My London Calling - EKT
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My London Calling - EKT
Marta Gaggini My London Calling Vademecum minimo per sopravvivere a Londra Parte 1 EdiKiT PROLOGO Scaduto il mio contratto nel negozio di Intimissimi a Firenze, chiedevo alla mia consulente di zona se conoscesse qualcuno che mi avrebbe reso possibile fare un’esperienza di lavoro all’estero. Due giorni dopo facevo un colloquio al telefono con la responsabile di Intimissimi nel Regno Unito. Un mese dopo partivo per Londra. Mi avevano assunto come key holder del punto vendita di King’s Road. Non avrei mai pensato che sarebbe davvero successo, così il pianto isterico ha seguito direttamente l’incontenibile entusiasmo. Stento ancora a crederlo, ma tutto quello che è scritto in questo diario è successo davvero. Più o meno. MY LONDON CALLING - parte 1 - ECCOMI QUA Eccomi qua, cittadina acquisita di questa concentrazione di mondo in miniatura. Londra, di gente come me, ne ha vista passare tanta, e certo tanta ancora ne passerà. Gli ospiti arrivano, afferrano quello che Londra ha loro da offrire, e poi ripartono, o magari scelgono di restare, facendo di questa la loro città. Per qualcuno che parte qualcun altro è in arrivo, e Londra lo accoglie, un po’ indifferente, come se avesse capito che questo ricambio continuo in realtà non fa cambiare mai niente, o come se tutta questa corte l’avesse resa una preda irraggiungibile e distante. Perché, diciamolo, Londra è un po’ facile, si concede a tutti senza troppe pretese. Però da nessuno si lascia afferrare. Ama farsi corteggiare, cede al primo appuntamento senza bisogno di portarla neanche a cena fuori, ma dopo averti fatto innamorare, durante la notte silenziosa si allontana. Londra è un’amante: sfuggevole, mutevole, scostante. E io ora con Londra mi trovo a fare i conti. Ci stiamo ancora studiando bene, avvicinandoci con aria diffidente. E anche se giravo da turista per le vie fiorentine e di Firenze in pratica continuo a non sapere quasi niente, quella città in qualche modo mi appartiene. E mi appartiene da sempre, che forse è proprio la ragione di questo nocivo disinteresse. Adesso il Palazzo del Parlamento è il mio nuovo Palazzo Vecchio, e la Torre dell’Orologio è il mio nuovo Campanile di Giotto, ma anche se dall’alto queste due città così diverse si somigliano, Londra non era destinata ad essere il mio posto. Non era destinata ad essere casa mia, anche se adesso lo sta diventando. Potrò diventare londinese, essere londinese finché un aereo non mi riporterà in patria, ma in fondo questa è solo la facciata, di fatto io resto italiana. Ecco, Londra è tutta superficie, è un palcoscenico, e tutti quelli che recitano la parte del londinese, in realtà nascondono, senza neanche troppo pudore, un’origine che è quella che davvero gli appartiene. Forse per questo Londra non vuole legami, per non soffrire il distacco, o per non dover accettare di occupare sempre l’unico posto che a un’amante è concesso: il secondo. Però penso pure che in fondo tutti, qui, siano londinesi davvero, perché Londra è questo, un incontro di popoli, tutti diversi eppure uniti dall’appartenenza a una realtà che tutti questi popoli raccoglie ed accomuna. Dopo una partenza tutt’altro che priva di traumi, dopo aver perso l’entusiasmo per strada e aver ritrovato il coraggio a dispetto di ogni prospettiva, scendevo dall’aereo carica come un somaro. A costo di sembrare un facchino mal pagato, mi sono portata dietro un po’ della vita che ho lasciato e tutto quello che sono. Alla ricerca di quello che posso diventare. Sono perfettamente imperfetta, ed è una cosa che posso iniziare ad accettare. Per ora sono arrivata fin qui: seduta nel prato di Hyde Park, il mio nuovo parco del Neto, ho l’abbonamento alla metro, ho un nuovo numero di telefono, forse ho trovato una casa e inizio a gustare il sapore di una nuova routine ancora fuori dal comune. Un po’ di autostima me la merito, essere forti in fondo vuol dire superare le debolezze. Se non si è vulnerabili la forza non serve. BAYSWATER BAZAR Che Londra sia di fatto un enorme centro commerciale naturale nessuno l’aveva mai messo in discussione, ma prima di percorrere le strade trafficate di Oxford Street con i grandi negozi dei grandi marchi e delle grandi catene, prima di insinuarmi di mattina presto a Notting Hill, scivolando lungo Portobello Road mentre i negozi di antiquariato con le facciate colorate allestivano i banchi del mercato, prima di scoprire nel cuore di Londra una Fifth Avenue newyorkese e una placida cittadina britannica comunque piena di sorprese, il fato mi ha portato qui, a Bayswater. Il richiamo dello Starbucks, colazione abituale della mia prima esperienza londinese, mi ha riportato per le strade di Queensway e mi ha convinto a restare, facendo di Queensway il mio quartiere. Ma il mio locale di fiducia, che insieme ad altri segna il mio passaggio per le strade dell’Europa, in effetti era l’unica cosa che di questo quartiere ricordavo con un po’ di definizione. Il resto era una nebulosa confusa di insegne scritte perlopiù in lingue incomprensibili e a me ignote. Ecco, Queensway