Medicina Italia – Numero 06/2010 - Società Italiana di Medicina
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Medicina Italia – Numero 06/2010 - Società Italiana di Medicina
Number 6/10 edicinatalia L’utilità dei fattori di rischio nella diagnosi precoce dell’osteoporosi ROBERTO VALENTI, MARTINA RUVIO, ELENA CECCARELLI, COSIMO CAPODARCA, GIUSEPPE MARTINI, RANUCCIO NUTI Dipartimento di Medicina Interna e Malattie Metaboliche, Università di Siena, Siena Fisiopatologia dell’osteoporosi L’osteoporosi è una malattia dal grande impatto sociale che negli ultimi anni ha assunto sempre maggiore importanza, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del conseguente incremento delle sue complicanze, prime fra tutte le fratture di femore e quelle vertebrali. Infatti l’osteoporosi è una patologia dello scheletro caratterizzata da compromissione della resistenza al carico che determina un aumento del rischio di frattura. Le componenti che caratterizzano la resistenza dello scheletro sono da una parte la quantità di tessuto osseo, misurabile come densità ossea (BMD) attraverso la densitometria ossea a raggi X, e dall’altra la qualità dell’osso che è determinata da una serie di parametri macro- e micro-architetturali di più difficile rilevazione dal punto di vista clinico. Valori di BMD al di sotto della norma possono essere la conseguenza sia di un mancato raggiungimento del normale picco di massa ossea che di una più veloce perdita ossea nell’età adulta. L’accrescimento fisiologico della massa ossea nell’infanzia e nella pubertà è determinato da un’adeguata crescita dell’osso encondrale con un aumento delle cartilagini di accrescimento e una crescita lineare dello scheletro. Il rapido incremento della massa ossea nella pubertà è dovuto all’azione favorente da parte degli ormoni sessuali che determinano tra l’altro la chiusura delle cartilagini di accrescimento. Nelle donne si ha un ulteriore aumento nei tre anni successivi al menarca, mentre un piccolo sviluppo nei successivi 5–15 anni si ha per l’apposizione periostale; ne risulta che il picco di massa ossea viene raggiunto fisiologicamente tra i 20–30 anni di età. In seguito, in condizioni normali, permane uno stato di stabilità fino intorno ai 50 anni, quando la massa ossea comincia a diminuire. Nelle donne, nei primi cinque anni dalla menopausa, si assiste a una prima fase di rapido decremento di BMD, con una perdita localizzata principalmente a livello del rachide, di circa il 3% all’anno, seguita da una fase più lenta e graduale con una perdita di circa lo 0,5% all’anno, anche in altre sedi. Nell’uomo il declino della massa ossea è più graduale e costante, dal momento che nel sesso maschile non esiste un evento analogo alla menopausa in grado di incidere in maniera significativa sulla massa ossea. La perdita di massa ossea inizia, in genere, a partire dai 50–55 anni, con un decremento relativamente costante di circa lo 0,5 % all’anno. Fisiologicamente il normale turnover osseo è caratterizzato da un equilibrio tra i due processi di neoformazione e riassorbimento osseo, strettamente connessi tra loro. La perdita di massa ossea è dovuta principalmente a un “disaccoppiamento” tra questi due processi: si realizza uno squilibrio tra l’attività osteoblastica e quella osteoclastica con un aumento della fase di riassorbimento a cui non segue un analogo incremento dei processi di neoformazione ossea. Il fisiologico turnover osseo è regolato da un pattern di citochine che rivestono una grande importanza anche nella fisiopatologia di numerose malattie metaboliche dell’osso. L’attività osteoclastica è regolata dal sistema OPG/RANKL che rappresenta uno dei più importanti meccanismi di “comunicazione” reciproca tra le cellule osteoblastiche e osteoclasti- che. Il legame del RANKL, prodotto dagli osteoblasti, con il suo recettore specifico (RANK) presente nei precursori osteoclastici, dà il via a una serie di processi che determinano la differenziazione di queste cellule e l’attivazione degli osteoclasti maturi, ritardandone al contempo l’apoptosi. L’osteoprotegerina (OPG), prodotta dagli osteoblasti e dalle cellule stromali, è un recettore solubile che impedisce l’interazione RANK/RANKL legandosi al RANKL, determinando un blocco dei processi che inducono l’osteoclastogenesi. Gli osteoblasti sono invece regolati da altri meccanismi come quello legato al sistema Wnt/ catenina. Con l’ausilio di recettori specifici localizzati sulla membrana degli osteoblasti come le frizzled protein e altri co-recettori, quali la LRP5, si realizza uno stimolo all’osteoblastogenesi controllato da alcune proteine, quali la proteina DKK e la sclerostina, in grado di inibire l’attivazione osteoblastica indotta dal sistema Wnt. L’importanza di questi sistemi non è ancora ben definita, anche se appare certo il loro ruolo nei processi fisiopatogenetici che regolano il metabolismo osseo, come dimostrato dal fatto che diversi polimorfismi della proteina LRP5 e della sclerostina sembrano condizionare vari gradi di mineralizzazione dello scheletro e una diversa incidenza di fratture. Fattori di rischio Come abbiamo visto la riduzione della massa ossea è in grado di determinare un aumento del rischio di frattura ed è ormai accettato come una riduzione della densità ossea pari a una Deviazione Standard (DS) sia in grado di raddoppiare la probabilità di incorrere in una frattura. