Medicina Italia – Numero 06/2010 - Società Italiana di Medicina

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Medicina Italia – Numero 06/2010 - Società Italiana di Medicina
Number 6/10
edicinatalia
L’utilità dei fattori di rischio nella diagnosi precoce
dell’osteoporosi
ROBERTO VALENTI, MARTINA RUVIO, ELENA CECCARELLI, COSIMO CAPODARCA, GIUSEPPE MARTINI, RANUCCIO NUTI
Dipartimento di Medicina Interna e Malattie Metaboliche, Università di Siena, Siena
Fisiopatologia dell’osteoporosi
L’osteoporosi è una malattia dal grande impatto sociale che negli ultimi
anni ha assunto sempre maggiore importanza, a causa del progressivo
invecchiamento della popolazione e del conseguente incremento delle sue
complicanze, prime fra tutte le fratture di femore e quelle vertebrali. Infatti
l’osteoporosi è una patologia dello scheletro caratterizzata da compromissione della resistenza al carico che determina un aumento del rischio
di frattura. Le componenti che caratterizzano la resistenza dello scheletro
sono da una parte la quantità di tessuto osseo, misurabile come densità
ossea (BMD) attraverso la densitometria ossea a raggi X, e dall’altra la
qualità dell’osso che è determinata da una serie di parametri macro- e
micro-architetturali di più difficile rilevazione dal punto di vista clinico.
Valori di BMD al di sotto della norma possono essere la conseguenza
sia di un mancato raggiungimento del normale picco di massa ossea
che di una più veloce perdita ossea nell’età adulta.
L’accrescimento fisiologico della massa ossea nell’infanzia e nella
pubertà è determinato da un’adeguata crescita dell’osso encondrale
con un aumento delle cartilagini di accrescimento e una crescita lineare
dello scheletro. Il rapido incremento della massa ossea nella pubertà è
dovuto all’azione favorente da parte degli ormoni sessuali che determinano tra l’altro la chiusura delle cartilagini di accrescimento. Nelle
donne si ha un ulteriore aumento nei tre anni successivi al menarca,
mentre un piccolo sviluppo nei successivi 5–15 anni si ha per l’apposizione periostale; ne risulta che il picco di massa ossea viene raggiunto
fisiologicamente tra i 20–30 anni di età. In seguito, in condizioni normali, permane uno stato di stabilità fino intorno ai 50 anni, quando la
massa ossea comincia a diminuire. Nelle donne, nei primi cinque anni
dalla menopausa, si assiste a una prima fase di rapido decremento di
BMD, con una perdita localizzata principalmente a livello del rachide, di
circa il 3% all’anno, seguita da una fase più lenta e graduale con una
perdita di circa lo 0,5% all’anno, anche in altre sedi. Nell’uomo il declino della massa ossea è più graduale e costante, dal momento che nel
sesso maschile non esiste un evento analogo alla menopausa in grado
di incidere in maniera significativa sulla massa ossea. La perdita di
massa ossea inizia, in genere, a partire dai 50–55 anni, con un decremento relativamente costante di circa lo 0,5 % all’anno.
Fisiologicamente il normale turnover osseo è caratterizzato da un
equilibrio tra i due processi di neoformazione e riassorbimento
osseo, strettamente connessi tra loro. La perdita di massa ossea è
dovuta principalmente a un “disaccoppiamento” tra questi due processi: si realizza uno squilibrio tra l’attività osteoblastica e quella
osteoclastica con un aumento della fase di riassorbimento a cui non
segue un analogo incremento dei processi di neoformazione ossea.
Il fisiologico turnover osseo è regolato da un pattern di citochine che rivestono una grande importanza anche nella fisiopatologia di numerose
malattie metaboliche dell’osso. L’attività osteoclastica è regolata dal
sistema OPG/RANKL che rappresenta uno dei più importanti meccanismi
di “comunicazione” reciproca tra le cellule osteoblastiche e osteoclasti-
che. Il legame del RANKL, prodotto dagli osteoblasti, con il suo recettore
specifico (RANK) presente nei precursori osteoclastici, dà il via a una serie
di processi che determinano la differenziazione di queste cellule e l’attivazione degli osteoclasti maturi, ritardandone al contempo l’apoptosi.
L’osteoprotegerina (OPG), prodotta dagli osteoblasti e dalle cellule stromali, è un recettore solubile che impedisce l’interazione RANK/RANKL
legandosi al RANKL, determinando un blocco dei processi che inducono
l’osteoclastogenesi. Gli osteoblasti sono invece regolati da altri meccanismi come quello legato al sistema Wnt/ catenina. Con l’ausilio di recettori specifici localizzati sulla membrana degli osteoblasti come le frizzled
protein e altri co-recettori, quali la LRP5, si realizza uno stimolo all’osteoblastogenesi controllato da alcune proteine, quali la proteina DKK e la
sclerostina, in grado di inibire l’attivazione osteoblastica indotta dal sistema Wnt. L’importanza di questi sistemi non è ancora ben definita, anche
se appare certo il loro ruolo nei processi fisiopatogenetici che regolano il
metabolismo osseo, come dimostrato dal fatto che diversi polimorfismi
della proteina LRP5 e della sclerostina sembrano condizionare vari gradi
di mineralizzazione dello scheletro e una diversa incidenza di fratture.
