MISCELLANEA 2008 2009 - Liceo Ginnasio Statale Orazio

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MISCELLANEA 2008 2009 - Liceo Ginnasio Statale Orazio
LICEO CLASSICO “ORAZIO”
ROMA
Miscellanea
di Saggi e Ricerche
BOTTONI - CARINI - CASTELLAN - DE STEFANO
FIERRO - GIANNÌ - MAIONE - MARCHEI - PERETTI - PESCETELLI
ROBUSTELLI - VACCHIANO - VALCAVI
a cura di Mario Carini
N. 6
ANNO SCOLASTICO
2008-2009
Stampa: Tipolito Istituto Salesiano Pio XI
Via Umbertide, 11 - 00181 Roma
Tel. 06.7827819 - E-mail: [email protected]
Finito di stampare: Aprile 2010
INDICE
Introduzione
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5
SEZIONE DOCENTI
MARIO CARINI, Cleopatra e le altre: la rappresentazione di figure femminili in opposizione
al dominio romano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13
LILLA CONSONI - ANNA MARIA ROBUSTELLI, Medusa mostro-madre-mistero mitopoietico? . . . 25
AMITO VACCHIANO, Zaccaria il papa a cui nessuno sapeva resistere
..........................
35
SEZIONE DIDATTICA
(collaborazioni degli studenti)
Prof.ssa Licia Fierro, Introduzione ai progetti realizzati dagli alunni di II B e III B nell’anno
scolastico 2008-2009 (Progetto “Roma per vivere, Roma per pensare”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51
Natura fisica e umana morale nel mondo grecoromano e in alcune moderne rielaborazioni,
progetto realizzato dalla classe II B (anno scolastico 2008-2009), coordinato dalla
Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione della Prof.ssa Alda Giannì . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 54
Il concetto di Umanità: Natura, Tradizione, Rivoluzione, progetto realizzato dalla classe III B
(anno scolastico 2008-2009), coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la collaborazione
della Prof.ssa Paola Peretti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89
Prof.sse Paola Maione - Stefania Sorrenti, Progetto speciale “La scuola adotta un monumento”
nel cinquecentesimo anniversario del Liceo Classico Orazio (anno scolastico 2008-2009) 116
Prof. Stefano De Stefano, Il Liceo Classico Orazio alla XV edizione delle Olimpiadi di Filosofia 124
Attività di ricerca sull’equazione dell’iperbole equilatera riferita agli sintoti, ricerca dello
studente Francesco Lancellotti (III C) presentata dalla Prof.ssa Elisa Valcavi . . . . . . . . . . . . 128
Miscellanea di matematica, a cura del Prof. Maurizio Castellan
Prof. Marco Pescetelli, Lezione sul genere poetico
....................................
132
...................................................
138
Clessidra, racconto di Violetta Tulelli (classe V H) presentato dalla Prof.ssa Maria Marchei
.....
148
L’inferno bianco di mio nonno, Una testimonianza di guerra di Umberto Tadiello a cura della
Dott.ssa Susanna Tadiello . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151
Prof.ssa Anna Paola Bottoni, L’utilizzazione in classe delle fonti memorialistiche: un lavoro
di gruppo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 174
Prof. Mario Carini, Esercizi di scrittura creativa per una classe del biennio
......................
178
INTRODUZIONE
In apertura del sesto volume della Miscellanea di saggi e ricerche, relativo all’anno scolastico
2008-2009, è per noi motivo di particolare soddisfazione menzionare l’alto riconoscimento che il
Presidente della Repubblica ha voluto destinare al nostro Liceo Orazio, in occasione del cinquantesimo
anniversario della sua storia (1959-2009). La medaglia della Presidenza della Repubblica, che riproduciamo di seguito assieme alla lettera di accompagnamento indirizzata dal Segretario Generale della
Presidenza al nostro attuale Dirigente Scolastico, Prof. Massimo Bonciolini, giunge a coronamento di
un lungo e costante impegno speso dai docenti nella educazione di generazioni di giovani che si sono
succeduti sui banchi delle nostre aule. Un impegno che si è tradotto in molteplici ed encomiabili attività, alcune delle quali ormai tradizionali: i cicli di conferenze su temi di approfondimento culturale
che vedono ogni anno come ospiti della scuola, invitati a relazionare e a dialogare con gli studenti, i
più importanti esponenti della cultura e delle istituzioni del nostro Paese, le pubblicazioni, le lusinghiere
partecipazioni dei nostri studenti a concorsi e competizioni di carattere nazionale e internazionale,
le attività legate ai progetti e ai laboratori, gli scambi culturali, le attività sportive, sono gli aspetti
peculiari di una offerta formativa che poche altre scuole possono vantare e che hanno qualificato la
nostra scuola a livello cittadino. Il prestigioso riconoscimento del Capo dello Stato premia e incoraggia
il nostro lavoro, ed insieme è un auspicio che il futuro possa essere, come sempre, ricco di soddisfazioni
e ulteriori riconoscimenti per la nostra comunità scolastica.
Quest’anno la scuola ha voluto celebrare le sue memorie sull’onda dei ricordi, riunendo in una
ideale continuità di generazioni ex alunni (alcuni dei quali divenuti personaggi di rilevanza nazionale,
come il sindacalista Guglielmo Epifani e il giornalista Oliviero Beha) ed ex docenti nella serata
culminante delle attività per il cinquantenario, ossia la grande festa del 19 dicembre u.s., una serata che
ha avvolto tutti i partecipanti in una atmosfera di affetto e forse nostalgico rimpianto, come l’aveva
immaginata l’ex Preside Franza, “con gli attuali studenti a fare gli onori di casa ai loro padri... come
in una immaginaria staffetta”. Ma il recupero della memoria può avvenire in modo altrettanto gratificante anche nella coscienza dei singoli. Scrivevamo, in uno dei precedenti volumi della Miscellanea
che “la memoria del passato è, forse, l’eredità più importante lasciata alle nuove generazioni da chi ha
già percorso o sta terminando di percorrere il difficile cammino della vita”,1 esortando a non sprecare
i ricordi di chi è nato prima di noi, a non lasciare che l’incuria distrugga per sempre esperienze umane che possono fornire esempi di valori morali e impegno civile. Quell’esortazione nasceva non solo
da ricordi familiari, ma anche dall’aver avuto la fortuna di leggere un denso e bellissimo libro di ricordi
della seconda guerra mondiale, purtroppo stampato in poche copie, a cui l’autore ci lasciò apporre
una nostra, speriamo non indegna, introduzione: Vecchie cicatrici invisibili, ricordi della campagna
di Albania compilati dal medico e umanista Alberto De Fabritiis.2 Vorremmo qui citare la parte
conclusiva della prefazione del libro, nella quale l’autore dà il senso del suo pubblicare un diario che
rievoca vicende lontane, a distanza di cinquant’anni dai fatti, e chiarisce il valore di ogni prezioso
recupero della memoria, come un dono di noi che facciamo agli altri. Che cosa lo spinse, infatti, a scrivere un libro sulla guerra? Risponde l’autore: “Il pensiero che i miei genitori avrebbero avuto notizie
della mia scomparsa da un telegramma del Ministero della Guerra e tutto sarebbe finito lì. Volevo
invece che qualcosa di me restasse loro, che avessero il conforto sia pure minimo di sapere come erano
andate le cose, di conoscere i pericoli, i disagi, le sofferenze a cui ero andato incontro prima di
soccombere. Qualcuno a guerra finita avrebbe bussato alla loro porta (spesso immaginavo la scena) e
avrebbe loro consegnato questo mio diario quasi scusandosi di non poter fare di più. Avrebbero letto
il mio racconto come ascoltandolo dalla mia voce, avrebbero rivissuto con me le mie avventure e
disavventure, era come se avessi loro regalato un periodo della mia vita destinato altrimenti a restare
nell’ombra”.3 In questo sesto volume abbiamo pertanto dato spazio a un lavoro memorialistico sulla
seconda guerra mondiale, che ci è venuto tra le mani in modo del tutto casuale, durante una vacanza
1
2
3
In Miscellanea di Saggi e Ricerche, n. 3, anno scolastico 2005-2006, p. 102.
Aldefa (Alberto De Fabritiis), Vecchie cicatrici invisibili, Demian Edizioni, Teramo 1995.
Aldefa, cit., p. 18.
– 5 –
ad Arsago Seprio (Va) la scorsa estate. Si tratta delle memorie inedite di un anziano reduce della
seconda guerra mondiale, Umberto Tadiello, che combatté tra le file della divisione Tridentina, sul
fronte russo nel 1942, e partecipò alla terribile ritirata dell’armata italiana (ARMIR) dal Don. Riuscito
a superare l’accerchiamento dei russi, dopo l’8 settembre fu fatto prigioniero dai tedeschi e condotto
in un lager, da cui venne liberato grazie agli americani soltanto nel giugno 1945. È un documento
assai drammatico, che rievoca la tragica quotidianità della guerra con il suo carico di lutti e sofferenze,
che, assieme al Tadiello, un’intera generazione di italiani dovette patire per volontà del Duce. Abbiamo
ritenuto utile presentare nella “Sezione didattica” questa narrazione, raccolta dalla nipote del Tadiello,
la Dott.ssa Susanna Tadiello (che ringraziamo per averci concesso cortesemente di pubblicare il
memoriale), oltre che per l’interesse che essa presenta di per sé, anche perché costituisce un validissimo
e sempre attuale insegnamento, oltre che monito, alle giovani generazioni sull’inutile orrore della
guerra. Siamo sicuri che anche i lettori sapranno apprezzare il valore di questa preziosa testimonianza
storica, come abbiamo fatto noi.
Anche questo sesto volume ha conservato la tradizionale bipartizione in “Sezione docenti” e
“Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)”. La “Sezione docenti” comprende i seguenti lavori:
il nostro breve saggio Cleopatra e le altre: la rappresentazione di figure femminili in opposizione al
dominio romano, seguito da quelli della scrittrice Lilla Consoni e della Prof.ssa Anna Maria Robustelli,
(scrittrice e poetessa, già docente nel nostro istituto) Medusa mostro-madre-mistero mitopoietico?, e
del Prof. Amito Vacchiano, Zaccaria il papa a cui nessuno sapeva resistere.
La “Sezione didattica (collaborazioni degli studenti)”, quest’anno molto nutrita, comprende i
seguenti lavori: l’introduzione della Prof.ssa Licia Fierro ai progetti realizzati dagli alunni di II e III B
nell’anno scolastico 2008-2009 (Progetto “Roma per vivere, Roma per pensare”); la ricerca Natura
fisica e natura morale nel mondo grecoromano e in alcune moderne rielaborazioni, progetto realizzato
dalla classe II B (anno scolastico 2008-2009), coordinato dalla Prof.ssa Licia Fierro, con la
collaborazione della Prof.ssa Alda Giannì; la ricerca Il concetto di Umanità: Natura, Tradizione,
Rivoluzione, progetto realizzato dalla classe III B (anno scolastico 2008-2009), coordinato dalla Prof.ssa
Licia Fierro, con la collaborazione della Prof.ssa Paola Peretti. Segue la ricerca coordinata dalle Prof.sse
Maria Paola Maione e Stefania Sorrenti, Progetto speciale “La scuola adotta un monumento” nel
cinquantesimo anniversario del Liceo Classico Orazio, anno scolastico 2008-2009 e la relazione del
Prof. Stefano De Stefano, Il Liceo Orazio alla XV edizione delle Olimpiadi di Filosofia. Seguono,
quindi, due lavori scientifici: l’Attività di ricerca sull’equazione dell’iperbole equilatera riferita agli
asintoti, dello studente Francesco Lancellotti (III C) presentata dalla Prof.ssa Elisa Valcavi, e la ormai
tradizionale Miscellanea di matematica a cura del Prof. Maurizio Castellan. A essi fa seguito la Lezione
sul genere poetico del Prof. Marco Pescetelli. È poi la volta del racconto Clessidra, di Violetta Tulelli,
alunna della classe V H, che ha ottenuto la menzione di merito nel concorso letterario La scienza narrata
- Esperimenti di scrittura creativa: il racconto è presentato dalla Prof.ssa Maria Marchei. Quindi
appaiono il memoriale L’inferno bianco di mio nonno, una testimonianza di guerra di Umberto Tadiello,
e il lavoro della Prof.ssa Anna Paola Bottoni, L’utilizzazione in classe delle fonti memorialistiche:
un lavoro di gruppo, che contiene un commento al memoriale elaborato dai suoi alunni (classe IV L).
Concludono la sezione i nostri Esercizi di scrittura creativa per una classe del biennio.
A conclusione di questa introduzione, ricordando che ancora una volta la rivista “Nuova
Secondaria” ci ha onorato di una sua lusinghiera recensione,4 a testimonianza della qualità del nostro
lavoro, vogliamo ringraziare il Dirigente Scolastico Prof. Massimo Bonciolini, che, come i suoi
precedenti Colleghi, ha consentito la prosecuzione di questa iniziativa editoriale, e tutti i collaboratori
del presente numero. Cogliamo altresì l’occasione per ricordare il precedente D.S. Prof. Gregorio
Franza, che proprio con l’anno scolastico 2008-2009 ha terminato il suo servizio nella scuola. Non
abbiamo bisogno di presentare il Preside Franza: quanti lo hanno conosciuto ne ricordano l’infaticabile
dedizione alla scuola, la passione per le attività culturali dell’Istituto, e insieme l’umanità, la sensibilità
e la grande signorilità che lo distinguevano. A lui rivolgiamo un grato, deferente e affettuoso saluto.
Roma, 22 febbraio 2010
4
Mario Carini
“Nuova Secondaria”, n. 6, 15 febbraio 2010, p. 109.
– 6 –
Il Segretario Generale
della Presidenza della Repubblica
Gentile Professore,
ho il piacere di trasmetterle l’unita medaglia che il Capo dello Stato ha
voluto destinare, quale suo premio di rappresentanza, alle iniziative promosse
dal Liceo Ginnasio Statale “Orazio” in occasione del cinquantesimo anniversario
di attività.
Il riconoscimento conferma l’apprezzamento del Presidente della
Repubblica per il meritorio impegno dell’istituto scolastico da lei diretto
nell’offrire un percorso educativo, che, nei vari ambiti disciplinari, si propone di
contribuire alla formazione umana, culturale e civile delle nuove generazioni,
trasmettendo loro passione per lo studio e per la conoscenza e, al tempo stesso,
stimolando la crescita di una matura consapevolezza di quei valori e principi sui
quali si fonda la Costituzione repubblicana.
In questo spirito, il Presidente Napolitano invia a lei, ai docenti, al personale
tutto della scuola, agli studenti e a tutti i presenti un partecipe saluto e un augurio
di buon lavoro, cui unisco i miei personali.
Prof. Massimo Bonciolini
Dirigente scolastico del
Liceo Ginnasio statale “Orazio”
Via Alberto Savino, 40
00141 ROMA
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Sezione docenti
MARIO CARINI
Cleopatra e le altre:
la rappresentazione di figure femminili
in opposizione al dominio romano1
Tra i documenti letterari, che assumono importanza anche per lo storico impegnato
nello studiare le cause e le modalità del complesso passaggio dalla repubblica al principato
augusteo, non può essere non ricordato il celeberrimo trentasettesimo carme dal primo libro
delle Odi di Orazio, scritto per celebrare la morte di Cleopatra, regina d’Egitto, avvenuta
all’indomani della vittoria della flotta di Ottaviano ad Azio (2 settembre del 31 a.C.; il
suicidio della regina d’Egitto seguì pochi mesi dopo, nell’agosto del 30, ad Alessandria).
Il famoso inizio del carme, quella sorta di grido gioioso, Nunc est bibendum, nunc pede
libero / pulsanda tellus, che riecheggia l’altrettanto famosa ode di Alceo per la morte del
tiranno Mirsilo, e vuol rappresentare il sollievo per l’auspicata cessazione di un lungo e doloroso incubo, evoca la gioia che proruppe irrefrenabile nel cuore dei romani quando ebbero
finalmente la certezza che, con la morte dell’ultima grande nemica di Roma, nulla avrebbe
più potuto turbare il desiderio di pace che da molti anni covava negli animi e che soltanto
Ottaviano, il futuro Augusto, avrebbe potuto realizzare. Troppi anni erano durate le guerre
civili che avevano insanguinato la città, diviso il corpo civico e provocato tanti lutti nelle
famiglie romane: cento anni, praticamente, interrotti da brevi periodi di intermezzo. Una
lunga sequela di lotte che ha origine dallo sfortunato tentativo di riforma agraria di Tiberio
Gracco (133 a.C.), il coraggioso tribuno della plebe vittima del suo disegno di rivitalizzare
la depauperata classe dei piccoli proprietari terrieri e di rigenerare l’esercito romano, che
proprio nei contingenti di contadini-soldati aveva il suo nerbo, e giunge fino al secondo triumvirato e allo scontro finale tra Ottaviano e Antonio, passando per la vicenda di Caio Mario,
la repressione del movimento del tribuno Apuleio Saturnino, la dittatura di Silla e le stragi dei
seguaci di Mario, l’accordo tra Cesare, Pompeo e Crasso, le violenze scatenate dalle bande
di Clodio e di Milone a Roma, lo scontro fra Cesare e Pompeo, la dittatura e la morte di
Cesare. Tutte vicende contrassegnate da scontri che avevano visto soldati romani combattere contro altri soldati romani, con i medesimi simboli sulle insegne: la battaglia di Porta Collina dell’84 a.C. fra i seguaci di Cinna e le truppe di Silla, quella di Farsalo del 48 tra Cesare
e Pompeo, quelle di Tapso e Munda ove Cesare affrontò gli ultimi pompeiani, e poi la battaglia di Modena nell’aprile del 43, tra l’esercito consolare di Irzio e Pansa (a cui si aggiunsero
le truppe di Ottaviano, che allora Cicerone sperava di ridurre a docile strumento della nobilitas senatoria) e quello di Antonio e Lepido, quella di Filippi dell’ottobre del 42, tra i secondi
triumviri e i cesaricidi, e poi la guerra di Perugia (41 a.C.), che vide Ottaviano contro Fulvia,
moglie di Marco Antonio, e suo fratello Lucio, e quella navale di Nàuloco, fra Ottaviano e
Sesto Pompeo, figlio del primo triumviro e potente capo della flotta romana. Un lungo elenco
(a cui bisogna aggiungere anche i massacri, gli esili, le proscrizioni e le spoliazioni che colpirono tanti inermi cittadini) chiuso finalmente dalla battaglia di Azio, che virtualmente apre
il periodo della pax Augusta.
1 Ampie parti di questo testo sono state oggetto di una relazione tenuta il giorno 19 dicembre 2009 nella sede di
Via Isola Bella, nell’ambito delle iniziative intraprese per celebrare il Cinquantenario del Liceo Orazio.
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Con la vittoria di Azio, Ottaviano ottenne un duplice successo definitivo contro chi metteva in dubbio lo stabilirsi del suo potere supremo: contro, anzitutto, Antonio, l’antico sodale
sopravvissuto al patto dei tre Sullae discipuli (come argutamente Giovenale volle chiamare
i tre secondi triumviri, Ottaviano, Antonio e Lepido, alludendo alle ambiguità che rendevano
assai precario quell’accordo per la “lottizzazione” del potere),2 ma soprattutto contro la donna
che ispirava e guidava i progetti di Antonio, ossia colei che forse fu la più pericolosa nemica
di Roma dopo Annibale: Cleopatra, regina d’Egitto e figlia di Tolomeo XII Aulete.
Andata al potere all’età di soli diciott’anni, nel 51 a.C., già sposa di suo fratello Tolomeo
XIII e amante di Cesare (da cui aveva avuto nel 47 a.C. un figlio, Tolomeo Cesare, ribattezzato dal popolo di Alessandria Cesarione), quindi amante di Antonio (a cui aveva dato tre figli,
i due gemelli Cleopatra Selene e Alessandro Elios, nati nel 40, e poi Tolomeo Filadelfo, nel
36), Cleopatra si era rivelata un’abilissima calcolatrice capace di concepire un astuto disegno
politico, tanto vantaggioso per lei quanto terribile per Roma. Tutto aveva osato pur di attirare
a sé i signori di Roma, troppo potenti per lei. Verso Antonio aveva dato fondo a tutte le arti
della seduzione per stupire e affascinare irresistibilmente il rozzo triumviro ed ex luogotenente
di Cesare. Emblematico il loro primo incontro, nel 41. Venuto in Oriente a chiederle conto
delle truppe mandate in aiuto, a Filippi, al cesaricida Cassio, Cleopatra, che si era fatta molto
desiderare e aveva accettato di incontrarlo solo dopo un lungo scambio epistolare, preparò
l’incontro con Antonio allestendo un vero spettacolo di forme, colori, suoni e aromi.
L’incontro fatale avvenne sul fiume Cidno, presso Tarso in Cilicia. La regina d’Egitto
ideò un arrivo spettacolare, presentandosi nelle forme di una Afrodite Anadiomene su un
battello dalla prua dorata – è Plutarco che ci ha lasciato la narrazione dell’evento3 –, con le
vele purpuree spiegate, mentre i rematori vogavano con remi d’argento al suono del flauto e
delle cetre. Stava sdraiata sotto un padiglione ricamato d’oro, ornata come appare Afrodite
nei dipinti, mentre fanciulli simili agli Amori dei quadri le facevano vento da una parte e
dall’altra. Le più belle tra le sue ancelle, vestite da Nereidi e Grazie, stavano chi al timone
chi alle funi. Il meraviglioso aroma delle essenze che ardevano in più punti profumava
le sponde. Così la regina, allora ventottenne, seppe avvincere a sé il più anziano generale
(Antonio aveva allora quarantadue anni), la cui fama in Oriente cresceva giorno dopo giorno.
Si sa cosa avvenne dopo: Antonio invitò Cleopatra a cena, ma fu la regina a pretendere e
ottenere che l’arrogante romano andasse sul suo battello, ove gli fu offerto un abbondante
e lussuoso banchetto, illuminato da migliaia di fiaccole disposte a formare artistiche figure
di cerchi e quadrati.
Antonio, che peraltro aveva bisogno dell’aiuto finanziario di Cleopatra per allestire la
sua campagna militare contro i Parti, sperando di ripetere i successi di Cesare in Gallia e di
vendicare al contempo la sconfitta di Crasso a Carre nel 53 a.C., cadde nella voluttuosa rete
e restò irresistibilmente sedotto. Da allora, visse ad Alessandria la sua “vita inimitabile”,
come la chiama Plutarco, all’insegna di feste e piaceri, con al fianco la regina d’Egitto che
non lo lasciava mai da solo un momento e che era divenuta l’inseparabile compagna di
bagordi e divertimenti più o meno innocenti.4 Ma Cleopatra alle spalle dell’ex triumviro,
Iuv. 2,28.
Plutarco, Vita di Antonio 26.
4 Rappresenta bene il carattere di Antonio, dominato da un’ossessiva ricerca del piacere unita a una pressoché
totale indifferenza per l’arte e la cultura il von Wertheimer (Oscar von Wertheimer, Cleopatra, trad. di Ervino Pocar,
dall’Oglio Editore, Milano 1974, pp. 178-180, che individua nel legame sentimentale di Antonio la fonte della potenza
di Cleopatra). Con grande scandalo per i Romani (che la propaganda di Ottaviano aveva amplificato), Cleopatra aveva
legato a sé il triumviro diventando la sua compagna nel gioco dei dadi, nella caccia, negli esercizi militari, nei vagabondaggi notturni per le vie di Alessandria (Plutarco, Vita di Antonio 29).
2
3
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lentamente ma inevitabilmente esautorato e screditato da Ottaviano, covava un progetto tanto
spregiudicato quanto esiziale per Roma: diventare lei la regina dell’orbis Romanus e dunque
la padrona del mondo, una volta che Antonio avesse unificato il potere nelle sue mani, ora
gestito in condominio con il figlio adottivo di Cesare (mentre il terzo triumviro, Marco Emilio
Lepido, era stato ridotto alla posizione marginale di pontifex maximus). Una regina che
avrebbe comandato sul regno avendo come sede non più Roma, ma Alessandria, la città che
le era assai più cara – vi era nata – e da cui non intendeva spostarsi. Solo così, ci sembra, può
giustificarsi la ragione per cui Antonio procedette alle famose “donazioni di Alessandria”,
all’indomani della vittoria sugli Armeni nel 34 a.C. Dopo i festeggiamenti del trionfo armeno,
infatti, Antonio aveva fatto pubblicamente donazione dei territori conquistati da lui e di quelli
dipendenti dall’Egitto ai tre figli avuti da Cleopatra e a quello di Cleopatra e Cesare, Cesarione. Cleopatra e Cesarione ricevettero l’Egitto, la Celesiria e Cipro, Alessandro Elios
l’Armenia, la Media e il regno dei Parti, allorché fosse stato conquistato, Cleopatra Selene
la Libia e la Cirenaica, Tolomeo Filadelfo la Siria settentrionale, la Fenicia e la Cilicia. Tutti
questi territori, però, finirono per essere gestiti da Cleopatra, che venne a trovarsi nelle mani
un vasto regno orientale. Chi può dire che Cleopatra non abbia allora concepito anche l’idea
di impadronirsi di Roma, diventando così signora del mondo? La capitale del regno d’Egitto,
la più fiorente città dell’Ellenismo, insuperato modello di centro culturale con le prestigiosissime istituzioni della Biblioteca (distrutta peraltro nell’incendio del 48 a.C., allorché
Alessandria divenne teatro dello scontro fra le truppe di Cesare e quelle di Tolomeo XIII) e
del Museo, ben si prestava a essere degna rivale di Roma. E lo stesso Antonio l’aveva ancor
più valorizzata eleggendola a sua perenne residenza e scegliendo di celebrarvi il trionfo per
la vittoria sugli Armeni, nel 34.
Fu quello, come giudica il Bradford nella sua biografia su Cleopatra,5 un madornale
errore politico. Il trionfo era, com’è noto, il massimo onore concesso al generale vittorioso
dal senato in considerazione di un’impresa davvero degna di encomio (già a giudicare dal
numero dei nemici uccisi):6 era praticamente l’unica occasione per il comandante di varcare
il pomoerium, il limite sacro della città, con l’esercito in armi, e per tradizione era celebrato
a Roma. Scegliendo di celebrarlo ad Alessandria, Antonio mostrò a tutti i Romani (che ne
furono terribilmente offesi) in che conto teneva la capitale dell’impero (ormai non era più
il caso di parlare di repubblica, essendo definitivamente tramontato il vecchio ordinamento
imperniato sul ruolo del senato), ma soprattutto svelò il progetto celato dietro quella scelta:
rendere Alessandria la futura capitale del Mediterraneo, ossia di uno stato romano spostato
decisamente a Oriente, nell’ambito del quale Roma e l’Italia avrebbero avuto un ruolo decisamente marginale. E questo progetto era coltivato soprattutto da Cleopatra, che aveva reso
Antonio un mero esecutore, illudendolo però di avere una certa autonomia politica. Ma che
sorgesse una capitale in Oriente a surrogazione di Roma era intollerabile per i Romani. Dovevano passare vari secoli e sarebbe occorsa l’abilità politica di Costantino per far accettare
un’altra Roma, nel 337, sorta in luogo di Bisanzio, come nuova capitale dell’impero.
Ottaviano aveva ben compreso il gioco politico di Cleopatra e non ebbe fatica a dipingere, dopo il 34 a.C., ossia dopo il trionfo di Antonio celebrato ad Alessandria e soprattutto
quando si seppe che l’ex triumviro aveva disposto dei territori acquisiti formalmente da Roma come donazioni per i figli suoi e di Cleopatra, il suo ex compagno di potere come un fan5 Ernle Bradford, Cleopatra (Cleopatra, 1971), trad. di Maria Schejola Adami, Rusconi Libri, Milano 1994,
pp. 189-190.
6 Tre erano i requisiti necessari per ottenere il trionfo: essere magistrati cum imperio, aver vinto una battaglia
decisiva in terra o in mare, aver ucciso almeno cinquemila nemici.
– 15 –
toccio nelle mani della regina d’Egitto. Sicché, quando ebbe rinnovato il potere, deponendo
la carica di triumviro ma facendosi assegnare un imperium supremo sull’Italia e tutte le province occidentali (secondo quella che fu la sua politica di crescente gestione del potere: rinunciare a una carica già assegnatagli per averne in cambio un’altra di portata ben maggiore), rafforzato da un giuramento che impegnava alla fedeltà tutti i Romani, gli Italici e gli abitanti delle province occidentali,7 Ottaviano non perse tempo a dichiarare la guerra – cosa che
fece personalmente, vestito da feziale, nel Circo Massimo – alla regina d’Egitto, e soltanto a
lei, come un nemico straniero. Non dichiarò guerra anche o solo ad Antonio (che soltanto in
un secondo momento fu dichiarato hostis publicus), per l’ovvia ragione che se lo avesse fatto avrebbe dato formalmente origine a un’ennesima guerra civile e, in caso di vittoria, non
avrebbe potuto celebrare il trionfo. Invece, il giorno della commemorazione della vittoria nel
bellum Actiacum, proprio perché considerata una vittoria contro una potenza straniera, divenne una delle date fondanti del principato augusteo.8
Il 2 settembre del 31 a.C. avvenne finalmente la battaglia navale ad Azio (un promontorio presso il golfo di Ambracia, a sud dell’Epiro), che si risolse nella sospirata vittoria di Ottaviano, ossia di Roma, contro Antonio e Cleopatra, ossia l’Oriente. Era stato debellato l’incubo che per mesi aveva attanagliato i Romani, era stata vinta la regina d’Egitto, la più pericolosa nemica di Roma. L’Urbe era sopravvissuta allo scontro e avrebbe conosciuto, con la
fine della guerra civile nel segno della vittoria su una regina straniera, un’epoca nuova di pace e prosperità, grazie all’opera di Ottaviano (che avrebbe assunto poi il titolo di Augusto, nel
27 a.C.). Un’altra, forse più felice notizia, giunse a rallegrare ancor più i Romani di lì a poco: il suicidio di Cleopatra nell’estate del 30, ad Alessandria, ove era appena entrato Ottaviano. Di questi sentimenti di gioia e sollievo per lo scampato pericolo, ossia il pericolo che
una civiltà e una cultura estranee alle tradizioni di Roma arcaica e al mos maiorum si impiantassero in Italia, è specchio l’ode 1,37 di Orazio. Di essa esamineremo alcuni peculiari
aspetti relativi alla rappresentazione di Cleopatra.9
Essa, come dicevamo prima, trae occasione dalla notizia della morte della regina. Il poeta
esorta i suoi sodali a far festa, a bere vino, a danzare, a ornare un lussuoso banchetto: Cleopatra,
vinta, si è uccisa! Prima, quando la regina minacciava Roma, non si poteva trarre dalla cantina
il Cecubo (vv. 1-11). Ma l’azione vittoriosa di Ottaviano l’ha costretta a rinunciare al suo folle
proposito e a fuggire, inseguita come una colomba da uno sparviero, per scampare a Ottaviano
che la incalzava (vv. 12-21). Ed essa ha scelto di morire con gesto magnanimo, bevendo l’atro
veleno dei serpenti, per togliere al vincitore il piacere di trascinarla in catene nel giorno del suo
trionfo (vv. 21-32). Citiamo l’ode nella traduzione di Luca Canali:10
7 Res gestae divi Augusti 25. Ottaviano astutamente, in vista dello scontro finale con Antonio e Cleopatra, si fece
attribuire nel 32 a.C. il comando supremo mediante giuramento (che poi costituì il motivo propagandistico della
coniuratio Italiae), non mediante una legge comiziale, che avrebbe avuto una portata legittimativa assai minore. Sui
risvolti costituzionali del giuramento di fedeltà prestato ad Ottaviano vd. Salvatore Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, vol. II, Giuffrè editore, Milano 1993, pp. 244-245.
8 Dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, Ottaviano ingrandì il tempo di Apollo ad Azio, fondò sulla costa di
fronte al promontorio la città di Nicopoli e istituì solenni giochi celebrativi, svolti ogni quattro anni nell’anniversario del
2 settembre (giochi analoghi, quinquennali, vennero organizzati anche a Roma, a partire dal 29 a.C.). La vittoria di Azio
fu convenientemente esaltata anche dai poeti augustei quale scontro di civiltà: basti citare la splendida rappresentazione
degli Actia bella nello scudo di Enea in Virgilio, Eneide 8,675 e ss., ove alla flotta romana sono contrapposte le schiere
egiziane e la loro regina con il seguito di divinità teriomorfe.
9 Abbiamo utilizzato in proposito un nostro precedente lavoro (Un’interpretazione di Orazio, Carm. 1,37: Nunc
est bibendum, in “Annali del Liceo Classico A. Di Savoia”, n. 2, 1989, pp. 47-67), al quale rimandiamo per un discorso
più approfondito.
10 Da Orazio, tutte le opere, trad. di Luca Canali e Marco Beck, Mondadori, Milano 2007, pp. 105-107.
– 16 –
Ora si beva, ora con lieto piede
si batta la terra. Questo
era il momento di ornare, o amici, il letto degli dei
con vivande degne dei Salii!
Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.
Atto nefando era finora estrarre il cecubo
dalle celle degli avi, mentre una regina
forsennata apprestava rovine
e morte al Campidoglio e all’impero
Antehac nefas depromere Caecubum
cellis avitis, dum Capitolio
regina dementis ruinas
funus et imperio parabat
con il suo gregge contagiato d’uomini
turpi di vizio, ebbra
nella fortuna prospera a tutto sperare
con cuore sfrenato. Ma spense
contaminato cum grege turpium
morbo virorum, quidlibet impotens
sperare fortunaque dulci
ebria; sed minuit furorem
la sola nave sfuggita all’incendio,
e le ridusse al pauroso vero
l’animo stravolto dal vino
mareotico Cesare a volo dall’Italia
vix una sospes navis ab ignibus,
mentemque lymphatam Mareotico
redegit in veros timores
Caesar ab Italia volantem
a incalzarla con le navi (quale avvoltoio
le tenere colombe o un veloce
cacciatore la lepre sui campi nevosi
d’Emonia) per mettere in catene
remis adurgens, accipiter velut
mollis columbas aut leporem citus
venator in campis nivalis
haemoniae, daret ut catenis
quel mostro fatale. Ma ella, volendo morire
più nobilmente, non temette, pur
donna, la spada, né con veloce nave
cercò rifugio fra celate rive,
fatale monstrum; quae generosius
perire quaerens, nec muliebriter
expavit ensem, nec latentis
classe cita reparavit oras,
osando anche visitare con volto sereno
la reggia vinta, e impavida tenere crudeli
serpenti fra le mani per imbevere
il suo corpo di tetri veleni,
ausa et iacentem visere regiam
vultu sereno, fortis et asperas
tractare serpentes, ut atrum
corpore combiberet venenum,
ancora più fiera dopo aver deciso la morte,
certo sdegnando d’esser tratta, lei,
donna regale, come una qualsiasi,
dalle impietose navi liburniche in superbo trionfo.
deliberata morte ferocior,
saevis Liburnis scilicet invidens
privata deduci superbo
non humilis mulier triumpho.
L’ode è composta di due parti ben distinte, nelle quali Orazio tratteggia con toni e
immagini la figura di Cleopatra. All’esultanza per la morte della regina, seguono termini
ed espressioni denotanti il personaggio in modo chiaramente negativo, e rispondenti alla
condanna della sua memoria quale nemica di Roma. Enucleiamone i più significativi.
Consideriamo anzitutto i versi, nella traduzione del Canali, ...mentre una regina / forsennata apprestava rovine / e morte al Campidoglio e all’impero: al v. 7 del testo originale
l’espressione dementis ruinas è un’ipallage, efficacemente resa dal Canali attribuendo forsennata a regina. L’aggettivo demens rappresenta un’invettiva di carattere politico per NisbetHubbard:11 Orazio vuol dire che distruggere Roma sarebbe stata impresa folle. V’è proba11
A Commentary on Horace, Odes book I, by R.M.G. Nisbet and M. Hubbard, Oxford 1970, p. 413.
– 17 –
bilmente l’eco di Cicerone, che attribuisce la follia ai nemici di Roma, come Catilina (vd., ad
esempio, Cic. Cat. 1,1 quam diu etiam furor iste tuus nos eludet?).
Altro punto da considerare è ebbra / nella fortuna prospera a tutto sperare / con cuore
sfrenato. Ai vv. 10-11 del testo originale, l’espressione quidlibet impotensvsperare (lett.
“sfrenata nell’avere ogni speranza”), che presenta l’aggettivo impotens come calco del greco ¢krat»j, rende l’idea della folle ambizione della regina (come doveva apparire agli occhi
dei Romani) che, ebbra della dolce fortuna, coltiva l’impossibile sogno della caduta di Roma. Ebria del v. 12 allude all’inclinazione al bere della regina, com’è peraltro testimoniato
in Plutarco (Vita di Antonio 29,2), ma soprattutto a quella, più famosa e vituperata (da Cicerone nelle Filippiche), del suo compagno, che amava mostrarsi nelle vesti di Dioniso, come
in occasione del trionfo sull’Armenia.
Da notare ancora che nei versi e le ridusse al pauroso vero / l’animo stravolto dal vino
mareotico compare l’aggettivo mareotico (mentem lymphatam Mareotico al v. 14 del testo
originale). La palude Mareotide (Mareotis) era il luogo ove si produceva il famoso vino d’Egitto, un vino bianco e dolce. Questo è l’unico luogo del carme ove Orazio allude esplicitamente all’Egitto e tale allusione è connessa al motivo del vino; con ciò si sottolinea l’ebbrezza (ebrietas), come condizione abituale della regina e dunque la sua conseguente follia,
che la porta a concepire il megalomane e folle progetto di abbattere Roma. Il vino prodotto
nella regione della Mareotide, non lontana da Alessandria, era però piuttosto leggero e non
atto a dare quell’ebbrezza che Orazio attribuisce a Cleopatra, a rendere la sua mente “impazzita per il vino di Marea” (come traduce il La Penna).12 È evidente che Orazio accoglie,
amplificandolo e rivolgendolo a Cleopatra, un motivo della propaganda contro Antonio, ossia l’inclinazione al bere. L’amplificazione sta, a nostro giudizio, nel fatto che per ubriacarsi bevendo vino Mareotico erano necessarie parecchie bevute e i simposi di Antonio e Cleopatra dovevano certamente degenerare, come lascia sospettare Orazio. A noi sembra, inoltre,
che accostando il vino di Mareotide al Cecubo del v. 5, che era atto nefando estrarre dalle cantine finché Roma era sotto la minaccia di Cleopatra, Orazio voglia stabilire un confronto, o
meglio una contrapposizione tra due vini espressioni di ambienti geografici e contesti culturali assolutamente, in quel momento, opposti. E il Cecubo era un vino ben più pregiato di
quello egiziano: una citazione che andava nel senso di sottolineare che tutto ciò che proveniva dall’Oriente era di scarso valore o pericoloso o nocivo per i costumi romani, come la corte di eunuchi che, secondo la moda orientale, costituiva il seguito della sovrana (concetto
che Virgilio, d’altra parte, sottolinea con il tono dell’incubo, descrivendo la barbarie e la mostruosità delle schiere egiziane, divinità comprese, al seguito della regina nella descrizione
della battaglia di Azio, in Eneide 8,675 e ss.).
