee dimostrano invece che il bambino è stato stimolato dai suoi primi
scarabocchi del sole. (Ibidem, p. 99).
Si vedano ad esempio le grafiche a pag. 20. Il disegno di Leon (4
anni) in figura 28 è un disegno a tema in cui la figura del gatto è
ricavata dallo schema solare; mentre in figura 29 Lea (4,2) utilizza la
struttura solare per rappresentare il sole, diverse tipologie di figure
umane solari e un fiore.
In sintesi, il passaggio dallo scarabocchio allo schema figurativo è
dato dall’incrociarsi di tre fattori: la capacità ri-conoscere, produrre e
usare segni di forme e dimensioni differenti; la scoperta di strutture
compositive
fondamentali;
lo
sviluppo
del
meccanismo
di
aggregazione dei segni fra loro.
In fasi successive gli scarabocchi vengono esplorati in vari “modelli di
posizione” rispetto ad uno sfondo e più tardi sviluppati in forme
semplici o “diagrammi” basilari (cerchi o ovali, rettangoli, quadrati,
tipologie di croci) che vengono associati in diverse modalità. Tra
queste numerose combinazioni i bambini tendono a preferirne e
ripeterne soltanto una piccola parte. Sono queste combinazioni
preferite che essi adotteranno per la rappresentazione di oggetti e
persone e che caratterizzeranno i loro disegni.
Nella figura 30, p. 21, abbiamo un esempio di questo processo: si
tratta
di
una
raccolta
di
alcune
delle
grafiche
eseguite
143
spontaneamente da Emily nell’arco di alcuni mesi
.
La Kellogg vede l’inizio della pianificazione e dell’intenzionalità già a
partire dallo stadio della forma, ravvisando valori rappresentativi nei
diagrammi.
Nello stadio della composizione formale il linguaggio grafico è
“grammaticalmente”
e
“sintatticamente”
completo,
pur
non
assomigliando a nessun modello figurativo convenzionale: sono
143
L’ordine con cui sono state prodotte le grafiche è dall’alto al basso; da sinistra a
destra.
187
presenti tutte le strutture grafiche fondamentali che stanno alla base
sia del disegno (figurativo e non) che della scrittura (la sequenza e,
in parte, la calligrafia).
I bambini non disegnano ancora per realizzare un progetto o per
raggiungere
un
obiettivo:
si
lasciano
piuttosto
coinvolgere
dall’espressione che si modifica strada facendo, cambia con il
cambiare delle idee e delle invenzioni che si susseguono prendendo
spunto le une dalle altre, senza uno schema prefissato o conosciuto
[figura 31, p. 22]. Per questa ragione gran parte della letteratura sullo
sviluppo del grafismo (Luquet, 1927; Lowenfeld – Brittain, 1947)
definisce queste composizioni tecnicamente come “scarabocchi” e
considera propriamente come disegno il tracciato a cui il bambino
assegna un nome.
Il fatto di dare un nome allo scarabocchio ha un grande significato,
poiché indica che il pensiero del bambino è cambiato. Prima di questo
periodo il bambino si contentava dei movimenti in sé e per sé, mentre
ora comincia a connettere questi movimenti con il mondo che lo
circonda. E’ passato da un tipo di pensiero cinestesico in termini di
movimenti ad un pensiero immaginativo in termini di figure144.
144
Lowenfeld - Brittain, 1947, p. 109. Lo sviluppo del disegno proposto da
Lowenfeld e Brittain è segnato da una progressiva e graduale conquista di abilità,
strategie esecutive e conoscenze da parte del bambino: «la modificazione e il
miglioramento del risultato artistico verranno automaticamente, quando si sia
verificato un mutamento nel modo di pensare, di sentire e di percepire del
fanciullo» (Ibidem, p. 148).
Per questi studiosi il valore dell’attività grafica infantile è indiscutibile; essa è un
potente mezzo di espressione e sviluppo della creatività. Anche in questo modello
lo sviluppo del disegno si snoda per fasi che richiamiamo qui brevemente: dopo
aver abbandonato lo scarabocchio, il bambino entra nello stadio preschematico
(dai quattro ai sette anni) dove scopre il rapporto esistente tra le sue immagini
mentali e i disegni. Naturalmente i bambini in questa fase non disegnano tutto ciò
che sanno, perché non sono ancora in grado di disporre di tutte le conoscenze che
hanno nell’atto della rappresentazione. A questo stadio segue lo stadio schematico
(dai sette ai nove anni), in cui il bambino giungerebbe al concetto di forma, uno
schema che rappresenta il concetto che il bambino è riuscito ad elaborare di un
oggetto attraverso la conoscenza. Nello stadio realistico (nove-undici anni) le
forme si arricchiscono di dettagli e l’attenzione per il particolare assumerebbe un
significato soprattutto emozionale da parte del bambino. L’ultimo stadio è quello
del periodo naturalistico (dagli undici ai tredici anni) durante il quale la
188
Il passaggio dallo scarabocchio “incontrollato” (o disordinato) a quello
“controllato”145 e allo scarabocchio “con nome” in cui compaiono i
primi intenti rappresentativi, avviene, per alcuni autori casualmente
(Luquet, 1927), per altri dalla progressiva organizzazione di schemi
figurativi e in seguito a condizionamenti ambientali (Kellogg, 1969); in
un caso o nell’altro alla fine del terzo anno di vita le rappresentazioni
grafiche, più organiche e complesse, iniziano ad avere una
“leggibilità” (manifesta o solo dichiarata) anche per chi le guarda
[figure 32 e 33, p. 23; figura 34, p. 24].
Come per l’inizio dello scarabocchio, anche per l’inizio del disegno
(inteso come grafica con nome) l’età dei bambini seguita
longitudinalmente è inferiore a quella indicata in generale.
Esaminando i pochi dati presenti nella letteratura, relativamente al primo
segno tracciato e al primo segno interpretato dallo stesso bambino, il
tempo che intercorre tra l’uno e l’altro varia in relazione all’età. In
generale la lunghezza dello scarto ha una relazione inversamente
preoccupazione maggiore del bambino sembrerebbe il raggiungimento di un alto
grado di “perfezione naturalistica”.
145
Senza voler entrare troppo dettagliatamente nelle diverse tipologie di
scarabocchi individuate nel corso del tempo da autori appartenenti a orientamenti
differenti, ci pare interessante segnalare lo scarabocchio onomatopeico come caso
particolare di scarabocchio controllato e come precursore più prossimo allo
scarabocchio con nome. La caratteristica di questo tipo di scarabocchio è quella di
essere accompagnato, durante l’esecuzione, da espressioni onomatopeiche. Dal
punto di vista formale, nel tracciato, non appaiono variazioni rispetto a scarabocchi
“silenziosi”, ma l’utilizzo del suono da parte del bambino informa del fatto che è
cambiato qualcosa nel rapporto tra il bambino, gli oggetti e la traccia. Il suono
diventa parte integrante del disegno, una sola gestalt o configurazione “che sta
per” una situazione che appartiene “all’esterno” di cui lo scarabocchio è “duplicato”.
«Non vi è ancora rappresentatività della realtà esterna in questi scarabocchi […].
Certamente, l’onomatopea, qualità dinamica dell’oggetto, potrebbe essere intesa
come pars pro toto, vale a dire una qualità del tutto, in armonia con
l’organizzazione percettiva diffusa propria del bambino, in cui le parti non sono ben
identificate in una struttura (Werner, 1940). In realtà, il bambino non è interessato
all’oggetto in quanto tale, nella sua obiettività, ma il suo interesse è rivolto a quel
che egli compie o esperisce mediante l’oggetto disegnato. In altre parole, gli
scarabocchi onomatopeici sono dei veri e propri scarabocchi transizionali: essi non
sono più soltanto scariche emotive-motorie, ma non sono ancora disegni di oggetti
con parti tra loro in rapporto e aventi un’esistenza indipendente dal disegnatore»
(Quaglia, 2003, p. 55).
189
proporzionale all’età: più piccolo è il bambino più lungo sarà il tempo in
cui scarabocchierà solamente146.
Nella fase iniziale il nome sarebbe associato al disegno più per un
desiderio di trovare un significato condivisibile, che non per via della
rassomiglianza effettiva con il modello147.
Si vedano ad esempio la figura 35, p. 24; le figure 36 e 37, p. 25. Tra
le tre la grafica di Giuseppe (4 anni) in figura 37, è particolarmente
interessante. Si tratta della rappresentazione della fiaba de Il
pesciolino d’oro, i cui protagonisti sono un pescatore e un pesciolino
presenti nella grafica e rappresentati rispettivamente attraverso
“l’omino” azzurro e quello giallo; e la moglie del pescatore (assente).
146
Pizzo Russo, 1988, p. 215. «Considerando i dati relativi a bambini che iniziano
a tenere la matita in mano entro il primo anno di vita, l’intervallo tra scarabocchio e
disegno va da un minimo di 8 mesi (e riguarda i bambini che iniziano verso la fine
del primo anno) a un massimo di 19 mesi (e riguarda i bambini che iniziano molto
prima). Quando il bambino inizia a tracciare segni nel secondo e terzo anno di vita,
in genere l’intervallo si riduce. Rouma, che conduce le sue osservazioni su bambini
di tre anni e più, constata che il passaggio dal segno al disegno avviene nell’arco
della prima settimana o al massimo nel corso del primo mese. Luquet (1927, p.
134), per un bambino di 4 anni e 1 mese osserva che “la fase preliminare, tra il
primo tracciato occasionale privo d’intenzione rappresentativa e il primo disegno
intenzionale enunciato prima dell’esecuzione, non è durata più di un quarto d’ora”»
(Ibidem, p. 267).
147
Nella teoria di Luquet (1927) il bambino, fin dalle prime esplorazioni grafiche,
sarebbe “naturalmente” orientato verso il disegno figurativo. A tre anni scoprirebbe
casualmente una rassomiglianza tra la forma dei suoi scarabocchi e qualche
oggetto della realtà che lo porterebbe a fornire le prime interpretazioni verbali,
anche se tali interpretazioni possono variare nel tempo, pur riferendosi allo stesso
prodotto. La rassomiglianza involontariamente ottenuta, spingerebbe il bambino a
ricercare attivamente analogie tra i suoi tracciati e gli oggetti della realtà e «ad
eseguire dei tracciati con l’intenzione di rappresentare qualcosa». Il bambino
passerebbe così dalla fase del realismo fortuito alla fase del realismo intenzionale.
Anche se il bambino agli inizi vuole produrre delle immagini realistiche tuttavia è
ostacolato da limiti di ordine fisico quali la maldestrezza motoria, e di ordine
psichico, come la discontinuità e l’esauribilità dell’attenzione, nonché l’incapacità di
sintesi. Il disegno in questa fase (realismo mancato) si presenta più o meno
incomprensibile, per la scarsa coordinazione motoria; povero di dettagli a causa
del carattere limitato e discontinuo dell’attenzione; disarticolato e sproporzionato
per l’incapacità sintetica. «Chiameremo incapacità di sintesi quella imperfezione
generica del disegno infantile che costituisce la caratteristica essenziale del
realismo mancato e si manifesta a proposito delle diverse relazioni tra gli elementi»
(Luquet, 1927, pp. 135-145). Nella teoria di Luquet il bambino sarebbe motivato
alla produzione di disegni dal realismo (il disegnare oggetti reali) e interessato
unicamente alla figurazione ovvero alla rappresentazione delle qualità visibili di un
oggetto o di un evento.
190
Interessante la verbalizzazione del disegno: in alto a sinistra, allo
scarabocchio bordeaux più esteso, Giuseppe assegna il nome di
“uccello”, personaggio assente nella fiaba, ma la cui forma può
essere ricavata dallo scarabocchio.
Sono molti, in ogni caso, gli autori che ritengono che anche i primi
tracciati infantili su un foglio esprimano molto di più di quanto noi adulti
siamo capaci di leggervi, e che linee e cerchi o spirali stiano per, o al
posto di, o siano sostitutivi di un qualcosa che è più corposo e
composito di quanto possa denotare il segno stesso. Non solo, o non
tanto, nel senso che una linea verticale, un semplice filamento attaccato
direttamente al cerchio (la testa, il volto), che scende verso il basso,
intende raffigurare una gamba, mentre una linea orizzontale, anch’essa
filamentosa, ha la funzione di indicare un braccio levato. Ma piuttosto
per il fatto che in quel filamento c’è una rappresentazione e insieme
un’elaborazione mentale che sono certamente più complesse, per
quanto
difficili
da
comprendere,
da
spiegare,
da
accettare,
probabilmente per il loro simbolismo. (Giani Gallino, 2008, pp. 77-78).
Tuttavia, il soggetto del disegno costituisce un elemento di novità: i
segni acquisiscono un riferimento visivo, che influenza a sua volta i
tracciati successivamente prodotti [figura 38, p. 26].
Da questo momento è comunque certo, non tanto il passaggio dallo
“scarabocchio” al “disegno”, ma l’utilizzazione del segno come disegno: d’ora in poi il bambino si eserciterà a trattare i segni da lui
tracciati anche come “somiglianza”.
La traccia grafica, inizialmente (periodo comunemente chiamato
dello scarabocchio) unico scopo dell’attività e la matita tramite,
diventa a sua volta mezzo per uno scopo ulteriore: rappresentare
(Pizzo Russo, 1988).
Secondo Clair Golomb
all’inizio, i bambini possono essere del tutto soddisfatti delle loro
produzioni di scarabocchi, ma quando un osservatore adulto chiede loro
191
che cosa rappresenta “il quadro” eseguito, tendono a romanzare, cioè a
inventare una narrazione priva di una relazione manifesta con lo
scarabocchio.
Qualche tempo dopo, i piccoli scoprono una somiglianza accidentale tra
il loro disegno e un oggetto familiare e quindi tentano di “estrapolare”
che cosa il dipinto potrebbe rappresentare. Questi primi sforzi possono
essere interpretati come espedienti prerappresentazionali per dare
senso alle creazioni non intenzionali costituite dagli scarabocchi.
(Golomb, 2002, p. 19).
Nella figura 39, p. 26 e 40, p. 27 possiamo osservare due
esemplificazioni di questo processo: il significato dei disegni è
ricavato dai due autori solo a lavoro ultimato, e dopo aver osservato
il loro prodotto.
Se è vero che in parte il bambino è sollecitato dagli adulti a dare un
nome alle proprie grafiche, è altrettanto vero che
il bambino spesso incoraggia questa tradizione: definisce i suoi
scarabocchi, i suoi modelli e i suoi aggregati come persone e cose,
perché ha capito che gli adulti vogliono la prova che il significato del suo
lavoro sia figurativo. Egli può essere deriso se il suo lavoro non è del
tutto simile a come lui l’ha definito oppure può restare confuso quando
gli adulti assumono un atteggiamento tollerante nei confronti dei suoi
scarabocchi e si dichiarano d’accordo con le sue definizioni strampalate.
Il bambino sa che i suoi scarabocchi non sono Gestalt figurative come le
fotografie e gran parte dell’arte degli adulti che ha visto, tuttavia accetta
la tolleranza degli adulti per le sue definizioni considerandola una
incoerenza della loro mentalità. L’abitudine di dare definizioni figurative è
anche rafforzata dalla carenza di termini per descrivere gli aspetti
peculiari del disegno infantile. Gli adulti che desiderano parlare del
lavoro del bambino trovano conveniente usare le stesse parole che
impiegano per gli oggetti di ogni giorno. (Kellogg, 1969, pp. 123-124).
192
Nella figura 41, p. 27, Sana (4,7) dichiara, a disegno ultimato, di
avere disegnato “un lupo”. Sana, nata in Marocco e trasferitasi in
Italia dall’età di 6 mesi, è una bambina che frequentava da tre anni la
scuola dell’infanzia di Reggio Emilia, ma che non parlava ancora
italiano al momento in cui è stata prodotta la grafica. Il livello di
comprensione della lingua italiana era discreto, mentre nella
produzione utilizzava pochissime parole, e difficilmente partecipava
alle conversazioni (sia a grande che a piccolo gruppo). Ci sembra
dunque interessante il fatto che, a fronte di una grafica spontanea,
abbia sentito la necessità di denominarla, con una parola che ha
sentito diverse volte a scuola nelle narrazioni di fiabe o nelle
conversazioni tra bambini.
Come già per lo scarabocchio, la variabilità cronologica riscontrata
per l’apparizione dello schema figurativo è determinata sia dalla
maturazione fisiologica che da fattori ambientali. Di eguale
importanza sono i criteri utilizzati dagli studiosi per decidere se si
tratti di segno o di disegno148.
Intanto non tutti gli studiosi scelgono come criterio la denominazione o
interpretazione […]; il bambino, pur considerando il suo tracciato come
rappresentazione, può non denominarlo; la denominazione può non
essere presa in considerazione perché non la si riconosce come tale.
148
«H. Eng riporta i casi di Major e Bühler i quali “hanno sostenuto che quando dà
un nome ai suoi scribilli il bambino intende con quel nome nulla più che il gioco del
tracciare lo scribillo; assegnando tali nomi il bambino sta semplicemente
chiacchierando con l’idea di imitare gli adulti” e non rappresentando, in quanto non
avrebbe ancora sviluppato l’immaginazione per ravvisare nelle linee una qualche
somiglianza. La Eng (1931, pp. 118-119) si chiede e chiede: “Perché
l’immaginazione di un bambino non dovrebbe essere in grado di indurlo a credere
che una linea è un essere umano, quando gli fa credere che un pezzo di legno è
una bambola e un bastone è un cavallo?”. Ed è una linea, la prima
rappresentazione che la nipote fa dell’uomo. Lo stesso P.A. Osterrieth (1973, p.
34) non riporta nell’elenco dei primi disegni dei suoi tre figli il disegno denominato
“chalet” (una forma circolare chiusa eseguita dal suo terzogenito all’età di 2 anni e
9 mesi); mentre riporta il disegno denominato “albero” (la stessa forma alla quale
subito dopo il bambino ha aggiunto nella parte inferiore un filamento verticale). Per
la prima, “la rassomiglianza obiettiva è inesistente”; la seconda, “dal punto di vista
di una rassomiglianza schematica, è perfettamente accettabile”. E. Lowenfeld e
Brittain parlano per l’appunto di scarabocchio interpretato» (Pizzo Russo, 1988, p.
267).
193
Questo ultimo punto è da mettere in relazione a quella che sembra
essere la concezione prevalente di disegno […] è una domanda che
rivela l’implicita convinzione che il disegno serve unicamente a rendere
la configurazione degli oggetti, e che il tracciato del disegno sia diverso
dal tracciato dello scarabocchio. (Pizzo Russo, 1988, p. 215).
In questo senso l’intento rappresentativo viene unicamente inteso
come realizzazione del contorno degli oggetti mentre, in realtà, sono
gli stessi tracciati che il bambino si è esercitato fin qui a produrre che
vengono, da un certo momento in poi, a funzionare diversamente.
Ciò che nel passaggio cambia non è ancora né l’aspetto né
l’espressività dei tracciati, ma la loro funzione.
A livello formale il prodotto grafico non subisce immediatamente
alcuna trasformazione (tanto che l’adulto continua a vedere solo
scarabocchi), tuttavia avviene qualcosa nel modo di “pensare” del
bambino: egli attribuisce (autonomamente o su richiesta dell’adulto)
un nome al suo tracciato (un significato) e si mostra desideroso di
mostrarlo a genitori o insegnanti per condividerlo [figure 42 e 43, p.
28].
Il
passaggio
dallo
scarabocchio
al
disegno
non
interessa
immediatamente la materialità del segno, né avviene bruscamente.
All’inizio il bambino non anticipa l’intenzione di rappresentare
qualcosa, ma si limita a rintracciarla nei segni a posteriori.
«Ha già capito che il segno, anche quello da lui prodotto, può essere
usato per rappresentare, ma non è ancora in grado di pianificarlo in
funzione rappresentativa» (Pizzo Russo, 1988, p. 216). Se lasciati
liberi di disegnare, i bambini assegnano il nome al disegno solo dopo
averlo completato, perché devono vederlo prima di poter dire che
cos’è, e uno stesso disegno può cambiare denominazione in
momenti successivi. Uno dei motivi per cui devono vederlo prima di
194
decidere che cosa è, è che non esiste nessuna “affinità formale”149
tra il tracciato e il movimento che l’ha prodotto.
Trattando la differenza tra l’atto del disegnare (che si compie in
sequenza) e il prodotto finale, che ha perso la sequenzialità dell’atto,
Arnheim osserva:
il compito dell’artista è reso più difficile non soltanto dal fatto che non
può contare sul movimento vivo che egli sperimenta mentre disegna o
scolpisce, ma anche dal dovere tenere a mente, mentre esegue un
particolare, un intero che in parte è presente e in parte va completato
con il procedere dell’opera. (Arnheim, 1954, p. 152).
Inizialmente il bambino si comporta come se potesse contare sul
“movimento vivo che sperimenta mentre disegna” e spesso chiede
all’adulto di “fargli vedere come si fa”, seguendo attentamente i
movimenti della mano dell’adulto piuttosto che lo svolgimento del
tracciato; ugualmente non è sempre in grado di ripetere il risultato da
lui precedentemente ottenuto e non può fare a meno che ritrovare
somiglianze a disegno ultimato [figura 44, p. 29].
La capacità di vedere gli oggetti come somiglianza è una
“sublimazione” della visione, una conquista privilegiata della specie
umana (Arnheim, 1969).
Con l’esercizio e la pratica l’intenzione rappresentativa (dichiarata o
suggerita da altri) informa sempre maggiormente l’espressione
grafica e quando il bambino inizia a trattare il segno anche come
somiglianza, l’analogia che vi riconosce può riguardare proprietà
dinamico-funzionali (ciò che un oggetto fa o che si può fare con
quell’oggetto), percettivo-formali (come è) o entrambe.
Così ad esempio, in figura 45, p. 29, Felix (5, 10) evidenzia “il salto”
come qualità caratteristica del canguro e motivo di somiglianza tra la
grafica e il soggetto rappresentato.
149
«Le qualità dinamiche delle opere d’arte [e del disegno in generale] non sono
affatto create dalle forze fisiche corrispondenti» (Arnheim, 1954, p. 340).
195
Il primo canguro che disegna è quello posto nella parte più bassa del
foglio. Dapprima disegna una linea a zig-zag rossa che allunga con
un pennarello verde prima a destra (completando l’allungamento con
la testa); poi a sinistra (per rendere una sorta di coda). Cerca poi di
ottenere la tridimensionalità del corpo colorando una parte della linea
a zig-zag con il pennarello arancione. Infine guarda la figura e
aggiunge due gambe in azzurro. Per realizzare il secondo canguro
procede velocemente: dapprima la linea a zig-zag da sinistra a
destra, poi la testa e infine la coloritura del corpo.
Attributi dinamico-funzionali e percettivo-formali guidano d’altronde la
costruzione della conoscenza in questa fase dello sviluppo, nonché
la formazione dei relativi concetti.
Proprietà dinamico-funzionali e proprietà percettivo-formali, proprietà
quindi di natura diversa si combinano nel dar luogo al concetto. Le
prime, secondo la Nelson, costituiscono il criterio di definizione – il
nucleo funzionale del concetto – le seconde ne determinano l’estensione
[…]. Il criterio di estensione è dato prevalentemente dagli attributi
formali, ma il nucleo del concetto non è esclusivamente funzionale; fin
dall’inizio è costituito dal nesso che lega, talvolta in modo casuale, una
certa forma a una certa funzione.
Va messo anche in evidenza che nel trattare le proprietà dinamicofunzionali dell’oggetto il bambino passa da un primo momento in cui le
considera strettamente dipendenti dalla sua azione, al momento in cui le
tratta come inerenti l’oggetto. L’elemento funzionale che andrà a fare
parte del nucleo concettuale, confuso all’inizio con l’azione del soggetto,
diventa viepiù oggettivo. Nell’oggettivazione delle proprietà dinamicofunzionali un ruolo essenziale viene ad essere svolto proprio dall’analisi
delle proprietà percettivo-formali: la stessa azione non produce lo stesso
effetto su oggetti diversi, come ad esempio una palla o un cubo. Che
una palla rotoli, anche se è stata l’azione del soggetto a produrre
l’azione dell’oggetto, è una proprietà della palla, in quanto oggetto
sferico, e non dell’azione del soggetto […]. Fermo restando ciò, quando
il bambino comincia a disegnare, l’integrazione delle componenti formali
196
e funzionali del concetto può non risultare, in quanto il bambino può
concentrarsi solo su una delle caratteristiche. (Pizzo Russo, 1988, pp.
218-219).
Nel “vedere” somiglianza tra i suoi tracciati e gli oggetti, il bambino
sperimenta un modo diverso di conoscere: gli oggetti possono
essere disegnati e il disegno diventa uno strumento per conoscerli.
Da questo momento in poi, il disegno va, per così dire, oltre se
stesso e si rivolge al referente di cui “sta al posto” assumendo lo
statuto di simbolo: il significato domina sul significante (Vygotskij,
1978). Inizia un periodo di sperimentazione attiva sulla relazione tra
segno tracciato e proprietà dell’oggetto.
Se riflettiamo sul fatto che il disegno si realizza tramite un movimento, si
spiega perché il tracciato inizialmente può essere utilizzato come
equivalente di aspetti dinamico-funzionali e non formali. Ciò non
significa, tuttavia, che il bambino non sia “interessato (almeno agli inizi
della sua attività grafica) agli oggetti per la loro forma quanto per l’attività
ad essi collegata”. Molto più semplicemente, il bambino può trovare più
facile rappresentare, attraverso il movimento, un movimento che una
forma150.
Gradualmente cerca di rendere le immagini prodotte rassomiglianti al
loro modello attraverso l’aggiunta di dettagli caratterizzanti e
sperimentando configurazioni sempre più complesse ed elaborate. Si
150
Pizzo Russo, 1988, p. 219. Nell’analizzare le differenze tra gioco simbolico e
disegno l’autrice sottolinea a proposito la maggiore complessità di quest’ultimo
rispetto al primo. La relativa “semplicità” del gioco simbolico rispetto al disegno
dipenderebbe dal fatto che il primo è rappresentazione di aspetti funzionali di
oggetti, mentre il secondo riguarda anche e soprattutto elementi formali. Inoltre
«che il nesso “movimento-movimento” sia più facile da comprendere di quello
“movimento-forma”, trova una conferma indiretta nei dati di Gesell relativi
all’“imitazione di segni” e alla “copiatura delle forme”. Se, come rileva Gesell, “il
disegnare dopo avere osservato qualcun altro farlo, è un compito più facile e si
sviluppa più precocemente del disegno, quando è dato il prodotto finale come
modello”, ciò è dovuto al fatto che nel primo caso il bambino è facilitato dal potere
imitare i movimenti dell’altro, nel secondo caso non ha da imitare un bel niente, ma
deve organizzare i suoi movimenti per riprodurre il modello» (Ivi).
197
tratta di rappresentazioni che verranno sempre più orientate in senso
“percettivo-formale” sulla spinta di richieste culturali specifiche [figura
46, p. 30].
In
sequenza
relativamente
rapida,
le
figure
si
differenziano
graficamente, grazie all’aggiunta di parti o alla loro suddivisione […]. Via
via che aumenta la pratica nel disegnare forme semplici, cresce il
desiderio di eliminare le ambiguità e di raffigurare i dettagli che
renderanno distinguibili, per esempio, l’uomo dall’animale. Il fatto che la
figura disegnata sia essenzialmente un utile schema, una soluzione
temporanea al problema grafico, è confermato dalle significative
variazioni che i bambini producono quando viene chiesto loro di
dichiarare all’osservatore le parti della figura che devono disegnare; o di
costruire una figura da forme di legno indistinte; oppure di completare
figure disegnate in modo incompleto; è inoltre confermato quando
spiegano le loro preferenze per modelli grafici specifici […]. (Golomb,
2002, p. 20).
Nella sequenza prevalente dello sviluppo grafico, che impegna il
bambino nella realizzazione dei primi lavori figurativi, gli esseri
umani, in particolare le figure di riferimento affettivamente più
importanti (mamma o papà) sono le prime grafiche a comparire,
seguiti da animali, edifici, vegetazione e mezzi di trasporto (Kellogg,
1969).
Gli elementi che compongono le figure sono illustrati separatamente
e ne viene riconosciuta l’identità attraverso la denominazione
“mamma”, “albero”, “casa” etc.
Non c’è modo di indicare con certezza a che punto dello sviluppo il
bambino
cominci
rappresentative:
a
rendersi
conto
che
le
sue
figure
sono
probabilmente già prima che confermi il fatto
all’osservatore adulto indicando il suo disegno e dicendo “cane!” Anche
dopo che questo stadio sia stato raggiunto, non c’è ragione di supporre
198
che tutte le figure disegnate in seguito dal bambino siano da lui
percepite come rappresentative. (Arnheim, 1954, 153-154).
Le figure 47 e 48, p. 31; 49 e 50, p. 32 sono esempi di questo
processo. In particolare la figura 48 è un esempio di denominazione
successiva:
Liam
verbalizzazione,
ha
letteralmente
mostrandosi
piuttosto
romanzato
indeciso
durante
sul
la
“cosa”
effettivamente avesse disegnato, mentre la grafica 49 è di Glenis
(5,5), che, perfettamente in grado di rappresentare oggetti e
situazioni in modo realistico (si vedano le altre sue grafiche tra i
documenti etnografici) sperimentava spesso e volentieri forme più
“astratte” di composizioni nelle grafiche che spontaneamente
produceva.
Nel processo di sviluppo del codice molto presto le figure sono
allineate orizzontalmente e l’allineamento suggerisce relazioni
“convenzionalizzate” tra gli elementi della composizione, tuttavia per i
bambini impegnati a disegnare, le figure dovrebbero essere in grado
di affermare ciò che sono e la preoccupazione per la loro identità
sembra avere priorità su altri aspetti della rappresentazione quali, ad
esempio, le dimensioni o il colore [figure 51 e 52, p. 33].
Tra i cinque-sei anni iniziano a prestare maggiore attenzione alle
dimensioni dei soggetti, alla loro differenziazione e caratterizzazione
spesso su sollecitazione di adulti o bambini “più esperti” [figura 53, p.
34].
Nonostante appaiano piuttosto semplici e primitive, queste figure
testimoniano
processi piuttosto
astratti
di pensiero
visivo
[…].
L’indifferenza iniziale al realismo in relazione alle dimensioni e ai colori
non è tanto una questione di “vedere” il mondo differentemente in senso
psicologico o in termini di percezione visiva. Piuttosto, segue una logica
di tipo grafico che richiede di rappresentare in modo simile le
componenti ritenute ugualmente importanti. I bambini sono inoltre aiutati
199
da una strategia intuitiva che li porta a raggruppare le componenti in
base alla somiglianza dimensionale […].
In generale il loro stile di rappresentazione non riflette una mancanza
percettiva o concettuale; piuttosto è la valutazione di un principiante che
sta sviluppando un vocabolario pittorico di forme e colori e prova ad
organizzare i suoi elementi in modo significativo. (Golomb, 2002, p.
133).
Il disegno è ora più strutturato, curato e ricco; mentre i temi che
vengono rappresentati perseguono contenuti grafico-narrativi sempre
più elaborati [figure 54, p. 34; 55 e 56, p. 35]. La fase della
figurazione chiude il secondo periodo dello sviluppo grafico del
bambino, e viene collocata approssimativamente tra i 5 e i 6 anni.
Cuore dell’esperienza diventa ora la spinta a creare equivalenti
attraverso un medium particolare.
Anche la parola svolge un importante ruolo in questo processo,
soprattutto
nella
comunicazione-condivisione-trasformazione
dell’intenzione rappresentativa151: essa traduce e designa ciò che il
bambino intende esprimere attraverso la sua grafica, rendendolo
pubblico.
Lo spostamento del processo di denominazione (prima a posteriori,
in seguito a priori) sottolinea un cambiamento nella funzione stessa
del linguaggio. All’inizio il linguaggio accompagna l’azione, ed è
provocato e dominato dall’attività; più tardi, quando il disegno
assume lo statuto di equivalente simbolico, il linguaggio si muove
verso il punto di partenza dell’attività inaugurando un nuovo tipo di
rapporto tra parola e azione (o tra ideazione e processo grafico).
Ora una “parola” può guidare il corso dell’azione; una funzione
programmatica
si
aggiunge
alla
151
preesistente
funzione
di
«I metodi e gli scopi degli educatori hanno effetti molto precisi sugli alunni. A
scuola i bambini sono indotti ad imitare i disegni di chiunque e questo è il risultato
del giudizio espresso dall’insegnante sul lavoro dei diversi studenti. Anche i
commenti positivi o negativi fatti dagli insegnanti sulle singole parti dei disegni
possono suggerire ai bambini idee per modificare o aggiungere altri schemi a quelli
elementari che già conoscono» (Kellogg, 1969, p. 179).
200
rispecchiamento, svolgendo un importante ruolo nella condivisione
dei processi in atto e dei prodotti ottenuti. Quando i bambini
imparano a usare in modo efficace la funzione programmatrice del
linguaggio hanno a disposizione uno strumento in più e il loro campo
cognitivo cambia radicalmente. Una visione del futuro è ora una
parte integrante del loro modo di accostarsi al compito (Vygotskij,
1978).
Anche nella copia di immagine si assiste allo stesso processo; ad
esempio nella figura 57, p. 36, Matteo (4,6) nomina le parti che copia
dall’immagine un attimo prima di iniziare a disegnare: la parola in
questo caso lo aiuta a focalizzare l’attenzione sulla parte che sta
riproducendo.
La prassi didattica della scuola dell’infanzia, e la pedagogia
sostenuta da quest’ultima, favoriscono e incoraggiano il trasferimento
delle parole in senso grafico e, nel processo inverso, la traduzione
delle grafiche in codice linguistico, laddove la richiesta da parte
dell’insegnante è spesso finalizzata alla riproduzione di oggetti o
avvenimenti specifici che riguardano una discussione verbale, una
narrazione, un vissuto, che a sua volta è seguita da una richiesta di
verbalizzazione dei disegni stessi.
2.2.1
La prospettiva intellettuale
Per molto tempo gli studiosi del disegno infantile si sono chiesti se il
bambino disegna ciò che sa di una persona, di un oggetto, di una
situazione, o piuttosto ciò che vede.
Secondo la prospettiva intellettuale152 lo schema figurativo riproduce
le conoscenze che il bambino ha del mondo fenomenico, ed è
152
Gli studiosi che rientrano in questo orientamento sono accomunati dalla
premessa che «non un atto percettivo visivo sia alla base del disegno, ma una non
ben identificata attività mentale, che creerebbe il modello interno per le
composizioni grafiche infantili. In altre parole, i disegni dei bambini traducono una
conoscenza non visiva ma intellettuale delle cose, pertanto sarebbero riproduzioni
201
ispirato da un modello interno (una rappresentazione schematica di
oggetti, una sorta di “copia”) in cui l’aspetto percettivo subisce, a
livello mentale, una rielaborazione di tipo astrattivo.
Ad esempio, nella figura 58, p. 36, Giulia (6,5) rappresenta il gioco
dei ragni153 che ha imparato il giorno precedente in palestra. In
questo disegno Giulia rielabora il suo vissuto svincolandosi dalla
realtà: la palestra è come una casa (e così viene rappresentata);
fuori c’è il sole (che non è visto veramente), e il gioco viene
condensato in due figure umane solari (i ragni) poste al centro della
palestra.
Secondo la prospettiva teorica che stiamo analizzando la procedura
seguita da Giulia per la rappresentazione del gioco dei ragni sarebbe
stata:
evocazione
cognitiva
dell’esperienza,
elaborazione
di
un’immagine percettiva che la condensi, copia dell’immagine nel
disegno.
Secondo la prospettiva intellettuale, nel processo di restituzione
grafica il bambino cerca di rendere i suoi disegni rassomiglianti agli
oggetti della realtà, attraverso un «modello interno» (una sorta di
immagine mentale) che ne riproduce l’esemplarità (Luquet, 1927)154.
non della realtà esterna o di modelli visivi ma riflessi di un modello interiore o di
una pura rappresentazione mentale. Nell’ambito di tale visione, acquistano
importanza gli studi volti a mettere in luce i processi cognitivi che informano le
abilità grafiche e favoriscono l’evoluzione del disegno. La prospettiva intellettuale è
altresì denominabile come prospettiva cognitiva o evolutiva, secondo che l’accento
sia posto sulla relazione tra lo sviluppo del sistema cognitivo e i cambiamenti della
rappresentazione grafica, oppure sulle fasi che caratterizzano lo sviluppo del
disegno» (Quaglia, 2003, p. 9). Di seguito prenderemo in considerazione la
prospettiva intellettuale di stampo evolutivo e successivamente la più recente
impostazione cognitiva.
153
Nel gioco dei ragni vengono scelti due bambini (i ragni) che hanno lo scopo di
catturare gli altri (le prede). La palestra viene divisa in due zone, e i ragni, al centro
e per mano, possono muoversi solo lungo la linea orizzontale che attraversa le due
zone. Gli altri bambini si muovono da una parte all’altra della palestra, e, se
catturati, prendono per mano gli altri bambini e diventano a loro volta ragni. La
catena dei ragni si allunga durante il gioco, rendendo sempre più difficile lo
spostamento delle prede da una zona all’altra. Il gioco si conclude quando tutti i
bambini sono stati catturati.
154
Vorremmo precisare che Luquet non sostiene affatto la posizione intellettuale e
tuttavia è opportuno prenderlo in considerazione perché, avendo per primo parlato
di “realismo intellettuale”, ritenuto a torto sinonimo dell’assunzione che il bambino
202
Tuttavia il concetto di rassomiglianza del bambino è diverso da
quello dall’adulto155, e il disegno di Giulia ne è un esempio
emblematico.
In generale per il bambino è rassomigliante un disegno che contiene
tutti gli elementi essenziali a identificare l’oggetto rappresentato156.
Per l’adulto, un disegno, perché sia rassomigliante, deve essere una
specie di fotografia dell’oggetto visto in prospettiva con dettagli visibili
soltanto dalla parte da cui l’oggetto si osserva, riprodotti nella forma che
assumono guardati da quel punto di vista. Nella concezione infantile
invece un disegno, per essere rassomigliante, deve contenere tutti gli
elementi reali dell’oggetto, anche se non visibili dalla parte da cui viene
guardato e senza preoccupazione dei punti di vista, ciascun dettaglio
disegna “non ciò che vede, ma ciò che sa” (formula peraltro di Piaget e non di
Luquet, che invece si limita all’assunzione che il bambino disegna “ciò che sa”), è
registrato nella letteratura sull’argomento come il più acceso sostenitore di tale
teoria, e soprattutto perché la sua posizione nella ricezione viene intrecciata con
quella di Piaget «il quale, avendo combinato “il realismo intellettuale” con la
formula più volte riportata, se ha contribuito alla fortuna di Luquet – un Luquet ad
usum delphini -, è stato probabilmente decisivo per la diffusione e la conservazione
della formula stessa e soprattutto per l’interpretazione corrente del “realismo
intellettuale”» (Pizzo Russo, 1988, 105). A titolo esemplificativo dell’irradiazione di
questa valutazione della posizione di Luquet cfr. Gombrich, 1963, p. 14; Perussia,
1979, p. 41.
Anche se Luquet non sminuisce il ruolo svolto dalla percezione nelle produzioni
grafiche, il passaggio dalla percezione al disegno è comunque mediato da un
modello interno «la rappresentazione dell’oggetto, prima di essere tradotta
graficamente, si trasforma necessariamente in un’immagine visuale la quale non è
affatto la riproduzione servile delle percezioni fornite al disegnatore dalla vista
dell’oggetto o di una sua riproduzione, ma è una rifrazione attraverso la mente del
bambino, una ricostruzione originale che risulta da una rielaborazione soggettiva
assai complicata nonostante la sua spontaneità: è questo appunto il modello
interno che si distingue nettamente dall’oggetto o dal modello propriamente detto»
(Luquet, 1927, p. 73). Per una critica dell’appartenenza di Luquet alla prospettiva
intellettuale e un’analisi puntuale delle reciproche posizioni di Piaget e Luquet, cfr.
Pizzo Russo (1988).
155
Luquet, ricordando che il disegno può essere figurativo («copia della realtà») o
non figurativo («geometrico»), precisa che il bambino, anche quando copia dei
disegni geometrici, non li interpreta «come forme di bellezza» ma come «forme di
vita». Sui significati non geometrici che le figure della geometria piana assumono
per i bambini, istruttivi sono i protocolli riportati da J. Piaget e B. Inhelder (1948). Il
triangolo ad esempio viene individuato dai bambini di 5-6 anni come “formaggio,
casa, tetto”.
156
Per il bambino «il fine essenziale di un disegno è quello della rassomiglianza sia
nell’insieme sia riguardo al numero e all’esattezza dei particolari» (Luquet, 1927, p.
115).
203
inoltre deve conservare la sua forma caratteristica seguendo il concetto
di esemplarità e non quello di prospettiva. (Luquet, 1927, p. 147).
Così, nella figura 59, p. 37, Glenis (6 anni) rappresenta la torta del
compleanno
di
Liam
utilizzando
contemporaneamente
una
prospettiva dall’alto (che gli permette di visualizzare le due fette di
torta tagliate da Liam, ma che nella realtà sono state tagliate
dall’insegnante) e una prospettiva frontale (che gli consente di
posizionare le cinque candeline sulla torta). Nello stesso tempo, Liam
è rappresentato a figura intera, in prospettiva frontale dietro (o
davanti?) ad un tavolo i cui piedi sono visti frontalmente, a differenza
del piano che è rappresentato come se fosse visto dall’alto.
Nel modello di sviluppo elaborato da Luquet157 il bambino, raggiunto
lo stadio dello schema figurativo, esprime nelle sue grafiche una
sorta di realismo intellettuale. (Luquet, 1927, pp. 147-173).
Luquet distingue il realismo dell’adulto, di tipo visivo, da quello del
bambino, di tipo, appunto, intellettuale, e puntualizza: «ciò che
interessa il bambino non è l’aspetto che un soggetto può assumere
secondo un punto di vista contingente e variabile, ma è il suo aspetto
essenziale sub specie aeternitatis» (Ibidem, p. 115) il realismo
157
L’opera di Luquet (1927) è il punto obbligato di riferimento per tutti gli studi sul
disegno infantile e l’evoluzione in stadi da lui delineata è ancora oggi usata e
ritenuta valida, soprattutto nella versione rivisitata che ne ha dato successivamente
Piaget. In sintesi, le fasi di sviluppo del disegno nella teoria di Luquet, sono
principalmente quattro: il realismo fortuito, corrispondente allo stadio dello
scarabocchio, una fase prevalentemente psicomotoria e di imitazione di genitori o
di altre figure che il bambino osserva mentre disegnano o scrivono; il realismo
mancato in cui il bambino disegna con maggiore intenzionalità ma con immatura
accuratezza e attenzione rispetto al modello reale; il realismo intellettuale, durante
il quale c’è maggiore accuratezza e appaiono alcune caratteristiche tipiche del
disegno infantile quali la “trasparenza” e il “ribaltamento” (che verranno trattati in
seguito); il realismo visivo in cui il bambino abbandona i fenomeni prima citati,
aggiunge la prospettiva nei suoi elaborati e “disegna ciò che vede” (dagli otto anni
in poi). L’interesse di Piaget per la teoria di Luquet fu dovuto alla sua congruenza
con il modello di sviluppo cognitivo in quattro stadi tracciato da Piaget stesso:
periodo sensomotorio, pre-operatorio, operatorio concreto, operatorio formale. In
particolare la rappresentazione dello spazio, corrisponde per Piaget alla fase del
ragionamento sullo spazio, in cui il bambino passa da intuizioni topologiche a
strutture proiettive e metriche. La rappresentazione grafica rifletterebbe dunque un
progressivo sviluppo delle strutture cognitive in senso razionale.
204
intellettuale, caratterizzato dall’esemplarità e non dalla prospettiva, è
il «realismo più congeniale all’infanzia».
Il bambino propone “rappresentazioni canoniche” degli oggetti del
mondo, ovvero utilizza «forme che sono vicine ai modi in cui quegli
oggetti sono codificati nell’occhio della mente» (Hochberg, cit. in,
Quaglia, 2003, p. 73). Così può accadere ad esempio, che scelga di
disegnare, per ogni parte di un oggetto o di un episodio, l’aspetto che
maggiormente lo identifica. Al contrario, tutti gli elementi che non
vengono
considerati
necessari
ai
fini
della
comprensione
dell’oggetto, sono eliminati.
A seconda del tipo di configurazione che intende dare alle varie parti del
disegno, adotta per ognuna il piano che meglio la caratterizza. Nel
disegno della giostra la struttura globale è disegnata vista dall’alto
perché per il disegnatore l’essenza della giostra - l’idea giostra – è una
piattaforma tonda che gira; le automobili sono invece viste di fianco
perché questa è la configurazione tipica di un’automobile in movimento;
gli omini infine stanno di fronte perché questa è la posizione che li rende
più facilmente individuabili come spettatori: se essi fossero di profilo
parrebbero in movimento, il che contrasterebbe l’intenzione dell’autore.
(Oliviero Ferraris, 1973, p. 48).
Nella figura 60, p. 37, Jonny (5,6) rappresenta il momento della
narrazione delle fiabe durante la festa di carnevale a scuola. La
scenografia è posta in alto, staccata dal resto della scena; sul palco,
la volpe e il gatto che recitano, e sotto, alcuni bambini che guardano
lo spettacolo girati dalla parte “sbagliata”.
Per la prospettiva intellettuale persone, animali, e oggetti sono
rappresentati solo secondo quei tratti essenziali che li rendono
riconoscibili e non in base a “modelli visivi”, e ciò giustificherebbe
fenomeni come il ribaltamento e la trasparenza; e tutte quelle
«contraddizioni» tra disegno e realtà di cui il bambino «non ha
ancora coscienza».
205
Il concetto di riconoscibilità ricercato e agito dal bambino va
senz’altro nella direzione di una maggiore interpretabilità delle
grafiche anche da parte degli adulti per i quali i disegni appaiono
sempre più “chiari” e “conformi” a un modello di «realismo ottico» di
produzione (da questo punto di vista, il disegno di Giulia 6,5 in figura
58, p. 36, sarebbe considerato da molti insegnanti “sbagliato”).
In questa prospettiva teorica, il realismo intellettuale158 può indurre il
bambino a riprodurre particolari che non esistono nella realtà e la
soddisfazione del bambino deriverebbe proprio dall’aver reso
identificabile a se stesso (e soprattutto ad altri aggiungeremmo noi),
il proprio disegno.
Così nella figura 61, p. 38, Martina (5,11) mette lo stesso vestito a lei
e alla sorella più piccola (di sei mesi): in realtà la mamma non ha mai
vestito le due bambine con vestiti uguali; mentre nella figura 62
Marta (5, 10) non esita a rappresentare contemporaneamente la
scuola e il suo interno, dando origine al fenomeno della trasparenza.
La riconoscibilità degli oggetti e l’importanza attribuita alla loro
identificazione
spiegherebbe
dunque
sia
il
fenomeno
della
trasparenza, sia la compresenza di più punti di vista all’interno dello
spesso disegno (il ribaltamento) che rende possibile rappresentare le
case «con le loro facciate, come se fossero distese sullo stesso
piano della strada» (Widlöcher, 1965, p.38).
158
Il realismo intellettuale per Piaget corrisponde ad una vera e propria modalità di
funzionamento psichico del soggetto. Il bambino «non vedrà gli oggetti quali sono,
ma quali egli se li sarebbe rappresentati prima di vederli se, supposto l’impossibile,
egli se li fosse descritti a se stesso. Per la stessa ragione i primi stadi del disegno
infantile non sono caratterizzati dal realismo visuale, cioè da una copia fedele del
modello dato, ma da un realismo intellettuale tale che il bambino non disegna delle
cose altro che quello che egli ne sa e non guarda che un “modello interno”. Tale è
anche l’osservazione infantile. Il bambino sovente non vede che quello che sa […].
Il realismo intellettuale è dunque la rappresentazione più naturale del mondo per il
pensiero egocentrico. Da un lato esso testimonia un’incapacità all’osservazione
obiettiva (il realismo visivo). Da un altro lato è tuttavia un realismo, perché il
bambino non è né un intellettuale (il suo disinteresse per la sistematizzazione
logica è completo) né un mistico». Pertanto «il realismo infantile è intellettuale e
non visuale: il bambino non vede [che] quello che sa e vede il mondo esterno
come se egli lo avesse costruito prima con la propria intelligenza» (Piaget, 1924,
rispettivamente pp. 258 e 264).
206
A questo proposito si noti in figura 63, p. 39, come Salvatore (5,4)
rappresenta il cerchio del pavimento della palestra e il contenitore dei
palloni (entrambi in una prospettiva dall’alto in contrasto con la
prospettiva frontale utilizzata nel resto della grafica).
In questi casi il bambino non assumerebbe un punto di vista
“esterno” alla scena rappresentata, piuttosto è come si collocasse
all’interno della situazione, «restandone coinvolto» (Oliverio Ferraris,
1973).
Il coinvolgimento dell’autore all’interno della rappresentazione può
essere espresso anche in altri modi. Si veda ad esempio il disegno di
Jonny (5,6) in figura 65, p. 40. Si tratta della rappresentazione grafica
delle attività svolte in palestra, dove in parte, ritroviamo il gioco dei
ragni rappresentato da Giulia (6,5) in figura 58, p. 36. Nel disegno di
Jonny (che frequenta da tre anni la stessa sezione di scuola
dell’infanzia di Reggio Emilia con Giulia e che ha partecipato alle
stesse attività) vi è la compresenza di più attività: il percorso (una
delle attività proposte ai bambini che consiste in una staffetta in cui
sono previste diverse andature e l’uso di piccoli attrezzi e altri
materiali della palestra) e il gioco dei ragni.
La parola “percorso” sconvolge tutta la rappresentazione: il percorso
diventa una specie di “pista” per delle macchine che devono andare
ad una certa velocità (il 100 della figura); l’insegnante di trasforma in
un vigile che dirige il traffico; mentre il ragno ha una sua macchina,
diversa dalle altre. Vengono poi aggiunti altri veicoli e un lampadario
animato (in palestra ci sono i neon).
Trasparenza, ribaltamento, uso simultaneo di entrambi i procedimenti
e collocazione dell’autore all’interno della rappresentazione sono
modalità che discendono dalla «prospettiva infantile», diversa da
quella dell’adulto che «rappresenta, in ultima analisi un’astrazione
perché, nella rappresentazione […] toglie all’oggetto tutto ciò che non
è visibile». (Luquet, 1927, pp. 147-173).