Fattori di rischio
Come abbiamo visto la riduzione della massa ossea è in grado di determinare un aumento del rischio di frattura ed è ormai accettato come una
riduzione della densità ossea pari a una Deviazione Standard (DS) sia in
grado di raddoppiare la probabilità di incorrere in una frattura.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto un valore di densità ossea, misurata a livello del femore prossimale o del rachide lombare, al di sotto della quale si collocano i valori di BMD che comprendono
la maggior parte dei pazienti con fratture osteoporotiche: questo valore è
pari a 2,5 DS al di sotto del valore medio del giovane adulto e viene
espresso come T-score. I valori di T-score fra -1 e -2,5 sono espressione di
una condizione definita come osteopenia.
Per ogni riduzione di 1 DS oltre il valore di riferimento di 2,5 si ha un
aumento di circa 2–2,4 volte del rischio di frattura.
Il rischio di frattura è comunque influenzato, oltre che dalla BMD, da altre
numerose variabili e, di conseguenza, è importante effettuare su ogni
paziente una valutazione clinica globale che comprenda sia uno studio
del quadro osteometabolico e della densità minerale ossea che la presenza o meno di fattori di rischio predisponenti.
I fattori di rischio vengono distinti in due categorie: fattori di rischio non modificabili, sui quali non è possibile intervenire, e fattori di rischio modificabili, sui
quali è possibile agire sia tramite adeguati programmi volti alla correzione
dello stile di vita sia attraverso l’utilizzo di opportune terapie (Tabella 1).
Il sesso femminile è uno tra i più importanti fattori predisponenti, visto
il fondamentale ruolo rivestito dagli estrogeni nella crescita dello scheletro e nel normale mantenimento dell’omeostasi calcica; numerose
ricerche infatti hanno evidenziato la presenza di specifici recettori sulle
cellule osteoblastiche, su quelle osteoclastiche e sugli osteociti. Questo
spiega la grande importanza di un adeguato stato estrogenico: è noto
infatti che una menopausa precoce o un menarca tardivo espongono
le donne a un maggiore rischio di frattura per il conseguente ridotto
periodo di tempo di esposizione a questi ormoni. Recenti studi hanno
evidenziato come i livelli estrogenici e un’adeguata concentrazione di
SHBG (Sex Hormone Binding Globulin) abbiano anche un ruolo centrale nella patogenesi dell’osteoporosi maschile [1–4].
Tra i fattori di rischio non modificabili bisogna sottolineare anche l’appartenenza alla razza bianca o asiatica piuttosto che a quella nera o
alla ispanica; è stato infatti evidenziato come esistono differenze razziali anche sostanziali, ad esempio, tra le donne bianche e quelle nere
oltre che per i valori di massa ossea anche per quanto riguarda la perdita di BMD post-menopausale, soprattutto a livello femorale, minore
nelle ultime rispetto alle prime. Un recente studio pubblicato da Cauley
e coll. ha esaminato circa 160 000 donne di diverse razze, analizzando il rischio di frattura in funzione di vari fattori di rischio. Sebbene il
rischio di frattura vari molto in funzione della razza, essendo particolarmente elevato nelle bianche e nelle asiatiche, anche nelle altre razze,
come nelle nere e nelle ispaniche, le donne con multipli fattori di
rischio presentano ugualmente un importante aumento del rischio di
frattura (Fig. 1).
L’età è da considerare forse il fattore di rischio più rilevante, sia per il
declino età-correlato della BMD che per altri elementi extrascheletrici
dipendenti dalle possibili co-morbilità e dai fattori legati all’invecchiamento che aumentano in misura esponenziale il rischio di caduta e
quindi di frattura. Tra questi ricordiamo la diminuzione dell’acuità visiva,
la difficoltà nei movimenti e la perdita di flessibilità e tono muscolare.
Fattori legati allo stile di vita e all’alimentazione sono in grado di
influenzare l’omeostasi del calcio e alcuni di questi appaiono indipendenti dalla massa ossea. Un posto di prim’ordine spetta a un adeguato introito calorico associato a un corretto apporto proteico, come si
verifica nella malnutrizione sia nell’anziano che tra le giovani donne
con disordini dell’alimentazione e con un BMI <19. Anche l’intake di
sodio, oltre che essere fondamentale nel controllo della pressione arteriosa, può influenzare il normale metabolismo osseo; infatti è stato
dimostrato che una dieta povera di sodio sia associa a una riduzione
dell’escrezione urinaria di calcio dell’escrezione e una riduzione dei
marker di turnover osseo. Comunque il ruolo del sodio risulta ancora
controverso.
Un adeguato intake di calcio risulta fondamentale sia per un adeguato sviluppo scheletrico nell’infanzia e nell’adolescenza che per il mantenimento della massa ossea nell’età adulta. Secondo lo studio
MEDOS, infatti, è stata evidenziata una significativa riduzione del
rischio relativo di frattura nelle donne che assumevano una maggiore
quantità di latte e/o derivati [4–9]. L’introito giornaliero di calcio rac-
Tabella 1 Fattori di rischio
Fattori genetici o costituzionali
Stile di vita e aspetti nutrizionali (modificabili)
Sesso femminile
Età
Familiarità
Razza bianca o asiatica
Menarca tardivo
Menopausa precoce
Basso apporto di calcio
Fumo di sigaretta
Nulliparità
Abuso di alcool o caffeina
Carenza di vitamina D
Immobilizzazione prolungata
Basso peso corporeo (BMI <20)
Uso di farmaci (steroidi, eparina, anticonvulsivanti ecc.)
