Un modello di business sostenibile per l`industria dei

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Un modello di business sostenibile per l`industria dei
CAPITOLO DECIMO
UN MODELLO DI BUSINESS SOSTENIBILE
PER L’INDUSTRIA DEI CONTENUTI WEB-NATIVI
di Andrea Materia
Quando, fine Ottobre 2011, YouTube ha annunciato il suo ingresso nell’arena della produzione di contenuti
audiovisivi originali, presentando un iniziale bouquet di circa 100 canali non lineari premium per un investimento
di start-up stimato tra i 150 e i 200 milioni di dollari, ha sintetizzato sul blog aziendale le sue ambizioni
strategiche con parole che non lasciano spazi a incertezze sul destinatario del guanto di sfida:
La TV via cavo ha espanso le nostre opportunità di scelta televisive dai pochi network degli anni ’60 e ’70 alle odierne
centinaia di broadcaster specializzati, regalandoci esperienze mediatiche che hanno ridefinito il concetto stesso di TV. Si
pensi a ESPN, HBO e MTV. Ora il web ci consente di allargare di nuovo gli orizzonti, e molte delle esperienze che
ridefiniranno i media per le prossime generazioni nasceranno qui, su YouTube.
I nomi evocati imprimono suggestioni inequivocabili agli osservatori memori della preistoria della TV
multicanale: la prima emittente tematica legata all’home cinema (HBO nel 1972), allo sport (ESPN nel 1979) e
alla musica (MTV nel 1981). Non è naturalmente una scelta casuale. Il modello di business riprende da vicino le
soluzioni che accompagnarono negli Stati Uniti lo sviluppo della televisione via cavo. All’epoca, i neonati micronetwork tematici difettavano tanto di un pubblico consolidato, seppur di nicchia, quanto soprattutto di liquidità. A
reggerli in piedi furono i carrier, creando il meccanismo delle fees mensili di affiliazione: tot centesimi di dollaro
al mese per ogni abbonato che riceve il canale attraverso l‘allaccio al cavo. Si inventò, in parole povere, un
sistema di economics sostenibile, per dare agli spettatori il tempo necessario a modificare le loro abitudini di
consumo mediatico (nonchè di spesa per l‘intrattenimento domestico), senza lasciare che le nuove realtà
bruciassero sul nascere.
Trent’anni dopo, la TV generalista americana ha perso il suo tradizionale dominio sugli ascolti. La congerie di
emittenti verticali ospitate dalle varie piattaforme a pagamento ha raggiunto nell’autunno 2011 in prime time il
55% della popolazione con un apparecchio acceso (elaborazioni CAB su rilevazioni Nielsen, esclusi gli ascolti
differiti su DVR). I cinque colossi in chiaro – ABC, CBS, NBC, FOX e CW – faticano a superare il 37% e
scendono sotto il 30% tra gli adulti 18/49 anni.
Mutatis mutandis, il web presenta oggi evidenti affinità di scenario. È emersa una frammentazione estrema
del pubblico, spalmato su miriadi di punti di distribuzione, a loro volta ricolmi di miriadi di oggetti di contenuto di
ogni genere: dalle fiction seriali, o webseries, ai talk, i reality e gli sport minori in live streaming, dai format
sperimentali degli studios pure digital all’infinito germinare di trasmissioni continuative e singole clip usergenerate, più o meno di qualità professionale. Solo un manipolo di videoportali, periodicamente monitorati da
istituti specializzati come comScore, è in grado di catalizzare grandi numeri degni dell’attenzione di grandi
inserzionisti. Fra questi YouTube è il proverbiale elefante tra i vasi di porcellana. L’unico con una platea
planetaria (i due terzi delle visualizzazioni nel 2011 proviene da utenti non di lingua inglese), l’unico posizionato
per organizzare e monetizzare quest’offerta magmatica, ripartendo gli introiti fra i content provider in proporzione
al successo ottenuto.