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto un valore di densità ossea, misurata a livello del femore prossimale o del rachide lombare, al di sotto della quale si collocano i valori di BMD che comprendono la maggior parte dei pazienti con fratture osteoporotiche: questo valore è pari a 2,5 DS al di sotto del valore medio del giovane adulto e viene espresso come T-score. I valori di T-score fra -1 e -2,5 sono espressione di una condizione definita come osteopenia. Per ogni riduzione di 1 DS oltre il valore di riferimento di 2,5 si ha un aumento di circa 2–2,4 volte del rischio di frattura. Il rischio di frattura è comunque influenzato, oltre che dalla BMD, da altre numerose variabili e, di conseguenza, è importante effettuare su ogni paziente una valutazione clinica globale che comprenda sia uno studio del quadro osteometabolico e della densità minerale ossea che la presenza o meno di fattori di rischio predisponenti. I fattori di rischio vengono distinti in due categorie: fattori di rischio non modificabili, sui quali non è possibile intervenire, e fattori di rischio modificabili, sui quali è possibile agire sia tramite adeguati programmi volti alla correzione dello stile di vita sia attraverso l’utilizzo di opportune terapie (Tabella 1). Il sesso femminile è uno tra i più importanti fattori predisponenti, visto il fondamentale ruolo rivestito dagli estrogeni nella crescita dello scheletro e nel normale mantenimento dell’omeostasi calcica; numerose ricerche infatti hanno evidenziato la presenza di specifici recettori sulle cellule osteoblastiche, su quelle osteoclastiche e sugli osteociti. Questo spiega la grande importanza di un adeguato stato estrogenico: è noto infatti che una menopausa precoce o un menarca tardivo espongono le donne a un maggiore rischio di frattura per il conseguente ridotto periodo di tempo di esposizione a questi ormoni. Recenti studi hanno evidenziato come i livelli estrogenici e un’adeguata concentrazione di SHBG (Sex Hormone Binding Globulin) abbiano anche un ruolo centrale nella patogenesi dell’osteoporosi maschile [1–4]. Tra i fattori di rischio non modificabili bisogna sottolineare anche l’appartenenza alla razza bianca o asiatica piuttosto che a quella nera o alla ispanica; è stato infatti evidenziato come esistono differenze razziali anche sostanziali, ad esempio, tra le donne bianche e quelle nere oltre che per i valori di massa ossea anche per quanto riguarda la perdita di BMD post-menopausale, soprattutto a livello femorale, minore nelle ultime rispetto alle prime. Un recente studio pubblicato da Cauley e coll. ha esaminato circa 160 000 donne di diverse razze, analizzando il rischio di frattura in funzione di vari fattori di rischio. Sebbene il rischio di frattura vari molto in funzione della razza, essendo particolarmente elevato nelle bianche e nelle asiatiche, anche nelle altre razze, come nelle nere e nelle ispaniche, le donne con multipli fattori di rischio presentano ugualmente un importante aumento del rischio di frattura (Fig. 1). L’età è da considerare forse il fattore di rischio più rilevante, sia per il declino età-correlato della BMD che per altri elementi extrascheletrici dipendenti dalle possibili co-morbilità e dai fattori legati all’invecchiamento che aumentano in misura esponenziale il rischio di caduta e quindi di frattura. Tra questi ricordiamo la diminuzione dell’acuità visiva, la difficoltà nei movimenti e la perdita di flessibilità e tono muscolare. Fattori legati allo stile di vita e all’alimentazione sono in grado di influenzare l’omeostasi del calcio e alcuni di questi appaiono indipendenti dalla massa ossea. Un posto di prim’ordine spetta a un adeguato introito calorico associato a un corretto apporto proteico, come si verifica nella malnutrizione sia nell’anziano che tra le giovani donne con disordini dell’alimentazione e con un BMI <19. Anche l’intake di sodio, oltre che essere fondamentale nel controllo della pressione arteriosa, può influenzare il normale metabolismo osseo; infatti è stato dimostrato che una dieta povera di sodio sia associa a una riduzione dell’escrezione urinaria di calcio dell’escrezione e una riduzione dei marker di turnover osseo. Comunque il ruolo del sodio risulta ancora controverso. Un adeguato intake di calcio risulta fondamentale sia per un adeguato sviluppo scheletrico nell’infanzia e nell’adolescenza che per il mantenimento della massa ossea nell’età adulta. Secondo lo studio MEDOS, infatti, è stata evidenziata una significativa riduzione del rischio relativo di frattura nelle donne che assumevano una maggiore quantità di latte e/o derivati [4–9]. L’introito giornaliero di calcio rac- Tabella 1 Fattori di rischio Fattori genetici o costituzionali Stile di vita e aspetti nutrizionali (modificabili) Sesso femminile Età Familiarità Razza bianca o asiatica Menarca tardivo Menopausa precoce Basso apporto di calcio Fumo di sigaretta Nulliparità Abuso di alcool o caffeina Carenza di vitamina D Immobilizzazione prolungata Basso peso corporeo (BMI <20) Uso di farmaci (steroidi, eparina, anticonvulsivanti ecc.) Scarsa attività fisica Fig. 1 Tasso di incidenza annuale di fratture, tra le diverse etnie, secondo il numero dei fattori di rischio presenti. Mod. da [15] Fig. 2 Livelli sierici di Vitamina D in donne normali con frattura di femore. Da [11] comandato nell’adulto è di 1200 mg/die che può essere ottenuto attraverso l’assunzione di latte e derivati, ma anche di pesce e numerose verdure, oltre che di acque minerali ad alto residuo fisso. Anche la carenza di vitamina D è considerata un importante fattore di rischio, almeno per la frattura di femore. È stata infatti riscontrata una significativa riduzione dei livelli ossei di 1,25(OH)2D e dei tassi circolanti di 25(OH)D in pazienti con fratture acute del femore (Fig. 2). Alcune recenti metanalisi hanno evidenziato come un’adeguata supplementazione di vitamina D, sotto forma di colecalciferolo, associata a quella di calcio, determini una riduzione del rischio di frattura [2], oltre a massimizzare l’efficacia dei farmaci antiriassorbitivi [4]. Da non sottovalutare infine l’importanza di un’adeguata replezione di vitamina D nei confronti di alcuni fattori di rischio extrascheletrici: adeguati livelli di 25OHD sembrano infatti essere in grado di ridurre il rischio di caduta negli anziani. Il fumo di sigaretta, l’abuso di alcool e di caffeina e una vita sedentaria influiscono negativamente sulla BMD, determinandone una sua riduzione e quindi devono essere attentamente indagati nell’inquadramento globale del paziente osteoporotico. Il fumo di sigaretta sembra agire direttamente a livello delle cellule osteoblastiche inducendo una aumento della sintesi di citochine, come IL-6 e TNF-α, che inducono l’osteoclastogenesi e quindi il riassorbimento osseo. Meno chiaro è il ruolo svolto dalla caffeina e dall’alcool. L’abuso di alcool determina di per sè malnutrizione e quindi ridotto intake di calcio; inoltre, l’epatopatia che spesso si accompagna all’assunzione di elevate quantità di bevande alcoliche, condiziona un deficit di 25OHD e di 1,25 (OH)2D, che determina riduzione dell’assorbimento intestinale del calcio, con iperparatiroidismo secondario a cui consegue incremento dei processi di riassorbimento osseo. Eccessive quantità di caffè sembrano favorire la perdita di massa ossea attraverso meccanismi non ancora ben chiariti, probabilmente legati all’assunzione e all’assorbimento del calcio e connessi a diversi polimorfismi dei recettori della vitamina D; altri studi hanno ipotizzato inoltre che la caffeina, con meccanismi non ancora totalmente chiariti, possa influenzare negativamente la proliferazione e l’attività osteoblastica [10]. Anche la co-morbilità è in grado di influenzare negativamente il rischio di frattura; la presenza di patologie associate può infatti interagire con il normale metabolismo osseo e contribuire in maniera fondamentale all’aumento del rischio di frattura, come si verifica ad esempio nell’iperparatiroidismoprimitivo e secondario, nell’insufficienza renale, nell’ipertiroidismo, nell’ipercortisolismo, nell’ipogonadismo e nelle malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide [5]. In particolare, i pazienti affetti da patologie connettivali, presentano un incremento del rischio di frattura oltre che per il grado di attività della malattia anche per la contemporanea presenza di fattori di rischio aggiuntivi, quali gradi variabili di inattività fisica e uso di corticosteroidi che vanno a sommarsi a fattori di rischio eventualmente già presenti (età, sesso femminile). Tra i fattori di rischio indipendenti dalla BMD sono da segnalare le pregresse fratture traumatiche e l’elevato turnover osseo (Tabella 2). La presenza di una frattura vertebrale è associata a un elevato rischio di sviluppare nuove fratture vertebrali e a un rischio minore di avere fratture del femore. È stato stimato che nell’anno successivo al verificarsi di una frattura vertebrale il 20% dei pazienti andrà incontro a una nuova frattura. Lo studio del turnover osseo attraverso il dosaggio dei marker di neoformazione (fosfatasi alcalina ossea, PICP, PINP, osteocalcina) e riassorbimento osseo (CTX, NTX, deossipiridoline urinarie) rappresenta un ulteriore strumento di valutazione del rischio di frattura. Come dimostrato da alcuni studi epidemiologici, un incremento del turnover osseo è associato a un aumento del rischio di frattura indipendentemente dai valori densitometrici [14]. Tuttavia l’utilità dell’uso clinico dei marker di rimodellamento nel singolo paziente è ostacolata dall’elevata variabilità biologica e dalla scarsa precisione analitica dei metodi di dosaggio dei vari indicatori. Al termine di questa breve disamina possiamo concludere che attualmente assumono una grande importanza la valutazione e il riconoscimento dei fattori di rischio