Con l’espressione mostro fatale (fatale monstrum al v. 21 del testo originale) si chiude
la serie di espressioni ed epiteti connotanti in senso negativo la figura di Cleopatra, come la
regina viene raffigurata nella prima parte dell’ode. Il mostro fatale è per Orazio Cleopatra,
vista come monstrum, ossia “creatura malvagia”, che il fatum, il destino cieco e ineluttabile
ha portato a scontrarsi con la potenza di Roma: donde l’immagine grandiosa della donna,
vittima del suo stesso destino, cioè del suo progetto di portare la rovina a Roma. Gli antichi
commentatori provvidero a connettere all’espressione fatale monstrum, in senso negativo,
l’dea di fato, destino, e in ciò sono stati seguiti da alcuni tra i moderni. Per i commentatori
antichi basti citare un luogo di Porfirione, Porph. Hor. carm. 1,37,20-21: fatale monstrum aut
a fato sibi servatum aut detestabile. An dictus hoc accipiamus: ‘Quasi decreto fatorum nobis obiectum’? Tra i moderni, ha rilevato la pregnanza semantica dell’espressione fatale mon12
A. La Penna, in Orazio, le opere. Antologia, La Nuova Italia, Firenze 1988, rist., p. 265.
– 18 –
strum soprattutto la studiosa J. V. Luce.13 L’autrice riconduce l’uso oraziano del termine
monstrum a Cicerone, che lo adoperò spesso, come invettiva in ambito politico, ad esempio
contro Catilina, a significare il “mostro” apportatore di rovina. Ma altre valenze, oltre quella
politica, avrebbe per la Luce il termine monstrum, risultando pertanto straordinariamente
carico di contenuti semantici e autentica parola-chiave, necessaria per penetrare il vero
significato dell’ode: 1) una valenza religiosa (fatale monstrum inteso come creatura portatrice
di sfortuna, e perciò da sopprimere, aggiungiamo noi, come il farmakÒj nel mondo greco);
2) una valenza mitologica (con l’espressione daret ut catenis fatale monstrum, ai vv. 20-21
del testo originale, Orazio evocherebbe i mostri dei miti greci, l’Idra, la Gorgone e la Chimera,
e Ottaviano assumerebbe il ruolo di un mitico uccisore di mostri, probabilmente Bellerofonte);14 3) una valenza etica (monstrum sarebbe utilizzato da Orazio anche per definire il
regime dispotico tipico dell’Oriente, antitetico e abnorme, “mostruoso” rispetto alla costituzione romana: il Venosino dovrebbe pertanto aver avuto presente Platone, che nella sua
Repubblica 9,588c indicava il tiranno come un mostro variopinto e dalle molte teste, qer…on
poik…lon kaˆ polukšfalon).
Però, al v. 21, subito dopo il fatale monstrum inaspettatamente Orazio cambia il tono e
il carattere delle sue allusioni a Cleopatra: la regina ebbra e folle per il suo progetto impossibile di vittoria su Roma, apportatrice di rovina non tanto a Roma quanto a se stessa, diviene,
in virtù della scelta di morire pur di sottrarsi all’ignominia dell’esser trascinata in catene
dietro il carro del vincitore, una vera e propria eroina degna dei Romani antichi. Orazio ne
esalta il virile coraggio con un’aggettivazione adeguata a costituire un vero e proprio
momento laudativo nella struttura del carme. Compaiono, infatti, espressioni da cui trapela
indubitabilmente l’ammirazione del poeta: Ma ella, volendo morire / più nobilmente, non
temette, pur / donna, la spada, né con veloce nave / cercò rifugio fra celate rive. In questi versi
Orazio condensa gli ultimi eventi della vita della regina egiziana rendendo omaggio alla
sua determinazione e alla sua forza d’animo. Volendo morire più nobilmente, come traduce
il Canali, corrisponde nel testo originale a quae generosius perire quaerens. L’aggettivo
generosus, “nobile”, collegabile al comparativo avverbiale generosius (dall’avv. generose),
esprime una tipica qualità del comportamento romano, fondata sulla morale stoica, che si
manifestava nei più gravi frangenti e, come in questo caso, di fronte alla morte. È l’atteggiamento del vir bonus, del sapiens che sa resistere ai colpi dell’avversa fortuna e che sceglie
eroicamente di morire pur di non venir meno alla propria dignità e al proprio onore. Orazio
ci dice che Cleopatra, mostrando inaspettatamente tempra virile, non temette le armi di
Ottaviano né cercò scampo in terre lontane, nella regione più interna dell’Egitto o sulle rive
del Mar Rosso, come intesero gli antichi commentatori. Orazio rivelerebbe qui l’autentico
carattere, orgogliosamente regale, della regina, che, unica fra i monarchi dei regni ellenistici,
si rifiutò di venire a patti umilianti con il vincitore Romano (la conservazione di un piccolo
dominio nell’entroterra in cambio della cessione della potente flotta: questa sarebbe stata
l’ultima proposta di Ottaviano, secondo l’originale esegesi del Paoli),15 come invece avevano
fatto i sovrani di Siria e di Macedonia. Plutarco però ci dice che Cleopatra, dopo la sconfitta
di Azio, avrebbe progettato di condurre la flotta attraverso l’istmo di Suez, verso l’Oceano
Indiano, ma ne sarebbe stata dissuasa dopo che gli Arabi della Petreia incendiarono alcune
sue navi (Plutarco, Vita di Antonio 69, 3-6). Anche Antonio, per parte sua, avrebbe pensato
13
J. V. Luce, Cleopatra as fatale monstrum (Horace, Carm. 1,37,21), in “Classical Quarterly”, XIII, 1963, pp. 251-
14
Sulla base di Hor. Carm. 2,27,23-24.
Ugo Enrico Paoli, Un accenno d’Orazio alla flotta di Cleopatra, in “Atene e Roma”, 4, 1923, pp. 46-51.
257.
15
– 19 –
di fuggire in Spagna, dove aveva truppe fedeli. Ma, seguendo il Pasquali,16 riteniamo che
Orazio non abbia voluto accogliere queste notizie che egli reputava alla stregua di dicerie, nell’intento, ovviamente, di esaltare con coerenza la fermezza della donnna. Perché è indubbio
che Orazio nella seconda parte dell’ode esalti la nemica di Roma, anche se forse era al di là
delle sue intenzioni assimilarla in qualche modo, addirittura a un sapiens stoico.
Anche ai vv. 25-26 (Ausa et iacentem visere regiam), resi dal Canali con osando anche
visitare con volto sereno / la reggia vinta, Orazio ci presenta un nuovo atteggiamento della
regina d’Egitto, che conferma ulteriormente il recupero del personaggio sul piano etico. Dopo
aver esaltato la virile fermezza della donna, che sdegna di accettare un vergognoso compromesso con il nemico, il poeta di Venosa, raffigurando Cleopatra che osa guardare con volto
sereno, senza lasciarsi andare a una giustificabile disperazione, la reggia abbattuta, le attribuisce i tratti di un filosofo stoico, impassibile di fronte alla sventura e alla morte. Un simile
atteggiamento, di cui la storiografia romana ci offre numerosi esempi, non avrebbe certo
mancato di suscitare simpatia nel lettore dell’ode e, in proposito, viene alla mente la raffigurazione di Socrate in Cicerone, Tusc. 3,31, ove il grande Arpinate delinea il voltus semper
idem e la frons tranquilla et serena dell’Ateniese nel momento supremo della morte.
Ai vv. 26-28 (fortis et asperas / tractare serpentes, ut atrum / corpore combiberet
venenum), resi dal Canali con e impavida tenere crudeli / serpenti fra le mani per imbevere /
il suo corpo di tetri veleni, Orazio completa il ritratto di questa seconda, nuova Cleopatra, aggiungendo alla generositas (v. 21) e alla serenitas (v. 26) il carattere della fortitudo, il
virile coraggio nello scegliere il mezzo di morte, il velenoso aspide. È noto che la morte di
Cleopatra rimase per qualche tempo avvolta nel mistero. Orazio segue la tradizione che vuole
che la regina si sia fatta uccidere dal morso di un aspide, ma non allude al particolare del
serpente celato nel paniere di fichi (citato in Plutarco, Vita di Antonio 86,1). È ancora da
notare che il duplice serpente era un simbolo regale dell’antico Egitto e nel trionfo di
Ottaviano venne esibita una pittura raffigurante Cleopatra morsa dall’aspide. La regina scelse
dunque un mezzo di morte, il serpente, perfettamente adeguato al suo rango sociale e in linea
con la tradizione del suo paese.
Deliberata morte ferocior (v. 29), nel testo originale, espressione resa dal Canali con
ancora più fiera dopo aver deciso la morte, sono le parole con cui Orazio suggella l’ultimo
atto di Cleopatra, il suicidio, che è nello stesso tempo ultimo atto di lotta contro il Romano
e, stoicamente, definitiva affermazione della propria libertà. È attraverso la morte che la regina diviene immortale, è con il suicidio che essa trionfa sul nemico vincitore, frustrandone
l’orgoglio di trascinarla prigioniera a Roma ed evitando per lei l’insopportabile umiliazione.
Ferocior, in fine di verso, mette in risalto la fierezza della donna, ma anche la sua prontezza
nello scegliere e attuare il proposito, senza tentennamenti né resipiscenze. Una lunga tradizione topica provvede ad attribuire il termine ferox a chi non si dà per vinto anche dopo aver
subito la più grave sconfitta e cede virilmente al destino. È un termine connesso con l’inflessibilità, quell’inflessibilità di cui danno prova anche molti famosi nemici di Roma, come,
ad esempio, Catilina, che mostra la sua ferocia animi di fronte alla morte, nella battaglia di
Pistoia (Sallustio, Cat. 61,4).
Non humilis mulier, al v. 32, ossia donna regale nella traduzione del Canali, è l’ultima
espressione che Orazio rivolge a Cleopatra. La trasformazione si è compiuta: la regina, prima
disprezzata con i peggiori epiteti, ora è definitivamente consacrata come un’eroina magnificamente superba, altera e incrollabile, di fronte alla potenza (e prepotenza) del vincitore, una
donna il cui ultimo atto diviene una sorta di regale “martirio”. Plutarco, nella Vita di Antonio
16
Giorgio Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1964, rist., p. 59.
– 20 –
(85,8), ricorda le ultime parole della schiava Charmion, morente ai piedi della regina suicida, rivolte a chi deprecava il suo suicidio: “Bellissima azione, conveniente a una donna di tale stirpe regale!” La litote non humilis mulier è accostata per contrasto al triumpho del v. 32
(definito superbo al v. 31), proprio in chiusura dell’ode. Il verso finale sembra così condensare il giudizio di Orazio sui personaggi della vicenda: da una parte il vincitore superbo, in
procinto di celebrare il suo magnifico trionfo, dall’altra una regina non meno orgogliosa, che
di quel trionfo non intende essere l’orpello.
La Cleopatra che lasciamo, alla fine del carme, è dunque molto differente dalla donna introdotta al principio. La sconfitta subita le ha fatto abbandonare le folli speranze, l’ha costretta
a guardare la triste realtà, l’ha fatta divenire più umana, ed è proprio in questa recuperata
(e disperata) umanità che risalta la sua grandezza, il suo virile coraggio, la sua virtus ormai
tipicamente romana. Le accuse che le venivano mosse per conto della propaganda politica
sono state puntualmente rovesciate e il personaggio pienamente recuperato, almeno dal punto
di vista etico, sicché, come è stato scritto, l’ode si fa panegirico della regina vinta.17 Al furor,
alla impotentia, alla ebrietas della prima parte del carme, si sostituiscono nella seconda parte,
come qualità caratterizzanti il personaggio, la fortitudo, la ferocia animi, la aequanimitas.
Fu molto probabilmente il suicidio della donna, suicidio che impressionò non poco l’opinione
pubblica, ciò che spinse Orazio, il quale ancora nell’epodo IX, scritto subito dopo Azio, aveva
dipinto in modo ostile Antonio e Cleopatra, a presentare diversamente gli ultimi fatti e a
rivalutare perciò la regina orientale. Nel tripudio generale per la morte della nemica di Roma,
la voce del poeta si distacca dal coro ed esprime una sua riflessione, che trasforma l’intento
iniziale in vero e proprio atto di omaggio a una grande nemica di Roma.
Potremmo però osservare che l’iconografia di Cleopatra non risulta in fondo dissimile,
per l’intento celebrativo che promana dalle parole del poeta, da quella di altre figure, che la
tradizione storiografica ha tratteggiato come nemiche di Roma, della res publica o dell’impero. La condanna degli storici ne investe l’atteggiamento di ostilità al dominio romano, ma
ne riscatta l’umana personalità, trasfigurata dalla luce eroica, dignitosissima, che rischiara la
fine. E sono tutte figure di donne, a cui la gloria arride comunque in virtù dell’eroica scelta
del suicidio o del mostrarsi orgogliose e fiere anche nel momento del trionfo del nemico.
Pensiamo a donne regine come Teuta, Budicca e Zenobia, di cui Polibio, Tacito e la Historia
Augusta ci hanno lasciato il ricordo improntato a rispetto se non ammirazione per le loro
qualità, che indirizzarono la vicenda personale verso un destino glorioso.18 Polibio (2,4-11)
ci presenta Teuta, la “regina corsara” degli Illiri, una donna piena di orgoglio e ambizione che
osò sfidare i Romani, conquistando la città epirota di Phoinike e maltrattando e uccidendo
alcuni mercanti italici che là si trovavano. Le imprese brigantesche di Teuta, i continui attacchi
dei pirati illirici al suo servizio contro le navi mercantili che transitavano per l’Adriatico
avevano da tempo esasperato i Romani. Ora con quest’ultima azione aveva passato il segno
e si decise di fermarla. Ma Teuta commise un grave errore politico, facendo attaccare la nave che portava i due fratelli Gaio e Lucio Coruncanio, venuti nell’autunno del 230 a.C., a trattare con la regina come ambasciatori di Roma. La grave violazione dello ius gentium (Lucio
Coruncanio era rimasto ucciso durante l’attacco) non rimase senza conseguenze e la risposta
di Roma fu l’invio di una potente flotta al comando dei consoli Gneo Fulvio Centumalo e Lucio Postumio Albino (229 a.C.), che sgominò la flotta di agili lembi della regina illirica. La
quale fu costretta ad accettare l’umiliante pace che le imposero i Romani e visse fino ai suoi
S. Commager, Horace, Carmina 1,37, in “Phoenix”, XII, 1958, p. 52.
Abbiamo tenuto presente, per questa parte della relazione, un nostro precedente lavoro: Figure di donne nella
storiografia romana, in “Cultura e Scuola”, n. 116, 1990, pp. 75-81.
17
18
– 21 –
ultimi giorni nel piccolo dominio di Rhizon oltre le bocche di Cattaro. La vicenda di Teuta è
una somma di errori di valutazione dell’orgogliosa regina, che evidentemente aveva sottovalutato le risorse di una potenza in inarrestabile espansione qual’era Roma dopo la prima
guerra punica. Fu Teuta, che nulla aveva patito dai Romani, a provocarli e, quindi, a perdere
il suo regno. Un’altra donna, invece, Budicca, la regina degli Iceni, popolazione della
selvaggia Britannia, aveva subito un terribile sopruso dalle armi romane: come narra Tacito
(Ann. 14,31-37), che pone la vicenda nell’età neroniana, le sue due figlie erano state violentate e lei stessa colpita con le verghe. Va chiarito che in genere i Romani rispettavano le
donne di stirpe regale, quando appartenevano a un’etnia nemica. Nel caso di Budicca, sia
che l’episodio fosse un disgraziato incidente avvenuto durante una scorreria di soldati sia
che fosse stato invece ordinato dai comandanti romani a scopo politico (mostrare, con la
violenza come atto rituale perpetrata sulla regina Budicca e le sue figlie, l’assoggettamento
degli Iceni all’autorità dei Romani), vi fu un errore di valutazione, questa volta da parte dei
Romani, che non tennero conto della tempra della regina e dell’orgoglio nazionalistico dei
Britanni. Come narra Tacito, dopo la terribile umiliazione subita, Budicca, lungi dall’avvilirsi,
si diede a incitare il suo popolo e le altre tribù alla ribellione contro gli aborriti invasori.
Alla testa di ottantamila Britanni che risposero al suo appello, la regina devastò città come
Camulodunum, Verulamium, Londinium, diventando in breve un incubo per gli occupanti,
fino a che il legato Svetonio Paolino con le sue truppe non ebbe la meglio sui rivoltosi.
Budicca, vistasi perduta e per evitare l’umiliazione del trionfo nemico (aveva l’illustre precedente di Cleopatra), vitam veneno finivit (Tacito, Ann. 14,37,3). Nella vicenda di Budicca
possiamo cogliere almeno quattro aspetti che l’apparentano a Cleopatra: la sua stirpe regale
(era vedova del re Prasutago), il suo carattere fiero e indomito (secondo i ritratti che ce ne hanno lasciato Dione Cassio, LVI, e Tacito), il ricorso al veleno per non cadere prigioniera del
nemico, la scomparsa della sua tomba (che alcuni studiosi avrebbero individuato a
Stonehenge: ma è un’ipotesi improbabile).19 Un’ultima grande figura di eroina, tra le nemiche di Roma, è Zenobia, la regina di Palmira, che il destino portò a scontrarsi con l’imperatore Aureliano (270-275). Alla morte del marito, Settimio Odenato, Zenobia si trovò a reggere,
in nome dei suoi due figli, il regno orientale di Palmira, città della Siria. Il regno era nato in
seguito ad una secessione e Aureliano, restitutor dell’ormai vacillante impero romano, non
poteva permettere l’esistenza di una entità ad esso estranea. Egli le mosse quindi contro (272),
sconfisse il suo esercito e la catturò, facendole grazia della vita: Zenobia finì i suoi giorni a
Tivoli, in un azona chiamata Concae, non lontano dalla villa di Adriano.20 In tutte queste
vicende Zenobia tiene un comportamento fermissimo, tratta da pari a pari con Aureliano, gli
ricorda che discende da Cleopatra, dunque l’imperatore non speri che essa si arrenda (Hist.
Aug. 26,27,3). Il biografo della Historia Augusta (raccolta di biografie di imperatori, da
Adriano a Numeriano, pervenutaci sotto i nomi di sei autori, ma opera probabilmente di
un anonimo scrittore del V secolo d.C.) che ha scritto la sua vita, ‘Trebellio Pollione’, esalta
le magnifiche qualità della regina, la constantia, la prudentia, la gravitas, congiunte alla
splendida bellezza: le forme armoniose, la carnagione scura, gli occhi neri, i denti candidi
come perle. Zenobia sembra una Cleopatra rediviva, e appunto dalla regina egiziana si vanta
di discendere. Ma il destino le risparmiò il veleno. L’imperatore, che pure la volle mostrare
nel suo trionfo riservandole il privilegio di essere avvolta da catene d’oro, le permise di finire
i suoi giorni in una villa del suburbio romano. Cleopatra, Teuta, Budicca e Zenobia: quattro
19 Sulla vicenda di Budicca, ampi ragguagli in Antonia Fraser, Regine guerriere, trad. di Paola Mazzarelli, Rizzoli,
Milano 1990, pp. 51-110.
20 Lo storico greco Zosimo (1,59) afferma invece che la regina morì durante il viaggio da Palmira a Roma.
– 22 –
donne che il destino pose sulla strada di Roma, accomunate dal rifiuto di accettare il dominio
di una potenza straniera o per mero orgoglio o in difesa della patria oppressa. Spinte da varie
motivazioni, tutte però ebbero il coraggio di resistere alle armi di Roma, di non venire a patti
con il nemico e i ritratti che ce ne hanno lasciato gli storici affascinano ancora il lettore
moderno. Potremmo anche affermare che esse sembrano incarnare, in epoche differenti, il medesimo spirito femminile che si ribella al predominio di un potere che tende a relegare
la donna in una posizione di soggezione all’autorità maschile, incarnata a Roma dal pater
familias della tradizione. O non si tratterà piuttosto dello spirito dell’avventuriera, della
seduttrice che porta l’uomo alla rovina?21 Ma questo discorso ci porterebbe lontano. Torniamo
dunque all’ode di Orazio.
Vi è, nell’ode 1,37 di Orazio, un ultimo punto su cui vorremmo richiamare l’attenzione,
un punto che va letto assieme al proposito del Venosino di recuperare, sul piano etico, il
personaggio di Cleopatra, chiaramente mostrato nella seconda parte. Al v. 13 (Vix una sospes
navis ab ignibus: la sola nave sfuggita all’incendio, traduce il Canali) Orazio allude alla
battaglia di Azio, ricordando l’incendio che distrusse la flotta di Antonio e Cleopatra. Ad
Azio, com’è noto, le liburne romane, navi molto agili, ebbero ragione dei pesanti galeoni
della flotta egiziana. Le fonti storiografiche assegnano il merito della vittoria all’abilità di
Ottaviano e del suo collaboratore Marco Vipsanio Agrippa e accusano l’incompetenza, come
navarca, di Antonio (così Plutarco nella Vita di Antonio, 65-66). In realtà sappiamo che la
vittoria fu per buona parte resa possibile dall’accortezza del praefectus fabrum Cornelio
Gallo, che ordinò di scatenare la forza di fuoco delle sue navi nel momento in cui Antonio
e Cleopatra compivano una pericolosa manovra tentando di rompere il blocco navale, in
direzione sud. Le fonti tendono a mettere in ombra i meriti di Cornelio Gallo, perché questi
nel 27 a.C. cadde in disgrazia presso Ottaviano (il quale proprio in quell’anno, nella seduta
senatoria del 15 gennaio, aveva assunto il nome di Augusto, dietro proposta del fido Munazio
Planco)22 a seguito di calunnie mossegli contro quand’era prefetto d’Egitto.
Ora, con Vix una sospes navis ab ignibus Orazio ricorda l’opera di Cornelio Gallo nello
scontro di Azio, i proiettili di fuoco scagliati dalle sue navi, dicendo che solo una nave nemica
scampò al fuoco distruttore. È chiaramente un’iperbole, una voluta esagerazione, perché le
fonti storiche come Cassio Dione e Plutarco ci dicono che Cleopatra era riuscita a mettere
in salvo più di sessanta navi, forzando il blocco romano.23 Perché Orazio esagera l’effetto
della manovra di Cornelio Gallo, dicendo che l’incendio scatenato dalle sue navi distrusse
pressoché tutta la flotta egiziana? E perché tace dell’azione di Ottaviano, che si prese tutto
il merito della vittoria? Il cenno alla battaglia di Azio ci sembra assolutamente estraneo alla
volontà di celebrare Ottaviano, paragonato poi ai v. 17 e 18, allorché il Venosino lo rappresenta all’inseguimento di Antonio e Cleopatra, come un avvoltoio che insegue le tenere
colombe o un cacciatore che incalza la lepre. Il signore di Roma qui è mostrato nella dura
inflessibilità dl vincitore che attende di regolare una resa dei conti da lungo tempo rimandata,
ma non come l’artefice della vittoria che gli permette di regolarla. Va da sé che se Orazio avesse realmente voluto comporre un’ode celebrativa per Ottaviano, una specie di breve panegirico in versi, avrebbe molto probabilmente usato diverso tono nelle similitudini e dato maggior spazio alla sua figura. Cosa che invece non è, come abbiamo notato. Ottaviano, infatti,
21 Ha interpretato la figura di Cleopatra come capostipite storica della categoria delle “cattive”, paradigma del potere e del peccato, Massimo Tosti, Cleopatra, l’ultimo faraone, Bevivino editore, Milano 2003.
22 Volendo così mostrare anche nell’onomastica ufficiale il particolare carisma, l’auctoritas, di cui era dotato e che
poneva il signore dell’impero in una posizione di assoluta supremazia su tutti, persone e istituzioni, del mondo romano.
23 Cassio Dione, Storia romana 50,34-35; Plutarco, Vita di Antonio 66.
– 23 –
ci appare come il generale che coglie i frutti di una vittoria preparata e realizzata dai suoi
soldati e Cleopatra, la mollis columba ghermita dall’incalzante accipiter, ci spira in fondo un
senso di umana compassione, quasi di solidarietà nella sventura. Tale è l’effetto che riceve il
lettore da questa rappresentazione della nemica di Roma nella seconda parte dell’ode, giacché il poeta sembra scostarsi dalla figura del Romano vincitore per avvicinarsi con umana
comprensione alla donna orientale, vittima del suo destino. Non avrà allora giocato, sarebbe
lecito chiedersi, in questo modo di presentare la vicenda di Cleopatra un residuo dell’antico
spirito repubblicano, di quello spirito e di quegli ideali che avevano portato il giovane Orazio
a partecipare allo scontro di Filippi accanto a Bruto e Cassio e il maturo poeta a rifiutare, poi,
la richiesta di Ottaviano di un poema epico che esaltasse le sue gesta? Al lettore la risposta.
Non possiamo però non ammettere che, anche dalla lettura del carme 1,37, l’acquiescenza
di Orazio alle direttive politiche di Ottaviano (ci riferiamo alla politica culturale intrapresa
dal princeps con la preziosa opera di mediazione di Mecenate) non sembra essere così solida
come appare e che, per verificarne l’effettiva consistenza, l’ode per la morte di Cleopatra si
dimostra come una delle più interessanti e inquietanti testimonianze.24
Concludiamo la nostra relazione con un’ultima curiosità. Cosa sarebbe avvenuto se, per
ipotesi, lo scontro di Azio si fosse deciso nel senso di una vittoria di Antonio e Cleopatra?
L’affascinante ipotesi di storia alternativa (o ucronia) è stata affrontata in un articolo di Eva
Cantarella.25 Il possibile esito di una vittoria della flotta egiziana, sul piano politico, culturale e religioso, prospettato dalla studiosa sembra in effetti dar ragione ai timori e alle angosce
di Orazio e di quanti hanno esaltato in Azio un giorno risolutivo e fondamentale per la salvezza di Roma e dell’Occidente.
24 Priva di cortigianeria si mostra dunque la lode di Cleopatra, come ha notato il La Penna (Antonio La Penna,
Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 56. E che Orazio, per altro verso, con il suo profondo senso della
solitudine, della caducità delle cose, della morte, con la sua demistificazione del trionfalismo retorico voluto dal regime,
sia il poeta “meno augusteo” del suo tempo, è stato acutamente osservato dal Canali (Luca Canali, Identikit dei padri
antichi, Milano 1976, p. 100).
25 Eva Cantarella, Se Marco Antonio e Cleopatra avessero sconfitto Ottaviano, in «Corriere della Sera», 1° agosto
2004. Sull’ucronia o storia alternativa rimandiamo al nostro lavoro Gli orizzonti dell’ucronia, in “Miscellanea di Saggi
e Ricerche”, n. 4, anno scolastico 2006-2007, pp. 49-103.
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LILLA CONSONI - ANNA MARIA ROBUSTELLI
Medusa mostro-madre-mistero mitopoietico1
“Ma ecco, i nostri mari sono come noi li facciamo, pescosi o meno, opachi o
trasparenti, rossi o neri, profondi o senza spessore, stretti o senza rive, e noi stesse
siamo mare, sabbia, coralli, alghe, spiagge, maree, nuotatrici, bambine, onde”.
Hélène Cixous, Il riso della Medusa
IL RACCONTO D’UN RACCONTO
Che ci fa la testa serpentina di Medusa sullo scudo di Atena, la dea razionale e guerriera,
la vergine del Partenone, la figlia del padre, dalla di lui testa fuoriuscita? Che fa lì quel volto
tremendo, poco sensato e poco educato, con la linguaccia tirata fuori e i dentoni da cinghiale?
“I simboli sono lettere d’amore scritte dalla vita”: non è un bigliettino dei Baci Perugina,
è una frase tratta dal libro “La luna nera” di Jutta Voss (Red Edizioni). Il problema è che noi
spesso non conosciamo la lingua in cui queste missive sono state vergate: il simbolo, se non
lo si sa decifrare, è muto, se non addirittura fuorviante. Però, facendo un po’ di “archeologia
culturale” (marmi, cocci, pitture vascolari, libri rotoli scartafacci...), a volte possiamo mettere
insieme le tessere del puzzle e decodificare così il messaggio misterioso.
•
•
•
E allora, per cominciare, un corso accelerato di simbologia spicciola:
Serpenti sulla testa della Gorgone = saggezza, rapporto con l’aldilà, vita eterna, potere di
guarigione. Il serpente, facendo la muta, si rinnova, così come la natura nell’alternarsi
delle stagioni e il corpo femminile nel ciclo uterino. Quest’animale, inoltre, potendo
con facilità infilarsi sotto la terra, e da essa sbucare, rappresentava lo stare a cavallo
fra i due mondi, il visibile e l’invisibile. Tutti conosciamo il serpente che s’arrampica
sul bastone; per noi moderni, significa “Farmacia”: niente di orrido, quindi, solo un rimando, appunto, ad un vecchio simbolo medico-religioso.
Dentoni da cinghiale = una caratteristica della Grande Madre nella sua funzione di
dea-scrofa, la dea della fase al nero, cioè della morte, dell’inverno e della mestruazione.
Lingua penzoloni = rosso liquido fuoriuscente. Un altro, inequivocabile rimando al
ciclo della vita.
Ed ora alcuni brevi cenni di mitologia arcaica:
Le civiltà primitive, nei diversi continenti, adoravano la Grande Madre, che era una
proiezione della Terra, della Luna e della Donna. Le stagioni, le fasi lunari e il ciclo femminile venivano riassunte (o “sussunte”, se si vuol usare un termine filosofico) nella Grande Dea,
che era una e trina: Vita/Morte/Vita, o, in un altro tipo di rappresentazione, Dea Bianca, Dea
Rossa, Dea Nera. All’orizzonte di riferimento Vita/Morte/Vita si possono ricondurre tutte le
triadi dette in tedesco “Schicksalgöttinnen”, dee del destino (le Parche, le Moire, ecc.). Qui
il tema dominante è: la vita include la morte, ma da questa nasce altra vita, come si può
osservare nella natura (frutti marciti che concimano il terreno, animali che mangiano e sono
1 La prima parte del lavoro (sul mito arcaico) è stata curata da Lilla Consoni, la seconda parte (di analisi letteraria) da Anna Maria Robustelli.
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mangiati, e così via). Quando si parla della Dea nelle sue fasi bianca, rossa e nera, ci si
riferisce alla donna come Fanciulla, Donna Matura e Vecchia, alle stagioni (che in origine
erano tre, primavera, estate, inverno) e alla luna, il cui ciclo di quattro fasi viene ritualmente
semplificato in tre. Questa mitologia “arcaica” è, come si vede, abbastanza complessa, tanto
più che simboli e temi s’intrecciano e si sovrappongono l’un l’altro. Così, ad esempio, la
Dea nel suo aspetto “nero” non è solo vecchiaia, ma anche inverno, morte e mestruazione.
Noi oggi assoceremmo quest’ultima alla ragazza, o alla donna matura, ma mai alla vecchia!
Eppure per gli antichi l’accostamento era chiarissimo. Il sangue che fluisce è la fine di una
fase uterina, il disfacimento del “nido” preparato per un eventuale feto, la stagione non
feconda del corpo. Un momento, si badi bene, altrettanto sacro della fecondità, giacché le
tre facce della Dea erano rispettate e venerate alla stessa maniera, in una visione “olistica” dell’esistenza.
E a questo punto entriamo...
...in medias res:
In Libia, la triplice Dea, il cui nome al nero era Medusa, veniva invocata come ANATH
o ATH-enna, per i Greci... ATENA!!! Medusa significa “la saggezza femminile”, in sanscrito
medha, in greco metis, in egiziano met o Maat; ella altro non era se non l’aspetto terribile dell’antica Madre Atena (= ho origine da me stessa). Ormai lo sappiamo: la Dea come distruttrice non era un mostro sanguinario, bensì la raffigurazione del necessario “finire allo scopo
di divenire”, una forza positiva, quindi, utile alla continuazione e allo sviluppo della vita, ma
inevitabilmente carica di buio e di dolore. Per questo solo la totalità delle triadi divine ne
esprime il senso: la Dea spaccata, separata nelle sue componenti, non è più comprensibile.
Si capisce allora come, nell’Africa del Nord, Ath-enna, nella sua interezza, fosse considerata
“la madre di tutti gli dei, tutto ciò che era, è, e sarà” (Iscrizione di Sais).
Anche i Greci, dunque, cominciarono ad adorare questa lontana “dea dei serpenti” (molte
dee dell’antichità erano legate al culto dei serpenti, ed erano esse stesse dee-serpenti), questa
madre una e trina dell’Africa Settentrionale, ma, nel passaggio dalla religione pre-olimpica
a quella olimpica, le tolsero grandezza e molteplicità. Atena subì la stessa sorte delle altre
grandi madri, degradate a mogli (Era), a dee dell’amore (Afrodite), a dee della caccia (Artemide), e così via. Si trasformò nella dea della guerra e della saggezza (interessante accoppiata), nata dalla testa del padre, che s’era ingoiato la gravida madre di lei, Metis. Nell’Olimpo, cioè, Medusa è madre di se stessa (v.sopra: Metis = Medusa), solo che... Non si
chiama neanche più Medusa! Si chiama Atena, appunto. Medusa diventa un mostro coi ricci
serpentini, la terza di tre sorelle, le Gorgoni (dal sanscrito garj, “gridare, minacciare”). Il tre,
quando appare nella mitologia posteriore, è sempre una traccia, un ricordo, un rimasuglio
della Triplice Dea (le tre Grazie, le tre Furie, le tre Arpie, e mille altre).
Il mutato assetto celeste postula una nuova narrazione che marchi le distanze fra la
Grecia e la Libia, che cancelli ogni associazione non gradita, ogni allusione pericolosa. Anche
l’effigie sullo scudo di Atena, quel capoccione aureolato da serpi, non deve più suggerire il
collegamento con una dea Bianca/Rossa/Nera. Bisogna inventarsi qualcosa! E via con gelosie,
stupri nel tempio, vendette, metamorfosi e rancori, fino alla decapitazione di Medusa da parte
di Perseo (= il Distruttore), la cui mano è guidata dalla stessa Atena. Il killer infila in un sacco
la testa mozzata (con corollario di altre pittoresche vicissitudini) e la regala infine alla vergine
guerriera, che spiaccica sul proprio scudo l’orrendo trofeo. Gli dei delle vecchie religioni
sono i demoni delle nuove (o seminuove).
E noi ci ritroviamo all’inizio della nostra storia. Il nostro serpente s’è morso la coda, il
mito è stato ritessuto, il racconto è stato di nuovo raccontato.
– 26 –
Bibliografia minima:
VOSS, JUTTA, La luna nera, Red Edizioni, 1996.
RANKE-GRAVES, ROBERT, I miti greci, Longanesi, 1983.
RANKE-GRAVES, ROBERT, La dea bianca, Adelphi, 1992.
WALKER, BARBARA, The Woman’s Encyclopedia of Myths and Secrets, HarperOne, Harper
Collins Publishers, New York, 1983.
Lilla Consoni
* * *
Un volto offeso e addolorato quello della Medusa della Sala delle Oche nell’appartamento dei Conservatori al Campidoglio. La gorgone ci appare come una donna bellissima sul
cui volto è dipinta l’angosciosa consapevolezza della sua metamorfosi. Lei stessa sta diventando di pietra, dopo essersi rispecchiata in uno specchio immaginario. Non capisce il colpo
sinistro della sorte, i capelli le sfuggono dalla testa sotto forma di serpenti corposi – ma nella
parte posteriore della scultura è stato scoperto dai restauratori che ci sono ancora i suoi capelli
finora nascosti dalla posizione del busto stesso, che era addossato al muro –, il viso è atteggiato a un interrogativo intenso che non trova risposta, come qualcuno che sia stato tradito e
la cui ferita non si ricomporrà mai. Ma è una donna, una singola donna a cui sta accadendo
qualcosa di inaspettato, non è un simbolo pietrificato della storia, non è una leggenda statica,
inerte che tramanda un messaggio di conquista perpetrato a danno del genere femminile da
uno dei tanti eroi del mito classico. Partiamo dalla meravigliosa testa di Gianlorenzo Bernini
per sapere come mai Medusa sia finita così, sia stata tradita e rifletta nel volto il proprio
insaziato stupore.
Sembra che questa rivisitazione del mito sia stata operata dal grande artista barocco sulla
scia di alcuni versi di Giovan Battista Marino tratti da La galeria:
Non so se mi scolpì scarpel mortale,
o specchiando me stessa in chiaro vetro
la propria vista mia mi fece tale.
Bernini scolpì Medusa per se stesso, “per suo studio e gusto”, in un periodo in cui era
stato allontanato dalla corte pontificia. Si propose di lasciare “impietriti” i propri nemici con
la sua abilità di scultore. Come nota Adele Cambria in un articolo comparso sull’Unità
nel 2006: “È l’emozione il frutto del primo impatto con la testa di Medusa”. Del busto la
giornalista nota non la spaventosità del personaggio tramandato dal mito ma il fatto che è
“... una giovane donna dai minuti denti infantili, le labbra morbide e dolci, e quegli occhi il
cui sguardo doveva pietrificare chiunque sembrano piuttosto gonfiarsi di lacrime, pervasi da
un’umanissima angoscia”.
La delicata mobilità dei tratti del viso di Medusa, la capacità di trasmettere l’umbratilità
dei sentimenti sono un grande raggiungimento dell’arte di Bernini che consegna al ritratto
barocco una morbidezza e una vulnerabilità senza pari. Medusa schiude se stessa all’occhio
del suo spettatore con l’inarcarsi dei muscoli oculari, con l’impercettibile svolta della testa,
con le labbra semiaperte che lasciano trasparire il suo dilagante stupore. Sarà una delle celebri
“statue parlanti” del periodo barocco.
– 27 –
È qui che il mito si disfa, sfida la vendetta di Minerva, che vuole la gorgone destinata
a impietrire gli osservatori per l’eternità e ad essere di nuovo posseduta nella decapitazione
di Perseo; qui Medusa acquisisce le parvenze di una donna moderna turbata dai colpi
inclementi e imprevisti della sorte. Il motivo dell’orrore espresso dalla bocca spalancata
(forse iniziato da un quadro perduto di Leonardo) e che si riaffaccia tra gli altri in Caravaggio
e in Rubens, è giunto a una caratterizzazione più personalizzata e sottile. Nella sua vibrante
individualità il busto di Medusa dà inizio a un percorso più aperto, più variegato che nel
passato, si inoltra in una dimensione in cui la donna che è Medusa parla di se stessa e della
propria pena.
Da questo punto di vista alcuni versi di Gabriele D’Annunzio (Gorgon, La Chimera), in
realtà ispirati ad un quadro attribuito a Leonardo, combaciano intimamente con l’espressività
del busto di Bernini:
...Un fiore
doloroso era la bocca,
e un misterioso odore
esalava ne’l respiro
Nell’arte figurativa il personaggio di Medusa sembra arricchirsi di significati più complessi rispetto al mondo classico man mano che i secoli si dipanano.
Di un pittore fiammingo del XVII secolo è una testa di Medusa che giace sul terreno di
un bosco, in una prospettiva insolita, avviluppata da un groviglio di serpi su cui si concentra
l’attenzione prima di divagare sulle altre piccole e grandi forme animali (rospi, pipistrelli,
ramarri, topi e insetti) che abitano l’oscurità della selva. Come ben nota Simone Giordano,
nel catalogo della Mostra Medusa, Il mito, l’antico e i Medici, che fa parte delle mostre chiamate i “mai visti”, opere ospitate nei depositi degli Uffizi che non fanno parte del patrimonio comunemente divulgato, il pittore “concilia il tema classico con la curiosità per la natura,
ovvero la pittura di storia con il soggetto di genere”.
