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Andrea Foschi Highbury Way tosca Andrea Foschi Highbury Way tosca © tosca – Cesena, 2007 www.toscaedizioni.it tosca è associata a Viaterrea www.viaterrea.it [email protected] www.myspace.com/andreanfield Dedicato a Filippo e Valentina. “Senza ali non si vola”. Highbury Way Non c’è stadio al mondo che possa rappresentare al meglio l’essenza del calcio se non il galante impianto londinese di Highbury. Quella struttura fatta di mattoni e sudore è stata l’anima di generazioni di tifosi, di persone che si sapevano riscoprirsi bambino alla domenica, di giovani che sognavano di scivolare su quel tappeto verde per poi ritrovarsi signori di mezza età con un figlio al fianco da accompagnare alla partita. “Highbury è stato maestro piu di tanti insegnanti” raccontava fiero sir Herbert Chapman, il gentiluomo che in doppio petto inventò il calcio degli anni 30, il signore che diede vita all’ Arsenal del 1934, la squadra degli immortali, quelli che non seppero mai assaporare la sconfitta. Cos’ha da insegnare uno stadio? ci si può chiedere oggi, dove chi parla di calcio è tacciato di esser criminale. Uno stadio ha insegnato nei suoi gloriosi 93 anni alle persone che accoravano festanti allo spettacolo che una partita di pallone era l’occasione per conoscere il rispetto dell’avversario, era il momento per imparare i piaceri della vittoria e del successo, era la palestra in cui la sconfitta ti dava senso, perché come voleva tradizione,anche se perdevi, la mano la stringevi sempre al nemico di turno. L’uomo che ti aveva battuto era sempre di carne come la tua e non c’è miglior modo di imparare a perdere se non quello di alzarsi in piedi al termine dell’incontro e applaudire i tuoi beniamini. Non importava a nessuno di quegli uomini sugli spalti che la partita fosse persa, l’onore di quei giovani in campo andava oltre ad un numero scritto sul tabellone. Il calcio dunque può essere maestro? Non vi è dubbio. Formare uomini è compito dello sport, il calcio è stato l’esempio più alto. Undici storie come undici uomini che vanno in campo. Questo è il calcio che è stato e che potrà essere. Ma davvero un luogo di mattoni e ferro può significare tanto? C’è chi dice che certi luoghi diventano simboli perché noi trasferiamo in essi i nostri ideali e le nostre virtù. Probabilmente è vero,ma quando gli uomini che quei sogni avevano costruito lasciano questo mondo, è il loro simbolo stesso ad essere ideale. Highbury era questo, era sogno per chi ci giocava, era magia per chi ci soffriva. Ma anche lui si è dovuto arrendere al tempo. Il 7 maggio 2006 i cancelli ormai arrugginiti si sono chiusi per l’ultima volta. Anche l’ultima fetta di quel calcio galante è andata persa. “Highbury Way” dunque. il ricordo di quel gusto di football nato da uomini sinceri, il ricordo di quanto un pallone possa insegnare. Il ricordo di generazioni che credevano in un gioco per molti stupido ma destinato a cambiare il mondo, un gioco che potrà tornare grande. You ll’ never walk alone: la leggenda di Bill Shankley «Una volta qualcuno mi disse che il calcio per me era una questione di vita o di morte, e io gli risposi: “Ascolta, è ancora più importante” » cosi definiva il calcio Bill Shankly, uno dei piu grandi allenatori che la storia ricordi. Non uno qualunque questo pazzo e scorbutico scozzese,amante della sfida e con la battuta sempre pronta. Nato nella regione dell’ East Ayrshire, nella piccola cittadina di Glenbuck il 2 settembre 1913 la parabola di questo genio del football inizia sin da giovanissimo nelle fila del club della propria città. Come calciatore (nel ruolo di mezzala) nonostante le scarse doti tecniche,mostra grande carisma e spessore, che gli varranno anche 5 convocazioni in nazionale maggiore. La carriera di Shankly come calciatore viene spesa per il resto tra piccole formazioni inglesi, tra cui il Carlise Athletic e il Rochdale, anche se la vera svolta nella vita del burbero Bill avviene nel 1933 quando viene ingaggiato dal Preston North End, una delle squadre più gloriose del panorama calcistico britannico nonché tra i membri fondatori dell’ FA (la football association). Qui il giovane Shankly conosce l’importanza dell’allenamento e il valore del rispetto dell’avversario, insegnamenti ed idee che diverranno colonna portante del “metodo Shankly”. Con la maglia bianca del Preston ottiene anche l’unico successo importante da calciatore: la vittoria dell’FA cup nel 1938, per poi far ritorno in scozia e chiudere la carriera in una piccola formazione semiprofessionistica; il Patrick Thistle. Da allenatore Shankly muove i primi passi nel 1949 nel Carlise, sua ex squadra per poi “farsi le ossa” in tante formazioni piu o meno rinomate, tra le quali Grimsby, Huddersfield e Workington nel quale rimarrà fino alla stagione 1958/59. Ma dal 1° dicembre del 1959 inizia la vera ascesa al mito. Spavaldo come sempre il manager scozzese accetta la proposta della dirigenza del Liverpool, una formazione indebitata fino al collo e scivolata in seconda divisione. La sfida sembra impossibile anche per un duro come “Shanks”, ma nel giro di due stagioni,affidandosi ad un gruppo di giovani scozzesi voluti per poche sterline e grazie all’introduzione di innovazioni rivoluzionarie nei metodi di allenamento, i “reds” del Liverpool tornano nella massima serie e si preparano a fare la storia del calcio inglese. Sotto la guida di Shankly i rossi di Liverpool si trasformano in leoni. Talenti del calibro di Tommy Smith, Ian St. Johnson, “King” Kevin Keegan, Ian Callaghan fecero grande un team che sarà ricordato come una delle 5 squadre piu forti di tutti i tempi. Il palmares ottenuto da Shankly è impressionante: 3 campionati di’Inghilterra (1963/64;1965/66;1972/73) ,2 coppe d’Inghilterra (1964/65;1973/74), 1 coppa Uefa (1972/73). Al termine della stagione 1973/74 il vecchio “Shanks” decise di dire basta con il calcio: “La cosa più difficile della mia vita. Quando andai dal presidente fu come camminare verso la sedia elettrica. Ecco, mi sentivo proprio così” cosi commentava al momento di rassegnare le dimissioni dalla panchina del Liverpool. Il grande Bill Shankly in 15 anni irripetibili per la storia di Liverpool e del Liverpool lasciò la panchina al suo grande amico e vice di sempre Bob Paisley, il quale a cavallo tra anni 70 e 80 vincerà tutto come allenatore e supererà addirittura il prorio amico-maestro, ma non sarà mai così amato. La storia d’amore con il Liverpool culminò con la nomina a ufficiale dell’Impero Britannico nel 1974 a pochi mesi dal ritiro dalla scena calcistica,anche se il legame che rendeva il cuore dei tifosi legato al loro “Coach” era nelle radici dell’umiltà,della povertà . Liverpool era figlia di operai e umili immigrati irlandesi,non contava per quella gente l’onore e la grandezza, ma importava il cuore, importava l’ardore del campo. Mai questo sentimento si rispecchiava di piu che in quel grandioso Liverpool voluto da Shankly, una squadra che faceva tremare il mondo con la propria carica, una squadra che fece del proprio stadio una leggenda, un porto inattaccabile. Anfield Road, il tempio in cui non si perdeva mai. Un aneddoto curioso legò per sempre i destini di Shankly a quelli di Liverpool. Correva l’anno 1962, quando 4 ragazzi di Liverpool conquistarono il mondo con il loro disco d’esordio “love me do”.Quei quattro ragazzi si chiamavano Beatles. In origine il quartetto più famoso al mondo, doveva incidere tutt’altro pezzo…un riadattamento del mitico inno “You’ll never walk alone”,che altro non era che un canto che i coloni irlandesi avevano portato a Liverpool e che il gruppo “Gerry & the Peacemakers” aveva rispolverato negli anni 50…beh…I 4 affermarono che il brano era troppo popolano per loro. Da qui si deduce che forse l’ispirazione non veniva poi cosi tanto dalle emozioni, ma da esigenze molto più terrene…. Shankley senza fare una minima polemica,decise di fare qualcosa per la gente di Liverpool, alla quale 4 ragazzotti cosi eleganti e arricchiti