per potere individuare con una buona accuratezza pazienti che presentano un alto rischio di frattura. La misura della BMD femorale o lombare si è dimostrata in grado di predire il rischio di frattura allo stesso modo di quanto avviene per la valutazione della pressione arteriosa o dei livelli di colesterolo per il rischio cardiovascolare. Comunque le evidenze rilevanti dagli studi clinici mostrano come non tutti i malati con diagnosi densitometrica di osteoporosi vadano incontro a una frattura, sebbene nel complesso il loro rischio risulti nettamente superiore rispetto ai soggetti non osteoporotici. D’altra parte l’osteopenia (T-score >2,5 e <-1) è molto più comune dell’osteoporosi, per cui la maggioranza delle fratture si realizza in questa fascia di popolazione e per tale motivo l’esame densitometrico da solo non è sufficiente a discriminare le pazienti osteopeniche a elevato rischio di frattura rispetto a quelle sempre osteopeniche ma con rischio minore. È quindi ormai dimostrato come la valutazione del profilo di rischio migliori l’accuratezza diagnostica della densitometria nella predizione del Tabella 2 Fattori di rischio per frattura osteoporotica indipendenti dalla BMD Età Storia di fratture traumatiche Terapia steroidea cronica Familiarità per fratture di femore Elevato turnover osseo Scarsa acuità visiva Ridotto peso corporeo Malattie neuromuscolari Farmaci (benzodiazepine ecc.) Fumo di sigaretta rischio di frattura e nelle scelte terapeutiche. Già nel 1998, la National Osteoporosis Foundation (NOF) invece raccomandava di eseguire un esame densitometrico per la valutazione dell’osteoporosi in tutte le donne ultrasessantacinquenni e nelle pazienti tra i 50–64 anni e con almeno un fattore di rischio tra quelli elencati nella Tabella 1. La terapia farmacologica poteva essere iniziata in donne con almeno un fattore di rischio T-score, a livello del rachide o del femore, compreso tra -2 e -1,5. Nel 2002, anche la US Preventive Services Task Force indicava la necessità di sottoporre a valutazione densitometrica tutte le donne di età superiore a 65 anni e quelle tra 60–65 anni con uno o più fattori di rischio. Successivamente numerosi studi prospettici o di coorte hanno tentato di individuare algoritmi diagnostici che avessero la capacità di scoprire pazienti a più alto livello di rischio per lo sviluppo di fratture, prendendo in considerazione più variabili oltre la BMD. Già nel 2004 il National Osteoporosis Risk Assesment Study (NORA) aveva permesso di mettere a punto due diversi algoritmi, che si differenziavano per la considerazione o meno dei bassi valori di densità minerale ossea. L’algoritmo che considerava anche il valore di BMD mostrava una sensibilità simile rispetto al secondo, anche se in quest’ultimo veniva non riconosciuta una buona percentuale di donne con un alto rischio di frattura (49% vs 39%), per cui il valore della BMD non può non essere preso in considerazione in una corretta valutazione globale del paziente. Studi successivi, effettuati su popolazioni nordeuropee, hanno dimostrato che l’utilizzo dei fattori di rischio clinici è in grado di discriminare i pazienti a elevato rischio di frattura da quelli a rischio più ridotto [15]. Questo dato è stato confermato anche da una successiva meta-analisi che valutava il gradiente di rischio per fratture di femore, confrontando i dati che si ottenevano esaminando prima i valori di BMD solamente, poi la presenza o meno di fattori di rischio, e infine la combinazione di entrambi [4–9]. L’utilizzo di entrambe le variabili permette una più accurata valutazione del profilo di rischio aumentando il valore del gradiente da 3,7 a 4,2. L’utilizzo di questi dati ha permesso di generare un calcolatore in grado di fornire una stima del rischio di frattura a 10 anni, che appare inoltre variabile anche in considerazione della popolazione di appartenenza del singolo soggetto (FRAX). L’utilizzo del FRAX per la valutazione del profilo di rischio ha successivamente consentito anche la formulazione di criteri di intervento terapeutico da parte della NOF, anche se tali criteri sono al momento utilizzabili solo per la popolazione statunitense. Recentemente sono tuttavia emerse alcune critiche sulla validità di questo modello; in particolare, alcuni autori hanno fatto notare come il FRAX non consenta di valutare alcune condizioni patologiche che hanno un sicuro impatto sul rischio di frattura (iperparatiroidismo, Morbo di Cushing ecc.); altro possibile limite è rappresentato poi dalla possibilità di inserire alcune variabili solo come dicotomiche (SI/NO), come ad esempio l’uso di corticosteroidi, l’utilizzo dei quali, come è noto, determina un incremento del rischio di frattura dose dipendente. Si è cercato pertanto di superare questi limiti con la creazione di nuovi algoritmi che tenessero conto anche di altre variabili e che valutassero alcune di esse (fumo, dose di corticosteroidi) come variabili continue. In particolare, la SIOMMMS (Società Italiana dell’Osteoporosi del Fig. 3 Fratture osteoporotiche principali: probabilità a 10 