207
Luquet pone termine al disegno infantile attorno agli otto-nove
anni159, quando il bambino abbandona progressivamente il realismo
intellettuale a favore del realismo visivo e adotta gli stessi criteri
rappresentativi degli adulti con riferimento alla sola apparenza
visiva160. In questo passaggio, si verificherebbero alcuni cambiamenti
159
«Mediante le dichiarazioni verbali degli stessi bambini è possibile stabilire che
essi optano, non inconsciamente ma per deliberato proposito, per il realismo visivo
[…]. Considerando come criterio base dell’applicazione del realismo infantile la
raffigurazione di un solo occhio in una fisionomia di profilo, abbiamo constatato che
la sostituzione del realismo visivo al realismo intellettuale si realizza quasi sempre
verso gli otto o nove anni; ma possono senz’altro riscontrarsi differenze individuali
fra i vari bambini e l’intenzione del realismo visivo può manifestarsi anche ad
un’età assai inferiore».
Luquet esemplifica poi con bambini di 4 anni. «Ma la sostituzione del realismo
visivo al realismo intellettuale non avviene tutta in una volta, così come ogni altro
progresso grafico […]. Il realismo visivo deve lottare contro abitudini contrarie ad
esso profondamente abbarbicate e, dopo la sua apparizione, impiega un certo
tempo prima di divenire permanente; non soltanto il realismo intellettuale tende a
riapparire in disegni posteriori ad altri in cui è già assente, ma uno stesso disegno
può contenere contemporaneamente i due tipi di realismo» (Luquet, 1927, pp. 174180).
160
Piaget adottò il sistema di classificazione elaborato da Luquet, e postulò una
stretta corrispondenza tra i disegni dei bambini e il ragionamento matematicospaziale. Ne La rappresentazione dello spazio nel bambino (Piaget - Inhelder,
1948) in particolare delineò una progressione evolutiva del grafismo che inizia con
il disegno di forme chiuse (alla fine del periodo senso-motorio) e che si conclude
con il raggiungimento del realismo visivo (alla fine del pensiero operatorio
concreto). La rappresentazione grafica è collocata all’interno delle manifestazioni
che riguardano la funzione semiotica o simbolica, che coincide con la capacità
rappresentativa, ossia la capacità di richiamare alla mente oggetti non
percettivamente presenti (“significati”) grazie a indici, simboli o segni che ne
evocano le caratteristiche (“significanti”). La capacità rappresentativa si esprime
attraverso svariate condotte: l’imitazione, il gioco simbolico, la produzione di
immagini mentali, il linguaggio e il disegno. Piaget riconosce al disegno lo statuto
di simbolo (un significato cui corrisponde un significante da esso differenziato) a
metà strada tra il gioco simbolico (con cui condivide il piacere funzionale e
l’autoreferenzialità) e l’immagine mentale (che esprime lo stesso sforzo di
imitazione della realtà).
Secondo Piaget nel disegno predomina l’accomodamento sull’assimilazione: il
disegno è “copia” dell’immagine mentale, ovvero dell’interiorizzazione di oggetti e
della corrispondente esperienza percettiva che il bambino ne ha (una sorta di
imitazione interiorizzata). Le “carenze” rinvenibili nei primi schemi figurativi
(omissioni, trasparenza, ribaltamento, non corrispondenza di forma e dimensioni
tra gli oggetti raffigurati…) sono associate da Piaget allo sviluppo cognitivo e
trovano una spiegazione nell’immaturità concettuale; mentre, i successivi
mutamenti nelle grafiche (in particolare nel periodo che va dai 7 agli 11 anni),
denoterebbero l’avvenuta intuizione dei concetti euclidei della misurazione e della
geometria proiettiva. Superato l’egocentrismo il bambino introdurrebbe nelle sue
grafiche la prospettiva, segno dell’avvenuta interiorizzazione della possibilità
dell’esistenza di altri punti di vista e della relativa capacità di tenerne conto. Mentre
nel modello dello sviluppo cognitivo dello psicologo ginevrino, la meta finale dello
208
a livello cognitivo: primo fra tutti il progredire della sua capacità di
attenzione, che lo costringerebbe a misurarsi con la realtà e a
rendersi conto della «contraddittorietà» delle sue raffigurazioni, che
costituiscono delle «assurdità empiriche». Diviene meno «maldestro»
nell’esecuzione dei disegni, e meno «negligente» nell’osservazione
della realtà. Un simile progresso mette in grado il bambino di valutare
criticamente i suoi prodotti grafici: avverte le sue ingenuità e
«condanna il realismo intellettuale» per la sua insufficienza a
rappresentare «adeguatamente» la realtà (Luquet, 1927).
Al realismo intellettuale si sostituisce il realismo visivo. Il realismo
intellettuale è caratterizzato da una serie di espedienti mediante i quali il
bambino è riuscito a rendere socialmente interpretabili i suoi disegni
[ora] non basta rappresentare tutti gli elementi costitutivi di un oggetto, è
necessario anche che gli elementi appaiano in relazione tra loro, e ciò
induce il disegnatore ad eleggere un unico punto di vista. (Quaglia,
2003, p. 74).
Nella fase del realismo visivo il bambino continua a disegnare
secondo il proprio «modello mentale», ricercando esemplarità e
rassomiglianza ma ora i disegni sono ora maggiormente informati
dalle regole convenzionali della prospettiva. Non si tratta né di
un’informazione “scientifica”, né di una copia dal vero frutto
sviluppo cognitivo corrisponde al ragionamento logico-matematico, meta finale
dello sviluppo grafico è il realismo visivo delle rappresentazioni.
Il pensiero di Piaget ha influenzato per molto tempo gli studi sulle grafiche dei
bambini, e il criterio del realismo visivo sottende la costruzione di numerosi test di
misurazione dell’intelligenza in cui è richiesto ai bambini di disegnare. Va peraltro
specificato che il significato che Piaget attribuisce al realismo intellettuale è diverso
da quello originario di Luquet. Mentre per Luquet il realismo è la caratteristica
saliente del disegno in quanto disegno, e intellettuale e visivo sono modi diversi di
intendere la rassomiglianza tra disegno e oggetto, per Piaget il realismo diventa
una caratteristica della mentalità infantile. Sulla base di analisi approfondite e di
ulteriori ricerche sperimentali, molti autori hanno ridimensionato la concezione di
Piaget (Freeman, 1980; Selfe, 1983; Leslie, 1987¸ Golomb, 2002). Nello specifico
Golomb osserva: «La mia critica a Piaget riguarda il suo modello evolutivo grafico,
inteso come una progressione unidirezionale verso il realismo ottico, una teoria
che ignora la varietà dei modelli culturali e l’efficacia dei modelli rappresentazionali
alternativi che dipendono dalle intenzioni dell’artista» (Golomb, 2003, p. 19).
209
dell’osservazione, ma di una vera e propria conquista cognitiva nella
direzione della «figurazione realistica», ultima e universale tappa,
secondo questo modello, dello sviluppo del disegno161.
Tradizionalmente la teoria intellettuale di stampo evolutivo fonda la
propria analisi dello sviluppo sul prodotto simbolico, indagando le
motivazioni cognitive che stanno alla base delle “imperfezioni”
presenti nelle manifestazioni grafiche dei bambini e di come queste
cambino nel corso dello sviluppo con il procedere dell’età.
Autori più recenti, nell’ambito dello stesso approccio, privilegiano
invece l’aspetto processuale dell’attività, mettendo in primo piano gli
aspetti relativi ai coefficienti esecutivi e ai problemi tecnici che il
bambino deve di volta in volta risolvere quando disegna162.
Sulla spinta delle nuove ricerche aperte dalla psicologia cognitiva,
viene valutata la produzione dei disegni come compito di problemsolving, e l’attenzione degli studiosi si focalizza sui processi esecutivi
che mediano il passaggio dal progetto al prodotto.
Il disegno è visto come attività simbolica agita attraverso determinati
strumenti e soggetta a determinati vincoli: «nessun disegno è una
traduzione automatica di qualche mondo percettivo» perché ciò che
si conosce deve essere trasformato nell’azione di disegnare (Olson,
1979).
161
Piaget e Inhelder sostengono in La psicologia del bambino, che «realismo
intellettivo del disegno infantile ignori la prospettiva e le relazioni metriche, ma
tiene conto dei nessi topologici: vicinanze, separazioni, inclusioni, chiusure, ecc. da
queste intuizioni topologiche procedono, a partire dai 7-8 anni, intuizioni proiettive
nello stesso tempo in cui si elabora una matrice euclidea, vale a dire che appaiono
i due caratteri essenziali del “realismo visivo” del disegno» (Piaget - Inhelder, 1966,
p. 63).
162
«E’ nell’ambito dell’approccio HIP (Human Information Processing o teoria
dell’elaborazione delle informazioni), dagli anni ’70 in poi, che ci si inizia a porre il
problema della specificità dell’attività del disegnare rispetto alle competenze
cognitive più generali, distinguendo in modo netto il conoscere qualcosa dal
saperlo rappresentare.
In relazione a tale mutamento di prospettiva teorica, la ricerca si indirizza ad
indagare meglio le caratteristiche dell’attività rappresentativa e i processi di
acquisizione delle regole che la guidano» (Donsì - Parrello, 2005, pp. 20-21).
210
Si cerca di risalire alla “natura dell’azione grafica” e alle difficoltà
implicite nella progettazione-pianificazione-esecuzione di un disegno:
riduzione della tridimensionalità del reale alla bidimensionalità del
foglio, riconoscibilità di ciò che si raffigura, posizionamento “corretto”
degli elementi che compongono il disegno e reciproca collocazione di
più oggetti tra loro.
Ci si preoccupa dei problemi procedurali e degli espedienti utilizzati
dai bambini per tradurre “una conoscenza” in disegno e si focalizza
maggiormente l’attenzione sul processo “materiale” dell’azione
grafica e sul contesto in cui avviene.
Così ad esempio secondo Jacqueline Goodnow
i disegni dei bambini, più di ogni altro tipo di produzione grafica, sono
fatti di unità combinate in una grande quantità di modi. Le unità possono
variare nel genere: possono essere per esempio linee rette,
scarabocchi, cerchi, quadrati, triangoli o croci; possono anche variare
nel numero: uno o più ovali, due o più aste. Possono variare nel modo in
cui sono unite: ammucchiate l’una all’altra o collegate da una linea di
contorno comune. (Goodnow, 1977, p. 33).
L’autrice si è occupata in particolare dell’analisi degli schemi
figurativi, di come le diverse unità che compongono gli schemi sono
collocate nello spazio grafico-pittorico e di come sono organizzate in
sequenze d’azione. Molti aspetti dei disegni sono attribuiti al modo
escogitato dai bambini per risolvere i problemi incontrati nel corso del
compimento di determinati tipi di schemi o nella sequenza di
esecuzione scelta per produrre lo schema stesso. Così, ad esempio,
l’omissione delle braccia nella riproduzione di una figura umana,
potrebbe essere dovuta al tipo di linea utilizzata nello schema
figurativo o dallo spazio rimasto disponibile sul foglio, piuttosto che a
un fallimento d’analisi percettiva o di comprensione concettuale delle
relazioni spaziali:
211
spesso sono le parti precedenti di un disegno a porre il problema di
come aggiungere una parte successiva facendo in modo che le linee
non si incrocino né violino lo spazio appartenente ad un’altra unità.
(Ibidem, p. 63).
Nella rappresentazione grafica effettivamente solo il primo tratto è
completamente
“arbitrario”
e
il
processo
produttivo
risente
necessariamente delle restrizioni imposte dai segni già tracciati163.
Ad esempio, nella figura 65, p. 40, Annalisa (5,11) durante
l’esecuzione, ha iniziato a disegnare la mamma dalla testa, nella
parte alta del foglio, formato A4 posto verticalmente davanti a lei.
Durante la produzione, dopo aver disegnato testa, busto e iniziato a
tracciare il segno della prima gamba, si è ferma e, prima completare
la gamba, mi ha guardato e chiesto “posso andare fino in fondo?”
L’ho lasciata libera di decidere. Si è rimessa sul disegno e ha
proseguito. A disegno ultimato ha commentato (stupita e divertita)
“che gambe lunghe ci sono venute alla mia mamma!”
Dunque non vi è rispondenza possibile né con l’intenzione iniziale né
con eventuali schemi interni, ma il disegno è determinato dalla somma
163
«Non si tiene mai nella giusta considerazione il fatto che ogni disegno ha inizio
sempre in un punto, a partire dal quale la mano avvia il movimento con cui traccia
la prima linea, seguita da una linea successiva che può avere origine da un altro
punto nello spazio del foglio, e che l’occhio avrà guardato in un secondo momento,
senza però averlo considerato in rapporto al primo; e così di seguito fino all’ultima
linea con cui si conclude il disegno.
La visione di un oggetto, così come il disegno della sua forma, non si ha mai nella
sua completezza in modo istantaneo; noi non vediamo mai una cosa nella sua
globalità in un sol colpo d’occhio; la cognizione visiva che ne abbiamo, sia pure in
un lasso di tempo molto breve, è così breve da sembrarci perfino immediata, in
realtà è sempre il risultato di un’esplorazione che l’occhio compie, toccando i punti
salienti della sua morfologia […]. Non foss’altro che per una condizione puramente
meccanica, il disegno prevede tempi di realizzazione molto più lunghi di quelli che
occorrono alla visione; l’occhio è molto più veloce a percorrere un bordo, il
contorno di una forma rispetto a quanto occorre alla mano per tracciare la linea del
medesimo contorno sul foglio. La mano esegue in tempi diversi le operazioni una
di seguito all’altra in successione temporale, raccordando il tratto di linea appena
tracciato con un altro in continuità con questo, ma con un’altra direzione. L’occhio
invece non esegue necessariamente le operazioni nello stesso ordine e con la
stessa cronologia» (Di Napoli, 2004, pp. 289-290).
212
degli effetti di una pluralità di indici – che vanno dai margini del foglio,
alla posizione dei tratti già eseguiti, alla necessità di rispettare le
proporzioni, a tutti i problemi grafici e rappresentativi che via via si
pongono. (Donsì – Parrello, 2005, p. 22).
Si osservi a proposito lo strano andamento della strada ferrata
disegnata da Salvatore (5,5) in figura 66, p. 41.
Norman Freeman e collaboratori164 hanno inoltre dimostrato che la
rappresentazione grafica può essere condizionata dal tipo di compito
e dalle consegne dello sperimentatore; mentre altri autori (Crook,
1985; Callaghan, 1999; Cox, 1985; Davis, 1985, Tallandini - Valentini
1991, Thomas - Silk, 1990) si sono occupati di come la
rappresentazione canonica possa essere abbandonata in favore di
una
rappresentazione
“centrata
sull’osservatore”
quando
la
situazione lo richiede165.
164
Freeman – Cox, 1985. Già a partire dalla fine degli anni Settanta, Freeman
articola un’innovativa analisi dei processi produttivi del disegno, il cui “farsi” è visto
come progressiva risposta alle limitazioni imposte dai segni precedentemente
tracciati. Al centro dell’attenzione dello studioso, la cui metodologia si caratterizza
per un’accurata logica sperimentale, i problemi della traduzione della
tridimensionalità in rappresentazioni bidimensionali, la rappresentazione della
profondità e della figura umana, il modo di affrontare questi vincoli e la modifica
delle strategie da parte del bambino nel corso dello sviluppo. La maggior parte dei
materiali d’analisi sono stati raccolti in laboratorio e la metodologia prevede
consegne ai bambini, per lo più presi individualmente, che riguardano il disegno di
oggetti singoli (ad esempio cubi) o oggetti in una specifica relazione
(davanti/dietro, sopra/sotto) (Freeman, 1977; 1980). Più recentemente lo stesso
Freeman ha riconosciuto che i ricercatori hanno sottostimato le abilità pittoriche dei
bambini, studiandole in condizioni impoverenti; cfr. Freeman, 1987.
165
«In effetti una raffigurazione “centrata sull’osservatore”, cioè più informata
sull’aspetto di un oggetto visto da una prospettiva specifica, può essere sollecitata
da situazioni particolari. Esistono infatti condizioni che consentono di modulare
l’influenza intellettualistica: si possono progettare situazioni sperimentali che
inducano un bambino di 5 anni ad accedere ad una rappresentazione basata sul
punto di vista. Vari ricercatori hanno provato questa asserzione, ma forse lo studio
più esemplificativo è quello di Davis (1985), che mostra che la tendenza dei
bambini a disegnare comunque il manico di una tazza, anche se invisibile nella
prospettiva proposta, per denotare più chiaramente l’oggetto, può essere
contrastata creando una contrapposizione con un’altra tazza dal manico visibile:
secondo l’autrice, questo contrasto simultaneo nella configurazione visibile tende a
indurre la possibilità di omettere il manico nella rappresentazione di una delle
tazze, allo scopo di far notare la differenza tra i due oggetti. Pinto e Bombi (1996)
hanno più di recente dimostrato l’abbandono spontaneo da parte dei bambini di 5
anni delle forme canoniche di rappresentazione frontale della figura umana, a
213
È chiaro che se, come sostenuto da Piaget e dalla prospettiva
intellettuale di stampo evolutivo, il disegno fosse solo la restituzione
di un “modello mentale” astratto e universale che evolve con l’età,
varianti dovute a contesti e consegne, non potrebbero essere
accolte.
In questo senso, di particolare utilità si sono rivelati gli studi di coloro
che hanno indagano l’attività grafica dei bambini in relazione agli
strumenti utilizzati nei processi di raffigurazione.
Sul piano generale si è oramai d’accordo nel riconoscere che lo scontro
con la varietà dei materiali sollecita l’individuo ad affrontare problemi
diversi e a escogitare di volta in volta soluzioni su misura. Un materiale
che si trasforma in un medium, per rispondere ad un’intenzione
espressiva, conduce il ragazzo a trovare ordine e forma, a rimediare,
ristrutturare e individuare nuovi rapporti. (Piantoni, 1992, pp. 9-10).
L’efficacia rappresentativa sarebbe dunque raggiunta in misura
diversa a seconda del medium utilizzato e in stretto rapporto con la
varietà delle caratteristiche che ogni compito comporta166.
Golomb
ha
analizzato
in
modo
approfondito
le
tendenze
rappresentazionali del bambino nel disegno e in attività basate su
mezzi espressivi tridimensionali.
Nel disegno e nella pittura, la carta, la tela, la corteccia, la seta o altri
tessuti costituiscono una superficie bidimensionale su cui inchiostro,
pittura, carboncino, gesso e pastelli devono essere applicati con
pennelli, penne, matite e simili. Il mezzo bidimensionale permette
all’artista, da un lato una gamma di azioni e di forme potenziali di
rappresentazione, dall’altro lato gli impone dei vincoli. A differenza dei
mezzi bidimensionali, l’argilla, il gesso, il legno e la pietra sono materiali
favore di quella di profilo, per rendere meglio una dinamica di conflitto tra due
figure» (Donsì - Parrello, 2005, p. 23).
166
Sull’importanza dei fattori di pianificazione e del loro intrecciarsi con il medium
utilizzato cfr. Pinto, Bombi, Freeman, 1997.
214
tridimensionali che invitano l’artista a lavorare su tutte le sfaccettature
della scultura […]. Anche se c’è una notevole distanza tra le concezioni
e le abilità dell’artista adulto e quelle dei bambini, alcune delle proprietà
fondamentali dei mezzi bidimensionali e tridimensionali influenzano
anche il lavoro dei bambini e i linguaggi artistici che sviluppano.
(Golomb, 2002, p. 81).
L’analisi
condotta
dall’autrice
evidenzia
sia
somiglianze
che
differenze nei modelli rappresentazionali realizzati dai bambini con
tecniche
espressive
diverse.
Ad
esempio,
mentre
nella
rappresentazione grafica della figura umana prevale, di norma, la
visione
frontale
(la
visione
canonica,
quale
maggiormente
caratterizzante il soggetto rappresentato), nell’attività plastica i
bambini tendono a prestare una certa attenzione ai diversi lati
dell’oggetto differenziando le parti che caratterizzano i diversi punti di
vista, manifestando quindi una conoscenza che non emerge
immediatamente nelle grafiche.
[Il confronto] mette in luce diversi modelli che i bambini inventano e i
progressivi cambiamenti del loro pensiero rappresentazionale e della
loro competenza. La diversità rappresentazionale nella scelta dei modelli
e l’ordinamento interno delle loro parti si oppongono all’idea di una
singola immagine o schema mentale soggiacente, anzi, confermano la
grande flessibilità con cui il bambino realizza figure bi o tridimensionali. I
disegni bidimensionali, i modelli misti, l’omissione di particolari e di parti
del corpo, la preferenza per il punto di vista frontale e molti altri
cosiddetti errori nei disegni dei bambini non indicano necessariamente
immaturità concettuale, confusione o realismo intellettuale. L’omissione
del busto nel disegno, ma la sua inclusione nella scultura, non può
indicare confusione concettuale o limiti di memoria in un caso e
competenza nell’altro. […]. La risposta deve essere individuata
nell’evoluzione del pensiero artistico, che implica sensibilità alle
possibilità e alle richieste di ciascun mezzo espressivo e la spontanea
215
consapevolezza che una rappresentazione non è un’imitazione letterale
dell’oggetto. (Ibidem, pp. 86-87).
La prospettiva intellettuale di stampo cognitivo non prende in
considerazione né la dimensione emotiva del bambino che disegna
(di cui si è occupata tradizionalmente la prospettiva clinica167 e, più
recentemente la prospettiva estetico-dinamica168), né le idee
espresse, ovvero gli aspetti relativi al contenuto informativo dei
disegni.
Tuttavia, la realizzazione del disegno come mediazione tra istanze
rappresentative e vincoli procedurali pone al centro dell’attenzione
dei ricercatori il problema di che cosa costituisca per il bambino una
“rappresentazione efficace” e di come strategie e regole di
167
«L’orientamento clinico, definito anche simbolico, ha analizzato i disegni,
considerando la sua organizzazione e i suoi contenuti come proiezione di tratti,
tendenze e caratteristiche della personalità del disegnatore. In questa prospettiva,
il disegno da oggetto di studio diviene, quindi, uno strumento per esplorare la
dimensione affettiva. Al come il disegno si costruisce ed evolve, si sostituisce il
perché dei suoi elementi e della sua formazione. Al bambino che disegna per
rappresentare il mondo degli oggetti, succede il bambino che lascia indizi e tracce
di un mondo fantasmatico» (Quaglia, 2003, p. 115).
La prospettiva clinica si concentra sul valore “espressivo” del disegno come indice
di atteggiamenti, stati emotivi e umori. Essa analizza i legami tra i prodotti grafici e i
tratti temperamentali (Alschuler - Hattwich, 1947; Corman 1966), il valore catartico
del disegno che, al pari del sogno, viene letto come tentativo di “eliminare” le parti
intolleranti dell’esperienza (Stora, 1963), il disegno come strumento di analisi della
personalità (Schilder, 1935; Bender, 1938; Abraham, 1976; Di Leo, 1973; Balconi Del Carlo Giannini, 1987). Nel setting analitico, lo psicoterapeuta può chiedere al
bambino di disegnare ciò che vuole, come vuole: in questo caso si tratta di disegno
libero, anche se non spontaneo. Oppure la consegna e il tema sono più specifici, e
in questo caso si tratta di un test proiettivo: ad esempio il disegno di una figura
umana (test di Machover), o di una casa, di un albero e di una persona (test di
Buck), oppure il disegno della propria famiglia (richiesto con modalità diverse) o
altri test proiettivi. In tutti questi casi lo scopo del terapeuta è quello di aiutare il
bambino (o l’adolescente) ad esprimere le proprie emozioni (ansie, paure, desideri
inconsci) e risolvere problematiche e conflitti di ordine psichico, emotivo o socio
affettivo.
168
Questo approccio si pone a metà strada tra l’approccio clinico ed estetico e
analizza le qualità dinamiche delle rappresentazioni grafiche. «La dinamizzazione
degli oggetti da parte del bambino, vale a dire la sperimentazione della realtà
mediante un atteggiamento affettivo, non conduce soltanto ad un particolare tipo di
percezione “fisionomica” o “animata”, ma ad attribuire ai simboli un diverso
significato o un diverso valore cognitivo: i simboli diventano così segni di
esperienza e non segni di una realtà fisica e geometrica. Il bambino percepisce
soprattutto espressioni e non forme, immagini e non strutture obiettive» (Quaglia,
2003, p. XV).
216
combinazione cambino con l’età e l’esperienza per adeguarsi
progressivamente alle convenzioni rappresentative proprie di una
determinata cultura e per rispondere in modo più efficace ad
esigenze comunicative.
In questo senso la prospettiva intellettuale di stampo cognitivo si
incontra con le ricerche che hanno per oggetto le competenze
comunicative del bambino e che vedono nel disegno, come nel
linguaggio, un adattamento del messaggio al contesto che ha una
forte responsabilità nell’indirizzare il bambino a selezionare cosa
rappresentare e come rappresentarlo.
L’ipotesi di stadialità che lega il disegno alle rappresentazioni mentali
interne e alla loro evoluzione, a lungo dominante nella cultura
psicologica, viene messa in discussione169.
Secondo le più recenti interpretazioni, tra le varie soluzioni alla sua
portata, il bambino tenderebbe a scegliere facendosi guidare dal
compito, dalle specificità di ciò che deve essere rappresentato, dalle
tecniche personalmente padroneggiate, dal medium utilizzato, ma
anche da norme iconografiche di origine culturale170.
169
«In effetti la teoria di Piaget considera la produzione grafica infantile come
strettamente rispondente a modelli logico-matematici, o spaziali-matematici:
l’evoluzione del disegno come qualsiasi altra manifestazione intellettuale segue le
tappe di uno sviluppo cognitivo previsto, all’interno di una rigida evoluzione
stadiale. Tale evoluzione non presta alcuna attenzione alla personalità del
bambino, alle potenzialità e ai ritmi di crescita individuali, all’ambiente sociale e
culturale, all’educazione familiare, all’espressione delle emozioni […]. Inoltre, a
proposito della rappresentazione spaziale, della metrica euclidea e della geometria
proiettiva, concetti su cui Piaget insiste molto, già altri ricercatori si sono detti
stupiti che possa essere considerato come un processo cognitivo naturale,
raggiunto da tutti o quasi alla fine dell’infanzia o nella prima adolescenza, il fatto di
acquisire la conoscenza di tecniche e leggi come quelle che governano la
prospettiva, che sono invece nozioni che, con una certa fatica, si apprendono a
scuola, ad esempio attraverso il disegno delle proiezioni ortogonali dei solidi, o con
lo studio della prospettiva e del punto di fuga» (Giani Gallino, 2008, pp. 117-119).
170
«Vivere in un ambiente ricco di immagini può aiutare i bambini a produrre
schemi grafici più variati, sia per la motivazione che si alimenta del valore
intrinseco assegnato al mondo figurativo, sia per la possibilità di usare modelli
semplificati che facilitano il passaggio dalla tridimensionalità degli oggetti alla
bidimensionalità del mezzo grafico con soluzioni più facili di quelle visivamente
realistiche […]. Le differenze transculturali da noi rilevate non si spiegano certo in
termini di idee diverse su che cosa sia una persona, ma neppure in termini di
diverse disposizioni all’esercizio del grafismo: la capacità grafica raggiunge, prima
o poi, livelli qualitativi simili nei vari ambienti culturali. È il modo in cui si concretizza
217
Questa prospettiva teorica colloca la performance in un contesto
comunicativo e in relazione a determinate consegne: il disegno,
considerato un vero e proprio codice simbolico con scopi comunicativi,
complementare al linguaggio verbale, è organizzato in modo da
veicolare le informazioni che il bambino vuole inviare, informazioni su
una realtà che è fisica e sociale insieme, come congiuntamente
relazionale e cognitiva è la matrice dell’attività grafica. (Donsì – Parrello,
2005, p. 12).
2.2.2
La prospettiva artistica ed estetica
A conclusioni simili, ma a partire da presupposti completamente diversi,
giungono anche i teorici della prospettiva artistica ed estetica che hanno
una visione del bambino che crea, attraverso il linguaggio grafico, forme
per descrivere la realtà e che sottolineano l’importanza di questa
specifica attività per promuovere e accompagnare lo sviluppo mentale.
Secondo quest’approccio, che accomuna autori diversi, quali Arnheim,
Lowenfeld e Brittain, Kellogg, Golomb, Herbert Read e Howard Gardner
(per citarne alcuni), i primi disegni figurativi dei bambini non sarebbero
basati sull’osservazione diretta della realtà, né su una conoscenza
astratta degli oggetti rappresentati; essi sono piuttosto composizioni
“estetiche”171 che si sono sviluppate a partire dagli scarabocchi.
la raffigurazione a variare in funzione delle convenzioni iconografiche della cultura
di appartenenza, rendendo il compito più o meno facile per il bambino» (Pinto Bombi, 1999, p. 137).
171
«L’elemento estetico è presente in tutte le rappresentazioni figurative che gli
esseri umani tentano. Nei diagrammi scientifici esso determina qualità necessarie
come l’ordine, la chiarezza, la corrispondenza tra significato e forma, l’espressione
dinamica delle forze, e così via. Il valore della rappresentazione figurativa non è
più contestato da alcuno. Ciò che è necessario riconoscere è che le forme
percettive e pittoriche non costituiscono soltanto trascrizioni dei prodotti del
pensiero, ma il midollo stesso del pensiero in sé; e che una continuità ininterrotta di
interpretazioni visuali conduce dagli umili gesti della comunicazione quotidiana alle
testimonianze supreme della grande arte» (Arnheim, 1969, p. 161).
218
Quando un adulto definisce una figura umana “uomo” o “mamma” o
“signora” o “babbo” o con un altro termine che indica una persona reale,
accetta dei pregiudizi molto vecchi sull’arte infantile. Da almeno un
centinaio d’anni e forse più queste definizioni ed altre simili sono state
applicate ai disegni dei bambini […]. Un adulto che usi tali etichette
piuttosto che termini sostitutivi quali “formula”, “schema”, o “simbolo”, si
esprime con termini che hanno una lunga tradizione. (Kellogg, 1969, p.
123).
Nell’ambito della prospettiva estetica, una figura di rilievo è senz’altro
Rudolph Arnheim, che nel suo libro Arte e percezione visiva, ha
affrontato il problema del disegno infantile nei suoi aspetti cognitivi,
affettivi ed emotivi.
La posizione di Arnheim non è tuttavia assimilabile a quelle posizioni
che hanno teorizzato l’arte infantile a partire dalle varie definizioni
storiche di “arte”, elaborate dai filosofi, dai critici dagli artisti per ciò che
chiamiamo “opere d’arte”. Arte per Arnheim è “ciò che rende visibile la
natura delle cose”. (Pizzo Russo, 1988, p. 114).
In questo senso, concordando con quegli autori che non considerano
il disegno dei bambini come “arte infantile” pur tuttavia riteniamo che
i disegni dei bambini possano essere considerati arte, perlomeno nel
ristrettissimo significato individuato da Arnheim.
La posizione di Arnheim rispetto alla teoria intellettuale (da lui definita
intellettualistica) è chiara:
la più antica – e a tutt’oggi più diffusa – spiegazione del disegno
ammette che, dato che i bambini non disegnano come si suppone che
vedano, deve essere qualche altra attività mentale, e non la percezione,
a determinare tale modificazione […]. La teoria intellettualistica
asserisce che il disegno infantile, come altre forme d’arte allo stadio
iniziale, deriva da una fonte non visiva, ossia da concetti “astratti”, dove
219
il termine “astratto” si intende come qualificazione della conoscenza non
percettiva.
La vita intellettuale del bambino dipende strettamente dalle esperienze
sensoriali. Per le menti giovani le cose sono quello che risultano alla
vista, all’udito, all’odorato, al senso del movimento. Nel bambino i
concetti non percettivi, se esistono, devono essere pochissimi, e il loro
influsso sulla rappresentazione grafica non può che essere trascurabile.
(Arnheim, 1954, p. 144).
Partendo dai principi della psicologia della Gestalt, Arnheim sostiene
che alla base delle operazioni cognitive172 vi è la percezione e che la
vista è il sistema sensoriale per eccellenza. Essa riveste un ruolo
primario nei processi del pensiero produttivo173, nel senso che al
concetto percettivo e rappresentativo spetterebbe il primato nella
concettualizzazione e costruzione della conoscenza.
Io affermo che le operazioni conoscitive chiamate pensiero non sono
privilegio di processi mentali posti al di sopra e al di là della percezione,
bensì gli ingredienti essenziali della percezione stessa. Mi riferisco ad
operazioni quali l’esplorazione attiva, la selezione, la capacità di cogliere
l’essenziale, la semplificazione, l’astrazione, l’analisi e la sintesi, il
172
«Per “cognitive” intendo tutte le operazioni mentali coinvolte nel processo del
ricevere, immagazzinare ed elaborare l’informazione: la percezione sensoriale, la
memoria, il pensiero, l’apprendimento. Questo modo di impiegare il termine è in
conflitto con un altro, cui moltissimi psicologi sono avvezzi, e che esclude dalla
cognizione l’attività dei sensi: ciò riflette la distinzione che appunto io cerco di
eliminare. Pertanto dovrò estendere il significato dei termini “cognitivo” e
“cognizione”, per includervi la percezione» (Arnheim, 1969, p. 18).
173
«Ci si chiede in quale altro campo di attività mentale può risiedere il concetto,
se lo si bandisce dal campo dell’immagine? Forse il bambino si rifà a concetti
puramente verbali? Concetti del genere non mancano: per esempio la
“quintuplicità” che si trova nella frase “la mano ha cinque dita”. Di fatto nel bambino
questa conoscenza è verbale, e quando disegna una mano egli conta le dita per
essere sicuro dell’esattezza del numero.
Questo, cioè, avviene dopo che al bambino è stato insegnato il numero esatto
delle dita: ma il suo procedimento abituale è esattamente il contrario. Il bambino si
rifà, sì, a dei concetti, ma a concetti visivi: il concetto visivo di una mano consiste in
una base rotonda, ossia il palmo, da cui le dita sporgono a raggiera come nel sole,
e anche il loro numero è determinato da considerazioni puramente visive»
(Arnheim, 1954, p. 144).
220
completamento, la correzione, il confronto, la risoluzione di problemi,
nonché la combinazione, la distinzione, l’inserimento entro un contesto.
Tali operazioni non sono prerogativa di nessuna singola funzione
mentale; sono il modo in cui la mente, tanto dell’uomo che dell’animale,
tratta, ad ogni livello, il materiale conoscitivo. (Arnheim, 1969, p. 18).
Gli schemi che il bambino
propone nei suoi disegni
per
rappresentare un oggetto, non sono “forme” ricavate da quest’ultimo,
ma autentiche “invenzioni”: si tratta di “equivalenti strutturali” che
concordano con l’impressione complessiva che il bambino ha di
quell’oggetto.
Il bambino utilizza concetti rappresentativi per creare degli schemi
grafici equivalenti ai concetti visivi:
si può enunciare più precisamente lo stesso fatto dicendo che ogni tipo
di figurazione richiede l’uso di concetti rappresentativi, i quali forniscono
l’equivalente, tramite un determinato medium, dei concetti visivi che si
vogliono rappresentare, e trovano una manifestazione esterna nel
prodotto della matita, del pennello, del cesello. (Arnheim, 1954, p. 149).
Se letta in questo senso anche la rappresentazione grafica di Dorian
(4,1) in figura 67, p. 42, non ci stupisce più di tanto, è il “concetto
rappresentativo” che il bambino ha “inventato”, attraverso gli
strumenti a sua disposizione, per esprimere il suo concetto visivo di
“papà”.
All’interpretazione intellettuale, che considera lo sviluppo del
grafismo come una progressione lineare, unidirezionale, che passa
dal realismo intellettuale al realismo visivo e che si conclude
nell’adozione
di
contrappone
uno
criteri
rappresentativi
sviluppo
del
disegno
“realistici”,
nel
Arnheim
senso
della
differenziazione174: «la misura delle differenziazioni dipenderà da
174
«Nella forma più elementare questo principio afferma che l’evoluzione organica
procede sempre dal semplice al più complesso. […]. Secondo Spencer, la
221
quanto è interessata la persona particolare, o il gruppo culturale,
all’affinamento dell’astrazione iniziale» (Arnheim, 1969, p. 198). Lo
sviluppo grafico nel bambino sarebbe dunque il risultato di
successive modificazioni formali, nella direzione della maggiore
articolazione e complessità, sotto la spinta di influenze culturali, a
partire da forme semplici e globali.
Tale organizzazione inizia con tracce curvilinee in corrispondenza
della costruzione del corpo umano, basata sul principio della leva
(Arnehim, 1954).
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, né le tracce
curvilinee né le forme circolari hanno in principio il significato di
rappresentare elementi naturalistici curvilinei o circolari, le une e le
altre sono indifferenziate: indicano piuttosto l’avvio di un processo di
controllo e di organizzazione [figura 68, p. 43].
L'indipendenza di questo risultato grafico dalla realtà, prova che esso
è
un’invenzione
che
funziona
come
generale
sistema
di
rappresentazione: il bambino non ri-produce, ma inventa (nei limiti di
certi condizionamenti motori) un pattern strutturale. Solo più tardi,
quando disporrà di un patrimonio formale più differenziato, il cerchio
assumerà un significato specifico.
differenziazione comporta anche uno sviluppo dall’indefinito al definito, dalla
confusione all’ordine. Oggi il concetto è ripreso da Piaget per descrivere ad
esempio come l’io e il mondo esterno, in origine indifferenziati, si separino a un
certo stadio dello sviluppo mentale […]. Ai nostri scopi sarà utile accostare il
principio della differenziazione al principio gestaltico della semplicità.
Coerentemente con la premessa che l’atto del pensare e del concepire procede
dal generale al particolare, si afferma innanzitutto che “ogni forma resta
indifferenziata tanto quanto lo permette l’idea che il disegnatore ha dell’oggetto”
[…].
In secondo luogo la legge della differenziazione dice che finché una caratteristica
visiva non è ancora differenziata, l’intera gamma delle sue potenzialità viene
rappresentata da quella strutturalmente più semplice […]. Soltanto quando altre
forme, come la linea retta e il quadrato, divengono articolate, le forme rotonde
cominciano a raffigurare la rotondità: la testa, il sole, il palmo della mano. Si può
esprimere questo principio anche dicendo, con E. H. Gombrich, che il significato di
una caratteristica visiva dipende dalle alternative disponibili al disegnatore. Un
cerchio è un cerchio solo quando esiste l’alternativa del triangolo» (Arnheim, 1954,
pp.156-158).
222
Dopo il cerchio appare un’altra invenzione di portata generale: la
linea retta che serve ad indicare nel modo più semplice la diversità di
direzione. Allora le braccia spalancate che si trovano spesso nelle
prime figure umane rappresentate dai bambini costituiscono la
traduzione visuale della diversità di direzione tra le braccia e il corpo
da cui si dipartono. Finché la diversità di direzione resta
indifferenziata, viene resa dalla forma strutturalmente più semplice
cioè come un rapporto ad angolo retto: si tratta di un caso di
accentuazione175 come tendenza alla semplicità.
La linea diritta introduce l’estensione lineare nello spazio e quindi l’idea
di direzione. Coerentemente con la legge di differenziazione, il primo
rapporto tra direzioni che viene acquisito è il più semplice, quello
dell’angolo retto. L’incrocio ad angolo retto vale a rappresentare tutti i
rapporti angolari finché subentra la padronanza dell’obliquità, e questa si
differenzia dal rapporto ad angolo retto. Tale angolo è il più semplice
perché crea un disegno simmetrico, ed è la base dello schema verticaleorizzontale su cui poggia l’intera nostra concezione dello spazio.
(Arnheim, 1954, p. 160).
Dopo lo schema rappresentativo orizzontale-verticale Arnheim
esamina le altre caratteristiche che incrementano, precisano e
differenziano l’espressione grafica: obliquità, fusione delle parti,
grandezza, terza dimensione, movimento.
Ad esempio, rispetto alle variazioni di grandezza, prima della
differenziazione, esse non sono significative per il bambino: le cose
175
«A questo proposito è utile rifarsi a una distinzione introdotta in linguistica tra
unità accentate e unità non accentate. Come esempio, John Lyons usa le parole
“cane” e “cagna”: “cane” è semanticamente non accentato (o neutro) perché si può
usare sia per i maschi che per le femmine, mentre “cagna” è accentato (o positivo)
perché si usa solo per le femmine; si può usarlo in contrasto con il termine non
accentato per definire, di quest’ultimo, il valore negativo invece che neutro. Lyons
conclude che “il termine non accentato ha un senso più generale, neutro per
quanto riguarda un determinato contrasto; il suo negativo, più specifico, è derivato
e secondario perché conseguenza della sua contrapposizione contestuale al
termine positivo (non neutro)”. Il parallelo con la differenziazione delle forme visive
è molto stretto» (Ibidem, p. 158).
223
piccole vengono fatte all’incirca uguali a quelle grandi perché ancora
non è emerso un interesse preciso per la grandezza e l’uguaglianza
approssimativa è il mezzo più semplice per esprimerla.
La grandezza realistica ha soltanto un’importanza marginale per la
dimensione delle cose nei disegni, perché l’identità percettiva non è
legata più che tanto alla dimensione. La forma e l’ubicazione di un
oggetto non risultano affatto menomate da un cambiamento di
dimensione, così come in musica, un tema resta riconoscibile anche se
la velocità della sua presentazione - cioè della sua dimensione
temporale - viene alterata da un’accelerazione o da un rallentamento
moderato. (Ibidem, p. 170).
La teoria di Arnheim fornisce un utile correttivo alla tendenza
piuttosto diffusa a intendere affrettatamente i grafismi infantili
secondo significati proiettivi e affettivi, tendenza che produce molti
arbitrii. Prima di pronunciarsi sull’incidenza di differenze o esperienze
individuali, è necessario avere ben chiara la trama delle costanti, in
quanto le variazioni si producono innanzitutto su una costruzione
percettiva della realtà che non è un “mettere insieme particolari” e
procedere da questi all’astrazione attraverso operazioni associative,
quanto piuttosto il contrario.
Durante gli stadi primitivi la differenziazione della forma è ottenuta
soprattutto per mezzo dell’aggiunta di elementi autonomi. Per esempio,
il bambino procede dalla più primitiva rappresentazione della figura
umana sotto forma di cerchio aggiungendo le linee rette, forme
oblunghe, o altre unità. Ciascuna di queste unità è una forma
geometricamente semplice e ben definita. Esse sono connesse
mediante un egualmente semplice rapporto di direzione, dapprima
verticale-orizzontale, più tardi obliqua. La costruzione dell’intera figura
relativamente complessa è resa possibile dalla combinazione di varie
figure semplici. Ciò non significa che nei primi stadi il bambino non abbia
un concetto integrato dell’oggetto nella sua globalità. La simmetria e
224
l’unitarietà di tutto l’insieme e la pianificazione delle proporzioni
mostrano che, entro certi limiti, il bambino dà una determinata
configurazione alle varie parti in vista della loro ubicazione nel pattern
globale; ma il metodo analitico gli rende possibile allo stesso tempo di
trattare volta a volta in particolare ogni semplice forma o direzione.
Certi bambini si servono di questa procedura sino a formare le
combinazioni più complicate, costruendo il tutto su una gerarchia di
particolari che rivela un’attenta osservazione. […]. Dopo un certo tempo
però il bambino comincia a fondere parecchie unità mediante un unico
contorno più differenziato. L’occhio e la mano contribuiscono a questa
evoluzione. L’occhio si familiarizza con la forma complessa risultante
dalla combinazione di elementi finché diventa capace di concepire il
tutto come unità. […]. Più differenziata è la concezione, più abilità si
richiede per usare questa procedura. […].
Suddivisione e fusione si alternano dialetticamente. Un’iniziale forma
globale si differenzia per suddivisione, ad esempio quando la figura
ovale si divide in testa e torso separati: questa nuova combinazione di
unità semplici richiama un’integrazione più completa a un livello più alto,
che a sua volta ad uno stadio ulteriore per perfezionarsi avrà bisogno
della suddivisione, e così via. (Arnheim, 1969, p. 165-168).
La figura 69, p. 44, può essere considerata rappresentativa della
ricerca di Sana (4,1) di una “primitiva” forma di differenziazione
attraverso l’aggiunta di elementi autonomi che si ripetono, e di una
“mancata”
differenziazione
per
quanto
riguarda
la
direzione
orizzontale-verticale. Nella figura 70 Emily (4,9) ripropone elementi
precedentemente sperimentati [figura 30, p. 21] in una figura
“umanoide” più differenziata e “ripulita”. Nella figura 71, p. 45, alcuni
esempi di processo di differenziazione ad uno stadio più avanzato:
“cani” con diversi tipi di testa, di gambe e di coda rappresentati da
bambini di età compresa tra i 5 e 6 anni.
225
Per Arnheim, contrariamente a quanto sostenuto da Luquet176, la
“figurazione realistica” non è una tappa obbligatoria nello sviluppo
dell’abilità grafica, essa è piuttosto incoraggiata dalla nostra cultura
basata su una lunga tradizione artistica in senso realistico177 e da
pratiche educative più o meno direttamente orientate in questo
senso178.
Molta strada si è fatta da quando si credeva che soltanto la copia
meccanica del modello fosse fedele alla natura: ci si è resi conto che
tutta la gamma degli infinitamente diversi modi rappresentativi è
accettabile, e non solo per chi condivide la posizione particolare dei loro
creatori ma anche per chi vi si sa adattare. Non basta tuttavia la
semplice tolleranza dei diversi modi di raggiungere uno stesso scopo:
bisogna far un passo avanti e prender coscienza che se persone della
nostra civiltà e del nostro secolo percepiscono come simile al vero un
176
«Uno dei concetti fondamentali di Luquet e presupposto di tutto l’orientamento
intellettuale è che, per il bambino, il disegno riveste sempre il ruolo essenziale di
dover rappresentare qualcosa. Il disegno è pertanto realistico sia per la scelta dei
“motivi” sia per gli aspetti “esecutivi”. Il bambino dunque, mosso da un’intenzione
realistica, sarebbe interessato unicamente ai disegni figurativi. Al contrario i disegni
non figurativi non eserciterebbero su di lui alcuna attrazione. Ora, per disegno
figurativo si deve intendere la rappresentazione grafica delle proprietà visibili degli
oggetti raffigurati. Per Luquet, dunque, il realismo è la caratteristica essenziale del
disegno infantile» (Quaglia, 2003, p. 67).
177
«Quanto alla prospettiva propriamente detta – l’arte di fare immaginare in un
quadro una profondità che non c’è – si tratta di altra cosa, sia che la si consideri
secondo la definizione della geometria descrittiva, cioè come “scienza che insegna
a rappresentare gli oggetti tridimensionali su una superficie bidimensionale, in
modo che l’immagine prospettica e quella data dalla visione diretta coincidano”, sia
che si faccia riferimento ai testi di storia dell’arte in cui si considera con diversi
metodi la rappresentazione della profondità spaziale. […]. Su questi temi si sono
spesi per primi i maggiori architetti e pittori italiani, facendone anche oggetto di
indagini matematiche e di poderosi trattati. Immaginare che ragazzini di 9-10 anni
arrivino naturalmente a comprenderle, o che esse facciano parte del realismo
visivo e del pensiero logico dell’adulto, anche di quelli che non hanno frequentato
le scuole superiori, pare davvero improbabile» (Giani Gallino, 2008, pp. 118-119).
178
«Esiste per il disegno, come per gli altri domini, il problema del contratto
educativo: l’insegnante non solo deve individuare i reali moventi dei bambini, ma
deve anche prendere coscienza delle proprie aspettative (estetiche, funzionali) e
dei luoghi comuni che rischiano di agire sul suo approccio […]. E’ inoltre
auspicabile accostarsi allo sviluppo del disegno infantile con più consapevolezza
delle influenze sociali esercitate da genitori, educatori e mezzi pittorici sulla scelta
di ciò che conta rappresentare e del modo in cui ciò deve preferibilmente avvenire»
(Pinto – Bombi, 1999, pp.140-142).
226
modo rappresentativo particolare che non sembra tale a chi crede a un
approccio diverso, così questi sostenitori dell’approccio diverso sono
altrettanto convinti che il loro modo rappresentativo sia non soltanto
accettabile ma del tutto simile al vero. […].
Il principio del livello di adattamento introdotto in psicologia da Harry
Helson, afferma che uno stimolo dato viene giudicato non in base alle
sue proprietà assolute ma in rapporto al livello normale che si è imposto
nella mente del giudicante. Nel caso della rappresentazione pittorica, il
livello normale sembra desunto non dalla percezione diretta del mondo
fisico ma dallo stile dei dipinti noti a chi guarda179.
È dunque necessario considerare le forme rappresentative utilizzate
dai bambini, alla luce delle loro soggettività, della conoscenza del
contesto comunicativo e sociale in cui avviene la produzione e dei
“riferimenti culturali” ai quali tali produzioni appartengono.
Gli adulti raramente si rendono conto di quanto siano arbitrarie e
artificiose le loro definizioni figurative. Alla base di questo problema non
vi è semplicemente l’inesperienza del bambino nel riprodurre gli schemi
convenzionali della realtà propri del sistema culturale, ma soprattutto
l’interesse del bambino per valori diversi dalla rappresentazione
figurativa. (Kellogg, 1969, p. 207).
179
Arnheim, 1954, p. 120. La teoria di Arnheim richiama quella esposta da Michael
Baxandall laddove l’autore utilizza il concetto di “convenzione” artistica per
spiegare la capacità degli artisti di realizzare opere in grado di provocare nel
pubblico una risposta emotivo-conoscitiva (Baxandall, 1972). Secondo Baxandall
l’opera d’arte sarebbe in grado di provocare effetti emotivi perché artista e pubblico
condividono la conoscenza e l’esperienza delle convenzioni utilizzate (Geertz parla
a proposito di “condivisione di sensibilità”). Il bambino sarebbe “iniziato” all’«occhio
del periodo» attraverso l’apprendimento delle forme e delle modalità
rappresentative apprezzate dalla cultura cui appartiene. Ciò conduce a considerare
una diversa ontologia dell’immagine la cui interpretazione passa attraverso attese
e convenzioni culturali sia sotto il profilo rappresentativo che percettivo. Scrive a
proposito George Kubler: «l’esistenza di un simbolo è basata sulla ripetizione. Tra
coloro che se ne servono, la sua identità dipende dalla capacità di tutti di attribuire
uno stesso significato a una certa forma. La persona che usa il simbolo se ne
serve sperando che altri contemporaneamente allarghino l’associazione e che le
somiglianze tra le differenti interpretazioni che la gente dà di un simbolo siano più
forti delle differenze. È improbabile che una qualsiasi copia possa essere accettata
come tale senza un forte sostegno di associazioni simboliche» (Kubler, 1972, p.