avevano voltato le spalle.”You ll’never walk alone” divenne l’inno ufficiale della squadra e da allora,tutte le volte che i reds scendono in campo il pubblico di Anfield s’infiamma. I ragazzi della Kop(la curva dello stadio:ribattezzata cosi in onore dei caduti nella campagna africana del 1863,dei quali molti di Liverpool) tendono le sciarpe al cielo, e gridano forte. Cantano quei ragazzi,quelle donne,quei bambini…Liverpool siamo noi, Liverpool è uno scozzese che ha dato il cuore per il calcio. Il 29 settembre del 1981 colpito da un infarto, il vecchio “Shanks” se n’è andato. Entrato a furor di popolo nella “hall of fame” del calcio inglese, viene oggi ricordato con una statua nel piazzale dello stadio e dal magnifico cancello in ferro battuto all’ingresso della Kop, sovrastato da quella scritta che ha rappresentato la filosofia di Shankly nel corso della vita: “You’ll never walk alone” , “non camminerai mai solo”…perché come diceva sempre ai giornalisti: “Per essere buono per il Liverpool, un giocatore deve essere capace di correre attraverso un muro di mattoni e pronto a combattere una volta dall'altra parte”. La paura ci frena se siamo soli davanti all’ostacolo, ma si batte se siamo in squadra a lottare. Liverpool lo ha imparato, Guardate negli occhi quella gente quando canta il proprio inno, se c’è una cosa da temere sono undici ragazzi vestiti di rosso… 24 anni insieme: L’insegnamento di Dario Gradi Nel calcio di oggi pensare che un calciatore possa rimanere nella stessa formazione per più di una manciata di stagioni è fantasia allo stato puro. Pensare la stessa cosa per un allenatore fa sfociare addirittura nell’utopia assoluta. Eppure, in giro per il mondo, ci sono ancora oggi esempi di allenatori che hanno fatto la storia di un club sedendo sulla stessa panchina per svariati anni,addirittura decenni. Di questo “club” di eletti fanno e hanno fatto parte gente del calibro di Sir Alex Ferguson, Arsene Wenger e il compianto colonnello Lobanonovski.Tra questi mostri sacri della panchina va aggiunto di diritto il nome di un nostro, troppo poco conosciuto connazionale, che dopo 24 anni al timone dello stesso club, ha deciso di dire basta con il mondo del pallone. Infatti da lontano 1983 sulla panchina del Crewe Alexandra, club della serie C inglese, siede Dario Gradi una delle figure più importanti del calcio inglese. Nato a Milano l’8 luglio 1941, da padre italiano e madre britannica, perse il padre all’età di sei anni, e la madre preferì crescerlo in terra britannica, interrompendo di fatto i legami con l’Italia. Grande appassionato di calcio, intraprese la carriera di calciatore con modesti risultati, giocando per molte squadre dilettantistiche fino al 1971 quando divenne alla strabiliante età di 29 anni assistente coach del Chelsea. Dopo questa esperienza ebbe la possibilità di allenare il Sutton United, squadra in cui aveva militato da giocatore, il Derby County, e il Wimbledon. Quando nel 1983 il presidente Norman Rowlinson lo ingaggiò, al Crewe Alexandra,trovò una società indebitata, senza progetti e con un settore giovanile abbandonato da anni. Gradi capì subito l’importanza di ripartire dai giovani e così potenziò il settore giovanile in modo che questo fornisse la base per il rilancio societario. Il progetto ha portato a evidenti successi, visto che in pochi anni il Crewe ha lanciato calciatori del calibro di Dean Ashton e Danny Murphy.Gradi inoltre è riuscito a dare una nuova immagine al club, basata sulla sportività e sulla correttezza in campo e fuori. Non è un caso che il Crewe abbia vinto 8 premi Fair Play negli ultimi dieci anni. A livello di risultati, Gradi, nel corso degli anni è riuscito a portare il club dalla quarta serie fino alla Championship(la serie B inglese).In definitiva si può affermare che Gradi abbia cambiato volto ad un piccolo club, facendolo vivere anche ben al di sopra delle reali capacità del club. Il Crewe infatti ha disputato 8 delle ultime 10 stagioni in serie B, pur avendo poche centinaia di abbonati. Oggi il Crewe si trova in League One e qualche tifoso durante questa ultima stagione ha criticato Gradi sostenendo che sia “arrugginito”.A questi tifosi andrebbe ricordato ciò che Dario Gradi ha fatto per il club,l’identità che gli ha dato, la mentalità della sportività, l’organizzazione esemplare e la grande onestà e umiltà trasmessa a tutti i suoi giocatori e collaboratori; tutte cose che rimarranno, molto più delle effimere contestazioni. Per concludere una curiosità: Gradi lasciò la direzione del club dal 22 settembre al 17 ottobre 2003,per subire un intervento al cuore. Beh…in quel periodo il Crewe perse tutte le partite,come se fosse stato privato dell’ anima. Quell’anima di nome Dario Gradi. I leoni di Highbury 14 novembre 1934 – 14 novembre 2007. Sono passati 73 anni. Pochi ricordano, molti hanno giudicato, molti hanno infangato. L’Italia di Vittorio Pozzo, campione del mondo da pochi mesi, sale in Inghilterra per disputare una partita che rimarrà leggenda. E’ noto come Mussolini abbia influenzato il mondiale a favore della compagine Azzurra. Stesso arbitro per tutta la competizione e favoritismi di ogni natura. Il grande Hugo Meisl tecnico della strepitosa austria del genio Matthias Sindelar alla vigilia della semifinale con gli azzurri disse: “temo l’Italia, ma temo molto di più l’arbitro”. Il mondiale fu vinto dunque, onori di dovere per compiacere il duce e per calmare la crescente tensione politica in tutta europa. I ragazzi di Pozzo, e lo stesso tecnico, vennero nel tempo accusati di essere parte della manovra politica venendo cancellati in gran parte dai libri di storia perche anche loro colpevoli, anche loro neri,anche loro fascisti. Ma è qui che la storia si ferma. La compagine azzurra su invito della fifa e con la mediazione dei Jules Rimet(colui che diede nome alla coppa del mondo) ebbe modo di poter sfidare in terra di Albione il mito. La squadra degli Immortali, la nazionale Inglese. Il teatro designato è lo stadio di Highbury, un vero tempio del calcio. Uno stadio che trasmetteva emozione solo a guardarlo da fuori, solo ad osservare l’orologio che scandiva il tempo degli immortali. Il tempo dell’ Arsenal del 1934, la squadra che non perse mai. Herbert Chapman era stato il creatore di quella squadra, l’inventore del metodo. Nella nazionale guidata da Cooch giocano 7 undicesimi di quel dream team, aggiungendo quanto di meglio del calcio britannico abbia da offrire. Su tutti un nome: Sir Stanley Matthews. Il piu grande, primo pallone d’oro della storia e uomo di valore. L’inghilterra non aveva preso parte mai ai mondiali, perché loro erano gli inventori del calcio, loro erano i maestri indiscussi e non era di buon gusto sporcarsi le mani con i pezzenti. Quella volta accettarono di sfidare in un incontro di esibizione i finti campioni del mondo, convinti di umiliarli e mettere a tacere le discussioni sulla superiorità della squadra di sua maestà. Lo scenario dell’arsenal stadium è impressionante. Stime vogliono che vi siano presenti 60 mila spettatori tra cui anche alcuni nostri connazionali che si distinguevano tra il pubblico per una coccarda tricolore puntata sulla giacca. La cerimonia si apre con una banda di musici che intonano canti scozzesi con il rigoroso kilt da cerimonia, il pubblico canta a squarciagola questi e si infiamma al risuonare dell’inno: GOOD SAVE THE QUEEN. Il campo era perfetto, un tavolo da biliardo pronto per essere calcato. L’inghilterra di Cooch schiera questo undici : Moss, Male, Hapgood, Britton, Barker, Copping, Matthews, Bowden, Drake, Bastin, Brook. Il commissario tecnico Pozzo manda in campo l’undici campione del mondo: Ceresoli, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV(il capitano), Monti, Bertolini, Guaita, Serantoni, Meazza, Ferrari, Orsi. Arbitro dell’incontro è lo svedese Olsson. Gli assistenti di linea sono uno per parte. L’Inglese Gibbs e l’italiano De Renzis. Si comincia a giocare! L’inghilterra è sospinta dalle grida di una nazione e dopo soli 2 minuti ecco un calcio di rigore per i britannici. Brook si incarica della trasformazione, ma Ceresoli compie il primo prodigio della partita neutralizzando la conclusione dell’ala inglese. Dopo solo un minuto però lo stesso Brook si rifarà infilando la porta. 