Scarsa attività fisica
Fig. 1 Tasso di incidenza annuale di fratture, tra le diverse etnie, secondo il
numero dei fattori di rischio presenti. Mod. da [15]
Fig. 2 Livelli sierici di Vitamina D in donne normali con frattura di femore. Da [11]
comandato nell’adulto è di 1200 mg/die che può essere ottenuto attraverso l’assunzione di latte e derivati, ma anche di pesce e numerose
verdure, oltre che di acque minerali ad alto residuo fisso.
Anche la carenza di vitamina D è considerata un importante fattore di
rischio, almeno per la frattura di femore. È stata infatti riscontrata una
significativa riduzione dei livelli ossei di 1,25(OH)2D e dei tassi circolanti di 25(OH)D in pazienti con fratture acute del femore (Fig. 2).
Alcune recenti metanalisi hanno evidenziato come un’adeguata supplementazione di vitamina D, sotto forma di colecalciferolo, associata a quella di calcio, determini una riduzione del rischio di frattura [2], oltre a massimizzare l’efficacia dei farmaci antiriassorbitivi [4]. Da non sottovalutare
infine l’importanza di un’adeguata replezione di vitamina D nei confronti di alcuni fattori di rischio extrascheletrici: adeguati livelli di 25OHD sembrano infatti essere in grado di ridurre il rischio di caduta negli anziani.
Il fumo di sigaretta, l’abuso di alcool e di caffeina e una vita sedentaria influiscono negativamente sulla BMD, determinandone una sua
riduzione e quindi devono essere attentamente indagati nell’inquadramento globale del paziente osteoporotico.
Il fumo di sigaretta sembra agire direttamente a livello delle cellule osteoblastiche inducendo una aumento della sintesi di citochine, come IL-6 e
TNF-α, che inducono l’osteoclastogenesi e quindi il riassorbimento osseo.
Meno chiaro è il ruolo svolto dalla caffeina e dall’alcool. L’abuso di
alcool determina di per sè malnutrizione e quindi ridotto intake di calcio; inoltre, l’epatopatia che spesso si accompagna all’assunzione di
elevate quantità di bevande alcoliche, condiziona un deficit di 25OHD
e di 1,25 (OH)2D, che determina riduzione dell’assorbimento intestinale del calcio, con iperparatiroidismo secondario a cui consegue incremento dei processi di riassorbimento osseo.
Eccessive quantità di caffè sembrano favorire la perdita di massa ossea
attraverso meccanismi non ancora ben chiariti, probabilmente legati
all’assunzione e all’assorbimento del calcio e connessi a diversi polimorfismi dei recettori della vitamina D; altri studi hanno ipotizzato inoltre che la caffeina, con meccanismi non ancora totalmente chiariti,
possa influenzare negativamente la proliferazione e l’attività osteoblastica [10].
Anche la co-morbilità è in grado di influenzare negativamente il rischio
di frattura; la presenza di patologie associate può infatti interagire con il
normale metabolismo osseo e contribuire in maniera fondamentale
all’aumento del rischio di frattura, come si verifica ad esempio nell’iperparatiroidismoprimitivo e secondario, nell’insufficienza renale, nell’ipertiroidismo, nell’ipercortisolismo, nell’ipogonadismo e nelle malattie
autoimmuni come l’artrite reumatoide [5]. In particolare, i pazienti affetti da patologie connettivali, presentano un incremento del rischio di frattura oltre che per il grado di attività della malattia anche per la contemporanea presenza di fattori di rischio aggiuntivi, quali gradi variabili di
inattività fisica e uso di corticosteroidi che vanno a sommarsi a fattori di
rischio eventualmente già presenti (età, sesso femminile).
Tra i fattori di rischio indipendenti dalla BMD sono da segnalare le pregresse fratture traumatiche e l’elevato turnover osseo (Tabella 2).
La presenza di una frattura vertebrale è associata a un elevato rischio di sviluppare nuove fratture vertebrali e a un rischio minore di avere fratture del
femore. È stato stimato che nell’anno successivo al verificarsi di una frattura vertebrale il 20% dei pazienti andrà incontro a una nuova frattura.
Lo studio del turnover osseo attraverso il dosaggio dei marker di neoformazione (fosfatasi alcalina ossea, PICP, PINP, osteocalcina) e riassorbimento osseo (CTX, NTX, deossipiridoline urinarie) rappresenta un ulteriore strumento di valutazione del rischio di frattura. Come dimostrato da
alcuni studi epidemiologici, un incremento del turnover osseo è associato
a un aumento del rischio di frattura indipendentemente dai valori densitometrici [14]. Tuttavia l’utilità dell’uso clinico dei marker di rimodellamento nel singolo paziente è ostacolata dall’elevata variabilità biologica e
dalla scarsa precisione analitica dei metodi di dosaggio dei vari indicatori.
Al termine di questa breve disamina possiamo concludere che attualmente assumono una grande importanza la valutazione e il riconoscimento dei fattori di rischio per potere individuare con una buona accuratezza pazienti che presentano un alto rischio di frattura.
La misura della BMD femorale o lombare si è dimostrata in grado di
predire il rischio di frattura allo stesso modo di quanto avviene per la
valutazione della pressione arteriosa o dei livelli di colesterolo per il
rischio cardiovascolare.