Quello di cui YouTube aveva finora difettato era una programmazione regolare, on demand ma calendarizzata,
fruibile universalmente e ubiquamente (dunque in streaming via pc, smartphone, tablet e Connected TV), di
spettacoli e informazione di lunga durata e a medio-alto budget. La decisione di Mountain View sul lancio di una
colossale massa pre-finanziata di palinsesti e brand audiovisivi in-house, oltre a essere funzionale a supportare
con il fascino delle killer application editoriali le innumerevoli declinazioni hardware di Google TV annunciate
per il 2012/2013, va dunque letta sotto l’ottica della conclusione della fase sperimentale e per molti versi
anarchica dei contenuti web-nativi. È l’alba di un ecosistema industriale.
Star autoctone di Internet e celebrities hollyoodiane sotto un unico ombrello distributivo, per strappare occhi e
budget pubblicitari agli attuali incumbent del mercato televisivo. Ergo: ricalcare le orme e le dinamiche adottate
nel secolo scorso dagli operatori della televisione via cavo. Ha senso ipotizzare che, nel tempo, così com’è
avvenuto in passato per la TV multicanale, le major, i maggiori servizi pubblici europei e i loro competitor privati
proporranno un’offerta alternativa di dimensioni significative. Del resto, già adesso Hulu, l’aggregatore ufficiale
online delle library ABC/Disney, FOX/News Corp. e NBC (exUniversal), è fra i più attivi committenti di show
originali per il web; si pensi al political drama Battleground e ai documentari di Morgan Spurlock.
Impossibile tuttavia prevedere se e in quale misura questo influenzerà il settore. Nell’interim, torna utile
esaminare alcuni casi di studio, paradigmatici dello stato dell’arte tanto lato YouTube e videomaker indipendenti
quanto lato mainstream players.
Ray William Johnson, il vlogger con audience da prima serata
Nell’epoca di ascolti granularizzati che viviamo, 5 milioni di spettatori regolari ogni settimana rappresentano
un autentico tesoro. Lo può testimoniare, sulle sponde nazionali, la dodicesima e ultima edizione del Grande
Fratello, ancorata sotto quota 4 milioni. Anche spostandoci al di là dell’Atlantico, nonostante una platea televisiva
quintupla di quella nostrana, la pattuglia dei telefilm che neanche sfiora la soglia dei 5 milioni è foltissima. Basti
citare, per limitarsi ai serial più noti in Italia, Chuck, Fringe, Supernatural o Gossip Girl. Tutti compresi, nella
stagione autunnale 2011, tra 1 e 3 milioni di spettatori in prima serata. Persino il Dr. House sta scivoland verso la
boa dei 5, seguito dallo spielberghiano Terra Nova.
Immaginare un format solo per internet che raccolga 5 milioni di spettatori ogni settimana, senza qualsivoglia
contributo dal marketing (fuorchè le apparizioni in homepage di YouTube e l’attivismo virale dei fan) e soprattutto
senza il determinante traino che le trasmissioni TV ereditano da chi le precede in palinsesto, ha quindi il carattere
dell’eccezionalità. E tuttavia, non è un miraggio frutto di estemporanei e fortunosi exploit, bensì la consuetudine
di =3, ovvero Equals Three, sarcastico e scanzonato appuntamento del lunedì e del giovedì con lo YouTuber Ray
William Johnson.
Per molti Ray è il Bob Saget di YouTube, un paragone a metà tra il sarcastico e l’indirettamente lusinghiero al
contestato, ma popolarissimo presentatore anni ’90 di America’s Funniest Home Videos, l’antenato dei video
virali casalinghi (tuttora Funniest Home Videos è in onda su ABC, toccando lo stratosferico traguardo delle 21
serie consecutive). E in effetti Equals Three rispetta la stessa formula drammaturgica: un cinico commentario
sociale delle più curiose stranezze girate e pubblicate da perfetti sconosciuti.
Si prende in giro la viralità, sfruttandola però commercialmente. Al punto che gli introiti da revenue sharing
pubblicitario lo hanno reso il primo milionario (in dollari incassati) di YouTube.