1 a 0 Dopo soli 4 minuti, Luisito Monti, il perno della nazionale in una mischia di gioco ha la peggio. Piede fratturato e partita finita. All’epoca le sostituzioni non esistevano, si rimane in dieci. Pozzo allora prova a ridisegnare la squadra spostando Ferrari nel ruolo di Monti e Meazza a centrocampo. Ma vero protagonista diviene il Luigi Ferraris IV che si sdoppia nel ruolo di centrosostegno e mediano e carica i suoi uomini. Memorabili saranno i rimproveri a Guaita che sopraffatto dalla forza degli attacanti inglesi non riusciva a reagire. La forza degli immortali è impressionante e sfruttando la superiorità numerica e vanno in rete altre due volte al 10 e al 12 grazie alle reti di Brook e Drake. Ceresoli con una prestazione superlativa limita i danni con parate prodigiose e salvando l’Italia dall’umiliazione, ma la compagine azzurra sembra sul punto di crollare. Finisce il primo tempo. 3 a 0. La leggenda vuole che Pozzo negli spogliatoi abbia raccontato le imprese degli alpini nella battaglia dell’Isonzo durante la grande guerra per caricare i suoi uomini. Ma è Ferraris che sarà grande protagonista. “Tillio” prese in mano lo spogliatoio introducendo il tipico giuramento che si faceva nella sua Roma. Tutti poggiarono la mano sul pallone e intonarono.” Dalla lotta chi desiste fa una fine molto triste, chi desiste dalla lotta è un gran fijo de na m..." Magia o altro,avviene un miracolo. L’Italia del secondo tempo è trasformata. Entrarono in campo a testa alta quei ragazzi. Il timore era svanito. Gli occhi di Ferraris erano di fuoco. Il gioco pesante degli inglesi fatto di calci e spintoni venne ribattuto colpo su colpo(Cooch racconterà che a partita finita,il suo spogliatoio sembrava un ospedale da campo),gli azzurri si fanno avanti con spirito e gioco di squadra. Ferraris annienta gli avversari e al 13’ serve palla a Bastin che lancia Orsi che serve Meazza nel cuore dell’area. E’ 3 a 1. Passano 4 minuti ed è ancora il capitano a essere protagonista. Calcia una punizione in area, Meazza è puntuale nell’intervenire 3 a 2. L’italia domina in 10 contro 11. Gli inglesi indietreggiano,si rinchiudono tutti in difesa a protezione del portiere Moss che si esalta parando l’impossibile agli azzurri. Come non bastasse cala una nebbia terrificante sul terreno e il clima diviene ancora più infuocato. Gli assalti azzurri sono eroici, ma gli immortali resistono fino al 90’. 3 a 2. A questi punto accade l’incredibile. Il pubblico inglese in religioso silenzio si alza in piedi e dunque si scioglie in un caloroso applauso per diversi minuti. Rendono onore all’Italia,rendono merito a quei ragazzi che rimaranno nella storia come Leoni di Highbury. I vincitori morali escono dal campo come vi erano entrati: a testa alta. Gianni Brera scrive :” Qualcuno che è stato a Highbury nel 1934 mi racconterà di aver visto tutto fuorché calcio da parte italiana: calcioni, spintoni, cravatte, sputi in faccia (da parte di Serantoni; ma la nebbia fluttuante ha impedito al mio interlocutore di controllare i gesti di Allemandi e Ferraris IV). Racconto queste cose per non entrare nel novero dei piaggiatori: ammetto però di essermi esaltato a mia volta nell'ascoltare Carosio(il cronista della partita)». Sono dell’idea che non si possa vivere con i nostri occhi una partita dell’epoca, non capiremmo nulla o quasi. Era un mondo diverso, lontano dal nostro. Il valore della vita, il sentire comune e le tradizioni erano diverse, il calcio era diverso. La cosa che rimane è che quando Cooch tornò a casa quella sera,guardandosi allo specchio non poté non notare una cosa… Aveva una piccola ferita sul volto, usciva sangue. Sorrise per un attimo, un istante, per poi tornare a calarsi nella parte dell’uomo tutto di un pezzo. Gli immortali mantennero alto il proprio nome, ma quel giorno sanguinarono…eccome se sanguinarono. Purtroppo la storia era quella sbagliata. Era l’Italia fascista. Poco importa Se quei ragazzi non centravano nulla….La loro storia è stata dimenticata…. Purtroppo il tempo è galantuomo per tutti,giusti o sbagliati che siano…oramai in vita di quell’impresa non vi è rimasto piu nessuno… E se ne andato anche lui,il teatro di quella magnifica sconfitta. Il 7 maggio 2006 dopo una cerimonia commovente, tra lacrime e tanti ricordi, l’orologio decò della gradinata ha smesso di scandire i secondi…erano le 6 e 30 di un pomeriggio di un tiepido pomeriggio londinese, Highbury chiude i battenti. Uomini, anziani, donne, bambini…tutti in lacrime sugli spalti a gridare per un ultima volta…per ricordare tanti anni passati insieme… Highbury chiude i battenti. Oggi al posto dello stadio sono sorti appartamenti di lusso, ma è stata mantenuta la facciata dello stadio e il rettangolo da gioco è intatto, trasformato in giardino…e una targa a ricordare… Se passate da quelle parti, fateci un salto, vedrete all’orizzonte il magnifico emirates stadium…il nuovo ipertecnologico e spettacolare impianto dell’arsenal e mentre camminate osservando quella facciata cosi antica…se fate attenzione e vi fermate un attimo, sentirete ancora le lancette dell’orologio che scandisce i secondi degli immortali, sentirete ancora in lontananza, ma lo sentirete…il ruggito dei leoni. 22 uomini regalarono al mondo un esempio di rispetto e lealtà a prescindere i colori e la drammaticità del periodo. Una sconfitta che avrebbe insegnato tanto al mondo. Non servono cerimonie ne cortei. Ricordare con rispetto questo è dovuto. James Spensley: Doc Football. Ci sono uomini che hanno fatto storia nel mondo del calcio, non solo per le qualità atletiche ma soprattutto per quelle umane. James Richardson Spensley rappresenta al meglio questa categoria dato l’innumerevole serie di ruoli ricoperti sia in campo che fuori. Nato a Stoke Newington,una sobborgo di Londra il 17 maggio 1867 fu grande innovatore del mondo del calcio, medico rinomato e promotore dello scoutismo in Italia. Sbarcato a Genova nel 1896 come medico di una compagnia di navigazioni inglese, si occupò fin dal suo arrivo della promozione del calcio all’interno del capoluogo ligure,organizzando incontri tra gli innumerevoli marinai britannici che lavoravano nei cantieri navali. Data l’immensa passione per l’organizzazione sportiva entrò a far parte della società ginnica Andrea Doria nel 1897 e grazie alla spinta dell’amico italiano Franz Calì ecco l’idea di fondare un vero e proprio club calcistico: il Genoa Cricket and Football Club, del quale divenne anche primo capitano della storia. Data la sua lungimiranza, Spensley iniziò ad allacciare rapporti con le altre società calcistiche del nord italia, gettando di fatto le basi per la costituzione di una federazione calcio che diverrà poi l’odierna FIGC. Altro merito di Spensley quello di introdurre alle attività calcistiche anche tutti i soci italiani ancora ai margini del gioco, lanciando così di fatto il calcio in tutta Italia. In campo Spensley ricopre due ruoli con la casacca del Genoa;quella di libero con la quale vince due titoli (1898,1899) e quattro con quella di portiere (1900,1902,1903,1904), mentre al termine della carriera nel 1906 all’età ormai di quarant’anni si dedicherà all’arbitraggio e alla carica di consigliere federale. Le cronache del’epoca definivano Spensley come un professionista eccezionale: “J.R. Spensley era uno dei primi sul terreno. Si dirigeva verso i pali di un goal, deponeva in un angolo un cartoccio di pece greca e saltellando attendeva l’inizio del gioco badando di ben bene ingiallire le mani e le braccia colla polvere attaccaticcia. Sembrava un uomo maturo, lento nei movimenti, invece giocava bene, era agilissimo, fortissimo” la leggenda vuole inoltre che fu lo stesso Spensley ad inventare la respinta di pugno. Nonostante i piu ruoli ricoperti sia