91).
227
Le prime rappresentazioni sono composte da forme molto semplici
(cerchi, punti e linee); attraverso “l’assemblaggio” di questi elementari
alfabeti, il bambino realizza, ad esempio, le prime figure umane globali,
composte da forme sferiche e da pochi altri dettagli, che stanno per i
tratti del volto. In accordo con i principi gestaltisti, nei primi disegni si
evidenziano i principi della semplicità e dell’economia della forma.
I bambini sono parsimoniosi nel loro uso di unità. Cioè usano un’unità
grafica (un particolare tipo di cerchio, una particolare “forma solare”, un
particolare tipo di figura umana) ripetutamente. Lo stesso tratto spesso
rappresenta sia il braccio che la gamba […].
La ripetizione di unità aiuta a creare un senso di affascinante semplicità.
Essa assolve anche alla funzione di ricordarci che il bambino sta
sviluppando non soltanto un tipo di linea, ma anche un concetto, nello
scoprire analogie e nel rendersi conto che molti elementi possono
essere rappresentati da un unico simbolo. (Goodnow, 1977, p. 166).
Si vedano ad questo proposito le figure 72, e 73, p. 46, in cui la
ripetizione dello stesso motivo grafico, con alcune piccole modifiche,
da vita a figure diverse.
I disegni hanno una loro disciplina interna, controllata da percezioni
differenti da quelle che consentono al bambino di riconoscere
persone, bambini, abbigliamenti e altre caratteristiche umane.
Condivide con gli adulti le gestalt che permettono il riconoscimento
delle persone, ma non quelle per disegnare un essere umano,
perché gli adulti utilizzano formule di espressione grafica che i
bambini in questo stadio non hanno ancora preso in considerazione.
I modelli di posizione, le forme implicite, i diagrammi e gli stessi
scarabocchi-base si trovano sia nel lavoro dei bambini che in quello
degli adulti. Infatti queste formazioni sono presenti nei disegni e nei
dipinti di qualsiasi cultura. L’arte degli adulti si differenzia da quella dei
bambini per quelle modalità stilistiche che i bambini più grandi
228
apprendono nell’ambiente culturale in cui vivono e che ci aiutano a
distinguere una cultura da un’altra. In certe culture, formule e stili
peculiari richiedano una notevole tecnica di esecuzione, tuttavia, come è
chiaramente dimostrato dalla storia della pittura accademica, quando la
tecnica si allontana troppo dalle forme estetiche di base, l’arte sembra
perdere validità. (Kellogg, 1969, p. 51).
Ai bambini è richiesta un’enorme quantità di apprendimento sia
nell’acquisire le molteplici forme d’espressione usate da una cultura
in
vista
della
loro
decodificazione
e
comprensione,
che
nell’apprendere a produrre degli equivalenti ritenuti “buoni” o
“accettabili”.
Gran parte di ciò che apprendiamo consiste nel giungere a sapere che
una cosa può “equivalere” ad un’altra o essere chiamata “nello stesso
modo” di un’altra […].
All’interno di questa vasta area dell’apprendimento di equivalenti,
possiamo parlare di percezione di equivalenti in sostanza, il modo in cui
impariamo a leggere o a decodificare un equivalente che ci venga
presentato […]. Possiamo parlare di produzione o di invenzione di
equivalenti, e questo è il campo di maggiore interesse se si vuole
estendere il discorso ai disegni infantili […].
I disegni sono equivalenti: contengono solo alcune delle proprietà
dell’originale, e la convenzione spesso determina quali proprietà
debbano essere incluse e in che modo. (Goodnow, 1977, pp. 27-28).
I primi schemi figurativi utilizzati dai bambini per rappresentare le
persone e, successivamente, ogni altro oggetto, sono composizioni
molto semplici, complete dal punto di vista del bambino, in quanto
esprimono l’essenziale dell’oggetto: quel semplice schema risponde
a tutte le esigenze del suo disegnatore (Arnheim, 1954).
Attraverso l’esercizio e la pratica il bambino diventa sempre più abile
nella produzione degli “equivalenti ortodossi” incoraggiati dal
contesto culturale-relazionale e trasforma le sue produzioni fino a
229
quando non rientrano nei canoni estetici prescritti dalla comunità cui
appartiene.
Tuttavia, in quanto equivalenti, i disegni mantengono un loro grado di
ambiguità, e variano nel rapporto che mantengono con il loro
referente180.
Due o più equivalenti possono a volte rappresentare la stessa cosa: un
puntino, una linea, un cerchio un triangolo, possono tutti equivalere al
disegno di un naso. Così un equivalente può rappresentare due o più
cose: un cerchio può rappresentare una palla, un melone, una testa o un
buco. (Goodnow, 1977, p. 28).
I simboli grafici mantengono una polisemanticità e un’apertura a
molteplici utilizzazioni e attribuzioni di significato maggiore rispetto al
linguaggio orale: la ricchezza e la specificità dei simboli grafici sta
proprio nella loro capacità di sostenere molteplici interpretazioni e
ruoli nella raffigurazione.
Si osservino, a titolo esemplificativo, i disegni di Liam, il cui lessico
grafico si piega alle più svariate forme di lettura [figure 74-80, pp. 4750].
La forte ambiguità evocativa dei simboli grafici comporta spesso
l’attivazione di altri canali comunicativi (tra cui il linguaggio verbale)
per una loro corretta interpretazione (nel caso di Liam la
denominazione è fondamentale per il riconoscimento dei diversi
soggetti). «Così l’immagine che può essere sempre e solo
un’evidenza e mai un giudizio, attraverso la didascalia rientra nel
campo del giudicabile e quindi del comprensibile oltre quindi a quello
del riconoscibile». (Massironi, 1982, p. 96)
Tuttavia il punto essenziale, ai fini della nostra ricerca, è l’ambiguità
di ciò che dovrebbe essere incluso nel simbolo181 ad interessarci: il
180
«Fondamentalmente, un’immagine non può rappresentare un oggetto; lo può
fare solo il cervello, che lo ha osservato da molte angolazioni differenti e lo ha
collocato all’interno di una classe specifica. Un’immagine può solamente imitare
l’oggetto in un suo aspetto particolare» (Zeki, 1999, p.68).
230
disegno allora non sarebbe lo specchio di una concezione individuale
del mondo, ma qualcosa che presuppone sempre un interlocutore,
un vero e proprio atto situato in uno specifico contesto; un linguaggio
dotato di una sintassi specifica i cui segni, quando appresi,
consentono la comunicazione delle intenzioni dell’autore.
Tale linguaggio ha caratteristiche tipiche e consente di sviluppare
concetti rappresentativi di base, dettati dai principi gestaltici della
buona forma e della semplicità, soggetti a vincoli materiali,
motivazionali e procedurali, che preparano ad ulteriori sviluppi. Si
tratta di un sistema simbolico autonomo e autosufficiente fino ad un
certo punto dello sviluppo, che esige alimenti culturali per
trasformarsi in sintassi espressiva.
I cambiamenti che intervengono nel corso dello sviluppo e con l’età
sono dovuti al variare della gerarchia delle regole utilizzate in modo
sempre più adeguato alla rappresentazione e alla comunicazione.
Sotto questo profilo gli “errori” possono indicare l’inadeguatezza delle
regole in uso più che una forma di pensiero intellettuale o visivo e,
nel corso dello sviluppo tali regole sono destinate ad essere sostituite
da regole più convenzionali che porteranno aspetti innovativi, anche
se stereotipati, alle successive rappresentazioni.
L’enfasi
posta
dall’approccio
artistico-estetico
“sull’arte
dei
bambini”182 si apre alla considerazione dell’impatto che viene
esercitato
dalla
considerazione
cultura
delle
sulle
relazioni
produzioni
significative
grafiche
e
degli
e
alla
strumenti
disponibili nel contesto in cui sono negoziati significati.
Nella fase della figurazione, che è quella che caratterizza i bambini di
5/6 anni, figure dalle forme definite, codificate e differenti tra loro,
181
«Nella storia dell’arte, le opinioni su omissioni e inclusioni costituiscono
un’ampia parte delle discussioni sulla differenza tra varie forme: “arte” contro
“caricatura”; equivalenti “realisti” o “astratti” contro equivalenti “iper-realisti” di un
originale» (Massironi, 1982, p. 126).
182
Rimandiamo ad un paragrafo successivo lo “scottante” tema dell’”arte infantile”.
231
sono portatrici “autonome” di significato183 [figura 81, p. 50; figure 82
e 83, p. 51].
L’espressione grafica è ora strutturata in una fase astratta di
elaborazione e una concreta di realizzazione, anche se il prodotto
non restituisce la complessità del processo ideativo e produttivo: il
bambino ricerca e sceglie attivamente quelle forme particolari che
realizzano una rappresentazione soddisfacente dei propri concetti
percettivi184 secondo criteri estetici personali e collettivi, all’interno di
determinate esigenze cognitive, emotive ed espressive.
La raffigurazione comporta un fatto nuovo, una mediazione:
l'invenzione di un sistema di rappresentazione che, attraverso la
codificazione culturale, si trasforma in una forma particolare di
linguaggio. Il prodotto è diventato strumento di comunicazione, ed è
meno necessaria una verbalizzazione che renda noti i significati della
183
«C’è nell’arte moderna una vasta corrente che rivaluta con l’aspetto onirico
dell’espressione la spontaneità, l’immaginazione libera della prima infanzia. Se si
considera la pittura del Ventesimo secolo si ha l’impressione di percorrere a
rovescio l’ontogenesi della pittura infantile. L’evoluzione degli artisti si è spinta
gradualmente alle estreme conseguenze fino agli scarabocchi informi del bambino
piccolo. I personaggi di Klee e di Mirò rassomigliano a quelli delle prime figurazioni
dei quattro, cinque anni; le figure di Chagall fluttuano nel vuoto come gli “omini”
non ancora verticalizzati. D’altronde le astrazioni di Nicholson e di Mondrian
ricordano gli “aggregati” e le “combinazioni” dei tre anni e i “gesti” degli action
painters, i tracciati dei bambini di due anni. Lo stadio più spinto di ritorno alle origini
trova un simbolo in una recente opera di Turcato intitolata “la bava”. Kandinsky
afferma che nella pittura prefigurativa infantile c’è il primo contatto dell’essere
umano con il mondo di cui non “sa” ancora nulla e di cui ignora le leggi che lo
governano. Questa “esperienza prima”, appunto perché non ancora intaccata dalla
cultura e quindi genuina, è, secondo l'artista, un’esperienza estetica pura (Argan,
1970). Un altro tratto del bambino piccolo che affascina l’artista è il godimento
afinalistico delle forme e dei colori non ancora mediato da riferimenti alle
caratteristiche reali degli oggetti. Per Kandinsky il bambino non conosce il fattore
pratico funzionale degli oggetti perché guarda con occhio non assuefatto e ancora
integra la facoltà di percepire l’oggetto come tale; soltanto in seguito, e attraverso
una serie di esperienze non raramente tristi, imparerà a conoscere il lato
funzionale delle cose» (Oliverio Ferraris, 1973, pp.145-146).
184
«Il percepire consiste nella formazione di concetti percettivi. Ad un normale
modo di pensare questa terminologia apparirà alquanto spiacevole, giacché di
solito si considera che i nostri sensi siano limitati a dati concreti, mentre i concetti
hanno a che fare con dati astratti. E tuttavia il processo visivo sembra rispondere ai
requisiti di una formazione concettuale. La visione tratta il materiale grezzo
fornitole dall’esperienza creando uno schema corrispondente di forme generali che
si possono applicare non solo al caso individuale ma ad un numero infinito di altri
casi in modo analogo» (Arnheim, 1954, p. 59).
232
figurazione, perché essa è autonoma e autosufficiente, nel senso
che può sottintendere significati condivisi.
Si guardino in 84 e 85, p. 52, i disegni di Glenis (6,3) e Paul (5,4): la
verbalizzazione contestualizza maggiormente le grafiche che tuttavia
avrebbero potuto essere “lette” indipendentemente dalla spiegazione
data dai bambini. In figura 86, p. 53, una vera e propria narrazione
grafica in cui sono riconoscibili motivi e soggetti, mentre la
verbalizzazione di Jonny (5,8) restituisce la trama del “discorso”
grafico.
La prospettiva artistica ed estetica riconosce al disegno lo statuto di
sistema grafico di denotazione, e quindi di linguaggio.
Nel corso della ricerca abbiamo notato che spesso, accanto ai
disegni, i bambini si cimentavano spontaneamente in tentativi di
produzione di lettere alfabetiche, numeri o in vere e proprie prove di
scrittura.
È prassi sostenere queste sperimentazioni nelle scuole di Reggio
Emilia, accogliere le produzioni spontanee e sollecitarle attraverso
attività più o meno specifiche, a seconda dell’interesse che il gruppo
sezione manifesta. Non essendo oggetto di questa ricerca ci è
sembrato comunque interessante considerare, seppur brevemente, il
rapporto tra il disegno e un altro sistema di rappresentazione grafica,
la scrittura alfabetica e numerica, e vedere come questi diversi
sistemi si differenziano tra loro nel corso dell’ontogenesi.
2.2.3
Schemi figurativi e sistemi di notazione non
iconici
Abbiamo visto come il disegno, nel tempo, si configuri come vero e
proprio codice espressivo: il bambino passa dalla totale inesperienza
di chi sa solo scarabocchiare, alla condizione di “novizio”, a quella di
disegnatore “esperto”. Il linguaggio grafico-iconico mantiene, nel
233
corso dello sviluppo, una certa autonomia rispetto al linguaggio orale,
anche se le richieste dell’adulto, e quelle della nostra cultura «si
incentrano
principalmente
realizzazione
grafica
di
sul
riconoscimento,
“contenuti”,
e
sull’ideazione-
mirano
dunque
prevalentemente a sviluppare il piano semantico-lessicale» (Pinto –
Bombi, 1999, p. 119).
La base fisica della scrittura è certamente la stessa del disegno,
dell’incisione, della pittura (le cosiddette arti grafiche) […] dipende dalla
capacità umana di maneggiare taluni strumenti con una mano e un
pollice, coordinati ovviamente da occhio, orecchio e cervello. (Goody,
1987, p. 17).
tenendo presente che «non si può separare agevolmente oggetti, azioni
e persone dal loro simbolo linguistico, cosicché anche i segni o simboli
pittorici operano attraverso un canale tanto linguistico che parallelo»
(Ivi).
Secondo la Kellogg i bambini piccoli disegnano come «Gestalt
artistiche» la maggior parte delle lettere dell’alfabeto, sia maiuscole che
minuscole.
Nel disegno, le lettere sono collocate o combinate in modo da
completare un modello o una forma implicita. Nel linguaggio invece sono
disposte in un determinato ordine all’interno delle parole e in una
determinata posizione, da sinistra a destra, dall’alto al basso. Quando il
bambino impara a leggere, deve percepire la differenza tra la
disposizione estetica e quella linguistica delle lettere e quando impara a
scrivere deve applicare questa percezione. Tutti i bambini che hanno
scarabocchiato molto, quando vanno a scuola, conoscono già molte
Gestalt del linguaggio, ma devono ancora imparare la differenza tra l’uso
di queste Gestalt nel disegno e nel linguaggio. (Kellogg, 1969, p. 314).
La divaricazione tra sistemi di notazioni iconici (disegni) e non iconici
(sistemi di scrittura) inizia all’incirca a quattro anni, quando il
234
bambino ha già maturato la separazione tra oggetto e disegno che lo
rappresenta: a quest’età il bambino non solo è in grado di distinguere
nettamente i due sistemi di notazione, ma mostra di possedere teorie
specifiche rispetto al funzionamento del codice alfabetico e
numerico185.
Nelle figure 87 e 88, p. 54, troviamo due proposte di scrittura di
messaggi per il papà e per la mamma in occasione delle rispettive
feste.
Mentre nel primo messaggio [figura 87] Alessandro (3,8) confonde
ancora disegno e scrittura e nella verbalizzazione romanza il
significato del suo disegno piuttosto che della sua “scrittura”, nel
secondo [figura 88] utilizza una linea ondeggiante, che corrisponde
allo scarabocchio base numero 12 nella classificazione della Kellogg,
e verbalizza un messaggio coerente all’occasione: “tanti auguri!”
(Alessandro 3,10).
I pionieristici studi negli anni Trenta di Lurija evidenziano
un’evoluzione
“spontanea”
(nel
senso
di
non-scolastica
ma
ugualmente determinata dal contesto culturale in cui il bambino è
immerso) da una scrittura a base di scarabocchi, linee e zig-zag
(fase “prestrumentale”) a una modalità “pittografica”, in cui i segni si
differenziano
per
forma
e
numero,
185
ma
con
modalità
non
«Dal punto di vista evolutivo ogni bambino elabora le sue ipotesi di
funzionamento della scrittura a partire dal sistema con cui entra in contatto – un
contatto che è innanzitutto visivo e grafico – e attraverso il quale elabora delle
ipotesi che in parte sono ricorrenti in più sistemi, in parte sono legati alle peculiarità
del sistema di scrittura. Ad esempio è stata ritrovata in modo costante la presenza
di un’ipotesi sillabica, cioè della scrittura di un segno per ogni sillaba in bambini
che vivono in contesti linguistici assai diversi. […]. Un’altra ipotesi infantile riguarda
la quantità minima. La maggior parte dei bambini non usa mai un solo segno per
rappresentare una parola, anche se la parola è un monosillabo. La gamma
preferenziale per una quantità minima accettabile per i bambini è di tre, o quattro o
cinque segni: i bambini non scrivono e non accettano scritte più brevi, composte da
solo una o due lettere, perché dicono che “non si possono leggere”. […]. Un’altra
ipotesi infantile generalizzata: quella della “varietà interna”. Agli inizi della scrittura,
quando le marche infantili sono ancora non convenzionali, si è osservato il rifiuto
per sequenze contigue di lettere uguali, se queste vengono sottoposte loro
chiedendo se si possono leggere. Analogamente, i bambini evitano in generale di
produrre sequenze con lettere uguali in posizione contigua, soprattutto quando si
dispone di un repertorio limitato di segni» (Pinto – Bombi, 1999, pp. 182-183).
235
convenzionali, e quindi, non alfabetiche. Si veda ad esempio, in
figura 31. p. 22, come nelle quattro grafiche in alto, Sana sperimenti
spontaneamente diverse declinazioni del tratto grafico (Lurija, 1976).
Della distinzione tra disegno e scrittura si sono occupate, negli anni
Settanta Emilia Ferreiro e Ana Teberosky (1979) che hanno mostrato
come i bambini giungano a distinguere il segno pittorico da quello
notazionale (lettere e numeri) tramite un processo attivo di scoperta,
che precede la scolarizzazione.
Secondo Ferreiro e Teberosky bambini di età inferiore ai quattro anni
non distinguono pienamente il disegno dalla scrittura: ad esempio, in
un testo illustrato indicano sia lo scritto che le immagini come
“qualcosa da leggere”. In una fase successiva la scrittura verrebbe
considerata come analoga agli oggetti che designa: così alcuni
bambini sono convinti che nelle didascalie ci debba essere scritto il
nome
dell’oggetto
raffigurato.
Infine
il bambino
giunge
alla
progressiva scoperta della funzione puramente simbolica della
scrittura, della sua natura astratta, svincolata dall’immagine ma
vincolata alla parola.
Questo modello ci sembra interessante perché evidenzia da un lato
gli sforzi fatti dal bambino per interpretare e differenziare il mondo
delle
immagini
iconiche
dalle
grafiche
più
convenzionali
(comprensione), dall’altro evidenzia come ipotesi relative a ciò che
deve essere rappresentato e del modo in cui deve essere
rappresentato costituiscano dei vincoli anche per la scrittura.
Nella teorizzazione delle autrici, in linea con i principi della psicologia
piagetiana, i bambini sono precocemente impegnati in un processo di
concettualizzazione
della
lingua
scritta
e
in
una
continua
elaborazione e ri-elaborazione di ipotesi che la riguardano.
D’altronde sono immersi in un mondo notazionale, e sono molto
motivati ad interpretarlo anche senza l’intervento dell’adulto.
236
Soprattutto si cimentano con grande piacere, non appena l’attività
grafica è più controllata sul piano motorio e al suo prodotto viene
attribuito un significato rappresentazionale, ad accompagnare il disegno
con una scritta non convenzionale che è qualcosa di simile al nome di
ciò che è rappresentato. (Pinto – Bombi, 1999, p. 176).
In figura 89, p. 55, Alexey (4,5) dichiara ad esempio di avere scritto
quello che ha disegnato; mentre in figura 90 Erika (4,10) riempie lo
spazio rimasto libero con caratteri alfabetici.
Ad alimentare la curiosità del bambino hanno senz’altro un ruolo
importante i comportamenti degli adulti (soprattutto delle insegnanti,
a scuola, che scrivono spesso sui loro disegni, o dietro ai loro fogli),
dei bambini che già frequentano la scuola primaria, nonché le attività
di lettura e scrittura cui assiste.
Anche se le modalità di scrittura individuate da Ferreiro e Teberosky
variano da bambino a bambino, è possibile individuare quattro livelli
di sviluppo del codice scritto di tipo alfabetico: presillabico, sillabico,
sillabico-alfabetico, alfabetico.
La grafica di Alexey (4,5) può essere considerata rappresentativa del
primo livello caratterizzato dalla preoccupazione di distinguere, sul
piano grafico, il disegno dalla scrittura [figura 89]. La scrittura è
interpretata come scrittura di nomi in cui c’è corrispondenza tra nome
e segno. In questa fase i bambini possono applicare alle loro scritture
i criteri della quantità minima e della varietà interna dei segni che
utilizzano e proprio perché tendono a stabilire una relazione tra la
parola scritta e le caratteristiche del referente cui si riferisce,
ipotizzano ad esempio che una parola come treno debba essere più
lunga della parola formichina, a causa delle diverse dimensioni. Nella
figura 91, p. 56, ad esempio, possiamo vedere l’evoluzione di questo
processo in tre momenti diversi: nelle prime due grafiche i nomi
(dell’autrice della grafica e della sorella) fanno parte della
composizione nel suo insieme; mentre nell’ultimo disegno le scritte
designano le protagoniste del disegno.
237
Nella fase sillabica i bambini stabiliscono una corrispondenza tra le
parole e i segni, anche se i segni scritti corrispondono alle sillabe
delle parole e non ai fonemi della lingua. Nella fase di rilettura poi, i
segni in eccesso possono essere cancellati o giustificati.
Il livello sillabico-alfabetico è un livello intermedio tra quello
precedente e quello successivo: i bambini producono sistemi di
scrittura mista in cui spesso il valore assegnato a ciascun segno non
è stabile (può essere una sillaba, o un fonema).
E’ solo nel livello alfabetico che i bambini assegnano una
corrispondenza biunivoca tra le lettere e i suoni della lingua parlata.
Le scritture sono comprensibili, ma non ancora ortografiche.
Il disegno è ora scrittura:
le forme grafiche vengono separate dalla scrittura lineare [e] questa si
subordina al linguaggio verbale mentre il disegno esprime il pensiero e
rappresenta il reale per un’altra e sua propria strada. La distanza tra la
scrittura lineare dalle altre forme grafiche, cui il disegno appartiene, è
diventata differenza di codice: non basta più esprimere un pensiero
traducendolo in una delle due forme parallele e complementari, ma è
necessaria
un’operazione
di
transcodificazione
per
mettere
in
comunicazione questi due differenti piani e le loro differenti realizzazioni.
(Squillacciotti, 1995, p. 162).
Così come il disegno, la scrittura si configura come una complessa
attività cognitiva e socioculturale, che inizia prima di qualunque
insegnamento sistematico.
Possiamo ora ripercorrere i momenti cruciali dell’evoluzione del
bambino prescolare nel campo dell’attività grafica, alla luce delle fasi
individuate da Ferreiro Teberosky:
-
segni tracciati su superfici in modo casuale, in cui non è ancora
presente una consapevolezza notazionale e in cui disegno e
scrittura vengono considerati equivalenti e non sono differenziati;
238
-
inizio di un’attività simbolica: consapevolezza che i segni possono
designare qualcosa, denominazione arbitraria a posteriori;
-
sviluppo, attraverso il principio della differenziazione, della forma:
consapevolezza che la linea può essere non solo un tracciato ma
anche un contorno; enumerazione di dettagli; differenziazione tra
sistemi notazionali iconici e non iconici. Prime forme di scrittura
che si diversificano nella scelta dei segni utilizzati e nelle ipotesi
relative al funzionamento dei sistemi di scrittura e del disegno. La
scrittura è in questa fase ancora molto vincolata agli aspetti
formali del referente cui si riferisce.
-
avvio dell’attività simbolica in senso convenzionale: dalla
consapevolezza che oggetto e disegno sono separati e che il
secondo
può
rappresentativi
rappresentare
e
figurativi.
il
primo
ai
“Scoperta”
del
primi
vincolo
schemi
della
somiglianza formale; aggregazione di vari particolari in un unico
schema;
anticipazione
dell’intenzione
rappresentativa.
Parallelamente il bambino prende consapevolezza che i segni
tracciati sulla carta stanno al posto delle parole;
-
uso
notazionale
dei
simboli
a
scopo
espressivo;
convenzionalizzazione dei grafismi in funzione del principio di
somiglianza; separazione funzionale tra i due sistemi di scrittura
(iconico e non iconico) raggiungimento del livello alfabetico per
quanto riguarda la scrittura.
Mentre l’espressività del disegno si concretizza in elaborati sempre
più ricchi e complessi, che si strutturano in un linguaggio
indipendente dalla lingua parlata186, ma tuttavia parallelo ad esso,
186
«Questo carattere di tridimensionalità delle rappresentazioni simboliche diverse
dalla scrittura può segnare un’opposizione di portata più generale. La scrittura è
uno strumento di grande precisione ma al tempo stesso di grande rigidezza: è una
strategia sociale che lascia poco spazio - per lo meno all’interno delle sue strutture
- alla tattica individuale, in cui non rimangono per così dire che l’interlinea e il
margine» (Cardona, 1981, p. 65).
239
l’uso notazionale di simboli non iconici si libera progressivamente dal
suo referente materiale, per rivolgersi alla parola parlata.
Come dire che c’è un solo modo di scrivere le parole, ma “molti, ma
non troppi, modi” per disegnarle.
2.3
Il disegno come comunicazione e narrazione
Prima dell’ingresso alla scuola primaria i bambini riescono a produrre
forme che rappresentano in modo sufficientemente riconoscibile
oggetti ed eventi: «le figure canoniche (schemi di case, persone,
alberi, etc.), ricorrenti nei bambini, non sono altro che il modo di
comunicare un significato in maniera essenziale e non ambigua»
(Donsì – Parrello, 2005, p. 21). [Figure 92 e 93, p. 57].
Il “conservatorismo” grafico infantile dipenderebbe dunque sia da una
sorta di “economia” dei processi di progettazione ed esecuzione, che
da un’intenzionalità comunicativa.
Il bambino accumula un certo repertorio di tecniche grafiche ed è in
grado di impararne delle nuove. Tende ad utilizzare nel tempo gli stessi
progetti grafici e le innovazioni si esprimono spesso nell’abbellimento
successivo piuttosto che nella ristrutturazione. Egli deve imparare a
tener conto delle regole di espressione grafica e delle convenzioni
relative alla costanza del punto di vista. Inoltre deve conoscere ciò che
richiede e si aspetta l’ambiente che lo circonda. Infine, secondo Von
Sommers, egli deve conoscere le caratteristiche strutturali degli oggetti
ed essere in grado di risolvere problemi nella rappresentazione di forma,
occlusione, prototipicità e punti di vista; ciò deve essere fatto in modo
graficamente corretto, correlato alla raffigurazione di altri oggetti e in
funzione del particolare compito richiesto. (Tallandini – Valentini, 1991,
p. 321).
240
Col passare del tempo, il bambino amplia notevolmente la gamma di
oggetti che è capace di rappresentare, e disegna quelli vecchi in
nuovi modi. L’aggiunta di dettagli, come anche le deviazioni rispetto
allo schema rappresentativo di base, sono, secondo Lowenfeld e
Brittain (1947) indizi di particolari esperienze creative.
In figura 94, p. 58, possiamo vedere ad esempio i diversi tentativi di
Jonny (da 3,7 a 5,7) nella raffigurazione del treno a partire dal primo
anno di scuola dell’infanzia all’ultimo.
Durante
gli
anni
della
scuola
primaria,
il
bambino
giunge
definitivamente alla comprensione di ciò che può essere o non
essere incluso in un disegno, producendo attivamente “equivalenti
ortodossi” di soggetti, eventi e conoscenze187.
Ciò è molto più che conoscere l’oggetto da raffigurare, è acquisire un
sistema di denotazione che, sostanzialmente, significa accedere a un
codice convenzionale adeguato alla comprensibilità da parte di uno
spettatore, a un linguaggio i cui segni consentono la comunicazione
delle intenzioni dell’autore […]. Analogamente all’acquisizione del
linguaggio verbale, si tratta di inventare un sistema espressivo astratto,
governato da regole, una sintassi della rappresentazione. (Donsì –
Parrello, 2005, p. 21).
Lentamente gli elementi della composizione sono collegati tra di loro
e rappresentati da un unico punto di vista, secondo convenzione.
La riconoscibilità chiama in causa l’aspetto comunicativo del disegno
nella doppia direzione dell’autore e dell’interlocutore: dal disegno
emerge il mondo individuale del bambino, le sue conoscenze, le sue
scelte e abilità rappresentative; il prodotto sottende inoltre un
interlocutore, un lector in fabula (Eco, 1979) insieme al quale
condivide un codice iconografico.
187
«Qualsiasi oggetto o evento può essere disegnato in modo riconoscibile in
diverse maniere, ma tra queste alcune vengono usate più spesso di altre, fino a
diventare equivalenti standard» (Goodnow, 1977, p. 126).
241
I bambini stessi si aspettano che esista un modo “giusto” di
realizzare un disegno188 e cercano di avvicinarsi a quello che
ritengono il migliore dei modi possibili per compiacere gli adulti o per
migliorare l’aspetto comunicativo del loro disegno.
Certamente il ragazzo approda alla consapevolezza di una realtà
condivisa e con questa si confronta, e la realtà condivisa ha leggi proprie
alle quali bisogna sottomettersi. Il suo disegno diventa incomunicabile se
non rispecchia la realtà di tutti e che tutti possano sperimentare. Accanto
alla maturazione percettiva si pone così la consapevolezza di nuovi
criteri che giustificano, sul piano della comunicazione sociale, una
corretta rappresentazione grafica. All’espediente che il fanciullo
utilizzava per rappresentare “logicamente” una realtà tridimensionale, si
sostituisce la necessità di una rappresentazione subordinata alle leggi
della prospettiva, convenzionalmente stabilite. Bello, diviene il disegno
che riproduce, nel modo più corretto possibile, la realtà. Le nuove
categorie estetiche diventano la fedeltà e la buona composizione.
(Quaglia, 2003, p. 177).
Vale la pena di sottolineare che
non tutte le culture ritengono che gli equivalenti debbano mostrare le
cose come sembrano, invece che come sono; né tutte condividono l’idea
che il punto di vista appropriato debba essere diretto. In molti dipinti
cinesi, per esempio, si accetta che il disegno venga eseguito come da
una piccola altura presente sulla scena […].
188
Nella pratica didattica mi è capitato spesso che alla richiesta di disegnare i
bambini mi abbiano risposto “non sono capace” o “come si fa?”. Con alcuni mi è
capitato anche rispetto alla richiesta di disegnare soggetti noti. Le aspettative degli
adulti (e degli insegnati in particolare) e i modelli conosciuti dai bambini potrebbero
giustificare questi rifiuti nei confronti di particolari disegni. D’altra parte, quando il
bambino inizia ad essere critico nei confronti della sua capacità di disegnare, trova
conferma della sua presunta insufficienza nello stereotipo che vede il disegno
legato ad un “talento” posseduto da pochi e che accomuna le risposte del bambino
e dell’adulto per il quale il disegno non rientra tra le competenze dell’attività
lavorativa che ha scelto o che svolge.
242
Abbiamo anche bisogno di essere coscienti che la maggior parte delle
persone operano entro i limiti di ciò che è comune in una cultura, e che
l’acquisizione
del
punto
di
vista
da
esso
accettato
è
parte
dell’apprendimento e della capacità di inventiva infantili. (Goodnow,
1977, p. 126).
Dagli otto anni in poi la rappresentazione acquisisce lentamente le
leggi della prospettiva189 e di una rappresentazione realistica sotto il
profilo visivo: il bambino ha ora a disposizione maggiori capacità di
attenzione e concentrazione, ma soprattutto si completa e stabilizza
l’acquisizione di soluzioni convenzionali riprese e suggerite da
esempi esterni.
I vecchi equivalenti si modificano e si arricchiscono diventando più
complessi e i bambini procedono per temi e formule con variazioni,
piuttosto che attraverso ripensamenti radicali190 dello schema
189
«La prospettiva occidentale, quella centrale nata nel Rinascimento dalle teorie
di Leon Battista Alberti e della pratica pittorica di Masaccio, si è rivelata
un’invenzione di un’importanza e efficacia straordinarie. Essa ha infatti
rappresentato il principale modello di lettura della realtà che la civiltà occidentale
(e, vista la vastità del suo impiego, la civiltà umana in generale) abbia mai saputo
generare; al punto che siamo arrivati a confonderla con la effettiva modalità di
visione fenomenica dell’occhio. E questo non corrisponde a verità.
Tanto per cominciare, il nostro occhio recinge un campo circolare, non planare:
non esiste nessun piano, nessuna lastra di vetro (come presuppone la prospettiva)
che taglia i raggi indirizzati al nostro occhio; non esiste un reale punto di fuga; e
non esiste neanche il punto di vista, che la visione prospettica ha trasmesso a
fotografia, cinema e video, visto che noi abbiamo due occhi i cui coni visuali si
incrociano; non abbiamo infine una visione omogenea in tutte le parti del campo,
ma al contrario le zone più esterne dello stesso sono oggetto di una percezione
alquanto vaga e indistinta. Insomma la prospettiva non rappresenta il nostro modo
di vedere il mondo: si tratta al contrario di uno schema concettuale, per quanto
molto efficace possa essere nell’avvicinarsi alla realtà come la percepiamo
fenomenicamente» (Branzaglia, 2003, p. 52).
190
«Nel complesso troviamo che i bambini operano cambiamenti nella maniera più
facile, quando possono semplicemente aggiungere un elemento, senza rinunciare
a principi generali quali il principio di non invadere lo spazio appartenente a
qualche altro elemento, o quello di disporre le parti in un ordine dato o su un dato
asse. I cambiamenti più difficili sembrano essere quelli implicanti la rinuncia ad un
principio che normalmente governa il modo in cui si dispongono i vari elementi. La
differenza tra questi cambiamenti fondamentali e quelli più facili, non va soltanto
ricercata nei disegni. Per es., nell’apprendimento delle domande (come nel caso
della domanda “quando?”) è probabile che si abbia il passaggio da “John leggerà il
libro” a “John leggerà il libro, quando?”, con la semplice aggiunta di un altro
elemento. Cambiamenti successivi spostano il “quando” all’inizio della frase
243
figurativo:
avendo
già
trovato
una
soluzione
al
“problema
rappresentativo”, tendono a proporre disegni che “funzionano”.
Via via che l’intento narrativo si stabilizza e che l’ambizione di ritrarre
con precisione un oggetto o un evento diventa più pronunciata, i bambini
devono affrontare nuovi problemi di composizione e relazioni spaziali:
come ritrarre il passaggio del tempo, un evento in corso, i sentimenti di
felicità, rabbia o tristezza? A questo punto l’atto di disegnare e dipingere
diventa più riflessivo, implica la possibilità di correggere e imparare
dall’esperienza personale e dai modelli di altri. I bambini più grandi
diventano consapevoli della necessità di essere più espliciti nella
descrizione delle relazioni; ora capiscono che la stessa semplice
prossimità, l’allineamento o la simmetria della disposizione non narra
l’intera storia come dovrebbe essere raccontata. Certamente, tra i
bambini ci sono notevoli differenze individuali nello stile, talento,
motivazione […]. Al crescere dell’età e della competenza cognitiva, i
“Quando John leggerà il libro?” […]. I cambiamenti più difficili sono quelli che
alterano il nucleo di un progetto, decisioni di annullare, combinare, riorganizzare
delle priorità, o di cominciare dal punto in cui pensavamo di finire» (Goodnow,
1977, pp. 164-165).
Più recentemente Annette Karmiloff-Smith ha condotto esperimenti sul
cambiamento rappresentazionale nei bambini tra i cinque e undici anni, rilevando
una flessibilità maggiore negli schemi rappresentativi dei bambini più grandi. Per
provocare cambiamenti nelle modalità di procedere dei bambini e studiare il
processo rappresentativo mentre si modifica Karmiloff-Smith ha proposto in due
sessioni distinte il disegno di “una casa che non esiste” e di “una persona che non
esiste”; il disegno di “una casa con le ali” e quello di “una persona con due teste”.
Nel secondo esperimento, la variante era esplicitamente suggerita dallo
sperimentatore. Riportiamo di seguito le conclusioni dell’autrice. «Bambini di tutte
le età da 5 a 11 anni cambiavano forma o grandezza di alcuni elementi, oppure
forma e grandezza del disegno complessivo, togliendo elementi essenziali. Invece
pochissimi bambini al di sotto degli 8 anni inserivano elementi, cambiavano la
posizione e/o l’orientamento, oppure eseguivano inserzioni trans-categoriali […].
La ragione per cui i bambini [piccoli] disegnano facilmente una casa con le ali è
che le ali possono essere aggiunte alla fine della procedura sequenziale che si è
eseguita nella sua interezza per disegnare una casa. Invece, quando cerca di
eseguire il disegno di una persona con due teste, il bambino deve interrompere la
normale sequenza procedurale del disegno di un uomo per inserire una
subroutine. Nella letteratura sullo sviluppo, un gran numero di studi su attività
diverse dal disegno ha mostrato che inserzioni del genere sono difficili per i
bambini piccoli. Anche quelli di 5 anni, esaminati nel nostro esperimento,
incontravano difficoltà simili, mentre i più grandi inserivano spontaneamente delle
subroutine nella loro procedura rapida di disegno» (Karmiloff-Smith, 1992, pp. 227228).
244
modelli culturalmente approvati iniziano a giocare un ruolo importante e i
bambini dedicano più attenzione agli stili artistici accreditati nella loro
comunità. (Golomb, 2002, pp. 133-134).
Questo
aspetto
è
stato
documentato
anche
dalla
ricerca
transculturale191. Oltre ad una notevole diversità stilistica nella
produzione di modelli grafici192 esisterebbe una diversa precocità con
cui i bambini giungono a produrre figure convenzionali, ma anche
191
La ricerca sull’origine dell’arte infantile ha portato molti studiosi a collezionare
disegni provenienti da diverse parti del mondo. Si tratta soprattutto di opere di
bambini e adulti preletterati. Già l’antropologo A. C. Haddon disponeva, a inizio
‘900 di una copiosa raccolta di disegni provenienti dalle popolazioni Papuane e nel
commentarne lo stile “molto rudimentale ed essenziale” lo paragonò alle produzioni
delle tribù del Brasile Centrale (Haddon, 1904). Il campione più rappresentativo di
disegni prodotti da bambini tra i cinque e i nove anni è stato realizzato da G.W.
Paget che raccolse più di seimila elaborati che gli vennero spediti da varie regioni
dell’Africa, dell’Asia, del Medio Oriente, della Nuova Zelanda, della Giamaica,
dell’Australia e Nuova Guinea Inglese. Le sue ricerche confermano l’esistenza di
un linguaggio grafico universale riconoscibile, soggetto a variazioni nel rispetto di
un ambiente condiviso (Paget, 1932). Il lavoro di Paget stimolò ulteriormente la
ricerca in questo campo. Segnaliamo gli importanti lavori dell’antropologo Meyer
Fortes che, tra il 1934 e il 1937 raccolse, insieme alla moglie, diversi disegni
prodotti da bambini e adolescenti Tallensi non scolarizzati (Fortes, 1940; 1981).
Fortes ipotizzò l’esistenza di una fase ideo-grammatica originaria in cui i disegni
sono “diagrammi funzionali”. Egli scorse una grossa differenza tra le produzioni dei
bambini scolarizzati e non scolarizzati. Quest’ultimi, nella rappresentazione della
figura umana producevano una sorta di ideogramma che riproduceva attraverso
dimensioni e proporzioni, l’importanza funzionale delle parti del corpo. I bambini
scolarizzati al contrario, producevano modelli grafici molto simili a quelli dei
coetanei occidentali. Fortes interpretò i suoi dati in termini di convenzioni
dipendenti dalla cultura (si veda a proposito anche Deregowski, 1978). Wayne
Dennis, si è occupato di disegni di beduini preletterati della Siria (Dennis, 1960). In
questi disegni sono omessi i particolari del volto, disegnato molto piccolo o
ombreggiato; ciò sottolinea ancora una volta l’influenza di fattori culturali nei
modelli rappresentazionali utilizzati. Per gli studi transculturali relativi ai disegni si
vedano inoltre: Andersson, 1995a; 1995b; Wilson - Wilson, 1984, 1985.
192
Considerando gli studi sullo sviluppo del disegno alla luce delle convenzioni
iconiche dell’ambiente culturale in cui viene realizzato o recepito, emergono due
tipi di approccio: uno di tipo universalistico ed uno più “situazionale”. La posizione
tradizionale è quella di stampo universalistico, che ascrive un carattere universale
alle rappresentazioni grafiche supportato, secondo alcuni autori, dalla
riconoscibilità stessa dei prodotti: chiunque, anche se non addestrato, può
riconoscere nei disegni una raffigurazione della realtà.
All’universalismo si oppongono coloro che sottolineano la mediazione dell’azione e
del giudizio sociale sul disegno infantile: in effetti «il marchio della cultura è
riconoscibile sia nella scelta preferenziale di alcuni temi sia negli stili pittorici
adottati dai bambini dei diversi paesi; e non dappertutto gli adulti loderebbero,
come avviene da noi, l’omino-testone di un trenne» (Pinto - Bombi, 1999, p. 135).
245
una diversa scelta delle parti da includere e un diverso modo di
connetterle e denominarle.
Ad esempio i bambini Walbiri (aborigeni australiani) disegnano le
persone utilizzando un semicerchio come schema figurativo: un
semicerchio più grande con un semicerchio più piccolo inscritto
all’interno, raffigurerebbe una madre con un bambino in braccio.
L’iconografia Walbiri è quasi svincolata dalla somiglianza visiva e usa i
segni con significato variabile a seconda dei contesti. Così un cerchio
indica ora un albero, ora un falò, ora un uovo, ora un campo, mentre una
linea ondulata può rappresentare un danzatore, un fiume, un serpente e
così via: tracciare questi segni sulla sabbia è considerato parlare. (Pinto
– Bombi, 1999, p. 136).
Accanto ad un processo rappresentazionale universale, si colloca un
ambiente culturale che, attraverso i suoi modelli, ha un notevole peso
sullo sviluppo del linguaggio grafico e sulle forme che esso potrà
successivamente assumere.
Una volta raggiunto il livello basilare della differenziazione grafica, le
attività rappresentazionali non portano necessariamente a ulteriori
differenziazioni e cambiamenti. Nelle culture in cui le attività basate su
carta e matita sono consuete e di facile accesso e dove la
sperimentazione e il cambiamento evolutivo sono attesi e valorizzati, le
prime organizzazioni grafiche del tipico stile dell’arte infantile vengono
ulteriormente sviluppate e, entro la fine dell’infanzia, le attività artistiche
o vengono canalizzate in modelli progressivamente più complicati che
soddisfano le norme e le aspettative culturali, oppure vengono
accantonate nel senso che i bambini smettono di disegnare. (Golomb,
2002, p. 97).
Tara C. Callaghan (2003) ha recentemente delineato un modello di
funzionamento del simbolismo grafico che è interessante seguire nei
dettagli. Alla ricerca del ruolo complementare della predisposizione
246
biologica e del supporto culturale, l’autrice sviluppa un sistema di
evoluzione del linguaggio grafico a sei livelli – relativo sia alla
comprensione che alla produzione -, applicabile, secondo la stessa,
al processo che si verifica in qualunque momento dell’ontogenesi,
quando l’organismo si trova di fronte a un nuovo dominio simbolico.
In questo senso l’accessibilità al significato di un simbolo non
sarebbe necessariamente legata all’età, ma alla sua complessità,
alla capacità di ragionamento del bambino, così come alla novità del
dominio simbolico.
Partendo dal presupposto che i simboli siano una classe speciale di
artefatti la cui funzione è intenzionalmente comunicativa, ne
considera lo sviluppo come inseparabile dal contesto sociale:
il bambino porta dal mondo pre-simbolico dell’infanzia un ricco insieme
di meccanismi e una forte pulsione verso l’intersoggettività. Tutto ciò
prepara la strada ad un cambiamento nella comprensione infantile di
oggetti e persone. Quello che l’individuo porta nel processo è solo una
parte del quadro. Gli “altri” sono ugualmente impegnati a condurre i
bambini nel mondo dei simboli. E’ nel contesto degli scambi sociali
comunicativi che il bambino realizza che i simboli grafici devono essere
usati per riferirsi ad entità al di fuori di noi stessi, attraversando in tal
modo lo spartiacque simbolico che segna la fine dell’infanzia.
(Callaghan, 2003, p. 52).
Il modello della Callaghan parte dal livello 0, relativo ai primi nove
mesi, caratterizzato dall’assenza di qualsiasi differenziazione tra
simbolo e referente: «infatti, prima dei 9 mesi, il bambino afferra gli
oggetti rappresentati in fotografie ad alta definizione […] e talvolta
muove la matita in modo da rappresentare il referente [un coniglio
che salta]»193.
193
Callaghan, 2003, p. 53. Ci sembra interessante notare come il passaggio dal
livello 0 al livello 1 avvenga proprio a 9 mesi, età in cui, come abbiamo visto nel
capitolo precedente, il bambino si dimostra in grado di utilizzare diversi mezzi per
247
A livello 1, verso la fine del primo anno, i bambini iniziano a
differenziare gli oggetti dalle immagini che li rappresentano su un
piano pratico (comprensione), ma senza consapevolezza simbolica.
A livello 2 colgono sia la somiglianza che la differenza percettiva tra
simbolo e referente (comprensione) e iniziano ad etichettare i loro
scarabocchi a posteriori (produzione). Nei bambini di questo livello la
consapevolezza dei simboli grafici è essenzialmente percettiva e non
ancora simbolica.
Il livello 3 è il primo livello autenticamente referenziale:
durante il secondo anno di vita i bambini comprendono che tra simbolo e
referente può esservi una relazione di equivalenza non identica […] tale
comprensione, che per le immagini si sviluppa intorno ai 36 mesi, rivela
la capacità di rappresentazione duale, ovvero l’abilità di capire che un
simbolo è sia una rappresentazione di qualcos’altro sia un oggetto di per
sé. Nella produzione iniziano a mostrare nei loro disegni pianificazione e
intenzionalità a priori. (Ivi).
A questo livello i bambini producono forme grafiche che contengono
“l’equivalenza concettuale” dei referenti reali, come l’omino testone.
A livello 4 i bambini capiscono che uno stesso referente può essere
rappresentato in molteplici plausibili modi. Mentre la “costanza
simbolica” è il livello di comprensione che caratterizza questo
periodo, a livello produttivo i bambini utilizzano una varietà di forme
per raffigurare il medesimo soggetto a seconda dello scopo del
disegno.
A livello 5, all’età di cinque anni,
i bambini possono interpretare un simbolo grafico come un indicatore
delle intenzioni altrui (comprensione) […] tengono in considerazione gli
attributi mentali dell’artista nell’interpretazione delle rappresentazioni
raggiungere lo stesso scopo e soprattutto vi è la comparsa osservabile di
comportamenti intenzionali attraverso i gesti deittici dell’indicare.
248
pittoriche, così come nei loro disegni. A questo livello essi possono
intenzionalmente produrre un disegno al fine di avere un impatto
particolare sugli spettatori, o per comunicare una particolare prospettiva
sul mondo (produzione). (Ibidem, p. 54).
Supportato da numerosissime verifiche sperimentali, il modello della
Callaghan tende a dimostrare che la nascita e il raffinamento della
“mente simbolica” si basano principalmente sull’impalcatura sociale
fornita dagli altri, sulle abilità imitative unite alla consapevolezza
intersoggettiva e sulla comprensione delle intenzioni proprie e altrui.
Non essendo copie della realtà ma schemi figurativi, i disegni
“incarnano”
l’esperienza
e
la
conoscenza
degli
autori
e,
contemporaneamente, la loro abilità ad esprimersi attraverso il
linguaggio grafico.
Disegnare, quindi, non è un semplice atto di imitazione e raramente si
riscontra la prospettiva ottica nel lavoro artistico dei bambini e degli
adulti che vivono in un mondo dove le fotografie, le riproduzioni d’arte
realistiche, la pubblicità forgiano i sistemi di rappresentazione
tridimensionale. Quando i modelli sono consoni al livello di abilità e di
comprensione visiva del bambino, tendono a essere adottati e
perpetuati; ciò è testimoniato dallo stile artistico infantile comune in
tempi e luoghi differenti. In assenza di supporti culturali, la competenza
pittorica si ferma a uno stadio precoce del pensiero visivo. (Golomb,
2002, p. 97).
Quando al bambino è data la possibilità di disegnare e sperimentare
tecniche grafiche, i suoi elaborati si arricchiscono, diventano spunto
di riflessione, gioco, narrazione di progressive acquisizioni che ne
modificano profondamente l’aspetto.
Ad esempio, in figura 95, p. 59, Alexey (5,10) si preoccupa di
rappresentare il funzionamento interno del trattore che ha appena
249
disegnato. Si tratta di un’ipotesi di meccanica che giustifichi il
funzionamento del trattore che sta arando il campo.
Secondo alcuni
il disegno ha la sua storia che riflette pari pari la storia del nostro
sviluppo psichico, né più né meno di quanto accade alla nostra
personalità […]. Tutto ciò che guadagniamo nel corso degli anni in
raziocinio, abilità, assimilazione di norme, regole e comportamenti
socialmente accettabili, lo perdiamo in spontaneità ed inventiva: è il
prezzo che paghiamo per entrare a fare parte a pieno titolo della
comunità civile. Un pedaggio – questa sorta di conformismo – che ci
rassicura sul piano dell’accettazione dei nostri simili. Non a caso
chiamiamo artisti quegli individui che non si sono sottomessi appieno
alle regole sociali. Beninteso […] non è certo abdicando all’educazione e
al senso di realtà che si diventa automaticamente artisti. (Mancini, cit. in,
Di Napoli, 2004, p. 30).