Comunque le evidenze rilevanti dagli studi clinici mostrano come non
tutti i malati con diagnosi densitometrica di osteoporosi vadano incontro a una frattura, sebbene nel complesso il loro rischio risulti nettamente superiore rispetto ai soggetti non osteoporotici. D’altra parte
l’osteopenia (T-score >2,5 e <-1) è molto più comune dell’osteoporosi, per cui la maggioranza delle fratture si realizza in questa fascia di
popolazione e per tale motivo l’esame densitometrico da solo non è
sufficiente a discriminare le pazienti osteopeniche a elevato rischio di
frattura rispetto a quelle sempre osteopeniche ma con rischio minore.
È quindi ormai dimostrato come la valutazione del profilo di rischio
migliori l’accuratezza diagnostica della densitometria nella predizione del
Tabella 2 Fattori di rischio per frattura osteoporotica indipendenti dalla BMD
Età
Storia di fratture traumatiche
Terapia steroidea cronica
Familiarità per fratture di femore
Elevato turnover osseo
Scarsa acuità visiva
Ridotto peso corporeo
Malattie neuromuscolari
Farmaci (benzodiazepine ecc.)
Fumo di sigaretta
rischio di frattura e nelle scelte terapeutiche. Già nel 1998, la National
Osteoporosis Foundation (NOF) invece raccomandava di eseguire un
esame densitometrico per la valutazione dell’osteoporosi in tutte le
donne ultrasessantacinquenni e nelle pazienti tra i 50–64 anni e con
almeno un fattore di rischio tra quelli elencati nella Tabella 1. La terapia
farmacologica poteva essere iniziata in donne con almeno un fattore di
rischio T-score, a livello del rachide o del femore, compreso tra -2 e -1,5.
Nel 2002, anche la US Preventive Services Task Force indicava la necessità di sottoporre a valutazione densitometrica tutte le donne di età superiore a 65 anni e quelle tra 60–65 anni con uno o più fattori di rischio.
Successivamente numerosi studi prospettici o di coorte hanno tentato
di individuare algoritmi diagnostici che avessero la capacità di scoprire pazienti a più alto livello di rischio per lo sviluppo di fratture, prendendo in considerazione più variabili oltre la BMD.
Già nel 2004 il National Osteoporosis Risk Assesment Study (NORA) aveva
permesso di mettere a punto due diversi algoritmi, che si differenziavano
per la considerazione o meno dei bassi valori di densità minerale ossea.
L’algoritmo che considerava anche il valore di BMD mostrava una sensibilità simile rispetto al secondo, anche se in quest’ultimo veniva non riconosciuta una buona percentuale di donne con un alto rischio di frattura (49%
vs 39%), per cui il valore della BMD non può non essere preso in considerazione in una corretta valutazione globale del paziente.
Studi successivi, effettuati su popolazioni nordeuropee, hanno dimostrato
che l’utilizzo dei fattori di rischio clinici è in grado di discriminare i pazienti a elevato rischio di frattura da quelli a rischio più ridotto [15].
Questo dato è stato confermato anche da una successiva meta-analisi
che valutava il gradiente di rischio per fratture di femore, confrontando i dati che si ottenevano esaminando prima i valori di BMD solamente, poi la presenza o meno di fattori di rischio, e infine la combinazione di entrambi [4–9]. L’utilizzo di entrambe le variabili permette
una più accurata valutazione del profilo di rischio aumentando il valore del gradiente da 3,7 a 4,2.
L’utilizzo di questi dati ha permesso di generare un calcolatore in grado
di fornire una stima del rischio di frattura a 10 anni, che appare inoltre
variabile anche in considerazione della popolazione di appartenenza del
singolo soggetto (FRAX). L’utilizzo del FRAX per la valutazione del profilo di rischio ha successivamente consentito anche la formulazione di
criteri di intervento terapeutico da parte della NOF, anche se tali criteri
sono al momento utilizzabili solo per la popolazione statunitense.
Recentemente sono tuttavia emerse alcune critiche sulla validità di questo modello; in particolare, alcuni autori hanno fatto notare come il FRAX
non consenta di valutare alcune condizioni patologiche che hanno un
sicuro impatto sul rischio di frattura (iperparatiroidismo, Morbo di
Cushing ecc.); altro possibile limite è rappresentato poi dalla possibilità
di inserire alcune variabili solo come dicotomiche (SI/NO), come ad
esempio l’uso di corticosteroidi, l’utilizzo dei quali, come è noto, determina un incremento del rischio di frattura dose dipendente.
Si è cercato pertanto di superare questi limiti con la creazione di nuovi
algoritmi che tenessero conto anche di altre variabili e che valutassero
alcune di esse (fumo, dose di corticosteroidi) come variabili continue.
In particolare, la SIOMMMS (Società Italiana dell’Osteoporosi del
Fig. 3 Fratture osteoporotiche principali: probabilità a 10 anni
Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro) sta testando un
nuovo tool, derivato dal FRAX, che dovrebbe permettere di valutare il
rischio di frattura a 10 anni in maniera più accurata (DE FRA) (Fig. 3).
Conclusioni
Un corretto inquadramento del paziente che giunga all’osservazione
del medico per uno studio del quadro osteometabolico prevede oggi
un approccio che consenta una migliore prevenzione dell’evento fratturativo attraverso una valutazione globale dei fattori di rischio.