tra Genoa e federazione, nessuno ebbe mai dubbio sull’integrità morale dello Spensley uomo, che anzi veniva stimato per la grande correttezza soprattutto dagli avversari e trovava sempre tempo per curare aspetti legati all’importanza di coinvolgere i giovani e la città tutta alla partecipazione all’attività sportiva. Proprio la voglia di coinvolgere i più piccoli portò il medico inglese a stringere rapporti con Robert Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo,con il quale iniziò una preziosa collaborazione sia in Inghilterra che in Italia, che portò alla nascita di tutta una serie di iniziative rivoluzionarie per l’epoca. Nel 1910 con la preziosa collaborazione di Mario Mazza, Spensley costituì la sezione genovese dei “Ragazzi esploratori italiani”(REI), mentre nel 1911 si affiancò all’associazione “le gioiose” portando un contributo importantissimo per tutti i giovani liguri dei primi del novecento. La passione per il Genoa e per il calcio lo terranno sempre vicino all’ambiente calcistico anche negli anni dell’impegno nel mondo del sociale e per un brave periodo tra il 1912 e 1913 ricoprì il ruolo di ordinatore del settore giovanile del club da lui stesso fondato. Ruolo che decise di abbandonare nel 1914 allo scoppio del primo conflitto mondiale, quando il richiamo della necessità di curare i feriti di guerra lo spinse ad arruolarsi. Una scelta che gli costerà la vita. Troverà la morte il 10 novembre 1915 all’ospedale militare di Magonza in seguito alle ferite subite dallo scoppio di una granata. Le cronache genovesi riportano che Spensley sarebbe caduto mentre portava soccorso ad un nemico ferito, perché la grande umanità di questo signore d’altri tempi non piegò mai davanti a distinzioni di alcuna natura. James Spensley è e rimane una delle figure che hanno reso il calcio grande in Italia nei primi anni del ventesimo secolo, e solo il fato ha voluto che il suo nome non venga spesso ricordato. In guerra, infatti, perse tragicamente la vita anche un altro personaggio di spicco del Genoa, il giovane Luigi Ferraris al quale la cittadinanza intitolerà lo stadio comunale e relegando di fatto nel dimenticatoio il grande filantropo inglese, che grazie alla sua passione portò l’Italia a giocare a pallone per la prima volta. 6 agosto 1942: morirono liberi Nel 1981 uscì nelle sale cinematografiche una pellicola che avrebbe storia, si intitolava “Fuga per la vittoria” e narrava una bellissima storia di calcio ai tempi della seconda guerra mondiale. Protagonisti di quello che sarebbe diventato un cult per una generazione oltre al duo formato da Sylvester “rambo” Stallone e Michael Caine, erano alcuni dei piu grandi artisti del pallone: Osvaldo Ardiles, Bobby Moore e “sua maestà” Pelè. La trama del film narra di una partita svoltasi tra una formazione composta da prigionieri di guerra e soldati nazisti e naturalmente, da box office americano che si rispetti, Stallone e company le suonano ai cattivi e due ore di film sono ripagate. Applausi. Ma non tutti sanno che gli autori di questa leggenda del cinema hanno preso spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto. Un fatto vero, ma con un finale molto diverso. E’ una follia morire per un gioco? E’ una cosa senza senso rinunciare alla propria vita per dare speranza a chi non ne ha? Si può morire per il calcio? La risposta è una:si. Il 6 agosto 1942, 11 uomini decisero di sfidare il nazismo con un arma più potente delle bombe:con un pallone. Quegli uomini di cui il ricordo è stato cancellato dai libri di storia facevano parte di una delle piu importanti realtà calcistiche d’Europa, erano atleti della grande Dinamo Kiev degli anni 30’ e 40’. Le notizie in riguardo a questa vicenda purtroppo sono spesso incomplete o inesatte poiché le sfere dirigenziali del governo occupazionale fecero sparire ogni traccia scritta e la successiva controffensiva sovietica fece il resto. Le uniche fonti sicure poggiano su alcuni referti dell’epoca finiti nelle mani dello storico russo Yuri Kuznetsov che ha ricostruito la vicenda di una delle partite più importanti che il calcio ricordi. Nata come squadra della polizia e del ministero degli interni del governo sovietico nel 1927,non era originariamente formata da professionisti, ma bensì giocavano i lavoratori di suddetto ministero. Con l’avvento degli anni 30 e una crescente passione della gente per il calcio, la formazione ucraina crebbe in fama e organizzazione,dando il via di fatto all’era del professionismo e ad una svolta nello sport sovietico. In pochi anni quella che un tempo era più un dopo-lavoro che una società sportiva riuscì ad ottenere risultati di primissimo ordine: secondo posto nel campionato 1936, terzo nel 1937 e quarto nel 1938, senza contare le grandi prestazioni in campo internazionale. Memorabili in proposito la vittoria per 6 a 1 ottenuta contro i red star di Parigi e il clamoroso 9 a 1 inflitto alla nazionale turca. L’eco di questi clamorosi risultati fece risaltare agli occhi del mondo una nuova e bellissima realtà calcistica che poteva annoverare campioni del calibro di Nikolai Trusevich, Anton Idzkovskiy, Mikhail Sviridovskiy e naturalmente un grande tecnico: Mikhail Tovarovskiy. Ma il tempo per il “dream team” ucraino era già segnato. Nel 1942 a seguito dell’occupazione nazista,molti ragazzi della squadra tentarono di mettersi in salvo, ma i loro tentativi furono vani. Troppo noti i loro volti per passare inosservati e cosi si ritrovarono in pochi giorni in un campo di prigionia e assegnati ai lavori forzati. L’occasione per i gerarchi nazisti era d’oro. Tra le mani avevano la squadra della Dinamo Kiev e l’idea di organizzare un incontro “amichevole” fu subito accolta con gioia dallo stesso Hitler. La macchina organizzatrice del terzo reich si mise in moto allestendo in poco tempo una serie di incontri finalizzati ad esaltare la superiorità della razza tedesca, ma i risultati furono semplicemente disastrosi per Hitler e compagni… Il 12 luglio 1942 la formazione della Dinamo Kiev spazzò via senza fatica una compagine formata dai carcerieri del campo in cui erano detenuti con un tennistico 7 a 0. Pochi giorni dopo, la rivincita ma anche questa volta qualcosa andò storto. 17 luglio 1942: Dinamo Kiev 6 carcerieri 0. A seguito di queste due pesanti sconfitte, gli ucraini ottennero il permesso di disputare un incontro con gli Ungheresi dell’ MSG Wal, anche in questa occasione emerse prepotente la superiorità dei sovietici: 5 a 1 il risultato finale. Gli ungheresi vollero la rivincita a tutti i costi, ma ancora una volta uscirono sconfitti con un più equilibrato 3 a 2. Era il 26 luglio. I tedeschi scottati ancora dalla doppia batosta ricevuta e umiliati dalle ottime prestazioni espresse dai prigionieri decisero di fare le cose in grande. In campo questa volta avrebbero mandato il “Wunderteam”,la squadra “delle meraviglie” composta dai migliori atleti dell’esercito tedesco con l’aggiunta di qualche grande calciatore professionista. La voglia di rivalsa era talmente forte nei confronti degli esseri inferiori ucraini che fu montata una campagna pubblicitaria senza precedenti per far risaltare l’evento. Si narra che vennero affissi in tutta l’ucraina manifesti pubblicitari e che i giornali pubblicassero in continuazione articoli per esaltare lo strapotere teutonico. Ed eccoci cosi arrivati alla Partita. Il 6 agosto 1942 allo stadio di Kiev, davanti a 50.000 spettatori, divisi in egual maniera tra soldati tedeschi e cittadini ucraini, va in scena l’incontro tanto desiderato dal nazismo. La partita ha inizio. La forza della compagine tedesca è impressionante. Gli ucraini denutriti e sfiancati dai lavori forzati non riescono a reagire agli assalti del “Flakelf”, questo il nome della formazione dell’esercito, e sfavoriti da un gioco ai limiti della decenza e scherniti da un arbitro compiacente soccombono.1 a 0 per i super uomini tedeschi. Ma a questo punto, qualcosa scatta nei cuori di quei ragazzi. Il gol subito galvanizza l’ undici ucraino che riparte di