Verso la metà del settecento Innocenzo Spinazzi nel suo busto di Medusa incornicia
intorno alla testa della gorgone due serpenti quasi a mo’ di trecce, le abbassa le palpebre e le
pone quasi una voglia affabulatoria tra le labbra socchiuse. Questa immagine, di una rara
dolcezza, sfata l’orrore in cui è inscritto il personaggio mitico, sottolineando la bellezza e
l’amabilità della donna.
Anche il poeta romantico inglese P. B. Shelley scompaginerà l’immagine di Medusa insinuando che sia più la sua grazia, la sua bellezza che il suo orrore a impietrire lo spettatore.
Sulla Medusa di Leonardo da Vinci nella Galleria di Firenze
Giace, fissando il cielo della mezzanotte,
supina su una vetta annuvolata;
sotto, lontane terre si intravedono;
l’orrore e la bellezza in lei sono divini.
Sulle sue palpebre e le labbra, sembra,
la grazia posa come un’ombra da cui splendono
livide e ardenti, sotto dibattendosi
le agonie dell’angoscia e della morte.
Ma è più la grazia che l’orrore a volgere
lo spirito di chi la fissa in pietra,
...2
– 28 –
La descrizione, estraniata, della grazia mista all’incontenibile capacità di spaventare ci
riporta al sublime, questa categoria estetica teorizzata da Edmund Burke nella seconda metà
del settecento che alcuni poeti romantici hanno assunto e elaborato. L’attrazione per la bellezza che va a braccetto con la distruttività e la morte è un modo convulso per Shelley di vivere ed esprimere l’ineffabile della vita inestricabile dal dolore e dalla tragedia.
La poesia, ispirata da un dipinto di Leonardo di cui si è persa la traccia, finisce con questa dichiarazione:
il volto di una donna, con trecce di serpenti,
che nella morte fissa il Cielo da quelle umide rocce.3
Robert G. Griffin sottolinea come in questi versi sia dato risalto al tropo del lettore pietrificato dalla bellezza che aveva già scavato un suo percorso nella letteratura inglese precedente.
Per la seconda generazione di poeti romantici inglesi il potere della bellezza è importante
e tende ad identificarsi con il potere della poesia e dell’arte. Sulla stessa onda si muove Walter
Pater che scrive, nella seconda metà dell’ottocento, ne Il Rinascimento:4
Quel che può essere chiamato il fascino della corruzione pervade ogni tratto della sua bellezza
squisitamente compiuta. Intorno ai vaghi lineamenti della guancia svolazza indisturbato il
pipistrello. I delicati serpenti paion letteralmente strozzarsi l’un l’altro in un’atterrita lotta per
svincolarsi dal cervello di Medusa. Il colore proprio della morte violenta è nelle sue fattezze;
fattezze singolarmente ampie e massicce, come noi le osserviamo invertite, in un abile scorcio,
di sotto in su, come una gran pietra immobile contro cui s’infrange l’onda delle serpi.
Per quanto riguarda l’interpretazione del mito in questa poesia, possiamo dire che non
sfugge a quella classica (codificata per esempio in modo brutale dal Perseo di Benvenuto
Cellini), ma è come se il poeta inglese smuovesse le acque profonde di questa configurazione e ne facesse scaturire un significato più complesso e ambiguo. La Medusa dello Shelley,
da questo punto di vista, è la ferita aperta che i grandi poeti romantici hanno con il mondo,
angoscia, dolore insanabili mentre gli occhi colgono la bellezza del creato e le parole si
affannano per mettere a fuoco le contraddizioni.
Medusa, ripresa innumerevoli volte da scrittori antichi e moderni tende a veicolare il messaggio dell’orrore suscitato dalla capacità di impietrire fin negli anfratti del novecento e tra le
donne. Ne è un esempio lampante la Medusa di Sylvia Plath che trasmette un incontestabile
messaggio di soffocamento e che quindi è vista solo in modo negativo, secondo i dettami del
mito classico. È una madre che stritola i propri figli e quindi deciso è il rifiuto della figlia:
...
Non t’ho chiamata.
Non ti ho chiamata proprio.
Eppure, eppure
via mare a me sei arrivata,
grassa e rossa, placenta
2 On the Medusa of Leonardo da Vinci, in the Florentine Gallery
It lieth, gazing on the midnight sky, / Upon the cloudy mountain peak supine; / Below, far lands are seen tremblingly;
/ Its horror and its beauty are divine. / Upon its lips and eyelids seem to lie / Loveliness like a shadow, from which shrine, /
Fiery and lurid, struggling underneath, / The agonies of anguish and of death. / Yet it is less the horror than the grace / Which
turn the gazer’s spirit into stone; / ...La traduzione è riportata ne Il Sito di Medusa, Università degli Studi di Bergamo.
3 A woman’s countenance, with serpent’s locks, / Gazing in death on heaven from those wet rocks. Ibidem.
4 W. Pater, Il Rinascimento, a cura di Mario Praz, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1965.
– 29 –
che paralizza i riottosi amanti.
Luce di cobra
che alle sanguigne campane della fucsia
spreme il fiato. Non potevo prender fiato,
morta e senza un quattrino,
sovraesposta, come un raggio X.
Chi credi mai di essere?
Ostia da comunione? Madonna addolorata?
Non prenderò un boccone del tuo corpo,
bottiglia nella quale
io vivo, Vaticano spettrale.
Questo sale bollente mi nausea da morire.
Verdi eunuchi, le tue brame
fischiano ai miei peccati.
Vade retro, anguilloso tentacolo!
Non c’è niente fra noi.5
Come sempre, nelle poesie della scrittrice americana, fioriscono le metafore che servono a trasmettere un all-pervading disagio: la placenta grassa e rossa, la luce di cobra, l’ostia
da comunione, la Madonna addolorata, il Vaticano spettrale, il sale bollente e le brame verdi
eunuchi (si noti come qui il verde ha una connotazione totalmente negativa!), l’anguilloso tentacolo per la madre e, d’altro canto, le sanguigne campane della fucsia, che rispecchiano il
dolore della figlia, il rifiuto a cibarsi del cibo offerto dalla madre (quanto spesso il rapporto
con la madre è visto in termini di cibo) e di nuovo la nausea per il sale bollente e l’asessualità della madre che sanziona in modo prevaricatorio sulla figlia. Si noti infine il tono lapidario del verso finale della poesia, un accorgimento a cui la poetessa ricorre spesso, che sancisce un fatto in modo definitivo.
Anche Italo Calvino nella prima delle sue lezioni americane, nel dedicarsi all’opposizione leggerezza-peso, analizza il rapporto fra Perseo e Medusa misurando il pro e il contro
di questi due elementi. Per capirlo spostiamoci per un momento di nuovo nel campo delle arti
figurative e in particolare della scultura e proviamo a guardare il Perseo del Bargello di Benvenuto Cellini. Un bellissimo corpo maschile muscoloso ma affusolato si staglia nello spazio proiettato verso l’alto dal movimento del braccio alzato che ostende la testa di Medusa
decapitata dal corpo giacente ai piedi dell’eroe. Perseo è quasi una figura alata, che sembra
si stia per distaccare dal suolo. Medusa si sta incancrenendo sotto i suoi piedi e il volto
mostrato è quasi piatto, è un simulacro che d’ora in poi servirà per difendere l’eroe dai suoi
nemici. Che cosa ha fatto qui il figlio di Danae? Ha amputato la pesantezza che Medusa
sparge intorno a sé in uno slancio di coraggio e vitalità. Di lì a poco il cavallo alato Pegaso,
...
I didn’t call you. / I didn’t call you at all. / Nevertheless, nevertheless / You steamed to me over the sea, / Fat and red,
a placenta // Paralysing the kicking lovers. / Cobra light / Squeezing the breath from the blood bells / Of the fuchsia. I could
draw no breath. / Dead and moneyless, // Overexposed, like an X-ray. / Who do you think you are? / A Communion wafer?
Blubbery Mary? / I shall take no bite of your body, / Bottle in which I live, // Ghastly Vatican. / I am sick to death of hot
salt. / Green as eunuchs, your wishes / Hiss at my sins. / Off, off, eely tentacle! // There is nothing between us.
Sylvia Plath, Ariel, Faber and Faber,1968. Trad. italiana a cura di G. Giudici e Anna Ravano. Corriere della Sera,
2004, RCS Quotidiani S.p.A.
5
– 30 –
simbolo della poesia, spiccherà il suo volo e con un colpo di zoccolo lo stesso cavallo farà
nascere la fonte sul Monte Elicona da cui berranno le Muse. Calvino, la cui visione di Medusa,
mi sembra combaciare con questa opera d’arte, ci dice:
Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima
e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura, c’era un divario che mi
costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia,
l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di
sfuggirle.6
Riguardo al fatto che Perseo porta la testa tagliata della gorgone con sé, Calvino commenta, traslando:
È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della
realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che
assume come proprio fardello.7
L’arte come un modo indiretto di guardare alla vita, per stemperarne i contorni brucianti
e devastanti e conquistare la distanza della visione e della raccontabilità. Indirettamente il mito
di Medusa ci riporta a Pegaso, alle Muse, all’arte.
Tuttavia questa celebre figura mitica acquista finalmente una vita propria, capace di
distaccarsi dal percorso del mito classico, in alcune poetesse americane del novecento, fra cui
possiamo ricordare Ann Stanford nel suo Medusa, The Women of Perseus, in cui la voce
narrante, dopo aver ricordato lo stupro subito da Poseidone (Mi afferrò e mi stuprò davanti
all’altare di Atena), descrive l’accesso di collera incontrollata che diede il via alla trasformazione degli splendidi capelli in serpenti:
...
Non è gran cosa per un dio. Per me fu collera –
nessun consenso da parte mia, nessun corteggiamento, tutto aspro
rude come un bifolco. Non mi piacque.
I capelli mi si attorcigliarono per la rabbia; la mente trattenne solo l’odio.
Pensai alla vendetta, cominciai a vivere solo per quella.
I capelli diventarono serpenti, gli occhi videro il mondo di pietra.
Qualsiasi cosa vedessi diveniva un deserto.
Gli ulivi sulla collina mentre scendevo
furono scossi dal vento, poi restarono fermi – come se una mano
li avesse forgiati di bronzo. Vidi la città
dove ero cresciuta diventare una pietra. I ragazzi
scorrevano come su un fregio, l’auriga
che frustava i cavalli, con la mano a mezz’aria.
I cavalli colti nel momento del galoppo. I capelli
cominciarono a sibilare. Mi affrettai verso la porta.
La serva con la brocca d’acqua sollevata
sta lì per sempre. Di fretta attraversai il pavimento.
Il mio sguardo infuriato distrusse tutte le cose vive che vi erano.
6
7
Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondatori, 2002.
Ibidem.
– 31 –
Ero sola. Sono sola. I miei modi di fare
mi separano dal mondo, mi imprigionano in uno sguardo.
...8
La poesia è in fondo una razionalizzazione al femminile del mito classico di Medusa.
Spiega lo sguardo pietrificante come l’onda travolgente della rabbia di questo personaggio
dopo che ha subito la violenza. Pur essendo un’interpretazione dal punto di vista di una donna,
il mito rimane però nel solco di una tradizione negativa. La Stanford veicola l’ira devastante
delle donne che hanno subito un sopruso che non si placa e imprigiona la donna stessa:
...
imprigionata all’interno della mia prigione, lasciata sola,
disprezzata, abbandonata, il mio sangue divenuto pietra.9
Forse una delle poetesse che è stata capace di rivivere il mito della gorgone con più originalità, riconducendola di fatto al senso della sbrigliata fluidità che le apparteneva sin dalle origini è May Sarton, che ne tratteggia le caratteristiche nella poesia del 1971 The Muse as Medusa:
Ti ho visto una volta, Medusa; eravamo sole.
Ti ho guardato dritto negli occhio freddo, freddo.
Non sono stata punita, né trasformata in pietra –
Come credere alle leggende che mi sono state raccontate?
Sono venuta nuda come qualsiasi pesciolino,
pronta a essere uncinata, sbudellata, presa;
ma ti ho visto, Medusa, ho espresso il desiderio,
e quando ti ho lasciata ero pensierosa...
con il permesso, forse, di farmi strada nuotando
attraverso l’abisso profondo e sulla marea montante,
guizzando su fiumi selvaggi, libera e ricca come loro,
sebbene tu avessi il potere ai tuoi ordini.
Il pesce è fuggito verso molte magiche scogliere;
Il pesce ha esplorato molti mari pericolosi –
Il pesce, Medusa, non si è fatto male,
Ma nuota ancora in un mistero fluido.
Dimentica l’immagine: il tuo silenzio è il mio oceano,
e anche ora brulica di vita. Hai scelto
di abdicare per mancanza totale di movimento,
ma ha funzionato, dal momento che niente veramente si è congelato?
...
It is no great thing to a god. For me it was anger – / no consent on my part, no wooing, all harsh / rough as a field
hand. I didn’t like it. / My hair coiled in fury; my mind held hate alone. / I thought of revenge, began to live on it. / My
hair turned to serpents, my eyes saw the world in stone. // Whatever I looked at was wasteland. / The olive trees on
the hill as I walked down / rattled in the wind, then stood – as if a hand / had fashioned them of bronze. I saw the town /
where I was raised become a stone. The boys / ran by as on a frieze, the charioteer / whipping his horses, held his arm,
mid-air. / His horses stopped to stride. My hair / started to hiss. I hurried to my door. / The servant with his water jar
upraised / stands there forever. I strode across the floor. / My furious glance destroyed all live things there. / I was alone.
I am alone. My ways / divide me from the world, imprison me in a stare. / ...Citato ne Il Sito di Medusa. Traduzione di
Anna Maria Robustelli.
9 ...
prisoned within my prison, left alone, / despised, uncalled for, turning my blood into stone. Ibidem.
8
– 32 –
È ancora tutto fluido, quel mondo di sentimento
dove i pensieri, quei pesci, silenziosi, si alimentano e vagano;
e, fluido, è anche pieno di capacità di sanare,
poiché amore è sanare, anche l’amore senza radici.
Volto il viso! È il mio viso.
Quella rabbia congelata è ciò che devo esplorare –
Oh luogo segreto, chiuso in sé e devastato!
Questo è il dono di cui ringrazio Medusa.10
L’io poetico giunge a Medusa come un pesciolino indifeso, nudo in una marea montante,
a ridosso di abissi profondi. È un io inesplorato che naviga in un elemento liquido, foriero di
vita, altrettanto insondato. Nuota per arrivare a sentire, a capire, a raggiungere se stessa in un
silenzio in cui riesce a non aver paura. Qui la dea della vita e della morte subisce la metamorfosi che abbiamo assegnato all’arte: la capacità di penetrare il silenzio, l’ignoto e di sovvertire il mondo statico in cui viviamo. Come ci ricorda J. Clair “Ogni arte... è una metafora
della visione, sia come attitudine fisiologica della vista, sia come emblema del nostro potere
di trasformare il caos in kosmos”.11
A ben pensarci, nella modernità, la Medusa dei primordi, resiste solo come rappresentazione di un’arte che, scavando dentro se stessa, rimpasta il passato per rincontrare i traumi
che lo hanno segnato e dare espressione alle grida di dolore o al desiderio di riparazione.
La grande artista francese Louise Bourgeois non nomina Medusa, ma le sue enormi sculture di ragni, in qualche caso con il corpo di donna, ci rimandano a una figura di madre che
tesse la tela, che costruisce qualcosa ma che, nel tentativo di proteggere, può anche rivelarsi
troppo protettiva e distruggere il figlio o la figlia.
Della conoscenza poi lei ci ha detto:
La spirale è il tentativo di controllare il caos. Ha due direzioni. Dove ci si colloca, alla periferia
o al vortice? Cominciare dall’esterno è paura di perdere il controllo; l’avvolgimento è serrarsi,
ritirarsi, comprimersi fino a sparire. Cominciare dal centro è affermazione, muoversi verso
l’esterno rappresenta il dare e l’abbandonare il controllo; la fiducia, l’energia positiva, la vita
stessa.12
Si potrebbe notare che la spirale è un segno del serpente raggomitolato, quel visitatore
– ricordate? – del visibile e dell’invisibile, testimone di vita e di morte e esploratore dell’inThe Muse as Medusa
I saw you once, Medusa; we were alone. / I looked you straight in the cold eye, cold. / I was not punished, was not
turned to stone – / How to believe the legends I am told? // I came as naked as any little fish, / Prepared to be hooked,
gutted, caught; / But I saw you, Medusa, made my wish, / And when I left you I was clothed in thought ... // Being
allowed, perhaps, to swim my way / Through the great deep and on the rising tide, / Flashing wild streams, as free and
rich as they / Though you had power marshalled on your side. // The fish escaped to many a magic reef; / The fish
explored many a dangerous sea – / The fish, Medusa, did not come to grief, / But swims still in a fluid mystery. // Forget
the image: your silence is my ocean, / And even now it teems with life. You chose / To abdicate by total lack of motion,
/ But did it work, for nothing really froze? // It is all fluid still, that world of feeling / Where thoughts, those fishes, silent,
feed and rove; / And, fluid, it is also full of healing, / For love is healing, even rootless love. // I turn my face around!
It is my face. / That frozen rage is what I must explore – / Oh secret, self-enclosed, and ravaged place! / This is the gift
I thank Medusa for. Ne Il Sito di Medusa, Università degli Studi di Bergamo. Traduzione di Anna Maria Robustelli.
11 Jean Clair, Méduse, Contribution à une anthropologie des arts du visuel, Paris 1989, Gallimard. Trad. ital.
Medusa. L’orrido e il sublime nell’arte, Milano, 1992, Leonardo.
12 tratto da un articolo comparso su “Lapis”, 1996, n. 18 su Louise Bourgeois, Designing for Free Fall di Christiane
Meyer-Thoss, Amman Verlag AG, Zurigo, 1992. Traduzione dall’inglese di Maria Nadotti.
10
– 33 –
conscio, il che quindi ci riporta all’arte. Il serpente, o i serpenti, d’altra parte, ci riportano
a Medusa. La Femme 2007 di Luise Bourgeois è una gouache che traccia la figura di una
donna nuda dai capelli lunghi quanto il corpo – di nuovo un rinvio alla figura di Medusa? –.
E che sono quei capelli esorbitanti se non un tentativo di relazione con il tutto, filamenti che
vanno a congiungersi con qualcosa che è fuori da lei?
Vari anni fa ho chiamato una mia scultura One and Others. Potrebbe essere il titolo di molti miei
lavori successivi: la relazione tra l’individuo e ciò che gli sta intorno è un pensiero che non mi
abbandona mai. Può essere casuale o stretta, semplice o complessa, sottile o ottusa. Può essere
dolorosa o piacevole. Soprattutto può essere reale o immaginaria. È su questo terreno che cresce
tutto il mio lavoro. I problemi di realizzazione – tecnici e persino formali e estetici – sono
secondari; vengono in un secondo momento e possono essere risolti.13
In Louise Bourgeois l’arte è un tentativo di sopravvivere alla vita, come lei stessa ci ha
rivelato, esplorando il rapporto profondo con la madre e i traumi dell’infanzia che – lei ci
dice – restano irrisolti. Il rapporto intenso con la madre è esplicato da queste citazioni:
Non è un’immagine che cerco. Non è un’idea. È un’emozione che si vuole ricreare, l’emozione
di volere, di dare e di distruggere.
Mia madre sedeva al sole per ore a aggiustare arazzi. Le piaceva davvero. Questo senso di
riparazione è profondamente radicato dentro di me. Rompo tutto ciò che tocco perché sono
violenta. Distruggo le mie amicizie, l’amore, i miei figli. La gente in genere non lo sospetta, ma
la crudeltà è presente nel lavoro. Rompo le cose perché ho paura e passo il tempo a riparare. Sono
sadica perché ho paura. Eppure la riconciliazione tra persone non funziona mai veramente.14
Da questa grande artista del novecento, tuttora vivente, ci viene una rappresentazione
tragica dell’esistente, che genera e distrugge e quindi implicitamente, e forse inconsapevolmente, ci viene una Medusa che, sedimentando i segni che l’hanno attraversata per secoli,
rivive come mostro, madre e mistero mitopoietico.
Anna Maria Robustelli
13
14
Ibidem.
Ibidem.
– 34 –
AMITO VACCHIANO
Zaccaria
il papa a cui nessuno sapeva resistere
Nel corso della sua storia bimillenaria la Chiesa ha visto avvicendarsi sul trono di
Pietro, l’umile “pescatore” di Galilea, moltissimi pontefici. Fra questi una buona parte
furono insignificanti o mediocri e il loro pontificato non ha lasciato traccia; alcuni, invece,
per levatura umana e culturale, lasciarono un buon ricordo di sé e della loro opera; ma solo
pochissimi furono i “grandi”, cioè quelle personalità di altissimo livello che non solo si
distinsero per fede ed elevate virtù cristiane, ma giunsero ad incidere profondamente nella
storia e nella cultura della loro epoca. Il sensus Ecclesiae ha voluto “santi” quest’ultimi e li
ha meritatamente fregiati dell’altisonante titolo di Magnus, cioè “grande” (ad esempio, san
Leone Magno, san Gregorio Magno, ecc.). I grandi papi, spesso uomini assai diversi per
lingua, nazionalità, cultura ed esperienze personali, sono riusciti a coniugare, nella propria
vita, gli alti valori spirituali, derivanti dalla specifica missione evangelica, con qualità e
virtù, forse più “umane” e “terrene”, ma non per questo meno stimolanti e proficue, come
una raffinata cultura personale unitamente a grande acume politico e consumata abilità
diplomatica. Sono questi i papi che hanno “cambiato la Storia”, figure sulle quali spesso
si focalizza non solo l’attenzione degli storici “di alto livello”, ma anche la curiosità di
un pubblico più vasto, con interessi meno specifici, ma non per questo meno legittimi e
apprezzabili.
Vi sono poi molti papi che, pur essendo stati davvero “grandi”, non hanno beneficiato di
questo appellativo. I motivi possono essere diversi, ma spesso sono limitati alla circostanza
che non si sa quasi nulla delle loro vicende, o perché vissero durante le grandi persecuzioni
della Chiesa o nei cosiddetti “secoli bui” dell’Alto Medioevo, periodi che, per ragioni diverse,
non videro fiorire grandi scrittori. Alcuni poi non sono stati celebrati semplicemente perché
i loro contemporanei non compresero i meriti speciali e la grandezza della loro azione, che
solo a distanza di secoli, grazie ad una riflessione più pacata, sine ira et studio, come direbbe
Tacito, possono essere valutati compiutamente in tutta la loro ampiezza. Alcuni papi, infatti,
ad un esame più attento di quel poco che traspare dalle fonti contemporanee, risultano, a noi
moderni, figure non meno grandi di altri pontefici che ebbero la fortuna di essere celebrati
(a volte a sproposito) da storici, poeti e letterati di fama.
A questo proposito è interessante soffermare la nostra attenzione sulla figura di Zaccaria,
un papa poco conosciuto, vissuto nel Medioevo più profondo. Fu papa dal 741 al 752, in
anni assai difficili e delicati per i futuri sviluppi della storia d’Italia e d’Europa. Di lui abbiamo
soltanto il breve profilo biografico tracciato nel Liber Pontificalis (una raccolta di biografie
di pontefici da san Pietro fino alla fine del medioevo) ed altre testimonianze sparse lasciateci
da varie fonti contemporanee. Zaccaria, pur essendo sempre stato considerato “santo” dalla
Chiesa, non ha mai ottenuto il titolo di magnus: eppure si tratta di un papa di altissimo livello,
che, grazie al suo coraggio, cultura e intelligenza politica, ha segnato, molto più di altri, le
vicende dei suoi tempi e quelle dei secoli successivi.
Visse in un periodo in cui l’Italia si stava lentamente riprendendo da secoli di invasioni
barbariche, guerre devastanti e pestilenze, che l’avevano prostrata e trasformata profondamente. Era nettamente divisa in due entità politiche contrapposte: il regno longobardo e
– 35 –
l’esarcato bizantino di Ravenna. Il primo, incentrato nel Nord, con capitale a Ticinum
(l’odierna Pavia) e propaggini che giungevano fin nell’Italia centro-meridionale (i ducati di
Spoleto e Benevento), sotto la guida del saggio ed energico re Liutprand, viveva il momento
del suo massimo splendore. Il secondo, invece, raccogliendondo tutti i territori della penisola
che si trovavano ancora sotto la dominazione bizantina (ducato di Venezia, Romagna, Pentapoli, ducati di Perugia, Roma, Terracina, Gaeta, Cuma, Napoli e Calabria), attraversava un
periodo di profonda crisi. Il suo diretto sovrano, l’imperatore Leone III di Bisanzio – un
eretico che aveva proibito in tutto l’impero il culto delle immagini sacre – era impegnato in
una lotta vitale in Asia Minore per difendere l’Impero dall’espansionismo aggressivo dell’Islam e non era assolutamente in grado di intervenire in Italia. I suoi sudditi italiani, invece,
in piena ripresa, erano insofferenti del fiscalismo oppressivo di Bisanzio e ambivano a forme
sempre più marcate di autonomia, se non addirittura di indipendenza politica, nei confronti
di un impero a cui pagavano le tasse, ma che li lasciava praticamente soli nella lotta contro i
Longobardi, i quali, dal canto loro, miravano, ormai palesemente, al dominio di tutta l’Italia.
Primi anni e formazione
Per comprendere la early life di Zaccaria, cioè la sua vita prima dell’elezione a pontefice romano, è necessario saper leggere le scarne e, apparentemente, contraddittorie notizie
che che ci sono pervenute a suo riguardo.
Il Liber Pontificalis lo definisce «natione Grecus» e aggiunge solo che suo padre si
chiamava Policronio.1 L’imperatore bizantino Costantino Porfirogenito nel De administrando
imperio afferma che era ’Aqhna‹oj, cioè “ateniese”, ovvero “di origine ateniese”.2 Antiche
tradizioni, infine, accolte come fededegne da molti studiosi (Domenico Bartolini,3 Giuseppe
Cozza-Luzi,4 Germano Giovanelli,5 Alexander P. Kazdhan6), lo vogliono originario della
Calabria e precisamente di Santa Severina, pittoresco borgo medievale, che sorge su uno
sperone roccioso alle falde orientali della Sila.
Non c’è nulla che ci autorizzi a ritenere inattendibili o manipolate tali notizie, e dal fatto
che sono molto differenti fra loro non ne consegue necessariamente che siano anche incompatibili. Ma andiamo per ordine.
Innanzitutto il fatto che un papa sia greco o genericamente orientale a Roma in quest’epoca – il periodo a cavallo fra i secoli VII e VIII – è un dato quasi normale: Roma, infatti,
non solo appartiene all’impero bizantino (che ormai, a partire dalla sua capitale, Costantinopoli, ha definitivamente assunto una fisionomia linguistica e culturale sostanzialmente
greca), ma è anche diventata rifugio di molti stranieri (peregrini) di origine orientale.
Alcuni sono chierici, monaci o semplici laici che giungono a Roma, solo per “pellegrinaggio”, cioè per visitare “i trofei degli Apostoli”, vale a dire le grandi chiese che conservaLe Liber Pontificalis. Texte, introduction et commentaire par l’abbé L. Duchesne, vol. I, Paris 1955, p. 426.
Costantino VII Porfirogenito, De administrando imperio, 27, p. 114 rr. 15-16 ed. Gy. Moravcsik: «Zacar…aj,
Ð p£paj ’Aqhna‹oj, ™kr£tei t¾n `Rèmhn».
3 Domenico Bartolini, Di S. Zaccaria Papa e degli anni del suo pontificato. Commentarii storico-critici, Ratisbona
1879, p. 3.
4 Giuseppe Cozza-Luzi, Historia S.P.N. Benedicti a SS. Pontificibus Romanis Gregorio I descripta e Zacharia
graece reddita [...] cura Iosephi Cozza-Luzi, Tusculani 1880, p. XXXI.
5 Germano Giovanelli, Vita di s. Nilo fondatore e patrono di Grottaferrata. Versione e note a cura dello Jeromonaco
Germano Giovanelli, Badia di Grottaferrata 1966, p. 170, nota 149.
6 Alexander P. Kazhdan, s.v. Zacharias, pope, in The Oxford Dictionary of Byzantium, III, Oxford-New York 1991,
p. 2218: «He was the son of a Greek from Calabria».
1
2
– 36 –
vano le spoglie mortali dei santi Pietro e Paolo, cioè del “principe degli apostoli” e dell’“apostolo delle genti”.
Cessate da secoli le persecuzioni degli imperatori pagani, placatisi gli sconvolgimenti
delle invasioni barbariche che provocarono la caduta dell’impero romano d’Occidente, convertiti ormai alla fede cattolica persino i fieri Longobardi, Roma comincia a riprendersi il
suo ruolo di guida di tutto il mondo cristiano: nei luoghi più remoti, così come nelle grandi
metropoli dell’Oriente, molti pii fedeli riscoprono in Roma – una città ormai spogliata del suo
splendore e del suo ruolo di capitale politica, circondata da barbari e oppressa persino dai
Romani d’Oriente – il baluardo dell’ortodossia e l’interprete più fedele e autorevole del
depositum fidei trasmesso dagli apostoli. Riscoprono cioè nel pellegrinaggio ad limina non
solo una pratica di fede, devozione ed espiazione nello stesso tempo, ma anche l’occasione
di abbeverarsi direttamente alla “fonte di vita” e chiedere all’apostolo Pietro, il “Pastore delle
genti”, la “luce vera”, quella che illumina tutti i cristiani e smaschera gli pseudoprofeti e gli
eretici.
A Roma, inoltre, nonostante le ristrettezze dei tempi esistevano strutture statali (ospedali),
ecclesiastiche (le diaconie) e private (i monasteri) finalizzate ad accogliere i pellegrini,
ristorarli dal lungo viaggio, curare le loro infermità e offrire loro anche quell’assistenza
spirituale di cui soprattutto avevano bisogno. Altri orientali si trovavano a Roma per motivi
più gravi: erano profughi dalle regioni orientali e africane invase prima dai Persiani e poi
dagli Arabi musulmani. Altri infine, soprattutto monaci, singoli o intere comunità, cercavano
il sostegno della Chiesa romana e del suo capo visibile, il papa, nella lotta contro le eresie che
di volta in volta travagliavano l’Oriente: arianesimo, nestorianesimo, monofisismo, monotelismo e, last but not least, l’iconoclastia.
A quell’epoca la Chiesa romana, guidata da pontefici di grande altezza – ad esempio san
Gregorio Magno – lottava strenuamente su due fronti: in primo luogo a difesa del primato
del vescovo di Roma contro le ambizioni dei patriarchi “ecumenici” di Costantinopoli, che
in qualità di vescovi della capitale dell’impero, non solo guardavano con cupidigia ai territori di lingua greca ancora sottoposti alla giurisdizione romana, ma ormai puntavano palesemente a rimpiazzare Roma nella leadership del mondo cristiano; in seconda istanza, il successore di Pietro doveva intervenire in modo risoluto e intransigente contro tutte le eresie che,
come la “zizzania”, spuntavano soprattutto in Oriente e che spesso trovavano simpatia e
sostegno proprio in coloro che, in qualità di guide e maestri, avrebbero dovuto ostacolarle e
reprimerle, vale a dire i patriarchi orientali e in molti casi, addirittura, i “cristianissimi”
imperatori di Bisanzio.
Che Zaccaria fosse di origine greca, dunque, come abbiamo visto, è un fatto non solo
ammissibile, ma addirittura frequente in quest’epoca. Resta tuttavia da chiarire il problema
di come conciliare la sua origine ateniese – attestata da Costantino Porfirogenito7 – con la
solida tradizione che lo vuole nativo della Calabria e di Santa Severina in particolare.
Per risolvere il dilemma, a mio avviso, bisogna calarsi in quel preciso contesto storico e
avanzare un’ipotesi suggestiva e che potrebbe anche essere verosimile.
A quell’epoca il limes, cioè il confine tra i territori bizantini e quelli longobardi, si era
consolidato sulle propaggini meridionali e orientali della Sila, il più grande sistema montuoso
della Calabria. La parte settentrionale della regione attuale, infatti, era da tempo sotto il
dominio dei Longobardi che avevano le loro teste di ponte nei gastaldati di Laino, Cassano
e Cosenza. Nella Calabria orientale e meridionale, invece, dominavano i Romani d’Oriente
7 Non c’è motivo di dubitare di questa notizia, a meno che non si tratti di un errore derivato dalla tradizione
manoscritta del testo di Costantino Porfirogenito.
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(o Bizantini, per usare un termine più familiare a noi moderni). Questi ultimi poi, mirando
a consolidare questi possedimenti, secondo una prassi che divenne normale a partire dal VII
secolo, concedevano la proprietà ereditaria di fondi di proprietà statale – frutto di conquiste
o espropriazioni forzate – a soldati (stratiîtai) appartenenti a unità orientali, generalmente
Greci o Armeni, ma anche di altre etnie (Slavi, Albanesi, Valacchi, Arabi, Mardaiti, Turchi,
ecc.). Le famiglie di questi soldati erano dette “militari” (o•koi stratiwtiko…) e in cambio della terra erano obbligate a fornire un servizio militare ereditario, cioè almeno un figlio che prestasse servizio nella cavalleria per sopperire alle necessità della difesa locale.
La maggior parte di queste famiglie erano di lingua greca, che era ormai l’idioma
dominante nell’Impero bizantino, da quando cioè le invasioni avevano portato via ai Romani
d’Oriente la Penisola Balcanica, l’Africa e gran parte dell’Italia, vale a dire gli ultimi territori dell’Impero dove la lingua e la cultura latina erano ancora prevalenti. Il tramonto dell’elemento latino favorì l’elevazione del greco a lingua ufficiale dell’Impero. Fin dall’età
ellenistica, infatti, nel bacino orientale del Mediterraneo il greco si era diffuso come lingua
franca del mondo del commercio e come lingua colta delle élites intellettuali, ma il suo vero
trionfo si realizzò quando entrò nell’uso come lingua della liturgia cristiana dei quattro troni
patriarcali dell’Oriente: cioè le Chiese di Antiochia, Alessandria, Gerusalemme e Costantinopoli.
Nell’Italia meridionale e in Sicilia queste famiglie greche andarono a rivitalizzare l’antico elemento ellenico, presente nel Sud fin dall’antichità, ma che ormai correva seriamente
il rischio di scomparire, sommerso dalle parlate romanze.8
Nulla vieta di pensare, dunque, che Policronio, padre di Zaccaria, soldato di lingua e
cultura greca, fosse originario proprio di Atene.9 Giunto in Calabria con il suo reparto nel
corso del VII secolo, in cambio dell’impegno a difendere stabilmente il confine, potrebbe aver
ottenuto una proprietà terriera a Santa Severina.10
Più difficile è spiegare dove e in che modo il rampollo di una famiglia militare greca
di Santa Severina si sarà procurato quella solida formazione intellettuale e spirituale che
probabilmente gli fruttò l’ingresso nel clero romano e, successivamente, gli permise di
ascendere addirittura al soglio pontificio; restano anche avvolti nel mistero i motivi che lo
spinsero a lasciare la sua terra e a trasferirsi in pianta stabile proprio a Roma. Su questo punto,
dal momento che le fonti sono completamente mute, sarà necessario procedere ancora una
volta per via di ipotesi.
Una prima potrebbe essere che la sua famiglia (o un suo membro, ad esempio, il padre
Policronio), come molte altre in quell’epoca (tra la fine del VII secolo ed i primi decenni
8 Com’è noto, la lingua greca della Calabria e della Puglia meridionale, forse proprio grazie alla nuova linfa
ricevuta in epoca medievale e alla forza unificante tipica della cultura bizantina, assunse un aspetto più “moderno” e fu
in grado di sopravvivere in condizioni quasi miracolose fino ai nostri giorni.
9 A partire dalla fine del VI secolo e per tutto il VII la Grecia, come tutta la Penisola Balcanica era stata invasa
ripetutamente da tribù slave che si stanziarono stabilmente nelle zone continentali, mentre punte avanzate, i Melingi e
gli Ezeriti, giunsero persino a occupare ampie parti del Peloponneso. Da una fonte tarda, la Cronaca di Monembasia,
abbiamo notizia che gli abitanti di Patrasso si stabilirono a Reggio in Calabria, ma che anche la Sicilia, Roma e il resto
d’Italia divennero meta dei profughi orientali.
10 Questo centro era destinato più tardi ad avere un ruolo di primio piano nella storia della Calabria bizantina.
Nell’885/86, infatti, sotto le sue mura, le armate imperiali, guidate dal m£gistroj Niceforo Foca, nonno dell’imperatore
Niceforo II Foca, infransero definitivamente il sogno degli Arabi di trasformare tutta la Calabria in emirato musulmano
e riaffermarono perentoriamente la sovranità imperiale sulla regione. L’imperatore Leone VI il Sapiente ribattezzò Santa
Severina con il nome di Nikópolis (cioè “città della vittoria”) e il suo vescovo fu elevato al rango di metropolita, segno
che nella stessa Costantinopoli questa fortezza di confine, a lungo roccaforte della lingua e del rito greco, veniva riconosciuta come un baluardo della civiltà bizantina in Occidente.
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dell’VIII), si sia trasferita a Roma direttamente dall’Oriente, per ricoprire uffici nell’amministrazione della città, che faceva parte dell’impero bizantino, o per sfuggire alle persecuzioni
religiose che accompagnarono l’imposizione della dottrina iconoclasta da parte dell’imperatore Leone III Isaurico. Questa ricostruzione, però, mal si concilia con la tradizione, forte e
radicata, che concordemente fa di Zaccaria un calabrese di Santa Severina.
Una seconda soluzione – a mio avviso più coerente – presupporrebbe che Zaccaria,
nato in una famiglia militare greca di Santa Severina, avesse abbracciato la vita monastica,
all’epoca in forte espansione, in qualche monastero della stessa Calabria (o eventualmente
anche della Sicilia). Qui avrebbe ricevuto un’istruzione solida e completa, molto al di sopra
dei livelli allora normali in altre parti d’Italia.
La Calabria meridionale, infatti, godeva di una situazione privilegiata rispetto ad altre
regioni: era rimasta ininterrottamente territorio romano sin dall’epoca dell’imperatore
Giustiniano (527-565) e aveva dovuto subire devastazioni da parte di barbari in misura inferiore rispetto ad altre zone dell’Impero.11 Il cristianesimo vi era giunto assai presto, come
anche in Sicilia, forse proprio grazie alla presenza consistente di una popolazione greca e di
numerose di comunità giudaiche, anche queste di lingua greca e di cultura giudaico-ellenistica.
Il monachesimo, poi, grazie anche ai frequenti contatti con l’Oriente, vi doveva esser giunto
assai presto, certo prima del VI secolo, epoca delle prime testimonianze di vita religiosa
associata in Calabria: il celeberrimo cenobio di Vivarium, fondato da Cassiodoro presso Stalettì,
e la comunità monastica costituitasi presso il luogo di culto di san Fantino il Giovane a
Tauriana. Queste fondazioni testimoniano anche la ricchezza e la vivacità culturale della
Calabria in un periodo in cui non era ancora sorta quella netta frattura fra il monachesimo
greco-bizantino e quello latino-occidentale, che si determinò soltanto quando l’Occidente di
lingua latina trovò in san Benedetto da Norcia il suo grande legislatore e riformatore monastico.