Inoltre, a partire dalla preadolescenza i bambini iniziano a includere
l’effetto che il disegno suscita nello spettatore tra gli elementi che
concorrono a determinarne la riuscita e a guidarne la produzione:
la consapevolezza pittorica, in analogia con quanto suggerito a
proposito del linguaggio verbale, può essere definita come l’assunzione
di un atteggiamento di riflessione nei confronti della comunicazione
iconica, della sua natura, dei suoi scopi, delle sue regole e funzioni.
(Pinto, Mantelli, Giuntoli, 2003, p. 90).
Nelle concezioni infantili rispetto al disegno e all’attività del disegnare
si registra, attorno ai dieci anni, uno spostamento: da giudizi fondati
prevalentemente
sul realismo
visivo
a
una
concezione
più
“mentalistica” del processo di rappresentazione pittorica, nella quale
acquista valore il punto di vista dell’altro, sia questi l’autore o il
fruitore del disegno.
250
Si tratta di risultati che consentono di estendere allo sviluppo
metacognitivo in ambito pittorico quanto già rilevato in rapporto al codice
linguistico, ed in particolare alla scrittura: sarebbero cioè gli elementi di
pianificazione e le procedure della fase esecutiva a divenire per prime
oggetto di riflessione, mentre la valutazione si produrrebbe in tempi
successivi,
implicando
il
controllo
delle
operazioni
sottostanti:
comprensione del compito, pianificazione e organizzazione delle
procedure. (Ibidem, p. 97).
In questo senso l’età influenza prevalentemente l’esecuzione di
procedure,
con
monitoraggio
confrontare
un
aumento
(autoistruzione
le
intenzioni
progressivo
esecutiva)
espressive
e
della
capacità
di
della
capacità
di
con
il
prodotto
finito
(valutazione).
Thomas Charoters e Howard Gardner (1979) hanno valutato la
sensibilità estetica dei bambini rispetto all’opera d’arte attraverso due
parametri: la «completezza sintattica», cioè il modo in cui l’artista
utilizza i diversi mezzi espressivi per ottenere un «impatto artistico»,
e le «qualità espressive», cioè il modo in cui un’opera d’arte
comunica emozioni, stati d’animo, sentimenti, etc. La loro ricerca
dimostra che solo intorno ai dodici anni viene superato un approccio
“letterale” all’opera pittorica, a vantaggio di una lettura più
“interpretativa” che include i criteri di completezza ed espressività.
La maggiore disponibilità ad accedere al piano metacognitivo
sottolinea la maggiore flessibilità cognitiva dei bambini di quest’età
rispetto all’«errore incontrollato» e al disgiungersi dell’intenzione
dalla raffigurazione delle fasi precedenti.
I bambini più grandi ottengono intenzionalmente ciò che i bambini del
periodo precedente raggiungevano senza volerlo.
I caratteristici “errori” dei disegni infantili (ribaltamenti, trasparenze),
sono destinati a ricevere un ridimensionamento in concomitanza
251
dell’ingresso del bambino alla scuola primaria, mentre lo sviluppo
pittorico sembra concludersi, per molti studiosi, con l’adolescenza194.
Adolescenti e adulti valutano le proprie capacità artistiche e il proprio
prodotto pittorico in base alla consapevolezza della limitatezza dei propri
mezzi e all’incapacità di rendere efficacemente una rappresentazione
complessa della realtà. Per questi motivi spesso il disegno come mezzo
espressivo e comunicativo viene abbandonato, e gli si preferisce di gran
lunga l’espressione verbale. (Donsì – Parrello, 2005, p. 31).
A partire dall’adolescenza il disegno, sempre più inteso come copia,
finisce per perdere il suo fascino. Tuttavia «all’impoverimento della
vita immaginativa e fantastica» che la maggior parte degli autori
legge
nei
disegni
di
questo
periodo,
non
corrisponde
un
impoverimento delle capacità immaginative dell’adolescente:
anzi, il venir meno della creatività nel disegno infantile è frutto della
capacità dell’adolescente di interiorizzare il “movimento” ovvero le
qualità dinamiche degli oggetti. Quel che prima doveva essere
rappresentato graficamente per esistere, nell’adolescenza si muove solo
più a livello immaginativo. (Quaglia, 2003, p. 177)
Il disegno, a partire dall’adolescenza, sembra perdere la sua
capacità espressiva e viene abbandonato dalla maggior parte degli
adolescenti come forma di comunicazione.
Lo stesso si può dire per tutte le altre forme di espressione vive
durante l’infanzia che via via vengono abbandonate (come il gioco
simbolico, la danza, o la musica), se non vengono coltivate
attraverso percorsi di formazione specifici e paralleli alla scuola.
194
Tuttavia alcuni autori sottolineano come il disegno continui a svilupparsi dopo
l’adolescenza (Freeman, 1995) e anche oltre nel caso degli artisti; anzi nella fase
della prima adolescenza si evidenzia una fase di riavvicinamento al disegno, nella
quale le produzioni dei bambini si avvicinano a quelle dei professionisti, soprattutto
per la tecnica usata e gli elementi estetici ricercati.
252
Il periodo in cui si assiste al “declino” del disegno come mezzo per
esprimere vissuti e per comunicare eventi (coincidente agli otto anni
circa), corrisponde alla fase in cui i processi di lettura e scrittura
vengono
completamente
interiorizzati
dal
bambino.
Questa
coincidenza ci porta a riconsiderare, da un lato, l’origine comune di
scrittura e grafismo come capacità di “annotare significati” attraverso
simboli grafici195, e dall’altro a considerare come, nel corso dello
sviluppo al grafismo sia riservato una doppia evoluzione: verso
sistemi notazionali iconici (disegno) e non iconici (numeri e lettere)
diversamente valorizzati dalla nostra cultura.
3
Contesti culturali e teorie psicologiche
Un’importante lezione che deriva dagli studi transculturali sul disegno
è che, all’interno di un repertorio universale includente forme che
sostanziano stili anche molto diversi tra loro, le scelte fatte dai
bambini nel disegnare dipendono solo in parte dalla “scoperta”
dovuta all’esercizio delle attività grafiche e pittoriche, mentre in parte
sono l’effetto di una trasmissione sociale che avviene entro un
contesto culturale in cui i bambini hanno ampio accesso ai diversi
codici visivi, agli strumenti per produrli e fruirne e in cui esiste una
prassi carica di “valori” molto intensi, anche se “ambigui”.
In questo paragrafo ci occuperemo di come l’idea di “arte infantile”
sia entrata a far parte del pensiero occidentale: presenteremo le
ragioni culturali e storiche che hanno condizionato e che tutt’ora
condizionano il dibattito teorico, i campi di ricerca e le modalità di
utilizzo dei disegni dei bambini. Riteniamo che tali ragioni abbiano
195
«Dallo scarabocchio informe si dipartono, con intenzionalità diverse, il disegno e
la scrittura. Attività che richiede movimenti dei muscoli del braccio, del polso e
della mano delicati, coordinati e di grande precisione, la scrittura ha per origine
l’imitazione di un’azione osservata nell’ambiente sociale» (Oliverio Ferraris, 1973,
25-26).
253
sensibilmente guidato la ricerca psicologica e informato, più o meno
esplicitamente, il dibattito teorico successivo.
Di seguito proporremo una sintetica ricostruzione storica degli studi
sul disegno infantile operati dalla psicologia di matrice psicometrica e
psicodinamica196 e ne tenteremo una conciliazione a partire dalla
definizione di concetti quali “rappresentazione” e “proiezione”.
Concluderemo la sezione sul disegno infantile con le ricerche più
recenti, evidenziando lo stretto rapporto tra fare, conoscere e
comunicare. Vedremo poi come il disegno si presenti come
strumento cognitivo e codice espressivo-comunicativo variamente
articolato ed estremamente diversificato.
3.1
Nascita di un mito: l’arte infantile
Si dimentichi ora per un attimo quello che è stato scritto e si osservino le
produzioni di Davide (4,8), Alexey (4,6), Marta (4,11) in figura 96, p. 59;
97 e 98, p. 60 rispettivamente. Che cosa ci dicono queste
196
Nella letteratura sull’argomento gli orientamenti metodologici individuati
all’interno della psicologia sono solitamente tre: l’orientamento descrittivo
comparativo che si delinea dalla fine del secolo scorso e che domina fino agli anni
Venti; l’orientamento psicometrico prevalente dagli anni Venti agli anni Quaranta
ma tuttora ritenuto autorevole in alcuni contesti; l’orientamento proiettivointerpretativo, dominante dagli anni Quaranta fin verso la metà degli anni
Cinquanta (Osterrieth, 1973). Il primo orientamento, che non verrà trattato in modo
specifico, ma per il quale si rimanda alla bibliografia, riguarda il periodo delle
grandi raccolte dei disegni “spontanei” e dell’analisi dello sviluppo grafico di uno o
più bambini. Acquisizione di tale orientamento è, secondo Osterrieth (1973) la
segmentazione in stadi. Per quanto riguarda il secondo, esso si caratterizza «per il
carattere rigoroso […] e per il ricorso allo strumento statistico e per la
preoccupazione di controllo e di validazione delle conclusioni a cui si perviene». Le
consegne dello sperimentatore sono precise e possono essere a orientamento
geometrico o figurativo. Acquisizione di tale periodo viene considerato lo stretto
legame tra sviluppo cognitivo e tratti salienti del disegno. Il terzo orientamento,
denominato simbolico o interpretativo «è sensibilmente meno sicuro e meno
rigoroso, benché in apparenza più ricco dei precedenti». Le finalità che questo
approccio si propone sono soprattutto proiettive e interpretative e per questo
secondo Osterrieth non vi sarebbe nessuna acquisizione da riconoscere a questo
orientamento perché «le pretese sono spesso tanto alte, quanto sono deboli le
prove su cui si fondano, e quanto illusori i controlli che spesso sono stati tentati»
(Ibidem, pp.10-11).
254
rappresentazioni? Che cosa ci suscitano? A cosa ci riportano? Cosa ne
pensiamo?
L’idea che i disegni dei bambini possano essere esteticamente
interessanti è oggigiorno così comune da farci dimenticare che si tratti di
un’idea storicamente recente, e tuttora controversa. Secondo Gardner
(1980), è verso la metà dell’800 che pedagogisti e letterati cominciano a
mostrare interesse per il grafismo dei piccoli; nei decenni successivi
questo interesse si concretizzò nelle prime collezioni di disegni infantili.
Ma soprattutto a partire dagli anni ’30 e sino all’immediato dopoguerra,
l’importanza attribuita alla creatività e all’espressione artistica nello
sviluppo e nell’educazione del bambino ha portato educatori e psicologi
a porre l’accento sulle potenzialità artistiche della pittura infantile […].
E’ ovvio che il sorgere di questi atteggiamenti non può essere disgiunto
dal mutamento delle arti visive nel nostro secolo, e in particolare dal loro
svincolarsi, in forme anche estreme, dalla figuratività: sarebbe stato
impensabile cercare qualità esteticamente rilevanti in uno scarabocchio
o in un omino testone nel clima culturale del Rinascimento. (Pinto –
Bombi, 1999, pp. 138-139).
Se l’evoluzione delle idee relative all’infanzia197, all’arte e al
«primitivo» hanno concorso a far sì che l’interesse per il disegno del
197
Non si deve dimenticare che il concetto di infanzia, così come noi lo
concepiamo oggi, è un’idea abbastanza recente. Esso risale alla seconda metà
dell’Ottocento, primo periodo in cui si sono manifestati interessi per lo studio del
comportamento infantile (infanzia come età carica di promesse in cui è possibile
formare “l’uomo che verrà”), ma è soprattutto alla fine del Diciannovesimo secolo e
durante il primo trentennio del Ventesimo, si è assistito ad uno straordinario fervore
di iniziative a favore dell’infanzia. Durante il Novecento si iniziò a parlare di “diritti
dell’infanzia”, e tra questi non vi erano solo i diritti all’istruzione, al mantenimento e
alla protezione, ma anche “diritti specifici dell’infanzia” che consistevano
essenzialmente nel sostenere la loro subalternità e dipendenza dagli adulti.
Parallelamente si imponeva una conoscenza “scientifica” del bambino affinché le
politiche sociali sull’infanzia fossero maggiormente efficaci.
«In primo luogo veniva affidato alla scienza il compito di sconfiggere l’alto tasso di
mortalità infantile (tra i 100 e i 250 bambini morti per mille nati vivi, nei paesi più
civilizzati) […]. Si riteneva inoltre che la scienza potesse contribuire a svelare i
misteri del funzionamento della mente infantile, misurare l’intelligenza dei bambini,
dire alle madri come allevare i figli e fornire una guida per il trattamento di quei
bambini il cui sviluppo o il cui comportamento non si conformassero agli standard»
(Giani Gallino, 2008, p. 36).
255
bambino maturasse in ambito artistico e si sviluppasse nella
direzione di una valutazione estetica, non di meno l’interesse degli
psicologi, anche quando si dichiarano non interessati all’artisticità
delle grafiche dei bambini, appare profondamente legato alla
capacità infantile di fare e di fruire dell’arte.
Dal Postmodernismo in poi, è come se il mondo dell’arte - quello del fare
arte e quello della riflessione teorica sull’arte – abbia scelto e imboccato
un percorso per così dire illustrativo, e perciò stesso dimostrativo,
dell’arte infantile. O per meglio chiarire, chi ritiene che il disegno infantile
sia arte, trova nell’avanguardia storica e nella postavanguardia materiali
e argomenti, non solo per sostenere l’artisticità del disegno del bambino,
ma addirittura per operare un confronto puntuale tra produzione infantile
e produzione adulta, fino a proporre una sequenza cronologica, sia pure
di opposta direzione. La “bava” di Turcano, primo anno di vita; i “gesti”
degli action painters, secondo anno di vita; le “astrazioni” di Nicholson,
terzo anno di vita; le figure che “fluttuano nel vuoto” di Chagall, quarto
anno di vita; il quinto ci porterebbe a Klee e Mirò; il realismo intellettuale,
infine, stadio emblematico per Luquet del disegno infantile, al cubismo. I
più cauti parlano di analogie; sebbene non manchi chi postula vere e
proprie
omologie
che,
rimandando
ad
un’identità
di
strutture
psicologiche, non possono non interessare la psicologia […].
La concezione che vuole il bambino capace di fare e fruire arte,
sviluppatasi alla fine del secolo scorso arriva fino ai nostri giorni […].
Sarebbe necessario che arte infantile e disegno infantile fossero nella
letteratura concetti ben differenziati, mentre il sospetto è proprio che la
nozione di disegno infantile sia ricalcata su quella di arte infantile. Vero è
che in buona parte della letteratura più recente compare l’esplicita
negazione dell’arte infantile. Ma affermare che il disegno infantile non è
arte, e continuare poi ad usare il corredo di formule linguistiche e
concettuali che tradizionalmente hanno accompagnato la riflessione
sull’arte, se è spia della difficoltà che oggi pone la soluzione elaborata
nel passato, non da luogo purtroppo ad una riformulazione teorica, né
tantomeno ad una diversa impostazione delle pratiche del disegno.
Sicché, nonostante le dichiarazioni contrarie, parrebbe che la nozione di
256
arte, sia pure inavvertitamente, continui ad essere esplicativa dell’intera
produzione disegnativa del bambino. In breve, l’ipotesi che si avanza è
che arte infantile e disegno infantile siano locuzioni intercambiabili
poiché i referenti teorici, più o meno espliciti per la prima e impliciti per il
secondo, son gli stessi: quelli cioè elaborati per la classe di oggetti
culturalmente chiamati opere d’arte. (Pizzo Russo, 1988, pp. 48, 61-62).
Sembra difficile osservare alcune grafiche dei bambini e resistere
alla tentazione di leggerle come “forme di arte astratta”.
L’espressione “arte infantile”, di per sé già una combinazione
terminologica, si diffonde a partire dalla metà dell’Ottocento dopo che
una serie di processi culturali si sono sedimentati e affermati: una
diversa concezione del bambino e dell’infanzia da una parte, una
concezione romantica dell’arte e dell’artista dall’altra, tale da
congegnarsi idealmente alla nuova immagine dell’infanzia. Durante il
Romanticismo il modello della didattica artistica è individuato nella
promozione della “spontaneità creatrice”, mentre l’infanzia, teorizzata
già a partire da Jean-Jacques Rousseau al di fuori della società e
delle sue norme, è disponibile a configurarsi come modello
naturale/ideale e “stilistico”.
Quando si è cominciato a parlare di arte infantile, l’artista era già
intuitivo-irrazionale
dall’occhio
vergine-autoespressivo-ossessionato-
sensitivo; tutto fuorché razionale. Era uno stereotipo; ma decisamente di
segno opposto a quello che si era formato durante il Rinascimento
quando Michelangelo sosteneva di dipingere con il cervello, Leonardo
fondava la propria pratica sulla scienza, e, in generale, l’artista era
portatore di un ordine razionale. Aveva comunque molte assonanze con
l’immagine rousseauiana del fanciullo che stava divenendo corrente.
Rousseau, del resto, come è stato fondamentale per la nuova
concezione dell’infanzia, non di meno ha contribuito alla nuova
concezione dell’arte. Si pensi solo all’artista bohémien, “nuovo ideale
umano” contrapposto, idealmente al bourgeois. Fanciullo e artista
257
potevano gravitare nella stessa orbita perché la loro condizione umana
veniva descritta pressappoco negli stessi termini198.
Così mentre l’artista romantico inizia la sua lotta contro la tradizione
e le convenzioni, esalta contemporaneamente tutti coloro che non
sono portatori di questi valori: il bambino e il “primitivo”.
Quando si predica l’antintellettualismo, bisogna trovare qualche
condizione umana in cui ci siano felicità e benessere senza il dono della
ragione, a meno che ci si appaghi della disperazione. Si può respingere
il sapere a vantaggio dell’intuizione, della visione mistica, dell’istinto, o
persino del fugace piacere sensibile, ma è difficile costruire una filosofia
della vita senza indicare un essere umano che ne sia l’esemplificazione.
(Boas, 1966, pp. 10-11).
Dietro alla passione per “l’arte primitiva”199 e “l’arte infantile” la
ricerca e la nostalgia per “ciò che si è stati”. Negli ambienti
intellettuali e artistici si accumulano reperti archeologici (sono di
questo periodo le scoperte delle grotte del paleolitico), bottini
198
Ibidem, p. 27. Nell’economia dell’argomentazione che si sta portando avanti
vorremmo segnalare a proposito il saggio di Lévi-Strauss (1962) Jean-Jacques
Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo. Lévi-Strauss riconosce un ruolo
profetico a Rousseau come fondatore dell’etnologia affermando «senza tema di
smentita […] che, quell’etnologia che ancora non esisteva egli l’aveva, un secolo
prima che facesse la sua comparsa, concepita, voluta, preannunciata, ponendola
di colpo al suo rango fra le scienze naturali e umane già costituite; e, persino, che
egli aveva indovinato in quale forma pratica – grazie al mecenatismo individuale o
collettivo – le si sarebbe consentito fare i primi passi»; ma anche per ciò che gli si
deve in tema del mito del “primitivo”. Sebbene non gli si possa attribuire «la
glorificazione dello stato di natura – dove si può vedere l’errore di Diderot ma non il
suo» (Ibidem, p. 378).
199
Secondo Layton ci si è spesso avvicinati alle culture “altre” negando loro la
storia, ossia una dimensione di sviluppo “temporale”. Il sospetto che «ben lontano
dall’essere “fossili viventi”, le tradizioni artistiche contemporanee delle società
diverse dalla nostra mostrino una grande differenza di forma rispetto alle loro
origini» è piuttosto recente. L’autore preferisce sostituire il termine “arte primitiva”
con “antropologia dell’arte”, sostenendo che il primo può essere usato «solo come
una di quelle figure retoriche che utilizzano gli opposti per trarne un effetto
drammatico». Ogni comunità dotata di una tradizione di espressione artistica
possiede una cultura, in un certo senso, raffinata» (Layton, 1981, rispettivamente
pp. 11 e 12).
258
etnografici (un’etnografia impegnata nella ricerca della comprensione
della “storia dell’umanità”, la nostra), e prodotti infantili200.
L’ambito scientifico elabora un potente strumento di spiegazione di
tutti questi fenomeni: la legge della ricapitolazione genetica di Ernest
Haeckel. Cresce così l’importanza attribuita allo sviluppo psicologico
del bambino, termine di paragone, confronto e verifica delle
sequenze storiche ricostruite dall’etnologia e dall’archeologia201.
Interesse, quindi, per il primitivo. E che le prospettive siano diverse –
evoluzionistica quella scientifica e romantica quella artistica – non
indebolisce per nulla, anzi, la focalizzazione incrociata sull’oggetto,
moltiplica l’interesse stesso. Si può così parlare di dominante
primativistica per ciò che dopo Snow si è soliti chiamare le due culture,
fermo restando, in quel preciso contesto storico, il differente accento
valutativo: quanto costituiva progresso per gli uni, era regresso per gli
altri. (Pizzo Russo, 1988, p. 31).
200
E’ a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che si assiste ad un’esplosione
sincrona dell’interesse per ogni forma d’arte non convenzionale. Oltre alle forme
“artistiche” di bambini e “primitivi”, matura in questo stesso periodo l’interesse per
l’arte psicopatologica.
«Per arte psicopatologica bisogna considerare, da un lato, la concezione della
malattia mentale come regressione a stadi “primitivi”; dall’altro, il binomio artefollia. Tale binomio, come è noto, si trova già esplicitamente formulato fin dalle
origini della civiltà occidentale. La rinascita del platonismo durante il Rinascimento
portò alla ribalta la nozione classica della divina follia del poeta. Nella seconda
metà del XVI secolo tale nozione venne estesa alle arti visive. Nel XIX la nozione,
perduta l’aura sacrale – Genio e Follia del Lambroso è del 1864 - divenne un
contrassegno fondamentale dell’artista» (Pizzo Russo, 1988, p. 54).
201
Nel secolo XIX oltre alla premessa fondamentale secondo cui le differenze
culturali implicano differenze cognitive ebbero larga diffusione altre due ipotesi. La
prima era la credenza universale che la società evolvesse e contemporaneamente
progredisse verso una condizione culturalmente e tecnologicamente simile a quella
dell’Occidente. La seconda ipotesi era il concetto biologico secondo cui gli
organismi giovani “ricapitolano” la storia anatomica della loro specie durante lo
sviluppo embrionale, un’idea questa che rafforzava la tesi evoluzionista.
«Questa dottrina ebbe una grande diffusione tanto in psicologia che in
antropologia, e solitamente viene riassunta nell’aforisma di E. Haeckel:
“l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”. Ad alcuni antropologi che guardavano con
interesse alla dottrina evoluzionista queste due ipotesi suggerirono l’idea che gli
adulti primitivi rappresentino una forma precoce degli adulti delle società avanzate;
il bambino europeo rappresenterebbe a sua volta una forma precoce dell’adulto
europeo. Pertanto, in base a questo ragionamento, l’adulto primitivo è un
equivalente del bambino civilizzato» (Cole, Gay, Glick, Sharp, 1971, p. 25).
259
L’arte dei bambini di Corrado Ricci, intellettuale e critico d’arte, viene
pubblicato nel 1887; il volume rappresenta il clima epocale, piuttosto
che l’idea espressa nel titolo dall’autore: per Ricci i bambini «non
riproducono artisticamente un oggetto, ma lo descrivono […]. L’arte
come arte è loro sconosciuta» (Ricci, 1887, p. 67); pur tuttavia
l’intenzione del libro è quella di «studiare come il senso dell’arte
nasca e si sviluppi nei bambini» (ibidem, p. 9). Sebbene Ricci, nella
sua analisi delle produzioni infantili, «primitive» e medioevali ravvisi
profonde differenze, dovute alla «mancanza» che caratterizza l’arte
dei bambini, rimane legato all’idea di poter scoprire l’artista a partire
dal «talento» precocemente ravvisabile nelle primissime produzioni.
La sua definizione di disegno come «descrizione» è servita inoltre da
sfondo all’interpretazione intellettuale analizzata nel paragrafo
precedente secondo la quale “il bambino disegna ciò che sa, e non
ciò che vede”.
Formula, questa, che si trascinerà stancamente fino ai nostri giorni con
significati non sempre sovrapponibili. In linea di massima parrebbe
un’implicita negazione dell’arte infantile, non foss’altro che per la
dicotomia tra percezione e conoscenza sovrasensibile che ha
attraversato la storia del pensiero. Su tale dicotomia, in un certo senso,
si fonderà la contrapposizione moderna arte/scienza che dal XVII secolo
in poi si è andata sempre più affermando. (Pizzo Russo, 1988, p. 33).
Tale affermazione porterà anche a quello stereotipo dell’artista che
ha creato il mito del bambino artista e alla nascita dell’”arte
concettuale”.
«Il bambino disegna ciò che sa e non ciò che vede» diventa la
formula preferita dagli psicologi in un momento in cui le ricerche sulla
percezione non erano ancora in grado di rendere conto della
particolare configurazione del percetto; tuttavia anche quando la
Gestalttheorie dimostrerà che il percetto non è copia fotografica della
260
realtà, verranno elaborati nuovi presupposti teorici per dare ai disegni
dei bambini una diversa “esteticità” mentre il modello evoluzionistico
che va dal realismo intellettuale a quello visivo sarà, come abbiamo
visto, abbandonato.
L’arte moderna contribuì inoltre a rendere il quadro più complesso.
All’inizio del secolo molti artisti appartenenti o simpatizzanti dei
movimenti d’avanguardia, iniziarono a prendere molto seriamente le
produzioni artistiche dei bambini, non ancora “contaminate” dalla
cultura occidentale e dalle pretese accademiche radicate nel
naturalismo visivo. In momenti diversi della loro vita, artisti quali Léon
Bakst, Marc Chagall, André Derain, Raoul Dufy, Vasilij Kandinskij,
Ernest Ludwig Kirchner, Paul Klee, Mikhail Larionov, Lionel
Feininger, Johannes Itten, André Masson, Joan Mirò e Gabriele
Münter ne apprezzarono la profonda non convenzionalità, la
semplicità delle forme, l’essenzialità dello stile.
Gli artisti attribuirono valore soprattutto alla spontaneità e alla libertà
dalle convenzioni che caratterizzano l’arte infantile. Desiderosi di
rappresentare pensieri e sentimenti in modo semplice e diretto, videro
nell’arte dei bambini l’espressione di una visione artistica incontaminata,
veicolo di una verità interiore che risuonava in loro. Nel loro entusiasmo
per l’arte infantile, dotarono il bambino di una mente curiosa, di una
percezione superiore della realtà e di una ricca immaginazione capace
di afferrare i misteri della natura e vedere le cose come sono realmente,
senza pregiudizi. Questa nozione di una “visione originale” potrebbe
riferirsi agli stimoli luminosi proiettati sulla retina o, metaforicamente, alla
freschezza di vedere le cose per la prima volta. Implicita in questa idea è
la convinzione che acquisire conoscenza e abilità interferisca con questo
stato della mente primario e intuitivo. (Golomb, 2002, p. 124).
Anche
quando
l’interesse
degli
psicologi
è
dichiaratamente
svincolato dall’artisticità delle produzioni grafiche e rivolto allo studio
del bambino che disegna allo scopo di analizzarne aspetti diversi
261
dello sviluppo, l’analogia istituita tra bambino e artista continua a
regolare, più o meno inconsapevolmente, la ricerca e le applicazioni
pedagogiche.
Gli usi presuppongono l’interdipendenza, come esplicitamente dichiara
Kramer, tra stile, sviluppo e personalità. Interdipendenza postulata per
l’arte, o, più precisamente, solo per la pittura e non per le altre arti, e
meno che mai per gli altri prodotti culturali. La terapia con l’arte, ma
anche l’educazione con l’arte, alla quale, di fatto, nessuno educa, data la
diffusa convinzione che ogni intervento educativo disturberebbe lo
spontaneo processo creativo del bambino, si giustificano nello spazio
teorico dell’arte. (Pizzo Russo, 1988, p. 63).
Orientamento psicodinamico e psicometrico elaborano, a partire dai
rispettivi campi d’indagine, spiegazioni diverse del disegno. Così se il
primo utilizza il disegno per indagare la dimensione affettiva del
bambino, perché “il bambino, non disegna ciò che vede o ciò che sa,
ma ciò che è importante per lui positivamente o negativamente”, il
secondo indaga lo sviluppo cognitivo perché “il bambino disegna ciò
che sa” (Quaglia, 2003).
Nonostante le diverse angolazioni, e ne potremmo citare altre, su
una cosa tutti gli autori sembrano concordare, e cioè che, come
abbiamo visto nel paragrafo precedente, nella fase della pubertà, la
produzione grafica si esaurisca. Disegno e gioco simbolico
sembrerebbero condividere l’appartenenza al mondo dell’infanzia e
non a quello adulto. Si parla infatti di disegno infantile, o di arte
infantile laddove l’aggettivo infantile descrive la tipica modalità
grafica che caratterizza il bambino dai 3 agli 8/10 anni.
Si è andata nel tempo instaurando una tendenza di fondo, sottesa agli
studi psicologici sul disegno, per cui si è nei fatti preferito di far
riferimento quasi esclusivo ai disegni infantili, assegnando in linea di
massima le produzioni adulte ad altre discipline. Questo atteggiamento
262
fa sì che, quando si parla di disegno in psicologia, si parli soprattutto di
età evolutiva. (Perussia, 1979, pp. 17-18).
A questo si aggiunga che, data l’importanza attribuita nel tempo a
questa attività “spontanea” il fatto che venga abbandonata, è
interpretato per lo più come grave perdita di creatività, capacità
immaginative ed espressive. Sostenere che con l’adolescenza il
bambino
smetta
di
disegnare
significa
contemporaneamente
sostenere, e si è fatto, che l’adulto, a meno che non faccia un lavoro
che lo preveda, o che non sia un artista, non disegni più202.
D’altra parte, se è vero che sono stati proprio i disegni degli adulti a
fornire la categoria di riferimento per l’analisi di quelli infantili, e che
le tecniche diagnostiche e terapeutiche per gli adulti, incentrate sul
disegno, prevedono che questo disegni, è altrettanto vero che in
determinate circostanze anche l’adulto riempie “spontaneamente” di
disegni, scarabocchi, asterischi… il foglio che ha davanti. Sappiamo
anche che i comportamenti “spontanei” sono spesso comportamenti
culturalmente regolati e che se al bambino non è data la possibilità di
disegnare, non lo farà (Quaglia, 2003).
Ora, a meno che di non considerare ogni intervento grafico arte, è
giocoforza riconoscere che il disegno non è prerogativa solo del
bambino e dell’artista, ma anche di quell’adulto non artista che pure
disegna (Pizzo Russo, 1988, p. 72).
L’affermazione che l’adulto non disegni è smentita nella realtà dai
comportamenti
e
nell’attuale
organizzazione
delle
pratiche
203
culturali
202
.
«L’adulto, se non è un artista, non disegna» (Osterrieth,1973, p. 7).
203
È vero che alla richiesta di disegnare adulto e bambino rispondono
diversamente: solitamente il bambino, più è piccolo, più risponde positivamente, al
contrario dell’adulto che è spesso più restio o per niente entusiasta. Questo
diverso comportamento, può indurre a ritenere più “spontaneo” disegnare per il
bambino che non l’adulto, ma sicuramente non costituisce una prova del fatto che
le cose vadano realmente così. Inoltre, chi lavora con i bambini sa benissimo che
263
Ci sembra piuttosto che la psicologia e il senso comune abbiano
optato una scelta di campo specifica, peraltro piuttosto arbitraria e
non sempre consapevole, che ha, in un certo senso, negato la
pluridirezionalità dell’evoluzione del disegno, e lasciato sullo sfondo
altre tipologie di espressione grafica, come ad esempio il disegno
geometrico o tecnico: una messa tra parentesi della parte non
artistica della produzione adulta.
Anche quando si sostiene che il disegno del bambino non sia arte, si
continua ad avere come termine di paragone solo il disegno artistico
adulto come modello e non altre sue modalità di espressione grafica.
Questo è confermato dalla differenza di valore attribuita ai diversi
stadi nell’evoluzione disegnativa. Abbiamo visto che nella letteratura,
lo stadio più apprezzato e studiato è quello dello schema figurativo
(con rare eccezioni) sia per quegli autori interessati all’estetica dei
disegni dei bambini, che per coloro che si sono occupati delle
strutture
cognitive
soggiacenti
quelle
produzioni.
Tale
fase,
variamente denominata dagli studiosi, è quella che va pressappoco
dai 3 agli 8 anni, ed è quella per la quale i confronti con l’arte
contemporanea sono ricorrenti. Sappiamo anche che, a lungo, lo
stadio dello scarabocchio non ha suscitato particolare interesse,
perché ritenuto “non-artistico”, per lo meno fino all’avvento dell’arte
contemporanea.
Tuttavia la similarità tra i sistemi di rappresentazione dell’artista e
schemi di rappresentazione del disegno infantile non dovrebbe
riguardare solo l’arte contemporanea e l’arte primitiva. A ben ragionare,
se gli schemi rappresentativi dello stadio del realismo logico stanno ai
sistemi rappresentativi dell’arte simil-infantile, allo stesso modo, gli
schemi rappresentativi del realismo visivo dovrebbero stare ai sistemi di
rappresentazione dell’arte classica. Sennonché i disegni dei bambini più
piccoli vengono considerati arte e quelli dei bambini più grandi, no; in
alla richiesta di disegnare non tutti i bambini rispondono in modo “entusiasmante” e
ad alcuni l’attività grafica è nient’affatto o poco gradita.
264
altre parole, un sistema di rappresentazione funziona come criterio
artistico legittimamente, l’altro no. (Pizzo Russo, 1988, p. 74).
Ancora, se l’arte è la direzione ideale verso la quale l’evoluzione del
disegno dovrebbe tendere è altrettanto vero che ribaltamento,
trasparenza, rappresentazione di elementi non visibili (elementi che
caratterizzano il disegno infantile) sono presenti anche nel disegno
tecnico-scientifico.
Ci sembra che il mantenimento della metafora del “bambino artista”
abbia impedito alla letteratura sul disegno di indagare in modo
sistematico l’elaborazione di tali procedimenti, come se il valore del
disegno
non
dipendesse
dall’osservazione
di
regole,
ma
dall’originalità o dal “talento” del suo creatore.
Infine, nella concezione del disegno come “linguaggio affettivo” vi è
un uso quasi sinonimico dei termini “creativo”, “espressivo” e
“proiettivo”, che, ancora una volta, assimilano il disegno al disegno
artistico che annovera, tra le sue funzioni, quella di esprimere
sentimenti.
Se proiettivo è parola chiave della psicologia dinamica, e creativo lo è
della concezione moderna dell’arte, espressivo lo è di entrambi. L’arte
come espressione è del resto all’origine della cultura occidentale […]. La
convinzione che attraverso il disegno, attività ritenuta creativa, il
bambino esprima i propri sentimenti non è solo degli psicologi che
aderiscono al paradigma psicanalitico o ad un’altra qualsiasi teoria
“dinamica”, ma anche per gli psicologi lontani, per assunti teorici e
metodologici usati, da tale impostazione. (Ibidem, pp. 93-95).
Secondo la psicologia il disegno ci racconta il Bambino. Esso non è
un significante che rappresenta e rimanda ad un significato, quanto
piuttosto un significante che rimanda ad un soggetto e diventa
sostituto di processi di pensiero o di aspetti del suo io profondo e
della sua affettività (Pizzo Russo, 1988).
265
3.2
La psicologia scientifica e i test psicometrici
Mentre all’inizio del secolo scorso artisti e intellettuali apprezzavano
esplicitamente l’arte infantile, per la “purezza”204, lo stile e per
l’intelligenza di quegli equivalenti essenziali che fluttuavano nello
spazio grafico-pittorico [figure 99 e 100, p. 61], un numero
consistente di psicologi iniziarono a considerare alcune delle sue
caratteristiche (come l’omissione di parti o la loro collocazione
“sbagliata”, le trasparenze, i ribaltamenti, l’indifferenza per le
dimensioni e le proporzioni tra oggetti all’interno della stessa
composizione, la natura schematica delle raffigurazioni, che violano
le “regole del realismo”) come manifestazioni tipiche di una mente
immatura, ancora confusa, e concettualmente “carente”.
La concezione secondo cui il “primitivismo” corrisponde a una fase
che il bambino supererà “maturando”, era piuttosto diffusa all’inizio
del’900, ed era riscontrabile in ambiti disciplinari diversi, dalla
psicologia dello sviluppo all’antropologia. Questa concezione era
anche coerente con le teorie di quegli storici d’arte che vedevano nel
realismo (o naturalismo) la più raffinata forma artistica che una
cultura può raggiungere e, all’opposto, con coloro che, artisti e critici,
vedevano la fine dell’arte infantile causata dall’azione repressiva
della nostra cultura.
A partire dagli anni Venti la psicologia scientifica si impegnò
attivamente nello studio del disegno dei bambini: partendo dal
presupposto che il bambino “disegna quello che sa” e che le
204
«Il bambino ignora il senso pratico, poiché guarda ogni cosa con occhi nuovi e
possiede ancora la capacità di percepire la cosa come tale. Il senso pratico lo
apprende solo più tardi, lentamente, e passando attraverso numerose esperienze
spesso tristi…. Gli adulti si impegnano a inculcare nel bambino questo senso
pratico, e le critiche al disegno muovono da questo piatto punto di partenza: “Il tuo
uomo non può camminare perché ha una gamba sola”; “Sulla tua sedia non puoi
mica sederti, perché è tutta storta”. E così via. Il bambino ride di sé, mentre invece
dovrebbe piangere» (Kandinskij, cit. in, Giani Gallino, 2008, p. 60).
266
produzioni grafiche sono una sorta di “copia” di processi cognitivi in
corso, vennero elaborati test grafici allo scopo di misurare il “livello di
sviluppo” di tali processi.
La psicologia scientifica inserì il disegno all’interno di un quadro
comportamentale tipico dell’essere umano, e la sequenza e
l’organizzazione dei cambiamenti che in esso si verificano furono
ispirati
soprattutto
a
principi
organizzativi
intrinseci
di
tipo
“maturativo”.
A titolo esemplificativo prenderemo in considerazione i modelli
sviluppati da due importanti psicologi: Florence Goodenought (1926)
e Dale Harris (1963) che, trent’anni dopo, ristandardizzò ed estese il
test elaborato dalla Goodenought. L’eco di tali strumenti e la
metodologia utilizzata ebbe una grande influenza sulla ricerca loro
contemporanea, nei decenni successivi e, in alcuni contesti, tutt’oggi.
Come altri psicologi a loro contemporanei, essi utilizzarono il disegno
come strumento per misurare “intelligenza”205 e grado di sviluppo
mentale dei bambini in relazione agli stadi evolutivi. Le loro analisi
consistevano nella rilevazione della presenza o dell’assenza di una
serie codificata di elementi206 nei disegni stessi.
In genere questi test (anche detti “test carta e matita”) non venivano
usati da soli ma inseriti in una batteria di altri test e scale. Del resto,
anche nella Scala di Binet e Simon era già prevista una prova di
disegno, ma solo di tipo geometrico: si proponeva al bambino di cinque
205
Questi psicologi considerano l’intelligenza un’abilità intellettuale innata
generale. «E’ ereditaria, o quantomeno innata, non dovuta ad un insegnamento o a
un addestramento; è intellettuale, non emotiva o morale, e non soggetta
all’influenza dell’operosità e dell’entusiasmo; è generale, non specifica, ad esempio
non è limitata ad un particolare tipo di lavoro, ma partecipa a tutto ciò che
facciamo, diciamo e pensiamo. Di tutte le nostre qualità mentali, è quella che ha la
portata più vasta» (Burt, cit. in, Cole, 1996, p. 60).
206
«E’ singolare che Piaget, la cui teoria dello sviluppo infantile avrebbe avuto un
profondo impatto nella psicologia evolutiva, abbia iniziato la sua carriera lavorando
ai test di intelligenza nel laboratorio di Binet. Piaget non si accontentava di
registrare il numero delle risposte sbagliate ai test di intelligenza, ma mirava a
comprendere le basi delle diverse concezioni dei fenomeni da parte dei bambini
nei vari stadi di sviluppo mentale» (Rogoff, 2003, p. 165).
267
anni di copiare un quadrato e a quello di sei un rombo, mentre a dieci
anni si doveva produrre un prisma e una “greca”, ma a memoria. Ben
presto furono poi inventati e validati da parte di numerosi psicologi una
quantità di test di disegno, geometrico e figurativo, tutti con l’obiettivo di
misurare lo sviluppo mentale. (Giani Gallino, 2008, p. 40).
Il più conosciuto e ancor oggi usato è il test della Goodenought detto
D-A-M (“Draw a man ”207 dal nome della consegna che veniva data al
bambino) e la sua autrice riteneva che fosse valido per bambini e
ragazzi di età compresa tra i tre e i dodici anni208.
Secondo la Goodenought
la frequenza con cui ogni caratteristica data tende ad apparire è una
funzione dell’estensione con cui è stata integrata nel concetto in
evoluzione e una misura del peso che dovrebbe esserle attribuito come
indice di sviluppo concettuale. (Cit. in, Quaglia, 2003, p. 84).
Il test, pubblicato per la prima volta nel 1926, aveva come obiettivo la
misurazione “dell’intelligenza” del bambino intesa come capacità di
“elaborare concetti”. Il disegno come riproduzione di “un’immagine
mentale interiorizzata” era considerato un’elaborazione cognitiva, e
quindi, espressione delle conoscenze del bambino.
207
La scelta del disegno di un uomo si giustifica con il fatto che è la prima figura
con cui i bambini si cimentano ed è loro assai familiare; la sua evoluzione sembra
inoltre essere abbastanza regolare e complessa per indicare significative
differenze tra i disegnatori.
208
«Data la sua versatilità, il test è stato sperimentato e validato poi da
numerosissimi ricercatori in tutto il mondo con molte varianti, anche con ragazzi di
fascia d’età superiori, oppure con adulti, e con adulti e bambini ritardati, e spesso
comparato con altre scale per il controllo intellettivo. Anche in Francia, più tardi, il
test aveva avuto un’ampia diffusione con il nome di Test du Bonhomme. In Italia la
pubblicazione completa del manuale è apparsa solo negli anni’70, nonostante il
fatto che il test fosse da tempo utilizzato. A livello internazionale il test è stato
utilizzato da più autori non solo come strumento psicometrico, ma anche per
studiare la personalità dei soggetti, in considerazione del fatto che alcuni dettagli
dei disegni erano considerati particolarmente significativi» (Giani Gallino, 2008, p.
43).
268
Avvalendosi di un campione di tremilaseicento disegni di bambini di
età compresa tra i tre e i dodici anni, la Goodenought209 elencò i
cinquantun elementi grafici che sarebbero dovuti apparire nella
rappresentazione della figura umana, assegnando un punto per
ciascun elemento: la presenza della testa, della bocca, del collo,
delle braccia e delle gambe, le loro proporzioni, i vestiti e così via. La
somma di tutti gli elementi, in base all’età, consente di ottenere una
stima dello sviluppo del disegno, che viene messo in relazione allo
sviluppo mentale dei bambini.
Dale B. Harris (1963) ha riproposto il test della Goodenought210.
Quest’autore considera lo sviluppo dei disegni da un punto di vista
strettamente cognitivo e assume la prospettiva come modello per la
valutazione dei disegni.
209
«Negli stessi anni in cui la Goodenought operava negli Stati Uniti, in Francia
H.M. Fay (1923, 1934) elaborava la sua scala per misurare lo sviluppo intellettuale
con riferimento alle capacità grafiche. L’istruzione è “disegna una donna che
passeggia mentre piove”. La scala dei punteggi è stata calcolata in seguito alla
somministrazione dei disegni a seimila bambini tra i sei e i quattordici anni. La
valutazione avviene in base agli elementi espressi nel disegno e, precisamente, in
base alle cinque idee contenute nell’istruzione. La donna; l’atto di passeggiare; il
paesaggio nel quale passeggia; la pioggia; l’atto di ripararsi dalla pioggia. Ognuno
di questi elementi è disegnato con un certo numero di particolari, che determinano
la valutazione che può andare da 0 punti a 2 punti» (Ibidem, p. 86).
210
«Otre a questo test (validato per l’Italia da Polacek e Carli nel 1976), sono molto
usati nel nostro paese anche quelli che richiedono di disegnare “una donna che
passeggia sotto alla pioggia” (H. M. Fay revisione italiana di Falorni 1959), e il test
di differenziazione dello schema corporeo proposto da Witkin (1963), che – a
differenza delle prove precedenti – si può somministrare collettivamente e porta
giudizi sul grado di differenziazione cognitiva o dipendenza/indipendenza dal
campo. Tutti questi test non vanno confusi con quelli che utilizzano la
rappresentazione di figure umane come indici dell’adattamento emotivo-affettivo.
Facili da somministrare per il gradimento che incontrano da parte dei bambini
(anche se non sempre facili da interpretare), i test pittorici sono assai usati dagli
psicologi e, a nostro avviso piuttosto impropriamente, anche dagli insegnanti e
perfino da qualche genitore. E’ invece importante ricordare che, nonostante
l’apparente inoffensività, gli strumenti psicodiagnostici possono sempre attivare
dinamiche psicologiche, intrapsichiche e interpersonali che richiedono la specifica
professionalità di uno psicologo competente per essere correttamente governate.
Questi test prendono in considerazione solo il prodotto pittorico, senza tener conto
dei numerosi fattori che possono incidere durante la progettazione e l’esecuzione:
risultano infatti di scarsa tenuta quando si confrontano esecuzioni ripetute» (Pinto Bombi, 1999, p. 122).
269
L’analisi di una corretta riproduzione dei rapporti diviene così misura
dello sviluppo concettuale dei bambini. Ne consegue che l’incapacità dei
bambini di ottenere una proiezione prospettica visivamente corretta
sarebbe da riferirsi ad una loro sostanziale immaturità intellettiva.
(Quaglia, 2003, p. 87).
Nel test, denominato anch’esso D-A-M o test di Harris-Goodenought,
si chiede al bambino di disegnare la figura di un uomo, di una donna
(entrambi raffigurati per intero) e del Self
211
su tre fogli diversi.
Durante l’esecuzione viene cronometrato il tempo di esecuzione e
non è consentito al bambino l’uso della gomma per cancellare.
In questo test vi è un maggior numero di item di controllo: da
cinquantuno (modello originario) a settantatre per la figura maschile
e settantuno per quella femminile.
Il test della Goodenought non è stato esente da critiche, soprattutto
in relazione alle sue modalità e impostazioni.
Scrive a proposito Arnheim:
un tentativo di stabilire un rapporto tra intelligenza e abilità nel disegnare
è stato fatto da Florence Goodenought, sulla base di criteri alquanto
meccanici di realismo e compiutezza dei dettagli. Varrebbe la pena di
seguire questo filo conduttore usando invece criteri strutturali per la
valutazione dei disegni e un metodo più adeguato di quello fornito dai
reattivi per il quoziente d’intelligenza per determinare il grado di maturità
globale. (Arnheim, 1954, p. 159).
Arnheim osteggiava non solo il test della Goodenought ma tutte le
pratiche psicometriche in generale, né credeva nell’esistenza di un
rapporto rigido tra l’età del bambino e l’evoluzione dei suoi disegni.
Egli sostiene che i bambini disegnano “ciò che vedono” e critica la
teoria intellettuale con argomenti psicologici:
211
In Italia il test è stato denominato “Test della Figura Umana” e non sempre è
prevista la raffigurazione del Self.
270
la teoria intellettualistica sembra essere stata suggerita dal prodotto
pittorico, il disegno infantile, piuttosto che da quanto si conosce circa la
mente infantile. In realtà una concezione secondo la quale i bambini
creano immagini di cose visibili per mezzo di concetti intellettivi è in
contrasto stridente con l’osservazione generale che, ai primi stadi dello
sviluppo umano, la vita mentale si lega in modo estremamente diretto
alle esperienze percettive. (Arnheim, 1966, p. 414.)
Tuttavia il punto di vista di Arnheim difficilmente viene considerato e
il disegno, visto come indicatore dello sviluppo cognitivo, continua a
promuovere ricerche volte a misurare lo sviluppo intellettuale del
bambino212. I mutamenti che col tempo pervengono a livello delle
strutture formali, il progressivo aumento dei dettagli, le proporzioni e
le articolazioni delle figure sempre più marcate in senso realistico,
continuano ad essere lette e a suggerire una visione stadiale del
disegno, e a giustificare ipotesi di connessione tra disegno e processi
intellettivi.
Probabilmente la teoria intellettualistica deve la propria origine e la
propria durevolezza al fatto che finché la percezione viene considerata
una registrazione “fotografica” puramente passiva dell’immagine retinica,
è possibile spiegare le deviazioni sorprendenti rispetto a quell’immagine
soltanto
attraverso
l’intervento
di
processi
più
alti,
quali
la
concettualizzazione intellettiva (Arnheim, 1966, p. 40).
Un’influenza importante sullo studio del disegno come indice della
maturità concettuale o mentale del bambino viene sostenuta, come
212
«Inoltre, i bambini non disegnano, dipingono e modellano soltanto per le ragioni
che ci interessano qui in modo particolare. Amano esercitarsi, allenare i muscoli,
ritmicamente o disordinatamente; amano veder apparire qualcosa dove prima non
c’era nulla, specialmente se questo qualcosa stimola i sensi col colore forte o con
una massa di forme; amano pure toccare, appiccicare, distruggere. Imitano ciò che
vedano altrove. Tutto ciò lascia le proprie tracce e impedisce al quadro di un
bambino di costituire sempre una registrazione del suo pensiero» (Arnheim, 1969,
pp. 300-301).
271
abbiamo avuto modo di vedere, anche da Piaget che postula una
stretta corrispondenza tra i disegni dei bambini e il ragionamento
spaziale-matematico (Piaget 1923, 1924, 1926, 1945; Piaget Inhelder, 1948, 1966).
Piaget era convinto che il modo migliore per descrivere la vita mentale
fosse in termini di stadi evolutivi qualitativamente differenti. In una prima
fase dello sviluppo, il bambino usa dei simboli che mancano della
differenziazione e producono una comprensione distorta del sé e degli
altri. La vita mentale del bambino è dominata dall’egocentrismo
cognitivo, vale a dire dall’incapacità di tenere in considerazione
prospettive diverse che, secondo Piaget, è una caratteristica del
pensiero prelogico e dei suoi limiti concettuali. (Golomb, 2002, p. 10).