RWJ vanta oltre 5 milioni di iscritti al suo canale ufficiale, record assoluto di sempre il Tubo. Se
aggiungessimo anche gli abbonati dei canali spin-off minori del suo personale network, in particolare il musicale
Your Favorite Martian, saremmo ampiamente oltre i 6 milioni. L’aspetto interessante è che le views delle puntate
di Equals Three coincidono puntualmente con il numero di iscritti. Per convertire l’intero parco sottoscrittori in
spettatori dei singoli episodi servono di norma 2 settimane. Talvolta RWJ riesce ad andare oltre il suo «zoccolo
duro»: ha 5 clip all’attivo con più di 10 milioni di views e diverse decine tra i 7,5 e i 9 milioni di views.
La proporzione 1:1 tra subscriber e visualizzazioni è un dato che dovrebbe allarmare quei broadcaster che
tendono a prendere sotto gamba i processi di fidelizzazione all‘entertainment web-nativo. Ray William Johnson
vince non solo perché è un vlogger comico brillante, ma in virtù della sua regolarità nell‘upload di nuove puntate.
Paradossalmente superiore a quella della stragrande maggioranza dei programmi TV, ostaggio di indici e costi che
ne riducono la presenza in video a poche settimane l’anno.
Annoying Orange, transmedialità da web verso TV
Ai primordi della Streaming Era, più di una produzione di fiction originale per internet finì nelle mani delle
emittenti TV d’oltreoceano, ansiose di catturare il target di adolescenti e giovani adulti estimatori del genere
webseriale. Gli esiti si dimostrarono spesso disastrosi.
Nel 2008 l’agrodolce Quarterlife, diffusa online in 36 puntate rimontate da NBC in un telefilm di 6 episodi da
50 minuti, venne rimossa dal palinsesto dopo appena una settimana con share infinitesimali. La narrazione
sincopata e le tecniche di ripresa usate per il web evidentemente mal si conciliavano con gli standard attesi per
una trasmissione su schermi da 40 pollici in su.
Nel 2009 un’altra web sitcom di culto, In The Motherhood, fu acquisita da ABC per catturare il segmento
delle giovani mamme. Stavolta si optò per tenere solo l’impalcatura di copione, scartando il materiale già apparso
su Internet. Nel realizzare il remake, però, l’intero cast originale – un trio di attrici affiatate: Leah Remini, Jenny
McCarthy e Chelsea Handler – fu rimpiazzato. I dialoghi a loro volta annacquati per non incorrere nelle ire dei
bacchettoni. Risultato: da un ordine iniziale di 13 puntate si passò a 7, e di queste sette solo 5 andarono
effettivamente in onda.
La situazione migliorò dopo l’affermazione del fantasy Sanctuary, migrato con successo tra il 2008 e il 2009
dalla distribuzione in formato webisodes a un’incarnazione come telefilm tradizionale sulle frequenze pay di SyFy
(in Italia lo ha trasmesso Mediaset Premium e in chiaro RAI 4). Rinnovato nel 2011 per una quarta stagione, che
porterà il totale puntate vicino a quota 70, Sanctuary ha dimostrato che non esistono incompatibilità a priori tra le
due piattaforme. Nel suo caso hanno giocato a favore le più modeste esigenze di audience di una pay tv, e l’aver
brillantemente conservato lo spirito del prologo apparso su Internet, rigirando tuttavia da capo ogni inquadratura.
Nel 2010 a Sanctuary si è affiancato un altro esempio fortunato di transizione dal cyberspazio al teleschermo:
Children’s Hospital, parodia dei serial ospedalieri. Dopo gli inaugurali 10 episodi da 5 minuti l’uno postati nel
2008 su TheWB.com di Warner Bros., Children’s Hospital ha proseguito infatti da Luglio 2010 in TV su Adult
Swim (l’incarnazione notturna di Cartoon Network) ed è ancora in programmazione, con la quarta edizione
prevista per Giugno 2012.