slancio. La furia agonistica divenne tale che tutti scordarono la fame e le sevizie, il gioco divenne veloce e brillante. La forza della Dinamo era tale che la selezione tedesca non poteva far altro che difendere con i denti il vantaggio. Ma non bastò, pochi minuti ed il gol del pari. I soldati dalle tribune iniziarono a fischiare e gettare di tutto dalle tribune, la paura nei loro occhi era visibile. Ancora pochi minuti e arriva anche il gol del sorpasso; 2 a 1 per i sovietici. Il pubblico ucraino iniziò ad esultare con passione e ardore tale da indurre i soldati a sparare alcuni colpi in aria per riportare il giusto clima di terrore. Durante l’intervallo della partita un ufficiale tedesco si recò negli spogliatoi della Dinamo e fece ai giocatori un discorso brutalmente chiaro : “ «Bravi! Avete giocato bene e lo abbiamo apprezzato ma ora, nel secondo tempo, andateci piano. Come potete immaginare questa è una partita che dovete perdere. Questo è un ordine. Se non perdete sarete fucilati». Calò il silenzio nello spogliatoio. Quei ragazzi, molti dei quali troppo giovani per essere uomini si guardarono negli occhi. Non servirono molte parole, Nikolai Trusevich disse semplicemente : “facciamo quello che sappiamo fare, oggi giochiamo per l’ucraina”. Il secondo tempo fu all’insegna della classe sopraffina della formazione ucraina. Arrivarono altri due gol in rapida successione, il “flakelf” era impotente . La superiorità era tale che a un certo punto uno dei difensori della Dinamo, Klymenko, avanzò per tutto il campo palla a terra,saltò tutta la difesa avversaria e si liberò con un dribbling secco del portiere, ma non appoggiò il pallone in porta. Si voltò e calciò il pallone verso centrocampo. Gli ucraini vollero dimostrare ulteriormente che la superiorità di una squadra c’era, ma era la loro. Gli ufficiali tedeschi in tribuna d’onore abbandonarono inferociti lo stadio e l’arbitro fischiò la fine dell’incontro con diversi minuti d’anticipo. Il pubblico ucraino esultò come fosse impazzito,non facevano piu paura i colpi di fucile sparati in aria. Quel giorno avevano vinto tutti loro. La reazione degli ufficiali a questo affronto fu mostruosa. Al termine dell’incontro vennero giustiziati in campo un paio di giocatori, mentre gli altri vennero spediti a morire nel campo di concentramento di Babij Yar, dove a distanza di pochi giorni vennero fucilati tutti. Nikolai Trusevich che secondo i piani degli ufficiali sarebbe dovuto rimanere in vita perché potesse raccontare cosa accadeva a chi trasgrediva alle leggi,rifiutò l’ingrato compito e non tradì la propria anima decidendo di morire con gli altri compagni di squadra. Un cecchino gli sparò in pieno cuore. Da allora gli ufficiali tedeschi non fecero altro che cercare di cancellare ogni riferimento a questo incontro,ma fallirono. 11 ragazzi, seppur per soli 90 minuti,avevano mostrato ai loro connazionali che il male si poteva sconfiggere. 11 ragazzi, avevano dato speranza a un popolo intero. Una partita di calcio aveva mostrato a coloro che di terrore facevano la propria forza che la vera potenza sta in un pallone, sta in un idea. Questione d’onore Quando il calcio era ancora giovane e i ragazzi che giocavano indossavano camicie e capelli tutto era molto piu romantico, molto piu antico, molto più rispettoso. Questa è la storia di chi per onore scelse di non vincere, è la storia di una passione troppo vera per essere accontentata con una vittoria “sporca” a tavolino; è la storia di Viktoria Berlino – Hanau finale del campionato tedesco 1894 è la storia della finale piu lunga della storia del calcio. All’epoca dei fatti il calcio in Germania era qualcosa di folle, di pazzesco e solo pochi comprendevano la passione per un gioco che avrebbe cambiato il corso della storia sportiva del secolo successivo. L’allora appena nato campionato tedesco(all’epoca neanche riconosciuto da nessuna istituzione sportiva), aveva una formula semplice e molto elementare: Le squadre si dividevano in gruppi regionali, al termine dei quali le vincitrici di ogni raggruppamento si sfidavano tra di loro in scontri ad eliminazione diretta, fino ad arrivare alla finalissima da svolgersi in due incontri; uno d’andata, uno di ritorno. Finaliste del campionato tedesco della stagione 1893-1894 risultarono essere da una parte i berlinesi del Viktoria, dall’altra l’Hanau, vincitrice del girone regionale dell’Assia. Tutto era pronto per una doppia sfida che si preannunciava combattutissima, ma il destino si mise di mezzo. L’Hanau non aveva i fondi necessari per pagare la trasferta fino alla capitale e nonostante i tentativi di convincere il paese a donare qualche centesimo per il viaggio Non ci fu nulla da fare. Quei ragazzi, figli in gran parte di minatori e tagliaboschi della piccola cittadina ad ovest di Francoforte non poterono realizzare il loro sogno. Ma ecco la grandezza di un gesto. Ricevuta la notizia che gli avversari non si sarebbero potuti presentare per disputare la finale, i giocatori del Viktoria Berlino decisero di fare un gesto senza precedenti. Il capitano una volta consultata la squadra decise di andare dall’arbitro dell’incontro e comunicò ufficialmente che rinunciavano alla vittoria che spettava loro di diritto. La decisione sorprese la federazione tedesca che però accettò la decisione, decidendo di rinviare la finale a data da destinarsi…. Il destino vuole però che da allora in poi i grandi sconvolgimenti politico-sociali che investirono la Germania fecero dimenticare a tutti la “partita sospesa”.A tutti, tranne che ai protagonisti di questa. Per anni i 22 che avrebbero dovuto sfidarsi continuarono a battersi perché la federazione si decidesse a concedere una nuova data per l’assegnazione del titolo, ma non se ne fece nulla. Passarono gli anni, i decenni, la federazione tedesca prese il nome di “Deutscher fussballbund” e riformò i campionati, dimenticando di fatto tutto il passato e mandando al ricordo dei protagonisti quella finale mai giocata. Era il marzo del 2007 quando alcuni dirigenti della federazione tedesca scoprirono negli archivi sopravvissuti alle guerre che c’era un “buco” nell’albo d’oro del campionato tedesco ed iniziarono ad indagare in proposito. Le ricerche portarono i dirigenti della FEDERCALCIO tedesca a contattare alcuni discendenti delle due formazioni e si misero in contatto con le dirigenze delle due società. L’idea che nacque fu subito accolta con entusiasmo e passione: Disputare 113 anni dopo la finale mai disputata. Il 21 Luglio 2007 22 giovani,tra cui alcuni discendenti di quei ragazzi di un secolo prima scesero in campo con divise simili a quelle dell’epoca e utilizzando palloni originali dell’800, il finalmente andava assegnato. La visione di quelle maglie piu simili a camice che divise da calcio e quei palloni marroni cuciti a mano e pesanti come palle di cannone fece tornare tutti all’atmosfera dell’epoca, la finale era pronta per essere giocata. 3 a 0 per il Viktoria,questo il risultato dell’andata sul campo di Berlino. 