Ricordiamo che egli interpretò la teoria di Luquet come coincidente
con la propria teoria stadiale e i vari tipi di “realismo” attraversati dal
bambino nello sviluppo grafico furono in essa trasposti 213.
Sappiamo che la concezione globale che Piaget elabora dello
sviluppo cognitivo è quella di una progressione stabile verso una
specifica meta: nel pensiero quel traguardo è il ragionamento logicomatematico; nelle arti visive è il realismo ottico.
Per Piaget «il disegno è una rappresentazione, ossia presuppone la
costruzione di un’immagine ben diversa dalla percezione stessa»
(Piaget – Inhelder, 1948, p. 51); costruzione che non consiste in una
semplice “estrazione” dei caratteri morfologici dell’oggetto:
213
In verità Luquet non menziona mai nessuna età precisa, da collegarsi a
differenti fasi di realismo: l’unica indicazione, neppure questa rigorosa, è quella
secondo cui il realismo visivo si realizza quasi sempre verso gli otto o nove anni.
Piuttosto Luquet introduce questo o quel disegno di un bambino di una determinata
età, mentre parla di una certa fase, ma al tempo stesso rimanda anche di continuo
ad altri bambini e ad altri disegni che a loro volta erano stati indicati come tipici di
fasi precedenti o seguenti, e per ognuno invita a osservare varie caratteristiche
precise (giustapposizioni, trasparenze, ribaltamenti, oggetti tangenti), che possono
comparire in età differenti, precoci ma talvolta anche tardive (Luquet, 1927).
272
la ricostruzione delle forme non consiste semplicemente nell’isolare
delle qualità percettive, né a fortiori nel trarre senz’altro queste forme
dall’oggetto, ma […] essa si basa su un rapporto attivo e, di
conseguenza, implica un’astrazione a partire dalle azioni stesse del
soggetto, e dalle loro coordinazioni successive. (Golomb, 2002, p. 83).
È per questo motivo che “il bambino disegna ciò che sa e non ciò
che vede”:
nei suoi celebri studi sul disegno infantile, Luquet ha proposto degli stadi
e delle interpretazioni tutt’oggi ancora validi. Prima di lui, gli autori
sostenevano due opinioni contrarie: gli uni ammettevano che i primi
disegni infantili sono essenzialmente realisti, poiché si attengono fino a
tardi a dei modelli effettivi senza disegni di immaginazione, gli altri
insistevano al contrario sull’idealizzazione di cui testimoniano i disegni
primitivi. Luquet sembra aver troncato definitivamente il dibattito
mostrando che il disegno del bambino fin verso gli 8-9 anni è
essenzialmente realista nell’intenzione ma che il soggetto comincia col
disegnare ciò che sa d’un personaggio o d’un oggetto molto prima di
esprimere graficamente ciò che vede del medesimo: osservazione
fondamentale,
di
cui
rinverremo
tutta
la
portata
a
proposito
dell’immagine mentale che, essa pure, è concettualizzazione prima di
giungere a buone copie percettive […] ubbidisce più a leggi vicine a
quelle della concettualizzazione che a quelle della percezione. (Piaget –
Inhelder, 1966, pp. 61-62)
L’opposizione tra vedere e sapere, ripresa e lungamente osteggiata
da Arnheim e in generale da tutta la scuola della Gestalt, è una
concezione sottolineata più volte da Piaget: l’adesione di Piaget alla
teoria intellettuale per quanto concerne lo sviluppo del disegno
infantile, deriva proprio dal diverso ruolo dato da Piaget alla
percezione nella conoscenza, e dalla concezione stessa della
conoscenza che l’autore sostiene.
273
Esaminando la dinamica dei processi cognitivi e il rispettivo valore
epistemologico assegnato alle varie funzioni, risulterà chiaro che la
conoscenza nel suo equilibrio finale, per la scuola di Ginevra, è
conoscenza logico-matematica […]. Con la formula “il bambino disegna
ciò che sa e non ciò che vede”, da ambigua e frusta, diventa
particolarmente pregnante. Perde di fatto ogni legame con la distinzione
“arte concettuale”/”arte percettiva”, e, carica della fitta rete dei concetti
della psicologia e dell’epistemologia genetica, acquisisce uno spessore
teorico reale all’interno della psicologia. (Pizzo Russo, 1988, pp. 112123).
Come abbiamo avuto modo di vedere, i dati provenienti da diverse
fonti sostengono sì una traiettoria evolutiva nei termini di “una
sequenza
ordinata
nell’acquisizione
delle
abilità
grafiche
rappresentazionali” e questo vale per i bambini delle diverse culture,
per quelli “dotati”, per i bambini con ritardo mentale, e probabilmente
per i bambini autistici savant, ma il realismo fotografico non è una
competenza universalmente acquisita. La proiezione “realistica” è
piuttosto una problematica costruzione culturale e una conquista
(altrettanto culturale) che rappresenta valori che risalgono al
Rinascimento.
Un problema che questa impostazione solleva è senz’altro relativo
allo scarso valore riconosciuto all’esercizio e l’esercizio che il
bambino dedica a questa attività è direttamente o indirettamente,
sollecitato e promosso dall’ambiente socio-culturale in cui vive.
Alcune monografie critiche sul “talento artistico” dei bambini,
sottolineano l’importanza che hanno avuto fattori quali la cultura
grafica in cui il bambino ha vissuto e la quantità di tempo dedicata
alla produzione per lo sviluppo del loro “talento” (Golomb, 2002). Ciò
nonostante si continua a sostenere che «in linea di massima questi
stadi
dello
sviluppo
artistico
sono
abbastanza
rispettati
nell’evoluzione di qualsiasi bambino», con la sola precisazione che
valgono per i bambini di normale intelligenza (Lowenfeld - Brittain,
274
1947, p. 53). Vale a dire l’età di cui si deve tenere presente non
sarebbe quella cronologica, ma quella “mentale”. Ma se l’esercizio
può «indurre differenze talmente importanti da falsare ogni altro
criterio di valutazione» (Oliverio Ferraris, 1973, p. 63) allora riteniamo
che sia difficile continuare a parlare di “stadi” anche se il criterio
scelto si riferisce all’età mentale.
D’altra parte il realismo visivo non è uno stadio da tutti acquisito nelle
stesse modalità: le ricerche dimostrano che c’è un “rallentamento” se
non un “arresto” nello “sviluppo” grafico in adulti e adolescenti,
mentre
nei
acquisizione
bambini
“dotati”,
si
del realismo visivo;
verificherebbe
una
precoce
gli adolescenti difficilmente
raggiungono il realismo visivo se non sono sottoposti ad un
apprendimento specifico o se non hanno a disposizione modelli da
copiare.
Forse gli psicologi hanno usato il termine realismo (e le relative
traiettorie di sviluppo) in un modo eccessivamente esemplificato. Luquet
(1913, 1927) utilizzò il termine per indicare l’intenzione del bambino di
rappresentare un oggetto o un evento reale. Ma la “realtà” è un referente
complesso e può essere rappresentata i diversi modi, incluso il mondo
interno, il mondo esterno e un misto di entrambi, in stili molto differenti.
Persino la tendenza alla decorazione crea una realtà pittorica da fruire,
da godere e su cui riflettere […]. Il realismo è soltanto uno dei molti
possibili stili di raffigurazione; tuttavia, poiché esso è alla base dei
processi percettivi ed è uno stile molto apprezzato nella nostra cultura,
lo riteniamo erroneamente una fase intrinseca dello sviluppo grafico
umano. (Oliverio Ferraris, 1973, p. 47).
Piaget e Inhelder utilizzarono il disegno soprattutto come pretesto, in
un’accezione del tutto particolare fortemente condizionata dalla loro
concezione
dello
sviluppo
cognitivo,
dell’epistemologia genetica.
275
quella,
appunto,
Il disegno è stato utilizzato in modo pretestuoso anche da altri
ricercatori. Nel paragrafo che segue presenteremo l’approccio
simbolico-interpretativo, che ne fece lo strumento per indagare gli
aspetti motivazionali e affettivi del bambino.
3.3
I test proiettivi “carta e matita”
In generale, tutte le teorie stadiali, tracciando una regolarità
nell’evoluzione del grafismo in relazione ad un più ampio sviluppo
generale, ne autorizzano l’uso per individuare e misurare il grado di
tale sviluppo: i test grafici di Binet e Simon (1916), Fay (1923),
Goodenought
(1926),
Harris
(1963)
vedono
nella
crescente
realisticità dei disegni un indice dello sviluppo cognitivo del bambino.
Dagli anni Quaranta, il disegno attira l’attenzione di un gruppo di
ricercatori come metodo “proiettivo” che consente di indagare la
dimensione emotiva del bambino. «Se l’arte è espressione
dell’inconscio, proiezione di questo, qualsiasi disegno, purché non
tecnico-scientifico, è espressione-proiezione dell’inconscio e, più in
generale, della personalità dell’autore»214.
Per gli autori di questo approccio
tutti i disegni sono in qualche misura proiettivi, anche quello di chi ne fa
arte o professione. Ogni artista – è affermazione di Leonardo – quando
rappresenta una figura umana, rappresenta se stesso. Nei bambini tutto
ciò è ancora più vero. (Medioli Cavara, 1986, p. 14).
Il “Test della casa, dell’albero e della persona” (H-T-P, House-TreePerson) di Joan Buck (1948), e il “Disegno della Persona” (D-A-P,
Draw-a-Person) sono alcuni dei test elaborati non più allo scopo di
214
Pizzo Russo, 1988, p. 94. La parafrasi è tratta da Corman (1967).
276
valutare lo sviluppo concettuale del bambino, ma piuttosto gli aspetti
della sua personalità215, attraverso tecniche di tipo proiettivo.
Il valore espressivo del disegno è inscritto nel movimento stesso del
gesto. Il tratto può essere, infatti, la registrazione di un gesto incerto e
titubante ovvero rabbioso e aggressivo. Quando però si parla di
proiezione si indica qualcosa che va oltre lo stato emotivo del
disegnatore o i tratti peculiari della sua personalità. Se l’espressività è
riferibile alla manifestazione di un aspetto della vita affettiva, ad un modo
di sentire e di essere della persona, la proiezione è in relazione con la
dimensione più profonda dell’individuo, è un atto di esternalizzazione dei
suoi contenuti più intimi. Il disegno dunque, nei suoi aspetti espressivi,
informa della personalità del soggetto, nei suoi aspetti proiettivi, informa
dei conflitti della personalità del soggetto. (Quaglia, 2003, pp. 112-113).
Il tema principale proposto nei test proiettivi, come in quelli
psicometrici, è la figura umana sia da sola -“Disegno della figura
umana” (Machover, 1949) - che in relazione ad altre figure generalmente familiari (Corman, 1967) - ma altri temi sono presi in
considerazione come “l’albero” (Koch, 1949) e “la casa” (Minkowska,
1949)216 ritenuti altamente “simbolici”.
215
«In psicologia sebbene per personalità s’intenda l’insieme delle funzioni
psichiche, poi di fatto non se ne tiene conto nell’uso. Non solo si distingue tra test
di personalità (e i test proiettivi sono test di personalità) e intellettivi, ma sotto la
voce personalità vengono di solito trattati i soli aspetti emotivi-affettivi. Tale stato di
cose opera un restringimento semantico della parola che nell’uso si distingue dalla
parola intelligenza. Tra le tecniche proiettive i test di disegno sono detti espressivi
(cfr. A Anastasi, 1954, p. 281: una caratteristica distintiva dei metodi espressivi
“consiste nel fatto che essi vengono impegnati sia come strumenti terapeutici che
come strumenti diagnostici. Mediante le possibilità di auto-espressione offerte da
queste tecniche l’individuo – si ritiene – non soltanto scopre le proprie difficoltà,
ma, nello stesso tempo, se ne libera”). Persino nelle ricerche di psicologia
ambientale il disegno, usato per studiare la rappresentazione dello spazio (mappe
mentali), è considerato tecnica proiettiva di tipo espressivo (cfr., T. F. Saarinen,
1973). Nella letteratura sul disegno infantile se c’è chi distingue l’espressivo dal
proiettivo (D. Widlöcher, 1965), c’è anche chi considera equivalenti i due termini
(ad es. G. Crocetti, 1986)» (Pizzo Russo, 1988, pp. 132-133).
216
Per una rassegna esaustiva delle diverse tipologie di test proiettivi che si sono
succeduti storicamente cfr. Quaglia, 2003.
277
Naturalmente veniva richiesta una preparazione molto differente e assai
più approfondita per la lettura e l’interpretazione dei disegni.
Diversa era anche la modalità di somministrazione, sempre individuale,
che richiedeva un rapporto vis-à-vis tra paziente (bambino ma anche
adulto) e psicoterapeuta, il quale doveva seguire con attenzione tutto il
processo grafico e memorizzare mentalmente sia le verbalizzazioni, sia
il comportamento non verbale e l’espressione delle emozioni sul volto di
chi disegnava, in modo da trarne spunto per l’indagine e l’interpretazione
successiva. (Giani Gallino, 2008, p. 44).
I disegni dei bambini vengono letti da questi studiosi in relazione al
loro contenuto emozionale e proiettivo; ad esempio, in relazione alla
dimensione delle figure si sostiene che
le dimensioni dei personaggi rifletterebbero i sentimenti che i bambini
proverebbero nei propri riguardi. Figure molto grandi esprimerebbero
sentimenti di autostima accentuata; disegni minuscoli indicherebbero un
sentimento di inadeguatezza o di fragilità. (Quaglia, 2003, p. 115).
Nel corso degli anni psicologi, psicoterapeuti e psicanalisti hanno
prodotto un’ingente quantità di test.
Illustriamo brevemente, a titolo esemplificativo, il “Disegno della
famiglia” nella versione elaborata da Luis Corman (1967). La
consegna dell’analista solitamente è “Disegnami una famiglia”, o
“Immagina una famiglia di tua invenzione e disegnamela”. Al test
segue un colloquio che prevede domande del tipo: “Dove sono?”,
“Cosa fanno?”, “Chi è il più buono?”, “Chi è il meno buono?”, “Chi è il
più contento?”, e così via.
Il test di Corman prevede tre livelli di interpretazione: grafico, delle
strutture formali, del contenuto. Al «livello grafico» vengono applicate
le regole generali della grafologia: ampiezza e forza del tratto,
grandezza delle figure, stereotipie, zone della pagina più disegnate e
zone lasciate bianche. A «livello delle strutture formali» anche
278
Corman, in sintonia con le teorie intellettuali, scrive: «il grado di
perfezione del disegno esprime la maturità del soggetto e può essere
un indice del suo grado di sviluppo» (Corman, 1967, p. 37). A «livello
del contenuto», indipendentemente dalla consegna, la famiglia
disegnata è considerata in relazione alla famiglia reale e con questa
confrontata.
Gli indici che vengono presi in considerazione sono: la presenza di
tutti i membri, l’ordine di rappresentazione dei diversi personaggi, le
dimensioni delle singole figure, la collocazione del soggetto, la cura e
la ricchezza dei particolari di ogni personaggio.
Rispetto all’ordine di rappresentazione, particolare importanza è
assegnata al personaggio che viene disegnato per primo: esso
rivelerebbe la fonte di maggior interesse per il bambino all’interno
della propria famiglia («personaggio valorizzato»). Al contrario, il
personaggio
disegnato
per
ultimo
indica
il
«personaggio
svalorizzato». Al bambino è data la possibilità di intervenire sul
proprio elaborato aggiungendo personaggi, cancellandone altri,
modificando quelli già disegnati. Il «personaggio aggiunto» sarebbe
qualcuno che non fa parte della famiglia, ma che esprime le
tendenze del disegnatore. L’analisi degli spazi che dividono le figure,
consentono di individuare la qualità delle relazioni (desiderate o
temute) che legano il bambino agli altri componenti del nucleo
familiare.
Da Corman in poi l’uso del disegno è diventato una pratica molto
diffusa nella psicologia clinica, spesso accompagnata da altre forme
di espressione: il colloquio, il gioco simbolico, l’elaborazione plastica,
la costruzione di ambienti o oggetti, una rappresentazione teatrale.
In questa impostazione il “simbolo grafico” è caricato di significati
nascosti, ignoti allo stesso disegnatore, che devono essere
riconosciuti e interpretati. Esso si configura come un’interpretazione
personale e/o creativa, una costruzione di significato simile ad una
narrazione ma con importanti differenze relative soprattutto ai diversi
279
gradi di consapevolezza con cui viene prodotto il messaggio e al
forte grado si polisemia degli equivalenti utilizzati.
Il legame non arbitrario ma motivato, tra rappresentazione grafica e ciò
che rappresenta, slitta da quest’ultimo termine a chi l’ha rappresentato.
Parafrasando Peirce: il disegno, agli occhi dello psicologo, sta per il
bambino sotto qualche rispetto. “Sotto qualche rispetto” nel nostro
contesto significa che il disegno rappresenta, del soggetto, non la sua
totalità, ma la sua personalità. Il quadro rappresenta comunque il
soggetto. Per un capriccio della lingua, nota Goodman, “un oggetto
rappresentato diventa un soggetto”. Nel nostro contesto il capriccio della
lingua viene inteso in maniera letterale. L’oggetto del bambino è il
bambino. L’interpretazione del disegno infantile ruota così attorno al
presupposto, poco semiotico, che, se il disegno è il significante, la
psiche del bambino è il significato. (Pizzo Russo, 1988, p. 96).
Il ricorso ai test carta-matita, d’altronde, sembra essere suggerito sia
per le caratteristiche di immediatezza e semplicità, sia perché il
compito richiesto non genera solitamente ansia nel bambino
(affermazioni forti, che non ci sentiamo di sostenere, in quanto
spesso smentite nella pratica didattica).
Disegnare è un’attività naturale come il gioco. Di là dei vantaggi pratici
che questi strumenti offrono, resta, tuttavia, aperto il problema relativo al
loro valore e soprattutto alla loro validità. Difficile è valutare che cosa
effettivamente i reattivi grafici “misurino”. Numerosi sono stati i tentativi
di associare ad una casistica psicopatologica una tipologia di
caratteristiche qualitative. […]. Lo scoglio più difficile da superare non è
rappresentato tanto dall’area che si vuole indagare, vale a dire dagli
aspetti della personalità del disegnatore, ma dall’impossibilità di valutare
l’incidenza della personalità dello psicologo nelle risposte interpretative.
[…].
Il disegno infantile non è una fotografia del mondo esterno e neppure
una fotografia del mondo interno [...]. Gli indicatori grafici non certificano,
280
ma suggeriscono; non rivelano verità, ma esprimono tendenze.
(Quaglia, 2003, pp. 117-137).
Senza concordare pienamente con le affermazioni di Rocco Quaglia,
soprattutto relativamente alla parte che tratta disegno e gioco come
attività “naturali”, e alla possibilità implicita di poter suddividere gli
aspetti della “personalità” del bambino da altri aspetti, riteniamo
tuttavia importante la sottolineatura dell’autore fatta a proposito del
contesto (relazionale-affettivo, ma non solo) in cui i test vengono
somministrati come elemento fondamentale per una lettura degli
elaborati stessi.
La nozione di “disegno infantile” allora, lungi dall’essere una nozione
neutra, rimane un problema ancora aperto nella letteratura
sull’argomento. Come abbiamo avuto modo di vedere nel corso di
questa trattazione esso è stato studiato dai diversi autori o come la
rappresentazione di una realtà esterna (una sorta di “copia” di
contenuti mentali, a loro volta imperfetti riflessi di una realtà fisica), o
come la proiezione di una realtà interna (una sorta di inconscio fluire
di sensazioni interne, personali e soggettive).
Nel paragrafo successivo proporremo un nuovo indirizzo di ricerca
che tenta di conciliare queste due diverse impostazioni.
3.4
Il disegno tra rappresentazione e proiezione
Attualmente psicologi di vario orientamento si trovano d’accordo
rispetto alla necessità di svincolarsi da questa visione dicotomica del
disegno: “modello interno” vs “modello interno”.
Se da una parte la psicologia dello sviluppo si accosta al disegno,
come ad ogni altra attività del bambino, legando in modo forte
l’aspetto cognitivo a quello affettivo; dall’altra in campo clinico e
psicodinamico sono presi maggiormente in considerazione i vincoli
posti dallo sviluppo cognitivo e dai fattori tecnico-procedurali
281
nell’interpretazione simbolica dei disegni. In entrambi i casi si
riconosce all’attività grafica una complessità, che richiede modelli
interpretativi di ampio respiro. A ciò si aggiunge il contributo della
prospettiva artistico-estetica che considera il disegno come processo
estetico-creativo, che chiama in causa i rapporti tra cognizione,
percezione e emozione.
In questa prospettiva Tambelli, Zavattini e Mossi (1995) hanno
utilizzato di recente il “Disegno della famiglia” di Corman rifiutando
sia una un’interpretazione basata sulla presunta rappresentazione
realistica dei rapporti familiari, sia un’interpretazione in termini di
elaborazione fantastica inconscia indipendente dall’esperienza, o per
lo meno responsabile della sua distorsione, e proponendone una
versione socio-cognitiva in cui il bambino, attraverso il disegno,
esprime contemporaneamente le sue conoscenze, le sue esperienze
e la sua personale versione della realtà.
Per questi autori in particolare “Disegno della famiglia” è la
rappresentazione di una rappresentazione ovvero il prodotto di una
costruzione costituita sia dalle proiezioni che derivano dai vissuti
affettivi del bambino che dalle relazioni reali esterne. Esso si
configura come vera narrazione, che non replica la realtà, ma la
deforma e la distorce sia alla luce delle vicende reali vissute che dei
“modelli operativi interni”217 del disegnatore. Il bambino, dunque, vive
vicende reali, si costruisce dei modelli operativi interni e costruisce
modelli narrativi.
Il modello operativo interno è inteso dagli autori come un sistema
motivazionale che regola il comportamento permettendo al bambino
217
Il concetto di modello operativo interno (MOI) è stato proposto da Bowlby (1979)
come un’alternativa ai concetti psicanalitici relativi alle strutture mentali che si
formano sulla base delle relazioni interpersonali. I MOI sono memorie delle
relazioni, che acquisiscono un valore strutturale per la mente. Nella prospettiva
relazionale la mente sviluppa le sue strutture e i suoi processi funzionali all’interno
delle relazioni di attaccamento. Esse, non vengono semplicemente ricordate, ma
offrono anche le regole per organizzare i ricordi e i contenuti dell’esperienza. La
mente, a differenza di quanto suggeriva l’approccio pulsionale e della psicologia
freudiana, costruisce le regole del suo funzionamento durante lo sviluppo, nel
rapporto e nel contatto con le altre persone.
282
di crearsi delle aspettative e di valutarne le conseguenze. Si tratta di
un processo rappresentativo dinamico di natura relazionale, che
permette al bambino la simulazione mentale dell’esperienza,
riproducendo le sue relazioni con il mondo esterno e consentendone
la categorizzazione.
Tuttavia i modelli operativi interni non sono la copia esatta di ciò che
il bambino realmente vive
in altre parole sono “costruzioni” che esprimono il punto di vista, la teoria
che gli individui hanno su di sé e sulle relazioni affettive per loro rilevanti
[…]. Parimenti vi è una discrepanza tra modelli operativi interni che sono
inconsci, non verbali, privati e costituiti da eventi soggettivamente
esperiti e modelli narrativi che sono generalmente consci, verbali,
raccontabili, sociali e costituiti da referenti esperiti attraverso le parole.
(Tambelli, Zavattini, Mossi, 1995, p. 33).
Nell’approccio socio-cognitivo, la rappresentazione è il risultato
dell’interiorizzazione di schemi senso-motori, come nella teoria di
Piaget, ma ad essa non si giungerebbe attraverso un processo
maturativo a prescindere dal contesto sociale e culturale. L’intuizione
neo-pragmatica piagetiana della sostanziale continuità fra azione e
pensiero rimane valida ma con una correzione fondamentale, e cioè
la considerazione dell’azione come azione sociale, anche quando
riguarda apparentemente solo il bambino e oggetti fisici, perché,
come sosteneva Vygotskij (1978), il tragitto dall’oggetto al bambino e
dal bambino all’oggetto passa necessariamente attraverso un’altra
persona e dunque la capacità rappresentativa, come tutte le funzioni
psichiche superiori, nasce a livello interpsichico per poi diventare
intrapsichica.
In questa prospettiva, dunque, le rappresentazioni infantili sono
costitutivamente rappresentazioni sociali e per essere decodificate
vanno contestualizzate, tenendo conto anche dello statuto che il
283
bambino ha nella struttura della società: i bambini e gli adulti stanno tra
loro in un rapporto da categoria dominata a dominante. Questo rapporto
di potere contrassegna le rappresentazioni del bambino, come di
qualunque oggetto di rappresentazione, come un’impronta che indica il
posto occupato dal soggetto. (Tambelli, Zavattini, Mossi, 1995, p. 35).
La rappresentazione viene considerata come costruzione cognitiva
che scaturisce da un sistema di relazioni sociali ed affettive a più
livelli.
Abbiamo precedentemente visto la definizione che Quaglia dà del
valore proiettivo del disegno: qualcosa che va oltre l’espressività e
arriva ai tratti della personalità, delle dimensioni profonde, intime e
informa sulla conflittualità del suo autore, ma che tuttavia non si
risolve nella copia del mondo interiore dell’autore del disegno, ma
piuttosto la suggerisce.
Il disegno assume la forma di narrazione nel momento stesso in cui
traduce, attraverso un mezzo espressivo, l’esperienza e le intenzioni
del suo autore, comunicandoci, contemporaneamente, aspetti della
sua vita affettiva ed emotiva.
Il bambino che disegna si impadronisce di forme canoniche e tende da
un lato a riprodurle, in una sorta di conservatorismo economico per tanti
aspetti, ma inevitabilmente viola quei canoni grafici, rielaborando
creativamente i modelli. Il punto allora non sarebbe allora se il bambino
disegna ciò che sa, ciò che vede o ciò che può (Pinto, Bombi, 1999), ma
che nei suoi disegni realizza una visione del mondo (Minkowska, 1948),
che è frutto della rappresentazione della realtà, della proiezione dei suoi
stati interni più intimi, delle abilità e delle tecniche. (Donsì – Parrello,
2005, p. 37).
284
4
Aspetti cognitivi dell’espressione grafica: fare,
conoscere, comunicare
Nei paragrafi precedenti abbiamo presentato lo sviluppo del
grafismo, cercando di evidenziare come, quando e a quali condizioni
il gesto del bambino si organizza in traccia grafica; il momento della
riorganizzazione della traccia in disegno (ossia il momento in cui dal
gesto fine a se stesso si passa alla riorganizzazione del gesto in
vista di un significato); i problemi che la segmentazione stadiale
solleva.
Abbiamo anche visto come l’interesse per il disegno non abbia
sempre comportato una riflessione esplicita sul “meccanismo di
produzione”, ma si sia concentrato su aspetti diversi, in base a
complesse ragioni culturali che, di volta in volta, hanno restrinto il
campo problematico e messo in risalto aspetti diversi su cui si è
appuntata la ricerca.
In
questo
paragrafo
riprenderemo
alcuni
dei
temi
trattati
precedentemente allo scopo di esaminare le specificità dell’attività
grafica e il modo in cui essa cooperi allo sviluppo di un sistema di
simbolizzazione
più
ampio,
in
cui
precede
e
accompagna
l’acquisizione di altre modalità di rappresentazione.
Durante tale operazione ci serviremo di ipotesi, risultati, ricerche e
spiegazioni
elaborate
dalla
psicologia
della
percezione.
E’
interessante anzi notare, a questo punto, come l’acquisizione
percettiva e la rappresentazione grafica a fini comunicativi possano
essere considerati due facce della stessa medaglia.
La percezione può essere infatti assimilata ad un processo di
“decodificazione” della realtà esterna all’osservatore; essa comporta
un’attribuzione di senso e un’acquisizione di significato che avviene
coesistenzialmente alla strutturazione delle immagini.
285
La rappresentazione concreta, invece, può essere vista come una
“messa in codice” cioè un processo attraverso il quale si scelgono, si
costruiscono, si giustappongono i segni grafici col fine di raggiungere
quel significato; si tratta cioè della formalizzazione di un messaggio
visivo la cui decodifica sia prevista entro un preciso confine. (Massironi,
1982, p. 6).
Lo sviluppo dell’abilità grafica procede attraverso l’acquisizione e
l’arricchimento progressivo di determinati elementi formali e la
costante e continua verifica dei rapporti tra traccia grafica e
significato all’interno di un contesto specifico.
4.1
Il disegno tra casualità e intenzionalità
Tra i vari autori che si sono occupati dello sviluppo grafico infantile
sembra esserci un netto contrasto circa la casualità o l’intenzionalità
che guida originariamente il bambino.
Si definisce casuale la prima traccia grafica del bambino nel momento
stesso in cui essa non costituisce la meta verso cui tende il gesto che la
produce. Secondo quest’ottica il bambino produce casualmente delle
tracce che poi associa, per analogia, alle forme del mondo reale. Questa
scoperta mette il bambino in condizione di trasformare gradualmente il
proprio gesto da casuale ad intenzionale. (Di Rienzo – Nastasi, 1989, p.
38).
Si tratta ad esempio della classica posizione di Luquet (e di Piaget)
cui si oppone la visione di Arnheim e Kellogg per i quali il progresso
grafico è intenzionale fin dall’inizio: è intenzione del bambino creare
sostituti attraverso un determinato materiale.
In linea con i principi della teoria percettiva della Gestalt la Kellogg
sottolinea che «l’interesse visivo», assieme al piacere motorio,
286
stimoli il bambino di due anni a scarabocchiare: ma «la stimolazione
visiva va oltre la vista e l’illuminazione». Prendendo le mosse da
queste premesse, la Kellogg si oppone sia a coloro che sostengono
che gli scarabocchi dei bambini più piccoli siano insignificanti, che a
coloro che vedono nell’interesse per l’imitazione delle forme esterne
lo stimolo a disegnare nei bambini più grandi.
La teoria della Gestalt ci dice che quando un bambino guarda i suoi
scarabocchi, la retina dei suoi occhi vede milioni di puntini riflessi dalle
linee e dalla carta. Il cervello del bambino deve organizzare questi punti
in forme riconoscibili, e cioè in forme che “abbiano un senso”. Inoltre,
secondo la teoria della Gestalt, la percezione ha un fondamento
fisiologico: l’organizzazione percettiva è qualcosa che nasce come
caratteristica fisiologica del sistema nervoso. (Kellogg, 1969, pp. 10-14).
Riprendendo la teoria della percezione di Richard Gregory (1966)
considera poi le configurazioni ricercate attraverso lo scarabocchio,
come il risultato di ciò che il bambino «si aspetta di percepire e a cui
la sua percezione è abituata»218.
L’intento rappresentativo determina gli schemi figurativi a cominciare
dai primi scarabocchi controllati. L’intenzione rappresentativa del
bambino ri-guarderebbe un’area di concetti e relazioni che derivano
da acquisizioni di tipo visivo e che concernono quantità, qualità,
distribuzioni,
inclusioni,
esclusioni,
suddivisioni…
e
le
loro
modificazioni e variazioni.
218
Kellogg, 1969, p. 11. «La ragione per cui un cieco non vede è che la sua retina
non può trasmettere adeguati impulsi nervosi al cervello, e questo anche se il suo
cervello è normale. E anche una persona che abbia delle retine normali, ma una
lesione al cervello, non può non percepire un oggetto, dal momento che entrambi
gli organi gli sono necessari. Come afferma Gregory “la retina è in realtà una parte
specializzata della superficie del cervello che è spuntata fuori e che è sensibile alla
luce”. Uno stimolo luminoso sulla retina induce gli impulsi nervosi a raggiungere le
cellule nell’area occipitale della corteccia celebrale. “La funzione degli occhi
consiste nel fornire al cervello l’informazione, codificata nell’attività neuronale”. Il
cervello agisce sull’energia neurale che gli arriva, selezionandola e organizzandola
in base alla maturità, all’esperienza e all’aspettativa dell’individuo. Quello che
quest’ultimo percepisce è almeno in parte la conseguenza di ciò che si aspetta di
percepire e alla cui presenza è abituato» (Ibidem, pp. 12-13).
287
Si veda ad esempio la figura 101, p. 62, in cui Glenis (4,10; 4,11), a
distanza di un mese, produce spontaneamente due mandala molto
simili tra loro.
D'altronde, esistono usi codificati nella nostra stessa cultura, che non
prevedono la rappresentazione di oggetti, ma di rapporti e relazioni,
come i diagrammi e i grafi utilizzati in matematica o in statistica.
Interessante e pertinente ci sembra a proposito l’analisi condotta da
Manfredo Massironi sul disegno.
Egli conduce «un primo tentativo […] di definire una sistematica
interpretativa dell’universo del disegno» (Massironi, 1982, p. 2) e
descrive come la notazione grafica possa prendere forme diverse per
soddisfare una varietà di funzioni comunicative. I contenuti relativi a
diagrammi e reticolati sono assimilabili, come nel caso degli
aggregati, dei diagrammi prodotti dai bambini, dei mandala, dei soli e
delle radiali (per utilizzare la terminologia della Kellogg) a relazioni e
rapporti tra gli oggetti come essi vengono registrati nella percezione.
Il fine a cui sovrintendono non è la rappresentazione di oggetti, ma
un’area di concetti e relazioni concernenti qualità, quantità, distribuzione,
suddivisione e le loro modificazioni e variazioni. Si può dire che tali
concetti si formano e derivano da acquisizioni di tipo eminentemente
percettivo.
Poiché il sistema visivo risulta essere particolarmente adatto a cogliere
alcune relazioni tra gli stimoli, come posizionamenti reciproci, grandezze
relative, inclinazioni, variazioni, (quantità), ecc. risulterà che tutti i
contenuti riconducibili a quelle caratteristiche si presteranno ad essere
trasmessi sinteticamente ed esaurientemente mediante un adeguato
approntamento di materiale idoneo […]. Possiamo indicare tale
materiale come un insieme di variabili visive costituite dal:
a) piano con le sue dimensioni;
b) una forma percepibile definita “macchia” che può variare nei modi
seguenti:
posizione (sul piano),
grandezza,
288
intensità,
tessitura,
colore,
orientamento,
forma.
Il punto e la linea rientrano nel concetto di “macchia” […]. La linea può
assumere tutte le variazioni della macchia, ma non significherà mai
superficie, verrà letta come misurabile lungo una sola dimensione.
(Ibidem, pp. 99-100).
Così, ad esempio, la “macchia” di Giulia (3,9) in figura 102, p. 63,
attraverso i suoi elementi costitutivi (posizione, grandezza, intensità,
tessitura, colore, orientamento, forma), può rimandare a valutazioni
di
tipo
percettivo
che
riguardano
«posizionamenti
reciproci,
grandezze relative, inclinazioni, variazioni…».
I bambini arrivano a condividere le stesse formule grafiche degli
adulti solo dopo un lungo processo di apprendimento.
Se la percezione consiste non di una registrazione “fotograficamente”
fedele ma nella conquista delle componenti strutturali globali, sembra
evidente che tali concetti visivi non possiedono forma esplicita.
(Arnheim, 1954, p. 147).
In altri termini, la forma percettiva non si “materializza” nell’oggetto
durante la percezione, ma è piuttosto “estratta” dal soggetto. In
questo senso non si può nemmeno sostenere che attraverso il
disegno il bambino imiti la forma degli oggetti fornendone una copia,
ma che piuttosto scopra un equivalente «che rappresenta fatti
salienti del modello tramite le risorse di un medium particolare» (Ivi).
Percepire un oggetto, così come rappresentarlo, è “trovare” la
struttura di una forma: ma mentre nel primo caso la forma è
compresa, nel secondo la forma è prodotta attraverso un medium
289
particolare. Si osservino le grafiche spontanee di Sana (4,6/4,7) in
figura 103, p. 64.
I sistemi di rappresentazione concreta sono dei procedimenti raffinati,
escogitati per creare illusioni. E mentre, per la psicologia della
percezione, l’illusione costituisce la dimostrazione dell’autonomia dei
processi superiori che presiedono alla conoscenza rispetto ai dati fisici
esterni, per l’illustratore l’”illusione” è il fine da raggiungere, è il modo per
costruire situazioni consonanti con quanto si suppone che avvenga
nell’elaborazione di chi osserva. (Massironi, 1982, p. 6).
I sistemi di rappresentazione concreta si materializzano poi
attraverso strumenti che hanno a loro volta un effetto sulla tipologia
di forma «trovata».
Il cerchio, ad esempio, viene direttamente derivato da un mezzo grafico i
cui strumenti principali sono linee monodimensionali. Il percetto che ha
dato luogo al cerchio condurrebbe ad una rappresentazione diversa a
seconda che la si tentasse con il pennello, con blocchi cubici, in creta, in
tessuto, ma qualunque sia il medium, vi sarà similarità strutturale tra la
rappresentazione e il concetto percettivo. (Arnheim, 1954, pp. 47-48).
Tale similarità strutturale se da una parte rende conto della precoce
comprensione delle immagini, dall’altra ha spinto molti studiosi a
ritenere che il disegnare fosse originato dall’imitazione della realtà.
Sappiamo che il bambino è in grado di imitare, ma un conto è imitare
un’altra persona, un altro è imitare attraverso il disegno le
caratteristiche di un oggetto.
Gli elementi del medium disegno, attraverso i quali si dovrebbe
“imitare l’oggetto”, sono la bidimensionalità del foglio e le linee che
su di esso si possono tracciare. Proprio perché l’oggetto è
tridimensionale e non costituito da linee, non è possibile parlare di
imitazione ma piuttosto di “invenzione” di forme che stanno al posto
290
di alcune caratteristiche percettive. Ogni medium ha caratteristiche
specifiche che gli sono proprie e «prescrive il modo migliore di
rendere le caratteristiche di un modello» (ibidem, p. 123).
Gli elementi con cui si realizza il disegno devono essere elaborati dal
bambino, essi non sono “dati” e questo spiega il motivo per cui la
realizzazione delle prime forme grafiche possa essere un’impresa
molto laboriosa.
Secondo Ernest Gombrich il meccanismo psichico che presiede il
gioco simbolico può aiutarci a comprendere «le radici della forma».
Nel saggio A cavallo di un manico di scopa egli medita su un
cavallino di legno composto da un manico di scopa e da una testa
rudimentale e si chiede se questo possa essere considerato
un’immagine. Se per immagine si intende «l’imitazione di una forma
esterna di un oggetto, certo la forma esterna di un cavallo qui non è
imitata» (Gombrich, 1963, p. 3). Né può essere considerata
un’astrazione.
L’artista, così leggiamo, astrae la “forma” dall’oggetto che vede. Lo
scultore di solito astrae la forma a tre dimensioni, e si astrae dal colore;
il pittore astrae contorni e colori, e si astrae dalla terza dimensione. A
questo proposito si sente dire che la linea tracciata da un disegnatore è
“una straordinaria prova di astrazione” perché non “esiste in natura” […].
Eppure basta dare un’occhiata al nostro cavallino balocco per accorgerci
che l’idea dell’astrazione come di un atto mentale complicato ci fa
approdare ad alcune conseguenze curiose ed assurde. (Gombrich,
1963, p. 4).
Racconta poi la storia di un ubriaco che si ferma davanti ad ogni
lampione che incontra per strada e che si toglie il cappello per
salutare:
dovremmo forse dire che l’alcool ha tanto aumentato la sua capacità
d’astrazione che oramai gli riesce isolare la qualità formale dello star
291
ritto, o essere in posizione verticale, tanto dal lampione che dalla figura
umana? (ivi).
Se così fosse il lampione sarebbe un’astrazione di “uomo”; e lo
stesso varrebbe per il manico di scopa astrazione di “cavallo”; ma
astraendo dal cavallo non si ottiene un manico di scopa. Il giocattolo
non è quindi né una copia del cavallo (un suo “ritratto”), né il suo
equivalente concettuale (derivante da un’astrazione operata dal
soggetto che rappresenta la «cavillosità»). Il cavallo a manico di
scopa serve da «sostituto»: è una rappresentazione che funziona
come un cavallo. Come per il giocattolo, così per il disegno, concetti
quali copia, imitazione, astrazione, concetto, non spiegano le prime
forme grafiche.
Ma per noi, che siamo sempre circondati da cartelloni pubblicitari, e dai
giornali con le loro illustrazioni di merci e di avvenimenti, è difficile
liberarci da un partito preso, dalla prevenzione, cioè, che tutte le
immagini vanno “lette” come se si riferissero a una qualche realtà
immaginaria o vera. (Ibidem, p. 8).
Il bastone è stato promosso dal bambino a cavallo, in quanto si può
cavalcare.
Il tertium comparationis, ossia il fattore comune, non era tanto la forma,
quanto la funzione. O, per essere più precisi, quell’aspetto formale
dell’oggetto che aveva i requisiti minimi per l’adempimento della
funzione […]. In questo senso i sostituti affondano le radici in un
substrato di funzioni biologiche comuni a uomini e animali […].
Un’immagine, in questo senso biologico, non è l’imitazione della forma
esterna di un oggetto, ma l’imitazione di certi suoi aspetti privilegiati o
comunque pertinenti. (Ivi).
All’origine «rappresentare è creare sostituti con un certo materiale»
e, parafrasando Gombrich quanto maggiore sarà il desiderio per il
292
bambino di sperimentarsi nell’attività rappresentativa, tanto minore
potrà essere il numero di tratti sufficienti per costituire «un’immagine
minima», un’immagine cioè che funzioni come semplice sostituto.
[Figura 104, p. 65].
Ai fini dell’identificazione del sostituto, il grado di somiglianza potrà
andare da un minimo ad un massimo.
Occorre inoltre tener presente che «le immagini non solo
rappresentano, ma sono ciò che rappresentano». Per Arnheim
(1966) ogni immagine può funzionare o come somiglianza, o come
«autoimmagine»219.
Le autoimmagini «sono immagini: ma sono le proprie stesse
caratteristiche quelle che principalmente rivelano» (Arnheim, 1966, p.
396). Così come il cavallo a manico di scopa non ci informa sulle
caratteristiche fisiche dei cavalli, ma tutt’al più “rivaleggia” con esse;
allo stesso modo i primi schemi figurativi dei bambini non
rimanderebbero necessariamente alle qualità formali di oggetti
esterni, anche se «condividono parte dei poteri dei loro prototipi»
(ibidem, p. 400).
Eloquenti a questo proposito, le «autoimmagini» di Oussama
(5,7/5,9) in figura 105, 106, 107 e 108 (pp. 66-69) rispettivamente. Si
tratta di grafiche prodotte da un bambino inserito a scuola nel mese
219
Il comportamento dei bambini davanti allo specchio può essere esemplificativo
dei due modi ravvisati da Arnheim attraverso i quali assumiamo le immagini: come
somiglianza o come autoimmagine. Riprendendo le ricerche di René Zazzo
sull’identificazione dell’immagine speculare, possiamo asserire che innanzitutto il
riconoscimento non avviene che tra i 18 e i 24 mesi (esso non sarebbe affatto
primitivo come sostenuto da Lacan) ed esso non da luogo ad un’«assunzione
giubilatoria [ma la reazione che lo precede e accompagna] è di confusione e
evitamento […]. I comportamenti contraddittori e paradossali del bambino ci fanno
credere che, malgrado la costruzione oramai avanzata di uno spazio delle
rappresentazioni, egli rimanga ancora a lungo affascinato, prigioniero della realtà
dell’immagine. È come se lo specchio fosse contemporaneamente specchio e
vetro» (Zazzo, 1983, pp. 172-192). La difficoltà del bambino è quella di non riuscire
a staccarsi dal riflesso della sua immagine e di considerarla autoimmagine, dotata
di una “realtà” indipendente. Lo spaesamento del bambino è dovuto al fatto che si
riconosce in quell’immagine, ma tuttavia si sente altrove. I casi di autoscopia
(allucinazione di se stesso) e di autoscopia negativa (lo specchio non rimanda la
propria immagine), sono considerati da Zazzo come ulteriore conferma dello stadio
in cui l’immagine speculare funziona come doppio.
293
di marzo a 5 anni compiuti, nato e vissuto in Marocco fino all’età di
tre anni, di lingua araba. Arrivato in Italia aveva frequentato per tre
mesi (aprile-giugno) un’altra scuola dell’infanzia. A marzo dell’anno
seguente ha iniziato a frequentare la scuola dell’infanzia di Reggio
Emilia nella quale è stata condotta la ricerca. Oussama ha sempre
disegnato con grande piacere sia “spontaneamente” (spesso si
organizzava autonomamente in questo genere di attività) che “su
consegna”. Il problema di Oussama con i disegni a tema (o,
piuttosto, dell’insegnante con i disegni a tema di Oussama)
riguardava la decodifica del messaggio verbale: non riusciva a
comprendere la richiesta dell’adulto.
Alla fine dell’anno scolastico, quando bambino ha iniziato a capire
alcune parole di italiano e a produrre brevissime frasi, le sue
produzioni si sono fatte “più fedeli” alla consegna anche se nelle
grafiche persistevano motivi non figurativi [figura 109, p.70].
«La morale della favola si può riassumerla dicendo che forse la
sostituzione precede l’intenzione di fare un ritratto, e la creazione
precede quella della comunicazione» (Gombrich, 1963, p.9).
E con questa sintetica conclusione ci sembra possibile risolvere la
dicotomia del disegno tra casualità e intenzionalità: il bambino
produce sostituti grafici (autoimmagini) che da un certo momento in
poi funzionano anche come somiglianza; successivamente “metterà
in codice” le sue grafiche, che potranno narrare ad un interlocutore
eventi e vissuti.
Vale
la
pena
a
rappresentazione
questo
in
punto
relazione
di ridefinire
a
quello
di
il concetto
di
figurazione
(o
raffigurazione) secondo una prospettiva psico-evolutiva.
Rappresentare è, genericamente, “stare al posto di”; mentre
raffigurare è “riprodurre attraverso la forma”. La raffigurazione in
particolare si riferisce all’invenzione (e non alla scoperta) di forme
grafico-pittoriche che possono stare per un oggetto; è una “tecnica di
rappresentazione”
che
favorisce
294
l’evocazione
di
un’immagine
“convincente”, senza per questo che ci sia con-fusione tra il simbolo
e il suo referente.
La rappresentazione sta alla base di tutta l’esperienza figurativa e, in
un certo senso, costituisce la fase “precedente” a quella della
raffigurazione. E’ quando il bambino tratta le sue rappresentazioni
anche come somiglianza che esse iniziano a trasformarsi in
raffigurazioni.
Eloquente, in questo senso è la comparsa dello scarabocchio
onomatopeico che, come abbiamo visto compare in una certa fase
dello sviluppo del grafismo. Esso sta per un’immagine vivida e
persino cinetica, ben presente nella mente del bambino. Pur in
assenza di schemi figurativi il bambino si dimostra in grado di
rappresentare la realtà: attraverso tracce grafiche “soggettive”
sonorizzate.
C’è
rappresentazione
quindi
e le
continuità
successive
tra
quella
forma
raffigurazioni della
di
stessa
esperienza.
Ma, avverte ancora Gombrich,
non appena i più afferrano che un’immagine può non avere un’esistenza
indipendente, e che può riferirsi a qualcosa fuori di sé, quindi essere il
documento di un’esperienza visuale, piuttosto che la creazione di un
sostituto, da quel momento le leggi fondamentali dell’arte primitiva
possono essere impunemente violate […]. Ne deriva che l’idea del
quadro quale rappresentazione di una realtà fuori di sé, ci porta ad un
interessante paradosso […] non possiamo più concepire che nessun
punto della tela sia privo di “significato”: ogni punto deve rappresentare
qualcosa. (Gombrich, 1963, pp. 16-17).
L’inizio dell’attività raffigurativa coincide con l’intenzione da parte del
bambino di creare un “equivalente”, una forma specifica che possa
stare al posto di un oggetto a cui assomiglia “in qualche modo”.
Questo riconoscimento implica il passaggio dallo “scarabocchio
rappresentativo” a forme che, per così dire, superano se stesse
295
(Golomb, 2002); passaggio che abbiamo precedentemente definito
“dal segno al disegno”.
In una prima fase un segno, un tracciato o una figura con
caratteristiche proprie, può stare al posto indifferentemente di un
semplice movimento o di tanti significati diversi.
Questi scarabocchi non figurativi, ossia il tipo cinestetico sono in
generale rappresentativi220, non nel senso di raffigurare “qualcosa”,
bensì nel senso “stare per qualcosa”; ed è proprio perché “stanno
per” che essi acquistano la funzione di simboli (un significante che
rimanda ad un significato). In questa fase dello sviluppo ai diversi
tracciati, il bambino attribuisce, solitamente in un secondo momento,
un significato che può cambiare diverse volte per la stessa figura.
Ciò che motiva il bambino è l’intento rappresentativo e non ancora
quello raffigurativo.
Quando Erika (4,1) disegna e chiama la sua produzione “le palline
che
fanno
un
girotondo”
[figura
110,
p.
71]
sottolinea
“un’equivalenza” tra la forma che hanno preso le linee sul foglio e
una qualche altra forma che appartiene al mondo reale.
Attraverso questa azione dimostra di possedere una comprensione
intuitiva del fatto che una cosa possa rappresentarne un’altra senza
esserne una replica; il bambino “pratica” un’azione simbolica
attraverso un medium specifico. Possiamo ipotizzare che in questo
caso
un’intenzione
rappresentativa
abbia
condotto
Erika
“casualmente” a raffigurare un oggetto specifico.
Secondo la Kellogg
il bambino come l’adulto, si deve servire delle forme base del disegno
per raffigurare oggetti e paesaggi. Ed è appunto la modalità di
composizione delle forme, che distingue il lavoro spontaneo del bambino
dal lavoro dell’adulto, così come la composizione delle linee base
distingue le Gestalt dell’arte infantile dai simboli dell’alfabeto. I bambini
220
Ci riferiamo a quelli che precedentemente abbiamo classificato “scarabocchi
controllati”.
296
usano sempre le stesse formule per disegnare barche e veicoli a ruote,
indipendentemente dal fatto che li abbiano visti o no. È facile che il
bambino non dia definizioni figurative a queste formule prima che le
senta da un adulto. A questo punto, forse per la prima volta, può vedere
una certa somiglianza tra i suoi disegni, quelli degli adulti, le fotografie e
la sua esperienza visiva di barche e veicoli. (Kellogg, 1969, p. 151).
La raffigurazione chiama in causa l’intenzionalità a priori di produrre
le caratteristiche formali degli oggetti del mondo esterno, secondo un
codice culturalmente definito, nonché la capacità di collegare
intenzioni e produzioni materiali: l’intenzione di rappresentare un
aspetto del mondo reale o immaginato, crea una relazione di
“somiglianza” tra simbolo e referente, “somiglianza” che, come
abbiamo più volte sottolineato, può andare da un minimo ad un
massimo.