Ma la vera esplosione di webseries in televisione arriva nel 2011. Le sessioni di psicanalisi in webcam
dell’esilarante Web Therapy, con Lisa Kudrow di Friends mattatrice (e Meryl Streep frequente guest star), dopo
due anni in streaming sul sito-vetrina della Toyota Lexus e su YouTube, è stato re-impacchettato in estate e
riproposto sul baluardo del tele-cinema premium Showtime. Banalmente accorpando i webisodes in 10 puntate da
mezz’ora, con scene inedite di raccordo. Rinnovo immediato, la serie continuerà nel 2012. Più o meno
simultaneamente, l’altrettanto ironico Goodnight Burbank è stato rilevato per la televisione da HDNet del
miliardario Mark Cuban.
Il titolo con il maggior potenziale transmediale è tuttavia in cantiere per l’estate 2012 su Cartoon Network. Si
tratta delle salaci, micidiali avventure animate di The Annoying Orange. L’arancia più irritante di YouTube è sarà
convertita sotto l’egida CN in 15 episodi da mezz’ora, con un team di stelle al timone artistico: da Tom Sheppard
di Mignolo e Prof. alle sceneggiature al co-regista di Mostri contro Alieni alla produzione esecutiva, passando per
Malcom McDowell di Arancia Meccanica al doppiaggio (coincidenza ortofrutticola o paradossale
premeditazione?).
Nella sua versione TV, l’Arancia Irritante, accompagnato dai suoi comprimari regolari – la migliore amica
Pera, il buffo Marshmallow e la fascinosa Frutto della Passione, il kiwi di cui è innamorato – finirà catapultato in
un vorticoso viaggio nel tempo dentro un magico cestino della frutta. Scaraventati nel passato, dalla Preistoria
all’epoca del colonialismo, Arancia e i suoi dovranno inventarsi un contro-incantesimo per tornare nella loro
beneamata cucina di casa. Uno scenario familiare a chi segue lo show online, dove questo tipo di canovaccio è
stato introdotto nel ciclo Orange Through Time; qui Orange ha assistito a tornei di gladiatori e osservato Van
Gogh mentre si tagliava l’orecchio.
L’animazione ha illustri precedenti di transizione cross-piattaforma. South Park è nato come breve sketch di
auguri natalizi inviato via e-mail nell’era pre-Homo Sapiens del web (1995). Dopo due anni di vita da allegato, nel
1997 Comedy Central si convinse a commissionare 6 puntate integrali. Gli altrettanto grafici ed eccessivi Happy
Tree Friends di Mondo Media hanno vissuto una parabola analoga dal 2000 in poi. Ma Annoying Orange è una
bestia a parte. Effettua il salto dai monitor del pc ai teleschermi quando è già un prodotto seriale di largo netconsumo.
Ogni venerdì ne viene «trasmessa» una nuova puntata su YouTube. Dall’esordio nel 2009 a fine 2011
l’Arancia di Dane Boedigheimer ha accumulato quasi un miliardo di views. Ogni singolo episodio svetta in poche
settimane intorno a un’audience di 4-5 milioni di visualizzazioni, con punte fino agli 11 milioni generati in un
mese dallo scontro con gli Angry Birds. Nel tempo le views tendono a moltiplicarsi, considerato il carattere di
estrema replicabilità delle gag, e si arriva ad exploit come i 43 milioni dell’epica battaglia con Saw.
Anche in Italia gli episodi online vengono tradotti, o addirittura doppiati, in via amatoriale. Alcune clip hanno
superato nello Stivale i 500.000 navigatori-spettatori. Un dato che rende pressocchè certa la localizzazione italiana
della serie TV, appena saranno disponibili i diritti d’antenna.
Declinazioni, sovrapposizioni, cannibalizzazioni e competizioni: Bycicle Girl e Dating Rules From My Future Self
Per chi si è appassionato alle vicende dello sceriffo Rick Grimes e del suo sparuto gruppetto di sopravvissuti
nel mondo post-apocalittico di The Walking Dead, la «zombie senza gambe» introdotta nei primi minuti della
pilota è diventata un’icona.