7 giorni dopo a campi invertiti le due compagini si fermarono a vicenda sull’11, il titolo era finalmente assegnato. Il 28 luglio 2007 il Viktoria Berlino alza al cielo il trofeo di campione di Germania del 1894, la storia si riprende quello che il destino le aveva tolto. Quel giorno molti ragazzi piansero di gioia, il ricordo di un grande gesto di vero calcio era stato ripagato. Quel trofeo alzato al cielo era non solo di quei giovani divertiti,ma soprattutto era di quei ragazzi che 113 anni prima scelsero l’onore alla regola. Il talento dimenticato: il grande Willem Van Hanegem Sono davvero tante stelle che hanno calcato il palcoscenico della Champions League (o Coppa dei Campioni) in questi 51 anni di storia. Puskas, Di Stefano, Platini, Rivera, Mazzola, Cruijff sono solo alcuni dei nomi che hanno reso grande il calcio nel mondo, eppure, in questa lunghissima lista di “pesi massimi” della coppa dei campioni,raramente viene citato il nome di uno dei più grandi talenti che la storia del calcio ricordi: quello di Willem”Wim” Van Hanegem, vincitore con il Feyenoord dell’edizione del 1970. Nato a Breskens il 20 febbraio 1944 e cresciuto nelle giovanili del Velox di Utrecht(l’odierno Fc Utrecht) passò al Feyenoord del leggendario Hernst Happel nell’estate del 1968 con il quale, dal 1969 al 1974 oltre alla coppa dei campioni vinse tre campionati, due coppe d’olanda,una coppa intercontinentale e una coppa uefa. Ribattezzato dai propri tifosi con il nomignolo “de Kromme”,“gobbo”, per via delle gambe storte, fu l’anima e l’orgoglio dei biancorossi di Rotterdam, grazie al suo immenso talento e a quel sinistro talmente fatato che Happel lo definiva magico. Quasi coetaneo del suo rivale di sempre Cruijff,visse nell’ombra di questi la propria carriera di calciatore, seppur anticipò in tutto e per tutto quello che poi verrà considerato uno dei più grandi calciatori della storia. Vero artefice della rivoluzione del calcio totale con il Feyenoord, Van Hanegem, riuscì a vincere tutto qualche anno prima dell’esplosione della generazione d’oro dei Lanceri di Amsterdam, guidando una formazione molto meno dotata sia tecnicamente che fisicamente. Il limite di questo meraviglioso talento però fu solo uno, un limite che gli è costato fama e gloria, un limite che lo ha quasi visto cancellato dai libri di storia: il carattere schivo e a volte fin troppo umile che non gli permise mai di farsi amare e idolatrare dalle grandi platee al di fuori della realtà di Rotterdam. Mentre Cruijff diventava un icona pop per milioni di ragazzi nel mondo con le sue invenzioni e le sue scappate non sempre felici ma dannatamente affascinanti, l’altro finita la partita se ne tornava a casa nel grigiore di Rotterdam come se quello che faceva in campo fosse un lavoro come un altro. Il compianto Sir Bobby Robson fu uno dei pochi che ricordava sempre il talento del mago del Feyenoord come “vero” a discapito dell’immenso Cruijff, che seppur geniale e unico nel suo ruolo, mancava secondo il vecchio Cavaliere entrato da poco nella Hall of Fame del calcio d’Inghilterra di una cosa che i riflettori non ti daranno mai….Il Cuore. Cuore cha aveva da vendere quel ragazzo non bello e con le gambe storte, ma un ragazzo che aveva la magia dentro. Una curiosità; non tutti sanno che Johan Cruijff nel 1983 all’età di 36 anni e ormai con qualche chilo in più ritenendo ridicola l’offerta di rinnovo da parte dell’Ajax, società che gli aveva dato tutto, se ne andò ai rivali del Feyenoord senza neanche dire grazie a quella gente che lo aveva sempre difeso a spada tratta e gli aveva voluto bene come a un figlio…forse il vecchio Bobby non aveva tutti i torti…no? La leggenda dei Busby’s Boys Monaco di Baviera, 16,04 del 6 febbraio 1958: il bimotore della British Airways completa le operazioni di rullaggio sulla pista dell’aeroporto e inizia a librarsi nell’aria. Solo pochi istanti in volo ed ecco: Il “lord Burleigh”, questo il nome dell’aereo, si incendia e scoppia in volo. La perizia della commissione d’inchiesta tedesca ricostruisce il fatto: “Al momento del decollo, il carrello non ancora del tutto rientrato ha urtato un gruppo di alberi e come conseguenza si ha avuto l’immediato divampare delle fiamme e il conseguente scoppio del bimotore”. I serbatoi pieni di benzina trasformarono l’aereo del grande Manchester United in un enorme torcia, portandosi via 8 campioni di una formazione straordinaria. Il velivolo era stato affittato dalla compagine inglese come “charter” per trasferire la squadra a Belgrado per disputare un match di coppa dei campioni con lo Stella Rossa e al seguito aveva oltre a tutto lo staff medico e sociale, una folta rappresentanza di giornalisti: la stessa identica tipologia di gente che viaggiava sul aereo del Grande Torino anch’esso tragicamente scomparso in incidente molto simile 9 anni prima a Superga. Lo United era una formazione giovanissima e costruita con cura e sapienza dal leggendario Matt Busby, che con poche sterline seppe disegnare una compagine di livello mondiale, capace di competere con le potenze dell’epoca: Milan e Real Madrid su tutti. Quel Manchester United era talmente rassomigliante al proprio “boss” che per tutti quei ragazzotti tanto determinati erano semplicemente i “Busby’s Boys”, “i ragazzi di Busby”. Per 8 di loro il sogno si spezzò quel pomeriggio: i terzini Roger Byrne e Geoff Bent; i mediani Edward Colman e Duncan Edwards; il centromediano Mark Jones; gli attaccanti William Whelam, irlandese, Tommy Taylor e David Pegg morirono sul colpo. I portieri Harry Gregg e Raymond Wood; il terzino Billy Foulkes; il mediano Jackie Blanchflower, nordirlandese, gli attaccanti Bobby Charlton, John Burry, Ken Morgans, Dennis Viollet, Albert Scanlon,oltre allo stesso Busby rimasero, in maniera piu o meno grave, feriti ma salvi. Tra gli altri passeggeri del volo che persero la vita nell’incidente ci fu anche l’ex portiere della nazionale britannica Frank Swift, eroe della compagine di sua maestà negli anni 40 e divenuto in seguito cronista sportivo. Le giornate successive alla sciagura furono all’insegna del cordoglio e del dolore. Il Manchester United era distrutto. La squadra che ancora oggi,a distanza di 50 anni detiene alcuni primati incredibili. il 10-0 inflitto all'Anderlecht nel '56; i 64 punti nella stagione 1956-'57; i 103 gol segnati nel '57-'58 e nel '58-'59; i 32 di Viollet (1959-'60); i titoli assoluti del '52, '56, '57, '65, '67. E a questi record, visto che è il più «Busby's Babe» di tutti, vanno aggiunti, sia i 198 gol segnati da Bobby Charlton in maglia rossa nel periodo '56-'73, sia le 106 presenze totalizzate nella nazionale britannica dallo stesso calciatore. Il vecchio Matt Busby dieci anni dopo la tragedia, e ottenuto il titolo dalla regina di “Sir” raccontò in un intervista commovente come fosse nata quella magnifica creatura: “In porta giocava Wood che comperammo dal Darlington per seimila sterline e cui chiedevamo di fare solo ciò che sapeva. Come terzini c'erano Bill Foulkes, un marcantonio che venne da noi dal St. Helens e che faceva coppia con l'aristocratico Roger Byrne, uno che si muoveva in campo come Nureyev sul palcoscenico ma contro il quale anche gente come Finmey e Mortensen non si era mai divertita. Questa, invece era la linea dei mediani: Eddie Coiman, lo stilista, a destra; il forte Duncan Edwards a sinistra e Mark Jones, il comandante, al centro. E, in seconda istanza, Jackie Blanchflower. In attacco, poi, c'erano Johnny Berry, che acquistammo dal Birmingham per 25000 sterline; Billy Whelan; Tommy Taylor, pagato 29999 sterline dal Burnley perché per noi il tetto delle 30000 sterline era insuperabile; Dennis Viollet e David Pegg” A questi naturalmente andavano aggiunti gli altri già in rosa e non di minor livello: gente come Bobby Charlton, Alex Dawson, Wilf McGuinness, Nobby Stiles, Nobby Lawton e Johnny Doherty. Ma ecco la leggenda rinascere. 