I disegni sono equivalenti: non sono né imitazioni né copie della
realtà. Essi contengono solo alcune delle proprietà dell’originale e
all’interno dei diversi contesti culturali, convenzioni più o meno
esplicite, determinano quali proprietà debbano essere incluse e in
che modo.
I disegni di Oussama, sembrano avvalorare le teorie di coloro che
sostengono che lo spostamento nella direzione della raffigurazione in
senso sempre più “realisticamente codificato” (realismo visivo) abbia
un’origine culturale.
Tutta l’arte è un “fabbricare immagini” e, tutto il fabbricare immagini è
radicato nella creazione di sostituti. Perfino l’artista “illusionista” è
costretto a prendere come suo punto di partenza l’immagine
convenzionale fatta dall’uomo, l’immagine concettuale. Strano a dirsi
non può semplicemente “imitare la forma esterna di un oggetto”, se
prima non ha imparato a costruirla […].
Wölfflin osservò una volta che tutti i quadri devono di più ad altri quadri
che non alla natura. È una verità ben nota a chi studia le tradizioni della
pittura, ma ancora mal compresa per quel che riguarda le conseguenze
297
psicologiche che se ne possono dedurre. La ragione sarà forse che,
contrariamente a quanto credono e sperano molti artisti, l’”occhio
innocente” che dovrebbe vedere il mondo con freschezza, in realtà non
lo vede affatto, e anzi frizza e brucia acciaccato dalla tragedia caotica di
forme e di colori che gli si para dinanzi221.
In questo senso il «vocabolario convenzionale delle forme basilari» è
indispensabile al bambino sia come punto di partenza, che per
mettere a fuoco l’organizzazione del suo materiale, affinché si “configuri” come codice comunicativo.
4.2
Il disegno come “fare” e “saper fare” (aspetti
procedurali del disegno?)
Il sapere sul disegno nella nostra cultura continua di fatto ad avere una
circolazione ristretta e, soprattutto quando investe problemi più
squisitamente tecnici relativi alla produzione, rimane tacito appannaggio
di coloro che sanno disegnare; non fa parte delle conoscenze generali
ritenute formative.
Si pensi alla scrittura. L’alfabetizzazione comporta una riflessione, anche
minima, sull’uso. Siamo informati sull’esistenza delle regole di
produzione. Studiamo grammatica e sintassi e sappiamo, sia pur
vagamente, di essere eredi di una tradizione plurimillenaria non solo
nell’uso ma anche nella riflessione. Nessuno ritiene che ciò sia negativo
per la libertà di espressione del futuro scrittore o del futuro poeta. Lo
studioso del linguaggio poi, che è sempre produttore e fruitore, parte
anche da un sapere collettivo codificato. Lo psicologo che si occupa di
disegno, normalmente, non sa disegnare. Ciò, oltre che significare
221
Gombrich, 1963, pp. 15-16. Per «immagine concettuale» Gombrich intende
«quel tipo di rappresentazione ideografica che, più o meno, è comune ai disegni
dei bambini e a varie forme di arte primitiva e primitivismo» (Ibidem, p. 14). Si tratta
di quegli schemi figurativi che hanno indotto i teorici della teoria intellettuale a
sostenere che il bambino disegni “quello che sa e non quello che vede”.
298
letteralmente, significa, per le ragioni sopradette, anche che non sa di
disegno. (Pizzo Russo, 1988, p. 144).
Qualsiasi intenzione espressiva passa necessariamente attraverso
dei media che influenzano l'idea iniziale, trasformandola: il disegno è
prima di tutto un “fare”; ma non essendoci linea diretta tra intenzione
e medium (il medium interviene sull’intenzione limitandola e al
contempo offrendole possibilità espressive) il disegno, tutto il
disegno, è per di più, un “saper fare”222.
Malgrado tutta l’importanza del “sapere che”, non si può dire che sia
l’unico elemento chiave dello sviluppo. “Sapere come” è ugualmente
importante, anche se più raramente studiato. Abbiamo bisogno di
sapere, per esempio, come cercare un oggetto o un’informazione, come
arrivare da X a Y, come ricordare, come apprendere, come progettare e
organizzare una serie di azioni; in breve come tradurre il “sapere che” in
azione. Si è tentati di supporre che, una volta impadronitisi
dell’informazione, l’azione vera e propria possa aver luogo senza
problemi. Per fare un esempio, siamo stati tentati di considerare
l’inversione e altri errori di orientamento nella scrittura e nel disegno
soltanto come “problemi di percezione” o indifferente all’importanza
dell’orientamento. Certo, quello che il bambino vede o intende è una
componente importante, ma non è una spiegazione sufficiente. Per dirla
con David Olson, nessun disegno è “una rappresentazione automatica
di un qualche mondo percettivo”. Ciò che si vede o si intende deve
essere tradotto nell’azione del disegnare; e ciò che dobbiamo
comprendere in maniera più completa è la natura di tale traduzione e di
tale azione. (Goodnow, 1977, p.12).
222
«Molte opere sulle manifestazioni grafiche infantili hanno spesso il torto di
muoversi sul terreno di una eccessiva superficialità finendo con il perdere di vista
contenuti culturali molto più ampi. Ci si comporta insomma come se il bambino
fosse un essere venuto da un altro pianeta e le sue manifestazioni, pertanto, non
avessero niente a che fare con l'eterno problema dell'artista di trovare un medium
per dare corpo e immagine ai contenuti dell'esperienza» (Piantoni, 1992, p. 94).
299
E’ proprio “il raffigurare” che implica qualcosa di specifico e diverso
rispetto all’ascoltare-vedere-narrare: in questo genere di attività
bambini devono risolvere il problema di agire “una grammatica” e
“una sintassi” grafica per la comunicazione di un’esperienza
personale.
Riteniamo che per comprendere l’attività grafica del bambino sia
pregiudiziale occuparsi delle caratteristiche di questo medium e degli
usi culturali che, di fatto, ne vengono fatti.
Tenere presente, quindi, non solo quanto la nostra cultura considera
arte, ma anche quanto etichetta come disegno tecnico-scientifico. Non
come modalità separate e opposte, in quanto fondate sul sentimento
l’una e sulla ragione l’altra, con tutto il corredo di coppie oppositive che
ne conseguono, ma il disegno in quanto tecnica che lungo i secoli è
stata utilizzata per assolvere funzioni molteplici, specializzandosi in
campi operativi diversi come mostra la ricca, variegata, complessa e
intricata fenomenologia. (Pizzo Russo, 1988, p. 146).
Nell’analizzare il ruolo del disegno (sia artistico che tecnico
scientifico) nell’interpretazione ottica della realtà, Massironi giunge
alla conclusione che i diversi tipi di disegni che si possono produrre,
corrispondono anche a “funzioni” ben distinte all’interno di schemi di
raffigurazione dissimili. Sono anzi le funzioni, in un certo qual modo,
a determinare la configurazione significante all’interno della quale
agisce effettivamente il disegno (Massironi, 1982).
Dal nostro punto di vista si tratta di una metodologia interessante
perché evita una classificazione dei disegni dei bambini basata su un
palinsesto unicamente “concettuale” e lontano dal contesto d’uso. Il
criterio di “funzione” permette di isolare gli elementi sostanziali dei
vari schemi di raffigurazione, precisandone l’origine, attraverso la
modalità d’uso. Ma vediamo nel dettaglio la teoria di Massironi.
300
In Vedere con il disegno l’autore si propone di analizzare il
funzionamento
del
disegno
smontandone
cognitivamente
il
meccanismo:
analizzare il disegno cercando di approfondire tutti gli elementi e i
processi che intervengono nella determinazione del dato rappresentato.
Si vuole cioè tentare lo smontaggio del sistema del disegno nelle sue
componenti elementari e la determinazione degli effetti delle intenzioni
fra tali componenti. (Massironi, 1982, pp. 9-10).
L’autore propone di distinguere gli elementi del disegno in primari,
«strutturalmente fondamentali per indagare il modo di costruirsi della
notazione grafica» (ibidem, p. 10) e secondari.
Gli elementi secondari sono quelli relativi ai portati del luogo e del tempo
e della cultura che produce il disegno, oltre a quelli propri della
personalità e dello stile dell’autore [e] possono essere diversi da tempo
a tempo, da luogo a luogo, da disegnatore a disegnatore, al limite da
disegno a disegno. (Ivi).
Gli elementi primari individuati sono: la caratteristica del segno
(traccia); la posizione fenomenica del piano di rappresentazione; il
processo di enfatizzazione-esclusione degli elementi messi in
rapporto al fine della rappresentazione (lo scopo informativo
immediato a cui tende).
Gli elementi secondari sono il campo d’indagine della storia e della
critica d’arte, mentre quelli primari possono rientrare nel campo di
studio della psicologia.
Massironi differenzia poi, all’interno degli elementi primari quelli di
“primo livello” (la traccia) da quelli di “secondo livello” (il piano della
rappresentazione) poiché la posizione del piano di rappresentazione
è un elemento che non si può dare da solo e va mediato attraverso le
tracce di primo livello.
301
Le caratteristiche del segno (la traccia) «sono definite dal tipo di
vissuto percettivo che inducono nell’osservatore». Per l’autore
esistono solo tre modi di utilizzazione della traccia: il segno oggetto,
il segno contorno, il segno tessitura223.
Il segno oggetto (la «linea oggetto di Arnheim») è quello nel quale la
traccia si identifica con l’oggetto rappresentato: per esempio una
linea sinuosa al posto di un serpente. Questo segno è il più sintetico
in assoluto: prevede con la sua sola presenza di individuare
un’esistenza e di creare un rapporto tra figura e sfondo:
la caratteristica di questo tipo di segno è di essere aperto e di
presentarsi come isomorfo rispetto ad un oggetto ad esso assimilabile o
anche come oggetto autonomo indipendentemente dal significato cui
può essere ricondotto. (Massironi 1982, p. 11).
Il segno contorno o «linea-margine» delimita una superficie e «ciò
avviene quando il segno è chiuso» In questo caso oggetto della
percezione è (anche) la superficie racchiusa dal segno. Tale segno
«acquista una funzione unilaterale, appartiene sempre cioè alla
figura e mai allo sfondo. Il segno abdica così alla sua caratteristica di
oggetto a favore dello spazio che esso racchiude» (ibidem, p. 12)
Il segno tessitura è il «tratteggio» di Arnheim, solitamente studiato
come chiaroscuro quando veniva utilizzato per dare spessore alle
figure.
Quando la traccia sul piano si ripete sempre uguale a se stessa, o
mutando in progressione sistematica, con intervalli regolari, oppure
anche irregolari, ma sempre molto piccoli, la superficie interessata da
223
Come lo stesso Massironi puntualizza, queste tre utilizzazioni della linea sono le
stesse individuate da Arnheim (linea-tratteggio, linea-oggetto, linea-margine) in
Arte e percezione visiva. Se per il tratteggio bisogna considerare soprattutto il
capitolo relativo alla luce, per la linea-oggetto e la linea-margine, nel capitolo sullo
sviluppo, dopo la precisazione che la linea è il primo elemento dell’attività artistica
infantile, vi è un puntuale riferimento al doppio carattere che questa assume nel
giro di poco tempo, diventando linea margine (cfr. Arnheim, 1954).
302
questo tipo di intervento viene definita “tessitura”. La traccia grafica può
assumere qualsiasi andamento o caratteristica lineare, incrociata,
tratteggiata, punteggiata, imprecisa, ecc224.
Le linee utilizzate nelle tre modalità sopra riportate, possono essere
tracciate con strumenti, e di conseguenza apparire come «precise»,
o a mano libera e apparire «variate».
Per quanto riguarda la superficie su cui si dispongono le tracce (il
piano di rappresentazione e non il piano fisico di supporto) essa
viene definita in relazione al piano di visione (al nostro modo di
guardare gli oggetti).
Essa
può assumere vari gradi di inclinazione e in tal modo diventare parte
strutturale del processo di raffigurazione. Tale funzione strutturale e
strutturante dell’immagine grafica è assolta facendo sì che la superficie
di supporto informi circa la posizione di osservazione degli oggetti
rappresentati. Usiamo il termine posizione nel suo doppio significato di
collocazione fisica dell’osservatore rispetto alle cose osservate e di
intenzione comunicativa privilegiata di alcuni contenuti percettivocognitivi, rispetto ad altri possibili. (Massironi, 1982, p. 17).
Secondo Massironi, a seconda di come l’osservatore vede il disporsi
delle superfici degli oggetti rappresentati, si producono in lui
aspettative e approcci diversi al disegno, da cui deriva l’importanza
della disposizione di tali piani.
Riprendendo
la
distinzione
operata
da
Gibson225
sui
modi
fondamentali di osservare e rappresentare gli oggetti, Massironi
224
Ibidem, pp. 12-13. Massironi ricorda che l’affinamento nell’uso della tessitura è
stato uno dei risultati dell’introduzione della prospettiva, in particolare della
“prospettiva aerea”, «che vuole dare il senso della profondità solo con lo sfumare
dei contorni e delle superfici a seconda della dislocazione degli oggetti in
profondità» (Ibidem, p. 15). La funzione della tessitura nella percezione della
profondità è stata sottolineata anche da Gibson che ha introdotto il termine di
“gradiente di stimolazione” (cfr. Gibson, 1979).
303
individua due modalità possibili di declinazione del piano di
rappresentazione,
ovvero
del
disporsi
degli
oggetti
nella
rappresentazione grafica.
Il piano di visione è frontale «quando i piani rappresentati incontrano
perpendicolarmente l’asse ottico»226 e, di conseguenza, il vissuto
percettivo indotto dal segno grafico è di «emersione»; il piano di
visione è invece inclinato quando si presenta come longitudinale o
variamente inclinato rispetto all’asse ottico e l’effetto percettivo è di
«sfondamento»227.
Le possibili combinazioni degli elementi di primo e secondo livello
non sono casuali, ma consequenziali a precise scelte che regolano,
sia pure implicitamente, l’articolazione degli elementi a seconda dei
contenuti e delle finalità che il disegno si propone. Contenuti e finalità
sono culturalmente determinati.
225
«L’interazione visiva con i piani di cui sono costituiti gli oggetti è, secondo
Gibson, la condizione che ci permette di vedere la profondità e di assumere
informazioni circa lo spazio del nostro agire. Se però si passa dall’esperienza
diretta degli oggetti alla loro trascrizione grafica si hanno due tipi di rendimenti
percettivi; quando i piani rappresentati sono prevalentemente longitudinali la
superficie del segno si sfonda e gli oggetti appaiono vivere in uno spazio
complesso e polidimensionale, mentre quando i piani sono fronto-paralleli, gli
oggetti così raffigurati paiono emergere dalla superficie e, proprio in forza della loro
dichiarata bidimensionalità, costituirsi come concettualizzazioni, quasi astrazioni
cognitive» (Massironi, 1982, p. 24).
226
Ibidem, p. 19. I due piani di visione possono poi convivere in alcune opere
d’arte contemporanea (come ad esempio nei quadri di Escher) o in figure oggetto
di indagine psicologica (le cosiddette “figure incoerenti” o “impossibili”) il cui scopo
è proprio quello di indurre vissuti di conflitto o di ambiguità. «Il fruitore di immagini
di questo tipo si trova a vivere un’esperienza complessa che lo porta a verificare
concretamente come l’atto percettivo sia cognitivamente complesso; infatti si trova
ad attraversare coscientemente alcuni passaggi in cui visione e pensiero si
integrano: la condizione osservata è assunta come problematica e conflittuale,
viene esperito un vissuto di incongruità che attrae e infastidisce allo stesso tempo
per cui si innescano tentativi di soluzione del conflitto a livello sia percettivo che
mentale» (ibidem, p. 20).
227
«La rappresentazione dei piani inclinati rispetto alla linea di vista ha trovato nel
metodo prospettico le regole per la sua trascrizione; mentre quel filone della
geometria descrittiva formalizzatosi nelle proiezioni mongiane ha individuato i sui
fondamenti nella presentazione dei piani frontali degli oggetti, questa scelta ha
avuto una lunga serie di precedenti intuitivi e di esiti tecnici anche prima di Monge,
così come era avvenuto per certe e parziali rappresentazioni della profondità prima
di Brunelleschi e dell’Alberti» (Ibidem, pp. 23-24).
304
Trattandosi di disegno «la prima scelta consisterà nel prediligere le
qualità visive e nel trascurare le altre […]; ma per rendere informativo
l’elaborato si dovranno effettuare dalle scelte anche tra le qualità
visive» (ibidem, p. 56).
Questo porta, durante il processo rappresentativo ad enfatizzare
alcune caratteristiche percettive e ad escluderne altre: «in ogni
immagine alcuni tratti, elementi, o caratteristiche, sono evidenziati in
modo che risultino ben leggibili, altri invece vengono completamente
trascurati, volutamente ignorati, cancellati come se non esistessero».
E proprio per questo «ogni rappresentazione grafica […] è sempre
un’interpretazione e quindi un tentativo di spiegazione della realtà
stessa» (ibidem, rispettivamente pp. 56 e 55).
Tuttavia
con il termine “oggetto” bisogna intendere non solo quanto esiste
materialmente, ma anche quanto può essere immaginato, pensato,
supposto, progettato, ipotizzato, così come ciò che può esistere per
effetto della suggestione, dell’errore, delle allucinazioni, del sogno, ecc.
(Ibidem, pp. 73-74).
Tutto questo è disegnabile: tramite il disegno può essere reso visibile
anche l’invisibile che può riguardare l’area del “fantastico” o, nella
vasta area scientifica, il campo degli “oggetti osservabili”228.
La ricca produzione “ipotetigrafica”, e l’abbondante letteratura
scientifica
sull’importanza
dell’immagine
visiva
nelle
scoperte
scientifiche
228
Massironi propone di chiamare quest’ultimo campo ipotetigrafia che «può
essere definita sinteticamente come quell’elaborato grafico con cui forme e
strutture non visibili del mondo naturale vengono raffigurate visivamente». Esempi
di ipotetigrafia sono gli “anelli” con i quali vengono rappresentate le molecole, la
doppia elica del DNA, lo schema del sistema solare… tutte cose che non esistono
se non nei nostri sistemi di conoscenza. «L’essenza dell’ipotetigrafia poggia sulla
convinzione che il primo passo sulla via del dimostrare sia costituito dal mostrare.
Cioè porre in evidenza mediante artifici visivi quella parte, quel nocciolo di
contenuto che risulta irriducibile all’espressione verbale» (Ibidem, p. 159).
305
evidenzia un fatto spesso trascurato e cioè che la percezione presiede
non solo l’acquisizione e l’organizzazione dei dati provenienti dal di fuori,
ma anche di quelli provenienti dal di dentro. E con ciò non si vuole
intendere solo il momento dell’autopercezione o della percezione di sé
come è sovente indagare in ambito psicologico, ma anche quella
capacità di osservare il frutto dei nostri pensieri e delle nostre
meditazioni, come dati da filtrare allo stesso modo dei dati sensoriali sì
da constatare la funzionalità operativa nei confronti del problema che
stiamo affrontando. (Ibidem, p. 136).
A partire dalla combinazione degli elementi primari e secondari,
tenuta presente la qualità del segno (preciso o variato) Massironi
elabora la seguente tabella229:
P.= preciso
V.= variato
X.= frequente
O.= presente,
non frequente
FUNZIONE
COMUNICATIVA
Illustrativa
PREMINENZA DI
PIANI LONGITUDINALI
PREMINENZA DI
PIANI FRONTALI
Segno
oggetto
Segno
margine
Segno
tessitura
Segno
oggetto
Segno
margine
P
P
P
P
P
V
O
V
X
V
V
P
V
X
Operativa
X
Tassonomica
Diagrammi
V
Segno
tessitura
X
O
O
X
Segnaletica
229
O
X
X
O
O
X
X
La tabella, nelle intenzioni dell’autore, ha solo valore illustrativo e non ha
pretesa di essere esaustiva dell’enorme varietà che presenta la produzione grafica.
Le funzioni comunicative presenti nella tabella sono insiemi macroscopici che
potrebbero essere divisi in sottoinsiemi. All’interno della funzione illustrativa, ad
esempio, possono essere messi, separatamente il fumetto, la caricatura,
l’immagine satirica, il disegno in prospettiva…
306
Tabella 1: articolazione delle componenti del disegno a seconda del fine comunicativo
che la notazione grafica si propone. (Massironi, 1982).
La portata dello strumento d’analisi ci sembra notevole sia applicato
in riferimento allo sviluppo grafico, che considerato come strumento
critico per gli studi che sono stati fatti a riguardo.
Se osserviamo la differenza tra il disegno a funzione operativa
(disegno che riguarda quegli schemi grafici che devono essere
interpretati da un esecutore per realizzare un’opera: schemi elettrici,
piante di case…) e quello a funzione illustrativa230, vediamo che
cambia non solo il piano di rappresentazione ma anche la tipologia di
tratto in rapporto all’uso della traccia. Disegno a funzione
tassonomica231 e a funzione operativa mantengono invece lo stesso
230
«La funzione illustrativa può accogliere al suo interno quel corpus di elaborati
grafici che si propongono di rappresentare gli oggetti, le scene, i paesaggi
cercando di approntare e organizzare gli stimoli percettivi in modo da produrre
nell’osservatore vissuti analoghi a quelli provenienti da oggetti, scene, paesaggi
dello stesso tipo osservati nella realtà.
Non è certamente preclusa, a questo tipo di notazione, la possibilità di
rappresentare, in maniera illustrativa-spettacolare, situazioni od oggetti inesistenti.
Queste immagini sono però costruite come se fossero osservate in un’ipotetica
realtà che viene descritta illustrativamente, cioè allusivamente, in modo che chi la
osserva l’assuma come percettivamente credibile: rappresentazione di un mondo
riconoscibile anche se sconosciuto. Questo processo può instaurarsi proprio
perché le modalità di realizzazione dell’elaborato seguono le regole e utilizzano gli
strumenti propri della funzione illustrativa» (Massironi, 1982, pp. 29-30).
231
«Le immagini elaborate in vista di una funzione tassonomica presentano dei
tratti costanti […] il più caratteristico dei quali consiste nell’uso del piano di
rappresentazione frontale su cui però il segno variato e la tessitura contribuiscono
a fornire l’impressione di un’immagine di tipo illustrativo.
Le regole strutturali su cui si basa la rappresentazione tassonomica sono le
seguenti:
a) uso del piano frontale;
b) segno variato nelle sue tre declinazioni;
c) abolizione dello sfondo visto come elemento di disturbo alla lettura del
disegno. In ciò si assiste ad un superamento del metodo prospettico: non
è stato facile ed immediato, per i disegnatori, rinunciare a quella conquista
suggestiva anche quando le esigenze comunicative lo richiedevano […].
Ora, invece, non solo si rinuncia allo sfondo,
d) ma si forza anche la rigida fissità del punto di vista pur di andare ad
indagare i tratti significativi delle strutture».
Il disegno «sembra rappresentare un individuo della specie osservato-copiato
dal vero, ma ad un più attento esame ci rendiamo conto che ciò non è vero;
l’immagine che guardiamo è sì un individuo della specie descritta, ma è un
307
piano di rappresentazione ma variano rispetto alla tipologia di tratto
utilizzato per i diversi segni.
Differenti esigenze di visibilità assieme ad altrettante diverse
modalità di intendere la visibilità, ci restituiscono il disegno come
strumento cognitivo e come modalità espressiva-comunicativa
altamente articolata (e codificata).
Una prima considerazione che possiamo azzardare tenendo
presente la tabella, che, come sottolineato dall’autore, non ha
pretese di esaustività rispetto alle ancora varie modalità codificate
dalla nostra cultura di “fare disegno”, è che gli studi sul disegno
infantile, sia quelli di matrice “intellettuale” che “artistica”, si sono
concentrati sugli elementi secondari del disegno (uso dei piani di
rappresentazione), piuttosto che su quelli primari.
Al contrario, la ricerca della Kellogg (l’analisi minuziosa degli
scarabocchi base, il loro posizionarsi in modelli di posizione, la
formazione dei diagrammi, degli aggregati, dei soli, delle radiali e dei
primi schemi figurativi) può essere considerata un primo sistematico
tentativo di studio degli elementi primari.
Una seconda considerazione riguarda l’attenzione che è stata
riservata al disegno a funzione illustrativa, il cui sviluppo ha segnato,
nella teoria di molti, il traguardo finale dello sviluppo del disegno
infantile tout court.
Se ci volessimo attenere alla tabella potremmo poi scoprire che il
disegno illustrativo è caratterizzato dall’uso di piani longitudinali o
variamenti inclinati, un uso dello spazio rappresentativo non
caratteristico del disegno dei bambini: quest’ultimo risulta essere più
individuo emblematico, costruito appositamente per esporre dichiaratamente
quegli attributi visivi su cui potrà basarsi un discorso di ordinamento e di
sistematizzazione morfologica […] E’ per questa ragione che ancora oggi si
preferisce usare il disegno piuttosto della fotografia; perché la fotografia,
riprendendo un individuo non potrebbe prescindere dai tratti singolari e
fuorvianti, mentre il disegno lo può fare in maniera elegante e convincente»
(Ibidem, pp. 45-48).
308
vicino al disegno scientifico o, ancora di più, a quello tassonomico,
visto che è eseguito a mano libera.
Alcuni disegni dei bambini sembrano poi più vicini al disegno
geometrico (per uso di proiezioni e ribaltamenti) che a quello
“naturalistico”.
Tuttavia il disegno “spontaneo” dei bambini è ancora precedente
qualunque modalità codificata di produzione, ad uno stadio
precedente l’articolazione dei diversi contenuti storico-culturali
riportata in tabella, quindi, non può nemmeno essere considerato
propriamente né tassonomico, né illustrativo, né scientifico
fermo restando che, realizzandosi lo sviluppo in un contesto culturale
caratterizzato da una differenziazione delle regioni grafiche, le diverse
regioni dovrebbero essere tenute tutte presenti quanto meno come esiti
dello sviluppo stesso. (Pizzo Russo, 1982, p. 153).
Senza incorrere nell’errore di leggere la genesi del disegno come
finalizzata in un senso piuttosto che in un altro, vorremmo poter
considerare l’età evolutiva come quel periodo in cui il bambino della
nostra cultura sviluppa i concetti rappresentativi di base necessari ai
molteplici esiti specialistici.
Il disegno, tutto il disegno, «è ciò che rende visibile la natura delle
cose» (Arnheim, 1954, p. 147) ma il compito apparentemente
elementare di raffigurare su un foglio le proprietà “essenziali” della
sagoma di un oggetto è tutt’altro che facile.
Abbiamo visto in un paragrafo precedente come Arnheim, per
spiegare lo sviluppo del concetto rappresentativo, ricorra al processo
di differenziazione individuandone la direzione dal «generale al
particolare»232. La legge di differenziazione è essenziale per
232
Dello stesso parere è anche Gombrich secondo il quale «la nostra mente, ben
inteso, funziona in base alla differenziazione, piuttosto che per generalizzazione; e
un bambino per molto tempo seguiterà a chiamare tutti i quadrupedi “cavallino”,
finché non avrà imparato a distinguere le varie specie di quadrupede e le loro
“forme”» (Gombrich, 1963, pp. 4-5).
309
comprendere l’andamento evolutivo degli elementi primari (sia di
primo che di secondo livello) individuati da Massironi.
Relativamente alla produzione di segni, sappiamo che il bambino già
a 2 anni, è in grado di produrre i tre tipi di linea (oggetto, margine,
tessitura): negli scarabocchi base individuati dalla Kellogg, tutte e tre
le tipologie di segni non solo sono presenti, ma caratterizzano la
composizione degli scarabocchi.
Quando il bambino inizia a comprendere il valore segnico delle sue
linee, usa di preferenza il segno-margine e il segno-oggetto in
funzione rappresentativa, mentre il segno-tessitura è utilizzato solo
per riempire spazi vuoti.
Esempio eloquente di segno-oggetto, è la grafica di Dorian (4,1)
nella rappresentazione del padre in figura 67, p. 42; mentre in figura
111, p. 71, Leon (4,6) utilizza le due tipologie di linea nella medesima
grafica: una linea a spirale aperta (scarabocchio n. 15 nella
classificazione della Kellogg) per “l’elefante”, e segni margine per “i
bambini che stanno giocando il gioco degli animali”. Felix (5,10) in
figura 45, p. 29, utilizza la stessa tipologia di segno per
rappresentare il corpo dei suoi canguri e rispondere alla necessità
informativa rispetto alle caratteristiche dinamico-funzionali dei suoi
soggetti.
In un secondo momento, anche il segno-tessitura assumerà valore
rappresentativo per caratterizzare ad esempio la terra, il prato, il
cielo, il fumo del camino o per altri elementi.
Diverse tipologie di segno possono coesistere nella medesima
grafica, come in figura 112, p. 72, in cui Fabrizio (6,3) utilizza il
segno-margine per rappresentare la casa, il sole, il volto delle figure;
il segno-tessitura per il cielo, il fumo che esce dal camino, i capelli; il
segno-oggetto per le mani e, in modo ancora non del tutto
differenziato segno-oggetto e segno-margine per la rappresentazione
del corpo delle diverse figure (tronco/gambe).
310
Segno-oggetto, segno-margine, segno-tessitura si compongono per
dare forma a concetti rappresentativi sempre più differenziati e
complessi: la forma si differenzia per suddivisione e per fusione.
Le difficoltà che sorgono in questo processo dialettico riguardano la
relazione tra le unità che hanno “preso forma” e la soluzione a
questo problema comporta la comprensione che
la parte va modificata nell’interesse del tutto; [in quanto] la forma
ed il comportamento particolare della parte sono comprensibili
soltanto entro la funzione di essa entro l’insieme. In quanto
problema conoscitivo, l’interazione pone difficoltà a tutti i livelli del
pensiero teorico; in quanto problema di interazioni personali, resta
per molti sempre insolubile. (Arnheim, 1969, p. 312).
Nei primi stadi dello sviluppo, la relazione tra le parti non modifica i
singoli elementi, né essa viene trattata in relazione al tutto. In figura
112, p. 72, ad esempio, il camino è perpendicolare al tetto, ma non
alla casa.
In figura 113, p. 73, riportiamo invece alcune soluzioni elaborate dai
bambini per rappresentare una tartaruga233.
Emily [114-a] sceglie una vista dall’alto (o dal basso?) per
rappresentare il guscio, la coda e le (sei) zampe, e una prospettiva
frontale per il muso; Giulia [114-b] sceglie invece una vista di lato per
233
Nel periodo in cui sono state raccolte le grafiche, i bambini stavano
partecipando ad un laboratorio di teatro della durata complessiva di nove ore (un
incontro settimanale della durata di un’ora) condotto da un esperto esterno che
proponeva loro, utilizzando come sussidio didattico un libro illustrato (cfr. C.
Carminati, R. Angarano, Il carnevale degli animali ispirato alla grande fantasia
zoologica di Camille Sain-Saën, Fabbri Editori, 2004), la narrazione di storie che
avevano come protagonista un animale diverso per ogni incontro. Nel corso del
laboratorio, i bambini avevano la possibilità di osservare le immagini che
raffiguravano gli animali (durante la narrazione, ma anche nei giorni successivi, in
quanto il libro era a loro disposizione in sezione) e di sperimentarne, attraverso la
drammatizzazione, le “caratteristiche” attraverso le attività che di volta in volta
erano proposte dall’esperto. L’argomento del laboratorio era poi approfondito nei
giorni successivi con le insegnanti di sezione attraverso conversazioni, visione di
altri libri che trattassero l’animale oggetto del laboratorio, rappresentazioni graficopittoriche e plastiche.
311
il corpo e non “sacrifica” parte del guscio (come invece aveva fatto
con uno dei due occhi nella rappresentazione del muso), rispettando
la prospettiva scelta per il corpo, preferendo una rappresentazione
per intero dello stesso con vista dall’alto. Mariano [114-c] opera la
stessa scelta fatta da Giulia (una rappresentazione di “profilo”) ma, a
differenza di Giulia, è disposto a “sacrificare” due gambe e parte
della forma del guscio per sottolineare la vista di lato, ma non
rinuncia ai lineamenti del muso: i due occhi mettono in prospettiva
frontale la testa della tartaruga. Linda [114-d] propone il guscio visto
dall’alto, il corpo, nell’insieme, sembra essere visto di lato, e il muso
è rappresentato di fronte. Infine la tartaruga di Nadia [114-e] ha
guscio e corpo visti dall’alto e il muso di profilo.
In molti degli esempi precedenti possiamo vedere lo stesso
procedimento: particolarmente informativo a riguardo è il disegno di
Martina (5,11) in figura 61, p. 38, in cui la prospettiva dall’alto della
carrozzina, contrasta fortemente con quella frontale delle altre figure
della famiglia.
Lungo lo sviluppo, da soluzioni «su scala ristretta e locale» il
bambino passa a soluzioni in cui il contesto di riferimento si fa
sempre più ampio più ampio, e gli elementi si articolano
maggiormente in connessioni reciproche.
Abbiamo anche visto che tra gli elementi primari Massironi distingue
quelli di primo livello (le varie tipologie di segni) e quelli di secondo
livello (il piano fronto-parallelo e quello longitudinale o variamente
inclinato); sembrerebbe che questi due piani siano di secondo livello
anche da un punto di vista dello sviluppo del grafismo. Mentre nello
“stadio” dello scarabocchio, il bambino sperimenta le diverse
tipologie di segno [figure 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16,
17, 18, 19, 20, 21, pp. 7-16; figure 24 25, 26, 27, pp. 18-19; figure 30,
31 pp. 21-22; figura 39, p. 26], il disegno prevede un’attenzione
crescente rispetto all’uso del piano di rappresentazione [si rimanda in
particolare alle figure 51, 52, 53, 54, 55, pp. 33-35; figure 58, 59, 60,
312
61, 62, 63, 64, 65, 66, pp. 36-41; figure 81, 82, 83, 84, 85, 86, pp. 5053; figure 92 e 93, p. 57; figura 95, p.59].
Del resto le rispettive rappresentazioni non discendono direttamente
dalle proprietà strutturali del medium bidimensionale, qual è quello del
disegno, ma dalla conoscenza e dall’acquisizione di particolari tecniche
rappresentative
–
la
prospettiva
e
le
proiezioni
ortogonali
–
estremamente sofisticate e capaci di rendere conto delle tre dimensioni
dello spazio attraverso le due dimensioni del piano. (Pizzo Russo, 1982,
p. 238).
Il
foglio
bidimensionale
impone
determinate
condizioni
alla
realizzazione della tridimensionalità: i bambini possono scegliere di
rappresentare per ognuna delle figure che intendono raffigurare il
piano di base che meglio le caratterizza [come ad esempio in figura
114, p. 74], oppure danno vita al fenomeno della “trasparenza”, che
può essere letta come l'interazione di due piani fronto-paralleli “visti”
uno dietro all’altro.
Finché la veduta bidimensionale non si differenzia dalla veduta
proiettiva, la superficie pittorica piana serve a rappresentare entrambe.
Questo si ottiene in due modi. Il bambino può servirsi della dimensione
verticale della superficie piana per fare una distinzione tra alto e basso e
di quella orizzontale per distinguere tra destra e sinistra, ottenendo così
quello che chiamerò lo “spazio verticale”. Oppure può usare le due
dimensioni per indicare le direzioni della bussola proiettate sul piano del
terreno, il che produce uno “spazio orizzontale”. Oggetti in posizione
eretta, come esseri umani, alberi, pareti, gambe di tavoli, risultano in
maniera chiara e caratteristica nello spazio verticale, mentre giardini,
strade, piani di tavoli o tappeti esigono lo spazio orizzontale. Un’ulteriore
difficoltà sorge per il fatto che nello spazio verticale uno solo degli
innumerevoli piani verticali può venir rappresentato in maniera diretta,
cosicché la raffigurazione di una casa è possibile solo per quanto
riguarda
la
facciata
frontale,
313
ma
non
per
quelle
laterali
contemporaneamente. Per questo deve ricorrere a qualche espediente
di rappresentazione indiretta. Allo stesso modo, nello spazio orizzontale
possono apparire piatti sul tavolo ma non, nella stessa figura, il cane
sotto il tavolo. (Arnheim, 1954, pp. 173-174).
In figura 60, p. 37, Jonny (5,6) utilizza la dislocazione degli elementi
della rappresentazione all’interno del “piano verticale” per rendere la
terza dimensione: il palcoscenico è collocato in alto (più “lontano”),
sotto i personaggi, e nella parte finale gli spettatori visti “a rovescio”.
Nelle figure 114 e 115, p. 74 abbiamo due diversi esempi di
“trasparenza” dovuti invece all’incrociarsi dei diversi piani della
rappresentazione. Nella prima figura Glenis (6 anni) sovrappone il
piano orizzontale dell’auto, con quello verticale del guidatore, mentre
nella seconda immagine, Marta cerca di rendere la terza dimensione
con un procedimento “più tecnico”: prima si disegna, e poi “si
traveste” sovrapponendo i due piani verticali.
Si rivedano ad esempio i disegni precedenti raffiguranti case o
palestre:
essi
possono
essere
considerati
«equivalenti
bidimensionali» dei medesimi soggetti, piuttosto che case o palestre
“trasparenti”.
Arnheim (1954) dichiara che si tratta di accorgimenti prospettici che
hanno le loro esemplificazioni, oltre che nei disegni infantili, nelle
pitture murali egiziane e ci invita ad essere cauti nella valutazione di
questo procedimento raffigurativo in quanto
la rappresentazione pittorica è basata sul concetto visivo dell’oggetto
tridimensionale nella sua totalità; il metodo di copiare un oggetto o un
insieme di oggetti da un punto di osservazione fisso – all’incirca il
procedimento impiegato con la macchina fotografica - non è più fedele
alla concezione visiva globale di quanto non sia quello usato dagli
egiziani. (Ibidem, p. 105).
314
e, aggiungeremo noi, dai bambini. In questo e in altri casi dimostrano
una sensibilità eccezionale e immediata per le condizioni imposte dal
medium, e sono spesso molto competenti nell’utilizzare informazioni
aggiuntive per realizzare le loro rappresentazioni.
Dopotutto le loro produzioni non fanno altro che contraddire una
convenzione che “raramente” è messa in discussione: quella di
includere in un disegno soltanto ciò che è visibile da un unico punto
di vista. «Per quanto riguarda gli artisti primitivi, possiamo supporre
che la convenzione non venga seguita e possiamo chiedere a noi
stessi: perché dovrebbe esserlo?» (Goodnow, 1977, p.72).
I concetti rappresentativi di questo tipo presentano tuttavia delle
“ambiguità” dovute al fatto che
le unità bidimensionali dei disegni sono a seconda della necessità, degli
equivalenti di solidi oppure gli aspetti bidimensionali della superficie
esterna degli oggetti stessi o entrambi contemporaneamente […]. Ed è
proprio a causa di questa ambiguità che questo metodo viene usato
soprattutto in stadi evolutivi primitivi e viene abbandonato molto presto
dai bambini occidentali234.
La legge della differenziazione e le peculiarità del medium grafico,
consentono
di
dare
una
spiegazione
coerente
a
tutte
le
caratteristiche “tipiche” del disegno infantile, caratteristiche che
hanno portato alle due grandi correnti interpretative, della concezione
intellettuale e dinamica.
234
Arnheim, 1954, p. 173. Secondo A. Oliverio Ferraris «con l’acquisizione della
prospettiva la rappresentazione si subordina a un unico punto di vista e il ragazzo
impara a immobilizzare gli altri aspetti della realtà in funzione di quell’unico scelto,
il che può impoverire quella visione dinamica delle cose che è la caratteristica
principale della fase evolutiva precedente. Nel periodo pre-prospettico il bambino,
rappresentando diverse angolazioni di uno stesso soggetto, fa confluire tutta la
somma delle sue conoscenze intellettuali e delle sue emozioni sulle cose che
rappresenta; riferisce cioè la realtà sulla base dei suoi apprendimenti, delle sue
relazioni mentali, mnemoniche e psichiche». (Oliverio Ferraris, 1973, p. 56).
315
Nel disegno di Jonny (5,7) in figura 116, p. 75, confluiscono gran
parte di queste caratteristiche: la compresenza di diversi punti di
vista (il gatto, il mulino, il grano e il bidone visti di fronte; la strada
dall’alto); il fenomeno della “trasparenza” (il mulino) e del
ribaltamento (il gatto e il bidone che si “aprono” lungo la strada).
Altre caratteristiche del medium bidimensionale condizionano l’esito
finale della rappresentazione: analizzando gli aspetti processuali che
la raffigurazione comporta abbiamo visto come in ogni disegno sia
sempre implicita una sequenza e una direzione di movimento che ha
effetto sulle possibili fasi successive, aumentando o limitando le
facoltà di scelta. Questo condiziona la scelta e la modalità
rappresentativa degli elementi da enfatizzare o eliminare, a seconda
di quello che vuole essere “il messaggio” finale.
Ad esempio, in figura 117, p. 75, Alexey (5,10) è “costretto” ad
indicare la strada di casa al contadino che guida il trattore: avendo
finito lo spazio a disposizione nella parte inferiore del foglio, e
avendo proposto un altro tema rappresentativo, trova nella freccia
(elemento grafico a tutti gli effetti, anche se non ha carattere
mimetico) una soluzione convincente per dare continuità alla sua
rappresentazione. L’ordine in cui sono stati disegnati gli elementi,
non è lo stesso in cui di seguito sono stati verbalizzati. La sequenza
rappresentativa
è
stata:
trattore/contadino/terra/erba/nuvole/pioggia/pozza/bambino/freccia/c
asa.
In didascalia riproponiamo l’ordine in cui ha successivamente
verbalizzato all’adulto il disegno.
La tartaruga di Desiree (5,7) in figura 118, p. 76, sembra invece
piuttosto “sbilanciata in avanti”. La sequenza con cui la bambina ha
disegnato è stata: guscio, testa con tratti del volto, prima gamba a
sinistra, seconda, terza e quarta (da sinistra a destra), coda,
particolari del guscio. Affinché la sua tartaruga potesse stare “in
316
piedi” ha dovuto allungarle le gambe creando uno strano effetto di
piegamento.
Il
problema
degli
“spazi
disponibili”
può
spiegare
diverse
caratteristiche delle grafiche dei bambini, comprese le posizioni
assegnate ai dettagli.
Nella rappresentazione grafica di Fabrizio (6,3) in figura 112, p. 72,
non solo la casa è posta sopra alla famiglia, come se fosse sospesa
in aria, ma due delle figure rappresentate (lui e il fratello) non hanno
le braccia. La consegna era il disegno della famiglia (una consegna
molto utilizzata in ambito clinico), e Fabrizio ha iniziato a disegnare
nell’angolo in basso a sinistra e ha proceduto verso destra. La prima
figura, le cui braccia sono perpendicolari al corpo, ha causato
l’omissione delle braccia della seconda, dal momento che Fabrizio
ha posizionato la testa della seconda troppo vicina alla prima; la
terza figura aveva invece spazio disponibile per includere le braccia,
ma non la quarta. Infine l’unico spazio disponibile rimasto per
disegnare anche la sua casa era quello in alto. Il contrario di quello
che è successo a Livia (5 anni), [fig. 100, p. 61], che nel disegno
dello stesso tema, avendo iniziato a disegnare dalla sua casa, è
stata costretta a mettere poi i componenti della famiglia “in aria”.
Analoghi problemi di “spazio disponibile” si possono osservare anche
in figura 2a (una torta esageratamente grande rispetto alle persone);
in figura 83, p. 51, (un serpente realisticamente attorcigliato per stare
nel foglio); nelle figure 33, p. 23, e 65, p. 40, (dove le lunghe gambe
delle figure completano lo spazio disponibile nel foglio).
Allo stesso modo, i treni di Jonny [figura 94, p. 58] vanno a sinistra
(quando è stato in grado di produrre una locomotiva soddisfacente,
la disegnava per prima in basso a sinistra) mentre, i trattori di Alexey
[figure 95, p. 59 e 117, p. 75] vanno tutti a destra. Alexey è infatti
mancino, e inizia a disegnare sempre partendo dall’angolo in basso a
destra, procedendo verso sinistra.
317
Nel suo disegno Glenis (6,3), in figura 119 p. 76, ha dovuto
organizzare lo spazio del foglio su “due piani”. Ha disegnato prima un
grosso camion con il rimorchio che avrebbe dovuto portare i regali di
Natale. Lo spazio disponibile rimasto per disegnare la casa era
quello sopra al camion, mentre, la macchina, messa a fianco della
casa, non può che andare “là in fondo”, fuori dal foglio, come ha
indicato durante la verbalizzazione.
Si confronti questa immagine con la figura 86, p. 53, (Jonny 5,8). In
questo caso è interessante notare le somiglianze tematiche e
stilistiche delle due rappresentazioni: entrambe i disegni fanno
riferimento a situazioni di “regali”; hanno in primo piano un camion
con rimorchio caratterizzato da elementi molto simili tra loro (si
vedano ad esempio l’antenna con il filo a zig-zag o la scritta con il
nome dell’autore del disegno), una casa (attraversata da una scala,
con la stessa porta, e la medesima tipologia di finestra e antenna) e
un’auto; i camion sono rappresentati nella parte inferiore del foglio, la
casa sopra ai camion e le automobili nella stessa posizione. Ci sono
poi molti elementi comuni: altoparlanti, uno stesso motivo decorativo
che corre su un lato del camion, uno stesso numero (1 nella grafica
di Glenis, 10000 e 0001 in quella di Jonny), diagrammi con croce
greca racchiusi in un quadrato (finestre ?)…
Nella stessa mattina i due bambini (molto amici tra di loro) si erano
organizzati autonomamente nei tavoli della sezione (come spesso
facevano durante le ore di attività libera) e si erano confrontati
diverse
volte
durante
la
produzione,
scambiandosi
pensieri,
commenti, temi. Le due verbalizzazioni sono invece molto diverse:
mentre Jonny narra con ricchezza di particolari la storia che la sua
grafica rappresenta; Glenis si dimostra disinvolto nella prima parte, e
impacciato nella seconda (il tema della macchina del presidente
Obama mi è sembrato inventato sul momento, non essendo né
argomento di conversazione tra i due durante la produzione, né
argomento di conversazione in classe quanto piuttosto argomento di
318
cronaca del periodo…). Il prodotto non restituisce l’aspetto
relazionale e nemmeno la dinamica di scambi di temi, idee, emozioni
avvenuti durante la produzione, che hanno avuto senz’altro un ruolo
fondamentale nel prodotto finale, come del resto, in generale, non lo
restituiscono tutti gli altri prodotti… che si presentano dotati di una
loro ontologia, indipendente e lontana dal contesto di produzione.
La legge della differenziazione è utile anche per comprendere un
altro aspetto dello sviluppo relativo alle aree di contenuto.
Massironi dimostra che lo sviluppo di determinate aree di contenuto
nella storia, ha comportato un diverso trattamento degli elementi
primari (di primo e secondo livello) in vista delle particolari finalità che
via via andavano determinandosi. Oggi «la produzione disegnativa
può essere suddivisa in grandi blocchi in cui i metodi e le tecniche
grafiche utilizzate risultano strutturalmente differenti» (Massironi,
1982, p. 65). In questo senso, occorre vedere il disegno
non più come sistema aperto, completamente soggetto all’invenzione,
ma regolato da norme abbastanza vincolanti, e quello che è più
importante, non stabilite una volta per tutte, ma che vengono
formalizzandosi in tempi successivi, man mano che un contenuto
informativo esige prepotentemente un codice di comunicazione: come è
stato per la prospettiva prima, le proiezioni ortogonali poi; del disegno
caricaturale, dei diagrammi, o dei marchi e segnali nel periodo attuale.
(Ibidem, p. 75).
Le regole che presiedono alla produzione-fruizione delle varie aree di
contenuto sono state elaborate nel corso dei secoli per rispondere a
precisi fini comunicativi che via via si sono delineati.
Quando parliamo del disegno del bambino siamo al di qua della
differenziazione delle aree di contenuto e progressiva costituzione delle
relative regole di produzione e di fruizione. Siamo nel momento in cui si
sta sviluppando il codice minimo per elaborare equivalenti indifferenziati
319
rispetto alle aree di contenuto. Il livello di articolazione del concetto
rappresentativo,
precedente
alla
differenziazione
delle
aree
di
contenuto, è il livello massimo che nella nostra cultura viene raggiunto
senza un intervento educativo specificatamente rivolto al disegno. (Pizzo
Russo, 1988, p. 241).
In quest’ottica, il realismo visivo, come disegno che include le regole
prospettiche, non è propriamente una fase dello sviluppo del disegno
del bambino, bensì una delle modalità adulte di disegnare, nonché,
fatto ben più importante, il modello prevalente di valutazione “del
disegno” nella nostra cultura.
Se volessimo poi considerare il realismo intellettuale potremmo
vedere in esso sia l’esito di una fase di sviluppo del disegno infantile
che una modalità rappresentativa presente nel disegno adulto
specialistico (in quello architettonico, operativo, geometrico e in
alcune correnti artistiche come nel cubismo).
Realismo intellettuale e il realismo visivo possono essere letti come
due tendenze evolutive individuabili nel corso dello sviluppo, e, nei
loro esiti adulti e specialistici, alla luce della tabella di Massironi,
come caratterizzate, l’una dal piano fronto-parallelo, e l’altra da
quello longitudinale o variamente inclinato.
Dopo lo scarabocchio (realismo fortuito) e il breve periodo del realismo
mancato, la fase del realismo intellettuale, variamente denominata dagli
studiosi, sarebbe allora quella fase durante la quale il bambino sviluppa i
concetti rappresentativi di base, precedenti ad ogni specializzazione, e
necessari ad ogni ulteriore sviluppo, sia esso nella direzione del
realismo intellettuale adulto o del realismo visivo inteso nella maniera
luquetiana. (Pizzo Russo, 1988, p. 243).
Se poi prendiamo in considerazione il realismo visivo individuato da
Piaget, che corrisponde alla conquista dello spazio euclideo,
potremmo affermare che esso non è lo stadio conclusivo del disegno
320
infantile, ma il momento evolutivo durante il quale il bambino della
cultura occidentale, diventa sempre più sensibile alle nozioni della
geometria che la scuola gli va insegnando. «Ma proprio per questo
può essere inteso come un inizio di differenziazione guidata
dall’ambiente» (ivi) e il momento in cui viene collocato da Piaget
(attorno agli otto-dieci anni), può essere considerato momento
cruciale per l’avvio di tutte le specializzazioni previste dalla tavola di
Massironi, piuttosto che il momento del “declino dell’arte infantile”.