In Calabria, però, come del resto in tutto il théma di Sicilia (dalla metà del VI secolo d.C.
sottomesso a Costantinopoli),12 la famosa Regula di san Benedetto, nonostante gli sforzi
di san Gregorio Magno,13 non fece in tempo a mettere radici profonde. In seguito il monachesimo assumerà in Calabria quella fisionomia greco-bizantina, così marcata e profonda,
che gli consentirà di sopravvivere a lungo anche dopo la fine della dominazione bizantina in
Italia. L’antico monachesimo calabro-siculo, tuttavia, prima di scomparire, giocò un ruolo
decisivo: guidò senza traumi nella regione in passaggio dalla cultura tardo-antica a quella
bizantina, favorendo la cristianizzazione soprattutto delle zone rurali, che erano rimaste a
lungo tenacemente pagane, e salvaguardando i culti e le tradizioni religiose locali, in modo da
permettere il loro graduale adattamento alle nuove forme della spiritualità orientale; trasmise,
inoltre, alle nuove generazioni di monaci l’amore per i libri e la scrittura, sicché ancora oggi
le biblioteche di tutto il mondo sono ricche di manoscritti prodotti, in epoche diverse, negli
scriptoria calabresi. Il nuovo monachesimo italogreco, da parte sua, sviluppatosi gradualmente
nei secoli VII e VIII in forme tipicamente orientali, anche per impulso delle grandi figure
ascetiche che fiorirono in Oriente, non rappresentò dunque una frattura con il passato, ma
il graduale adeguamento del monachesimo di queste province alla nuova sensibilità ispirata
da Bisanzio. Pertanto, quando nell’VIII secolo, con un atto d’autorità l’imperatore Leone III
11 Com’è noto, la Calabria entrò a far parte dei domini bizantini all’epoca dell’imperatore Giustiniano I (527-565)
e vi rimase per oltre mezzo millennio fino alla definitiva conquista normanna nel 1060, ma la cultura greco-bizantina, che
vi aveva messo solide radici, resistette a lungo, lasciandovi tesori d’arte e di cultura che in parte sono giunti fino a noi.
12 Il ducato di Calabria, che incluse anche l’antico Bruttium, era strettamente dipendente dallo stratego del tema
di Sicilia.
13 Cfr. Silvano Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne (Istituto
italiano per gli studi storici, 14), Napoli 1963, p. 34.
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strappò a Roma le diocesi dell’Italia meridionale (così come quelle dell’Illirico) e le sottopose al patriarcato ecumenico di Costantinopoli, le conseguenze più traumatiche e dolorose
di questo provvedimento furono evitate: e benché questo atto segnasse la fine del processo
di “bizantinizzazione”, non permise che i legami della Calabria con Roma si spezzassero
completamente.
Più tardi, per motivi che ancora ci sfuggono, ma probabilmente già monaco, Zaccaria si
trasferisce a Roma. Forse, però, non siamo obbligati a ricercare motivi speciali per giustificare questo viaggio: come molti all’epoca, anche Zaccaria potrebbe essersi recato a Roma
semplicemente per un pellegrinaggio. I monaci, in particolare, avevano ampia libertà di
movimento e, con il consenso dell’abbate, potevano compiere qualsiasi pellegrinaggio. A
Roma possiamo immaginare che si sia fermato per qualche tempo, probabilmente ospite di
uno dei tanti monasteri orientali che vi sorgevano. Sempre qui avrà avuto occasione di farsi
notare dall’entourage del papa (o dal papa stesso) per la sua solida formazione culturale e le
capacità intellettuali. Si tenga presente che in quell’epoca, a causa della controversia iconoclastica, la tensione tra Roma da una parte e l’Impero e la Chiesa bizantina dell’altra era
salita in modo preoccupante: si temevano altre ritorsioni dell’imperatore nei confronti della
refrattaria Chiesa romana, ma ciò che soprattutto allarmava i papi era il basso livello culturale
del clero latino. Era difficile, infatti, non solo trovare persone che comprendessero il greco,
ma soprattutto chierici in grado di addentrarsi nei meandri delle sottili dispute teologiche che
tanto appassionavano gli orientali. Pertanto, un intellettuale in grado di padroneggiare la
lingua greca e dotato di profonda preparazione teologica, era un bene troppo prezioso e raro
per lasciarselo sfuggire.
Ci si potrebbe meravigliare, dunque, che una persona dotata di tali requisiti sia stato ben
presto apprezzato e annoverato fra il clero romano? Zaccaria, infatti, può essere identificato,
assai verosimilmente, con il diacono omonimo che sottoscrisse gli atti del sinodo romano
del 732. Certamente fu tra i più stretti collaboratori di papa Gregorio III, giacché in questa
funzione lo conobbe l’evangelizzatore della Germania, Bonifacio, probabilmente durante il
suo terzo viaggio a Roma, avvenuto nel 737-738.
Questa seconda teoria, che potremo definire “monastica”, nonostante le indubbie difficoltà per l’assenza di prove certe, ha tuttavia il merito di dare ragione non solo della raffinata formazione culturale e spirituale di Zaccaria, a quell’epoca conseguibile esclusivamente
in ambienti ecclesiastici o monastici, ma anche della considerazione e della stima che questo
papa ebbe per il monachesimo in generale e per quello benedettino in particolare, come
vedremo meglio più avanti.
I rapporti con i Longobardi
Quando, il 3 dicembre 741, pochi giorni dopo la morte di Gregorio III, Zaccaria venne
elevato al pontificato, ereditò una situazione politica particolarmente difficile sia per l’Italia
che per l’Europa e l’Impero bizantino. Nel corso di quell’anno erano morti tre dei protagonisti della scena politica fino a quel momento: l’imperatore Leone III detto “l’Isaurico”
(18 giugno), il maestro di palazzo del regno dei Franchi Carlo Martello (22 ottobre) ed infine
lo stesso papa Gregorio III (29 novembre).
Al momento della sua elezione Zaccaria trova l’Italia «valde turbata», come dice il suo
biografo. Il pericolo maggiore è Liutprand, re dei Longobardi, che governava insieme al
nipote Hildeprand (associato nel potere durante una malattia del re che aveva fatto temere per
la sua vita). Approfittando abilmente delle lotte iconoclastiche che avevano compattato e
contrapposto nettamente il clero e il popolo dell’Italia bizantina all’autorità imperiale, sentita
– 40 –
ormai come incompatibile ed estranea, Liutprand si era inserito nel conflitto. Presentandosi
come il campione dell’ortodossia cattolica e ritenendo che i tempi fossero maturi per dare
la spallata finale al dominio bizantino in Italia, aveva iniziato una politica di aggressione
militare contro i possedimenti bizantini dell’Italia centrale: l’esarcato (Romagna), la Pentapoli (Marche) e lo stesso ducato romano (un territorio corrispondente grosso modo all’attuale Lazio), su cui i papi avevano recentemente acquistato un’influenza politica e un “protettorato” che probabilmente comportava anche funzioni di governo, esercitate talvolta in
accordo con le autorità bizantine, talvolta in netto dissenso. Infatti l’esarca di Ravenna,
rappresentante dell’imperatore in Italia, non era più in grado di governare efficacemente tutte
le province imperiali, né di opporsi efficacemente all’aggressione dei re longobardi. Anche
per questo il predecessore di Zaccaria, Gregorio III, aveva stabilito intese con i duchi longobardi di Spoleto e di Benevento, tradizionalmente ostili al rafforzamento dell’autorità regia,
sperando col loro aiuto di poter difendere il ducato romano, o di salvaguardare almeno la sua
indipendenza.
Nel 739 Liutprand, dopo aver occupato Narni e aver spezzato così la pericolosa continuità territoriale fra Ravenna (capitale politico-amministrativa) e Roma (capitale morale e
religiosa), attendeva solo un pretesto qualsiasi per marciare su Roma. Questo gli venne
offerto allorché Trasimund, duca longobardo di Spoleto e ribelle al suo re, aveva ottenuto
rifugio a Roma dal patrizio Stefano, duca di Roma, che agiva di comune accordo con papa
Gregorio III. Liutprand invia ambasciatori a chiedere la consegna del ribelle ma, di fronte al
netto rifiuto, muove guerra contro Roma, occupando quattro città ai confini del ducato: Amelia, Orte, Polimarzio e Blera. Quindi in agosto fa ritorno al suo palazzo a Pavia.
Zaccaria viene eletto papa proprio mentre il re Liutprand stava preparando una nuova
spedizione militare contro il ducato romano, quella decisiva. In questo drammatico frangente egli dà subito prova della notevole dose di spregiudicatezza politica che caratterizzerà le
sue principali iniziative: abbandonando la politica di alleanza con i duchi longobardi, perseguita tradizionalmente dai suoi predecessori, offre al re Liutprand il proprio sostegno contro
il duca ribelle Trasimund, in cambio della pace e della restituzione dei quattro castelli della
valle del Tevere, che il re aveva occupato nel 739.
Nel 742, pertanto, su disposizione di Zaccaria, l’esercito romano partecipa alla spedizione
di Liutprand contro Trasimund. Il duca di Spoleto, per aver salva la vita, è costretto ad arrendersi e a farsi monaco, mentre al suo posto è nominato Agiprand, nipote del re. Sistemate
le cose a Spoleto, Liutprand si dirige verso Benevento, il cui duca, Godescalc, terrorizzato,
tenta di fuggire, ma è catturato e ucciso: al suo posto viene scelto l’energico Gisulf, nipote
di Aurona, sorella del re.
L’autorità esercitata in quest’occasione da Zaccaria sull’esercito romano è una conferma del fatto che, nell’ormai avanzata crisi del governo bizantino in Italia, il papa aveva
assunto chiaramente poteri politici in Roma ed esercitava funzioni di governo di una Res
publica Sancti Petri, d’intesa con il duca, il quale, sebbene nominato dall’esarca, agiva ormai
come un subordinato del papa.
Dopo la sottomissione di Spoleto, poiché Liutprand indugiava a consegnare le quattro
città, Zaccaria, «ut vere pastor populi sibi a Deo crediti»,14 non esita a lasciare Roma per
incontrarlo personalmente e raccogliere i frutti dell’accordo, facendo valere nei confronti del
re tutto il prestigio morale e carismatico che gli derivava dal presentarsi come il successore
di san Pietro. L’incontro avvenne a Terni, probabilmente nell’estate del 742, e per Zaccaria
fu un vero successo sotto tutti i punti di vista. Liutprand accolse il papa con grandi onori e
14
«Veramente come un buon pastore del popolo affidatogli da Dio»: Liber Pontificalis, cit., I, p. 247.
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Zaccaria «omnia quaecumque ab eo petiit per gratia Spiritus sancti obtinuit».15 Le trattative
durarono alcuni giorni, accompagnate da cerimonie religiose, e alla fine il re restituì le quattro città sottratte al ducato di Roma nel 739, insieme a Narni e ad almeno una parte dei patrimoni della Chiesa in Sabina, conquistati dagli Spoletini oltre trenta anni prima. Furono restituite anche le città pentapolitane di Osimo, Ancona e Umana, nonché la regione di Sutri.16
Tutte queste donazioni furono fatte «per donationis titulo», vale a dire con un formale atto
regio, e in tutti questi casi il destinatario era «beato Petro apostolorum principi».17 I prigionieri e gli ostaggi in mano dei Longobardi furono inviati tutti in patria e l’accordo fu sanzionato da una pace ventennale tra il re longobardo e il ducato romano, i cui destini venivano così distinti da quelli delle altre province bizantine nell’Italia centro-settentrionale.
Lo stesso giorno, essendo domenica, terminate le cerimonie religiose, il pontefice invitò a pranzo il re Liutprand per ricevere la benedizione apostolica. In questa occasione Zaccaria mise in evidenza un aspetto particolare del suo carattere: il re, infatti, pranzò con tanto
piacere e allegria di cuore che dichiarò di non ricordare di essersi mai divertito tanto.18
Rientrato in Roma, Zaccaria fu accolto con grandi festeggiamenti e celebrò il successo
della sua missione con una solenne processione del popolo romano che si snodò da Santa Maria ad Martyres (il Pantheon) fino alla basilica di san Pietro.
L’incontro di Terni, dunque, si caratterizza come un evento di grande portata storica: per
la prima volta il ducato di Roma fu chiamato apertamente res publica, cioè ‘Repubblica, Stato’, con san Pietro come capo eponimo e il papa come suo vicario. Inoltre sempre per la prima volta il papa agisce direttamente come il capo di uno stato sovrano e indipendente.
I rapporti con Bisanzio
Questi eventi si intrecciarono con le vicende interne dell’impero bizantino. Zaccaria
giunse al papato mentre da poco (741) era salito al trono Costantino V, dopo la morte del
padre, mentre Anastasio era patriarca di Costantinopoli (730-754): entrambi erano fautori
dell’iconoclastia, che i papi predecessori di Zaccaria, in particolare Gregorio III, avevano
duramente condannato. Nonostante ciò, Zaccaria, dando prova di grande tatto e accortezza
politica, inviò al patriarca Anastasio la consueta synodica, cioè la lettera sinodale con cui i
patriarchi informavano i loro colleghi orientali dell’avvenuta elezione contenente anche la
professione di fede del nuovo eletto: purtroppo il testo di questa synodica non ci è pervenuto,
ma certamente riaffermava la fede ortodossa e condannava nuovamente l’iconoclastia. Inviò
anche uno scritto esortatorio (suggestio), anche questo perduto, al giovane imperatore.
Zaccaria, dunque, non solo fu il primo papa a non richiedere l’approvazione imperiale né a
Ravenna, né a Costantinopoli, ma non venne meno neppure al suo dovere di custode dell’ortodossia, rinfacciando finemente al vecchio patriarca i suoi errori dottrinali e cercando, con
il dovuto ossequio e la massima deferenza, di riportare il giovane imperatore sulla retta via.
I messi papali dovettero giungere a Costantinopoli nel 742, mentre era in corso una
ribellione contro Costantino V ad opera del cognato Artavasdo, che in ottobre si insediò a
Costantinopoli mostrando di voler restaurare il culto delle immagini. Sembra che il patriarca
«Per grazia dello Spirito Santo ottenne tutto ciò che a lui chiese»: Liber Pontificalis, cit., I, p. 247.
Il castrum (città) di Sutri, invece, era stato occupato e restituito nel 727-728 a papa Gregorio II.
17 CDL, 3.1, cur. Brühl, n. 5, pp. 299-300.
18 «Eodem uero die dominico post peracta missarum solemnia ad prandium eundem regem ad apostolicam
benedictionem suscipiendam ipse beatissimus pontifex inuitauit. Vbi cum tanta suauitate esum sumpsit et hilaritate
cordis, ut diceret ipse rex tantum se numquam meminisse commessurum»: Liber Pontificalis, cit., I, p. 428.
15
16
– 42 –
lo assecondasse prudentemente, consentendo il ripristino delle icone della Madre di Dio e dei
santi. Zaccaria, informato degli sviluppi dai suoi messi o dall’apocrisiario,19 nel 743 inviò al
patriarca Anastasio una lettera in cui si felicitava per la caduta dell’“apostata” e per il ripristino, ancorché parziale, delle icone, esortandolo con una serie di considerazioni dottrinali
ad accogliere in pieno l’orientamento iconodulo20 restaurando anche le icone di Cristo.21
Da quel momento il papato dovette anche riconoscere Artavasdo come imperatore. Tuttavia
Costantino V, che aveva conservato basi in Asia Minore, in quegli stessi mesi sconfiggeva in
battaglia Artavasdo e suo figlio, e il 2 novembre 743 riconquistava Costantinopoli. A Roma
però si continuò per più di un anno a considerare Artavasdo come imperatore legittimo,
datando col suo nome i documenti ufficiali e le lettere pontificie. Più che a disinformazione,
ciò fu probabilmente dovuto all’incertezza su come sarebbe evoluta la situazione in Oriente,
dove Artavasdo restava un soggetto politico importante, mentre erano in corso nuove ribellioni militari e il patriarca Anastasio, sebbene sottoposto a pubblica umiliazione, conservava
la sua carica. È possibile anche che i messi papali trattassero il riconoscimento di Costantino,
chiedendo garanzie per il papato e per il culto delle immagini in Italia. Solo alla fine del 745
i documenti papali figurano nuovamente datati con riferimento all’impero di Costantino V,
che nel frattempo aveva eliminato definitivamente Artavasdo facendolo accecare insieme
con i figli. La situazione politica si era così definitivamente chiarita, ma si doveva essere
raggiunta anche, tra imperatore e papato, un’intesa che venne sanzionata dalla donazione alla Chiesa di Roma di due grandi proprietà fiscali site nella pianura pontina: le cosiddette
“masse” di Ninfa e di Norma. È probabile che contemporaneamente l’imperatore accettasse
l’accantonamento di fatto dei provvedimenti iconoclastici in Italia, dei quali non si fa più parola durante il pontificato di Zaccaria. La corte papale fece cadere il silenzio sulla transitoria
adesione ad Artavasdo, tanto che il biografo di Zaccaria esplicitamente la nega.
Il “caso” di Cesena
I termini della pace di Terni erano stati molto vantaggiosi per Liutprand, o almeno così
egli riteneva: aveva ottenuto la fine delle alleanze fra il papa e i duchi ed era convinto che,
in cambio del riconoscimento dell’indipendenza del ducato di Roma, avrebbe avuto mano
libera a Ravenna. Di conseguenza nel 743, mentre l’Impero attraversava uno dei suoi frequenti
periodi di crisi a causa dell’usurpazione di Artavasdo, riaprì le ostilità contro i territori
bizantini in Romagna, conquistando Cesena, un castrum situato in prossimità della frontiera
fra Ravenna e il regnum in un punto strategico sulla via Emilia,22 e predisponendosi ad assediare la stessa capitale dell’esarcato. L’esarca Eutichio e l’arcivescovo di Ravenna Giovanni,
sapendo del successo riportato da Zaccaria nella precedente trattativa con Liutprand, invia19 L’apocrisiario (lat. apocrisiarius o responsalis, dal gr. ¢pokrisi£rioj, der. di ¢pÒkrisij “risposta”) nell’Alto
Medioevo era sostanzialmente un antenato del moderno nunzio apostolico. In genere era un ecclesiastico scelto fra il
clero romano, inviato dal papa a Costantinopoli, dove risiedeva nel palazzo di Placidia, attiguo a quello imperiale, e,
dovendo disbrigare sia affari politici sia delicate questioni religiose, le sue mansioni erano così intense e molteplici, che,
a detta di papa Pelagio II, non poteva allontanarsi nemmeno un’ora dal palazzo imperiale.
20 Con il termine “iconodulo” (e„konÒdouloj ‘schiavo delle immagini’) gli iconoclasti designavano i loro avversari
ortodossi.
21 La lettera al patriarca Anastasio, attribuita dalla tradizione a Gregorio II, è stata recentemente rivendicata a
Zaccaria e datata all’estate 743; è conservata negli atti del secondo concilio di Nicea (787), editi in I.D. Mansi, Sacrorum
conciliorum nova et amplissima collectio, XIII, Venetiis 1767, coll. 91-9.
22 Liutprand probabilmente desiderava assicurarsi Cesena anche per controllare una via d’accesso a Spoleto.
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rono un appello supplichevole al papa, chiedendogli di intervenire anche in difesa dell’esarcato. Zaccaria inviò un’ambasceria, composta dal vescovo Benedetto, che era anche vicedominus papale, e da Ambrogio, primicerius notariorum, insieme a ricchi doni per il vecchio
re. Ancora una volta Zaccaria si rivela il solo in Italia in grado di trattare con i Longobardi.
Ma questa volta Liutprand non si rivela tanto malleabile e rifiuta di cedere. Senza indugi,
allora, Zaccaria affida il governo di Roma al duca Stefano, che sembra ormai essere un subordinato del papa, e si mette in viaggio verso Ravenna, «sicut vere pastor, relictis ovibus, ad
ea quae periturae erant redimendas cucurrit».23 È da notare che a Ravenna è l’esarca stesso
ad andare incontro al papa, mentre il protocollo imperiale prevedeva il contrario. Per ricevere
gli esarchi, per di più, il papa era tenuto ad allontanarsi da Roma un miglio, mentre in questo
caso l’esarca fece ben cinquanta miglia.
Da Ravenna il papa invia una seconda ambasceria a Liutprand, per chiedergli un incontro.
Ad Imola i suoi messi vennero però a sapere che il re intendeva impedire la venuta del papa,
e avvertirono Zaccaria, che prese l’audace risoluzione di forzare il re a riceverlo. Lasciata
Ravenna, entrò infatti nel Regno longobardo, raggiungendo il Po il 28 di giugno. Liutprand,
che «dolore perpulsus»24 aveva appena rifiutato di ricevere i messi del papa, fu costretto ad inviargli incontro i grandi della sua corte, che lo condussero a Pavia, dove il re si trovava. L’incontro si svolse con la massima formalità, tra cerimonie liturgiche e banchetti. Le trattative politiche furono invece molto difficili: il papa, senza mezzi termini, disse a Liutprand che doveva
restituire le città sottratte ai ravennati. Dopo aver riflettuto sulla questione, il re decise di
restituire due terzi di Cesena “ad partem reipublicae” e di conservare il restante terzo fino al
primo giugno dell’anno successivo (il 744) o fino al ritorno del suo inviato da Costantinopoli.
Ottorino Bertolini ritiene che a Terni Zaccaria si comportò come un sovrano che opera
per il bene del suo Stato, mentre a Pavia agì come un rappresentante dell’esarca.25 In realtà,
il papa agì da sovrano in entrambe le occasioni.26
A queste vicende seguì un periodo di relativa tranquillità nei rapporti con i Longobardi.
Morto agli inizi del 744 Liutprand, il suo collega e successore Hildeprand venne deposto dopo pochi mesi e il nuovo re Ratchis manifestò un atteggiamento conciliante nei confronti del
papato e delle popolazioni delle province bizantine; ricevette i messi che Zaccaria gli aveva
subito inviato e rinnovò con loro la pace ventennale probabilmente estendendola a tutti i territori bizantini.
L’amministrazione della “Res publica Sancti Petri”
Attenuatosi il pericolo longobardo, e ristabilita insieme la pace con l’Impero bizantino,
sembra che Zaccaria si dedicasse a restaurare ed abbellire le principali chiese romane; una
cura che era divenuta parte qualificante del governo dei papi. Restaurò e rinnovò il complesso lateranense ove aveva sede l’amministrazione papale: vi costruì tra l’altro una torre,
con porte e cancelli di bronzo e un’immagine del Salvatore all’ingresso, ed una nuova sala
23 «Come un vero pastore per recuperare il resto del suo gregge e ciò che esso aveva smarrito»: Liber Pontificalis,
cit., I, p. 429.
24 Liber Pontificalis, cit., I, p. 429. Il vecchio re, infatti, non godeva di buona salute (sarebbe morto l’anno successivo), ma forse la sua sofferenza derivava anche e soprattutto dal fatto che non aveva previsto che il papa intervenisse
a favore della città da cui i suoi predecessori avevano subito tante umiliazioni; e un papa poi, come Zaccaria, al quale
nessuno poteva dire di no!
25 Ottorino Bertolini, Roma e longobardi, Roma 1972, pp. 57-58.
26 Cfr. Thomas F. X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova 1998,
p. 76.
– 44 –
per cerimonie, decorata di marmi, mosaici e pitture. Donò parati e vasellame liturgico alle
basiliche degli apostoli e a molte altre chiese romane. Sembra che creasse una biblioteca di
testi liturgici in San Pietro, donando codici appartenenti alla sua famiglia. Zaccaria si preoccupò anche dell’approvvigionamento delle istituzioni ecclesiastiche romane, per garantire
il quale creò una serie di grandi aziende agricole, chiamate domuscultae, poste nel territorio
circostante Roma, per lo più in prossimità delle grandi strade che raggiungevano la città.
La peculiarità di queste aziende, che si estendevano per centinaia di ettari, consisteva nelle
modalità di gestione. I numerosi patrimoni che la Chiesa romana possedeva fin dall’antichità
nel Lazio e in altre regioni italiane, comprese quelle longobarde, erano per lo più affittati, con
contratti a lunga scadenza, a persone che coltivavano direttamente; la Chiesa traeva da essi
redditi in denaro, senza avere però la disponibilità delle terre né dei prodotti agricoli. Le
domuscultae vennero invece gestite direttamente, facendole lavorare da contadini dipendenti,
organizzati in forme di semi-schiavitù. I raccolti e il bestiame prodotti nelle aziende erano
utilizzati direttamente dalla casa papale, oppure destinati ai consumi di determinati uffici
ecclesiastici o di istituzioni dedite all’assistenza dei bisognosi (diaconie, ospedali). Oltre al
vettovagliamento diretto, probabilmente divenuto necessario per la difficoltà di importare
derrate alimentari da lontano, l’istituto delle domuscultae consentiva il controllo del territorio
e della popolazione rurale. Forse per questo esse non furono ben viste dai proprietari fondiari
di Roma e del territorio circostante; ciò nonostante l’istituzione venne salvaguardata dalla
Chiesa, che riuscì per lungo tempo ad evitarne lo snaturamento. È possibile che anche le
“masse” di Ninfa e Norma, donate dall’imperatore Costantino V, fossero sfruttate in gestione
diretta. Nell’insieme sembra che Zaccaria mirasse a ricostituire all’interno del ducato romano
quel complesso di patrimoni fondiari riservati che la Chiesa romana aveva perduto con le
confische dell’imperatore Leone III circa dieci anni prima.
Attività pastorale e missionaria
Gli orizzonti politici e pastorali di Zaccaria non furono comunque limitati alle questioni
locali e alle relazioni con i Longobardi e con l’Impero bizantino. Fin dall’inizio del pontificato, egli dedicò grande attenzione all’opera di diffusione e organizzazione della Chiesa
in Germania e nel Regno franco condotta dall’evangelizzatore anglosassone Bonifacio, che
Gregorio II aveva già costituito “vescovo della Germania”. Bonifacio si tenne continuamente
in contatto con Zaccaria, informandolo sui progressi della sua attività e sollecitando istruzioni
in materia di diritto ecclesiastico, di costume e di liturgia. Zaccaria fornì le istruzioni richieste; inviò la conferma papale ai nuovi vescovi creati in Germania da Bonifacio; su richiesta
di questi trasmise il pallio anche agli arcivescovi di fresca istituzione di Sens, di Reims e di
Rouen. Nel 745 celebrò a Roma un sinodo nel quale si condannarono i sacerdoti Adelberto
e Clemente, che in Germania predicavano dottrine lesive dell’autorità ecclesiastica ed erano
stati perciò incarcerati da Bonifacio.
I rapporti con i Franchi
Probabilmente proprio per il tramite di Bonifacio Zaccaria entrò in rapporto con i maestri di palazzo Pipino (III) e Carlomanno, figli di Carlo Martello, che esercitavano l’autorità
regia nel Regno franco, in nome e in vece dei decaduti re dell’antica dinastia merovingia. Per
motivi politici non meno che religiosi, i due principi favorivano sia l’azione missionaria di
Bonifacio in Germania, sia l’opera di riforma ecclesiastica nel Regno franco; in particolare
essi promossero sinodi in cui lo stesso Bonifacio avviò la riforma dei costumi e dell’educa– 45 –
zione del clero franco, che versava in condizioni deplorevoli. Zaccaria scambiò messaggi
con i due maestri di palazzo, dando suggerimenti e direttive in materia di disciplina ecclesiastica e di morale. Quando, nel 747, Carlomanno rinunciò al potere per abbracciare la vita
monastica, Zaccaria lo accolse a Roma, e lo insediò nel monastero di Sant’Andrea al Monte
Soratte, di cui gli fece dono. Nel 749 Pipino, rimasto unico capo politico dei Franchi, inviò
dal papa il vescovo Burcardo di Würzburg ed il cappellano Fulrado per sollecitare un responso
su un quesito di natura politica ed etica: era bene o male che vi fossero in Francia re privi del
potere effettivo? Zaccaria, offrendo un’ulteriore prova di spregiudicatezza intellettuale e
politica, diede una risposta destinata ad avere grandi conseguenze nella storia dell’Europa e
del papato: era meglio che avesse nome di re chi esercitava realmente il potere, anziché chi
ne era privo, “perché non fosse turbato l’ordine”. Il responso papale fornì la legittimazione
morale e religiosa al colpo di Stato con cui, nel novembre del 751, Pipino si fece proclamare
re dei Franchi, deponendo l’ultimo sovrano di stirpe merovingia, Childerico. Dopo l’elezione,
l’arcivescovo Bonifacio unse Pipino col crisma benedetto per conferirgli una consacrazione
religiosa sostitutiva della sacralità pagana del sangue merovingio. La Chiesa legittimava così
il cambiamento di dinastia e offriva sostegno al nuovo re; non è però attestato un ruolo diretto
di Zaccaria in tali vicende. Alcuni anni più tardi, peraltro, papa Stefano II rinnovò l’unzione
di Pipino estendendola anche ai figli che dovevano succedergli nel regno.
Il monachesimo benedettino e la cultura altomedievale
I canoni dei sinodi Romani, che Zaccaria celebrò nel 743 e nel 745, attestano le sue
capacità in campo ecclesiastico e civile. Così come le sue numerose lettere inviate a prelati
dell’Europa settentrionale risolvono con competenza e autorevolezza i quesiti che gli venivano sottoposti. Tutto ciò conferma quanto sappiamo sulle capacità culturali di questo pontefice. Come abbiamo visto, già prima di essere eletto papa Zaccaria ebbe modo di ricevere
un’istruzione di livello elevato per l’epoca. Forse in famiglia dovette ricevere un’apprezzabile istruzione che certo perfezionò nei monasteri in cui risedette e nella stessa Roma. Aveva,
infatti, ottima competenza oltre che in greco anche in latino e possedeva una biblioteca privata
di codici liturgici, esegetici e teologici che in seguito donò alla Chiesa romana. Tradusse (o
fece tradurre) in greco, per un pubblico che non conosceva il latino, i Dialoghi di Gregorio
Magno, forse nella stessa Roma. L’opera, che gli è ascritta da una tradizione consolidata, ebbe largo successo. Il genere letterario, infatti, la qualità del testo originale e indubbiamente
anche la perfetta riuscita della traduzione ne garantirono la diffusione e la circolazione fra i
lettori nel mondo bizantino. La vita di san Benedetto, contenuta nel secondo libro, una volta
tradotta in greco, fece conoscere il santo di Norcia in Oriente dove ancora oggi è venerato
come santo (insieme all’autore della sua vita, san Gregorio Magno). Zaccaria stimava moltissimo l’archegeta del monachesimo latino e riteneva che non sfigurasse certo di fronte alle
grandi personalità che avevano diffuso il monachesimo in Oriente, ma fu anche un grande
estimatore del monachesimo benedettino, nato dalla celebre Regula, di cui incoraggiò la
diffusione in tutta Europa: ne aveva compreso evidentemente il valore nella promozione dell’evangelizzazione e nella conservazione del patrimonio culturale del mondo antico.
Gli ultimi anni
Al tempo dell’elevazione regia di Pipino, Zaccaria era nuovamente alle prese con il problema longobardo in Italia. Nel 749 il re Ratchis, per ragioni che sfuggono, aveva rotto la tregua con l’Impero, assalendo la città di Perugia ed altri centri della Pentapoli. Zaccaria ripre– 46 –
se subito il ruolo di protettore dei territori imperiali; recatosi coraggiosamente a Perugia,
accompagnato da esponenti del clero romano, pose nuovamente in atto quelle sperimentate
tecniche di persuasione alle quali sembra che i re longobardi non sapessero resistere. Infatti
riuscì ancora una volta ad ottenere che il re togliesse l’assedio alla città. Pochi giorni più
tardi, anzi, Ratchis rinunciò al Regno e recatosi a Roma prese dalle mani del papa l’abito
monastico, ritirandosi a Montecassino (così come Carlomanno si era ritirato a Sant’Andrea
al Monte Soratte), mentre anche la moglie e la figlia entravano in monastero. In entrambe le
iniziative di Ratchis influirono problemi interni del Regno longobardo, dove i fautori della
lotta contro l’Impero bizantino dovevano essere forti. Subito dopo la sua abdicazione, venne
infatti eletto re suo fratello Astolfo, che riprese la politica aggressiva contro i territori bizantini e contro i ducati di Spoleto e Benevento. Agli inizi del 751 Astolfo conquistò Ravenna,
apparentemente senza incontrare resistenza, ponendo fine così alla sovranità bizantina nell’Italia centrale. Non si ha notizia delle reazioni di Zaccaria a questi drammatici eventi; egli
morì pochi mesi più tardi, il 15 marzo (giorno in cui ne viene festeggiata la memoria) del 752.
Fu sepolto in San Pietro «in porticu pontificum».
Del papa “a cui nessuno sapeva resistere”, ci resta il bel ritratto, eseguito mentr’egli era
in vita, scoperto nella chiesa di Santa Maria Antiqua, ai piedi del Palatino: qui è raffigurato
con il nimbus quadratus, i paramenti liturgici e in mano un libro incastonato da gemme preziose, capelli e barba nerissimi, sguardo penetrante. Ma il più bel ritratto di lui ce lo ha lasciato
il Liber Pontificalis: «Vir mitissimus atque suavis, omnique bonitate ornatus, amator cleri et
omni populi Romanorum, tardus ad irascendum et velox ad miserendum, nulli malum pro malo reddens, neque vindicta secundum meritum tribuens, sed pius ac misericors, a tempore ordinationis suae omnibus factus, etiam et his qui ante sui fuerunt persecutores bona pro malis reddidit, eosque honoribus promovens simul et facultate ditavit».
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Sezione didattica
(collaborazioni degli studenti)
LICIA FIERRO
Introduzione ai progetti
realizzati dagli alunni di II e III B
per l’anno scolastico 2008-2009
Il Dipartimento XImo del Comune di Roma che da molti anni si occupa di progetti
speciali per la scuola superiore, ha presentato per il corrente anno scolastico il tema:
“Natura e natura umana, arti e pensiero”. Sulla base di tale traccia è stata costruita e
proposta una vera e propria rete di approfondimenti particolari in modo che gli insegnanti
fossero in grado di renderli omogenei e integrabili nei vari ambiti curricolari a seconda dell’indirizzo delle scuole e delle esigenze di interdisciplinarietà. I seminari cui si poteva partecipare hanno riguardato la musica, la letteratura, la storia, la politica, attraverso il filtro
unificante della filosofia.
Infatti l’iniziativa del Dipartimento XImo ha la sua ragion d’essere nella collaborazione
con la Società Filosofica e le facoltà di Storia e Filosofia dell’Università Roma Tre che mette
a disposizione molti suoi docenti e materiale di ricerca.
L’organizzazione del progetto ha previsto, come negli anni precedenti, un seminario di
formazione della durata di due giorni con carattere introduttivo e formativo presso l’Università di Roma Tre nel mese di ottobre. In quella occasione i partecipanti hanno potuto usufruire
di lezioni specialistiche utili per orientare la scelta dei singoli percorsi con molti spunti per
correlare e articolare le possibili connessioni inter e pluridisciplinari in vista dello svolgimento di un lavoro comune. Alle relazioni frontali, si è accompagnata un’ampia documentazione bibliografica, dossier, filmati e molti contribuiti adattati con gli strumenti della multimedialità alle esigenze della didattica.
I docenti del corso B, coinvolti nel progetto, hanno poi raccolto e ordinato tutto il materiale messo a loro disposizione. Essi hanno concordato l’argomento specifico su cui le due
classi avrebbero lavorato tenendo conto delle scelte curricolari e dei settori in cui si richiede
una maggiore integrazione dei contenuti culturali.
Le professoresse hanno organizzato lezioni in copresenza per presentare e spiegare agli
alunni i termini del progetto, le modalità e i tempi di svolgimento di esso anche in orario
extra-scolastico.
Tutto il lavoro preliminare ha consentito di suddividere i compiti tra gli studenti stabilendo le varie fasi del monitoraggio dei risultati parziali dell’indagine.
Tra le varie proposte del Dipartimento e dell’Università Roma Tre abbiamo scelto, con
i ragazzi, di aderire ad incontri con professori universitari nella forma di conferenze e le visite
ad alcune mostre con la guida di personale specializzato. Gli studenti, fin da subito, hanno
fotocopiato il materiale necessario alla ricerca e si sono anche abituati a frequentare biblioteche, ad utilizzare in modo intelligente Internet, specie per arricchire l’apparato bibliografico
di riferimento.
La classe II B ha individuato come argomento specifico di ricerca “Natura fisica e natura
morale nel mondo greco-romano e in alcune moderne rielaborazioni”.
Di fronte alla rielaborazione di un tema così complesso qual è quello della natura umana,
i ragazzi hanno voluto anzitutto leggerne lo sviluppo entro alcune coordinate di fondo per
uscire da astrattezze teoriche e facili generalizzazioni.
– 51 –
Se l’indagine sulla natura umana è cominciata già in età arcaica, sono stati, però i greci,
a scoprire e a riconoscere in essa libertà e razionalità attribuendo all’uomo il primato e insieme
il potere di dare un senso alle cose.
Anche al naturalismo dei presocratici, per quanto se ne voglia decantare l’oggettivismo,
non è estranea la considerazione dell’anima umana e dei suoi introvabili confini “tanto è profondo il suo logos”.
Nella prima parte della loro ricerca, gli studenti si sono impegnati a rintracciare elementi
di continuità nell’idea greco-romana di uomo partendo dalla filosofia ellenistica. Lo studio
del mondo fisico, la perfetta conoscenza delle sue strutture è condizione per liberare l’uomo
dalla paura, per esaltare di fatto la superiorità della sua natura morale e della sua razionalità
che nessuna forza estranea può intaccare o distruggere. Nell’epicureismo, la ricetta della vita
felice consiste in tale consapevolezza che si traduce in saggezza pratica, piacere catastematico,
atarassia.
La traduzione poetica del messaggio epicureo nel “De rerum natura” di Lucrezio ha
quasi naturalmente condotto gli studenti a scoprire i modi con cui Roma ha recepito e integrato nella sua cultura i concetti di natura fisica e natura morale. In questa sezione il lavoro
si arricchisce del commento delle fonti e di una ricca, articolata lettura critica di esse alla luce
delle varie interpretazioni storiografiche.
Dai romani, al cristianesimo, al tardo medioevo, al rinascimento, fino a Marx e alla sua
tesi di laurea si forniscono esempi di equivocità ed ambivalenze cui si è prestata, suo malgrado, la “soluzione epicurea”.
A prezzo di un salto inevitabile nel tempo, giustificato dall’esigenza di collegare le elaborazioni classiche al medesimo tema trattato e studiato nel pensiero moderno, gli studenti
hanno rivolto l’attenzione alle filosofie di Hobbes e Hume in cui più arditamente si intrecciano
e si complicano libertà e necessità, ragione e sentimento, morale e politica.
Rispetto alle certezze antiche, la concezione dell’uomo come creatura imperfetta, il divario tra la sottigliezza formale della ragione e la compresenza delle passioni aprono nuovi scenari e prospettive. Una natura umana debole e bisognosa, riconosciuta in sé come negli altri,
in un rapporto di forza o di simpatia, deve comunque proteggersi nell’aggregazione sociale.