Lo studio della densità ossea tramite DEXA riveste sicuramente ancora
un ruolo centrale nella diagnostica dell’osteoporosi, ma deve essere considerato come uno strumento attraverso il quale migliorare l’accuratezza
diagnostica ottenibile con la valutazione dei fattori di rischio clinici.
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Febbri periodiche e malattie auto-infiammatorie o
dell’immunità innata
A. MARINARO, M. LA REGINA, E. VERRECCHIA, M. GIOVIALE, C. FONNESU, G. DE SOCIO, R. MANNA
Centro Febbri Periodiche, Istituto di Medicina Interna, Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma
Introduzione
Le febbri periodiche ereditarie costituiscono un capitolo emergente
della medicina post-genomica. Si tratta di una folta schiera di manifestazioni cliniche complesse che possono rappresentare una sfida diagnostica anche per i più “stagionati” clinici [1].
Clinicamente condividono la ricorrenza di episodi febbrili autolimitanti, della
durata di giorni o settimane, e di manifestazioni infiammatorie di entità variabile a carico di cute, mucose, tubo gastrointestinale, membrane sierose,
occhio, articolazioni o sistema nervoso, in assenza di auto-anticorpi o infezioni, con la presenza di periodi intervallari liberi da sintomi. Lo stesso andamento seguono i globuli bianchi e gli indici di flogosi.
A dispetto della loro recente categorizzazione nosografica, le febbri
periodiche ereditarie hanno afflitto l’umanità per secoli. L’area geografica di distribuzione limitata (ad esempio, il bacino Mediterraneo
per la febbre mediterranea familiare, l’Europa centro-settentrionale
per la sindrome da iper-IgD/febbre periodica e la sindrome periodica
associata al recettore del fattore di necrosi tumorale) lasciano presupporre un vantaggio selettivo evoluzionistico da parte dei portatori di
taluni genotipi. Attraverso le grandi migrazioni verificatesi nella storia,
come la diaspora degli Ebrei, la colonizzazione greca o le conquiste del
mondo arabo, tali malattie si sono diffuse in tutto il mondo antico. Con
le emigrazioni oltre l’Oceano Atlantico e i flussi migratori dai Paesi
dell’Europa dell’Est dopo la caduta degli ultimi regimi totalitaristici, le
febbri periodiche ereditarie hanno acquisito una distribuzione e una
importanza clinica mondiale.
Fisiopatologia
Molte di queste malattie sono state associate negli ultimi anni a mutazioni all’interno di un singolo gene, sebbene la “sindrome febbre periodica, stomatite afosa, faringite e adenite” o più semplicemente PFAPA
sia una nota eccezione.
A ogni modo, la progressiva identificazione dei singoli difetti genetici alla
base delle varie febbri periodiche ereditarie [2–9] ha dimostrato che questi colpiscono proteine con funzione di controllo sull’infiammazione e ha
condotto al concetto di “malattia auto-infiammatoria”, dal momento che
la cascata infiammatoria, per effetto di tali mutazioni, risulta attivata in
maniera quasi spontanea e afinalistica (in seguito a stimoli altrimenti innocui o inapparenti come un viaggio, una serata in discoteca, un esame).
I successivi studi di biologia molecolare hanno evidenziato che le proteine mutate in tali disordini sono effettori della prima barriera di difesa
del nostro organismo, il sistema immunitario innato, deputato alla precoce identificazione di stimoli nocivi. Da qui la nuova categoria dei disordini dell’immunità innata, comprendente tanto le febbri periodiche ereditarie quanto disordini auto-infiammatori non chiaramente ereditari,
ma comunque caratterizzati da disfunzioni dell’immunità innata come
l’uropatia da cristalli (gotta e simili) o la sindrome di Schniztler [10, 11].
È importante sottolineare che, sebbene le febbri periodiche possano
essere inquadrate come malattie auto-infiammatorie, non tutte le malattie auto-infiammatorie sono febbri periodiche, in quanto la sindrome di
Majeed, la sindrome di Blau, la sindrome ipoderma gangrenoso-acne
(PAPA) e il deficit di antagonista del recettore dell’IL-1 sono sindromi
auto-infiammatorie ma non sono tipicamente caratterizzate da febbre.
Classificazione
Da quanto detto appare evidente che si tratta di una classe di malattie in continua espansione, per cui ogni tentativo di definizione appare attualmente non esaustivo. La ISSAID (Società Internazionale per le
Malattie Autoinfiammatorie) ha proposto di includere nell’ambito delle
malattie auto-infiammatorie i disordini elencati in Tabella 1, appartenenti tradizionalmente a categorie nosologiche differenti [12, 13]. Di
seguito, alcuni cenni sulle principali malattie dell’immunità innata.