4.3
Il disegno tra esplorazione e conoscenza
Disegnare, dipingere, modellare sono attività che dipendono dalla
percezione ma che, contemporaneamente, ne prendono le distanze:
entra in questione una mediazione, la ricerca di un sistema di
rappresentazione che riproduca nel mezzo e col mezzo propri del
disegno e della pittura o di altre condizioni tecniche le acquisizioni
percettive. E così il bambino che pure vede, sa fare tante cose, sul piano
della rappresentazione, a una certa età, non possiede, oltre agli
scarabocchi, altro che il cerchio: è il suo semplicissimo ma duttile
sistema di rappresentazione. Erroneamente lo faremmo corrispondere al
suo mondo percettivo già complesso e differenziato. (De Bartolomeis,
1984, pp. 186-187).
In questo paragrafo considereremo i disegni come sistemi di
rappresentazione; e vedremo come l’attività grafica sia per il
bambino mezzo per conoscere, interrogarsi, porsi e risolvere
problemi; strumento per agire e ed esplorare. Ciò ci condurrà a
toccare indirettamente il rapporto tra conoscenza/media da una parte
e media/processi cognitivi dall’altra.
321
Il bambino che dipinge fa qualcosa di più che esercitarsi in una libera
manipolazione e in una pura sperimentazione con il colore e la forma:
esprime - in una certa misura e con il sistema rappresentativo di cui è
capace - il grado, la struttura, il contenuto e la direzione dei suoi
adattamenti […].
La concezione evolutiva del narrare e del ragionare infantili ci porta di
fronte al sentimento, ma senza unilateralità; cioè possiamo dire che
l’affettività ha in essi un posto determinante ma non al punto di fare del
bambino un essere incapace di pensiero problematico, di movimento
logico e di cosciente inserimento nella realtà. Dunque l’affettività è
importante a causa sia della particolare struttura delle attività infantili sia
delle loro particolari emozioni; ma non si deve dimenticare che il
bambino, per vivere, deve adattarsi alla realtà e non vi si può adattare
senza l’impiego degli strumenti intellettuali richiesti per la soluzione di
problemi. (Ibidem, pp. 190-191):
Ogni rappresentazione grafica, per quanto possa essere fedele alla
realtà, è sempre un’interpretazione, una finzione, un tentativo di
spiegazione della realtà stessa.
Massironi avverte che nella storia dell’arte e dei processi
rappresentativi si sia spesso verificato un equivoco: ritenere che il
fine di tali processi consistesse in una riproduzione veridica, fedele
ed equivalente alla realtà raffigurata, piuttosto che nell’elaborazione
di un suo sostituto235.
235
«Nella comunicazione grafica-disegnativa si può notare sovente che un
atteggiamento del fruitore è quello d’impegnarsi nei confronti dell’immagine in
maniera analoga a ciò che avverrebbe nei confronti degli oggetti rappresentati,
qualora fossero presenti.
E ciò che più colpisce è il fatto che questi comportamenti si esplicano nonostante
tutti i fruitori siano pienamente coscienti che non dell’oggetto si tratta, ma di una
sua apparenza fantasmatica, che però viene assunta in funzione suppletiva e
utilizzata come una protesi cognitiva utile a riempire il vuoto dovuto alla mancanza
dell’oggetto. Elenchiamo allora di seguito alcune condizioni in cui il comportamento
del fruitore della rappresentazione concreta diventa simile a quello del fruitore
dell’oggetto; oppure si pone nei confronti del sistema di rappresentazione in
posizione o critica o benevola, vedendo in tale sistema quasi un metodo di
produzione degli oggetti e non delle loro immagini.
322
Dalle affermazioni di Giotto alla nascita della prospettiva, dalla scoperta
della fotografia a quella dello stereoscopio, l’equivoco si è ripetuto.
Oggi nessuno crede più nella pretesa oggettività dei mezzi di
comunicazione e ciò non per subdolo comportamento dell’emittente, ma
per un fatto intrinseco al processo: ogni messa in codice esige delle
scelte. (Massironi, 1982, p. 55).
Il disegno si situa nell’ordine della rappresentazione. Per disegnare
occorre elaborare un equivalente strutturale delle qualità di un
“oggetto” nelle caratteristiche del medium proprio di questa attività.
La prima scelta consisterà nel privilegiare le qualità visive e nel
1. Se, mostrando un’illustrazione ad una persona, le si chiede: Questo che
cosa è?, la risposta sarà: “E’ un cavallo” o “un uomo” e non “Questo è il
disegno” o “la foto” o “la pittura” di un cavallo o di un uomo, rispettivamente
2. A volte i bambini si divertono a metterci in imbarazzo con domande del
tipo: “Esiste un cane azzurro?” Ed alla nostra risposta negativa, ribattono
“Sì che esiste, perché io te lo disegno”. Per loro fra oggetto e sua
rappresentazione non c’è molta differenza.
3. Non c’è molta differenza nel passaggio dal vivo all’immagine sostitutiva in
certe pratiche magiche o religiose.
4. Tutte le regole religiose collegate all’iconoclastia nascono dal concepire le
immagini come blasfeme in quanto rappresentano una forma di
concorrenza alla divinità nell’atto creativo di una realtà concreta.
5. Spesso nei manifesti pubblicitari, per le strade, si trovano scritte o
interventi di passanti […] che fanno intuire una manipolazione, non nei
confronti dell’elemento concreto – un foglio di carta – ma nei confronti della
cosa raffigurata […].
6. Mitologie, leggende, racconti, o poesia nelle culture dei più lontani popoli
della terra parlano di immagini create da artisti che, per qualche ragione,
diventano realtà: è esemplare a questo proposito il mito di Pigmalione.
7. Diversi artisti nei loro scritti hanno sottolineato la facoltà evocatrice
derivante dal loro potere di costruire immagini: facoltà che permette loro di
dar vita in modo potente e concreto a realtà strane o buffe o lontane […].
8. E’ invalso nella pubblicità l’uso di far dialogare la rappresentazione in
forma diretta con il possibile fruitore: uso del “tu” confidenziale, indicazioni
minacciose, ammiccamenti.
9. Va menzionato anche l’impiego che viene fatto dell’immagine nelle
operazioni di dimostrazione – o persuasione – scientifiche, religiose, ecc.
in cui l’immagine funziona come sostituto o come evocazione dell’oggetto
o del fatto di cui si parla. In questi casi, il fatto che si usino immagini di
sostegno rende più credibile la proposizione verbale» (Massironi, 1982, pp.
58-59).
323
trascurare le altre. Nel rappresentare una tartaruga ci si dovrà
concentrare sulla forma del guscio, sulla forma delle zampe e non
sulla viscosità che le è propria; ma per rendere informativo
l’elaborato si dovranno effettuare delle scelte anche tra le qualità
visive: «l’accettabilità dell’immagine di un oggetto dipende dal criterio
del disegnatore e dallo scopo della raffigurazione» (Arnheim, 1954,
p. 147).
Studiare il disegno significa prendere in considerazione la capacità
umana di significare, quella capacità per cui un semplice cerchio può
rappresentare un bambino, un albero, un occhio e tante altre cose.
La costruzione delle rappresentazioni concrete tiene conto dei
processi
percettivi
e
produce
elaborati
che
favoriscono
nell’osservatore impressioni simili a quelle prodotte dagli oggetti
raffigurati.
Nasce allora l’equivoco della equivalenza dei due momenti. Ma quando
diciamo che un’immagine sembra vera, con la locuzione “sembra”
affermiamo due vissuti contrastanti: siamo cioè coscienti di trovarci di
fronte ad informazioni visive molto convincenti, dello stesso tipo di quelle
forniteci dal mondo reale, ma nello stesso tempo siamo sicuri che sono
fittizie, provenienti cioè da una parziale illusione di realtà. Ciò avviene
per effetto di una trasposizione materiale di dati. La materia molteplice e
variabile delle cose rappresentate, viene trascritta in un’altra materia che
è quella del segno sulla superficie, nella molteplicità e variabilità del
segno. (Massironi, 1982, pp. 55-56).
Come ha opportunamente precisato Arnheim
indiscutibilmente i bambini vedono più di quello che disegnano; all’età in
cui già riescono facilmente a distinguere tra persona e persona e notare
la più piccola alterazione in un oggetto familiare, i loro disegni restano
del tutto indifferenziati e le ragioni di ciò sono da ricercarsi nella natura e
nella funzione del processo rappresentativo. (Arnheim, 1954, p. 147).
324
Dallo studio psicologico dell’arte Arnheim argomenta che l’attività
artistica è una forma di ragionamento236.
L’immagine disegnata non è copia dell’oggetto, né replica esatta
dell’immagine mentale237 di quell’oggetto; anzi, nel disegnare,
l’immagine mentale “c’è e non c’è”.
236
Abbiamo precedentemente visto che cosa intenda Arnheim con arte, ovvero
«ciò che rende visibile la natura di un oggetto». Secondo l’autore «pensare esige
immagini, e le immagini contengono pensiero. Perciò, le arti visive costituiscono un
terreno familiare del pensiero visuale […]. Trattare l’arte come una forma di
pensiero visuale può apparire indebitamente unilaterale. L’arte adempie ad altre
funzioni, spesso considerate primarie. Crea la bellezza, la perfezione, l’armonia,
l’ordine. Rende visibili cose invisibili, o inaccessibili, o del tutto fantastiche. Dà
espressione alla gioia o alla tristezza. Nulla di tutto ciò si nega qui; ma per
adempiere a tali funzioni, occorre compiere un vasto lavoro di pensiero visuale. La
creazione della bellezza pone problemi di selezione e di organizzazione.
Similmente, rendere visibile un oggetto significa coglierne i tratti essenziali […]»
(Arnheim, 1969, p. 299).
237
Nella concezione di Arnheim, l’immagine mentale viene ad occupare un posto di
primo piano. «Un atto percettivo non è mai isolato; esso non è che la fase più
recente di un flusso di innumerevoli atti consimili, svolti nel passato e sopravvissuti
nella memoria. Similmente, le esperienze del presente, immagazzinate ed
amalgamate con la sollecitazione del passato, precondizionano i percetti del futuro.
Pertanto la percezione, nel suo senso più ampio, deve includere la capacità
mentale di produrre immagini». Non solo perché «pensare esige immagini» ma
anche perché «i concetti sono immagini e le operazioni del pensiero sono il
trattamento di tali immagini» (Ibidem, rispettivamente, pp. 96, 299 e 267).
Il riconoscimento del valore delle immagini è uno sviluppo recente in
neuropsicologia, frutto della rivoluzione cognitiva che ha fatto seguito al dominio
del comportamentismo. «Si afferma sovente che il pensiero è fatto di immagini e di
molto altro, che è fatto anche di parole e di simboli astratti non figurativi. Certo,
nessuno può negare che il pensiero comprenda anche parole e simboli arbitrari;
ma a quella affermazione sfugge che sia parole sia simboli arbitrari sono basati su
rappresentazioni topograficamente organizzate e possono diventare immagini. In
massima parte, le parole che usiamo nel nostro discorso interno, prima di
pronunciare o di scrivere una frase, esistono nella nostra coscienza come
immagini visive o uditive; se non diventassero (per quanto fugacemente) immagini,
non sarebbero alcunché di conoscibile. Questo è vero anche per quelle
rappresentazioni topograficamente organizzate che non vengono seguite alla
chiara luce della coscienza, ma che sono attivate in modo celato […]. Sembra che
non vi sia possibilità anatomica di avere informazioni sensoriali complesse nella
corteccia di associazione che fa da base alle rappresentazioni disposizionali senza
che prima si formino nelle cortecce sensitive di ordine inferiore […].
I commenti appena fatti si applicano altrettanto bene ai simboli che si usano nella
soluzione mentale di un problema matematico. Se quei simboli non fossero
esprimibili in immagini, noi non li conosceremmo, e non saremmo capaci di
manipolarli in modo cosciente». Damasio argomenta portando esempi di
matematici e fisici (tra i quali Einstein) che dichiarano come il loro pensiero sia
dominato dalle immagini, spesso visive. «Quindi il punto è che le immagini sono,
probabilmente, il contenuto principale dei nostri pensieri, a prescindere dalla
modalità sensoriale nella quale esse sono generate e dal fatto che riguardino una
cosa o un processo implicante cose, o che riguardino parole o altri simboli – di un
325
La situazione può essere illustrata dall’esempio di un artista che disegni
a memoria qualcosa che conosce. Se ne sta nel suo studio e disegna un
elefante. Se gli chiedete in base a quale modello stia disegnando, può
negare nel modo più convinto di avere, nella propria mente, qualcosa di
simile ad una figurazione esplicita dell’animale. Eppure, mentre lavora,
giudica costantemente la correttezza di quanto sta producendo sulla
carta, correggendone e modificandone di conseguenza le forme. Con
che cosa le confronta? […]
E’ facile evadere al problema, perché l’operazione sembra aver luogo
nel mondo esterno percepito, sul tavolo da disegno: quando appaiono le
linee e i colori, appaiono esatti o errati a chi li disegna, e sembra siano
essi a determinare da soli che cosa egli debba farne. Alcuni aspetti del
suo giudizio possono in realtà dargli l’impressione di dipendere dal solo
percetto, ad esempio i fattori formali dell’equilibrio e la buona
proporzione. In realtà, tuttavia, anch’essi sono inseparabili dal problema
“è questa la mia nozione di un elefante?”, e a tale problema si può
rispondere soltanto facendo riferimento a qualche standard nella mente
del disegnatore. (Arnheim, 1969, pp. 116-117).
Si osservi a questo proposito l’interpretazione grafica che Alessandro
(5,4) da di un elefante in figura 120, p. 77.
L’immagine
mentale
può
dunque
essere
considerata
«una
configurazione di forze visive che determina il carattere dell’oggetto
visivo», «uno scheletro strutturale» che, in quanto tale, «può essere
rivestito da una grande quantità di forme» (Arnheim, 1954, pp. 9091). Essa è necessaria per spiegare il modo di procedere del
disegnatore, ma non è “un disegno interno” che viene copiato sulla
carta: con il disegno si entra nel campo delle “immagini espresse”
che non è quello delle immagini mentali.
dato linguaggio – che corrispondono a una cosa o a un processo. Celati dietro
quelle immagini, mai o molto di rado conoscibili da parte nostra, vi sono svariati
processi che guidano la produzione e il dispiegamento delle immagini nello spazio
e nel tempo; essi utilizzano regole e strategie incorporate nelle rappresentazioni
disposizionali. Sono essenziali per il nostro pensare, ma non sono il loro contenuto
dei nostri pensieri» (Damasio, 1994, pp. 163-164).
326
Non ripeterò mai troppo fermamente né troppo spesso che la creazione
di immagini, artistica o altro, non consiste semplicemente nella
proiezione ottica dell’oggetto rappresentato ma è un equivalente, reso
tramite le proprietà di un mezzo espressivo particolare, di quanto si vede
nell’oggetto238.
Il concetto visivo d’un oggetto, possiede tre importanti proprietà:
«concepire
l’oggetto
come
tridimensionale,
di
configurazione
costante, e non limitato ad alcun aspetto proiettivo» (Arnheim, 1954,
p. 100). Sono queste proprietà che devono essere elaborate
attraverso il medium espressivo. La realizzazione di un’immagine
concreta comporta l’utilizzazione di strumenti, mezzi materiali che, in
parte, condizioneranno la forma del pattern di pensiero239. E, d’altra
238
Arnheim, 1954, p. 94. «La dottrina illusionistica [quella che secoli fa sosteneva,
e tutt’ora sostiene, che l’arte mira ad un’illusività ingannatrice e che ogni
deviazione da questo ideale meccanico va spiegata, scusata, giustificata] si genera
da una duplice applicazione di quello che in termini filosofici ci è noto come
“realismo ingenuo”. Secondo tale punto di vista non esiste differenza alcuna tra
l’oggetto fisico e l’immagine dello stesso percepita dalla mente. La mente vede
l’oggetto come esso è. Analogamente l’opera dello scultore, o pittore, viene
considerata semplicemente come una replica del percetto. Proprio come si
suppone che la tavola vista dall’occhio sia identica alla tavola in quanto oggetto
materiale, così pure la tavola dipinta dal pittore sulla tela non è che la ripetizione
della tavola da lui vista. Al massimo, l’artista può “migliorare” la realtà o arricchirla
mediante l’intervento della fantasia, trascurando, cioè, o aggiungendo dettagli,
scegliendo esempi adatti, ridisponendo a suo piacimento il normale ordine delle
cose […].
Il procedimento riduce l’arte ad una sorta di chirurgia plastica. Gli “illusionisti”
dimenticano la basilare differenza tra il mondo della realtà e l’immagine di esso
come viene riprodotta mediante i colori o nel marmo» (Ibidem, pp. 94-95).
239
«Ogni medium prescrive il modo migliore di rendere le caratteristiche di un
modello. Per esempio, un oggetto rotondo può essere rappresentato da una linea
circolare mediante la matita. Il pennello, che produce larghe macchie, può
riprodurre l’equivalente dello stesso oggetto con una chiazza di colore in forma di
disco. Quando il medium sia la creta o la pietra, avremo l’equivalente della
rotondità nella sfera. Un danzatore lo potrà creare tracciando un movimento
circolare, ruotando attorno al suo asse d’equilibrio, o disponendo un gruppo di
danzatori in cerchio. Quando si tratti di un medium che non consente la forma
curva, la rotondità può venir espressa mediante delle linee diritte […].
Una forma che esprime ottimamente la rotondità in un determinato medium può
non esser più tale per un altro medium. Il cerchio p il disco può rappresentare la
soluzione perfetta per la pittura sulla superficie piana. Nella scultura, che è
tridimensionale, per contro, il cerchio e il disco, essendo una combinazione di
327
parte, l’immagine espressa è il risultato finale che può esser frutto di
uno o più tentativi e di una ricerca più o meno laboriosa.
Il lessico grafico utilizzato dai bambini nella rappresentazione di
figure umane, animali, piante e di tutti gli altri soggetti, trae la propria
origine dagli scarabocchi, dai diagrammi, dalle associazioni, dagli
aggregati, dai soli, dalle radiali e dai mandala che i bambini hanno
precedentemente sperimentato, e di cui hanno apprezzato nel corso
dello sviluppo l’equilibrio formale; da qui deriva uno stile personale
(che corrisponde all’uso ripetuto di determinate unità grafiche) e un
senso
estetico
riconoscibile
nelle
diverse
rappresentazioni.
Attraverso la composizione dei diversi segni, i bambini costruiscono
immagini sempre più complesse e ricche, espandendo e affinando i
concetti rappresentativi di cui dispongono.
La selezione dei concetti visuali, e l’assegnazione ad essi di compiti
specifici, comporta quel tipo di risoluzione di problemi che ho
precedentemente definito l’intelligenza della percezione. Percepire un
oggetto
significa
trovarvi
una
forma
sufficientemente
semplice,
afferrabile. La stessa cosa vale per i concetti rappresentativi che
occorrono per la costruzione di un quadro. Derivano dal carattere del
medium (disegnare, dipingere, modellare), e interagiscono con i concetti
percettivi. Le soluzioni del problema mostrano parecchia ingenuità.
Persino nei bambini piccoli, variano grandemente da persona a persona.
Si sono magari visti migliaia di disegni infantili, ma non si cessa mai di
restare colpiti dall’originalità inesauribile delle soluzioni sempre nuove al
problema di come disegnare una figura umana o un animale, con poche
linee semplici.
rotondità e piattezza, costituiranno un’imperfetta rappresentazione della rotondità
[…].
Tale traduzione dell’aspetto degli oggetti fisici nella forma appropriata a un
determinato medium non è una convenzione esoterica escogitata dagli artisti.
Modelli scalari, disegni alla lavagna, carte stradali, tutto ciò è ben lontano dagli
oggetti che si vogliono raffigurare. Ci riesce facile scoprire e accettare il fatto che
un oggetto visivo sulla carta può rappresentarne uno enormemente differente in
natura, purché ne sia l’equivalente strutturale in quel determinato medium»
(Ibidem, pp. 123-124).
328
Pensare esige qualcosa di più che pensare i concetti e assegnar loro
certi compiti. Esige che si svelino relazioni, che si scopra una struttura in
sé elusiva. L'attività produttrice di immagini serve a dar senso al mondo.
(Arnheim, 1969, pp. 302-303).
Sussiste una specie di continuità tra il pensare, il vedere e il
disegnare. L’attività grafica costringe il dialogo tra occhio e mano, tra
il vedere e il fare, tra la riflessione e l’azione. Mentre la percezione
rileva le componenti invarianti degli oggetti, strutturando le immagini
secondo i principi gestaltici della massima economia degli stimoli
visivi, per trasmettere un significato univoco di riconoscimento nel
minor tempo possibile240, la rappresentazione va oltre la visibilità,
perché il suo compito non è limitato al riconoscimento della forma,
240
«Possiamo far corrispondere la visione delle invarianti percettive al guardare
quotidiano, nel quale noi non rileviamo le singole componenti del percetto ma
cogliamo l’oggetto nella sua pienezza oggettuale, con tutto il suo portato cognitivo
e operativo, con le sue affordance. Nella nostra esperienza percettiva gli oggetti
vengono colti per il loro significato pratico, per come si offrono per soddisfare
alcune nostre esigenze pratiche. Ragion per cui la loro visione si basa sul rilievo
degli invarianti morfologici che ne consentono il riconoscimento nei diversi
orientamenti. Questo tipo di visione primaria pre-attentiva, funzionale al
riconoscimento immediato nel flusso continuo di proiezioni ottiche sempre diverse
è una visione di tipo sintetico, in cui l’insieme, il tutto prevale sulle qualità e sulle
proprietà delle singole componenti. Essa in buona sostanza risponde a un principio
gestaltico. Il compito della percezione visiva è quello di raccogliere informazioni
provenienti dal flusso ottico su quanto del nostro ambiente si presenta come
persistente, stabile, rispetto a quanto continua a mutare […].
L’atto grafico fondamentale da cui ha origine ogni disegno è, per Gibson, la
registrazione progressiva del movimento con cui la mano impugnando uno
strumento imprime una traccia su una superficie; questo movimento viene sia
sentito sia visto dal soggetto che disegna, è il segno di una cinestesia visiva.
Disegnare non è mai copiare, perché copiare un pezzo di ambiente è impossibile,
solo un altro disegno può essere copiato, quindi non esiste una ri-presentazione
letterale di un precedente assetto ottico. Si può solo preservare qualche sua
invariante così come fa la fotografia, perché le informazioni presenti in un dato
ambiente sono illimitate. Inoltre “la separazione della struttura invariante dalla
struttura prospettica è il cuore del problema. Gli invarianti mostrano un mondo in
cui non c’è nessuno, ma la prospettiva mostra dov’è l’osservatore in quale
momento”. Il bambino, precisa Gibson, quando disegna un piano rettangolare e
quattro piedi agli angoli ha disegnato i quattro invarianti del tavolo che ha rilevato
[…]. Ogni cosa, in virtù dei fenomeni di costanza percettiva, si mostra sempre
uguale a se stessa, per lo sguardo ecologico, e sempre diversa per forma, colore,
dimensione, orientamento, per lo sguardo del disegnatore» (Di Napoli, 2004, pp.
309-311).
329
ma alla costruzione di quella particolare visibilità attraverso quel
particolare medium.
Attraverso i loro disegni i bambini non creano un linguaggio
completamente arbitrario; scoprono invece stimoli che sono in
qualche modo simili ai tratti in base a cui il sistema visivo
normalmente codifica le immagini degli oggetti nel campo visivo e
tramite i quali guida le azioni241.
Quando si traversa un museo e si osserva la configurazione data alla
testa umana dagli scultori di età e di culture diverse, ci si rende conto
che lo stesso semplice prototipo si può riflettere in un’infinità di
rappresentazioni ugualmente valide […]. Ciascuna ha la sua validità,
ciascuna ottiene il risultato voluto.
Questa capacità di inventare un pattern incisivo, soprattutto quando è
applicata a forme familiari come la testa o la mano, è nota come
immaginazione artistica, che non è in primo luogo l’invenzione di un
soggetto nuovo e nemmeno la creazione di una qualsiasi nuova
configurazione: più correttamente la si può definire come il fatto di
trovare una forma nuova ad un vecchio contenuto, o, - se non si vuole
usare la comoda dicotomia tra forma e contenuto – un nuovo concetto
per un vecchio soggetto. In effetti, l’invenzione di nuove cose o
situazioni è valida soltanto in quanto esse valgono ad interpretare un
vecchio – ossia universale – elemento dell’umana esperienza […].
241
«Il disegno, pur non avendo nessuna proprietà dell’oggetto e non essendo
simile allo stesso, funziona come se lo fosse. I dati sulle condizioni che devono
realizzarsi perché il disegno sia facile da comprendere (e il disegno schematico è
più facile da comprendere del disegno realistico) impongono di riflettere sulla
differenza tra percepire un disegno e produrre un disegno, distinzione occultata dal
continuo confronto col linguaggio parlato per il quale, anche se in certe condizioni
(prime fasi di sviluppo del linguaggio, uso delle lingue straniere, mutismo), la
comprensione supera la produzione, parlare e ascoltare è un processo integrato.
Per percepire un disegno “semplice” il nostro sistema visivo funziona come per
percepire e codificare il mondo stesso. Perciò tutti, in linea di massima, siamo in
grado di “leggere” un disegno nella misura in cui siamo in grado di percepire e
codificare gli oggetti. Fare un disegno, viceversa, significa inventare un equivalente
bidimensionale dell’oggetto tridimensionale rispettando “quei tratti in base a cui il
sistema visivo normalmente codifica le immagini degli oggetti” […]. Fare disegni
allora, è più difficile che percepire disegni, soprattutto se il percepire si riduce al
riconoscimento e i tratti grafici sono organizzati in modo da facilitare quest’ultimo»
(Pizzo Russo, 1988, pp. 118-119).
330
L’immaginazione visiva è un dono della mente umana, dono che nel
soggetto medio si manifesta fin dai primi anni d’età. (Arnheim, 1954, pp.
124-125).
Così come il vedere non si può risolvere nel disegnare, il disegno
non può riprodurre tutto ciò che si vede242. Mentre la visione riguarda
la produzione di concetti visivi, attraverso il disegno, il bambino
elabora concetti rappresentativi in grado di esprimere i contenuti del
suo pensiero visivo.
E’ evidente che l’oggetto di per sé stesso determina soltanto un minimo
di tratti strutturali, richiedendo sempre l’intervento dell’immaginazione,
nel senso letterale della parola, ossia di quell’attività che permette di
tradurre le cose in immagini […]. La mente, quando per qualche ragione
è libera dalla consueta sottomissione alla molteplicità della natura,
organizza le forme secondo le tendenze che governano il proprio
funzionamento. Possediamo ampie prove che in questo caso essa tende
verso la strutturazione più semplice, cioè verso la configurazione più
regolare, più simmetrica, più geometrica possibile nelle circostanze date.
(Arnheim, 1954, pp. 125-127).
Interessante ed eloquente ci sembra a questo proposito il disegno di
Martina (5,11) in figura 121, p. 77. Si tratta di alcune prove di “copia
242
«La prima ragione riguarda la natura selettiva dei mezzi di comunicazione […].
La seconda ragione è connessa con i punti di riferimento, che si radicano nella
memoria a lungo termine. Ogni nuova informazione viene subito riferita a tali punti,
sebbene noi siamo raramente consci che stiamo facendo tali riferimenti. Noi ci
consideriamo come se prendessimo atto di nuovi dati nella loro propria
costituzione, ignorando che le percezioni di oggi sono inevitabilmente modificate
da quelle di ieri […]. Il terzo punto è legato alla natura della percezione. La maggior
parte delle persone sono pronte a riconoscere che la percezione è il prototipo,
l’unità di base, dell’esperienza, in modo che la struttura dell’atto percettivo ha
probabilità notevoli di riflettersi in attività mentali più complesse, compresi gli atti di
comunicazione. Si è anche generalmente d’accordo che l’apprendimento svolge un
ruolo importante nella percezione e che, quando l’apprendimento si è realizzato, gli
abiti rientrano nella riattivazione della percezione in modo che la nostra
consapevolezza degli oggetti famigliari si colora sempre di ciò che noi crediamo
che siano; in altre parole la percezione residua che agisce come segno o
strumento dell’esperienza originaria finisce per restare erosa e impoverita» (Parry,
cit. in, Massironi, 1982, p. 57).
331
dal vero” del naso visto allo specchio. Nella rappresentazione la
bambina si limita all’enumerazione di alcuni tratti particolati e usa
delle forme geometriche e ben definite per identificare il più
esattamente possibile la qualità, la funzione, l’importanza e i rapporti
reciproci
tra
i
tratti
che
ha
individuato.
Come
abbiamo
precedentemente visto gli stadi iniziali di evoluzione del linguaggio
grafico producono forme fortemente astratte «perché lo stretto
contatto con la molteplicità del mondo fisico non è, o almeno non
ancora, pertinente ai compiti della pittura» (Arnheim, 1954, p. 128).
Nel corso dello sviluppo gli usi della cultura implicano processi di
espansione e raffinamento del codice grafico, definendo le
operazioni “lecite” o “comprensibili” possibili243.
In questo, come in altri casi, è possibile sostenere che il disegno
svolga la funzione di produrre visione, e quindi conoscenza: la
messa in codice del percetto promuove la sua visibilità, evidenziando
caratteristiche, proprietà, aspetti che soltanto quando sono disegnati
possono essere ri-visti.
Quando disegniamo il contorno di un oggetto, sia pure in maniera
estremamente impacciata, creiamo per il senso della vista qualcosa che
243
«Per la lettura delle rappresentazioni pittoriche dello spazio esistono modalità
corrette e scorrette, e la modalità giusta è determinata in ogni caso dallo stile di un
dato periodo o stadio di sviluppo».
«La forma è determinata non soltanto dalle proprietà fisiche del materiale, ma
anche dallo stile di rappresentazione proprio di una specifica cultura o di un singolo
artista. Una chiazza di colore piatta può costituire una testa umana nel mondo
pittorico essenzialmente bidimensionale di Matisse: ma la stessa chiazza
apparirebbe piatta invece che rotonda in uno dei dipinti fortemente tridimensionali
di Caravaggio […].
Si nota che in determinate condizioni culturali un’arte più realistica non servirebbe
meglio allo scopo dell’artista, ma al contrario l’ostacolerebbe. Le immagini
primitive, ad esempio, non sorgono né da una curiosità distaccata, né da un’attività
“creativa” fine a se stessa; non sono certo fatte per produrre piacevoli illusioni.
L’arte primitiva, invece, è uno strumento pratico per molti importanti compiti della
vita giornaliera: dà corpo a poteri sovrumani così da renderli attivi in concrete
azioni; rimpiazza oggetti reali, animali o uomini, e in tal modo si addossa i loro
compiti; registra e trasmette informazioni; rende possibile l’esercizio di “influssi
magici” su creature e cose lontane» (Arnheim, 1954, rispettivamente pp. 118, 123
e 128).
332
non potremmo creare per quello del tatto: produciamo qualcosa che
mostra la visibilità di un oggetto, e facendo questo, creiamo qualcosa di
diverso e di nuovo rispetto a ciò che prima costituiva la conclusione del
nostro processo di percezione visiva […]. Dovremo riconoscere che
anche nel più impacciato tentativo di rappresentazione figurativa c’è
qualche cosa che sorpassa la semplice percezione visiva […]. V’è in
essa qualcosa di nuovo: la mano che traccia un segno compie uno
svolgimento
ulteriore
dell’attività
del
senso
visivo,
cominciando
esattamente dal punto in cui l’occhio aveva raggiunto il culmine della
propria attività […].
Per quanto la cosa possa sembrare paradossale, bisogna dire che l’arte
comincia solo quando cessa la visione. (Fiedler, cit. in, Di Napoli, 2004,
p. 292).
E’ il tipo di informazione aggiuntiva richiesta al pensiero affinché sia
possibile “mettere in forma” le sue immagini percettive, che consente
al bambino di fare esperienza del mondo attraverso il medium grafico
e di rendere comprensibile ad altri e a se stesso la propria
esperienza:
vedere per disegnare significa attivare un processo visivo conoscitivo
autentico della cosa in visione. L’occhio del disegnatore, a differenza di
quello del pescatore, della sentinella, che guardano sapendo già che
cosa devono vedere, e che hanno affinato il loro sguardo al riconoscimento di quanto dà loro da vedere il visibile; lo sguardo del
disegnatore vede quel che ancora non conosce, ciò che ancora non sa
cosa sia autenticamente.
Il pescatore e la sentinella hanno cura del cristallino, il pittore e il
disegnatore hanno cura della retina, i primi vedono sostantivi, cose e
oggetti noti, mentre i secondi vedono colori e forme singolari. (Di Napoli,
2004, p. 280).
La raffigurazione di ogni soggetto comporta una re-visione
concettuale. Rappresentare ad esempio un re, significa ri-percorrere
333
i tratti che caratterizzano la figura umana, il suo abbigliamento, il suo
ruolo; messo a fianco di una regina sarà caratterizzato da altri tratti e
pensato attraverso altre modalità.
Queste ed altre “conoscenze” sono implicite nel concetto di “re”, di
“regina” e “di re e di regina”. Ad un’unica parola, corrispondono e
vengono esplicitate nella rappresentazione grafica una serie di
conoscenze aggiuntive, sulle quali il bambino opera materialmente.
Allo stesso modo, rappresentare un principe a cavallo significa
trovare sia le forme più appropriate per ognuno dei due soggetti, che
risolvere il problema della loro interazione (e non solo della loro
relazione). Si tratta di un problema aggiuntivo, che deve trovare una
soluzione attraverso la rappresentazione grafica; si tratta di un
problema conoscitivo che implica una riflessione aggiuntiva sulle
conoscenze precedenti.
La rappresentazione grafica presuppone un atto ricettivo del quale
costituisce la restituzione, la ri-presentazione: viene restituito al mondo
ciò che del mondo era stato percepito, la percezione prima, e la
restituzione
poi,
si
pongono
come
i
due
movimenti-momenti
(antecedente-seguente, interno-esterno), attraverso cui l’oggetto riferito
viene sottoposto ad un processo di selezione, enfatizzazione, astrazione
e
simbolizzazione
delle
sue
proprietà
fenomeniche.
L’atto
del
rappresentare implica l’istituzione di una doppia distanza rispetto al
rappresentato, sia spaziale (dislocazione), sia temporale (successione);
impone cioè una netta differenziazione tra ciò che costituisce il soggetto
e ciò che costituisce l’oggetto […].
L’atto stesso del rappresentare essenzialmente significa ri-presentare,
produrre cioè una seconda presenza, ma con mezzi e segni
materialmente diversi dalla materia di cui è fatta la cosa che si vuole
rappresentare; dunque letteralmente significa ri-produrre il medesimo
con il diverso. La relazione tra l’immagine e la cosa si basa sul rapporto
di rassomiglianza che le unisce e che tuttavia le distingue. (Ibidem, pp.
319-321).
334
In un paragrafo precedente abbiamo visto come “creare una
somiglianza” significhi evidenziare i tratti più rilevanti di un soggetto,
e di quanto apprendimento sia richiesto al bambino per arrivare a
comprendere quali siano “i tratti più rilevanti” secondo gli usi propri
della cultura cui appartiene.
Il disegnatore finisce per funzionare come un operatore che favorisce il
processo percettivo del soggetto. Egli seleziona in funzione del modo di
vedere che gli è dettato dalle proprie propensioni e dal consenso della
società cui appartiene. Come il sistema percettivo del soggetto filtra gli
stimoli visivi, li organizza e sceglie, fra le infinite possibilità di senso,
quale significato realizzare, così opera preventivamente il disegnatore.
Per fare questo deve attuare scelte radicali, proporre enfatizzazioni
coinvolgenti, erigere ampie parentesi entro cui rinchiudere ciò che per il
momento potrebbe confondere o far venire dubbi; deve in sostanza
innescare quel processo di conoscenza che è tale proprio perché egli
opera delle scelte interpretative direzionate; deve proporre dei punti di
vista che spesso diventano dei filtri convenzionali di osservazione, ma
che a loro volta saranno in altri casi negati. Nel momento che si
configura come visivamente legittima, una trascrizione grafica tende ad
escludere tutte le altre possibili trascrizioni e le altre interpretazioni. Ma
tale negazione è la porta aperta attraverso cui si potrà fare avanti una
nuova proposta, una nuova dizione, un nuovo significato. (Massironi,
1982, p. 61).
Non esiste un solo modo di rappresentare un oggetto; come non
esiste un solo modo di guardarlo; così, la scelta operata dal bambino
nella rappresentazione di determinati tratti visivi a scapito di altri
corrisponde ad un momento d’interpretazione, di conoscenza, di
comunicazione.
Si trova allora che smontare il significante non ci porta a scoprire il
significato, ma a costruire altri significanti; così il disegno che
rappresenta un oggetto, mentre ci da delle informazioni su quell’oggetto,
335
si propone come nuovo oggetto che necessita di spiegazione e così di
seguito. Allora la rappresentazione funziona come una produzione, anzi,
[…] è la progettazione che sta a monte della produzione: il lay-out è
quell’oggetto che come un universo di oggetti racchiude in sé non solo
“lo schema di un funzionamento”, ma “la dinamica di un comando”, “la
trasmissione di un’ideologia”, “la condizione di un rapporto”, “l’imporsi
della prevaricazione”, “l’inverarsi della valorizzazione”, “il programmarsi
dell’appropriazione”, “l’organizzarsi dell’insubordinazione”, e così avanti.
(Ibidem, pp. 70-71).
Le
ricerche
psicologiche
sperimentali
hanno
fornito
varie
interpretazioni dei processi percettivi, evidenziando come essi non
costituiscano una mera registrazione degli stimoli esterni: la
percezione presiede e innesca attività complesse di elaborazione,
comprensione, trasformazione, completamento, adattamento ad
esigenze individuali, attribuzione di qualità… agli stimoli esterni (o
interni) che, attraverso quest’attività, vengono compresi e “visti”. Non
esistono invece ricerche che riguardano la produzione di stimoli visivi
fatti in funzione dell’osservatore di quelle immagini.
Nasce quindi il problema di che cosa il disegnatore consideri utile, in
maniera più o meno cosciente, per la resa visiva del suo elaborato;
che cosa assuma come aspettativa del fruitore da soddisfare. Queste
sono, presumibilmente, le condizioni che determinano le scelte degli
indici che concorrono alla sua realizzazione finale.
Dovendo definire la nuova condizione prodotta dal testo grafico, ci si
trova di fronte ad un meccanismo complesso.
Infatti il contenuto cognitivo dell’emittente-disegnatore, viene da questi
codificato utilizzando alcuni stimoli visivi e alcune procedure conosciute
della dinamica percettiva che egli sa manipolare. Tali stimoli saranno
vissuti da un soggetto percipiente come informazione elaborata; quindi
come riproposizione di seconda istanza degli stimoli dell’oggetto
rappresentato. Egli si troverà così ad interpretare il nuovo oggetto
costituito dal materiale grafico e si renderà conto che il referente di ciò
336
che sta osservando non è l’oggetto rappresentato, ma una sua
interpretazione per così dire primaria.
In questa catena (oggetto rappresentato-interpretazione dell’oggetto
ritratto) egli non si trova allontanato, estraniato dal significato di
quell’oggetto, anzi quell’interpretazione e trascrizione rendono la cosa
rappresentata più consona alle sue aspettative, o carica di altri e nuovi
significati, o più chiara in quanto meno ambigua. (Ibidem, p. 137).
La capacità di rendere visibile una conquista percettivo-conoscitiva,
oltre che nella rappresentazione di oggetti esterni si manifesta anche
nel riuscire ad organizzare segni grafici per comunicare i risultati di
un ragionamento.
In figura 122-127, da p. 78 a p. 80, troviamo alcune riproduzioni di
modelli ipotetici di funzionamento “dei pensieri”.
Dopo
una
conversazione guidata a piccolo gruppo con domande stimolo quali:
cosa sono i pensieri, a che cosa servono, dove sono; è stato chiesto
ai bambini di rappresentarli.
In figura 122, p. 78, Linda (6,3) colloca il cervello nella pancia; Dieu
Anh (6,8) e Alina (6,10), rispettivamente in figura 123, p. 78 e 124, p.
79, paragonano i pensieri a dei “biglietti” (“zeltel”). Alina in particolare
differenzia i pensieri “giusti” e “sbagliati” collocandoli in zone diverse
della “grande scatola” che contiene i pensieri all’interno del cervello.
Joël (7 anni) in figura 127, p. 80, fa uscire i suoi pensieri dalla testa
trasformandoli in lettere e verbalizza “qualche volta penso con parole
e qualche volta con immagini”.
I bambini si sono trovati a dover rappresentare qualcosa di poco
noto. Ciò che viene espresso visivamente è, in questo caso, non la
forma di un oggetto ma una forma che rende conto di come possono
stare insieme ed interagire gli elementi di un ragionamento alla luce
delle conoscenze che essi hanno (si noti la stereotipia di alcuni
cervelli) e di quelle acquisite durante la conversazione guidata.
Potremmo dire che si tratta di un modello ipotetico di funzionamento
337
che ha lo scopo di chiarire e comunicare il comportamento supposto
degli elementi interagenti presi in considerazione.
I bambini hanno costruito un’ipotetigrafia, ovvero un prodotto grafico
che contribuisce a dare forma visiva alle ipotesi che essi hanno
formulato per spiegare il comportamento dei pensieri nella loro vita.
Si tratta di un prodotto grafico che anziché tendere al massimo di
economia e semplicità, tende piuttosto al massimo di chiarezza e
logicità. Si tratta di uno sforzo immaginativo notevole in cui una parte
importante viene giocata anche dalla parola, necessaria a definire la
cosa rappresentata e i legami intercorrenti tra i segni grafici e i
contenuti da essi veicolati.
Pur partendo da una condizione percettiva, in questo caso è evidente
come l’impegno dei bambini in questa attività si sposti velocemente
sul piano del ragionamento, della comprensione, dell’attenzione,
dell’individuazione
di
relazioni
logicamente
accettabili;
e
ciò
diversamente da quanto si verifica, ad esempio, nella copia dal vero
di un soggetto in cui si riscontra quasi una messa tra parentesi di
quel particolare tipo di attività intellettive.
Le difficoltà circa la causa della rappresentazione scaturiscono dal fatto
che la rappresentazione di origine sensibile dipende al contempo da una
elaborazione
significante
operata
dal
soggetto
e
dall’effettiva
sottomissione di questi a un contenuto percettivo venuto dall’esterno
[…]. Nella rappresentazione interviene il sistema pensiero-linguaggio: la
rappresentazione è una percezione interpretata, un sensibile e al
contempo (mediante dei concetti) una descrizione. (Gil, cit. in, Massironi,
1982, p. 56).
338
4.4
Raffigurazione dell’oggetto e funzione comunicativa
del disegno
Lasciare una traccia, costruire rappresentazioni attraverso il disegno
e creare immagini, sono mezzi utilizzati dal bambino per esplorare
oggetti e situazioni. Le forme create possono riprodurre oggetti reali,
immaginari, ipotesi, situazioni vissute o fantastiche.
Via via che il bambino cresce e diventa più esperto attraverso la
pratica con il codice grafico, si scontra con problemi nuovi ed elabora
strategie di risoluzione.
L’attività grafico-pittorica conferisce il potere di fare e disfare, di
conoscere l’oggetto e se stessi più intimamente, cosa a cui i bambini
sono molto appassionati. Il loro coinvolgimento nel “fare arte” è in gran
parte diretto all’interiorità e tende verso una sempre maggiore
articolazione: disegnare e dipingere sono enunciazioni espressive a
proposito di ciò che si conosce, si prova e si vuol capire. È un dialogo
con se stessi che, come qualsiasi attribuzione di significato, è
intrinsecamente espressivo. È un’attività di problem solving sovente
permeata di emozioni intense e di interessi che sono vicine al cuore
dell’artista.(Golomb, 2002, p. 45).
Golomb distingue, a proposito dell’intenzione e della motivazione dei
bambini al disegno, due tendenze: una narrativa e una espressiva.
La tendenza narrativa è motivata dal desiderio di raccontare una storia,
di trasmettere informazioni relative alla natura e alla funzione degli
oggetti, alla disposizione di una scena e alle azioni e intenzioni dei
protagonisti. Il desiderio di essere competenti dal punto di vista narrativo
governa, con lo scopo di trasmettere in modo efficace il messaggio la
differenziazione
e
la
coordinazione
tra
i
vari
elementi
della
composizione. La tendenza espressiva si manifesta nella scelta di forme
e colori che trasmettono un messaggio affettivo, nell’esagerazione della
339
dimensione e dei cromatismi di alcune parti del corpo, e nel piacere
estetico della decorazione. (Ivi).
L’autrice sottolinea come a volte sia possibile leggere negli elaborati
dei bambini la tensione tra le due tendenze: il desiderio di rendere
meno ambigua la rappresentazione (per motivi narrativi) e «la
tendenza giocosa a utilizzare l’espressione fine e se stessa» (ivi).
Queste tendenze condurrebbero, secondo Golomb, allo sviluppo di
stili differenti di rappresentazione e comporterebbero diversi tipi di
soddisfazione per il bambino.
A titolo esemplificativo possiamo vedere come in figure 128 e 129, p.
81, l’aspetto espressivo prevalga su quello narrativo nelle grafiche di
Emily (6,1) e Linda (4,5) rispettivamente.
In figura 130, p. 82, tutta l’esperienza vissuta in palestra da Jonny
(5,8), il gioco del fare canestro, viene ri-trascritta attraverso una vera
e propria narrazione grafica244: il tema è completamente rielaborato
attraverso una narrazione mista di elementi fantastici (la stanza
dell’operatrice, Katia, nel soffitto della palestra; una macchina
fotografica nascosta; una specie di meccanismo che, messo sulla
testa dei bambini, fa fare loro canestro, “il satellite”… non a caso
Liam “ce l’ha rotto”) e realmente vissuti. In Jonny, la tendenza
narrativa sembra dominare anche le altre produzioni grafiche [fig. 54,
p. 34; 60, p. 37; 64, p. 39].
244
La consegna dell’adulto, dopo una conversazione a grande gruppo sulle attività
svolte il giorno precedente, in cui i bambini, a turno, elencavano e spiegavano tutte
le attività proposte dalla conduttrice del laboratorio era di disegnare l’attività che
era piaciuta di più tra quelle di cui si era parlato. Jonny ha scelto l’attività in cui i
bambini, in fila indiana, davanti ad un canestro, dovevano cercare di fare centro. I
bambini avevano a disposizione solo alcuni palloni: il primo della fila, dopo un
tentativo di canestro, aveva il compito di raccogliere il pallone che aveva utilizzato,
mettersi in coda alla fila e passarlo al bambino che aveva davanti (l’ultimo della
fila) che a sua volta lo dava a quello davanti a lui e così via. In questo modo i primi
bambini, con il pallone in mano, potevano tentare il canestro, raccogliere il pallone,
accodarsi e far avanzare la fila in modo scorrevole. Tra i bambini della sezione,
Liam era quello che si arrabbiava di più, perché non riusciva mai a fare canestro, e
spesso la rabbia si trasformava in drammatiche scenate di pianto.
340
Le figure 50, p. 32 e 2-a, p. 6, possono invece essere considerate
come esempi di grafiche in cui coesistono le due tendenze. Nella
prima Linda (5,4) si attiene alla consegna: disegnare la sorpresa
dell’uovo di pasqua, ma poi riempie il disegno con motivi decorativi
che non hanno valore rappresentativo, quanto, piuttosto, espressivo;
in figura 2a (Giulia 5,7) la torta si stacca dalla composizione e risalta
per la meticolosità con cui vengono riempiti di colore i diversi strati
che la compongono e per le dimensioni, mentre rimane sullo sfondo
il tema del disegno (“un disegno per il papà”).
Interessante confrontare la grafica di Jonny (5,8) con quella di
Salvatore (5,4) e di Glenis (6,3), in figura 130, p. 82; 63, p. 39; e 84,
p. 52 rispettivamente. Si tratta di disegni della stessa attività, esegui
da tre bambini diversi dopo la stessa conversazione a grande
gruppo.
La loro comparazione evidenzia la dialettica tra enfatizzazione ed
esclusione del processo rappresentativo e il suo costituirsi come
codice parallelo a quello orale. In ogni immagine alcuni tratti,
elementi, caratteristiche sono evidenziati in modo che risultino ben
leggibili, altri vengono completamente trascurati, volutamente
ignorati, cancellati, come se non esistessero oppure, al contrario,
sono trasformati e trasfigurati.
Così sia Jonny che Salvatore “ci dicono” che Liam non è stato in
grado di fare canestro, ma mentre Jonny ricorre ad una modalità
fantastica di argomentare (sia attraverso il disegno che attraverso la
verbalizzazione che lo esplicita), Salvatore documenta il fatto
attraverso una grafica simmetrica in cui si vede “Liam che non riesce
a fare canestro” e “io che faccio canestro” rispettivamente a sinistra e
a destra del foglio; mentre la distanza tra le due diverse esperienze è
sottolineata graficamente da “il cerchio dove ci si siede” posto tra i
due bambini. Questo disegno è interessante perché evidenzia un
altro problema che nella rappresentazione deve essere risolto: la
rappresentazione del “movimento nel tempo” ovvero la traduzione
341
mediante un disegno, i cui elementi sono simultanei ed invariabili, di uno
spettacolo in cui elementi si sostituiscono gli uni agli altri mentre altri
restano invariati, senza che sussista una relazione di continuità tra i vari
momenti. (Luquet, 1927, p. 181).
La soluzione cui ricorre Salvatore è quella di disegnare la sequenza
degli spostamenti del pallone nello spazio245. Anche questa
immagine
rappresenta
una
rielaborazione
grafica
“fantastica”
dell’accaduto: il fine comunicativo, ossia il messaggio che Liam, a
differenza dell’autore, non è riuscito a fare canestro, trova una sua
modalità espressiva attraverso una grafica che “tradisce” il reale
svolgimento dell’evento; in realtà, i bambini erano in fila indiana e
ognuno aspettava il proprio turno246.
245
«Fatti, cose e personaggi sono colti dal bambino nello spazio e nel tempo, in
modo che si dovrebbe sempre parlare di raffigurazioni spazio-temporali. Secondo
l'opinione corrente, invece, un disegno o un dipinto fisserebbero soltanto un
momento del tempo. Ma in realtà non è così» (Piantoni, 1992, p. 30).