non ha niente a che vedere con il consumismo brillante di Oxford Street o con l’eleganza inglese di Notting Hill, Queensway è la copia contaminata della strada principale di una capitale araba. Queensway potrebbe trovarsi nel centro di Amman senza destare sospetti, fatta eccezione per un ristorante thailandese Noodle Oodle, un più familiare Bella Italia, e una quantità inconsulta di cliniche dentistiche, unici indizi a suggerire che non siamo finiti per sbaglio in Medio Oriente e unici elementi di rilievo che potrebbero spiccare facendo l’enigmistico gioco delle differenze. Certo, volendo essere pignoli, in Arabia non sono frequenti nemmeno i supermercati Tesco e i globalizzati Mc Donald, ma sarete d’accordo con me che quella che conta è l’atmosfera. E qui, tra i negozi che vendono souvenir pacchiani, narghilè, cover falsificate per cellulari, gioielleria di dubbio valore, computer a prezzi scontati, probabilmente rubati, e servizi di cambio agevolati, credetemi, l’atmosfera è molto araba. Anche perché dei negozi così, solo gli arabi se li potrebbero inventare. O al limite, i napoletani. E se Bayswater è una via del commercio dal carattere tipicamente orientale, quando mi sono imbattuta per caso nello Shepherd’s Bush market, che immagino le guide non citino neanche per caso, cercando disperatamente l’unico punto di riferimento a disposizione per trovare una papabile abitazione, il restaurant Nando, la metro mi ha trasportato più lontano di quanto un mezzo interrato su rotaie sia generalmente in grado di fare. Un breve tratto sulla Central Line e mi sono ritrovata al centro di un vero bazar, con banchi di mutande, pentole economiche, tessili e piccole mercerie. E dato che Nando non si vedeva, qui non c’era niente che mi tenesse legata all’In- ghilterra. Niente che potesse dar modo di capire che quel tumulto di veli iridescenti in cui mi trovavo a passeggiare non erano quelli di un polveroso mercato di una città mediorientale. Salvo poi, invece di trovarsi davanti il deserto dell’Arabia Saudita con le dune, le oasi e i cammelli, sbucare all’improvviso in un viale trafficato popolato di inconfondibili autobus a due piani. Dopo un tuffo nelle magiche strade persiane, l’Inghilterra tornava a farsi vedere. Con tutto questo mondo che le rimane attaccato addosso, a Londra è facile viaggiare. Senza fusi orari, senza scomodi voli intercontinentali, senza noiose procedure doganali, solo scendendo dalla metropolitana dopo due stazioni: dalla Grecia del sirtaki alla Brooklyn dei neri americani. LONDRA IN DISPENSA Nel pieno rispetto della tradizione gastronomica dell’isola britannica, il mio primo pasto è stato una porzione abbondante di fish and chips bisunto, trangugiato di fretta in un pub di Bayswater, scelto esclusivamente perché all’ingresso campeggiava una scritta che dichiarava smaccatamente Wifi gratuita. E nel pieno rispetto del gusto alimentare degli abitanti di questa città multiforme che all’isola britannica farebbe da capitale, a cena ho gustato un delizioso pollo tikka masala in uno dei ristorantini indiani affacciati sull’altro angolo della strada. Londra non appartiene più soltanto a se stessa, è il prodotto di un incontro di razze e di colori, è il risultato vivace di una inarrestabile trasformazione. Londra è un’esploratrice che non smette di scoprire, che arreda la sua casa coi ricordi importati dai suoi nuovi cittadini, e arricchisce le sue abitudini avvicinandosi a quelle che i suoi ospiti nascondono in fondo alle valigie. È come se Londra fosse una turista curiosa, solo che lei non si muove, è il mondo a farle visita. E Londra si lascia invadere, si lascia avvolgere, si lascia contagiare, e magari le sue tradizioni col tempo diventano più opache, ma in questo modo riscopre il fascino di rivivere il mondo intero in tutte le sue strade. Perché Londra è fatta da quelli che la abitano, che la modellano sulla base delle loro memorie e del carattere del paese che hanno lasciato, e tutti loro sono a pieno diritto londinesi, di una Londra che non accetta passivamente di perdersi, ma che sceglie ogni giorno di rinnovarsi. Londra è come vorrei che fosse la dispensa della mia casa: spaghetti, moussaka, paella, fajitas, cous cous e naturalmente pollo tikka masala. Londra accoglie le novità e se ne appropria, ma dire londinese e dire inglese non è esattamente la stessa cosa. Per ritrovare in questo impasto di nazioni l’Inghilterra che mi aspettavo di vedere, dopo lo sbarco tutto arabo nel quartiere di Bayswater, ho dovuto aspettare di raggiungere la City. E lì allora sì, accanto ai giganti di vetro della Wall Street londinese, i palazzi in mattoncini scuri mi hanno riportato all’ottocento britannico della Rivoluzione industriale, e solo a quel punto, dopo due giorni trascorsi girando a perdifiato per le strade di questa città sconosciuta e in qualche modo già familiare, ho capito davvero dov’ero. Ero a Londra: la città della Regina, di Carlo e del principe William, dell’inviato del tg1 che parla come se anche lui fosse un membro della Corona. Ero davvero sbarcata in Inghilterra. Continua...
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