Febbre mediterranea familiare
vedi Medicina Italia, numero 2/09
Sindrome da iperIgD
Nota anche come “malattia da deficienza di mevalonato-kinasi (MVK)”
(OMIM 260920), identificata nel 1984, è trasmessa come carattere autosomico recessivo, è causata da mutazioni nel gene MVK posto sul cromosoma 12, codificante per l’enzima perossisomiale mevalonato-kinasi,
Tabella 1 Disordini inclusi nel gruppo delle malattie auto-infiammatorie da parte della ISSAID
Categoria originaria
Febbri periodiche ereditarie e non
Malattie granulomatose
Malattie reumatologiche
Malattie piogeniche
Miscellanea
coinvolto nella sintesi del colesterolo e degli isoprenoidi [14–17]. Tale
enzima non risulta però direttamente coinvolto nella patogenesi della
malattia, ancora enigmatica, pur risultando critica la diminuzione dei prodotti a valle della via metabolica dell’acido mevalonico. Questa sindrome
si manifesta già nel primo anno di vita ed è particolarmente diffusa
nell’Europa Centrale, prevalentemente nei Paesi Bassi, ove è stata calcolata una frequenza degli eterozigoti di 1:65, ma è presente anche in
Francia e in Italia. Per la sua grande frequenza in Olanda è anche definita “febbre periodica di tipo olandese”. Non è noto il meccanismo biochimico che determina la febbre e il suo periodismo (ogni 3–8 settimane): gli episodi febbrili tipici si manifestano improvvisamente e possono
essere scatenati da infezioni, vaccinazioni o stress emotivi, anche se spesso non si riesce a individuare un evento precipitante. La febbre è preceduta da brividi e può durare sino a 6 giorni; l’associazione con una vistosa sintomatologia gastrointestinale (dolori addominali, diarrea e vomito)
è molto spiccata; molto frequente durante l’attacco febbrile è il riscontro
di adenopatie laterocervicali, cefalea, artromialgie, aftosi orale ed eruzioni cutanee di tipo maculare. Nella maggioranza dei casi il corteo clinico
tende ad attenuarsi con l’avanzare dell’età. È tipica di questa condizione,
ma non patognomonica, l’elevazione delle IgD seriche (>100 UI/ml) che
si associa nell’85% dei casi a un incremento delle IgA. L’aumento delle
IgD si osserva costantemente, vale a dire indipendentemente dalle fasi
acute o intercritiche della malattia. Invece solo durante gli attacchi febbrili si può riscontrare un’escrezione urinaria aumentata di acido mevalonico. Recentemente è stato descritto il rischio di insorgenza di amiloidosi renale in pazienti affetti da questa sindrome, anche se con frequenza
notevolmente inferiore rispetto alle malattie auto-infiammatorie. Il caposaldo del trattamento sono gli antinfiammatori non steroidei che riducono l’intensità e la durata della febbre. Alcuni pazienti rispondono bene ai
corticosteroidi. La colchicina non sembra essere efficace in questi pazienti. Simon e coll. hanno studiato con risultati non incoraggianti (riduzione
non significativa del numero dei giorni di febbre) il trattamento con simvastatina (80 mg/die), secondo l’ipotesi che l’inibizione dell’enzima idrossimetilglutaril-coenzima A reduttasi possa prevenire il rilascio di citochine
che si verifica negli attacchi febbrili; tuttavia è stato riportato il caso di un
paziente con un ottima risposta alla simvastatina [18, 19]. Sono allo stu-
Febbre Mediterranea Familiare (FMF)
Sindrome da iperIgD o HIDS
Sindrome ad alterazione del recettore solubile del TNF o TRAPS
Criopirinopatie o CAPS, NAPS12
Febbre periodica-adenopatia-faringite-aftosi o PFAPA
Morbo di Chron
Sindrome di Blau
Sarcoidosi a esordio precoce
Alcune forme di graft versus host disease
Artrite giovanile
Morbo di Still
Morbo di Behçet
Gotta
malattia di Schniztler
Osteomielite cronica multifocale ricorrente (CRMO)
Malattia di Majeed
PAPA, DIRA
Angioedema ereditario
Mola idatiforme e certe forme di abortività
Predisposizione a certe malattie infettive come sepsi, tubercolosi ecc.
dio alcuni inibitori della sintesi dello squalene, isoprenoide intermedio
situato a valle nella via metabolica dell’acido mevalonico, per un più efficace controllo dei segni e dei sintomi della malattia. L’etanercept non è
indicato a meno di rare sovrapposizioni con la sindrome TRAPS [20],
mentre l’anakinra è stato usato con successo in due casi [21].
Sindrome periodica associata al recettore del TNF
La sindrome periodica associata al recettore del TNF (TRAPS) era nota
inizialmente come febbre familiare iberniana in quanto descritta per la
prima volta in una famiglia irlandese-scozzese nel 1982 [22]. Nel corso
degli anni è stata identificata anche in altre popolazioni.
Si eredita come autosomico-dominante ed è causata da mutazioni a
carico del recettore p55 del TNF (o TNFR1), codificato dal gene della
super famiglia del recettore per il TNF 1A (TNFRSF1A) [23].
Sono stati proposti differenti meccanismi patogenetici per spiegare la
TRAPS. Originariamente era stato ipotizzato che la TRAPS fosse la conseguenza di un’alterata down-regulation del TNFR1 di membrana e
una riduzione del passaggio di questo recettore in forma solubile [23].
Tuttavia alcune mutazioni del TNFRSF1A non sono associate al difetto
di distacco dalla membrane del TNFR1 p55 [24], suggerendo l’esistenza di meccanismi patogenetici addizionali ancora oggetto di studio.