246
Nell’analizzare quali livelli di conoscenza possono essere perseguiti e trasmessi
dalla notazione grafica da un lato e dal linguaggio-scrittura dall’altro, Massironi
dichiara che «la notazione grafica ha una funzione solo assertiva. Non può
esprimere una negazione. Non si può rappresentare un oggetto come “non alto”,
può essere rappresentato solo come “basso”, la definizione di “non alto” o “non
basso” hanno un senso solo nell’enunciato verbale, non in una stesura iconica.
Non si può rappresentare una superficie come “non rossa”, ma solo come “verde”
o “nera” o “gialla” ecc.
L’immagine iconica non pertiene alla logica formale, non può rientrare nella
dinamica del “vero” versus “falso”. L’immagine presentata o rappresentata è
sottratta alla determinazione di “verità”. Si possono costruire figure indecidibili o
incongrue o ambigue, ma nel momento che vengono mostrate esse rendono
presente l’indecidibilità, l’incongruità, l’ambiguità.
Il dilemma vero-falso non riguarda l’immagine perché non può essere
rappresentato il “falso”. La condizione di “falso” può risiedere soltanto in un legame
posto dall’esterno fra un’immagine e un’asserzione verbale che la riguardi […].
L’immagine per se stessa può essere assunta e viene sempre assunta come
“vera” e ciò in conseguenza del suo essere per molti versi sempre e solo “falsa”
(vale a dire presentazione fantasmatica di qualcosa di possibilmente esistente, ma
che della cosa esistente ha solo l’aspetto) e così essendo troppo complicato
assumere come frequente la falsificazione di una falsificazione, si è portato ad
accogliere quel “falso” come “vero” pur nell’indifferenza di fatto della figura nei
confronti di questi due poli.
L’impossibilità di decidere se è “vero” o “falso” quanto rappresentato in
un’immagine ci porta ad usare frequentemente, a cercare, e a leggere sempre con
avidità, la didascalia che accompagna l’immagine. Anche in una fotografia
342
Quest’ultimo fatto è invece rappresentato nel disegno di Glenis (6,3)
in figura 84, p. 52, che si presenta come più “lineare”: i bambini solo
in fila indiana, “girati” verso il canestro, tutti con il pallone in mano,
tranne lui, che ha “fatto canestro con la palla”.
L’attività dei canestri viene ri-presentata in modalità e forme dettati
da un’intenzione comunicativa specifica, intenzionale e volontaria
che determina la scelta degli elementi strutturali che costituiscono le
diverse grafiche. Questi esempi sono sì collegati al linguaggio
verbale (nel senso che riproducono anche le conoscenze dei bambini
emerse durante la conversazione a grande gruppo), ma si
presentano altresì come una
forma di scrittura nel senso tecnico e generale della parola […]. Il
legame che unisce il linguaggio all’espressione grafica è coordinativo e
non subordinativo, come invece succede con la scrittura lineare, in cui
l’espressione grafica è completamente subordinata all’espressione
fonetica. (Squillacciotti, 1995, p. 148).
Nell’analisi condotta da Massironi sull’immagine come equilibrio tra
enfatizzazione ed esclusione l’autore sottolinea come
osservando attentamente un’immagine grafica, da essa emerga con una
certa facilità quanto vi è di sottolineato, prescelto e rinforzato, mentre
riesce più difficile elencare un certo numero di elementi tralasciati, anche
se solitamente questi ultimi sono in numero assai maggiore. Ciò dipende
dalle qualità coinvolgenti ed assorbenti dell’immagine, che si propone
sovente dal punto di vista cognitivo come un surrogato molto
convincente della realtà.
andiamo a cercare quel breve tratto verbale che ci aiuti nella nostra decisione
cognitiva […].
Ma l’uso della didascalia ci rassicura perché contribuisce a far rientrare i dati
percettivi acquisiti nella meccanica di una logica conseguente. Le registrazioni
sensoriali sono il mezzo attraverso cui il mondo che è fuori di noi viene a far parte
della nostra coscienza; ogni stimolazione quindi, di qualsiasi genere sia, mette in
moto un’intrinseca disposizione ad assumere come reale quanto verificato
sensibilmente» (Massironi, 1982, p. 95).
343
Nel momento in cui le stimolazioni offerte dal disegno mimano quelle
provenienti
da
quell’immagine,
un’ipotetica
siamo
realtà
trascinati
parimenti
dalla
congruente
logica
serrata
con
della
rappresentazione.
Osservando un’immagine, di tal genere, non si ha quasi mai
l’impressione di mancanza. Pur avendo coscienza di essere intenti ad
osservare
una
rappresentazione,
non
si
percepisce
quanto
rappresentato come mero sostituto, ma, di solito, come una realtà a sé
stante, in qualche modo completa e buona, non carente.
Si può interpretare questo fatto dicendo che il lavoro di enfatizzazione
tende a non lasciare vuoti. (Massironi, 1982, pp. 56-57).
La parte che viene enfatizzata nel processo rappresentativo è
sempre convincente, anche quando ciò che viene proposto (come
nel disegno di Jonny, ma ancor più in quello di Salvatore) non è ciò
che è effettivamente accaduto247. Essa è così attraente e informativa
da non farci sentire “la mancanza” di ciò che è trascurato e questo è
valido non solo per il contenuto della rappresentazione, ma anche
per gli elementi che fanno parte della scena che si vuole
rappresentare.
Lo stesso fenomeno si verifica nel processo percettivo quando la
messa a fuoco del nostro sguardo su un oggetto o un evento, ci fa
trascurare, non vedere, tutto il resto.
K. Koffka (1935) definisce con i termini “cosa” e “non cosa” la gerarchia
di qualità che esiste fra le diverse parti del campo percettivo.
Da queste indicazioni risulta intuibile che il primo fenomeno che
involontariamente
ma
necessariamente
trascuriamo
nella
rappresentazione concreta è lo sfondo, e quello che enfatizziamo è la
figura. Si può vedere come nei disegni dei bambini e nelle arti primitive
in genere, non venga praticamente trattato lo sfondo relativo
247
Anche la grafica di Glenis non ci dice “la verità”. Tutti i bambini, nel suo disegno,
hanno il pallone; anche Glenis ha dovuto “piegare” l’accaduto affinché il suo
messaggio risultasse chiaro e non ambiguo.
344
all’ambiente in cui sono inseriti i protagonisti rappresentati. Ma anche il
disegnatore più avveduto attua automaticamente una cernita degli
elementi da fare risaltare o da trascurare nella stesura del suo elaborato,
e tale cernita è determinata solitamente dalla tecnica appresa, dalle
convenzioni stilistiche e dai condizionamenti correnti. (Ibidem, p. 60).
In particolare il processo di enfatizzazione/esclusione non è un
processo solipsistico che il bambino attua isolatamente. Si tratta di
un atto comunicativo “situato” in un contesto specifico, la scuola, in
cui hanno un importante valore per il bambino, le richieste del
“lettore” del messaggio grafico, ovvero quelle dell’insegnante, il cui
obiettivo è quello di far sì che il bambino sviluppi un codice grafico
specifico.
Rappresentare iconicamente l’oggetto significa allora trascrivere per
mezzo di artifici grafici (o di altro genere) le proprietà culturali che gli
vengono attribuite. Una cultura, nel definire i propri oggetti, si rifà ad
alcuni codici di riconoscimento che individuano tratti pertinenti e
caratterizzanti del contenuto. Un codice di rappresentazione iconica
stabilisce quindi quali artifici grafici corrispondono ai tratti del contenuto,
ovvero agli elementi pertinenti fissati dai codici di riconoscimento. La
maggior parte delle rappresentazioni iconiche schematiche verificano
letteralmente questa ipotesi (il sole come cerchio con raggi, la casa
come quadrato sormontato da un triangolo eccetera). Ma anche nei casi
di rappresentazione più “realistica” si possono individuare blocchi di
unità espressive che rinviano non tanto a ciò che dell’oggetto si vede ma
a ciò che si sa, o a ciò che si è imparato a vedere. (Eco, 1975, pp. 272273).
Gli “scolari”, nel processo di rappresentazione grafica, dovranno
dunque enfatizzare ed escludere elementi grafici specifici sia in
funzione del significato che intendono esprimere che delle richieste
dell’insegnante che a sua volta nel processo di lettura-valutazione
dei prodotti dei bambini, fa riferimento, più o meno consapevolmente,
345
ad un codice iconico248 specifico, che è quello, nella scuola, di tipo
“artistico”.
Accade spesso che il prodotto grafico cambi in relazione alla
situazione comunicativa che si verifica tra adulto e bambino durante
la sua realizzazione, alle reciproche relazioni interpersonali, alle
richieste di “approfondimento” dell’adulto rispetto ad un soggetto o di
aiuto del bambino rispetto ad un problema grafico. Tutto ciò non “si
vede” nel disegno in cui sono simultaneamente visibili soltanto gli
elementi che esso contiene. Le “mancanze” si avvertono solo
durante l’operazione del fare, quando la necessità di costruire
un’immagine soddisfacente porta il bambino (e l’insegnate) ad
osservare in maniera analitica le indicazioni fornite dalla grafica. Solo
allora è possibile constatare la mancanza di un particolare,
l’ambiguità di una relazione, la non leggibilità di alcuni elementi.
Ma queste mancanze sono determinate dal fatto che il sapere del lettore
del disegno non può supplire in maniera soddisfacente la loro assenza,
perché il suo sapere, la sua conoscenza non sono sintonizzati con
quella del progettista. Si crea un vuoto, un buco nell’informazione, per
evitare il quale il progettista è costretto a dettagliare il suo disegno in
maniera sempre più particolareggiata (Massironi, 1982, pp. 67-68).
Come le narrazioni verbali, i disegni possono essere letti come coproduzioni tra interlocutori:
nel disegno, come nel linguaggio c’è un adattamento del messaggio al
contesto, che indirizzerebbe tanto la selezione di cosa rappresentare e
come
rappresentarlo,
quanto
la
scelta
della
prospettiva
e
la
coordinazione tra gli elementi considerati. (Donsì – Parrello, 2005, p.
10).
248
«Si può allora parlare di codice iconico come del sistema che fa corrispondere a
un sistema di veicoli grafici unità percettive e culturali codificate, ovvero unità
pertinenti di un sistema semantico che dipende da una precedente codifica
dell’esperienza percettiva» (Eco, 1975, p. 274).
346
In generale i temi che i bambini ritraggono attraverso le loro
narrazioni grafiche riflettono esperienze vissute e costituiscono
descrizioni (spontanee o indotte) di eventi sociali cui hanno preso
parte: compleanni, vacanze, momenti di vita scolastica o familiare,
uscite domenicali con la famiglia, episodi divertenti o momenti
“drammatici”, messaggi per amici o insegnanti…
Attraverso il disegno il bambino da ordine alle proprie esperienze e le
rende “pubbliche”. Nel disegnare seleziona ciò che per lui è rilevante
comunicare di un vissuto, affinché la sua comunicazione risulti
efficace ed esteticamente piacevole.
Per David Olson «i campi esecutivi o media di maggiore rilievo per lo
sviluppo percettivo dei bambini sono quelli che hanno un rapporto
con l’attività nei vari media culturali quali disegnare, parlare e
contare» (Olson, 1979, p. 49). L’esperienza con i media del disegno
e del linguaggio «dà alla mente le sue proprietà peculiari», perché
sviluppa ed articola la percezione proprio «in rapporto ai nuovi
compiti o requisiti richiesti dai nuovi media» (ibidem, p. 59). Lontano
dall’esserne copie, disegno e linguaggio sono modi organizzativi e
strutturanti la realtà e la struttura della conoscenza è data dai vari
media culturali.
«Ciascun medium o forma di attività, o “linguaggio” ha le proprie
caratteristiche, e codificare l’informazione in tale linguaggio significa
dare una particolare impronta a quell’informazione» (ibidem, p. 218).
Se la conoscenza e il modo in cui può essere espressa sono
interdipendenti, ciò non significa che sia possibile identificare il
pensiero con uno degli strumenti semiotici, né tantomeno che sia
possibile codificare tutta la realtà attraverso uno dei media (sia esso
linguaggio verbale o grafico).
«Nessun sistema di rappresentazione può esaurire quella realtà»
(ibidem, p. 219); né la conoscenza elaborata attraverso l’esercizio di
un medium è completamente traducibile in un altro medium. Come
347
ha evidenziato Marshall McLuhan «tutte le parole del mondo non
bastano a descrivere un oggetto come un secchio, ma ne bastano
poche per dire come si fa un secchio» (McLuhan, 1964, p. 169).
Olson, critico nei confronti dell’indifferenza per i media da parte della
psicologia e della pedagogia, cita Arnheim e Gombrich come studiosi
che hanno saputo mettere in risalto il valore formativo dei media249.
Abbiamo visto come per Arnheim e Gombrich, il concetto di copia o
di imitazione fosse inadeguato a spiegare una rappresentazione
grafica di qualunque tipo. Il disegno è per questi autori elaborazione,
creazione, invenzione, costruzione di equivalenti o sostituti nelle
proprietà del medium.
Attraverso gli studi della Callaghan, sappiamo che il bambino molto
piccolo è in grado di cogliere la somiglianza strutturale tra un oggetto
e l’immagine che lo rappresenta, capacità «elementarissima» per
Arnheim. Di fatto non solo i bambini, ma anche «le scimmie
249
«Benché molti scrittori trattino il tema della psicologia dell’arte, furono in
particolare Gombrich (1960) e Arnheim (1954), ad insistere per primi sugli effetti
variabili dei diversi media; McLuhan (1962, 1964) dimostrò per primo, in un senso
generale, l’importanza del medium sulla struttura del mondo percettivo
indipendentemente dal contenuto specifico del medium stesso. La sua scoperta è
stata spesso utilizzata per scopi polemici in psicologia perché non è stato possibile
fare nessuna congettura sul modo in cui i media possono avere questo effetto.
Quanto è stato detto nelle pagine precedenti dimostra come siano possibili gli
effetti differenti dei media; l’informazione è selezionata per scegliere fra le
alternative; pertanto, la padronanza di un nuovo medium richiede la selezione di
una nuova informazione […].
Le prove di McLuhan sugli effetti psicologici dei vari media sono raccolte da fonti
letterarie e storiche; per questo uno psicologo nutrirebbe dei sospetti» (Olson,
1979, p. 54-55). Il sospetto dello psicologo ha ovviamente riguardato anche gli
studi e le prove relative alle arti visive. Continua poi oltre «Nelle osservazioni
iniziali sullo sviluppo delle rappresentazioni concettuali, è stato sottolineato che il
termine “rappresentazione” veniva impiegato da Gombrich e da Arnheim, che lo
usavano come un atto esecutivo quale si ha “nell'usare un cerchio per
rappresentare la testa di un uomo”, in modi diversi Piaget, Cassirer, Bruner e
Gibson. Questi ultimi usano il termine rappresentazione per riferirsi a processi
immaginativi, processi che si realizzano nella mente, non sulla tela o sulla carta.
Secondo il punto di vista portato avanti in questo capitolo, il primo uso è
giustificabile sul piano psicologico. E' ridondante parlare di rappresentazioni nella
mente. Si può invece dire che i tentativi di atti esecutivi nella rappresentazione
artistica, nel linguaggio, e in altri media offrono l’occasione per ottenere
un’informazione più ricca dal mondo percettivo. Come ho detto in precedenza,
anche l’attività interiorizzata è una interpretazione errata. Non è l’attività che viene
interiorizzata, ma l’attività offre l’occasione per ottenere un’informazione nuova dal
mondo percettivo» (Ibidem, p. 58).
348
riconoscono quasi spontaneamente le immagini al tratto di oggetti
familiari». (Arnheim, 1954, p. 123).
Percepire un disegno, riconoscendolo come raffigurante un oggetto,
non è in nessun modo produrlo. La presenza di concetti percettivi
non assicura la comparsa di concetti rappresentativi, e lo stesso vale
per la loro espressione verbale. E questo è il motivo per cui, nelle
prime manifestazioni grafiche, i bambini sono in grado di dare il
nome
alla
propria
produzione
solo
dopo
averla
vista:
c’è
riconoscimento di un concetto percettivo nella grafica prodotta, ma
non ancora elaborazione a priori di un concetto rappresentativo
adeguato ad esprimere un atto percettivo. Così, se il riconoscimento
accomuna
bambini e
scimmie,
la
produzione
li differenzia.
L’invenzione di forme grafiche è specifica della specie uomo:
disegnare non è percepire.
Per Olson, che si è soffermato sulla differenza tra percepire e
disegnare rispetto alla copia di disegni, il fallimento del bambino
piccolo nel disegno di copia è spiegabile non tanto ricorrendo ad
un’inadeguata rappresentazione mentale, quanto elaborando una
teoria
percettiva
adeguata.
Le
teorie
percettive
«sono
necessariamente inadeguate finché non cominciamo a precisare i
modi in cui i tentativi di esecuzione nei vari media determinano quale
informazione sarà colta percettivamente» (Olson, 1979, p. 43).
La teoria di Arnheim risponde a questa esigenza, laddove l’autore
precisa che «la differenza non è innanzitutto tra percezione e
rappresentazione, ma tra percezione dell’effetto e percezione della
forma, dove quest’ultima è necessaria alla rappresentazione»
(Arnheim, 1954, p. 149). Se è vero che il termine percezione può
essere considerato sinonimo di riconoscimento, è altrettanto vero
che «il riconoscimento non è mai completo; è sempre una funzione
delle alternative prese in considerazione» (Olson, 1979, pp. 39-40).
La differenza tra percepire (riconoscere) un disegno e copiarlo,
consiste nel fatto che il bambino, guardando un modello
349
coglie un’informazione sufficiente per scegliere il modello fra tante
alternative, ma non raccoglie un’informazione sufficiente per riprodurlo
[…]. Eseguire un atto quale copiare, fare, o parlare, richiede informazioni
percettive diverse da quelle necessarie per percepire o riconoscere un
evento fra un insieme di semplici alternative. (Ibidem, pp. 40-41).
Il bambino che rappresenta “l’omino testone” non ha ancora
sviluppato la capacità di raccogliere l’informazione percettiva
pertinente al compito della riproduzione grafica in senso figurativo.
La mente si sviluppa «non con l’interiorizzazione del medium in
forma di discorso interiore, o di attività interiorizzata, ma per la
necessità di informazioni ulteriori che possono guidare gli atti
esecutivi» (ibidem, p. 58) nei vari media culturali.
Contrariamente all’opinione che lega il concetto al linguaggio fino al
determinismo linguistico, Arnheim sostiene che il linguaggio verbale
aiuti il pensiero indirettamente, collaborando con il linguaggio visivo
che costituisce un medium più adeguato al pensiero stesso.
Il “medium” visivo è tanto enormemente superiore perché offre
equivalenti strutturali di tutte le caratteristiche degli oggetti, eventi e
relazioni. La varietà delle forme visuali disponibili è grande quanto quella
dei possibili suoni del linguaggio, ma quello che conta è che esse si
possono organizzare secondo pattern prontamente definibili, di cui le
forme geometriche sono l’illustrazione più tangibile. La virtù principale
del “medium” visuale è quella di rappresentare le forme in uno spazio
bidimensionale e tridimensionale, in confronto con la sequenza
monodimensionale
del
linguaggio
verbale.
Questo
spazio
polidimensionale non soltanto offre al pensiero efficaci modelli di oggetti
fisici o di eventi, ma rappresenta pure isomorficamente le dimensioni
che occorrono al ragionamento teorico. (Arnheim, 1969, p. 273).
La polidimensionalità caratterizza ciò che Arnheim chiama la
«cognizione intuitiva», la monodimensionalità o linearità caratterizza
350
la «cognizione intellettiva»250. L’una è il procedimento del pensiero
quando tratta l’insieme nell’interazione reciproca e simultanea delle
varie componenti; l’altra quando procede all’isolamento delle diverse
componenti e relazioni ordinandoli in sequenza.
Prigioniera in un mondo quadridimensionale di continuità e di
simultaneità spaziale, la mente opera da un lato intuitivamente,
cogliendo i prodotti delle forze di campo liberamente interagenti;
dall’altro, traccia intellettivamente sentieri monodimensionali attraverso il
paesaggio spaziale. (Ibidem, p. 289).
250
«Esistono due tipi di pensiero percettivo, che distinguerò come cognizione
intuitiva e cognizione intellettiva. La cognizione intuitiva ha luogo in un campo
percettivo di forze liberamente interagenti. Si consideri, ad esempio, il modo in cui
una persona coglie un’opera di pittura. Passando in rassegna lo spazio racchiuso
nella cornice, l’osservatore percepisce le diverse componenti del quadro, le forme
ed i colori e le relazioni fra di essi. Tali componenti esercitano i propri effetti
percettivi l’uno sull’altro in modo tale che l’osservatore riceve l’immagine totale
come risultato dell’interazione tra le componenti stesse. Tale interazione di forze
percettive costituisce un complesso di campo altamente complesso, pochissima
parte del quale, di norma, raggiunge la coscienza. Il risultato finale diviene conscio
come il percetto del quadro, organizzato in un certo modo e consistente di forme e
colori il cui carattere particolare è determinato dal loro posto e funzione entro
l’insieme.
Gran parte del pensiero e dell’attività risolutrice di problemi procede nella, e per
mezzo della, cognizione intuitiva […].
Ma esiste un altro procedimento, e precisamente quello della cognizione
intellettiva. Supponiamo che un osservatore, anziché assorbire l’immagine del
quadro intuitivamente, intenda identificare le diverse componenti e relazioni di cui
l’opera consiste. Egli descrive ciascuna forma, precisa ciascun colore, e prepara
una lista di tutti questi elementi. Procede poi ad esaminare le relazioni fra i singoli
elementi, gli effetti, ad esempio, del contrasto, o l’assimilazione che producono
l’uno sull’altro. Dopo avere raccolto tutti questi dati, cerca di combinarli, e pertanto
di ricostruire l’insieme.
Che cosa ha fatto questo osservatore? Ha isolato elementi e relazioni fra elementi
del campo percettivo, allo scopo di fissare la particolare natura di ciascuno. A
questo modo si sviluppano concetti stabili e indipendenti dalle entità più o meno
stabili e più o meno circoscritte che costituiscono il campo percettivo.
Cristallizzando adeguatamente i concetti percettivi tratti dall’esperienza diretta, la
mente acquista le forme stabili, che le sono utili per il pensiero coerente.
Le componenti dei processi del pensiero intuitivo interagiscono con un campo
continuo. Quelle dei processi intellettivi si susseguono in successione lineare […].
Esempi rappresentativi di processi di pensiero intellettivi sono le successioni di
concetti nelle sequenze verbali, il conteggio o la somma di elementi, le catene di
proposizioni logiche nei sillogismi o nelle dimostrazioni matematiche». (Arnheim,
1969, pp. 274-276).
351
Se oggi la neuropsicologia, abbandonata la tesi della “dominanza
celebrale”, porta avanti quella della “specializzazione emisferica”, e
gli psicologi ci parlano di due codici, l’impostazione di Arnheim ci
mette in guardia da tutta una serie di rischiose interpretazioni, che
hanno accompagnato e che accompagnano lo sviluppo di questi
settori di ricerca. «La dissociazione tra pensiero visivo e pensiero
verbale, tra creatività (artistica e scientifica) e riproduzione verbale
richiama la specializzazione dei due emisferi»251. Ma a torto. Poiché
il funzionamento separato dei due emisferi vale solo per stimoli molto
semplici e
il processo di categorizzazione dell’emisfero sinistro si sviluppa
producendo – in collaborazione con quello dell’altro emisfero – la
comunicazione e il pensiero logici (da logos, il termine greco per
concetto, parola) e proposizionali espressi sotto forma di linguaggio. Il
processo
di
categorizzazione
dell’emisfero
destro
si
sviluppa
producendo invece – sempre in collaborazione con quello dell’altro
emisfero – la comunicazione e il pensiero razionali (da ratio, il termine
latino per ragione, calcolo) e apposizionali espressi nella musica e nella
matematica. (Pribram, 1985, p. 270).
Perciò disegnare con la parte destra del cervello è un titolo
fuorviante,
quantomeno
perché
la
base
della
sequenzialità
dell’azione del disegnare è funzione dell’emisfero sinistro252.
Gardner, che pure tiene in grande considerazione gli studi sulla
localizzazione celebrale («il cervello può essere suddiviso in regioni
specifiche, ciascuna delle quali emerge come relativamente
importante per certi compiti e come relativamente meno importante
per altri»), opportunamente precisa che
251
Mecacci, 1984, p. 120. Il periodo riportato è opportunamente criticato
dall’autore.
252
Disegnare con la parte destra del cervello è il titolo di un famoso libro di Betty
Edwads (1979), dal promettente sottotitolo Guida allo sviluppo della creatività e
delle doti artistiche.
352
pochi compiti dipendono per intero da una sola regione celebrale. Ogni
volta che si esamina un compito ragionevolmente complesso, si trovano
invece input provenienti da un certo numero di regioni celebrali,
ciascuna delle quali fornisce un contributo caratteristico. Per esempio,
nel caso del disegno a mano libera certe strutture dell’emisfero sinistro
assumono una funzione cruciale fornendo i particolari, mentre talune
strutture dell’emisfero destro sono ugualmente necessarie a fornire la
padronanza del contorno complessivo dell’oggetto raffigurato. Una
compromissione dell’uno o dell’altro emisfero celebrale avrà come
conseguenza un qualche deterioramento della prestazione. (Gardner,
1983, p. 74).
Ciò che i disegni dei bambini “descrivono” non è una forma di
imitazione più o meno aderente a qualche immagine fantastica o
reale (l’attività stessa da cui scaturisce non è attività imitativa); ogni
disegno attesta «una mente che scopre liberamente elementi
strutturali di rilievo nel soggetto, e che trova forme adeguate ad esse
nel medium di linee tracciate su un foglio di carta» (Arnheim, 1969, p.
301).
I linguaggi sono media culturali che specificano e specializzano la
capacità umana dei diversi sensi.
Nella visione e nell’udito, le forme, i colori, i movimenti, i suoni, sono
suscettibili di organizzazione precisa ed altamente complessa nello
spazio e nel tempo. Pertanto questi due sensi sono i “media” per
eccellenza per l’esercizio dell’intelligenza. (Ibidem, pp. 23-24).
I media culturali, come il linguaggio verbale e il disegno, non si
limitano a trascrivere i prodotti del pensiero ma sono “pensiero essi
stessi”, in quanto non solo possono costituire «un ausilio nel
processo di elaborazione delle soluzioni di problemi» (ibidem, p. 155)
ma, poiché qualsiasi medium possiede specifiche proprietà, struttura
il pensiero secondo peculiari modalità.
353
Allora il processo di produzione del pensiero, nel soggetto in formazione,
è innanzitutto un processo di affermazione di forme storico-evolutive che
procedono man mano che il soggetto prende possesso di sé e della
realtà circostante, in relazione con lo specifico ambiente, fisico e
culturale, in cui si trova a crescere e a operare. In questo senso il
pensiero, come grado zero, precede teoricamente il soggetto ma si
realizza concretamente, storicamente, materialmente solo attraverso il
suo stesso operare, o meglio l’operare del soggetto nella sua forma
storica determinata.(Squillacciotti, 1995, p. 153).
I vari modi della significazione ovvero le diverse forme di espressione
del pensiero sottendono una volontà di comunicazione che può
essere considerata lo scopo ultimo a cui tendono tutti i sistemi di
segni.
I sistemi di segni si diversificano non perché nascano da bisogni diversi,
ma per meglio adattarsi, a seconda delle condizioni contingenti e delle
potenzialità intrinseche ad ogni mezzo, ad un unico fondamentale
bisogno di comunicazione. Tenendo conto della complessità dei modi in
cui avviene la conoscenza umana (tenendo conto delle variabili
intrapersonali come di quelle interpersonali) si può intuire come debbano
essere inevitabilmente molteplici le forme della significazione […].
Oltre a stabilire delle graduatorie e dei primati di comunicabilità fra i vari
sistemi, e oltre a studiare separatamente i percorsi che essi seguono,
potrebbe risultare importante uno studio sistematico di tutte quelle
condizioni marginali in cui uno strumento comunicativo si arresta e cerca
aiuto in un altro, e particolarmente […] dei casi in cui il discorso verbale
si ritrae per lasciare spazio a quei modi di significazione grafica che ne
integrano e dilatano i limiti comunicativi: vedere cioè il legame fra
illustrazione e testo […].
Da questi studi potrebbe risultare che tra i vari percorsi della
significazione vi è una continuità e che il passaggio dall’uno all’altro è
estremamente sfumato e non così netto come le varie gerarchie
preposte fra i sistemi di segni, o gli esami condotti su esami separati
354
potrebbero far pensare. E ciò risulterebbe in consonanza con l’unitarietà
del sistema che produce e utilizza i sistemi di segni, l’interrelazione e
integrazione fra i diversi procedimenti cognitivi umani. (Massironi, 1982,
pp. 111-112).
355
Conclusioni
Alla luce del lungo percorso fin qui condotto sia sulla natura culturale
dello sviluppo che sulle forme espressive grafiche, in quest’ultima
parte del lavoro tenteremo una sintesi ed una trascrizione dello
sviluppo del disegno a partire dalla teoria storico-culturale, in quanto
dal confronto tra le diverse teorie esposte risulta la più portante
l’analisi di campo oggi ed in grado di tradurre nello specifico la
moderna impostazione della prospettiva etno-cognitiva. Si tratta
inoltre di verificarne l’efficacia analitica alla prova con i documenti
raccolti nella pratica di campo.
La teoria di Vygotskij si basa sul presupposto che lo sviluppo
cognitivo non possa essere compreso se non in riferimento al
contesto sociale in cui è inserito. Esso avviene grazie al supporto
sociale nell’interazione del bambino con gli altri e comprende lo
sviluppo di abilità attraverso l’utilizzo di strumenti culturalmente e
storicamente determinati, che mediano l’attività cognitiva.
Anche
lo
sviluppo
dell’abilità
grafica
si
configura
come
“trasformazione sociale” piuttosto che come acquisizione mentale
individuale: essa è radicata in contesti di interazione con altre
persone con cui si condividono scopi, strumenti e attività.
Il concetto di abilità cui facciamo riferimento considera l’abilità come
un saper fare tacito e incorporato (embodied), non codificabile in
regole o programmi di istruzione specifici253. Esso dà luogo ad un
253
«Vorrei analizzare tre punti che credo siano cruciali per poter apprezzare le abilità
tecniche. Prima di tutto, le abilità non sono, come argomentato classicamente da Marcel
Mauss (1939), delle tecniche del corpo individuale, considerato come un oggetto isolato,
356
agire situato che consiste nel saper eseguire una serie di azioni in
contesti
specifici,
facendo
riferimento
alla
propria
passata
esperienza. Lo sviluppo dell’abilità è visto come una progressiva
“educazione dell’attenzione” in contesti di apprendimento formali,
non formali e informali.
Cosicché potremmo dire che diventiamo noi stessi attraverso gli altri, e
che tale regola si riferisce non solo alla personalità nel suo complesso,
ma anche alla storia di ogni singola funzione. In questo sta la sostanza
del processo dello sviluppo culturale, espresso in una formula
puramente logica. La persona diventa “per sé” per il fatto che è “in sé” e
attraverso il fatto che si manifesta “per gli altri”. Questo è il processo di
formazione della persona. (Vygotskij, 1930-31, p. 200).
Nel processo di sviluppo il bambino può accedere al contesto storicosociale attraverso l’interazione con i membri della società che hanno
maggiore dimestichezza con le abilità e gli strumenti della società
stessa. Tale interazione è essenziale per lo sviluppo cognitivo: la
mente del bambino si sviluppa in situazioni in cui egli partecipa ad
eventi “problematici” sotto alla guida di un adulto – o una persona più
competente di lui – che struttura e modella la soluzione al problema
adeguandola alle potenzialità cognitive del bambino, ovvero agendo
all’interno della sua “zona di sviluppo prossimale”. Secondo Vygotskij
come lo strumento primario della ragione culturale. Esse sono proprietà dell’intero sistema
di relazioni costituito dalla presenza dell’agente (umano e non umano) in un ambiente
riccamente strutturato. Perciò, lo studio delle abilità richiede un approccio ecologico, che
situi l’operatore esperto, fin dall’inizio, nel contesto di un coinvolgimento attivo con i fattori
costituenti il suo ambiente circostante. Secondo, la pratica abile non è semplicemente
l’applicazione meccanica di una forza esterna ma comporta le qualità della cura, del giudizio
e della destrezza (Pye, 1968). Questo significa che qualunque cosa un operatore esperto
faccia alle cose, questo si radica in un coinvolgimento attento e percettivo con le cose. In
altre parole, guarda e sente mentre è all’opera. Anzi, è precisamente perché il
coinvolgimento dell’operatore esperto con il proprio materiale è attento, che l’attività abile
porta con sé la sua intrinseca intenzionalità, e ciò indipendentemente da eventuali piani o
progetti che essa dovrebbe porre in esecuzione.
Terzo, le abilità sono refrattarie alla codificazione in forme programmatiche quali regole e
diagrammi (Dreyfus, Dreyfus 1987). Perciò, non è attraverso la trasmissione di tali
programmi che si acquisisce l’abilità, ma piuttosto attraverso un miscuglio di
improvvisazione e imitazione nel contesto della pratica stessa (Lave, Wenger 1991). […].
L’innovazione e l’improvvisazione sono due lati di un processo di apprendimento che
potrebbe riassumersi come riscoperta guidata» (Ingold, 2001, pp. 150-151).
357
e
la
prospettiva
storico-culturale,
il
funzionamento
cognitivo
autonomo del bambino si sviluppa attraverso esperienze con gli
strumenti culturali in processi di attività condivise con partner più
esperti.
Il pensiero di Vygotskij si presenta in risonanza con quello di Bateson
(1972, 1979), Ingold (2001), Damasio (1994), Ehrlich (2000) e di tutti
coloro che invitano a pensare in modo unitario mente e ambiente:
sia l’organismo che l’ambiente emergono da un continuo processo di
sviluppo [e] la loro interfaccia non è un contatto estrinseco tra domini
separati e mutuamente esclusivi, poiché implicata nell’organismo stesso
è l’intera storia delle sue relazioni ambientali. (Ingold, 2001, p. 92).
La teoria storico-culturale è stata ulteriormente elaborata dalla
psicologia culturale di Cole (1996) che si è occupato del ruolo della
mediazione operata dagli artefatti nello sviluppo cognitivo, mentre la
teoria dell’attività di Leont’ev (1975) e Vygotskij è stata ripresa e
sviluppata da Engeström (1987). Gli studiosi della cognizione
distribuita, accogliendo le proposte di Vygotskij, hanno ulteriormente
sottolineato la natura sociale dell’attività e dello sviluppo cognitivo
concentrando le loro ricerche sugli ambienti particolari dell’attività
cognitiva e sul tipo di conoscenza che si accorda con questi ambienti
(Lave, 1988; Hutchins, 1991, Lave - Wenger, 1991). Per quanto
riguarda lo sviluppo cognitivo nel corso dell’ontogenesi, Rogoff
(1990) ha ripreso la metafora dell’apprendistato per sottolineare la
natura collaborativa dei processi di apprendimento.
Il concetto di apprendistato come modello per lo sviluppo cognitivo dei
bambini è affascinante perché dirige la nostra attenzione sul ruolo attivo
del bambino nell’organizzazione della crescita; sul supporto attivo e
sull’utilizzo di altre persone nelle interazioni sociali; sull’organizzazione
di compiti e attività e sulla natura – strutturata sul piano socioculturale –
358
dei contesti istituzionali, delle tecnologie e degli obiettivi delle attività
cognitive. […].
Gli apprendisti cercano attivamente di dare senso alle situazioni nuove,
e a volte svolgono un ruolo determinante nel mettere se stessi in
condizioni di apprendere. Allo stesso tempo i partner, che sono più abili
e competenti, riescono più facilmente ad individuare modi più efficaci per
entrare in sintonia con loro e aiutarli così ad ampliare le loro
conoscenze. […].
Il processo di problem solving condiviso – con un soggetto attivo che
apprende partecipando ad un’attività culturalmente organizzata insieme
a un partner più esperto – è fondamentale per l’apprendistato, tanto
quanto le caratteristiche della partecipazione guidata che mi preme
sottolineare: l’importanza delle attività di routine, la comunicazione
implicita ed esplicita, una strutturazione collaborativa delle attività e il
trasferimento della responsabilità all’apprendista. (Rogoff, 1990, pp. 4445)
La scuola è un contesto scandito dai compiti e dalle tappe che gli
adulti hanno selezionato in base alla propria storia culturale. Il
comportamento degli adulti struttura e organizza l’ambiente per
facilitare i processi di crescita del bambino e porre vincoli a ciò che
può fare. L’educazione scolastica formale è costituita da una serie di
pratiche (Cole, 1996; Wenger, 1998); se lo sviluppo cognitivo è
localizzabile all’interno delle pratiche culturali è possibile applicare
questo principio alle pratiche dell’educazione scolastica relative al
disegno, e trattarne lo sviluppo attraverso i comportamenti culturali
ad esso correlati. Potremmo dunque riposizionare la questione
dell’opposizione tra cambiamenti “generali” e “specifici” nella
cognizione,
associandoli
alle
modificazioni
nell’organizzazione
culturale del comportamento.
Abbiamo visto come il disegno sia un processo evolutivo e come
l’obiettivo dell’insegnamento relativo a questo tipo di attività sia
quello di procurare ai bambini un mezzo per riorganizzare la loro
attività interpretativa utilizzando il linguaggio grafico (sia a livello di
359
comprensione che di produzione). Abbiamo inoltre tentato di
dimostrare nei paragrafi precedenti che disegnare rappresenti
un’elaborazione della capacità preesistente di “leggere il mondo”
facendo uso di strumenti.
La figura che segue ripete la struttura del triangolo della mediazione
utilizzata
dalla
teoria
storico-culturale
per
rappresentare
la
mediazione attraverso gli strumenti, ma sostituisce il disegno
all’artefatto, e ci ricorda che disegnare, nel senso più ampio del
termine, comporta il coordinamento tra informazioni provenienti da
due percorsi. Qualunque disegnatore deve “vedere” il mondo come
se si rifrangesse attraverso il disegno; ma, poiché questo sia
possibile deve anche essere in grado di accedere al mondo
direttamente. L’acquisizione del linguaggio grafico comporta una
riorganizzazione qualitativa del comportamento “primario”, una nuova
modalità di mediazione.
Figura 3. Il triangolo della mediazione, dove “disegno” sostituisce la rappresentazione
generica soggetto-medium-oggetto.
Sappiamo che quando i bambini arrivano alla scuola dell’infanzia,
non sono ancora in grado di espandere la loro capacità di
comprendere le esperienze attraverso il disegno, e che, alla fine del
loro
percorso
scolastico,
raggiungeranno
traguardo.
360
questo
importante
Secondo la “legge genetica generale dello sviluppo culturale” di
Vygotskij le funzioni che in un primo momento appaiono condivise
sul
piano
interpsicologico
possono
poi
diventare
funzioni
intrapsicologiche: in questo caso ciò che ci interessa è il punto finale
dell’abilità del bambino di disegnare maturata nell’interazione con
l’adulto
come
precondizione
perché
questa
nuova
struttura
dell’abilità, che si manifesta a partire dalla capacità di produrre
scarabocchi che, attraverso la coordinazione oculo-motoria vengono
composti in modelli di posizione, emerga come funzione cognitiva
individuale.
La figura sottostante illustra in forma grafica il fatto che, all’inizio
dell’istruzione scolastica, è possibile utilizzare sistemi di mediazione
preesistenti come risorse per creare i necessari vincoli che
consentono la possibilità di sviluppo dell’abilità grafica254.
Figura 4. I sistemi di mediazione da coordinare che emergono quando un bambino
impara a disegnare a scuola. A) Il bambino è in grado di mediare le interazioni con il
mondo attraverso un adulto. B) L’adulto è in grado di mediare le interazioni con il
mondo attraverso il disegno. C) Il rapporto bambino-disegno-mondo è l’obiettivo
dell’istruzione scolastica.
A sinistra della figura abbiamo rappresentato il dato che all’ingresso
della scuola i bambini hanno già alle spalle anni di esperienza nel
mediare le loro interazioni con il mondo esterno attraverso gli adulti.
Al centro abbiamo raffigurato il dato che gli adulti-insegnanti, siano in
grado di utilizzare il codice grafico pittorico. Da ultimo, a destra della
254
La realizzazione grafica dei processi di apprendimento di cui trattiamo di
seguito, è una reinterpretazione dei modelli proposti da Cole (1996).
361
figura, troviamo rappresentato il sistema di mediazione che il
bambino deve ancora sviluppare.
Dopo qualche mese di frequenza, i bambini più piccoli iniziano a
denominare gli scarabocchi a posteriori: l’invenzione della forma
precede, da un punto di vista evolutivo, la “scoperta”255 che questa
forma possa avere delle relazioni con il mondo esterno.
Nella pratica didattica lo sviluppo del grafismo viene stimolato dalle
insegnanti
attraverso
attività
specifiche
progettate
e
mirate:
dall’esplorazione/sperimentazione di strumenti, tecniche e materiali a
proposte esplicite di disegno.
Solitamente l'intervento diretto dell’adulto muove da un ascolto
iniziale delle esperienze, dei desideri e delle proposte dei bambini a
una successiva elaborazione e restituzione in chiave progettuale che
tiene conto della maturazione delle capacità percettive, visive e
manipolative dei bambini. Altre volte, è l’adulto che propone, a
seguito di un’esperienza, la sua trascrizione grafica: nelle scuole di
Reggio Emilia questa è una vera e propria routine. Tra le strategie
utilizzate dall’adulto per stimolare nei bambini l’interesse per le
attività grafico, pittoriche e plastiche c’è la strutturazione di spazi
adeguati a questo genere di attività, organizzati ed attrezzati con
materiali e strumenti diversificati facilmente accessibili; arredato con
grafiche di bambini e immagini e stimoli che possono supportare la
progettazione in corso.
Nella scuola di Scandiano ogni sezione dispone ad esempio di “un
mini atelier” per le attività grafico-pittoriche e plastiche; mentre per
attività specifiche è possibile disporre del “grande atelier” (uno spazio
comune alle altre sezioni predisposto a questo genere di attività), che
255
«Qualcosa forse va detto anche a proposito dell’invenzione e della scoperta.
Inventare vuol dire pensare a qualcosa che prima non c’era. Scoprire vuol dire
trovare qualcosa che prima non si conosceva ma che esisteva» (Munari, 1977, p.
22).
362
si differenzia da quelli delle sezioni per la diversità dei materiali e
degli strumenti disponibili.
È attraverso lo scambio con le insegnanti, gli adulti256, i bambini più
grandi ed esperti e la frequenza a scuola che il bambino scopre che i
suoi tracciati devono essere usati per rappresentare entità esterne.
L’iniziale “in sé” degli schemi figurativi autonomamente prodotti (le
autoimmagini, nella terminologia di Arnheim), diventa disegno “per gli
altri”: il bambino “scopre” quale uso deve fare delle immagini che
produce e vi si conforma (anche se non riesce immediatamente a
modificare i suoi tracciati) cercando di rendere i suoi disegni
somiglianti, in senso adulto, agli oggetti della realtà.
La figura 5, di seguito, mostra lo stadio in cui i sistemi di mediazione
dati e quelli che si stanno sviluppando sono giustapposti, e il
momento in cui il sistema adulto preesistente vi si sovrappone a sua
volta.
Il
sistema
di
mediazione
“interpsicologico”
instaura,
indirettamente, un duplice sistema per il bambino: egli deve ora
coordinare le informazioni visive del suo disegno riferite alla realtà
esterna (secondo il modello adulto) con quelle fondate sulla sua
precedente esperienza visiva della realtà stessa.
256
«L’influenza degli adulti sull’attività artistica dei bambini si manifesta prima a
casa e più tardi a scuola. […] I genitori influenzano l’attività artistica dei bambini
prima che frequentino la scuola anche col semplice fatto di procurargli materiali
adatti al disegno o trascurando di farlo oppure proibendo loro di usarli in casa. [I
libri da colorare] contribuiscono a fissare nella mente del bambino determinate
formule progettate dagli adulti per rappresentare gli oggetti. Conseguenze
analoghe producono i libri illustrati, le illustrazioni delle riviste, i giornali, i fumetti e i
cartoni animati televisivi. Immagini esposte alle pareti di casa, nelle chiese, nei
negozi o nei musei che vengono mostrate e spiegate continuamente ai bambini
favoriscono l’assorbimento mentale e visivo delle Gestalt fatte dagli adulti, cui sono
associati determinati significati figurativi» (Kellogg, 1969, p. 169-170).
363
Disegno
Bambino
Disegno
Mondo
Bambino
Adulto
Mondo
Adulto
Figura 5. La giustapposizione tra sistemi di mediazione esistenti e in via di formazione,
che devono essere coordinati. A) I due sistemi esistenti. B) I due sistemi esistenti più il
sistema in via di formazione.
Con il tempo e la pratica i bambini sono in grado di interpretare i
simboli grafici come indicatori delle intenzioni altrui e possono
produrre intenzionalmente disegni per comunicare conoscenze,
esperienze o una particolare prospettiva.
L’acquisizione del punto di vista culturale trasforma il disegno in
codice non solo “per gli altri” ma anche e soprattutto “per sé”.
La natura collaborativa e sociale da cui nasce l’attività disegnativa
nel contesto scolastico può essere rappresentata più incisivamente
attraverso il modello esteso di mediazione proposto da Engeström.
364
Disegno
Bambino
Mondo
Regole: disegno
artistico in senso
figurativo
Comunità:
sezione di scuola
dell’infanzia
Divisione del lavoro
verticale, (in base allo
status): insegnantescolaro
Figura 6. il disegno come attività rappresentata nei termini del modello di sistema di
attività esteso.
Nella
i
singoli
triangoli
delle
figure
precedenti,
focalizzati
esclusivamente su un presunto rapporto diadico tra adulto e
bambino, sono espansi per rappresentare il coinvolgimento dei
diversi partecipanti coinvolti in questo tipo di attività.
Nella parte alta del grafico abbiamo il bambino che attraverso il
disegno, conosce oggetti, eventi, situazioni (un generico “mondo”
inteso non solo come esistente materialmente, ma anche in quanto
può essere immaginato, pensato, supposto, ipotizzato, progettato).
Il disegno esiste però in quanto tale solo in relazione alla parte bassa
del triangolo dove la comunità può essere rappresentata dalla
sezione frequentata da quell’ipotetico bambino, abitata da insegnanti
e coetanei; la divisione del lavoro si riferisce ai ruoli ricoperti dalle
persone nella sezione, ovvero insegnanti e “scolari”; le regole che il
bambino dovrà rispettare sono, limitatamente alla produzione, quelle
del disegno “artistico” in senso figurativo.
In
questo
contesto,
la
competenza
disegnativa
si
traduce
nell’acquisizione di una “tecnica di rappresentazione” specifica che
favorisce l’evocazione di un’immagine culturalmente convincente, in
senso illustrativo, della realtà.
365
Ora il bambino non solo sa disegnare, ma la sua conoscenza si
accorda con quella di coloro con i quali tale conoscenza deve essere
coordinata.
Siamo usciti da una scuola il cui fine principale è il buon parlatore.
Avendo introiettato l’ideologia che la sorregge, non avvertiamo nessun
disagio nel dichiarare di non saper disegnare e nessuna seria difficoltà
per il fatto che il bambino molto presto smetta. Ci siamo formati in un
sistema educativo “fondato - come dice Arnheim – sullo studio delle
parole e dei numeri”. La nostra organizzazione mentale è perciò in
sintonia con una teoria dello sviluppo che definisce l’ultimo stadio del
pensiero come pensiero formale e la conoscenza come conoscenza
logico-matematica. Contro ciò che il disegno potrebbe significare per lo
sviluppo della personalità, lottano inveterate abitudini di pensiero che ci
impediscono di comprenderne l’importanza. (Pizzo Russo, 1988, p. 250)
Il disegno infantile si inserisce nel più ampio sviluppo della capacità
rappresentativo-finzionale del pensiero e segna un’importante svolta
nella maturazione cognitiva del bambino. Esso è legato ad altre
abilità rappresentative (linguaggio verbale e gioco simbolico in primo
luogo), ma se ne differenzia, sia per la specificità dell’attività
cognitiva che lo sottende (e del tipo di intelligenza che sviluppa) sia
per gli aspetti esecutivi che comporta.
L’atteggiamento nei confronti del disegno nella nostra cultura è
tuttavia contraddittorio: se da un lato se ne esalta lo sviluppo
“spontaneo”, se ne riconosce lo statuto di linguaggio, se ne sottolinea
l’importanza nello sviluppo del pensiero simbolico, il valore
“proiettivo” e catartico, nello stesso tempo è considerato un mezzo
espressivo elitario e appannaggio di pochi. Come ha giustamente
sottolineato Umberto Eco
una persona che sa parlare non suscita molta curiosità e non sembra
avere particolari abilità, mentre una persona che sa disegnare viene
366
vista come “diversa”: essa sa articolare secondo leggi ignote gli elementi
di un codice che il gruppo ignora. (Eco, 1975, p. 281).
La finalità assegnata al disegno infantile a scuola è, di fatto, quella
artistica. La letteratura sul disegno infantile ne ha idealizzato la
genesi, o considerandolo “arte”, o assumendo l’arte come unico
modello di confronto o approdo del disegno del bambino. Da questo
è derivato un modello pedagogiche che, nella prassi, si traduce nel
non intervento: il disegno è una questione di “talento” e non è
necessario “insegnare a disegnare”. «Il mestiere dell’artista non è
forse di quelli che si possono e si devono apprendere da sé?»
(Arnheim, 1954, p. 175). In questo modo, non solo non viene preso
seriamente in considerazione il fatto che il disegno non è solo quello
artistico, ma nemmeno il fatto che l’artista, e chi fa un uso
professionale del disegno, ha dovuto imparare a disegnare.
Una pedagogia della “spontaneità” non è inoltre supportata dai dati
della ricerca, che indicano come le direzioni dello sviluppo non siano
“naturali”, ma che, al contrario, siano definite (più o meno
consapevolmente) dalla scuola in sintonia con i valori culturali e
sociali diffusi, e perché riteniamo che i processi simbolici possano
arricchirsi
e
potenziarsi
attraverso
strategie
educative
intenzionalmente predisposte.
L’andamento evolutivo del disegno infantile (il suo “spontaneo”
apparire alla scuola dell’infanzia e il suo altrettanto “spontaneo”
scomparire nella scuola primaria e secondaria) suggerisce piuttosto
un’attenta revisione dei metodi, degli strumenti e delle finalità della
pratica
educativa
e
soprattutto
conoscenza che la informa.
367
un’analisi
della
teoria
della
368
369
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