In ultimo l’analisi è completata, o meglio trova un approdo in riferimenti alla sociobiologia, ovvero al possibile collegamento tra l’evoluzione culturale e quella genetica; ne emerge una natura umana in cui razionalità e pulsioni, egoismo ed altruismo interagiscono in perenne, instabile equilibrio.
Gli studenti hanno ascoltato con ottimo frutto la conferenza sull’epicureismo tenuta dal
professore Spinelli (titolare della cattedra di filosofia antica nella facoltà di Filosofia a Villa
Mirafiori) ed hanno visitato la mostra su Giovanni Bellini alle Scuderie del Quirinale. Hanno imparato, soprattutto, che l’impegno nello studio può diventare scelta e patrimonio comune
di conoscenze e di pensieri.
Questo piccolo saggio sarà presentato nella forma di un Dossier nella Sala Stampa dell’Auditorium Parco della Musica il prossimo 30 maggio e gli alunni riceveranno un attestato
di merito da parte degli Enti che hanno promosso il progetto.
La classe III B ha scelto di approfondire il tema dando ad esso come titolo: “Il concetto
di umanità, natura, tradizione, rivoluzione”.
Gli studenti di questa classe, già ricchi dell’esperienza dell’anno passato, si sono interessati, anzitutto, alle varie possibilità di tradurre in un argomento specifico la traccia generale proposta dal Dipartimento XImo e dalla Società Filosofica.
Mossi dall’esigenza di conciliare lo studio in oggetto con i contenuti dei programmi
curricolari e con la necessità di allargarne i confini in vista dell’esame di stato, essi hanno
– 52 –
inteso ripercorrere il concetto di umanità ponendone in risalto i fondamenti teorici e gli
sviluppi nella molteplicità delle direzioni in cui più squisitamente si articola la trama delle
relazioni intersoggettive.
Tale prospettiva appare quanto mai attuale nel tempo nostro di risorta xenofobia, di razzismo strisciante, di superba arroganza dell’io padrone della tecnica, sempre più dimentico
dell’Essere e della comune appartenenza al genere umano.
Nella prima parte dell’anno scolastico, proprio contemporaneamente a questa scelta di
lavoro, è stato celebrato con varie manifestazioni il sessantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e i ragazzi, non solo vi hanno partecipato, ma ne hanno
tratto ulteriore motivazione per orientarsi in questo difficile cammino sull’evoluzione del
concetto di umanità.
Autonomi nella divisione in gruppi e nei singoli compiti da assolvere, gli studenti hanno
utilizzato il materiale fornito dagli insegnanti e dagli Enti di riferimento arricchendo la bibliografia e la documentazione in corso d’opera.
Partendo dagli studi di G. Marramao, in particolare sui rapporti tra oriente ed occidente
in cui si è configurata, per lunga tradizione, la distanza tra una società fin dall’origine non
libera, dove la tirannide sarebbe legittima forma di governo, ed una società europea-libera
dove questo regime sarebbe illegittimo, l’analisi si è sviluppata intorno alle figure teoretiche
e politiche elaborate in ambiente greco-romano.
La rilettura del concetto di umanità nell’età umanistico-rinascimentale ha consentito di
aprire il discorso sul mutamento della condizione umana anche attraverso le nuove scoperte
della scienza e lo slargarsi dei confini del mondo.
Il conflitto tra l’Europa, ricca del suo patrimonio antico e consolidato di humanae litterae
e gli “omuncoli” di cui parla Sepulveda, esplode nella coraggiosa denuncia di B. de Las Casas
nella sua “Brevissima relazione della distruzione delle Indie”.
Nella seconda parte di questa ricerca si è voluto per un verso seguire il corso dell’antropologia filosofica e per l’altro sottolinearne qualche traduzione poetico-letteraria. Per il primo
aspetto i riferimenti sono a Ghelen e Plessner dalle cui opere si ricava una concezione dell’uomo come essere manchevole, bisognoso, impreparato e tuttavia capace di disporre di sé
e del mondo sperimentando nuove tecniche “intellettuali” in una incessante processualità.
Trova spazio nella moderna antropologia una lettura critica del darwinismo ed una considerazione dell’uomo come essere che è corpo, ma è anche “fuori del corpo”, in grado di proiettarsi al di là, di vedere dal di fuori la sua stessa vita. Precarietà, contingenza, inquietudine lo
attanagliano, mentre è spinto verso una dimensione superiore che in gran parte gli resterà
ignota.
Quale sarà il futuro: l’uomo tecnologicamente modificato trionferà davvero, come asseriscono i transumanisti? Troveremo ancora qualche sollievo nella poesia?
Tante le ipotesi che filosofi, scienziati, sociologi hanno già elaborato. Le tecnoscienze e
la tecnoetica, l’ingegneria genetica e la bioetica, la robotica e la roboetica: il novecento ha
lasciato alle nuove generazioni il compito di decidere sui vantaggi e i limiti delle ultime
conquiste umane. È già in atto la rivoluzione del concetto di umanità. Su questo ed altro
abbiamo ragionato alla fine di questa breve ricerca che sarà presentata, in forma di Dossier e
riassunta in DVD, il prossimo 30 maggio nella Sala Stampa dell’Auditorium Parco della
Musica. In quella occasione i ragazzi di entrambe le classi riceveranno un attestato di merito
da parte degli Enti che hanno promosso il progetto.
Licia Fierro
Coordinatrice del Progetto
– 53 –
LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA
Natura fisica e natura morale
nel mondo grecoromano
e in alcune moderne rielaborazioni
– Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare –
(anno scolastico 2008-2009)
CLASSE II B
Coordinatrice: Prof.ssa Licia Fierro - Collaboratrice: Prof.ssa Alda Giannì
GLI ALUNNI:
Marina Amadori - Laura Arista - Alessandra Bellegrandi - Edoardo Cittadini - Giulia Cossu
Giovanna Fasano - Giulia Feroleto - Ilaria Ferrara - Francesca Generali
Giulia Giannini - Andrea Miniagio - Maria Palermo - Flavia Parisi - Marta Santaniello
Veronica Santoni - Flavia Torelli - Francesca Vernile - Alessandra Zianni.
INDICE:
INTRODUZIONE.
CAPITOLO I
1.1 Lo studio della natura come presupposto della vuta felice.
CAPITOLO II
2.1 Nel connubio di poesia e filosofia. il rischiaramento e la liberazione da ogni paura.
Lucrezio e l’Epicureismo a Roma; Lucrezio e la natura; Lucrezio e l’anima;
Lucrezio e la morte; Lucrezio e gli dei; Lucrezio e l’amore; Lucrezio e il progresso.
CAPITOLO III
3.1 Il conflitto inmanente alla natura umana e le necessità delle regole nel pensiero di Hobbes e Hume.
INTRODUZIONE
L’elaborazione del concetto di natura umana è universalmente attribuita ai filosofi greci:
è infatti in Grecia che l’indagine sull’uomo si è approfondita, a partire dalla Sofistica, per poi
influenzare tutta la storia del pensiero successivo. Quest’idea del primato della cultura greca
rispetto alle altre non è condivisa da tutti, infatti alcuni studiosi1 ritengono che, per affermare
ciò, si dovrebbe avere una panoramica del pensiero sviluppatosi, parallelamente a quello
greco, in Oriente. Tuttavia, se è vero che non si può affermare con sicurezza che i Greci
furono i primi in assoluto a riempire di contenuti l’idea astratta di “uomo”, è pur vero che
furono loro ad associare all’idea di “uomo” quelle di “libertà” e “razionalità”, che contraddistinguono il concetto di umanità che ancora oggi è alla base della cultura occidentale. Il
problema da porsi, a questo punto è quale sia stato il percorso del pensiero greco, e come
1
E. Berti, In principio era la meraviglia, Le grandi questioni della filosofia antica, Roma-Bari, Laterza, 2007,
cap. IV.
– 54 –
l’indagine sulla natura umana si sia evoluta dall’età arcaica, passando per l’età classica, per
poi giungere, attraverso l’età ellenistica, ad influenzare la cultura romana e quella occidentale in genere.
Dando credito alle teorie di Hegel,2 la filosofia greca si sarebbe espressa inizialmente in
termini di naturalismo ed oggettivismo, impegnandosi principalmente in un’indagine fisica
dell’universo, e concependo “lo spirito come identico alla natura, e il soggetto come identico
all’oggetto”.3 Successivamente, passando attraverso l’astratto soggettivismo dei Sofisti e di
Socrate, sarebbe pervenuta all’idealizzazione (Platone) e poi alla concretizzazione (Aristotele)
del concetto di individuo. Il “naturalismo” dei presofisti, si contrapporrebbe dunque all’“umanismo” dei filosofi successivi. Tuttavia, è possibile individuare altre interpretazioni,4 secondo
le quali vi è un’attenzione all’uomo ed un “sentimento antropocentrico della vita”5 in ogni
espressione della cultura greca, dall’indagine presocratica sulla natura, alle arti figurative, dall’oratoria alla filosofia classica: i greci sono dunque sempre stati scrupolosi osservatori della
natura umana, benché non abbiano formulato fin dall’inizio quella domanda, “Che cos’è
l’uomo?”, che soltanto Socrate avrebbe posto ad Alcibiade nel celebre dialogo platonico.6
I greci hanno sempre avuto una grande considerazione dell’uomo, ne è una prova il fatto
che furono tra i primi a rappresentare le loro divinità, modello ideale di perfezione, in forma
umana. La convinzione della superiorità dell’uomo rispetto a tutti gli altri esseri viventi si può
ritrovare anche nelle dottrine dei fisici presocratici, come ad esempio Anassimene ed Eraclito,
i quali, individuato quello che per loro è l’elemento divino, principio di tutte le cose, affermano
che di questo stesso elemento è composta l’anima umana. E così, mentre per Anassimene,
“proprio come la nostra anima, che è aria, ci sostiene e ci governa, così il soffio e l’aria abbracciano il cosmo intero”,7 Eraclito invece attribuisce all’anima un’importanza particolare,
che la distingue da tutto ciò che ha confini: “I confini dell’anima non li potrai mai trovare, per
quanto tu percorra le sue vie; così profondo è il suo logos”.8 È dunque evidente che dietro ogni
studio meramente fisico, intrapreso da questi primi pensatori, si cela un interesse nei confronti
dell’uomo e della sua anima, che si evolverà nel corso del tempo, fino all’età classica, quando
il “problema uomo” diventerà elemento centrale nell’indagine filosofica.
Con la Sofistica, si ha, per così dire, la “scoperta della natura umana”:9 l’uomo diventa
il centro di ogni speculazione filosofica, nell’ambito di un’istituzione politica che valorizza
l’individuo, con le sue capacità e potenzialità. Ecco dunque che con Protagora l’uomo diventa
“misura di tutte le cose: di quelle che sono per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò
che non sono”,10 mentre Antifonte introduce il concetto di una comune natura umana, in virtù
della quale non esistono differenze di classe sociale o di nazionalità: “di natura tutti siamo
assolutamente uguali, sia Greci che barbari”.11
È però Socrate che per primo dà una risposta precisa alla domanda “Che cos’è l’uomo?”,
affermando che l’uomo è anima, in quanto essa governa il corpo; dal momento poi che la virtù
2 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, vol. I, trad. di E. Codignola e G. Sanna, La nuova Italia, Firenze
1930, pp. 182-183.
3 E. Berti, op. cit.
4 W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, La Nuova Italia, trad. it., Firenze, 1936-1959
5 ivi, pp. 10-15.
6 Platone, Alcibiade I, 129 e-130.
7 Anassimene, B 2.
8 Eraclito, B 45.
9 E. Berti, op. cit.
10 Protagora, B 1.
11 Vorsokr. Fr. 87 B 44, col. 2.
– 55 –
per eccellenza è la scienza, per anima egli non può che intendere la ragione. L’uomo però è
anche “animale politico”, in quanto naturalmente portato a riunirsi in società e a relazionarsi
con i suoi simili.
Con Platone, e successivamente Aristotele, le teorie sulla natura umana e sull’anima si
fanno articolate e complesse: entrambi tuttavia, come lo stesso Socrate ha fatto, pongono
l’accento sulla razionalità dell’anima umana. La ragione distingue l’uomo dal resto degli
animali: l’anima intellettiva, in Platone,12 governa gli istinti dell’anima concupiscente, e guida l’uomo verso la verità e la sapienza; l’anima, per Aristotele “atto primo di un corpo che
ha la vita in potenza”,13 caratterizza l’uomo in quanto razionale, e sopravvive a quella vegetativa e sensitiva, distinguendosi, nell’atto conoscitivo, tra intelletto passivo ed attivo.
In età ellenistica, infine, lo studio sulla natura umana subordina a sé ogni campo del
sapere: i cambiamenti politici, il senso di instabilità e la perdita della libertà portano i Greci,
che da cittadini sono diventati sudditi, a cercare sicurezza al riparo di dottrine che possano
rasserenare gli animi. Ecco dunque che gli Stoici propongono l’idea di un universo, dominato
da leggi immanenti e da un ordine provvidenziale, esistente in funzione dell’uomo che, dotato
di un’anima identificata con un soffio caldo e fuoco, materializzazione del logos, è simile agli
dei e superiore ad ogni altro essere vivente.
Completamente diversa è la risposta epicurea alle domande dell’uomo ellenistico. Non
esiste fiducia alcuna nell’ordine immanente dell’universo, che è composto di atomi così come
lo è l’uomo, e che dunque non è affatto ad uso e consumo di quest’ultimo, ma è come lui
soggetto ai moti di aggregazione e disgregazione degli elementi che lo costituiscono. Con
Epicuro, lo studio della natura diventa indispensabile per poter individuare il corretto comportamento da seguire. La vita felice si può ottenere attraverso la retta conoscenza dei principi dell’universo e la serena accettazione di essi. Sulla base di questi principi si costruisce
l’etica epicurea, che identifica, con maggiore chiarezza rispetto a tutte quelle elaborate nel
corso del pensiero greco, i profondi legami esistenti tra la natura fisica e la natura morale.
L’epicureismo dunque, in virtù di un radicale materialismo, libera gli uomini dal timore della
morte e degli dei, e li rende pienamente consapevoli della brevità e provvisorietà del dolore
e della raggiungibilità del piacere.
Dal mondo greco, il pensiero epicureo raggiunge Roma e trova in Lucrezio il suo più
grande profeta. I duri e “fangosi” precetti della dottrina vengono sublimati dal linguaggio
metaforico ed evocativo della poesia, in modo tale che possano costituire vere e proprie linee
guida per il rischiaramento e la liberazione da ogni paura.
L’idea greco-romana di uomo, infine, contribuisce alla formazione di un pensiero cristiano che si fonda principalmente sul concetto di umanità presente nel Vecchio e Nuovo Testamento. Questa sintesi tra elementi appartenenti alla tradizione greca, in particolare platonica
e stoica, e a quella giudaico-cristiana, si impone nel corso del medioevo ed ha larga influenza anche sul pensiero dell’età moderna. Nel campo artistico, la figura umana rappresentata
è quella proposta dalla religione cristiana, e i soggetti più ricorrenti sono personaggi biblici
ed evangelici. Con il Rinascimento, inoltre, la figura umana diventa decisamente centrale
rispetto al resto degli elementi raffigurati, e negli artisti del Quattrocento, tra i quali in particolare Giovanni Bellini,14 prevale un simbolismo che si esprime nella forza emotiva del volto
Platone, Fedro, 246 a-b.
Aristotele, Dell’anima II, 1, 412 a, 27-28.
14 Giovanni Bellini, (Venezia 1430-1516) fu uno dei maggiori pittori italiani quattrocenteschi. Le sue opere rappresentano per lo più episodi della vista di Gesù, con una particolare predilezione per la Crocifissione e per le Madonne,
prodotte spesso in serie.
12
13
– 56 –
dei soggetti e dello stesso paesaggio di sfondo, che assume caratteri evocativi e spirituali.
L’uomo viene rappresentato nel segno di uno spiccato realismo che mira anche a far risaltare
il profondo legame con il divino.15
Le prime forme di innovazione sul concetto di natura umana si ravvisano nel corso della
Rivoluzione Scientifica, in cui per la prima volta, dopo molto tempo, si cominciano a mettere
in discussione i dogmi aristotelico-scolastici, sia nel campo dell’indagine scientifica, sia in
quello della speculazione filosofica.
Con Thomas Hobbes16 l’idea tradizionale di uomo come “animale politico” viene decisamente ribaltata. L’uomo non è naturalmente portato a socializzare e a rapportarsi con i suoi
simili, perché il suo stato di natura è di bellum omnium contra omnes.17 È uno stato dal quale
l’uomo può emergere soltanto facendo appello a quella parte razionale di sé, la ratio naturalis
che è fondamento della legge naturale, assente nello stato di natura, in cui domina il diritto
di natura, espressione della cupiditas naturalis. Non è dunque l’amore verso il prossimo, ma
la capacità di previsione, e l’istinto di auto-conservazione, che spingono l’uomo a rinunciare
ai suoi diritti naturali, e a tradurli nella figura di un sovrano, che li eserciterà a suo piacimento
e che sarà, oltre che autorità politica, anche guida morale. L’uomo quindi, riunendosi in società, rinuncia ai suoi principi etici, che saranno imposti solo ed esclusivamente dallo stato.
Nell’ambito della corrente dell’Illuminismo settecentesco, è possibile trovare nuove
rielaborazioni del concetto di natura umana, che nascono da un desiderio di comprensione
dell’uomo e delle sue potenzialità razionali, nel segno di un maggior ottimismo e rigore analitico. David Hume18 si colloca tra i principali studiosi della natura umana, deciso ad approfondirla prendendo in considerazione ogni suo aspetto, positivo e negativo. Ecco dunque che,
contrariamente a Hobbes, Hume considera l’uomo un essere imperfetto, in balia di diverse
passioni, che possono condurlo sia bene che al male, e non sempre guidato nel suo comportamento dalla ragione.19 Di particolare importanza è il concetto di simpatia,20 attraverso il quale
il filosofo pone l’accento sul bisogno degli uomini di stare a contatto con i propri simili, e di
ricevere da essi approvazione. Pur tenendo in considerazione che gli uomini sono più inclini
a perseguire i propri vantaggi piuttosto che gli interessi comuni, questa idea di simpatia tra gli
uomini ricorda sotto alcuni aspetti l’idea aristotelica dell’uomo come zòon politikòn.
Nel corso del tempo, dunque, l’idea di natura umana è cambiata molto, sia nell’ambito
della speculazione filosofica che in quello della rappresentazione artistica, ed è, al giorno
d’oggi, oggetto di un dibattito che, sotto molti aspetti, risulta ancora irrisolto. Facendo tesoro
delle fonti e delle indicazioni bibliografiche forniteci dalle insegnanti, e degli approfondimenti
dei quali abbiamo avuto la possibilità di avvalerci, la conferenza del Prof. Spinelli sull’Epicureismo e la mostra di Giovanni Bellini tenutasi presso le Scuderie del Quirinale, abbiamo
scelto di costruire un percorso dal titolo: “Natura fisica e natura morale nel mondo grecoromano e in alcune moderne rielaborazioni” Partendo dall’identificazione di natura fisica
e natura morale proposta dalla dottrina epicurea, abbiamo approfondito gli aspetti di tale
dottrina nell’ambito della sua diffusione a Roma ad opera di Lucrezio, per poi soffermarci
sulle rielaborazioni che il concetto di natura umana ha subito in epoca moderna, nel pensiero
di Hobbes e Hume.
15
S. Wepplemann, A lunga memoria degli aspetti e delle conoscenze loro:Giovanni Bellini, pittore di ritratti privati,
16
Thomas Hobbes, (Malmesbury, 5 aprile 1588 - Hardwick hall, 4 dicembre 1679).
Hobbes, De cive, 1, 12.
David Hume, (Edimburgo, 26 aprile 1711 - Edimburgo, 25 agosto 1776).
David Hume, Scritti Morali, Editrice La Scuola, p. 69-70.
ivi, p. 71.
2008.
17
18
19
20
– 57 –
CAPITOLO I
1.1 LO STUDIO DELLA NATURA
COME PRESUPPOSTO
DELLA VITA FELICE IN EPICURO
Il periodo storico che fa da sfondo alla vita di Epicuro è caratterizzato dall’avvento dell’ellenismo: la cultura greca impone la sua egemonia, affermandosi prepotentemente come
strumento di unificazione del mondo antico. Alla grande fioritura culturale si contrappone una
situazione di decadenza a livello politico; le continue lotte intestine determinano, alla morte
di Alessandro Magno (323 a.C.), la frantumazione del suo impero in regni. Le trasformazioni socio-politiche dell’età post-alessandrina hanno notevoli ripercussioni sulla vita culturale
ellenistica. La polis decade: la trasformazione dei cittadini in sudditi, la coesistenza di genti
diverse e l’impossibilità della partecipazione attiva al governo dello stato sono i fattori determinanti di importanti mutamenti nella coscienza individuale che si riflettono nella vita
culturale. Si diffonde da un lato la tendenza sempre maggiore alla scoperta dell’individuo ed
alla netta distinzione fra etica e politica; dall’altro si attenua la diffidenza nei confronti della
diversità etnica e culturale, e ciò favorisce la diffusione dell’ideale cosmopolita, dissolvendo l’antica equazione tra uomo e cittadino. È in questo scenario di incessanti stravolgimenti
che il filosofo del giardino tenta di fornire la risposta all’inquietudine intrinseca all’uomo: la
filosofia assume una funzione strumentale, finalizzata al perseguimento della felicità.
La filosofia ellenistica è soteriologia, ovvero incarna la volontà di mostrare all’uomo
il cammino per il raggiungimento dell’eudaimonìa. Il pensiero epicureo è stato presentato
come un “vangelo laico”, in cui il termine vangelo, spogliato di ogni carattere religioso,
assume il significato di buona novella. Inoltre rappresenta l’unica filosofia del mondo capace
di accogliere tutti i tipi di uomini e donne, senza distinzioni. Di qui la scelta dell’utilizzo
di differenti modalità comunicative atte a rendere concreta la trasmissione del messaggio
“Non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio di filosofare si stanchi: nessuno è troppo
giovane o troppo vecchio per la salute dell’anima”.21
L’intento di Epicuro è di realizzare una sintesi delle sue opere maggiori per delineare i
principi fondamentali della sua dottrina. Dal momento che il procedimento fondamentale
consiste nell’essere in grado di utilizzare le proprie conoscenze in maniera costruttiva, è
necessario ridurre l’intera dottrina in definizioni semplici. Epicuro considera fondamentale
nel processo conoscitivo apprendere con chiarezza ciò che è “al fondo delle parole”, perché
solo in questo modo è possibile discorrere su tutto senza generare confusione. In secondo
luogo bisogna trovare un punto di riferimento per la risoluzione di un qualsiasi problema o
questione. Ogni nostra conoscenza deve essere basata sulla sensazione, criterio di verità, garantita dalla stessa struttura atomica del mondo. È necessario procedere con il ragionamento
e con l’analogia dal noto all’ignoto, da ciò che è sensibilmente attestato “all’induzione delle
verità che non cadono sotto i sensi”.22 La sensazione è il fondamento necessario alla dimostrazione attraverso il ragionamento di ciò che non è percepibile con i sensi. La stessa attesta
l’esistenza dei corpi, che insieme con il vuoto rappresentano gli elementi costitutivi dell’universo. I corpi materiali sono divisibili, ma fino ad un certo limite, oltre i quale non possono essere ulteriormente divisi: perciò i primi elementi debbono di necessità essere sostanze
corporee indivisibili, queste sostanze sono gli atomi. Gli atomi si presentano con i caratteri
21
22
Epicuro, lettera a Meneceo, Bur, 2006, pag. 143, paragfr. 122.
Epicuro, lettera a Erodoto, Bur, 2006, pag. 71, paragfr. 39.
– 58 –
di indivisibilità e immutabilità. È inoltre possibile concepire che vi sia un numero infinito di
mondi di questo genere come infiniti sono gli atomi e che si possa formare un mondo, simile
a questo in un mondo o in un intermondo. Un mondo è secondo Epicuro un pezzo di cielo che
comprende astri, terre e tutti i fenomeni, ritagliato nell’infinito. Dall’aggregazione e separazione di questi atomi, dipende la nascita e la morte dei corpi; ma in realtà nulla si origina dal
nulla, né si dissolve nel nulla, cosicché l’universo fu e sarà sempre quello che è ora. Introduce
in tal modo il principio di conservazione assoluto nel quadro di una filosofia sensistica, privo
di prospettiva escatologica. Epicuro ritiene che i corpi emanino dei flussi di atomi chiamati
“eidola” e da Lucrezio “simulacra”, “che colpiscono ed impressionano la nostra anima”.23
È necessario ritenere che anche l’odore, la voce non potrebbero produrre alcuna sensazione,
se non vi fosse un complesso di particelle che, muovendosi da ciò che esiste, sono in grado
di stimolare l’organo sensorio. Dunque siamo in grado di pensare in virtù di ciò che proviene
a noi dall’esterno: “nulla di tutto ciò è infatti in contraddizione con i dati dell’esperienza”.24
L’errore risiede nel giudizio che noi formuliamo sulle sensazioni. È quindi su di esse e sulla
loro “evidenza” che la scienza deve in primo luogo fondarsi, procedendo poi con il ragionamento. Tuttavia non solo i corpi sono il risultato dell’aggregazione atomica, bensì anche
l’anima umana, l’anima è perciò mortale insieme con il corpo. Ne deriva una fisica materialistica, volta ad eliminare l’azione sul mondo di ogni principio spirituale; e meccanicistica che,
escludendo qualsiasi finalismo, trova unica spiegazione nel movimento. Infatti nel vuoto
infinito gli atomi si muovono senza obbedire ad alcun disegno provvidenziale. È chiamata a
risolvere la questione sul movimento la teoria del “clinamen”: gli atomi, in virtù del loro
peso, cadono perpendicolarmente e con la stessa velocità; Epicuro, tuttavia, ammette una
deviazione casuale della loro traiettoria che permetta la loro aggregazione. Proprio in questo
principio è possibile trovare un nesso tra la natura e la natura umana. Lo studio della fisica
è funzionale alla comprensione dei problemi dell’uomo. I corpi non si formano secondo un
disegno provvidenzialistico ma mediante una libera e spontanea deviazione degli atomi. Fra
gli aggregati formatisi c’è anche l’uomo. La sua libertà è dunque fondata sul modo in cui si
è fisicamente costruito. “Se non ci turbasse il sospetto delle cose del cielo e il timore che
la morte non abbia a essere qualche cosa per noi, e, oltre questo, il non potere conoscere i
limiti del dolore e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura”.25
Epicuro esorta tutti a pensare alla salute dell’anima. È innanzitutto necessario “rivolgere
di continuo nella memoria le cose atte a produrre felicità”26 poiché, secondo il filosofo quando si è felici si ha tutto. È da notare che la vera felicità non è compresa senza il cosiddetto
tetrafarmaco (quadruplice medicina). Nella lettera a Meneceo si evince che alla radice di
tutte le sofferenze vi sono le paure: paura del divino, della morte, del dolore, di non poter
essere felici. Primo passo per il raggiungimento della felicità è ritenere gli dei incorruttibili
e beati e proprio perché definiti dalla beatitudine, gli dei non possono partecipare della grazia
e dell’ira, altrimenti cesserebbero di essere beati. Essi non sono dunque da temere. Indispensabile, inoltre, “è il pensiero che la morte per noi non è nulla: giacché ogni bene e male
è nel senso, e la morte è privazione di senso”.27 Colui che teme la morte non la teme perché
provoca dolore all’anima, ma ciò che fa soffrire è il pensiero che questa un giorno possa
sopraggiungere. Quindi è l’attesa della morte a provocare dolore. Da qui la celebre frase:
23
24
25
26
27
Op. cit. pag. 81, paragrf. 48.
Op. cit. pag. 83, paragrf. 51.
Epicuro, massima 11, Bur, 2006.
Epicuro, Lettera a Menceo, Bur, 2006, pag. 51, paragrf. 122.
Op. cit. pag. 53, paragrf. 124.
– 59 –
“il male che più fa rabbrividire è la morte che nulla è, perché quando noi siamo non c’è la
morte, e quando c’è la morte, noi allora non ci siamo”.28 I non sapienti, a volte, considerano
la morte come tregua ai mali della vita, altre volte la temono. Il sapiente invece, “non rifiuta,
né teme il non vivere”29 e a questo non interessa il vivere a lungo ma il vivere felicemente.
Inoltre Epicuro esorta a non farsi sopraffare dal pensiero del futuro. Sempre nella lettera a
Meneceo, il filosofo ritiene che i desideri sono naturali e vani, tra i naturali alcuni sono
necessari alla felicità, allo stesso vivere; altri non necessari. Solo un calcolo razionale di essi
fa sì che non vi sia turbamento nell’anima. Proprio quest’ultimo rappresenta il punto più alto
della vita beata. “Il realtà tutto quello che facciamo lo facciamo solo per questo, per non
soffrire dolore e per non essere turbati”.30 Quando il desiderio viene realizzato l’anima si
placa perché non le serve altro se non il piacere. “Ed è per questo che noi diciamo il piacere
principio e fine della vita felice”.31 Quindi il piacere diventa la norma attraverso cui giudicare le nostre azioni perché ci suggerisce cosa scegliere spingendoci verso ciò che ci è più
favorevole. Bisogna, però, fuggire da alcuni piaceri che potrebbero portare al dolore mentre
bisogna sopportare alcuno dolori che conducono al piacere. Ne risulta un calcolo razionale
dei piaceri. Dunque ogni piacere è un bene ma non sempre tutti sono da preferire così come
“ogni dolore è un male, ma non tutti sono sempre da fuggire”.32 Il bastare a se stesso, l’autarkeia, è la virtù massima dell’epicureo. Egli dà il massimo per ottenere il minimo, ma a quello non rinuncia. Il fine, dunque, è il piacere non inteso come godimento delle cose esterne,
ma come mancanza di dolore nel corpo “atarassia”, e assenza di turbamento nell’anima
“aponia”. “Quando dunque diciamo che il fine è il piacere, non intendiamo i piaceri dei
dissoluti o in generale quelli consistenti nella fruizione delle cose esterne, come credono
alcuni che c’ignorano e con noi non consentono o ci prendono in cattivo senso, ma il non
soffrire dolore nel corpo e il non avere turbamento nell’anima”.33 La prudenza è un valore
ancora più importante della filosofia in quanto fondamento di tutte le virtù intese come mezzo
per il conseguimento del piacere, In conclusione Epicuro esorta Meneceo ad osservare i suoi
insegnamenti per vivere tra gli uomini come un dio. “Non è in verità simile ad essere mortale
l’uomo che vive tra beni immortali”.34
“Apprendi bene questi precetti, tienili a mente, ripercorrili acutamente col pensiero
insieme con gli altri che affidammo alla piccola Epitome ad Erodoto. Anzitutto bisogna
credere che il fine che si ricava dalla conoscenza dei fenomeni celesti, sia considerati in
relazione tra di loro sia autonomamente, non è altro se non l’atarassia e la salda fiducia, così
come anche dalle altre indagini”.35
La prima lettera riportata da Diogene Laerzio, nota anche come “Piccola epitome”, è
uno scritto di grande importanza e di alto impegno poiché in essa trova attestazione diretta
l’esposizione di quella scienza della natura che costituisce uno degli aspetti più rilevanti della
speculazione di Epicuro. Nell’epistola sono passati in rassegna i principi fondamentali della
fisica atomistica. La maniera con cui Epicuro interviene sull’atomismo precedente (Leucippo
e Democrito) è una questione difficile: la maggior parte dei critici ha negato l’originalità
della fisica epicurea trattandola con sufficienza rispetto all’etica, considerata il vero nucleo
28
29
30
31
32
33
34
35
Op. cit. pag. 53, paragrf. 125.
Op. cit. pag. 55, paragrf. 128.
Op. cit. pag. 55, paragrf. 129.
Op. cit. pag. 57, paragrf. 130.
Op. cit. pag. 57, paragrf. 131.
Op. cit. pag. 57, paragrf. 132.
Op. cit. pag. 60, paragrf. 135.
Epicuro, lettera a Pitocle, Bur, 2006, pag. 141, paragrf. 116.
– 60 –
del sistema. Per ciò che riguarda i fenomeni celesti (moti, eclissi, sorgere e tramontare degli
astri) è necessario escludere ogni causa soprannaturale e possibili interventi divini così da
liberare gli uomini dal timore di un possibile dominio misterioso. Nella lettera a Pitocle afferma che la conoscenza delle cause esatte non implica la dissoluzione delle incertezze e dei
timori che anzi affliggono particolarmente chi se ne occupa senza possedere i fondamenti epicurei della scienza della natura. Una volta compreso che i fenomeni celesti non richiedono
spiegazioni soprannaturali e teologiche, l’indagine esatta delle cause per cui un dato fenomeno
avviene non è di alcuna utilità per il conseguimento della felicità. Fondamento unico di ogni
indagine relativa agli astri sono i fenomeni (ciò che appare, i dati dell’esperienza) con essi
deve essere in accordo ogni causa da noi individuata per i fenomeni celesti. Solo cercando in
questo modo le ragioni di tali fenomeni e ponendo sullo stesso piano tutte le spiegazioni che
non siano in contrasto con i dati e l’esperienza ci si può liberare da turbamento che l’osservazione di quei fenomeni comporta. La lettera a Pitocle, dunque, offre un metodo d’indagine
e una serie di esempi di come questo possa essere applicato. L’epistola insiste sulla problematica che si può considerare fra i principali motivi di turbamento dell’uomo, “il sospetto”
dei fenomeni celesti, le cui cause sono tanto misteriose da indurre facilmente a rifugiarsi nel
mito oppure in teorie più suggestive, e dunque, ad allontanarsi dalla felicità a cui mira la
filosofia di Epicuro. Pertanto per Epicuro l’unico scopo autentico dello studio dei fenomeni
celesti è la tranquillità e la sicura fiducia dell’animo nei confronti delle paure che suscita la
natura. Epicuro sostiene che, in fondo, il filosofare e lo studio della natura devono servire per
liberare l’uomo. La filosofia è, quindi, per il filosofo, arte di vita e mira ad assicurare la felicità e a fornire i mezzi per conseguirla. Se si vuole essere felici, si deve filosofare nel senso
di apprendere e far propria la verità rivelata dal maestro. Chi entra nel “giardino” diventa una
specie di catecumeno; l’epicureo è un saggio che ama la saggezza ed aspira ad essa; all’epicureismo ci si converte, perché l’adesione ad esso comporta un mutamento radicale di mentalità e di stile di vita, proprio come accade nell’asserzione religiosa.
Poco sappiamo delle sorti dell’epicureismo in Grecia prima della sua diffusione a Roma.
La più aspra critica scatenatasi contro il maestro ancora in vita è stata mossa da Timocrate,
il quale abbandona la scuola e compone un’opera “Delizie” in cui ritrae Epicuro come un
“propugnatore di riti notturni e orgiastici”.36 Si inserisce, approfittando di questa interpretazione, la pubblicistica di matrice stoica. Secondo Posidonio, del medio stoicismo, Epicuro
si sarebbbe recato in giro nelle case della povera gente a recitare formule espiatorie ed
esorcistiche, avrebbe prostituito un fratello, convissuto pubblicamente con una meretrice,
saccheggiato senza riguardo dalle dottrine di Democrito per l’atomismo e Aristippo per
l’edonismo. Combinando tali notizie si ricava il quadro di una filosofia che otteneva successo
ed adepti per il diffondersi di dottrine alternative. L’immagine che gli avversari hanno dato
dell’epicureismo è stata quella di una filosofia dissacratrice opposta all’ordine naturale delle
cose in fisica. L’opposizione più decisa all’epicureismo si ha a partire dalla fondazione della
“stoà”: all’“atarassia”, per cui dispiegando la forza della conoscenza su basi sensistiche si
realizza l’indisturbabilità, quindi la serenità, lo stoicismo contrappone l’apatia (indifferenza),
ovvero la paziente rassegnazione nei confronti della realtà esterna. A partire, però, dal secondo
secolo a.C., anche lo stoicismo dovette ridimensionare l’ostilità di partenza. L’epicureismo
ha incontrato nella Roma pagana, parecchia ostilità. Rilevante l’opposizione di Cicerone il
quale non tanto per motivazioni religiose quanto piuttosto politiche, è un accanito nemico
degli epicurei. Nel “De finibus malorum et bonorum”, constata amaramente che “Epicuro
stesso e molti successivi difensori difesero gagliardamente la propria tesi e, non so come, ma
36
D.L. X. 6-7.
– 61 –
il popolo se la dice proprio con chi ha magari poca credibilità, ma grande foga” .37 Inoltre
nelle “Tusculanae disputationes” annota come “la moltitudine, toccata, si convertì in particolare a quella disciplina, l’epicureismo, che invase tutta l’Italia”.38 Nel medioevo è stato uno
dei filosofi più censurati dalla chiesa che vedeva in lui un insidioso rivale. Solo Clemente
Alessandrino, pur essendo un cristiano, lo apprezza e sostiene che Epicuro e gli stessi dei
pagani, sebbene non avessero conosciuto la verità, hanno perlomeno sospettato l’errore che
circonda l’idea del paganesimo e dato avvio, anche se in modo negativo, a quel processo che
può condurre alla verità. Dante Alighieri stesso, che viene a conoscenza della dottrina di
Epicuro attraverso gli scritti filosofici di Cicerone, condanna gli epicurei, collocandoli in un
girone dell’inferno e definendoli “coloro che l’anima col corpo morta fanno”.39 Per tutto il
cristianesimo Epicuro è stato conosciuto per aver negato l’immortalità dell’anima ancor più
per le cose dette sulla divinità ed è stato, infatti, conosciuto come filosofo “negante l’etternità dell’anima”, come Boccaccio afferma nel Decameron. Inoltre considera gli epicurei
“quelli li quali sempre tengon gli occhi della mente fissi nella loro bella moglie, nelli lor
figliuoli, ne’ loro be’ palagi, ne’ lor be’ giardini, e questi paiono loro da dover preporre ad
ogni letizia di paradiso”.40 L’epicureismo viene rivalutato nel Rinascimento da pensatori
come Lorenzo Valla nel “De Voluptate”, Cosma Raimondi e Francesco Filadelfo, che però più
che dalla teologia sono stati attratti dall’edonismo epicureo e considerano il filosofo come
maestro di umana saggezza per aver insegnato virtù come scelta o calcolo razionale dei piaceri. Nel XVII secolo viene apprezzato da Pierre Gassendi, il quale nel “De vita et moribus
Epicuri” lo ritiene conciliabile con il cristianesimo e lo difende dalle accuse di dissolutezza
morale, che non è di certo maggiore di quella di altri greci, di ignoranza e di avversione alla
cultura che deve, invece, essere intesa come uso essenziale della scienza. Nonostante questo,
il suo intento è quello di liberare la filosofia epicurea da tutto ciò che è contro la fede cristiana.