Cosa ha ridotto una ragazza dai lunghi capelli biondi in uno shockante mostro, che si trascina nel prato
poggiandosi ostinatamente sui gomiti ormai laceri? Sappiamo solo che Grimes le spara negli occhi, offrendo una
misericordiosa fine al suo struggente destino. Non la rivedremo mai più nel telefilm. Ma la curiosità di conoscere
la storia dietro quel personaggio così tragico è immensa – basta leggere le interminabili discussioni
sull’argomento intavolate dalle fan community su Social Network, blogosfera e forum – e poco importa se a
raccontarcela è una sequenza web-only, un racconto in computer grafica dentro un’applicazione per smartphone,
un’appendice agli extra del dvd o un flashback nella seconda o terza stagione TV.
Nella percezione dello spettatore multischermo il personaggio resta sempre la «zombie senza gambe», purchè
gli autori confermino che la trama è da considerarsi canon nella continuity ufficiale dello show. Nessuna sorpresa,
dunque, che le avventure della «zombie senza gambe», ribattezzata Bicycle Girl, siano stati alla fine affidati a una
webseries netcastata da AMCTV.com e in Europa dai siti FOX, ovvero le emittenti su cui va in onda The Walking
Dead.
Due schermi, un’unica linea narrativa condivisa.
A lungo si è prospettato tra gli addetti ai lavori un futuro di contrapposizione frontale e aggressiva tra TV e
new media. Il rischio che si paventava era quello della cannibalizzazione del tempo speso davanti alla televisione,
a vantaggio del consumo esclusivo di online video. Su queste premesse si è basato a lungo, ad esempio, la
pervicace resistenza delle generaliste a rilanciare in simulcast streaming i principali eventi sportivi.
È invero le Connected TV sono destinate a mutare i pregressi equilibri distributivi tra broadcaster tradizionali
e fornitori di audiovisivo su larga banda. Torta pubblicitaria e business degli abbonamenti sono ormai entrati in
una fase di fluttuazione.
Ma dal punto di vista del comune spettatore i reality restano reality, che vengano fruiti su RAI.tv o su RAI 2.
Parimenti, le fiction restano fiction che le si guardi via satellite o su una soluzione di catch up TV online. Persino
le saghe infinite delle soap restano le stesse, con i medesimi attori e le medesime iterazioni narrative, quando la
conclusione delle trasmissioni regolari «catodiche» (causa estinzione delle famigerate e universali casalinghe di
Voghera del daytime) costringe i loro adepti a cercare su Internet producer che si prendano carico di proseguire i
canovacci in sospeso; come sta tentando di fare la Prospect Park per La Valle dei Pini e Una Vita da Vivere.
Cambiano, nel passaggio dalla fruizione passiva della televisione classica a quella interattiva della televisione
in arrivo, i processi di coinvolgimento. Più tasti da schiacciare, più azioni da compiere, sovente social, che non
siano soltanto saltare gli spot saltellando con lo zapping.
Ma l’attenzione non si è scissa in via alternativa su uno schermo o su un altro, bensì al contrario viene
moltiplicata fra più schermi possibile in simultanea. Così il reality dell’emittente generalista riceve dal voto
sull’applicazione di secondo schermo via iPhone/iPad quel fattore di coinvolgimento complementare e
supplementare, decisivo per rinverdire il gradimento del pubblico. La fiction estende la vita di intrecci e
personaggi, invitando in sovraimpressione i fan a protrarre su twitter e Facebook l’esperienza intrattenitiva.
L’era della televisione multischermo intreccia e lega lungo un unico percorso funzionale i ruoli dei tanti
device a disposizione.