Clinicamente è caratterizzata da attacchi di febbre, dolore addominale
o toracico (90 e 60% dei casi, rispettivamente), severe mialgie migranti in senso centrifugo, eritemi migranti che si sovrappongo alla distribuzione delle mialgie, edema periorbitale o congiuntiviti, della durata
variabile da 5 a 21 giorni, ricorrenti in media ogni 6 settimane. Le
artralgie delle grandi articolazioni sono comuni, mentre le artriti franche sono rare. Di solito esordisce nell’infanzia con un rapporto
maschi:femmine di 3:2, le cui ragioni non sono note.
L’amiloidosi è la più grave complicanza a lungo termine della TRAPS. Circa
il 14% degli affetti sviluppa l’amiloidosi, soprattutto quei soggetti le cui
mutazioni prevedono la sostituzione di una cisteina (24% vs 2%) [25].
Il trattamento include gli anti-infiammatori non steroidei che attenuano la febbre, ma sono poco efficaci sui sintomi addominali e muscoloscheletrici. I corticosteroidi controllano tali sintomi nella maggioranza
dei pazienti. Tuttavia, nessuno di questi due trattamenti altera la fre-
quenza degli attacchi, obiettivo che attualmente si raggiunge con l’impiego dei farmaci biologici, come l’etanercept che è risultato efficace
anche nel prevenire o revertire la deposizione di amiloide [26–28].
Criopirinopatie
Le malattie dovute a mutazioni della criopirina o “criopirinopatie” sono
rare e si trasmettono come caratteri autosomico-dominanti [29–34].
Sono state inserite nel gruppo delle sindromi febbrili periodiche ereditarie solo da poco tempo, alla luce delle considerazioni pato-fisiologiche
seguite agli studi genotipici per l’orticaria familiare da freddo (FCAS), per
la sindrome di Muckle-Wells (MWS) e per la sindrome CINCA (Chronic
Infantile Neurologic Cutaneous Articular syndrome). Queste malattie
sono causate da mutazioni differenti a carico del medesimo gene, il
CIAS1 che codifica per la criopirina (nota anche con la sigla NALP3). Si
tratta di una proteina strutturalmente omologa alla pirina (proteina
mutata nella febbre mediterranea familiare) coinvolta nella regolazione
dell’attivazione della caspasi, oltre che nel controllo dell’infiammazione
e dell’apoptosi. Tutte le manifestazioni cliniche correlate ai tre quadri sindromici risultano mediate dall’interleukina-1, potente citochina dotata di
effetti pro-infiammatori. La prima descrizione sistematica di Williamson
riferibile a questo gruppo di patologie risale al 1982, ma la loro caratterizzazione genotipica si è ottenuta solo nel periodo 2001–2002.
L’orticaria familiare da freddo (OMIM 120100) si caratterizza per la
ricorrenza di artralgie, dolori addominali, cefalea e soprattutto orticaria,
scatenati dall’esposizione al freddo o da variazioni della temperatura
ambientale. Nel 2–4% dei casi si può complicare con l’amiloidosi.
La sindrome di Muckle-Wells (OMIM 191900) è stata storicamente
descritta per la prima volta nel 1962 ed è caratterizzata da lesioni orticarioidi che compaiono nei primi anni di vita (normalmente non evocate dall’esposizione al freddo) poliartrite non erosiva, sordità neurosensoriale e amiloidosi renale nel 25% dei casi.
La sindrome CINCA (OMIM 606416), nota anche come malattia infiammatoria multisistemica ad esordio neonatale (o Neonatal-Onset Multisystem
Inflammatory Disease, NOMID) è l’espressione più grave delle mutazioni a
carico del gene CIAS1: essa si caratterizza per l’insorgenza di orticaria cronica già nel periodo neonatale che si associa a una grave artropatia deformante a livello delle ginocchia e a una meningo-encefalopatia cronica con
papilledema e sordità neurosensoriale. Nel 20% dei pazienti con sindrome
CINCA è descritta la possibilità di amiloidosi. In tempi recenti è stata dimostrata la possibilità di trattare con successo i pazienti affetti da criopirinopatie con antagonisti selettivi dell’interleukina-1 come l’anakinra, farmaco
biologico già usato nel trattamento dell’artrite reumatoide dell’adulto, somministrabili per via sottocutanea alla dose di 1 mg/kg/die.
Altre malattie auto-infiammatorie
Tra le potenziali cause di febbre periodica devono essere annoverate
altre malattie auto-infiammatorie come:
• la sindrome di Blau (OMIM 186580), malattia trasmessa come
carattere autosomico-dominante, caratterizzata da un’infiammazione granulomatosa ricorrente a carico di articolazioni, tunica
vascolare dell’occhio e cute, determinata da alterazioni a carico
della proteina NOD2 coinvolta nella formazione dei granulomi:
questa condizione non coinvolge il polmone e ciò può consentire
di differenziarla dalla sarcoidosi [35];
• la sindrome CRMO (Chronic Recurrent Multifocal Osteomielitis;
OMIM 259680) è una malattia auto-infiammatoria a eziologia sco-
nosciuta con decorso imprevedibile, caratterizzata dalla ricorrenza
di osteomieliti multifocali, in cui le colture del sangue e del materiale biologico derivante dai focolai osteomielitici risultano costantemente sterili; la malattia non risponde agli antibiotici, ma si
beneficia del trattamento con corticosteroidi, antinfiammatori nonsteroidei, interferone, antagonisti del fattore di necrosi tumorale e
bisfosfonati (come il pamidronato) [36];
• la sindrome di Majeed (OMIM 609628), descritta per la prima
volta nel 1989, è stata osservata solo in Giordania e si caratterizza per l’associazione dell’osteomielite multifocale ricorrente con
un’anemia diseritropoietica congenita [37];
• la sindrome PAPA (Pyogenic Arthritis Pyoderma gangrenosus
Acne; OMIM 614416) è caratterizzata da artrite piogenica, pioderma gangrenoso, acne di tipo cistico ed è causata da mutazioni a
carico del gene che codifica per la sintesi della proteina CD2BP1
che interagisce con la pirina regolandone l’espressione [38].