A questo proposito Gassendi approva una serie di correzioni ai capisaldi della filosofia di
Epicuro. Mentre il filosofo del giardino considerava gli atomi come ingenerabili e incorruttibili, Gassendi li considera tali solo rispetto alle forza naturali, ma ritiene che siano stati
creati da Dio, così come il loro movimento. Egli asserisce che l’ordine del mondo è finalistico, voluto da Dio e governato dalla sua provvidenza, differenza sostanziale rispetto ad
Epicuro. La convinzione che l’anima sia corporea è perseguita anche da Gassendi, il quale,
tuttavia ammette un’anima intellettiva come sostanza immortale e incorporea. Dal settecento
in poi, l’epicureismo si presenta come una delle alternative fondamentali per l’interpretazione
della vita etica, fornendo ispirazione all’utilitarismo, corrente filosofica che pone come criterio di valutazione morale delle azioni umane l’utile individuale e sociale, Per quanto
riguarda la visione dell’epicureismo nei pensatori dell’ottocento, la voce dominante è quella
di Marx. Nel 1841 Karl Marx si laurea con la tesi “Differenza fra la filosofia della natura di
Democrito e quella di Epicuro”. L’interesse di Marx per l’atomismo e l’epicureismo è dovuta
alla critica di Hegel ed è volta a mostrare i motivi illuministici del materialismo democriteo
e della concezione degli dei da parte di Epicuro, Sebbene Marx risenta ancora dell’hegelismo
e dell’idealismo, restituisce onore alla figura di Epicuro: “Credo di aver risolto un problema
della filosofia greca rimasto finora insoluto. Non v’è alcun lavoro preparatorio in qualche
modo utilizzabile. Le chiacchiere che hanno fatto Cicerone e Plutarco sono state ripetute
fino ad oggi. Gassendi, che liberò Epicuro dall’interdetto col quale lo avevano colpito i Padri
37
38
39
40
Cic. Fin. II. XIV. 44.
Cic. Tusc. IV. III. 7.
Dante Alighieri, Inferno X. 119.
Boccaccio pp. 45-6.
– 62 –
della Chiesa e tutto il Medioevo, l’età della irrazionalità in atto, non è che un momento interessante. Della filosofia di Epicuro Gassendi impara piuttosto che saperci erudire intorno
alla medesima”;41 definendolo inoltre colui che porta all’uomo un messaggio di salvezza e
libertà spirituale. Tuttavia l’elogio ad Epicuro incontra alcune riserve: infatti secondo Marx
l’atarassia conduce l’uomo ad un isolamento totale, in contrasto, quindi, con la stessa visione marxiana, per cui l’individuo viene invece invitato ad inserirsi nel mondo. L’epicureismo
vuole proporre degli insegnamenti che aiutino l’uomo nella propria vita: il perseguimento della autosufficienza e della serenità spirituale, individuata nell’imperturbabilità (atarassia) e
nell’indifferenza (adiaforìa). Marx considera Epicuro il più grande illuminista greco, che porta alle estreme conseguenza la critica alla religione, la lotta al fatalismo, nella rivendicazione della libertà e dell’autosufficienza umana. Nel raffronto tra il materialismo elaborato da
Democrito e quello di Epicuro egli pende in favore di quest’ultimo, la cui filosofia è letta da
Marx come la più alta esaltazione della dignità umana e della sua liberazione da ogni superstizione. Emerge con chiarezza che fin dall’antichità la fisica epicurea è stata letta come una
riproduzione della fisica democritea. Marx stesso riconosce fondate le accuse di plagio mosse
ad Epicuro. Tuttavia esiste un forte spartiacque tra i due filosofi: sebbene la scienza a cui
entrambi fanno riferimento sia la stessa, essi assumono posizioni diametralmente opposte
riguardo alla concezione della verità, l’applicazione della scienza ed il rapporto fra pensiero e
realtà. Mentre per Democrito i sensi sono soggettivi, per Epicuro sono uno specchio oggettivo
che riflette la realtà. Da questa concezione antitetica scaturisce anche la differente condotta di
vita dei due filosofi. Democrito, accecato dalla ricerca del sapere, non coglie la vita nel suo
scorrere, mentre Epicuro cerca di godere pienamente, secondo quello che sarà il celebre motto
graziano del “carpe diem”. Per Marx è importantissima la teoria del clinamen e la libertà riconosciuta nell’agire umano; egli osserva amaramente che Lucrezio è stato “l’unico tra tutti gli
antichi ad aver compreso la fisica epicurea, tutti gli altri l’hanno fraintesa”.42 Marx tuttavia
è avverso al rifiuto epicureo della vita politica. Infatti egli ritiene che la riflessione filosofica
senza la lotta politica si limiterebbe a dare una mera interpretazione del mondo senza però
cambiarlo. Abbiamo dunque visto Epicuro costituire un esempio per la repubblica romana, il
primo cristianesimo, il tardo medioevo, il rinascimento fino al novecento marxista e come
ancora oggi non sia stato del tutto compreso il suo tentativo di diffondere una nuova filosofia:
non è giusto, perciò, ritenere che l’ambivalenza di utilizzazione sia tuttora operante?
Bibliografia:
Fonti:
EPICURO, scritti morali, introduzione e traduzione di Carlo Diano, ed. Bur
ENCICLOPEDIA DI FILOSOFIA, Epicuro: fisica-etica
EPICURO, Opere, traduzione di Graziano Arrignetti, Einaudi
EPICURO, Lettere sulla fisica, sul cielo e della felicità, ed. Bur
Sitografia:
http: studentville.net (commenti e traduzioni)
epicuro.org
www.linguaggioglobale.com/filosofia/epicuro.htm
41
42
Marx, Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro pp. 331.
Op. cit. pp. 452.
– 63 –
CAPITOLO II
2.1 NEL CONNUBIO DI POESIA E FILOSOFIA,
IL RISCHIARAMENTO E LA LIBERAZIONE
DA OGNI PAURA
Lucrezio e l’Epicureismo a Roma
La filosofia epicurea, con i suoi principi materialistici e razionalistici, riscuote un grande
successo a Roma grazie all’azione di due importanti filosofi, Sirone e Filodemo, attorno ai
quali si formano circoli dedicati allo studio di Epicuro. Oltre alla città di Roma, l’area di
maggiore diffusione di questa dottrina è la Campania. È infatti ad Ercolano che Filodemo,
approdato sulle coste italiane intorno al 70 a.C., raccoglie una ricca biblioteca e fonda un
circolo di intellettuali che, insieme con quello di Sirone a Napoli, può vantare tra i suoi
discepoli figure di grande rilievo come Virgilio ed Orazio. Il successo dell’epicureismo a
Roma è spiegato da Cicerone con la semplicità della dottrina, ma anche dalla disaffezione
verso la politica, oltre alla delusione e alla stanchezza che avevano indotto i cittadini romani
(soprattutto i giovani appartenenti all’aristocrazia) a rinchiudersi nel privato e ad astenersi da
cariche pubbliche.
La critica alla filosofia epicurea trova una delle più illustri voci proprio in Cicerone, il
quale ne analizza i principi, mettendoli a confronto anche con quelli della contemporanea
scuola stoica, in buona parte dei suoi trattati filosofici.43 Questi infatti, acceso sostenitore del
rispetto per il mos maiorum, individua, in questa nuova dottrina, un edonismo individualistico
ed egoistico che potrebbe allontanare le giovani menti dei cittadini da valori tradizionali
romani quali l’impegno politico in favore della patria e la fede negli dei olimpici.
Tuttavia, sebbene più volte Cicerone, nei suoi dialoghi filosofici, menzioni opere divulgative di discepoli di Epicuro,44 definendole prive sia di qualsiasi attrattiva stilistica e letteraria sia di ordinamento coerente dell’esposizione, l’unica opera a rimanere esente dal suo giudizio negativo è il De Rerum Natura di Lucrezio.45 Per di più, Cicerone, non solo non inserì
questa opera tra quelle di scarso valore, ma addirittura, in una lettera al fratello Quinto, scritta
nel febbraio del 54 a.C., ne ammise l’alto livello stilistico e il grande rigore di pensiero.46
Probabilmente il successo di Lucrezio è dovuto alla grande abilità del poeta nel rischiarare l’oscurità delle dottrine filosofiche attraverso il linguaggio evocativo della poesia. Nonostante Epicuro stesso avesse mosso alla poesia forti critiche in quanto attività che non solo
non assicurava serenità al sapiente, ma che addirittura ne incentivava le passioni, Lucrezio
sceglie la poesia come mezzo per la trasmissione delle sue dottrine:
“come i medici, quando cercano di somministrare ai fanciulli
l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo
della tazza di biondo e dolce miele,
affinché l’inconsapevole età dei fanciulli ne sia illusa
fino alle labbra, e frattanto beva l’amaro
Academici, De finibus bonorum et malorum, Tusculanae disputationes, De natura deorum.
Amanfino ed Cazio, De Rerum Natura.
45 Tito Lucrezio Caro, vissuto tra il 98 a.C. e il 55 a.C., secondo alcune fonti, che prendono in considerazione la sua
adesione alle dottrine epicuree, era di origine campana. La composizione della sua opera, il De Rerum Natura, poema
didascalico nel quale vengono esposti i principi della filosofia di Epicuro, si può datare intorno agli anni 50 del secolo.
46 Cicerone, Epistulae ad Quintum Fratrem, II, 9, 3. “L’opera poetica di Lucrezio è proprio come mi scrivi: rivela
uno splendido ingegno, ma anche una notevole abilità stilistica”.
43
44
– 64 –
succo dell’assenzio, senza che l’inganno le nuoccia,
e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute;
così io, poiché questa dottrina appare
spesso troppo ostica a quanti non l’abbiano
conosciuta a fondo, e il volgo ne rifugge e l’aborre,
ho voluto esporla a te nel melodioso canto pierio,
e quasi aspergerla del dolce miele delle Muse,
se per caso in tal modo io potessi trattenere i tuo animo
con questi miei versi, fin quando tu attinga l’intera
natura dell’universo, e di quale forma essa consista e si adorni”.47
Lucrezio e la natura
Il concetto di natura in Lucrezio non è unico, ma subisce delle variazioni nel corso
del poema. Tali oscillazioni sono imprevedibili, e legate, secondo alcuni critici48 agli sbalzi
d’umore del poeta stesso, che, partendo dai presupposti scientifici del pensiero epicureo ne
dà un’interpretazione emotiva e fantastica.
Nella concezione epicurea del mondo fisico non esiste un unico principio a cui sono
riconducibili i vari fenomeni naturali, perché ogni volta entrano in gioco la casualità, la
necessità e la libertà.
Nella fisica epicurea la necessità e la casualità sono due elementi diversi ma ugualmente
importanti nella formazione dei mondi e degli aggregati atomici.
Lucrezio, racconta come sia avvenuta l’aggregazione degli atomi: dopo aver “sperimentato movimenti e combinazioni di ogni genere”,49 sono giunti infine ad una equilibrata
disposizione: questo equilibrio è garantito dalla legge dell’isonomia (isos - uguale; nomos legge), secondo la quale, essendo infinito il numero degli atomi di ciascuna forma, infinite
sono anche le cose e gli esseri di ciascuna specie,50 e a tanti mondi creati devono corrispondere altrettanti mondi distrutti. Secondo Perelli51 la percezione di un universo infinito genera
in Lucrezio un senso di sgomento, accentuato dal confronto tra la mediocrità dell’uomo e la
vastità del mondo, ma ancora di più da quello tra la Terra e l’infinitezza dell’universo. Diversa
invece è l’interpretazione data da Boyancè,52 il quale ritiene che la consapevolezza dell’immensità dell’universo dovrebbe generare nell’uomo un senso di tranquillità.
Il mantenimento di questo equilibrio è possibile, nonostante il variare continuo della
materia, solo se gli atomi armonizzano il loro moto con quello del corpo di cui ora fanno parte.
Ogni essere naturale dunque è sottoposto a leggi fisse, determinate da una necessità meccanica e ciascun essere ha delle leggi proprie che Lucrezio chiama foedera naturae: “e per
legge di natura risulta stabilito ciò / che ognuna possa e ciò che invece non possa”.53 Il fatto
che gli uomini e la natura siano soggetti a delle leggi invariabili sottrarrebbe dunque l’uomo
all’angoscia dell’indeterminatezza.
Il principio epicureo secondo cui nulla nasce dal nulla sembra quasi avallare l’idea di un
ordine immanente. Non si parla in modo esplicito né di provvidenza né di finalismo, ma le
leggi meccaniche impongono nella natura un rigoroso equilibrio e un’armonica distribuzione
47
48
49
50
51
52
53
Lucrezio, De Rerum Natura, Libro I, vv. 936-950. Trad. L. Canali, La natura delle cose, BUR, Milano, 1994.
L. Perelli, Lucrezio, Poeta dell’Angoscia, La Nuova Italia, Firenze, 1989.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 1024-1034.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 532-540.
L. Perelli, op. cit.
Boyancè, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, 1985.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 586-587.
– 65 –
della facoltà vitali. È proprio il principio dell’isonomia quella legge naturale che stabilisce per
ogni essere vivente un determinato tempo di vita, in modo che dalla morte di uno si generi la
nascita di un altro: così la morte viene vista nel suo aspetto positivo di rinnovamento delle
generazioni, e il pessimismo per la morte dell’individuo è superato nella visione dell’eternità
della materia.
Questo determinismo meccanico della fisica epicurea ha un’eccezione nella dottrina del
clinamen, ossia nella possibilità di una spontanea deviazione dell’atomo dal moto rettilineo:
“i corpi, quando cadono verticalmente trascinati nel vuoto / dal loro stesso peso, in un
momento del tutto indefinito / e in un luogo incerto sviano un poco dal percorso (...) se infatti
non usassero deviare, (...) non si sarebbero prodotti gli scontri, non avrebbero luogo gli urti
/ fra i corpuscoli primordiali: in tal modo la natura non avrebbe generato mai nulla”.54
Il motivo principale dell’introduzione del clinamen è di ordine morale e psicologico. Il
clinamen infatti è necessario per assicurare la libertà del volere, possibile soltanto se l’anima
ha il potere di sottrarsi alla catena della necessità e della casualità: “Non vedi dunque ora che,
sebbene una forza esterna / spesso costringa a procedere molti uomini (...), tuttavia c’è nel
nostro petto / qualcosa che può ribellarsi e opporre resistenza? (...) Perciò si deve riconoscere
che anche nelle particelle elementari / esiste un’altra causa di moto oltre agli urti ed al peso
/ donde proviene a noi codesta facoltà innata”.55
Il fondamento primo della fisica epicurea, che il mondo si sia creato per caso, è utilizzato da Lucrezio in funzione antiprovvidenziale, e rientra quindi nel fine ultimo del poema,
ossia di liberare l’animo dell’uomo dalla paura di forze e interventi soprannaturali. Tuttavia
è stato osservato da alcuni critici,56 sostenitori della tesi del pessimismo di Lucrezio, che la
concezione di un universo dominato dal caso ispira al poeta la visione di un caos originario,
senza vita e senza luce, e lo sgomento che deriva da questa visione lo porta a concepire lo
spazio come un incessante tumulto e una lotta cieca tra gli elementi.
Varia anche, nel poema, il modo in cui Lucrezio concepisce la natura. In un primo
momento, infatti, il poeta dà della Terra, generatrice di tutte le specie viventi, l’immagine di
madre benigna e generosa verso le suo creature, tra le quali anche l’uomo.57
Successivamente vale il sentimento di natura matrigna e ostile. La dimostrazione dell’infinità dei mondi porta alla digressione antiprovvidenziale ed è qui che inizia il passaggio
al concetto opposto di natura. Essa da sola, senza bisogno degli dei, governa l’immensa vastità
dell’universo; ma dietro al sentimento di ammirazione per la grandiosità del cosmo e per il
compito arduo della natura, c’è anche un senso di sgomento: la natura onnipotente non può
preoccuparsi delle misere cose degli uomini.58 Lucrezio inizia così a trattare del crescere e del
morire dei mondi, ponendo nel passato la fase di sviluppo della Terra che ora si trova nella
fase di degradazione. La natura ha terminato così il processo di crescita e corre a precipizio
verso la rovina. La Terra diventa quindi una madre vecchia e stanca, da cui furono generati
tutti gli esseri viventi, e che ora a stento riesce a generare piccole creature.59
Secondo Perelli60 Lucrezio non giudica la Natura colpevole nei confronti dell’uomo per
non avergli dato un ambiente confortevole ed una costituzione fisica atta a garantirgli una vita
sicura e felice, perché essa non ha alcun obbligo nei confronti dell’uomo. Nonostante queste
54
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59
60
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 216-229.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 277-280; vv. 284-293.
L. Perelli, op. cit.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 1-49.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 1090-1104.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II, vv. 1116-1117; 1150-1152.
L. Perelli, op. cit.
– 66 –
premesse, però, il poeta tenderebbe a personificare la Natura come una potenza aggressiva,
che lotta contro l’uomo e lo schiaccia. Lucrezio avverte la presenza di forze misteriose, forze
segrete e impenetrabili di fronte alle quali l’uomo non può far altro che rendersi consapevole
della sua piccolezza.
Contrariamente a Perelli, Paratore,61 ritiene invece che la vera e propria culpa naturae
considerata da Lucrezio consista nel non essersi occupata degli uomini e non aver procurato
loro un ambiente confortevole nel quale condurre serenamente la propria vita.
Al di là della descrizione del mondo fisico, tuttavia, è bene ricordare che Lucrezio dedica
largo spazio ad un’analisi dettagliata del mondo umano. In particolare il poeta si impegna
nello studio dell’anima umana, finalizzato a cancellare il timore della morte.
Lucrezio e l’anima
Prima di tutto, è importante osservare come la presenza di una teoria sull’anima non
implichi una negazione del materialismo. L’anima infatti non è intesa, da Lucrezio allo stesso
modo di Epicuro, come spirito, forma immateriale del corpo, ma è realtà sostanziale, parte
integrante di esso, e dunque con esso è destinata a perire.62 In quanto materia, l’anima è
costituita di atomi. Occorre però fare un’opportuna distinzione tra ciò che è anima e ciò che
invece è animus.63 Se infatti l’anima è diffusa in tutte le membra e costituisce il soffio vitale,
con animus Lucrezio intende il centro dei sentimenti e della sensibilità, che dalla sua sede al
centro del petto domina tutto il corpo: l’anima stessa è soggetta all’animus, in quanto ne
propaga gli impulsi e le emozioni. Secondo alcuni critici, tra cui spicca il nome di Bailey,
anima ed animus si identificherebbero con i concetti greci di noùs e psyké64 tuttavia questa
supposizione non è universalmente condivisa, infatti altri, come Boyancè,65 negano la possibilità di corrispondenza tra i termini latini e greci.
Riguardo poi la differenza tra anima ed animus, è possibile individuare di nuovo due
posizioni contrastanti: una corrente, di cui ancora Bailey si erge a portavoce, afferma che
“l’anima è la sede della sensazione e l’animus del pensiero e dell’emozione”:66 l’osservazione
però che esistono emozioni che interessano contemporaneamente sia l’animus che l’anima,
ha portato un altro gruppo di critici, tra i quali, ancora una volta, Boyancè, a ritenere che
piuttosto che la funzione, sia la localizzazione l’elemento realmente discriminante.
Gli atomi dell’anima si distinguono da quelli del corpo per le loro qualità, sono infatti
piccoli, sottili, rotondi e lisci, e sono dotati di una grande velocità nel movimento.67 Tra di
loro, poi gli atomi dell’anima si distinguono tra quelli di aria, vento e calore: “Tuttavia non
dobbiamo ritenere che questa natura sia semplice. / Infatti un lieve vento, misto a calore, /
abbandona i morenti; il calore poi trae aria con sé”.68 Un’altra qualità di atomi, di cui Lucrezio
non specifica il nome, è coinvolta nei sentimenti e nella riflessione. Questo quarto tipo di
atomi venne accomunato in un primo momento alla “quinta essenza” Aristotelica; in seguito,
addirittura al “Cogito” Cartesiano: seppur entrambe molto ingegnose, risulta evidente che
queste teorie sono poco vicine al concetto di “materialismo epicureo”.
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E. Paratore, Lucretii De Rerum Natura, Athenaei, Roma, 1960, p. 382.
Lucrezio, De Rer. Nat, Libro III, vv. 94-97.
Lucrezio, De Rer. Nat, Libro III, vv. 136-144.
C. Bailey, The Greek Atomists and Epicurus, Oxford, 1928.
P. Boyancè, op. cit. pp. 166-167.
C. Bailey, op. cit.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III, vv. 179-198.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III, vv. 231-233.
– 67 –
Ormai abbandonate queste supposizioni, i critici si sono invece posti il problema di capire
quale sia la funzione del quarto elemento, e se sia collocato nell’anima o nell’animus. La
principale teoria, derivante dalla filologia tedesca, e sostenuta da Bailey,69 afferma che
l’elemento interverrebbe nelle operazioni della vita intellettuale, caratterizzante l’animus. Tuttavia Boyancè osserva che è necessario includere la quarta essenza nell’anima, poiché interviene
nelle sensazioni, che sono proprie dell’anima: essa serve a “dar ragione dei movimenti, che
arrecano sensazione”.70 La conclusione, perciò, sarà che nonostante ci siano atomi del quarto
tipo anche nell’anima, essi sono presenti in misura maggiore nell’animus, che “prende per sé
conoscenza” e “per sé gioisce”.71 Si può supporre quindi che Lucrezio non specificò la reale
collocazione della quarta essenza, non essendo stata oggetto di ricerca del maestro Epicuro, il
quale probabilmente non se ne pose il problema. Abbandonato dunque ogni dubbio circa la
composizione dell’anima umana, Lucrezio ha addotto tutte le prove necessarie per dimostrare
che quello che viene chiamato spirito dell’uomo, è mortale in tutte le sue componenti.
Lucrezio e la morte
Sulle modalità con le quali Lucrezio ha affrontato il tema della morte e le ragioni che lo
hanno spinto ad assumere atteggiamenti non sempre coerenti con la dottrina del maestro, la
critica si è espressa in vario modo.
Nell’immaginario di Lucrezio, osserva Regenbogen,72 la morte non è solo quel male
esistenziale che più di tutti atterrisce, ma assume i tratti di mostro malefico, che con i suoi denti
venefici attanaglia ed opprime l’uomo. Epicuro non aveva parlato in questi termini della morte: morte è assenza di sensibilità, assoluta disgregazione. L’atteggiamento del filosofo greco è
di serena e pacata accettazione. Da dove provengono, dunque, l’ardore, il tono di imperioso
comando, gli innumerevoli esempi con cui Lucrezio sbaraglia il lettore e gli nega qualsiasi possibilità di replica? Il gusto per il pathos e lo spirito battagliero, caratteri distintivi della cultura romana, giustificano solo in parte l’atteggiamento del poeta latino. Alcuni critici, soprattutto
Perelli,73 individuano la ragione di tanto accoramento nell’angoscia che Lucrezio, da uomo che
vive le incertezza di una repubblica in declino, avverte e cerca di combattere. Non si tratta
dunque, come afferma Sellar,74 di un invito alla rassegnazione alla legge universale: la paura
della morte deve essere annientata non perché questa sia inevitabile, ma piuttosto in quanto essa
genera orrori e inutili tormenti per l’anima umana, che invece dovrebbe godere della serenità
e della pace della vita, che non è altro che breve interruzione del non essere.
Un altro filone della critica, che trova in Boyancè75 una delle più illustri voci, individua
nelle parole di Lucrezio, non tanto un’ansia di liberazione dalla paura della morte in quanto
tale, quanto piuttosto un desiderio di eliminare tutte le superstizioni circa l’aldilà, generate dalla religione, che ispirano negli uomini il terrore di ciò che avverrà dopo. Il peggior nemico
di Lucrezio, dunque, non sarebbe la morte, ma le immagini degli Inferi che impediscono agli
uomini di godere pienamente dei piaceri della vita, come “fango che, partendo dalle profonC. Bailey, op. cit. pp. 580-587 e Comment, pp. 1027.
P. Boyancè, op. cit. p. 178.
71 Lucrezio, De Rer. Nat, Libro III, vv. 396-402.
72 O. Regenbogen, Il pensiero della morte in Lucrezio in Perelli, Lucrezio, Letture Critiche, Mursia, Milano, 1977,
pp. 76-79.
73 L. Perelli, op. cit. p. 75: “Lucrezio osserva quanto sia difficile liberare l’umanità dallo stato di oppressione e di
angoscia in cui è stata ridotta”.
74 W. Y. Sellar, The Roman Poets of the Republic, Oxford, 1905, p. 369.
75 P. Boyancé, op. cit. pp. 159-163.
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dità dell’acqua, ne intorbida tutta la massa”.76 È nella morte che si ritrovano le radici della cupidigia e dell’ambizione: sono questi i mali più temibili, in quanto stordiscono gli uomini e
danno loro rifugio dal terrore della morte.
La posizione di Boyancè è oggetto di forte critica da parte di Perelli. Questi infatti considera il timore della morte in Lucrezio come “la paura del nulla, dell’ignoto, dell’eterno”.77 La
tendenza di Perelli ad interpretare il De Rerum Natura in chiave pessimistica, infatti, lo spinge
a notare come Lucrezio dia alle pene dell’Acheronte il valore allegorico delle angosce che
l’uomo è costretto ad affrontare nella sua vita, che non sarebbe altro che infernale sofferenza.78
Eppure, osserva Perelli, Epicuro condannò l’interpretazione allegorica del mito. È visibile
perciò una contraddizione con il pensiero del maestro che, stando alle argomentazioni del critico, non sarebbe neanche l’unica. È interessante perciò notare in quali punti le riflessioni di
Lucrezio si siano distaccate da quelle di Epicuro, in particolare riguardo al tema della morte.
Prima ancora di liberare la mente dalle superstizioni, dalla paura della morte, dal timore per
il dolore e per l’assenza del piacere, Epicuro voleva offrire agli uomini, con i suoi insegnamenti
sulla fisica,79 una via da seguire per vivere la propria vita con serenità. Nel De Rerum Natura,
invece, Lucrezio sembra dare alla liberazione dal timore della morte il primato rispetto a tutti
gli altri obbiettivi:80 Perelli ritiene che tale ossessione per la morte fosse motivata da quella nevrosi che tradizionalmente si tende ad attribuire al poeta.81 Nel descrivere la morte come un sonno eterno e tranquillo, Lucrezio non dà alcuna giustificazione al dolore provato dai parenti di
un defunto: “a questi dunque si deve chiedere che cosa vi sia / di tanto amaro, se la condizione
della morte si riduce alla quiete del sonno / perché alcuno debba macerarsi in un eterno cordoglio”.82 Tale freddezza nei confronti delle sofferenze altrui non si riscontra minimamente in
Epicuro, che anzi afferma “respingere il dolore con indifferenza nasce da un altro male più grave, la crudeltà, (...) perciò è meglio soffrire, e addolorarsi, e inumidire gli occhi, e struggersi”.83
Particolari discussioni ha suscitato, inoltre, il presunto invito al suicidio che in molte
occasioni sembra essere presente nei versi lucreziani. Non si può negare infatti che il poeta
si lasci andare in rimproveri nei confronti di chi nelle sventure non ha il coraggio di darsi
la morte, o ancora la condanna a quei vecchi che non vogliono lasciare la vita. A questo
riguardo risulta emblematico il discorso retorico della Natura, la quale, con tono d’accusa,
critica coloro che restano a tutti i costi ancorati alla vita, quando non hanno nulla da temere
dalla morte.84 Sebbene si possa scegliere di leggere in questi accenni al suicidio l’intento di
P. Boyancé, op. cit.
L. Perelli, op. cit.
78 L. Perelli, op. cit. p. 96: “La rupe che incombe su Tantalo è l’immagine del timore degli dei e del destino che grava
sugli uomini; gli avvoltoi che rodono le viscere di Tizio sono il tormento d’amore; il supplizio di Sisifo è la brama mai
saziata di raggiungere il potere assoluto; la fatica delle Danaidi è il non essere mai paghi di ciò che la natura ci offre nell’eterno giro delle stagioni; infine Cerbero e le Furie e l’orrido buio del Tartaro sono il timore della pena ed il rimorso
per le colpe commesse in vita”.
79 Epicuro, Epistola ad Erodoto, 63-68.
80 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I vv. 146-148: “Queste tenebre, dunque, e questo terrore dell’animo, / occorre che
non i raggi del sole né i ardi lucenti del giorno / disperdano, bensì la realtà nature e la scienza”.
81 L. Perelli, De Rer. Nat. p. 83: “Il concetto può apparire strano, e giustificato soltanto nell’ossessione personale
di Lucrezio”.
82 Lucrezio, op. cit. Libro III, vv. 909-911.
83 Epicuro, Mass. Cap. XL.
84 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III vv. 935-943. “Se infatti la vita trascorsa ti è stata gradita, / e se tutte le gioie,
quasi accolte in un’urna incrinata, / non fluirono via, né si spensero ormai divenute sgradevoli, / perché no ti allontani come
commensale sazio della vita / e a cuore sereno non prendi, o stolto, un sicuro riposo? / Se invece tutto ciò che hai goduto
è perito e dissolto nel nulla, / e la vita ti è in uggia, perché cerchi ancor di aggiungere / ciò che avrà triste fine, a sua volta,
e un ingrato tramonto totale, / e piuttosto non poni fine alla vita e ai tuoi affanni?”.
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scacciare negli uomini la paura della morte, è pur vero che non si possono non considerare
le massime epicuree “anche nella tortura il sapiente è felice”;85 “il saggio né desidera la vita,
né la morte” e “è stolto chi esorta il giovane a ben vivere, o il vecchio a ben morire”.86
Infine, non si deve dimenticare che se il Libro III è interamente dominato dal tema della morte dell’uomo e della sua anima, nel Libro V si ha un’ampia trattazione del tema della
mortalità del mondo, che deriva dalle originarie dottrine epicuree delle infinite possibilità di
aggregazione e di disgregazione degli atomi. Lo stesso Epicuro, infatti, aveva concepito l’universo come fondato su un equilibrio profondamente instabile: la fuga di un solo atomo,
avrebbe potuto determinare la fine di tutto.87 Tale precarietà, e il pericolo che il mondo possa perire da un momento all’altro, turbano, secondo Perelli, l’animo angosciato di Lucrezio,
al punto che il poeta, travisando le parole del maestro, arrivi ad individuare, nella crisi del suo
tempo, i segni evidenti dell’imminente catastrofe.88 Queste previsioni apocalittiche non
sarebbero altro, dunque, che “un’allusione metafisica alla tragedia esistenziale dell’uomo”.89
Epicuro non aveva parlato di declino dell’universo, né di decadenza della natura; aveva concepito il mondo come un immenso essere vivente, che nasce, cresce, e muore, ma sebbene
“tutti i mondi sono destinati a perire nell’eterno corso del tempo, e a dar vita ad altri mondi”,90
ciò non significa che il disastro dovesse verificarsi di lì a poco.
Fu Tucidide, nelle sue Storie,91 il primo a dare testimonianza del terribile morbo che
afflisse la città greca negli ultimi anni del V secolo a.C. La scientificità della descrizione
tucididea, che si sofferma sui particolari più raccapriccianti dei sintomi della malattia e del
suo decorso, e che è motivata da interesse principalmente storico, si ritrova nel racconto di
Lucrezio, il quale anima la sua narrazione di suggestioni morali e psicologiche. Infatti,
contrariamente alla pura e semplice enumerazione, operata dallo storico greco, degli orrendi
effetti della malattia, il poeta rappresenta la peste soffermandosi anche, e soprattutto, sull’“intimo tormento dell’angoscia e dell’attesa della morte”.92
L’avvicinarsi della morte induce, infatti, i contagiati in uno stato d’animo simile alla
demenza: i caratteri di questo stravolgimento psichico, del tutto tralasciati da Tucidide, trovano una loro ragion d’essere solo nel messaggio filosofico che il poeta intende trasmettere:
ed è proprio su questo messaggio che la critica ha preso le più varie posizioni. Non si può
infatti non notare lo stridente contrasto tra la scena finale di disfacimento fisico e morale,
presentato con la peste di Atene, e lo spettacolo straordinario del risveglio della natura e
l’entusiasmante inno alla vita e a Venere, con il quale Lucrezio apre il De Rerum Natura.
L’estrema differenza tra l’invocazione a Venere e la peste di Atene ha indotto alcuni93 a
considerare l’ipotesi che Lucrezio non sia riuscito a concludere il poema. I sostenitori di questa ipotesi osservano che, tra le varie incongruenze che testimoniano la mancata revisione delDiogene Laerzio, Vitae Philosophorum, Libro X.
Epicuro, Epistola a Meneceo 124-127.
87 Epicuro, Epistola ad Erodoto, 73.
88 Lucrezio, De Rer. Nat. Libro II vv. 1150-1153. “Ormai la nostra età è stremata, la terra esausta produce / a stento meschini esemplari, la terra che un giorno generò / ogni specie e creò dal suo grembo animali dai corpi possenti” e
vv. 1169-1170. “E anche il mesto colono della vecchia vigna avvizzita / accusa il corso del tempo e impreca all’età, brontolando / che gli antichi, ricolmi di buone virtù, trascorrevano / una vita estremamente più agevole in modesti poderi /
essendo di molto minore la parte di terra di ognuno / e non pensa che tutto man mano rovina e si avvia / a morte consunto
dal lungo spazio ti tempo”.
89 L. Perelli, op. cit. p. 124.
90 Vedi nota 16.
91 Tucidide, Storie, II, 47-53
92 Perelli, Lucrezio, poeta dell’angoscia, p. 120
93 C. Giussani, Studi Lucreziani, Torino, 1896-1898; e Bignone, Epicuro, Laterza, Bari, 1920.
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l’opera, il poeta, in alcuni versi del V libro, sembrerebbe far promessa di dedicare un po’ di
spazio alla descrizione delle sedi beate degli dei che tuttavia non si riscontra in nessun verso
successivo: “ugualmente non potrai credere che le sante dimore degli dei / siano collocate in
alcuna parte del mondo / (...) perciò devono anche avere sedi diverse dalle nostre, / sottili secondo la sottigliezza della loro natura: / ciò di cui in seguito darò ampia ragione”.94
Il contrasto tra l’inizio e il finale dell’opera e le già citate incongruenze invece per altri95
non sono altro che segno evidente del peggioramento della malattia psichica di Lucrezio, che
lo avrebbe indotto a contraddire le dottrine di Epicuro, il cui scopo primario, rasserenare gli
animi, sembrerebbe addirittura vanificato: a detta di Perelli, “la morte e la distruzione, verso
cui l’umanità sembra irreparabilmente avviata per tanta parte del poema, nella conclusione
celebrano il loro incontrastato trionfo”.96 È opportuno però osservare che questa interpretazione estremamente pessimistica affonda le sue radici nel giudizio formulato nei riguardi di
Lucrezio dalla critica cristiana, ed in particolare da S. Gerolamo. Le ragioni di queste posizioni possono essere facilmente individuate nel tentativo da parte della storiografia cristiana
di denigrare la figura del poeta che affermò con tanto ardore la mortalità dell’anima e l’inesistenza di una vita oltremondana. L’analisi orientata dunque verso l’individuazione di elementi che possano avvalorare la tesi della presunta pazzia di Lucrezio risulta quindi, secondo
alcuni critici,97 un procedimento scorretto, oltre che poco utile. Questi stessi critici riconoscono al poema una sostanziale coerenza nello schema, data anche e soprattutto dalla presenza
di proemi e finali così contrastanti tra di loro. È proprio la Garbarino ad affermare la tesi
della “simmetria per contrasto”, secondo la quale la peste di Atene si rivela per Lucrezio
l’immagine più evocativa per la rappresentazione della vita non epicurea, e l’unico spettacolo
che possa davvero fare da contraltare all’esaltazione della vita e della gioia esistenziale che
solo la dottrina epicurea può dare.
Un’ulteriore giustificazione alla presenza della peste di Atene come scena finale del
De Rerum Natura proviene da Grossi e Rossi,98 che puntano la loro attenzione sulla descrizione dell’origine del male cui Lucrezio si dedica. L’immagine del male presentata dal poeta
certamente toglie qualsiasi dubbio circa la sua inevitabilità: tuttavia le due studiose osservano
che lo scopo della dottrina epicurea non era affermare l’inesistenza del male, quanto piuttosto
creare nell’animo la giusta disposizione ad accoglierlo e a non temerlo. In questo caso,
dunque, presentare il male del mondo sotto forma di terrificante pestilenza darebbe a Lucrezio, ancora una volta, la possibilità di aprire gli occhi agli uomini e di insegnare loro la via
da seguire.
Occorre a questo punto domandarsi quali siano le ragioni per cui i critici citati hanno
tanto discusso il finale del De Rerum Natura: certamente la peste di Atene si presenta come
curiosa conclusione di un’opera come quella di Lucrezio. Ed è proprio qui che Giancotti,99
assumendo una posizione del tutto originale rispetto a quelle finora trattate, individua l’errore di fondo: “la conclusione del De Rerum Natura non è la peste di Atene, quale risulta
allorché viene avulsa dal contesto e dai presupposti che lo animano. (...) La conclusione è già
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V vv. 146-146; 154-156.
Perelli, op. cit.
96 Vedi nota 4.
97 G. Garbarino, Letteratura Latina, Opera, Vol. 1B, Paravia, Varese, 2003. p. 27”Questo tipo di indagine appare
metodologicamente scorretto, in quanto parte da una petizione di principio e attua una lettura del testo orientata in modo pregiudiziale a confermare un supposto caso clinico”.
98 L. Grossi - R. Rossi, Poesia e Filosofia in Lucrezio, in Homines atque aevum, vol. 2, Paravia, Piacenza, 2002.
p. 136.
99 F. Giancotti, Religio, Natura, Voluptas, Studi su Lucrezio, Patron, Bologna, 1989, pp. 347-348.
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– 71 –
bell’e trovata sin dal principio, sin dalla celeberrima invocazione a Venere”.100 Non ci si
deve dunque sorprendere di fronte al finale del De Rerum Natura, in quanto, benché opera
filosofica che si prefissa di trasmettere un messaggio, essa non è un’“opera di ricerca”,101
che partendo da premesse perviene a conclusioni. L’obbiettivo di Lucrezio non è dare una
qualsivoglia dimostrazione, ma indicare agli uomini una via da seguire per vivere con la
serenità che solo la verità epicurea può dare e che già nel proemio può essere individuata.
Al di là delle ragioni per le quali Lucrezio pose la peste di Atene come conclusione della sua opera, tuttavia, è bene osservare che con il suo modo di rappresentarla, il poeta ha
segnato la vittoria dell’epicureismo su un male che sempre nell’antichità era stato visto come
frutto dell’ira funesta degli dei. Ancora una volta, dunque, è la ragione ad avere la meglio,
sulla morte, ma soprattutto, sulla superstizione.