La conseguenza è che non diminuisce affatto il consumo di contenuti TV. È vero semmai l’esatto opposto. Su
questa evidenza statistica convergono sempre più gli studi di settore. Secondi blip.tv, aggregatore leader di
webseries e YouTuber emergenti, il 56% dei consumatori abituali di fiction in streaming continua a sintonizzarsi
in prima serata sui canali televisivi free. Il 36% tiene accesi contemporaneamente televisore e videoportali web
durante la fascia del prime time. Solo nel 16% dei casi l’interesse verso le webseries corrisponde a una
disaffezione totale verso i flussi televisivi «normali». La programmazione parallela on demand si integra e
sovrappone a quella lineare.
Nell’edizione 2011 del suo annuale report sull’uso di audiovisivo nei cinque continenti, Ericsson ha registrato
al 40% le dimensioni del campione che ingaggia attività multitasking su altri schermi mentre guarda la TV.
Internet non esautora la televisione, com’è avvenuto per la carta stampata; piuttosto la rimodella.
Hollywood, presa nota, si sta adeguando. Dopo anni di iniziative sperimentali, attori sconosciuti, trame
adolescenziali ricolme di clichè e al più qualche sporadica guest di lusso, nel 2011 ha messo in campo divi come
Vin Diesel e Kiefer Sutherland e registi del calibro di McG, John Woo e DJ Caruso, mentre gli investimenti delle
major nella creazione di contenuti originali ad alto budget – Sony e Warner Bros. in testa – hanno dato il via a
un’autentica industria webseriale parallela a quella della fiction tradizionale.
Dagli spalti la risposta sono i 50 milioni di views per 9 puntate di Mortal Kombat: Legacy o i 10 milioni di
spettatori per l’esordio su YouTube di Shit Girls Say, basato sull’omonimo account twitter, con Juliette Lewis coprotagonista.
Il passo successivo sarà quello di alzare la posta, puntando sugli high concept, quel genere di premesse
narrative di immediata riconoscibilità sintetizzabili in una singola frase ad effetto o in un What If?.
Jurassic Park, per intenderci, è un film high concept. La sua premessa narrativa si fonda, come moltissimi
esempi del filone, sul what if «cosa potrebbe accadere se clonassimo i dinosauri?». In altri casi gli high concept
vengono identificati perché mettono insieme archetipi drammaturgici per auto-definirsi. Ad esempio Alien venne
venduto dai suoi sceneggiatori agli studios perché si poteva racchiuderne l’essenza nello slogan «Lo Squalo nello
spazio».
Le commedie romantiche di maggior impatto al cinema sono quasi sempre high concept. Si pensi alle
interpretazioni della reginetta del genere Kate Hudson (Come farsi lasciare in 10 giorni), dove sin dal titolo si ha
un’idea istantanea di cosa attendersi.
L’esordio dell’high concept writing di targa hollywoodiana in ambito web-nativo è contrassegnato dal debutto
a Gennaio 2012 su Facebook e YouTube della webseries sentimentale Dating Rules From My Future Self. Ovvero:
e se un’applicazione per cellulari ti potesse mettere in contatto con il tuo «io» futuro per farti evitare le scelte di
cuore fallimentari?
Dentro i produttori di Gossip Girl (la Alloy Entertainment), la sceneggiatrice di No Ordinary Family e di Life
Unexpected (Sallie Patrick), la regista dello stesso Life Unexpected e del sequel di Beverly Hills, 90210 (Elizabeth
Allen) e l’attrice simbolo di Roswell e, again, di Life Unexpected, Shiri Appleby. Dentro anche quattro main
sponsor, incluse Ford e Revlon.
Come è stato scritto dai blogger d’oltreoceano, Dating Rules From My Future Self è il Ritorno al Futuro del
dating, con un iPhone al posto della DeLorean.
Avrebbe tutti gli ingredienti per collocarsi e prosperare sulle frequenze di un broadcaster lineare. Parte invece
in streaming, on demand, su due mega-piazze controllate da soggetti estranei (Zuckerberg e la coppia Larry
Page/Eric Schmidt) allo scacchiere antico dei corporate media.
È una criticità endogena e interna all’anello distributivo. Front-end, lato utente, non fa alcuna differenza.
Rimane una love story high concept da qualunque fonte di accesso provenga.
Benvenuti nella TV multischermo.