anni Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro) sta testando un nuovo tool, derivato dal FRAX, che dovrebbe permettere di valutare il rischio di frattura a 10 anni in maniera più accurata (DE FRA) (Fig. 3). Conclusioni Un corretto inquadramento del paziente che giunga all’osservazione del medico per uno studio del quadro osteometabolico prevede oggi un approccio che consenta una migliore prevenzione dell’evento fratturativo attraverso una valutazione globale dei fattori di rischio. Lo studio della densità ossea tramite DEXA riveste sicuramente ancora un ruolo centrale nella diagnostica dell’osteoporosi, ma deve essere considerato come uno strumento attraverso il quale migliorare l’accuratezza diagnostica ottenibile con la valutazione dei fattori di rischio clinici. Bibliografia 1. 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Si tratta di una folta schiera di manifestazioni cliniche complesse che possono rappresentare una sfida diagnostica anche per i più “stagionati” clinici [1]. Clinicamente condividono la ricorrenza di episodi febbrili autolimitanti, della durata di giorni o settimane, e di manifestazioni infiammatorie di entità variabile a carico di cute, mucose, tubo gastrointestinale, membrane sierose, occhio, articolazioni o sistema nervoso, in assenza di auto-anticorpi o infezioni, con la presenza di periodi intervallari liberi da sintomi. Lo stesso andamento seguono i globuli bianchi e gli indici di flogosi. A dispetto della loro recente categorizzazione nosografica, le febbri periodiche ereditarie hanno afflitto l’umanità per secoli. L’area geografica di distribuzione limitata (ad esempio, il bacino Mediterraneo per la febbre mediterranea familiare, l’Europa centro-settentrionale per la sindrome da iper-IgD/febbre periodica e la sindrome periodica associata al recettore del fattore di necrosi tumorale) lasciano presupporre un vantaggio selettivo evoluzionistico da parte dei portatori di taluni genotipi. Attraverso le grandi migrazioni verificatesi nella storia, come la diaspora degli Ebrei, la colonizzazione greca o le conquiste del mondo arabo, tali malattie si sono diffuse in tutto il mondo antico. Con le emigrazioni oltre l’Oceano Atlantico e i flussi migratori dai Paesi dell’Europa dell’Est dopo la caduta degli ultimi regimi totalitaristici, le febbri periodiche ereditarie hanno acquisito una distribuzione e una importanza clinica mondiale. Fisiopatologia Molte di queste malattie sono state associate negli ultimi anni a mutazioni all’interno di un singolo gene, sebbene la “sindrome febbre periodica, stomatite afosa, faringite e adenite” o più semplicemente PFAPA sia una nota eccezione. A ogni modo, la progressiva identificazione dei singoli difetti genetici alla base delle varie febbri periodiche ereditarie [2–9] ha dimostrato che questi colpiscono proteine con funzione di controllo sull’infiammazione e ha condotto al concetto di “malattia auto-infiammatoria”, dal momento che la cascata infiammatoria, per effetto di tali mutazioni, risulta attivata in maniera quasi spontanea e afinalistica (in seguito a stimoli altrimenti innocui o inapparenti come un viaggio, una serata in discoteca, un esame). I successivi studi di biologia molecolare hanno evidenziato che le proteine mutate in tali disordini sono effettori della prima barriera di difesa del nostro organismo, il sistema immunitario innato, deputato alla precoce identificazione di stimoli nocivi. Da qui la nuova categoria dei disordini dell’immunità innata, comprendente tanto le febbri periodiche ereditarie quanto disordini auto-infiammatori non chiaramente ereditari, ma comunque caratterizzati da disfunzioni dell’immunità innata come l’uropatia da cristalli (gotta e simili) o la sindrome di Schniztler [10, 11]. È importante sottolineare che, sebbene le febbri periodiche possano essere inquadrate come malattie auto-infiammatorie, non tutte le malattie auto-infiammatorie sono febbri periodiche, in quanto la sindrome di Majeed, la sindrome di Blau, la sindrome ipoderma gangrenoso-acne (PAPA) e il deficit di antagonista del recettore dell’IL-1 sono sindromi auto-infiammatorie ma non sono tipicamente caratterizzate da febbre. Classificazione Da quanto detto appare evidente che si tratta di una classe di malattie in continua espansione, per cui ogni tentativo di definizione appare attualmente non esaustivo. La ISSAID (Società Internazionale per le Malattie Autoinfiammatorie) ha proposto di includere nell’ambito delle malattie auto-infiammatorie i disordini elencati in Tabella 1, appartenenti tradizionalmente a categorie nosologiche differenti [12, 13]. Di seguito, alcuni cenni sulle principali malattie dell’immunità innata. Febbre mediterranea familiare vedi Medicina Italia, numero 2/09 Sindrome da iperIgD Nota anche come “malattia da deficienza di mevalonato-kinasi (MVK)” (OMIM 260920), identificata nel 1984, è trasmessa come carattere autosomico recessivo, è causata da mutazioni nel gene MVK posto sul cromosoma 12, codificante per l’enzima perossisomiale mevalonato-kinasi, Tabella 1 Disordini inclusi nel gruppo delle malattie