1958-1968, dieci anni dopo la sciagura di Monaco lo United guidato sempre dal “grande vecchio” Matt Busby con in campo i superstiti e le nuove straordinarie leve,tra cui George Best e Dennis Law, tornò a splendere. Wembley, 29 Maggio 1968: Il Manchester guidato dal capitano Bobby Charlton vince la coppa dei campioni sul Benfica di Eusebio. E’ la fine di un incubo. Il grande Busby,uomo tutto di un pezzo e vero duro d’altri tempi, pianse al termine della finale…Quella coppa era non solo il risultato della forza d’animo e del coraggio di una intera città,quella coppa era anche di quegli 8 ragazzi che non poterono mai sollevarla al cielo, perché Dio li volle per se. 6 febbraio 1958 – 6 febbraio 2008,sono passati 50 anni dalla sciagura del «Lord Burleigh»,fuori dall’ Old Trafford,lo stadio del Manchester United, campeggia una statua. Sir Matt Busby veglia il gigante alle sue spalle, ribattezzato dal mondo intero come “Il teatro dei sogni”, perché quella squadra mostrò a tutti come tornare a sognare dopo la tragedia. Mostrò a tutti come realizzare l’impossibile. Matthias Sindelar: L’uomo che disse no alla svastica Per quanto possa sembrare banale, il calcio rimane un gioco, probabilmente, uno dei pochi veri linguaggi universali esistenti. Eppure questo magnifico gioco nel corso della storia è riuscito a trasmetterci emozioni, personaggi, storie che sono andate ben oltre la logica sportiva. Matthias Sindelar, probabilmente è uno degli uomini che hanno significato per la gente qualcosa in più che essere semplice idolo del gioco. Nato da una famiglia austriaca di origine ebraica il 10 febbraio 1903 in Moravia, in un piccolo paese di nome Kozlov, è ricordato oggi come uno dei più grandi centravanti ante guerra, al pari di Meazza. Data l’esile figura 1,75 per 70 chili scarsi, venne ribattezzato “carta velina”, ma a renderlo celebre furono le straordinarie doti tecniche; dribbling ubriacante e grande fiuto per il gol che gli valsero l’appellativo di “Mozart del Calcio”. Sindelar raggiunge l’apice della sua carriera negli anni trenta, nell’Austria oramai annessa alla Germania Nazista. E’ un trascinatore nato e con l’FK Austria(l’odierna Austria Vienna) vince due mitropa cup e con la nazionale Austriaca guidata da Hugo Meisl ottiene dodici vittorie, due pareggi e due sconfitte, realizzando un bottino di gol da record; ben 27 reti. Le cronache dell’epoca narrano imprese eccezionali ,come quella realizzata contro la grande Inghilterra, quando Sindelar partendo da centrocampo e saltando tutta la difesa, mise a sedere il portiere e appoggiò la palla in fondo al sacco. Le gesta di Sindelar fanno il giro d’Europa e molti club sono pronti a offrire a “carta velina” cifre astronomiche e un rifugio dalla persecuzione, ma il fuoriclasse preferisce rimanere nel suo club, anche se la pressione intorno agli ebrei inizia a farsi pesante. Adolf Hitler vedendo la forza della nazionale austriaca e in particolare di Sindelar, decise di creare una nazionale tedesca “allargata”, attingendo ai migliori talenti tedeschi, austriaci e cechi, e per celebrare questa unione organizzò un incontro amichevole. Sindelar,giocò una partita memorabile, mandando Hitler in estasi e monopolizzando l’attenzione della partita. Al termine della partita, a differenza degli altri atleti, e lasciando il pubblico sbigottito, si rifiutò di salutare il Fuhrer, ma andò sotto la tribuna d’onore con il pugno sinistro alzato. Da quel giorno, Sindelar si rifiutò sempre di vestire la maglia con la svastica, e i dirigenti del suo club lo epurarono per paura di subire ripercussioni dal governo. Verrà trovato morto in circostanze mai chiarite nel suo appartamento viennese il 23 gennaio 1939 assieme a Camilla Castagnola, una giovane milanese conosciuta pochi giorni prima. Facile pensare che si stato il fuhrer in persona a volerlo morto, ma come riportano alcuni ex compagni di squadra, intervistati dopo la guerra, fu Sindelar stesso che decise di togliersi la vita poiché non riusciva più a reggere ai soprusi del regime nei confronti della sua terra amata e nei confronti della popolazione ebraica. Oggi pensare che la politica possa intaccare il mondo del calcio è semplicemente raccapricciante, ma all’alba di una tragica epoca per l’Europa, il gesto di Sindelar mostra un impegno civile senza e una passione per la lotta per la libertà senza eguali nel mondo dello sport. Nella sua posizione privilegiata, egli avrebbe potuto scappare come tante altri personalità di spicco ed evitare la persecuzione razziale; ma è proprio qui che sta la grandezza del più grande calciatore austriaco di tutti i tempi. Egli con una dignità commuovente non seppe rinunciare al proprio dovere civile in quanto personalità pubblica e idolo delle folle, ma la cosa più importante è che come uomo non abdicò mai alla propria coscienza. Ogni anno il 23 gennaio, giorno della sua morte, una folla commossa si raduna sulla sua tomba nel cimitero di Vienna per rendere omaggio al più grande calciatore austriaco di tutti i tempi. Simbolo dello sport, ma soprattutto simbolo di umanità, quell’ umanità che il mondo del calcio non riesce più a trovare. Matthias Sindelar The Stanley Matthews final “Chi non c’era quel giorno ha perso uno spettacolo unico” cosi commentavano i cronisti che ebbero la fortuna e il privilegio di raccontare la partita che verrà ricordata per sempre come la finale di FA cup piu bella di tutti i tempi. In 136 di storia della competizione nessun’altra finale ebbe l’impatto di quella del 2 maggio 1953. La primavera di Londra era arrivata tiepida anche quell’anno, l’imponente impianto di Wembley era stato tirato a lucido per l’evento dell’anno. Mai come quell’anno la gente si accalcò ai botteghini in cerca di un biglietto, le cronache dell’epoca raccontano di persone in strada fino a notte fonda pur di accaparrarsi quel pezzetto di carta che valeva una stagione. Quel pomeriggio in tribuna d’onore al fianco di quella che un mese piu tardi diverrà la futura regina d’Inghilterra, Elisabetta II di Windsor sedeva un signore robusto con la bombetta sul capo e il sigaro d’ordinanza in mano; era Sir Winston Churchill, uno che di avvenimenti importanti se ne intendeva davvero. Ma perché tutta questa gente ad una partita di calcio? Il motivo era solo uno,tutti volevano vedere all’opera colui che verrà votato miglior calciatore inglese di tutti i tempi : Stanley Matthews. A 38 anni suonati il mito originario di Stoke si apprestava a disputare l’ennesima finale di una carriera clamorosamente ancora priva di successi. Il pubblico era tutto per lui. Era l’ultima occasione della carriera, ne erano consapevoli tutti sugli spalti, lo stesso Matthews a malapena nascondeva la tensione Il 7 piu famoso del regno unito, quel pomeriggio di maggio, sarebbe rimasto impresso indelebile nella memoria della gente. Il suo Blackpool era arrivato in finale per la terza volta in sei anni, ma nei due precedenti furono solo dolori per gli arancioni di “Stan”. Due sconfitte su due, una nel 1948 subita dal Manchester United, l’altra nel 1951 da parte del Newcastle. Il volto scavato dalle rughe, la stempiatura sempre piu evidente e quel fisico così esile lo rendono ancora piu vecchio di quanto non fosse alla folla, ma quel giorno gli acciacchi del tempo non facevano per lui. L’avversario di turno era il temibile Bolton Wanderers, formazione solida e compatta in grado di sbaragliare fino a quel momento la concorrenza di tutte le altre compagini senza troppa fatica e motivata come non mai a rovinare per l’ennesima volta la festa a “the wizard”,”lo stregone”. La partita si rivela durissima per gli arancioni, a un quarto d’ora dal termine dell’incontro uno straordinario Bolton sta mettendo sotto Matthews e company con un pesante ma meritato 3-1. Lo stregone pare essere al capolinea della sua carriera. Troppo lento e fuori forma viene spesso ridicolizzato dal ventenne terzino che gli si avventa contro con la furia di una tigre. La magia sembra essersi spenta definitivamente anche per il mago, e il pubblico sembra ammutolirsi sempre piu con i minuti che scorrevano inesorabili. Kronos si stava prendendo quello che per tutti era stato il più grande, il Blackpool era in balia dell’avversario. Quando ecco un miracolo. All’ennesimo intervento duro sulle caviglie,Matthews si ferma boccheggiando a bordo campo,il capo chino e le mani sui fianchi sembrano presagire una resa incondizionata, ma il pubblico inizia ad applaudire. Troppo importante era stato il contributo di quel piccolo uomo troppo leggero per il calcio moderno per essere abbandonato nel momento del bisogno. La gente lo acclama come se nulla fosse accaduto in campo. Matthews alza la testa, si sistema i calzettoni e torna in campo correndo. Piccoli passi brevi da ala vera e quando il compagno di squadra gli serve il primo pallone buono, ecco la magia. L’aitante terzino si fionda ancora sul piccolo mago,ma questa volta in campo non vi era piu un vecchio ex calciatore, lo stregone era tornato, dribbling secco e avversario messo a sedere. L’azione inizia a diventare mostruosa. Con passo rapido Matthews punta un secondo avversario lasciandolo sul posto, accelera e si dirige verso la porta. La progressione è devastante, gli avversari lo inseguono impotenti, ma lo bloccano costringendolo ad allargarsi sulla fascia. Lo stregone fa una magia facendo perno sul sinistro e salta i due marcatori, alza la testa e crossa in mezzo. Mortensen smarcato non può sbagliare: 3 a 2. Wembley torna a ruggire. Neanche il tempo di riordinare le idee che la palla passa ancora per i piedi di “Stan”, che replica l’azione appena conclusa. La danza che mette in scena è maestosa, il suo giovane marcatore non riesce più a controllarlo e lo stende al limite dell’area di rigore. L’arbitro assegna la punizione, la trasformazione è affidata a Mortensen che non sbaglia. 