Lucrezio e gli dei
Il timore degli dei è, insieme con quello della morte, la causa prima dell’infelicità umana:
si tratta dell’angoscia dell’indefinito, del misterioso, di ciò che va oltre ogni previsione e controllo umani. Per poter liberare gli uomini dalla paura degli dei, Lucrezio deve dunque necessariamente dedicare alcuni versi alla descrizione delle divinità e del luogo in cui vivono. Le
beate sedi degli dei vengono descritte dal poeta attraverso un magico e favoleggiante spettacolo naturale di luci, trasparenze e colori:102 questo grandioso panorama è reso ancora più
meraviglioso da un confronto con il cupo e tenebroso scenario acheronteo. È proprio in questa
rappresentazione del mondo ultraterreno che alcuni critici, tra i quali Perelli, individuano il
primo segno di sentimento religioso in Lucrezio che, lungi dall’essere rivolto verso gli dei
tradizionali, si configurerebbe come “religione della natura infinita, sentimento di ebbrezza e
di sgomento che prende il poeta al contemplare o al fantasticare sul grandioso e vario spettacolo
dell’universo”.103 Eppure, osserva sempre Perelli, Epicuro, non solo aveva riconosciuto il valore della religione tradizionale, ma addirittura aveva predicato la partecipazione alle cerimonie
religiose ed il rispetto verso le pratiche rituali. Il filosofo, infatti, ben consapevole che gli atti
di culto non avessero il potere di ingraziarsi la divinità o di placarla, considerava comunque
importante la preghiera in quanto strumento per elevarsi alla contemplazione della beatitudine divina. Lucrezio invece sembra scagliarsi con violenza verso qualsiasi forma di culto e di
venerazione, etichettandola con il nome di superstitio, e sebbene alcuni critici abbiano tentato
di salvare la fedeltà del poeta alle dottrine del maestro, affermando che quella da lui chiamata superstitio corrisponderebbe alla religione falsa di Epicuro, degenerazione di quella vera,
la religio, in realtà secondo Perelli “l’attacco di Lucrezio si rivolge indiscriminato contro tutta
la religione (...), contro ogni atto rituale che presupponga un legame fra l’uomo e gli dei”.104
È importante osservare dunque in che modo Lucrezio descriva la situazione dell’umanità afflitta dal timore degli dei. La vita di ognuno è oppressa dal peso della religione, la quale, horribili super aspectu mortalibus instans,105 soffoca la libertà di azione e di conoscenza,
incatenando gli uomini fra incubi paurosi. Il fatto che l’intera umanità sia soggetta a questo
gravame, e non solo i singoli uomini, determina un forte ampliamento del valore dell’atarassia epicurea: da valore individuale, diventa universale.
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105
F. Giancotti, op. cit.
Vedi nota 10.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro III, vv. 14-24.
L. Perelli, op. cit. p. 143.
L. Perelli, op. cit. p. 145.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 62-65.
– 72 –
L’atarassia, però, potrà essere raggiunta soltanto nel momento in cui gli uomini saranno
privi di ogni dubbio circa l’origine delle loro credenze: dal momento che la religione nasce
dal timore di tuoni, fulmini e di tutti gli altri fenomeni naturali inspiegabili e pericolosi, che
vengono interpretati come manifestazioni dell’ira degli dei, la liberazione dalla superstizione
non può che andare di pari passo con la conoscenza della natura. La religione infatti è per
l’uomo una via di fuga di fronte ai misteri e alle forze da cui è circondato, frutto inevitabile
dell’ignoranza. Sarà quindi proprio Epicuro a dare agli uomini, con le sue spiegazioni scientifiche, la possibilità di riscattarsi e di elevarsi all’altezza di quel cielo da cui prima erano
dominati.
Tuttavia Lucrezio riconosce che la religione, oltre ad aver sempre rappresentato per gli
uomini un potente strumento di interpretazione della realtà, è anche stata, ed è ai suoi tempi,
strumento politico. La critica alla religione intesa come instrumentum regni, non riscontrata
in Epicuro, ha una sua giustificazione soltanto nel mondo romano in cui il poeta vive: non
a caso, dunque, Lucrezio riporta l’episodio di Ifigenia, che “gli permette di dimostrare le
deleterie conseguenze della religione applicata alla vita politica”.106
Affianco alla violenta invettiva contro il culto degli dei, tuttavia, alcuni critici hanno
visto in Lucrezio anche l’aspirazione ad una vita trascendente: si tratta proprio di quel sentimento religioso107 che nasce dalla contemplazione della meraviglia della natura, che tuttavia,
secondo Perelli, non porta al rasserenamento interiore (che si ritrova invece nell’abbandono
tipicamente mistico), dal momento che il poeta non ha alcuna fede nella trascendenza dell’anima.
Dopo tutte queste considerazioni circa l’irruente ribellione nei confronti degli dei tradizionali, risulterebbe contraddittoria l’inno a Venere posto all’inizio del poema,108 se non fossero presi in esame determinati fattori. Posto che Lucrezio si rivolge ad un pubblico ancora
fortemente radicato nel culto degli dei olimpici, e che quindi si rivela necessario, per accattivarsi il suo favore, riallacciarsi alla tradizione epica dell’invocazione alle Muse, per poter
capire il perché dell’inno a Venere è importante capire innanzitutto in che modo la dea venga intesa dal poeta. Venere è la dea della bellezza, dell’amore, ma prima di tutto è la dea della vita. Secondo Boyancè109 la dea rappresenta la forza fecondante della natura; Giancotti110
invece vede in Venere un’allegoria del principio di vita, che si contrapporrebbe a Marte, allegoria del principio di morte. Nonostante infatti gli dei non abbiano alcuna influenza nelle
vicende umane, la dea viene invocata in quanto è l’unica a poter soggiogare, facendo leva
sul suo fascino, il dio della guerra.
Non è importante notare quante volte in questo proemio Lucrezio si sia dimostrato
incoerente rispetto ai principi che sarebbero stati esposti nel resto del poema: è stato già
evidenziato infatti come Lucrezio, con una sorta di captatio benevolentiae, abbia voluto
rendere benevolo e partecipe il suo pubblico. Tuttavia è notevole osservare come già a partire
dal proemio, Lucrezio abbia introdotto e descritto con grande accuratezza il più straziante dei
bisogni fisici che toglie all’uomo ogni possibilità di raziocinio; il poeta ne esagera la potenza,
arrivando addirittura a considerare la possibilità che esso riesca a soggiogare un dio, e anche
se questo non è possibile, in quanto gli dei vivono nella più completa beatitudine, l’immagine
di Marte schiavo del desiderio non può che generare nell’animo umano lo sgomento di fronte
alla forza dell’amore.
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110
L. Perelli, op. cit. p. 147.
Vedi nota 61.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 1-43.
P. Boyancè, op. cit.
F. Giancotti, op. cit.
– 73 –
Lucrezio e l’amore
La complessa problematica dell’eros viene affrontata da Lucrezio con toni realistici e con
grande potenza d’immagini: il poeta insiste soprattutto sulla psicologia e sulla patologia
della passione d’amore.111 Come ogni bisogno, l’amore deve essere soddisfatto con misura;
ciò che lo rende tuttavia diverso dagli altri bisogni è la difficoltà di soddisfarlo: se infatti la
fame si quieta mangiando, e la sete si placa bevendo, l’amore è insaziabile, e più di ogni altra
passione ostacola il raggiungimento dell’atarassia: “amore è l’unica cosa nella quale più è
grande il possesso, / più il cuore arde d’un desiderio feroce”.112
Proprio per questa ragione, il poeta consiglia una netta separazione tra soddisfacimento
dell’impulso sessuale e coinvolgimento emotivo: “Non perde il frutto di Venere chi evita
l’amore, / ne deliba piuttosto le gioie e ne schiva gli affanni”.113 Non solo: soddisfare il bisogno fisico porta all’appagamento dei sensi, mentre l’innamoramento ha inevitabilmente
effetti disastrosi: annienta i patrimoni in regali, vestiti, gioielli, fastosi banchetti: “Le ricchezze profuse si mutano in vesti di Babilonia, (...) unguenti e calzari sicioni splendono al
piede, / verdi smeraldi abbagliano racchiusi nell’oro, (...) S’apprestano mense imbandite
con sfarzo di cibi e costumi”;114 distrae dall’adempimento dei propri doveri: “i doveri sono
trascurati e la stella del tuo nome è in declino”;115 scatena nell’innamorato violente passioni,
incomprensioni, gelosie: “sgorga una vena d’amaro che pur nei fiori già duole, (...) o perché
l’amata ti lascia nel dubbio di un’avventata parola / che nel trepido cuore confitta vi bruci
come fuoco, / o sembra che occhiate dardeggi, un altro rimiri, / e in volto le appaia l’accenno
di un sorriso fugace”.116
Come per ogni difficoltà a cui l’uomo va incontro, anche per l’amore Lucrezio segna una
via da seguire: dal momento che la passione tende a nascondere all’innamorato i difetti della
donna amata, e a tramutarli addirittura in rari pregi, (“una fosca epidermide si dice color di
miele, un’immonda creatura / che emani sgradevoli effluvi, si dice disadorna, se ha le iridi
sbiadite, / è Pallade in terra, lignea e nervosa è una gazzella, se è nana la invochi / sorella
delle Cariti, tutta un granello di sale; / se balbetta è per vezzo, se non parla è pudica, /
molesta loquace, è una donna di fuoco, / un esile amorino se la consunzione l’uccide, un
giunco se è morta di tosse. / Se è pingue e ne esorbita il seno, è Cerere, lasciato il suo Bacco; / camusa è Silena, una satira; se ha tumide labbra, è da baci117), l’unica via di scampo
per colui che è “affetto” dalla malattia d’amore è guardarsi intorno, osservare che ci sono al
mondo molte altre donne, e che quella da lui amata non è così perfetta come gli è sembrata.
Perciò il poeta suggerisce di non soddisfare i propri desideri sono con una sola donna,
perché questo potrebbe portare ad “attribuire a costei più di quanto sia lecito concedere a
creatura mortale”.118 Tuttavia, nonostante l’amarezza ed il disgusto che alcuni critici hanno
individuato in molti versi del passo,119 che, secondo quanto detto da S. Gerolamo,120 deriverebbe da un sentimento di frustrazione del poeta in seguito ad un amore sventurato, qualcu111
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Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1076-1083; vv. 1105-1120.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1089-1090.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1073-1074
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1123-1131.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, v. 1124.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1134-1140.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1160-1169.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1184-1185.
L. Perelli, op. cit.
S. Gerolamo, Chronicon, Costantinopoli, intorno al 380 d.C.
– 74 –
no ha visto, nel momento in cui il poeta sembra volere negare definitivamente il conforto che
l’uomo può trarre dalla passione amorosa, l’emergere di un amore visto in chiave più serena
e meno ingannatrice: “D’altra parte non sempre sospira di falso amore la donna / che avvinghia e congiunge le sue membra al corpo dell’uomo, / e lo stringe con labbra suggenti
coprendolo di umidi baci...”.121
Conclusa l’analisi dei bisogni fisici dell’uomo, non resta al poeta che intraprendere il
lungo viaggio alla ricerca delle origini dell’uomo e della civiltà.
Lucrezio e il progresso
La storia del genere umano occupa la seconda metà del libro V del “De rerum natura”,
attingendo in buona parte all’antropologia di Epicuro. Il filosofo si opponeva al mito dell’“età
dell’oro”, nella quale si sarebbe svolta la vita degli uomini primitivi, sostenendo che l’umanità avesse cominciato invece la propria esistenza in una realtà violenta, caratterizzata da
difficoltà di sostentamento e sopravvivenza.
Quando la Terra era ancora giovane, vi era un suolo caldo e fangoso, dove si formavano
delle membrane. Alla rottura di tali membrane, l’animale veniva alla luce e la Terra forniva
ancora una sorta di latte fino a che esso non fosse diventato adulto. Così anche l’uomo
inizialmente si nutriva di ciò che la Terra gli dava, fino a quando non riuscì a procurarsi da
solo il cibo.122
L’uomo primitivo, fisicamente più forte e vigoroso,123 vagava per i boschi seguendo
l’istinto, viveva la sua sessualità in modo naturale e ciò che la terra gli donava era sufficiente
per placare i suoi bisogni primari.
Per quanto riguarda lo stato sociale, fra i primi uomini non esistevano legami durevoli,
ognuno viveva del suo.124 Nella critica di Boyancè125 ciò che in effetti colpisce Lucrezio di
questi uomini primitivi è lo stretto rapporto della loro vita con quella delle bestie: “traevano
in perpetuo errare una vita da belve”.126 Come quindi per gli animali selvatici, anche per
l’uomo primitivo l’unico pericolo era rappresentato dalla minaccia di belve più feroci di lui.
Ed è proprio circa i pericoli corsi che Lucrezio fa un confronto tra l’uomo primitivo e quello contemporaneo, confronto nel quale, secondo Boyancè,127 non si può non individuare un
fattore di critica al progresso: con la civiltà, infatti, i pericoli per l’uomo sono aumentati, e se
prima si doveva solo guardare dalle bestie feroci, adesso si trova a doversi difendere da guerre
e naufragi.128
Con il passaggio dalla vita delle origini allo stato di civiltà, la “dura razza” si intenerisce
sia in senso fisico che morale: nella la nascita dei rapporti con i vicini abitanti si intravede un
primo accenno di vincolo sociale; passo successivo è la comparsa dei primi legami affettivi,
familiari, sentimentali.129 Ai principi di accordo tra gli uomini Lucrezio attribuisce il termine
foedera: buona parte del genere umano vi si sottomette volontariamente, spinto da un forte
bisogno di sicurezza.
121
122
123
124
125
126
127
128
129
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro IV, vv. 1192-1194.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 805-817.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 925-930.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 958-961.
P. Boyancè, op. cit. p. 250.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, v. 932.
P. Boyancè, op. cit. p. 251.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 982-987.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1019-1023.
– 75 –
La natura, il bisogno e l’istinto rappresentano poi i fattori principali all’origine del linguaggio, sviluppato in modo graduale dagli uomini primitivi, proprio come il linguaggio a
gesti dei bambini; esso viene usato per arrivare a scoprire gli strumenti di cui la natura li ha
dotati.130 Secondo la concezione di Lucrezio, non è possibile designare l’inventore del
linguaggio per due ragioni: in primo luogo che non possa essere ammessa l’esistenza di un
uomo eccezionale più capace degli altri, in secondo luogo che non si possa concepire un
linguaggio prima di averne avuta esperienza. Il poeta vede dunque l’origine del linguaggio
nell’affettività e nell’espressione spontanea dei sentimenti comuni: “Infine, cosa c’è di così
strano in questo, / se il genere umano, fornito di lingua e di voce, / designò le cose con suoni
diversi secondo le diverse sensazioni?”.131
La scoperta del fuoco viene attribuita dal poeta a due possibili cause: una folgore dal cielo
o dei rami d’albero che si siano sfregati l’un l’altro in una tempesta.132 L’una o l’altra che sia,
rimanendo fedele alla propria linea di pensiero di naturalista, il poeta vuole far risalire il
merito di questa scoperta alla natura, alla quale si deve anche l’apprendimento della cottura,
grazie all’azione del sole.
Ulteriore e fondamentale tappa dei rapporti sociali, che realizza una rapida trasformazione della vita dei primitivi, è la comparsa di particolari personaggi che si distinguono per
le loro capacità intellettuali: i re.133 Questi hanno il compito di fondare città, costruire fortezze
di difesa e ridistribuire il bestiame. Lucrezio insiste più sulla bellezza e la forza dei detentori
del potere che sui loro meriti intellettuali. Egli infatti ritiene più giusta una monarchia fondata sulla forza e sulla bellezza, che una determinata dai beni di fortuna, i quali, scatenando
negli uomini l’ambizione, sono deleteri solo per quelle monarchie in cui le ricchezze rappresentano il principio.
Proprio a causa della violenza scatenata dall’ambizione, l’uomo ha sentito il bisogno di
leggi, legislazioni e magistrature.
Per quanto riguarda la giustizia, il poeta approfondisce la teoria epicurea di una giustizia fondata sui castighi. I motivi addotti sono ancora una volta di tipo sentimentale: il genere
umano, stanco della violenza che lo circondava, si sottomette volontariamente al giogo delle
leggi.134
Altro evento fondamentale è la scoperta dei metalli che Lucrezio attribuisce all’insegnamento della natura, contrariamente all’opinione di Posidonio,135 che ne considerava causa
principale l’intervento di alcuni filosofi e sapienti vissuti all’inizio della civiltà. Se da parte
di Posidonio si ha l’esaltazione di questo evento chiave, Lucrezio invece critica aspramente
l’uomo, che preferisce al bronzo l’argento e l’oro, i quali si riveleranno fonte di corruzione
morale.
Secondo la critica di Perelli,136 il punto di vista di Lucrezio, tendenzialmente pessimistico, lo porta ad individuare due cause del decadimento e dello svilimento di ogni cosa, una
di ordine cosmico, l’altra di ordine psicologico. In quella di ordine cosmico, la terra inaridisce
e invecchia; in quella di ordine psicologico, le cose, che dapprima sono considerate sufficienti,
diventano vili e monotone. La ragione di quest’ultima sta nell’incontentabilità propria dell’uomo, sulla quale dunque è da riversare la colpa dei mali da cui egli stesso è tormentato.
130
131
132
133
134
135
136
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1028-1032.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1056-1058.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1091- 1101.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1108-1112.
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1145-1151.
Posidonio, Testimonianze e frammenti, a cura di Emmanuele Vinmercati, Milano, Bompiani, 2004
L. Perelli, op. cit. pp. 134-135.
– 76 –
Percorrendo infine le tappe dello sviluppo delle arti nell’evoluzione dell’uomo, Lucrezio
condanna quella della guerra, portatrice di tremendi orrori. Nella natura va ricercata l’origine
dell’agricoltura, come anche quelle della musica, nata dall’imitazione dell’uomo dei suoni
naturali, ad esempio il canto degli uccelli: “ma imitare con la bocca le fluide voci degli uccelli
/ si usò molto prima che gli uomini sapessero modulare / con il canto armoniosi versi e
allietare gli orecchi”.137
In conclusione, dall’analisi dello sviluppo e del progresso dell’uomo, si nota l’assenza
di entusiasmo del poeta nei confronti del progresso, che oltre a non aver assicurato nessuna
nuova felicità, ha addirittura offerto alle passioni nuove occasioni di scatenarsi, di cui la
guerra è l’inevitabile frutto. La vita sociale ha spinto l’uomo verso l’ambizione e la cupidigia.
Bisogna dunque pensare che secondo Lucrezio la condizione degli uomini primitivi fosse
superiore? Tuttavia Epicuro aveva più volte contrastato la teoria della mitica età dell’oro,
che, sebbene descritta in altri termini, è stata da alcuni individuata proprio nei versi in cui il
poeta descrive la semplicità e l’assenza di preoccupazioni dell’uomo primitivo. Altri invece
ritengono che questa assimilazione vita primitiva-età dell’oro non possa essere individuata,
dal momento che i primi uomini ignoravano la scienza morale che sarebbe stata un giorno
rivelata da Epicuro, il loro limite era di vivere in modo puramente istintivo, e in mancanza di
una scienza fondante, l’esistenza era precaria e fragile.
Pertanto, se si accolgono le teorie di coloro che sostengono la condanna del progresso138
da parte di Lucrezio, dal momento che la sicurezza l’oggetto primo della ricerca degli epicurei, e poiché per l’uomo primitivo le condizioni di vita selvatica escludevano la sicurezza
fisica e morale e la pace dell’anima, non si potrà che osservare come ancora una volta il poeta sia pervenuto a conclusioni molto diverse da quelle del maestro.
Avrebbe dunque ragione Perelli, nell’affermare, concordando con Borle,139 che in Lucrezio
la figura del “sociologo”, favorevole al progresso, coesiste con quella del “moralista”, che lo
condanna, e che “applica arbitrariamente alla storia del progresso la morale epicurea”.140
Resta ancora aperto il dibattito tra i critici circa la fedeltà di Lucrezio alle dottrine di
Epicuro. Come si è già visto in molti punti, è stato spesso individuato nel poeta un forte pessimismo, che sarebbe in netto contrasto con l’ottimistica fiducia epicurea nella liberazione dei
mali attraverso la conoscenza della natura. Alcuni studiosi, per poter spiegare questo contrasto, hanno tentato di individuare una vena pessimistica anche nella dottrina di Epicuro:
secondo Martha, ad esempio, “la tristezza è nel sistema”,141 mentre Giancotti riconosce il
“pessimismo inerente all’epicureismo in quanto dottrina edonistica, (...) che sconsacra come
follia gran parte di ciò che fa sacra la vita degli uomini”.142 Tuttavia, è lo stesso Giancotti a
considerare che la filosofia di Epicuro non può essere intesa né pessimista, né ottimista in
senso assoluto: infatti, afferma l’esistenza del male, ma non la sua insuperabilità. “Professa
la superiorità della ragione, che è capace di dare all’uomo il sommo bene”.143 Lucrezio,
secondo il critico, non viene mai meno alla fiducia nella ragione umana, e pur abbandonandosi a volte in sentimenti di sconforto di fronte all’umana follia, non nega che l’uomo possa
effettivamente, grazie ai suoi insegnamenti, liberarsi dal peso delle false convinzioni e delle
sciocche paure.
137
138
139
140
141
142
143
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro V, vv. 1379-1381.
L. Perelli, op. cit. p. 137.
J. P. Borle, Progrés ou déclin de l’humanité, in “MM”, 1962, pp. 162-163.
L. Perelli, op. cit. p. 139.
C. Martha, Le poème de Lucrèce, Parigi, 1909, p. 316.
F. Giancotti, op. cit. p. 337.
F. Giancotti, op. cit. p. 339.
– 77 –
In ogni verso del De Rerum Natura, Lucrezio perora con ardore la sua causa: descrivendo
il mondo, il poeta ha descritto l’uomo, ed ha dedicato alla natura umana uno spazio molto
maggiore rispetto all’esposizione delle dottrine fisiche. È dunque evidente, sia dalla struttura
dell’opera, sia dal sentimento espresso dal poeta, che la cosmologia è strettamente subordinata all’etica, e che solo attraverso la conoscenza dell’universo e dei principi che lo governano, l’uomo può liberarsi dalle superstizioni e dalle paure, ed essere realmente felice:
“Perciò, a sua volta abbattuta sotto i piedi, la religione
È calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo”.144
Bibliografia:
Fonti:
LUCREZIO, La natura delle cose, Trad. di Luca Canali, BUR, Milano, 1994.
EPICURO, Epistola ad Erodoto.
EPICURO, Epistola a Meneceo.
EPICURO, Massime Capitali.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, Libro X.
TUCIDIDE, Storie, II.
S. GEROLAMO, Chronicon, Costantinopoli, intorno al 380 d.C.
POSIDONIO, Testimonianze e frammenti, a cura di Emmanuele Vinmercati, Milano, Bompiani,
2004.
Monografie:
L. PERELLI, Lucrezio, Poeta dell’Angoscia, La Nuova Italia, Firenze, 1989.
BOYANCÈ, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, 1985.
E. PARATORE, Lucretii De Rerum Natura, Athenaei, Roma, 1960.
C. BAILEY, The Greek Atomists and Epicurus, Oxford, 1928.
L. PERELLI, Lucrezio, Letture Critiche, Mursia, Milano, 1977.
W. Y. SELLAR, The Roman Poets of the Republic, Oxford, 1905.
C. GIUSSANI, Studi Lucreziani, Torino, 1896-1898; e Bignone, Epicuro, Laterza, Bari, 1920.
G. GARBARINO, Letteratura Latina, Opera, Vol. 1B, Paravia, Varese, 2003.
L. GROSSI - R. ROSSI, Poesia e Filosofia in Lucrezio, in Homines atque aevum, vol. 2, Paravia,
Piacenza, 2002.
F. GIANCOTTI, Religio, Natura, Voluptas, Studi su Lucrezio, Patron, Bologna, 1989.
J. P. BORLE, Progrés ou déclin de l’humanité, in “MM”, 1962.
C. MARTHA, Le poème de Lucrèce, Parigi, 1909.
144
Lucrezio, De Rer. Nat. Libro I, vv. 78-79.
– 78 –
CAPITOLO III
3.1 IL CONFLITTO IMMANENTE ALLA NATURA UMANA
E LE NECESSITA DELLE REGOLE
NEL PENSIERO DI HOBBES E HUME
Lo stretto legame che in epoca antica – in particolare, come si è visto, nella dottrina
epicurea – intercorreva tra la sfera della natura fisica e quella della natura morale, viene meno
nel pensiero di Hobbes e Hume. Infatti, nonostante l’innegabile distanza esistente tra i due
impianti filosofici, bisogna presupporre l’esistenza di un terreno di partenza comune ad
entrambi. Thomas Hobbes145 è testimone dei profondi cambiamenti economici, sociali e
politici che investono l’Europa, ed in particolare l’Inghilterra, nel corso del diciassettesimo
secolo. La politica assolutistica della corona inglese è in evidente contrasto con l’aspirazione
della borghesia di vedersi riconosciuto un potere politico. Le continue e violente lotte civili
offrono al filosofo l’occasione di studiare a fondo i comportamenti degli uomini: passioni e
istinti guidano le loro azioni, i personali interessi spingono all’uccisione reciproca e sono gli
uomini stessi a mettere in pericolo la propria sopravvivivenza.
Importante è quindi la premessa ed insieme la giustificazione della filosofia politica di
Hobbes: la riflessione hobbesiana scaturisce proprio dal desiderio e dalla necessità di uscire
da una situazione di instabilità e di crisi, per impedire la perdita della pace e la distruzione
della vita: «quel bellum omnium contra omnes, che sintetizza la concezione hobbesiana dello
stato di natura, incalzato dal plautino homo homini lupus, non riflette tanto il fondamento di
una generica cultura umanistica, quanto l’esperienza – personale e storica –, di una società
nobiliare individualistica e sfrenata, in continua lotta per la preminenza – ma anche per la
sopravvivenza»146.
Per Hobbes, la rottura del rapporto tra natura e natura umana nasce dalla determinazione
della malvagità propria della natura dell’uomo, che allo stato di natura è vittima delle passioni
e dell’odio per gli altri uomini. Questa condizione porta conseguentemente all’imprescindibile necessità di creare delle leggi: nello stato di natura, infatti, l’uomo è privato di qualsiasi
bontà, come un animale consegnato alla legge della giungla. Nell’uomo, come in un animale,
convivono istinti e passioni; tuttavia possiede la ragione che lo distingue: essa, se opportunamente usata, è in grado di prevedere le azioni e le loro conseguenze per poi agire. Questa
compresenza di passioni incontrollabili e di ragione si esprime nell’azione opposta e contrastante della cupiditas naturalis e della ratio naturalis. La cupiditas naturalis spinge l’uomo
a soddisfare di volta in volta i suoi continui bisogni, godendone solo per sè: ciò che consente
all’uomo di avanzare in questo continuo processo di soddisfazione dei desideri è il potere,
consistente nei mezzi naturali e strumentali che ogni uomo possiede. La ragione, invece, ha
in sé il cosiddetto desiderio di autoconservazione che porta a fuggire da tutti i mali.
Hobbes ritiene che tutti gli uomini siano uguali per natura: «Quanto alla facoltà della
mente, trovo che tra gli uomini vi sia un’eguaglianza ancora più grande di quella della forza
fisica»147. Essendo gli uomini uguali, uguale sarà anche la speranza di raggiungere i propri
fini, e pur di raggiungerli essi saranno anche disposti a distruggersi o sottomettersi gli uni agli
altri. Questa condizione propria dello stato di natura, in cui vige il diritto naturale, porta gli
uomini all’assoggettamento, con la violenza o con l’inganno, delle persone più potenti, al fine
145
146
147
Malmesbury, 5 aprile 1588 - Hardwick Hall, 4 dicembre 1679.
A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 40.
T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 99.
– 79 –
di avere anch’essi quella potenza di cui sono privi. Ma ci sono alcuni uomini che esercitano
questa pratica in modo indiscriminato poiché provano piacere «nel contemplare il loro proprio
potere nelle azioni di conquista, che essi praticano più di quanto non richieda la loro sicurezza».148 Hobbes parlando del rapporto che intercorre tra gli uomini specifica l’afflizione che
provano essi a stare in compagnia di altri uomini, e quando non si vedono stimati da un loro
compagno, per accrescerla, arrecano all’altro danno. Tre sono le cause che scatenano la contesa: la rivalità, la diffidenza e l’orgoglio. Per quanto riguarda la rivalità essi la usano per
aggredire al fine di raggiungere un vantaggio, ad esempio impossessarsi delle cose altrui –
donne, bestiame, figli; la diffidenza viene al contrario usata per la conservazione di quelle cose
che precedentemente sono state acquistate con la rivalità, ed ha perciò uno scopo di difesa;
l’orgoglio tende alla reputazione, ovvero si rivolge a quelle «inezie» che forniscono a chi le
riceve un segno di disistima verso gli amici, familiari e tutto ciò che concerne la loro persona.
Senza un potere comune che tenga gli uomini in soggezione, essi si troverebbero in una
condizione di guerra. Essa consiste in uno spazio di tempo in cui è dichiarata la volontà di
affrontarsi. La guerra dunque «non consiste solo nel combattimento in sé ma nella disposizione dichiarata verso questo tipo di situazione». In tempo di guerra, non vi è posto per alcun
tipo di operosità: non vi sono costruzioni, né coltivazione, né arti, né lettere. L’uomo è solo,
ostile, misero, ed è animato dal perenne timore di una morte violenta. Appare chiaro, quindi,
che in uno stato di guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, non esiste alcuna legge, e
dunque nemmeno ingiustizia. Al contrario la violenza e la frode «sono in tempo di guerra le
due virtù cardinali».149
L’uomo è dunque intrappolato in una tristissima condizione di solitudine e conflitto con
gli altri, dalla quale però potrebbe uscire attraverso le possibilità che risiedono tanto nelle
passioni quanto, soprattutto, nella ragione. Infatti la paura della morte ed il desiderio delle
cose che rendono piacevole la vita sono le passioni che spingono l’uomo alla pace; la ragione indica convenienti clausole di pace, sulla cui base è possibile condurre gli uomini ad un
accordo: si tratta delle leggi di natura.
La legge naturale «è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per
conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla».150
La prima e fondamentale legge di natura consiste nella ricerca della pace: «è una regola
generale della ragione che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla,
e che, se non è in grado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi
della guerra». Da essa deriva la seconda, che consiste invece nel rinunciare alla pace, alla
difesa propria e al diritto su tutto: «che si sia disposti, quando anche altri lo siano, a rinunciare, nella misura in cui lo si ritenga necessario alla pace e alla propria difesa, al diritto su
tutto e ci si accontenti di avere tanta libertà nei confronti degli altri quanta se ne concede agli
altri nei confronti di se stessi».151
La terza legge di natura consiste nel mantenere i patti che si sono stretti. Essa è all’origine del concetto di giustizia e ingiustizia: è ingiusto il mancato adempimento del patto,
mentre è giusto tutto quel che non è ingiusto.
Quanto alle altre leggi naturali, in totale diciannove, secondo Hobbes esse si possono
riassumere in una sola frase: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te. Esse ob148
149
150
151
Op. cit. pag. 100.
T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 101.
Op. cit. pag. 105.
Op. cit. pag. 106.
– 80 –
bligano in foro interno, cioè in coscienza, ma non altrettanto in foro externo, cioè nel tradurle
in atto. Sono inoltre immutabili ed eterne, giacché le illegittimità restano per sempre tali, la
guerra non preserva la vita e la pace mai la distrugge.
Queste leggi sono il fondamento della filosofia morale, la quale «non è altro che la
scienza di ciò che è bene e male nei rapporti e nella società degli uomini».152
Numerose sono state le critiche sviluppatesi intorno al concetto di legge di natura, che
evidenziano una supposta contraddizione insita nel sistema filosofico hobbesiano. Queste
critiche, in verità eccessive, sarebbero valide se i caratteri della ragione hobbesiana fossero
gli stessi di quelli assegnatele dal tradizionale giusnaturalismo. Infatti «Hobbes è stato molto deciso, già negli Elements, nel negare ogni forma di normatività universale alla ragione,
che è invece un meccanismo puramente formale»:153 la ragione, in quanto capace di calcolare
le possibilità di autoconservazione, induce l’uomo a comportarsi secondo delle norme che non
sono propriamente leggi ma, appunto, teoremi tratti dalla ragione.
Gli uomini dunque calcolano razionalmente e ciò li porta ad associarsi l’uno all’altro e
a vivere negli stati, dove esiste un potere visibile in grado di assoggettarli per impedire loro
di infrangere i patti e le leggi natura. Quest’ultime, infatti, da sole non bastano per garantire
sicurezza: senza un forte e riconosciuto come tale, esse sono solo parole che ognuno calpesterà, per far legittimamente uso della propria forza.
Per erigere un forte potere comune è necessario trasferire tutta la forza e tutto il potere
ad un solo uomo o ad un’assemblea, attraverso un patto – irreversibile – di ciascuno con tutti
gli altri, come se si dicesse: «Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso
a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione che tu, nello stesso modo,
gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni». Nasce così il grande Leviatano, o dio
mortale, in grado di garantire la pace e la sicurezza e in cui risiede l’essenza dello stato;
quest’ultimo quindi è «una persona unica dei cui atti [i membri di] una grande moltitudine
si sono fatti autori, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinché essa possa
usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa
comune».154
Il Sovrano, che ha potere assoluto, incarna questa persona, tutti gli altri sono suoi sudditi. Esistono due maniere per istituire il potere sovrano: la prima consiste nell’accordarsi tra
gli uomini per sottomettersi volontariamente ad un certo uomo o ad una certa assemblea, e
tale è lo stato per istituzione; la seconda consiste nella forza naturale, ovvero nell’imposizione
alla sottomissione, e questo è detto stato per acquisizione. La differenza fondamentale sta nella matrice diversa di paura, infatti la sovranità per acquisizione «differisce dalla sovranità per
istituzione solo in ciò, che gli uomini che scelgono il loro sovrano lo fanno per paura l’uno
dell’altro e non di colui che istituiscono [sovrano]; mentre in questo caso si sottomettono a
colui di cui hanno timore».155
Esistono tre forme di stato: la monarchia, quando il rappresentante è un singolo uomo;
la democrazia, quando è un’assemblea aperta a tutti; l’aristocrazia, quando è un’assemblea
ristretta. Gli altri regimi non sono che altri nomi per indicare le tre specie fondamentali di stato in un accezione negativa o avversa. La diversità tra queste forme non consiste nella differenza di potere ma nella differenza dei vantaggi che presentano per preservare la pace e la sicurezza: nell’analisi di questi vantaggi è indubbio che Hobbes ritenga maggiormente idonea
152
153
154
155
Op. cit. pag. 129.
A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 44.
T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 143.
Op. cit. pag. 167.
– 81 –
la monarchia. Infatti in una monarchia l’interesse pubblico converge con quello privato,
giacché la prosperità del monarca deriva necessariamente dalla ricchezza dei suoi sudditi.
Inoltre il monarca può avvalersi del consiglio di chi desidera e quando lo desidera, le sue
decisioni non sono soggette all’incostanza del numero, come in assemblea, e di certo non può
essere in disaccordo con se stesso per interesse o invidia. Hobbes è ostile alla retorica, a causa
«dell’uso indiscriminatamente mistificatorio che se ne fa in politica».156
Altro punto sostanziale della teoria politica hobbesiana risiede nella delineazione dei
limiti della libertà del suddito e, per contro, dell’infinità di quella del sovrano. In primo luogo,
un uomo libero è «colui che, nelle cose che è capace di fare con la propria forza e il proprio
ingegno, non è impedito di fare ciò che ha la volontà di fare».157
Come precedentemente si è detto, per raggiungere la pace gli uomini hanno creato un
uomo artificiale detto stato; allo stesso modo hanno conseguentemente costruito delle catene
artificiali dette leggi civili, fissate attraverso patti reciproci. La libertà del suddito è circoscritta
dunque a ciò che non è stato codificato entro una legge; infatti «in tutti i generi di azioni trascurate dalle leggi gli uomini hanno la libertà di comportarsi nel modo che la loro ragione
suggerirà come il più vantaggioso per loro stessi». Fuor di questi confini, l’uomo è tenuto a
osservare le leggi civili, in quanto membro dello stato. La legge civile è «per ogni suddito
l’insieme delle norme che [...] lo stato gli ha ordinato di applicare per distinguere il diritto
dal torto; vale a dire ciò che è contrario alla norma da ciò che non lo è».158 Il legislatore è
il sovrano, il quale non è soggetto ad esse. Occorre poi sottolineare la corrispondenza tra legge di natura e legge morale, in quanto la legge naturale «prescrive la pratica di comportamenti,
come la moderazione, l’equità, la fedeltà, l’umanità, la misericordia, che se da un lato sono
necessari al conseguimento della pace, e quindi della sopravvivenza, dall’altro sono anche
quelle che comunemente si chiamano virtù».159
È particolarmente interessante notare l’assoluta discordanza tra il pensiero politico hobbesiano e i contemporanei drastici cambiamenti politici ed economici della sua Inghilterra.
Hobbes propone infatti una teoria che delinea i tratti di uno stato in tutto e per tutto assoluto,
in un momento in cui le forze anti-assolutistiche trionfano e una forma di monarchia parlamentare si instaura decisamente in terra inglese. La guerra civile è conclusa e la pace è restaurata: non attraverso l’istituzione di un potere assoluto, ma attraverso il suo abbattimento.
Numerose ad aspre sono le critiche mosse alla concezione assolutistica dello stato di
Hobbes. Il contemporaneo Locke, in accordo con la concezione giusnaturalista, sostiene la
duplice natura del patto, pactum unionis o pactum subjectionis. Hobbes di fatto unisce i due
patti nel patto d’unione, mediante il quale gli uomini, divenendo sudditi, alienano i proprio
diritti al sovrano. Ponendosi in netto contrasto con tale concezione, Locke sostiene al contrario
che nel passaggio dalla stato di natura allo stato civile l’uomo conserva tutti i diritti, e che il
potere coercitivo è indispensabile per la garanzia degli stessi. All’indivisibilità del potere
hobbesiana si sostituisce dunque l’esigenza di separarlo in diverse entità – potere legislativo,
esecutivo e federativo – che hanno come fine ultimo il bene dello stato. Locke sostiene inoltre il diritto di resistenza nel caso in cui il potere dello stato diviene ingiusto, partendo dalla
teoria del Contrattualismo, in effetti già avanzata da Hobbes.
Più di un secolo dopo, Kant accusa l’inglese di aver ridotto l’uomo ad una semplice
macchina, assoggettato alle leggi di natura poiché incapace di autodeterminarsi, pretendendo
156
157
158
159
A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 55.
T. Hobbes, Leviatano, Laterza, pag. 175.
Op. cit. pag. 219
A. Pacchi, Introduzione a Hobbes, Laterza, pag. 48.
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persino di prevedere in maniera matematica il risultato delle azioni umane. Kant, riconoscendo al contrario l’importanza dell’individuo attraverso la ragion pura pratica, ritiene che
l’uomo si autodetermina e che è portato ad agire in vista del meglio per tutti.
La critica contemporanea tende a confutare, in parte o totalmente, le conclusioni hobbesiane circa lo stato di natura e le basi del potere civile.
Lo studioso Buchanan,160 accettando l’esistenza dello stato di natura così come Hobbes
lo immagina, ritiene che in esso l’assenza di conflitto sarebbe impossibile, a meno che gli
individui vivano isolati gli uni dagli altri. Per uscire da questa situazione, è necessario trovare
un accordo che consenta di conseguire la pace: il contratto. La stipulazione del contratto di
base non elimina tuttavia il problema di fondo: l’uomo, infatti, rispetta le regole soltanto se
ha la certezza che gli altri facciano altrettanto. Inoltre, anche nel caso in cui tutti rispettino il
contratto, l’uomo riterrà maggiormente conveniente infrangerlo lui solo. In sintesi: la stipulazione di un contratto non implica la completa adesione allo stesso. Da ciò nasce l’esigenza
di creare una struttura legale e un’autorità esecutiva che non assume tuttavia i tratti del
Leviatano: l’istituzione, secondo Buchanan, deve essere limitata dalla costituzione di base.