auto-infiammatorie da parte della ISSAID Categoria originaria Febbri periodiche ereditarie e non Malattie granulomatose Malattie reumatologiche Malattie piogeniche Miscellanea coinvolto nella sintesi del colesterolo e degli isoprenoidi [14–17]. Tale enzima non risulta però direttamente coinvolto nella patogenesi della malattia, ancora enigmatica, pur risultando critica la diminuzione dei prodotti a valle della via metabolica dell’acido mevalonico. Questa sindrome si manifesta già nel primo anno di vita ed è particolarmente diffusa nell’Europa Centrale, prevalentemente nei Paesi Bassi, ove è stata calcolata una frequenza degli eterozigoti di 1:65, ma è presente anche in Francia e in Italia. Per la sua grande frequenza in Olanda è anche definita “febbre periodica di tipo olandese”. Non è noto il meccanismo biochimico che determina la febbre e il suo periodismo (ogni 3–8 settimane): gli episodi febbrili tipici si manifestano improvvisamente e possono essere scatenati da infezioni, vaccinazioni o stress emotivi, anche se spesso non si riesce a individuare un evento precipitante. La febbre è preceduta da brividi e può durare sino a 6 giorni; l’associazione con una vistosa sintomatologia gastrointestinale (dolori addominali, diarrea e vomito) è molto spiccata; molto frequente durante l’attacco febbrile è il riscontro di adenopatie laterocervicali, cefalea, artromialgie, aftosi orale ed eruzioni cutanee di tipo maculare. Nella maggioranza dei casi il corteo clinico tende ad attenuarsi con l’avanzare dell’età. È tipica di questa condizione, ma non patognomonica, l’elevazione delle IgD seriche (>100 UI/ml) che si associa nell’85% dei casi a un incremento delle IgA. L’aumento delle IgD si osserva costantemente, vale a dire indipendentemente dalle fasi acute o intercritiche della malattia. Invece solo durante gli attacchi febbrili si può riscontrare un’escrezione urinaria aumentata di acido mevalonico. Recentemente è stato descritto il rischio di insorgenza di amiloidosi renale in pazienti affetti da questa sindrome, anche se con frequenza notevolmente inferiore rispetto alle malattie auto-infiammatorie. Il caposaldo del trattamento sono gli antinfiammatori non steroidei che riducono l’intensità e la durata della febbre. Alcuni pazienti rispondono bene ai corticosteroidi. La colchicina non sembra essere efficace in questi pazienti. Simon e coll. hanno studiato con risultati non incoraggianti (riduzione non significativa del numero dei giorni di febbre) il trattamento con simvastatina (80 mg/die), secondo l’ipotesi che l’inibizione dell’enzima idrossimetilglutaril-coenzima A reduttasi possa prevenire il rilascio di citochine che si verifica negli attacchi febbrili; tuttavia è stato riportato il caso di un paziente con un ottima risposta alla simvastatina [18, 19]. Sono allo stu- Febbre Mediterranea Familiare (FMF) Sindrome da iperIgD o HIDS Sindrome ad alterazione del recettore solubile del TNF o TRAPS Criopirinopatie o CAPS, NAPS12 Febbre periodica-adenopatia-faringite-aftosi o PFAPA Morbo di Chron Sindrome di Blau Sarcoidosi a esordio precoce Alcune forme di graft versus host disease Artrite giovanile Morbo di Still Morbo di Behçet Gotta malattia di Schniztler Osteomielite cronica multifocale ricorrente (CRMO) Malattia di Majeed PAPA, DIRA Angioedema ereditario Mola idatiforme e certe forme di abortività Predisposizione a certe malattie infettive come sepsi, tubercolosi ecc. dio alcuni inibitori della sintesi dello squalene, isoprenoide intermedio situato a valle nella via metabolica dell’acido mevalonico, per un più efficace controllo dei segni e dei sintomi della malattia. L’etanercept non è indicato a meno di rare sovrapposizioni con la sindrome TRAPS [20], mentre l’anakinra è stato usato con successo in due casi [21]. Sindrome periodica associata al recettore del TNF La sindrome periodica associata al recettore del TNF (TRAPS) era nota inizialmente come febbre familiare iberniana in quanto descritta per la prima volta in una famiglia irlandese-scozzese nel 1982 [22]. Nel corso degli anni è stata identificata anche in altre popolazioni. Si eredita come autosomico-dominante ed è causata da mutazioni a carico del recettore p55 del TNF (o TNFR1), codificato dal gene della super famiglia del recettore per il TNF 1A (TNFRSF1A) [23]. Sono stati proposti differenti meccanismi patogenetici per spiegare la TRAPS. Originariamente era stato ipotizzato che la TRAPS fosse la conseguenza di un’alterata down-regulation del TNFR1 di membrana e una riduzione del passaggio di questo recettore in forma solubile [23]. Tuttavia alcune mutazioni del TNFRSF1A non sono associate al difetto di distacco dalla membrane del TNFR1 p55 [24], suggerendo l’esistenza di meccanismi patogenetici addizionali ancora oggetto di studio. Clinicamente è caratterizzata da attacchi di febbre, dolore addominale o toracico (90 e 60% dei casi, rispettivamente), severe mialgie migranti in senso centrifugo, eritemi migranti che si sovrappongo alla distribuzione delle mialgie, edema periorbitale o congiuntiviti, della durata variabile da 5 a 21 