Occupa un posto a sé una malattia auto-infiammatoria non ancora
conosciuta nei suoi intimi meccanismi patogenetici, la Malattia di
Behçet (OMIM 109650), che si caratterizza per la ricorrenza di ulcere
orali/genitali, uveite e manifestazioni cutanee e che può talora associarsi a febbri ricorrenti [39].
Tra le cause non ereditarie di febbre periodica è doveroso infine ricordare la PFAPA (Periodic Fever with Aphtous stomatitis Pharyngitis and
Adenitis) o sindrome di Marshall, la cui incidenza nella popolazione
pediatrica generale è ampiamente sottostimata. Essa interessa per lo più
bambini di età inferiore a 5 anni e si caratterizza per febbre elevata a
esordio improvviso che ricorre con cadenza pressoché prevedibile ogni
3–4 settimane, associandosi a linfoadenopatia latero-cervicale, faringite
e stomatite aftosa, in assenza di segni clinici riferibili a infezioni del tratto respiratorio. Gli episodi febbrili della sindrome PFAPA “abortiscono”
con la somministrazione di steroidi (1–2 mg/kg di prednisone, eventualmente seguiti da mezza dose il giorno successivo) e sono mitigati per frequenza e intensità dalla tonsillectomia: la decisione di questi trattamenti spetta ovviamente al pediatra che abbia valutato clinicamente il bambino e sospettato la sindrome. La storia naturale della sindrome PFAPA
decorre favorevolmente, poiché tende spontaneamente a scomparire con
la crescita del bambino senza lasciare alcun esito [40].
Le ultime due malattie identificate sono la febbre ricorrente associata
al NALP12 e il deficit dell’antagonista recettoriale dell’IL-1 o DIRA. La
prima [9] è una forma autosomico-dominata, caratterizzata da attacchi di febbre, artralgie/artriti, orticaria, cefalea e mialgia, della durata
di 5–10 giorni, scatenati dall’esposizione al freddo. In qualche paziente è stata riscontrata anche sordità neurosensoriale. Il meccanismo
patogenetico attraverso il quale la mutazione della proteina NALP12
(che interviene nel controllo dell’infiammazione) produce i sintomi non
è ancora noto. Nel trattamento sono stati finora utilizzati anti-infiammatori non steroidei, steroidi e biologici con risposte non uniformi.
La DIRA [8], è una malattia rarissima: ne sono stati identificati in tutto il
mondo finora meno di 10 casi, per lo più in soggetti di origine olandese. Il
gene responsabile è chiamato IL1RN e codifica per l’antagonista recettoriale dell’IL-1 (IL-1RA), che gioca un ruolo nella naturale inibizione del processo infiammatorio. IL-1RA neutralizza, infatti, la proteina interleuchina 1 (IL1), che rappresenta una potente citochina proinfiammatoria. È a trasmissione autosomico-recessiva e clinicamente si caratterizza per la presenza di
tumefazioni ossee dolorose, dovute a periostiti (possono essere colpite diverse ossa comprese quelle degli arti e le coste) e di pustole. Queste ultime pos-
sono comparire spontaneamente, ma peggiorare in seguito a tagli e ferite
locali. La malattia esordisce assai precocemente, generalmente tra la nascita
e le prime due settimane di vita. Risponde bene al trattamento all’anakinra.
15.
Diagnosi
La diagnosi delle malattie auto-infiammatorie, nonostante l’identificazione dei geni coinvolti in alcune delle forme ereditarie, rimane essenzialmente clinica.
La diagnosi molecolare delle forme ereditarie ha una bassa efficienza
ed elevati costi per due ordini di ragioni. In pazienti con manifestazioni cliniche compatibili con una sindrome auto-infiammatoria, la frequenza di rilevazione di mutazioni in ciascuna delle suddette malattie
è di solito inferiore al 20%. Questo è particolarmente vero nell’età
pediatrica in cui è piuttosto frequente la PFAPA che al momento attuale non ha una chiara e ben documentata base genetica e di solito si
risolve spontaneamente in alcuni anni.
Al fine di identificare correttamente i pazienti da sottoporre ai test genetici ed evitare costi eccessivi per il Sistema Sanitario, Gattorno e coll.
hanno sviluppato recentemente un set di variabili in grado di predire il
rischio di un singolo paziente di essere portatore di una mutazione a carico di uno dei geni responsabili delle febbri periodiche ereditarie [28]. Tale
score di rischio, tuttavia, è valido solo per la popolazione pediatrica.
Attualmente, il consiglio è quello di indirizzare i pazienti sospetti al
centro di riferimento più vicino, contattando l’Associazione Italiana dei
Pazienti con Febbri Periodiche (AIFP, www.febbriperiodiche.it) o consultando il sito www.retemalattierare.it.
16.
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Inserto alla rivista "Internal and Emergency Medicine" Vol. 5 Num. 6
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