3 a 3. Wembley diventa una bolgia. L’entusiasmo del pubblico è tale che la polizia fatica a tenere la gente sugli spalti. La partita sta volgendo al termine, tutti attendono il triplice fischio da parte dell’arbitro e i conseguenti tempi supplementari, ma lo show non è ancora finito. A pochi secondi dal termine dell’incontro, Matthews strappa un pallone a metà campo ad un avversario ormai esausto, la scambia con un compagno e si invola verso la porta. Wembley è tutto in piedi in trepidazione, Matthews sembra una libellula che plana sull’acqua, salta l’ultimo difensore che gli si pone davanti e punta il portiere che gli si sta fiondando incontro. Un urlo si alza dalle platee quando lo stregone controlla per l’ultima volta la sfera e la cede al centro per lo smarcato Perry che segnerà il gol più importante del match. E’ 4 a 3. Al termine dell’incontro lo stadio tributa Matthews con una commovente standing ovation,alla quale si uniscono con grande ammirazione anche gli avversari appena sconfitti. Matthews è visibilmente commosso quando inizia a salire i 107 gradini che dividono il campo dalla tribuna d’onore. Elisabetta II consegnandoli il trofeo appena conquistato gli disse: “Grazie signor Matthews, non seguo molto il calcio, ma oggi lei mi ha proprio fatto divertire” A questo punto un compiaciuto e burbero Churchill si alza in piedi e togliendosi la bombetta e passando il sigaro nella mano sinistra si avvicina ad un Matthews incredulo. La mano destra afferra quella dello stregone: “non ci credevo,ma avevano ragione loro, siete davvero uno stregone Mr. Matthews!” sorrise ad uno stremato ma raggiante Matthews. Tre anni dopo quella indimenticabile finale,un ormai quarantunenne Matthews, vincerà il pallone d’oro come miglior calciatore europeo. Dopo il suo ritiro avvenuto alla clamorosa età di 53 anni,quella giovane principessa ormai regina ricordandosi delle gesta del numero 7 piu forte di tutti i tempi, gli riserverà l’onorificenza massima nominandolo baronetto. Il 23 febbraio 2000 colui che la gente definiva come “the magician” si spense nel suo letto nella città natale di Stoke. Un intera nazione pianse non solo il calciatore che tanto fece sognare,pianse un uomo elegante e gentile, un signore che in campo incantava e che fuori insegnava. William McCrum:l’uomo di rigore Troppo scarso? Troppo impacciato col pallone? Vuoi giocare?...Vai in porta! È cosi che è iniziata per molti l’avventura tra i pali. Niente tenerezza,ne tantomeno vocazione ma solo necessità. Molti grandi hanno iniziato cosi e tanti cha hanno speso la loro vita a difesa di quel rettangolo fatto di rete e legno sanno cosa vuol dire essere al centro dell’attenzione. In campo gli altri dieci si aiutano a vicenda,possono sopperire alle proprie lacune contando sul compagno, posso essere liberi di testa e sempre protagonisti del gioco. Ma se sei un portiere, le cose cambiano, eccome. Per novanta minuti puoi startene in disparte ad osservare gli altri che sudano, corrono, imprecano ma poi…arriva il tuo momento. Un istante e la partita cambia,la tua giornata cambia, la tua vita cambia. Sei il paladino della porta, il suo custode della tensione ma sbagli i fischi sono tutti tuoi,non si scappa. E’ la storia di tutti, grandi o piccoli che siano. E’ la storia di un ragazzo di Milford, un paesino a 7 0km da Belfast, è la storia di un portiere come tanti,è la storia di William McCrum, l’inventore del calcio di rigore. Figlio di una famiglia benestante e proprietario di un mulino, il giovane William si appassionò da sin da ragazzino a quel nuovo gioco arrivato dalla vicina ( e non proprio amata) Inghilterra. Nel tempo libero il ragazzo di Milford giocava come portiere nel Milford Everton, la squadra del paese,e la sua passione per il ruolo il gioco lo portò a un idea che avrebbe cambiato il mondo del calcio. Era il 1885 quando McCrum , stanco, delle entrate scomposte mai sanzionate adeguatamente dei compagni di squadra e degli avversari, decise di cambiare le cose. All’ennesimo calcione e all’ennesima gamba rotta,un sempre più preoccupato McCrum decise di sanzionare il fallo avvenuto in area con un calcio piazzato. 11 metri dalla porta e nessuno intorno all’esecutore. L’idea fu rivoluzionaria. L’eco dell’invenzione di McCrum si sparse di paese in paese, fino a quando il giovane irlandese riuscì a convincere la Irish Football Association che a sua volta ebbe il nulla osta dall’ International Football association board ad adottare la stessa sanzione. Era il 2 giugno 1891 quando il “penalty” entrò tra mille polemiche a far parte della pratica calcistica. Le critiche furono talmente feroci in tutto il mondo, che fecero scomodare addirittura il premio nobel per la letteratura Camillo Josè Cela che definì il “penalty” con queste parole: “il rigore è la pena di morte del calcio”. Però!niente male essere insultato anche da un premio Nobel. Da allora la vita di McCrum non fu facile, il peso delle critiche e la caduta nel tunnel del gioco d’azzardo lo portarono ad una esistenza costellata dalla tristezza e dal dolore che lo porteranno alla morte in solitudine nel 1932 tra l’indifferenza generale. Cala il silenzio. 1998. 56 anni dalla morte di McCrum e 113 dalla nascita della sua invenzione, ed ecco all’improvviso il nome di McCrum torna a farsi sentire. In quel campo di Milford, dove per la prima volta fu calciato il “penalty”, stanno per sorgere 64 mini appartamenti,su volere del consiglio comunale. Del vecchio campo non vi è piu traccia già da anni, solo qualche pecora che bruca. La scelta sembra presa senza problemi, quando accade l’incredibile. Il genio e ribelle George Best,il “Pelè bianco”, e il grande centravanti Gary Lineker decisero di fondare un comitato a difesa di quel campo. Troppo importante perché vengano costruiti appartamenti. Il fascino dei grandi nomi e una pubblicità sparata in tutto il regno unito, fecero il resto. Oggi,in quello che una volta fu il campo di mille battaglie, sorge una statua. La figura di William McCrum sovrasta il verde prato d’Irlanda. Ci sono voluti più di 50 anni perché qualcuno volesse ripristinare il nome di quel ragazzo che ebbe il merito di inventare una delle regole più discusse, ma più importanti della storia del calcio. Certo Il premio Nobel è un onorificenza impareggiabile, ma se si pensa che la ricerca della Fifa del 1981 dimostra come dall’introduzione del “penalty” gli incidenti gravi o addirittura mortali (si calcola che 6 tra portieri e attaccanti morirono in campo) sono arrivati a ridursi quasi a zero…beh, forse ne è valsa la pena caro William. Non sarai stato un premio nobel e tanto meno uno scrittore di successo, ma ti lascio con una domanda…vale più una medaglia puntata sul petto o il rispetto per l’avversario che ti sta davanti?credo che Best avesse la risposta. La squadra del Milford Everton (1870). William McCrum è al centro, il secondo da sinistra. Indice Highbury Way You ll’ never walk alone: la leggenda di Bill Shankley 24 anni insieme: L’insegnamento di Dario Gradi I leoni di Highbury James Spensley: Doc Football. 6 agosto 1942: morirono liberi Questione d’onore Il talento dimenticato: il grande Willem Van Hanegem La leggenda dei Busby’s Boys Matthias Sindelar: L’uomo che disse no alla svastica The Stanley Matthews final William McCrum:l’uomo di rigore