giorni, ricorrenti in media ogni 6 settimane. Le artralgie delle grandi articolazioni sono comuni, mentre le artriti franche sono rare. Di solito esordisce nell’infanzia con un rapporto maschi:femmine di 3:2, le cui ragioni non sono note. L’amiloidosi è la più grave complicanza a lungo termine della TRAPS. Circa il 14% degli affetti sviluppa l’amiloidosi, soprattutto quei soggetti le cui mutazioni prevedono la sostituzione di una cisteina (24% vs 2%) [25]. Il trattamento include gli anti-infiammatori non steroidei che attenuano la febbre, ma sono poco efficaci sui sintomi addominali e muscoloscheletrici. I corticosteroidi controllano tali sintomi nella maggioranza dei pazienti. Tuttavia, nessuno di questi due trattamenti altera la fre- quenza degli attacchi, obiettivo che attualmente si raggiunge con l’impiego dei farmaci biologici, come l’etanercept che è risultato efficace anche nel prevenire o revertire la deposizione di amiloide [26–28]. Criopirinopatie Le malattie dovute a mutazioni della criopirina o “criopirinopatie” sono rare e si trasmettono come caratteri autosomico-dominanti [29–34]. Sono state inserite nel gruppo delle sindromi febbrili periodiche ereditarie solo da poco tempo, alla luce delle considerazioni pato-fisiologiche seguite agli studi genotipici per l’orticaria familiare da freddo (FCAS), per la sindrome di Muckle-Wells (MWS) e per la sindrome CINCA (Chronic Infantile Neurologic Cutaneous Articular syndrome). Queste malattie sono causate da mutazioni differenti a carico del medesimo gene, il CIAS1 che codifica per la criopirina (nota anche con la sigla NALP3). Si tratta di una proteina strutturalmente omologa alla pirina (proteina mutata nella febbre mediterranea familiare) coinvolta nella regolazione dell’attivazione della caspasi, oltre che nel controllo dell’infiammazione e dell’apoptosi. Tutte le manifestazioni cliniche correlate ai tre quadri sindromici risultano mediate dall’interleukina-1, potente citochina dotata di effetti pro-infiammatori. La prima descrizione sistematica di Williamson riferibile a questo gruppo di patologie risale al 1982, ma la loro caratterizzazione genotipica si è ottenuta solo nel periodo 2001–2002. L’orticaria familiare da freddo (OMIM 120100) si caratterizza per la ricorrenza di artralgie, dolori addominali, cefalea e soprattutto orticaria, scatenati dall’esposizione al freddo o da variazioni della temperatura ambientale. Nel 2–4% dei casi si può complicare con l’amiloidosi. La sindrome di Muckle-Wells (OMIM 191900) è stata storicamente descritta per la prima volta nel 1962 ed è caratterizzata da lesioni orticarioidi che compaiono nei primi anni di vita (normalmente non evocate dall’esposizione al freddo) poliartrite non erosiva, sordità neurosensoriale e amiloidosi renale nel 25% dei casi. La sindrome CINCA (OMIM 606416), nota anche come malattia infiammatoria multisistemica ad esordio neonatale (o Neonatal-Onset Multisystem Inflammatory Disease, NOMID) è l’espressione più grave delle mutazioni a carico del gene CIAS1: essa si caratterizza per l’insorgenza di orticaria cronica già nel periodo neonatale che si associa a una grave artropatia deformante a livello delle ginocchia e a una meningo-encefalopatia cronica con papilledema e sordità neurosensoriale. Nel 20% dei pazienti con sindrome CINCA è descritta la possibilità di amiloidosi. In tempi recenti è stata dimostrata la possibilità di trattare con successo i pazienti affetti da criopirinopatie con antagonisti selettivi dell’interleukina-1 come l’anakinra, farmaco biologico già usato nel trattamento dell’artrite reumatoide dell’adulto, somministrabili per via sottocutanea alla dose di 1 mg/kg/die. Altre malattie auto-infiammatorie Tra le potenziali cause di febbre periodica devono essere annoverate altre malattie auto-infiammatorie come: • la sindrome di Blau (OMIM 186580), malattia trasmessa come carattere autosomico-dominante, caratterizzata da un’infiammazione granulomatosa ricorrente a carico di articolazioni, tunica vascolare dell’occhio e cute, determinata da alterazioni a carico della proteina NOD2 coinvolta nella formazione dei granulomi: questa condizione non coinvolge il polmone e ciò può consentire di differenziarla dalla sarcoidosi [35]; • la sindrome CRMO (Chronic Recurrent Multifocal Osteomielitis; OMIM 259680) è una malattia auto-infiammatoria a eziologia sco- nosciuta con decorso imprevedibile, caratterizzata dalla ricorrenza di osteomieliti multifocali, in cui le colture del sangue e del materiale biologico derivante dai focolai osteomielitici risultano costantemente sterili; la malattia non risponde agli antibiotici, ma si beneficia del trattamento con corticosteroidi, antinfiammatori nonsteroidei, interferone, antagonisti del fattore di necrosi tumorale e bisfosfonati (come il pamidronato) [36]; • la sindrome di Majeed (OMIM 609628), descritta per la prima volta nel 1989, è stata osservata solo in Giordania e si caratterizza per l’associazione dell’osteomielite multifocale ricorrente con un’anemia diseritropoietica congenita [37]; • la sindrome PAPA (Pyogenic Arthritis Pyoderma gangrenosus Acne; OMIM 614416) è caratterizzata da artrite piogenica, pioderma gangrenoso, acne di tipo cistico ed è causata da mutazioni a carico del gene che codifica per la sintesi della proteina CD2BP1 che interagisce con la pirina regolandone l’espressione [38]. Occupa un posto a sé una malattia auto-infiammatoria non ancora conosciuta nei suoi intimi meccanismi patogenetici, la Malattia di Behçet (OMIM 109650), che si caratterizza per la ricorrenza di ulcere orali/genitali, uveite e manifestazioni cutanee e che può talora associarsi a febbri ricorrenti [39]. Tra le cause non ereditarie di febbre periodica è doveroso infine ricordare la PFAPA (Periodic Fever with Aphtous stomatitis Pharyngitis and Adenitis) o sindrome di Marshall, la cui incidenza nella popolazione pediatrica generale è ampiamente sottostimata. Essa interessa per lo più bambini di età inferiore a 5 anni e si caratterizza per febbre elevata a esordio improvviso che ricorre con cadenza pressoché prevedibile ogni 3–4 settimane, associandosi a linfoadenopatia latero-cervicale, faringite e stomatite aftosa, in assenza di segni clinici riferibili a infezioni del tratto respiratorio. Gli episodi febbrili della sindrome PFAPA “abortiscono” con la somministrazione di steroidi (1–2 mg/kg di prednisone, eventualmente seguiti da mezza dose il giorno successivo) e sono mitigati per frequenza e intensità dalla tonsillectomia: la decisione di questi trattamenti spetta ovviamente al pediatra che abbia valutato clinicamente il bambino e sospettato la sindrome. La storia naturale della sindrome PFAPA decorre favorevolmente, poiché tende spontaneamente a scomparire con la crescita del bambino senza lasciare alcun esito [40]. Le ultime due malattie identificate sono la febbre ricorrente associata al NALP12 e il deficit dell’antagonista recettoriale dell’IL-1 o DIRA. La prima [9] è una forma autosomico-dominata, caratterizzata da attacchi di febbre, artralgie/artriti, orticaria, cefalea e mialgia, della durata di 5–10 giorni, scatenati dall’esposizione al freddo. In qualche paziente è stata riscontrata anche sordità neurosensoriale. Il meccanismo patogenetico attraverso il quale la mutazione della proteina NALP12 (che interviene nel controllo dell’infiammazione) produce i sintomi non è ancora noto. Nel trattamento sono stati finora utilizzati anti-infiammatori non steroidei, steroidi e biologici con risposte non uniformi. La DIRA [8], è una malattia rarissima: ne sono stati identificati in tutto il mondo finora meno di 10 casi, per lo più in soggetti di origine olandese. Il gene responsabile è chiamato IL1RN e codifica per l’antagonista recettoriale dell’IL-1 (IL-1RA), che gioca un ruolo nella naturale inibizione del processo infiammatorio. IL-1RA neutralizza, infatti, la proteina interleuchina 1 (IL1), che rappresenta una potente citochina proinfiammatoria. È a trasmissione autosomico-recessiva e clinicamente si caratterizza per la presenza di tumefazioni ossee dolorose, dovute a periostiti (possono essere colpite diverse ossa comprese quelle degli arti e le coste) e di pustole. Queste ultime pos- sono comparire spontaneamente, ma peggiorare in seguito a tagli e ferite locali. La malattia esordisce assai precocemente, generalmente tra la nascita e le prime due settimane di vita. Risponde bene al trattamento all’anakinra. 15. Diagnosi La diagnosi delle malattie auto-infiammatorie, nonostante l’identificazione dei geni coinvolti in alcune delle forme ereditarie, rimane essenzialmente clinica. La diagnosi molecolare delle forme ereditarie ha una bassa efficienza ed elevati costi per due ordini di ragioni. In pazienti con manifestazioni cliniche compatibili con una sindrome auto-infiammatoria, la frequenza di rilevazione di mutazioni in ciascuna delle suddette malattie è di solito inferiore al 20%. Questo è particolarmente vero nell’età pediatrica in cui è piuttosto frequente la PFAPA che al momento attuale non ha una chiara e ben documentata base genetica e di solito si risolve spontaneamente in alcuni anni. Al fine di identificare correttamente i pazienti da sottoporre ai test genetici ed evitare costi eccessivi per il Sistema Sanitario, Gattorno e coll. hanno sviluppato recentemente un set di variabili in grado di predire il rischio di un singolo paziente di essere portatore di una mutazione a carico di uno dei geni responsabili delle febbri periodiche ereditarie [28]. Tale score di rischio, tuttavia, è valido solo per la popolazione pediatrica. Attualmente, il consiglio è quello di indirizzare i pazienti sospetti al centro di riferimento più vicino, contattando l’Associazione Italiana dei Pazienti con Febbri Periodiche (AIFP, www.febbriperiodiche.it) o consultando il sito www.retemalattierare.it. 16. Bibliografia 27. 1. Jacobs Z, Ciaccio CE (2010) Periodic fevers syndromes. Curr Allergy Asthma Rep, Epub ahead of print 2. The International FMF Consortium (1997) Ancient missense mutations in a new member of the RoRet gene family are likely to cause familial Mediterranean fever. 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