È inoltre opportuno sottolineare la doppia natura dello stato nella concezione del filosofo:
una “protettiva”, che impone il rispetto delle leggi, ed una “produttiva”, che assicura agli
individui la fruizione dei beni pubblici. Secondo Buchanan, benché lo stato debba essere
“protettivo” e non assoluto come nella concezione hobbesiana, nella realtà di fatto quest’ultimo tende a emergere in quanto esso è controllato da uomini stessi, tendenti al benessere personale più che a quello collettivo.
Del tutto differente è il contesto storico entro cui si inserisce la filosofia di David
Hume.161 Il settecento, con la diffusione a macchia d’olio dell’Illuminismo, è caratterizzato
da una riscoperta e da una rivalutazione delle potenzialità razionali dell’uomo. La fiducia
nella ragione mira a liberare l’individuo dall’ignoranza, dalla superstizione e dai pregiudizi.
In armonia con lo spirito razionalistico, la critica illuministica si estende anche alla religione
tradizionale: per Hume essa è il frutto dei timori e dei tormenti che agitano l’uomo, dei quali
si attribuisce la causa a Dio. Forte è il legame tra l’illuminismo e la società borghese, classe
in continua ascesa economica e politica ormai da secoli. Il fenomeno culturale illuminista può
considerarsi in questo senso espressione ed insieme arma intellettuale dello straordinario
progresso della borghesia settecentesca: non è un caso, infatti, che i maggiori esponenti dell’Illuminismo siano per lo più di estrazione borghese.
Particolarmente fecondi furono gli studi scientifici, con la definitiva sepoltura della
vecchia scienza di matrice aristotelica.
La figura di Hume si inserisce ampiamente in tale contesto, trovando in particolare accoglienza nei salotti francesi, il cui maggior interesse è occupato dalle conclusioni antimetafisiche e dall’analisi antropologica e psicologica della religione operate dal filosofo scozzese.
Alla base del filosofare di Hume sta infatti il progetto di costruire una filosofia della natura
umana, attraverso l’analisi accurata delle diverse dimensioni che la costituiscono: ragione e
sentimento, morale e politica.
Prima di addentrarsi nell’analisi dello studio che Hume ha condotto circa la natura
umana, è bene porre subito un’importante premessa: il filosofo, contrariamente a quanto
asserisce Hobbes, non concepisce l’uomo come un essere negativo e malvagio, ma riconosce che, nell’individuo, siano presenti sentimenti che lo inducono al bene ed altri che al contrario lo portano al male. Hume critica inoltre le pretese della ragione, che non può regolare
160
161
Buchanan, J.M. (1998), I Limiti della Libertà, Rusconi.
Edimburgo, 26 aprile 1711 - Edimburgo, 25 agosto 1776.
– 83 –
la vita pratica, e nega che taluni principi – la giustizia, il contratto originario, etc. –, abbiano
un fondamento razionale.
L’uomo è una creatura imperfetta, le cui azioni scaturiscono dalla compresenza di diverse
passioni, le quali portano l’uomo ad agire, e non è dunque la sola ragione a indurre l’uomo a
compiere un’azione: «Credo proprio che non si dirà che la prima specie di ragionamento, da
solo, possa essere causa di qualche azione. Il suo regno è quello delle idee, mentre la volontà
ci pone sempre in quello della realtà; quindi la dimostrazione e la volizione si dimostrano del
tutto separate l’una dall’altra... Il ragionamento astratto e dimostrativo non influenza mai alcuna delle nostre azioni, se non in quanto dirige il nostro giudizio sulle cause degli effetti».162
Sebbene ragione e volizione siano completamente separate, tuttavia esse non sono mai
in contraddizione l’una con l’altra, poiché una passione non può mai essere considerata
assolutamente irragionevole, a meno che essa non sia fondata su una falsa supposizione. È
evidente dunque che quelle passioni che Hume definisce violente – quanto più è vivace e forte
una passione, tanto più essa influisce sull’agire umano –, hanno un effetto determinante sulle
facoltà dell’uomo, il quale agisce in virtù delle passioni e non del ragionamento, anche se
questo ritorna utile per rintracciare le relazioni presenti tra gli oggetti che l’uomo vede e le
conseguenti sensazioni. Infatti: «È ovvio che quando da un oggetto ci viene la prospettiva di
un piacere o di una pena sentiamo una conseguente emozione di avversione o di desiderio e
siamo invitati ad evitare o a volere ciò che ci darà quel disagio o quella soddisfazione. È
anche ovvio che quell’emozione non si ferma lì ma, comprende qualsiasi oggetto connesso
con quello originale per la relazione di causa ed effetto».163 Dunque l’intelletto interviene
chiarendo quali siano le connessioni tra oggetti e sensazioni, e nel momento in cui il ragionamento cambia, cambiano anche le azioni. Ciò significa che la ragione guida l’azione,
sebbene non ne sia la causa originaria. Inoltre la ragione non è in grado di opporsi completamente a qualsivoglia passione, infatti Hume afferma che non vi è nulla che sia in grado di
impedire l’impulso di una passione, tranne un opposto impulso. Se ne deduce che per il filosofo la passione detiene il primato rispetto alla ragione e che essa, appunto, guida e orienta
una data azione: la ragione non è che una «schiava» della passione.
Dopo aver chiarito e puntualizzato tale concetto è bene soffermarsi su un ulteriore elemento, il quale esercita sulle passioni un ruolo indiscutibilmente importante. Si sta facendo
riferimento a quella che Hume chiama simpatia, la quale induce gli uomini a simpatizzare per
i propri simili, facendoli sentire così più vicini: «Nessuna qualità della mente umana è più
importante, che la tendenza a simpatizzare con gli altri e a ricevere per comunicazione le
loro inclinazioni e i loro sentimenti, per quanto essi siano differenti o persino contrari ai
nostri... A questo principio dovremmo far risalire la grande uniformità che possiamo osservare nel carattere e nel modo di pensare di una stessa popolazione... Questa somiglianza deve
molto contribuire a farci entrare nei sentimenti altrui e a farceli abbracciare con facilità e
piacere».164 Da tali affermazioni si evince la convinzione che, qualora gli uomini condividessero una somiglianza di lingua, paese, maniere, carattere, maggiore sarebbe la simpatia che
proverebbero gli uni nei confronti degli altri.
Tornando alla definizione dell’uomo come creatura imperfetta, il filosofo è convinto che
l’essere umano non sia in rapporti di perpetua ostilità con altri uomini, tuttavia riconosce che
nella natura umana è radicata un certa quantità «costitutiva» di egoismo che, nel momento in
cui non viene adeguatamente corretta, diviene un elemento che dà luogo ad effetti negativi
162
163
164
David Hume, Scritti Morali, Editrice La Scuola, pag. 69-70.
David Hume, Scritti Morali, Editrice La Scuola, pag. 71.
Op. cit. pag. 89-90-92.
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che possono nuocere soprattutto nell’ambito della società. Oltre a riconoscere tale difetto
Hume considera la natura umana debole e bisognosa. Da tali considerazioni ne consegue che
l’unica soluzione per venir meno ai difetti umani sia il radunarsi in società. Ancora una volta non è il calcolo razionale che induce l’uomo alla costruzione di una società, bensì le percezioni istintive. Sebbene il filosofo ritenga che nella società allargata si moltiplichino i bisogni, le necessità, le debolezze, ad aumentare sono anche le capacità umane, in virtù della
divisione dei compiti, la forza e la sicurezza, giacché grazie alla collaborazione reciproca si
giunge alla diminuzione dei pericoli.
Per comprendere appieno i rapporti che concorrono all’interno della società è bene soffermarsi sulla problematica della non coincidenza tra interesse comune e singolo. Hume asserisce che «In generale si può affermare che non esiste nelle menti umane una passione come l’amore per il genere umano in sé considerato».165 Da tale affermazione si evince come
gli uomini rimangano legati alla sfera del loro interesse privato, tanto da non poter concepire il pubblico interesse: l’umanità è difficilmente sensibile al motivo dell’interesse pubblico,
e nel comportamento quotidiano trovano poco spazio quelle azioni contrarie all’interesse privato come sono quelle oneste e rette. Contrariamente alla concezione hobbesiana della natura umana, il filosofo irlandese ritiene che in essa possa concorrere qualsiasi genere di sentimento, sia quello incline al bene che quello incline al male: «I temperamenti degli uomini sono diversi: alcuni hanno tendenza verso le passioni gentili, altri verso l’aggressività: ma in
complesso si può affermare che l’uomo in generale, o la natura umana, non è che l’oggetto
sia dell’odio che dell’amore [...] invano cercheremmo di evitare quest’ipotesi, perché non
esistono fenomeni che dimostrino l’esistenza di un tale affetto per gli uomini indipendentemente dai loro meriti e da tutte le altre circostanze».166
Posto perciò che l’uomo è maggiormente incline a soddisfare i propri interessi ed è fortemente legato alla sfera del suo particolare, il secondo passo da compiere per giungere alla
costituzione di una società stabile e ben organizzata è la conciliazione tra interesse pubblico
e privato. Ciò è possibile tramite il senso della giustizia, che «non deriva da natura, ma nasce artificialmente benché necessariamente dall’educazione e dalle convenzioni umane»: è
ben chiaro che la giustizia sia un’invenzione dell’essere umano ma essendo«ovvia e assolutamente necessaria può essere chiamata naturale con la stessa proprietà con cui si dicono tali tutte le cose che derivano immediatamente da principi originali senza l’intervento del pensiero e della riflessione».167 Dunque in questo senso nessuna virtù è più naturale della giustizia
(senza la quale la società si “dissocerebbe” inevitabilmente), giacché essa garantisce il superamento di quello stato selvaggio e solitario dell’uomo senza alcun dubbio peggiore della
peggiore condizione che si possa verificare in società. L’uomo è portato ad agire secondo giustizia e onestà in quanto è consapevole che anche gli altri agiscono similmente a lui, e in virtù di tale presa di coscienza si stabilisce quell’accordo attraverso cui è garantita l’esistenza
della giustizia, intesa che nasce da un comune senso di interesse. Se per Hobbes l’uomo indugia, per Hume questo compie ogni atto supponendo che anche gli altri siano in procinto di
fare altrettanto: «È solo sulla base della supposizione che gli altri imiteranno il mio comportamento che io posso essere indotto ad abbracciare quella virtù, poiché nient’altro che questa coordinazione può rendere la giustizia vantaggiosa o fornirmi qualche motivo di conformare il mio comportamento alle sue regole».168 Poiché gli uomini vengono a conoscenza del
165
166
167
168
Op. cit. pag. 131.
Op. cit. pag. 132.
David Hume, Scritti Morali, Editrice La Scuola, pag. 134-135.
Op. cit. pag. 137-138.
– 85 –
fatto che solo nella cosiddetta società ristretta è possibile attuare con maggiore facilità la
conciliazione tra interesse pubblico e privato, essi in tale ambito sono ben disposti a sottoporsi
all’osservanza di regole, le quali permettono di raggiungere la soddisfazione delle loro passioni. Tuttavia, all’interno di una società allargata il contatto tra interesse privato e comune
diviene più difficile da realizzare: interviene dunque la simpatia che rende possibile l’accordo
tra interesse particolare e pubblico. Hume ritiene infatti che sia il privato interesse a spingere
l’uomo ad approvare lo stabilirsi della giustizia, e che la vera fonte dell’approvazione morale
sia la simpatia con il pubblico interesse. Per garantire la conservazione della pace all’intento della società umana, un ruolo fondamentale è ricoperto dall’educazione familiare e dalle
abitudini, che portano gli uomini a stimare la giustizia e a disprezzare l’ingiustizia: «I genitori
osservano facilmente che un uomo è tanto più utile sia a se stesso che agli altri quanto più è
grande il grado di probità e di senso dell’onore di cui è dotato, e che quei principi hanno
maggior forza quando l’abitudine e l’educazione assistono l’interesse e la riflessione, sono
indotti ad inculcare nei loro figli fin dalla tenera infanzia i principi della probità e ad insegnare
loro l’osservanza di quelle regole attraverso le quali si conserva la società, come degne e
onorabili, e la violazione di esse come infame e vile».169
L’uomo rispetta le leggi poiché desidera vivere in buoni rapporti con i suoi simili, e ritiene estremamente importante che tutti coloro che lo circondano ne abbiano una buona considerazione, ed è per questo che egli ambisce a possedere le maggiori virtù e ad agire rettamente. Dunque possedere le virtù più utili o gradevoli alla persona è un desiderio appetibile
anche e soprattutto dal punto di vista dell’interesse personale, infatti una società non risulterebbe sopportabile se un uomo sentisse sgradita la sua presenza. È chiaro che l’uomo è indotto
ad agire in maniera lodabile solo per soddisfare il proprio interesse, e non perché sia mosso
da un sentimento di benevolenza nei confronti dell’umanità, tuttavia non è esclusa l’esistenza di uomini non onesti, i quali pur di soddisfare le proprie prerogative recherebbero danno
alla società. In generale comunque il retto comportamento dell’uomo è dovuto, essenzialmente, all’interesse di risultare ben accetti e visti nell’ambito della società; ma per permettere che si conviva in modo sereno e tranquillo è comunque indispensabile per l’uomo agire
e quindi soddisfare i propri desideri.
Alla luce di tali precisazioni e riflessioni, è evidente che Hume non è particolarmente
interessato a stabilire se la natura umana sia buona o cattiva, contrariamente a Hobbes. In
Hume piuttosto emerge la considerazione dell’essere umano come un ente incline a qualsiasi
genere di sentimento – si guardi alla benevolenza, all’amicizia, ma anche all’egoismo e alla
debolezza –, animato e mosso da desideri inerenti alla sfera del proprio interesse. Tuttavia
anche Hume ammette che nello stato di natura, definito selvaggio e solitario, sono assenti
l’idea di giustizia e di ingiustizia – esiste quindi un “contatto” con Hobbes. Le passioni che
animano l’uomo e che lo inducono a compiere le azioni, lo portano anche a sentire il desiderio
di soddisfare istanze e bisogni, la cui realizzazione risulta necessaria per stabilire dell’equilibrio all’interno della società umana. Perciò il legame tra bisogni e interesse privato sono necessari per il conseguimento del bene comune e per la presenza di serenità e tranquillità nell’ambito sociale.
Lo studioso Sugden,170 ponendosi sulla scia del pensiero di Hume, contrasta la concezione hobbesiana secondo cui l’apprendimento delle leggi di natura è frutto di un calcolo
razionale. Infatti, ipotizzando l’esistenza di uno stato di natura, lo studioso ritiene che tra gli
169
170
Op. cit. pag. 140-141.
Sugden, R. (1993), “Rationality, Justice and the Social Contract”, Harvester Wheatsheaf, Amesbury, pag. 157-
176.
– 86 –
individui possono nascere degli accordi spontanei in grado di regolare i comportamenti umani. Ciò nasce essenzialmente dall’osservazione del comportamento degli altri e soprattutto dal
ricordo dei conflitti precedenti venutisi a creare tra gli individui. Le convenzioni che possono sorgere nello stato di natura possono essere così schematizzate: convezioni di coordinamento, di proprietà e di reciprocità. È tuttavia vero che esistono due problemi fondamentali
che minano alla base questi accordi spontanei: in primo luogo l’ambiguità di una stessa
convenzione, e poi la possibilità di agire in contrasto con le leggi di natura. La convenzione
ambigua è però facilmente superabile, in quanto si tenderà naturalmente a privilegiare una certa interpretazione della stessa piuttosto che un’altra. Il secondo problema è invece decisamente
complesso, poiché porta al collasso di una convenzione. Per evitare ciò, Sugden ricorre,
seguendo la concezione di Hume, a un elemento non totalmente razionale: la morale. Gli
uomini, infatti, credendo nelle convenzioni, finiscono per considerare il rispetto di esse come
un dovere. L’esperienza di un comportamento universalmente accettato, genera negli uomini
un giudizio morale che li spinge a provare risentimento nei confronti degli individui che
raggirano una convenzione. La legge di natura, infatti, si carica di una forza morale che è
specificatamente una morale della cooperazione.
Lungo il percorso che abbiamo affrontato, l’intreccio tra la sfera fisica e la sfera morale
è stato il filo invisibile che, come un collante, ci ha permesso di procedere in un’analisi fluida
e approfondita che muove dall’Epicureismo nel mondo greco e nella sua rilettura lucreziana,
fino alle rielaborazioni in chiave moderna dei filosofi Thomas Hobbes e David Hume. Ha
dunque radici antichissime l’ipotesi che vi sia una correlazione molto stretta tra struttura e
comportamento, ipotesi che, oggi, nella disciplina della sociobiologia rappresenta il fondamentale presupposto di partenza. Precisamente, i sociobiologi ritengono che, sebbene non si
sappia ancora in che misura, la dotazione genetica di un individuo non solo spiega i caratteri fisiologici e anatomici, ma anche il comportamento sociale dello stesso. Se infatti la
sociobiologia è «lo studio sistematico delle basi biologiche di tutte le forme di comportamento sociale in tutti i tipi di organismi, uomo compreso»,171 questa conoscenza può e deve
essere messa al servizio dello studio sull’uomo.
L’evoluzione genetica, come è stato teorizzato da Darwin, procede per variazioni ed ha
avuto luogo milioni di anni prima dell’inizio della civiltà, mentre quella socioculturale è iniziata soltanto diecimila, quindicimila anni fà, con lo sviluppo dell’agricoltura e delle prime
città. In questo lasso di tempo, le variazioni genetiche non sono state molto significative,
ma i geni hanno continuato a possedere la loro forza di condizionamento. Come infatti si è
detto, alla base della sociobiologia vi è la certezza che il comportamento socioculturale è, in
una certa percentuale, geneticamente influenzato. Questa disciplina ha collegato la teoria
darwiniana dell’evoluzione con l’idoneità del genotipo di influenzare sul fenotipo. I valori
culturali non sono dunque completamente liberi, ma viaggiano lungo la via che i geni hanno
tracciato, ed il modo di agire umano non è altro che un fenotipo comportamentale. Ma questa connessione non è unilaterale: il comportamento socioculturale è influenzato e influenza
sul patrimonio genetico, essendo l’ambiente in cui i geni si adattano e si riproducono.
L’evoluzione culturale e quella genetica sono pertanto inscindibilmente connesse. La
sociobiologia ha oggi individuato quali sono le principali predisposizioni comportamentali
dell’essere umano. L’uomo è tendenzialmente egoista, costantemente teso alla conquista di
quelle risorse in grado di garantirgli la sopravvivenza. L’egoismo non è però l’unica caratteristica, esistono infatti due tipologie fondamentali di predisposizioni comportamentali: le predisposizioni all’automiglioramento e quella alla socialità e alla convivenza.
171
E. O. Wilson, Sulla Natura Umana, Zanichelli, pag. 10.
– 87 –
Le predisposizioni all’automiglioramento – l’aggressività, il senso di proprietà, il bisogno di vendetta, la predisposizione al dominio – sono state “selezionate” poiché aumentano
la fitness, l’idoneità genetica. Esse sono la manifestazione della parte egoistica dell’essere
umano.
Le predisposizioni alla socialità sono invece l’altruismo, il bisogno di conformità, di approvazione sociale, di reciprocazione.
Queste due diverse tipologie di predisposizioni sono evidentemente di natura molto diversa, quasi antitetica. Come può infatti l’uomo essere naturalmente predisposto all’aggressività e al contempo all’altruismo? Non sono tratti inconciliabili? La sociobiologia è convinta di no: nell’essere umano vi è la compresenza di due discordi predisposizioni. È dannoso e sbagliato cercare di ricondurre ad un’unica spiegazione tutto il complesso delle azioni
umane. I sociobiologi invitano invece a non considerare l’uomo costituito di un unico carattere, ma di un insieme di razionalità e di pulsioni che si fondono e che interagiscono incessantemente. Il dibattito futuro non potrà dunque basarsi sulla contrapposizione tra l’idea di
uomo come animale sociale e quella di uomo come essere egoista, ma dovrà riconoscere la
simultanea presenza di caratteri diversi, di altruismo ed egoismo, di razionalità ed irrazionalità. La domanda alla quale sociobiologia è chiamata a rispondere non è più “Qual è la natura
umana?”, ma “Come si evolverà la natura umana?”.
Bibliografia:
D. HUME, Estratto del trattato sulla natura umana, Laterza.
T. HOBBES, Leviatano, Laterza.
A. PACCHI, Introduzione a Hobbes, Laterza.
A. SANTUCCI, Introduzione a Hume, Laterza.
F. BARONCELLI, Scritti Morali, La Scuola.
WILSON, E. O. (1980), Sulla Natura Umana, Zanichelli.
BUCHANAN, J. M. (1998), I Limiti della Libertà, Rusconi.
SUGDEN, R. (1993), Rationality, Justice and the Social Contract, Harvester Wheatsheaf.
– 88 –
LICEO CLASSICO ORAZIO ROMA
Il concetto di Umanità:
Natura, Tradizione, Rivoluzione
– Progetto: Roma per vivere, Roma per pensare –
(anno scolastico 2008-2009)
CLASSE II B
Coordinatrice: Prof.ssa Licia Fierro - Collaboratrice: Prof.ssa Paola Peretti
GLI ALUNNI:
Viviana Andolfi - Federica Balzani - Rosa Calabrese - Giulia Chakkalakal - Daniele Costanzo
Flaminia Gaia Di Lorenzo - Cristiano Furnari - Ilaria Gravina - Cristina Roxana Manescu
Adriano Masci - Luca Messina - Davide Maria Meucci - Elisabetta Orlando Senatore - Angelo Rollo
Giovanni Romano - Arianna Sorrentino - Silvia Margareta Staffa - Chiara Tondi - Aurora Volpini.
INDICE:
PREMESSA.
CAPITOLO I
1.1 Il processo di formazione del concetto di Umanità: alcuni esempi.
1.2 Oltrepassare i confini: nuovo mondo e nuove scienze.
CAPITOLO II
2.1 La rilettura del concetto di Umanità alla luce delle neuroscenze.
2.2 Il punto sul dibattito attuale: rischio e prospettiva sulla “nuova umanità”.
PREMESSA
Con questo percorso ci proponiamo di fornire una visione complessiva del concetto di
“Umanità” dalle sue origini fino alle più recenti rielaborazioni in ambito sia storico-filosofico
sia scientifico. Abbiamo scelto tale tema poiché consideriamo l’educazione all’Humanitas
oggi non meno necessaria di quanto lo fosse nel I sec a.C., per autori latini come Cicerone e
Terenzio che vi identificavano valori di Filantropia, Dignità, Nobiltà d’animo e Senso della
giustizia, ovvero tutti i presupposti per una convivenza pacifica nella Societas.
L’indole umana invece tende troppo spesso a porsi in una condizione di astio e superiorità nei confronti dell’altro. Questo non accade unicamente a livello individuale nei rapporti
tra singoli, ma allo stesso modo avviene tra diversi popoli e la storia ce ne offre numerosi
esempi: la superiorità della razza, la colonizzazione, le guerre di conquista, le barbarie tra
popoli per imporre il proprio dominio e la propria “democrazia”. Vivere secondo i valori dell’Humanitas significa annientare questa concezione xenofoba alla luce del fatto che se non
ci fosse l’Altro non ci sarebbe l’Io, non ci sarebbe un’identità limitata entro cui trovarci.
Tuttavia tale sentimento non deve essere inteso come una sorta di essere parmenideo che,
estendendo la sua condizione di singolo ad un’entità totalizzante perde la propria individualità, bensì come la presa di coscienza della comune condizione di uomo e dei suoi limiti.
– 89 –
Solo così l’individuo può riconoscere la sua soggettività, assumendo perciò diritti “naturali”
che gli spettano proprio in virtù dell’Humanitas. Tale concezione è stata legittimata nel 1948,
anno in cui le Nazioni Unite proclamarono la dichiarazione universale dei diritti umani, basandosi proprio sul principio che all’uomo spettino diritti in quanto “uomo” e che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali
ed inalienabili, costituisca il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo.
– 90 –
CAPITOLO I
1.1 IL PROCESSO DI FORMAZIONE
DEL CONCETTO DI UMANITA:
ALCUNI ESEMPI
Erodoto, l’illustre autore delle “Storie”, è considerato anche il “padre dell’etnografia” per
via dell’attenzione prestata dallo storico allo studio dell’ethos delle popolazioni considerate
“barbare” (Persiani, Egiziani, Medi e Sciti) dimostrando di avere una “Weltanschauung” talmente innovativa e al di fuori del pensare comune, da rappresentare il primo passo verso il
costituirsi di un nuovo modello di umanità. La grande capacità di osservazione dello storico
e la sua inesauribile curiosità nei confronti delle culture non greche può essere spiegato pensando al suo luogo di nascita, Alicarnasso, una città greca multietnica ed in forte contatto con
il mondo barbaro. Tuttavia è innegabile che Erodoto è interprete di una società che sta cambiando, aprendosi in maniera sempre più decisa alle terre sterminate e misteriose dell’Oriente.
Erodoto, si interessa, come mai nessuno aveva fatto prima, ai “nomoi” delle popolazioni barbare intendendo per barbari tutti i popoli non greci. Essi, se da una parte venivano biasimati dai sofisti per la loro non corrispondenza alla “physis”, dall’altra venivano osteggiati
dagli esponenti del cosiddetto tradizionalismo etico, che consideravano il “nomos” propriamente greco l’unica fonte di verità, giustizia e sicurezza.
Erodoto reagisce all’estremizzazione di queste due correnti di pensiero, riuscendo a sfuggire alle critiche e dando un significato nuovo alla sua ricerca. Egli, attraverso il relativismo
di Protagora, rifiuta di riconoscere come unica degna di considerazione la tradizione greca e
contesta ai sofisti l’inutilità o addirittura, la dannosità dei “nomoi” affermando che essi meritano attenzione e rispetto in quanto espressione per ciascun popolo della propria tradizione
e cultura. La modernità di Erodoto è chiara proprio in questa nuova ottica culturale e storiografica.
Con il paragrafo 101 del VII Libro lo scontro epocale tra Grecia e Persia esplode finalmente in maniera esplicita; dopo essere rimasto latente fino a questo momento, emergendo,
talvolta, nel corso della narrazione, in maniera sporadica ed episodica, adesso, alla vigilia della
guerra, assume finalmente i contorni precisi e definiti di un vero e proprio confronto tra
mondi a tal punto diversi da non poter evitare di entrare in conflitto. Erodoto ci presenta il
sovrano incapace di comprendere un mondo totalmente diverso dal suo, un modo di intendere
i rapporti di comando-obbedienza completamente al di fuori della sua concezione del potere,
un sistema di valori a lui totalmente ignoto; al contrario Demarato pur essendo un esule, non
rinnega il mondo da cui proviene, anzi ne tesse le lodi e ne esalta gli ideali.
Il ruolo della legge, la centralità della regola condivisa ed accettata da tutti, la norma che
ha autorità al di là della persona che è investita del potere, sono cardini del sistema democratico: Demarato illustra i principi base del regime spartano per mettere in luce la sostanziale
differenza tra la Grecia e la Persia. Non ci può essere libertà, non ci può essere democrazia
in situazioni in cui non c’è certezza della legge; la stabilità delle norme è garanzia per tutti,
è mezzo stabile per misurare le azioni dei singoli, è paradigma comportamentale per chi vi è
soggetto. La realtà persiana è fuori da questa concezione, è lontana da questi principi, è
basata su altri valori. Per un Greco la volontà individuale non può mai prevaricare la volontà
collettiva, per un persiano la collettività non esiste ed è proprio per questo motivo che, agli
occhi di Serse, i discorsi di Demarato risultano incomprensibili.
Tale opposizione tra Occidente libero e Oriente dispotico è alla base della classica tripartizione delle forme sane o corrotte di governo (monarchia/tirannide, aristocrazia/oligarchia,
– 91 –
democrazia/oclocrazia). Infatti, come spiega Giacomo Marramao, data tale antitesi tra Oriente
e Occidente, cioè tra “barbari” ed “europei”, la tirannide si configura come forma di governo
illegittima, perché esercitata su un popolo libero, il dispotismo, invece, si configura come una
forma di dominio legittima, perché esercitata su una massa di non-liberi.
Il termine Humanitas non è, nel suo significato intrinseco, distante da ciò che, nella cultura greca è definita la “paidéia”, ovvero il modello educativo in vigore nell’Atene classica
volto a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis interiorizzando quei
valori universali che costituiscono l’ethos del popolo.
Per Platone ed Aristotele il fine e la gloria del singolo individuo stavano unicamente nel
mettere a disposizione la propria vita per il bene della comunità, della polis. L’individuo secondo il pensiero platonico in primo luogo è un cittadino, e soltanto in seguito uomo in quanto tale; con l’Ellenismo, il fine dell’uomo non è più riposto nel servire la patria, dalla quale
trae la ragion d’essere ed il suo sentirsi “persona”; il problema della felicità, della salvezza,
si interiorizza sempre di più e si fa sempre più inerente al destino del singolo uomo. L’uomo
ha ormai acquistato il senso dell’humanitas, intesa come solidarietà empatica con la collettività, non più intesa come massa totalizzante ed impersonificata ma come somma delle singole entità individuali; è nella crisi degli antichi valori, nella perdita di un’etica comune che
poi si riproporrà ciclicamente nei secoli a venire, che gli uomini trovarono un sostrato comune
nella condizione di uomo in quanto singolo. Non vi è una spersonificazione a discapito dell’individuo per un’unione ad un ipotetico “tutto” rappresentato dalla collettività, ma un’estensione della propria individualità, pur mantenendola, riconosciuta ed identificata nella
condizione umana.
È, d’altronde, nel periodo ellenistico che il concetto di humanitas si estende a tal punto
che si può già parlare di una concezione moderna dell’umanità. Non c’è più contrapposizione tra occidente civilizzato e oriente barbarico, ma tutti gli uomini in quanto tali sono degni
nella nuova ideologia ellenistica, di esser definiti “humani”, senza alcuna distinzione di lingua, costumi, religione, tradizioni. Prendiamo ad esempio del nuovo clima di cosmopolitismo
dominante nel mondo ellenistico la commedia di Menandro. È proprio nella commedia menandrea che affiora quel senso di profonda solidarietà tra gli uomini, quella “filantropia” che
consente il superamento dei particolarismi, non solo a livello politico, sociale ed economico,
ma soprattutto a livello psicologico, inaugurando una nuova era in cui l’uomo scopre nuovi
valori, nuovi principi, nuove realtà, nuovi orizzonti.
L’uomo menandreo si caratterizza per una sua raffinata spiritualità, segno di un nuovo e
più maturo umanesimo. L’unicità sta proprio nel suo essere “uomo” e non nell’appartenere a
questa o a quella razza.
“In nome del cielo chi è legittimo e chi è bastardo a questo mondo, se siamo tutti uomini?”
“In una cosa mi sono sbagliato, forse, nel credere che al mondo ero l’uomo a cui fosse
possibile dire: – basto a me stesso e mai non verrà il giorno ch’io abbia da chiedere nulla a
nessuno. Ma ora lo vedo, la vita può avere una fine improvvisa che non si lascia prevedere,
ed io mi sbagliavo in questo. Perché bisogna che ci sia, e che tu l’abbia vicino, chi possa
all’occorrenza darti aiuto. Ma, per Efesto, fino a tal punto ero smarrito! Nel vedere come la
gente vive, e ciascuno a suo modo, e i calcoli e le ragioni che sanno trovare ogni volta che
c’è da fare un guadagno, io pensavo che nessuno potesse mai voler bene a un altro al mondo,
ed era questo il mio scoglio”.
“La ricchezza! Parli di questo! È cosa che non sta ferma... Perciò io dico che finché sei
tu che ne disponi, devi usarne da uomo generoso, e soccorrere tutti, fare in modo che per
opera tua quanti più t’è possibile non sentano che vuol dire il bisogno. È cosa da immortali,
e se un giorno ti trovassi davanti a un rovescio, quel che hai fatto per gli altri, lo faranno
– 92 –
anche gli altri per te. Vale di più, e quanto, un amico che hai davanti agli occhi, che non una
ricchezza che rimane nascosta e che tu tieni sotterrata e sepolta”.172
L’incontro della cultura greca con quella latina, nel corso del II secolo a.C., portò anche
nel mondo latino alla riflessione sulle condizioni dell’esistenza umana.
Il termine humanitas ha in latino diverse connotazioni semantiche. Aulo Gellio, erudito
del II sec d.C., ha spiegato le due diverse accezioni del termine nella cultura romana: il primo
significato, corrispondente a quello di philanthropia in greco, è “benevolenza”; il secondo
significato proprio del linguaggio colto, corrisponde a “dottrina ed educazione letteraria,
filosofica ed artistica”, avvicinandosi molto al concetto di paidèia greca. Proprio in questo
ultimo significato l’humanitas rappresenta ciò che contraddistingue l’uomo dagli altri esseri
viventi.
“Qui verba latina fecerunt quique his probe uti sunt, “humanitatem” non id esse volerunt
quod volgus existimat quodque a Graecis philantropia dicitur et significat dexteritatem quandam benivolentiamque erga omnis homines promiscam sed “humanitatem” appellaverunt id
propemodum quod Greci paideìan vocant, nos eruditionem istitutionemque in bonas artis
dicimus”.173 L’humanitas latina affonda le sue radici nella dottrina dello stoico Panezio di Rodi;
egli diede una svolta all’antico stoicismo moderandone le asprezze ed auspicando una tendenza
maggiormente eclettica. Il caratteristico determinismo stoico, con Panezio, viene messo in
dubbio, individuando nel fato un netto limite per il libero arbitrio. Inoltre, egli non arrivò a sostenere l’immortalità dell’anima, ma distinse una parte razionale ed una irrazionale; di conseguenza in campo etico approdò ad una concezione meno rigida dell’areté e della sapienza.
Questa particolare attenzione per i problemi dell’uomo ha fatto parlare a ragion veduta di umanesimo, l’humanitas latina. Un autore in cui ritroviamo il concetto di humanitas è Terenzio.
Il giovane schiavo cartaginese compie un importante passo avanti portando avanti idee nuove:
che gli uomini oltre che ideali, emozioni e impulsi spirituali hanno in comune anche debolezze
esistenziali; e scaturisce da questa consapevolezza l’accettazione dei limiti e delle fragilità
umane. Se da una parte la nostra natura ci spinge a porci obiettivi elevati, dall’altra la nostra
miseria rende il loro raggiungimento sofferto e tortuoso. Bisogna precisare che Terenzio non
fa tutto da solo, ma comunica alla massa ciò che l’ambiente più colto del tempo ha già interiorizzato, siamo nell’ambito del circolo degli Scipioni. L’humanitas terenziana non è solo la
semplice traduzione del termine greco philanthropia, non è solo interesse per l’altro, ma anzi
una più profonda apertura verso i propri simili, nella coscienza della comune natura umana.
Terenzio sceglie “nodi duri” della vita sociale e li presenta in una situazione iniziale di incomunicabilità: il seguito della vicenda consisterà nel creare la comunicazione tra i personaggi,
nel far riflettere, spiegare. Egli non tratta di dibattiti filosofici, ma penetra nelle vicende di tutti
i giorni: due vicini di casa che si confidano le proprie pene, una suocera che vuole salvare la
felicità di una giovane coppia, due fratelli che non possono fare a meno di amarsi nonostante
la differenza di opinioni. In questo senso il suo è il teatro della “comunicazione” inteso come
il valore più alto della cultura. Il verso, che meglio esplica l’ideale di humanitas tipica della
Roma nell’età degli Scipioni, in contrasto con la visione del mondo di Plauto espressa nella
sentenza “lupus est homo homini, non homo”, è contenuto nel Heautontimorumenos:
“Homo sum: humani nihil a me alienum puto”.174
Il merito di aver coniato il termine “Humanitas” si deve a Cicerone (Arpino 106 a.C. Formia 43 a.C.), il quale conferì ad esso il suo significato più pieno di “rispetto dell’uomo in
172
173
174
Menandro “Dyscolos”, Bompiani, Milano, 1983, vv. 713/784.
Aulo Gallio “Noctes Atticae”, Borle, Torino, 1968, cap. XIII, vv. 1/17.
Terenzio, “Heautonitimorumenos”, Laterza, Bari, 1994, vv. 53/80.
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quanto tale”. Già qui esso assume una elevata portata filosofica: in primo luogo giacché
valorizza ottimisticamente le qualità dell’uomo in quanto arbitro del proprio modo di essere,
in secondo luogo poiché salda l’idea di umano con quella di umanistico, cioè intendendo per
humanitas l’equilibrio e la cordialità nel rapporto con il prossimo. È su questa base che
Cicerone elabora il concetto di honestum, da intendere come la virtù dell’anima virtuosa,
nobilitata dall’armonia e dall’equilibrio interiore, invitando a un atteggiamento intellettuale
volto a stabilire il primato della giustizia “...Anche coloro che vendono e comprano, che
danno e prendono in affitto; coloro, insomma, che s’ingolfano negli affari, hanno necessità
di giustizia per sbrigare le loro faccende. Ed è così grande il potere della giustizia che perfino
coloro che si pascono di misfatti e di scelleratezze non possono vivere senza almeno un’ombra
di giustizia. Difatti, se uno rubasse o rapisse qualche cosa a un suo compagno di brigantaggio, costui perderebbe il suo posto anche nella banda; e un capo di pirati, se non ripartisse equamente la preda, sarebbe ucciso o abbandonato dai suoi compagni. Dicono anzi
che pur tra i ladroni vi siano leggi da osservare e da rispettare (...) Ora, se la giustizia ha sì
gran potere che rinforza e rinsalda la potenza perfino dei ladroni, quale e quanto non dovrà
essere il poter suo tra le leggi e i tribunali e, insomma, in una bene ordinata repubblica?”.175
Non solo negli scritti ciceroniani, ma persino nell’organizzazione stessa dei dialoghi, traspare questo grande senso della giustizia garante di “Humanitas”. In essi troviamo vari interlocutori che non polemizzano mai tra loro con toni aspri, ma cercano sempre di rispettare il loro
turno per prendere la parola: siamo insomma di fronte ad una cerchia ristretta di uomini perbene
che nelle teorie discordanti dalle loro ravvisano la possibilità di una loro crescita culturale.
L’ideale dell’“humanitas” influenzerà anche le riflessioni di Cicerone sul tema dell’amicizia: “Ego vos hortor ut amicitiam omnibus rebus humanis anteponatis...” “vi esorto ad
anteporre a tutte le cose umane l’amicizia...” “quoniam res humanae fragiles caducaeque
sunt” “perché le cose umane sono fragili” “et quid dulcius, quam habere, quicum omnia
audeas sic loqui ut tecum?” “e cos’è più dolce che avere qualcuno da ascoltare e con cui
parlare di tutto?” “Nam et secundas res splendidiores facit amicitia, et adversas leviores”
“infatti le cose secondarie l’amicizia rende più splendide e quelle avverse meno gravi”.176
Cicerone “non solo ha sempre sulle labbra l’humanitas, ma la realizza concretamente nella
sua vita. Egli è un homo novus, ma fornito d’una nobiltà spirituale, che sviluppa tutte le
qualità insite nella propria natura, realizzando un altissimo ideale umano: egli padroneggia
tutta la cultura intellettuale della sua epoca, ha una viva sensibilità per le scienze e il gusto
del bello, possiede garbo, tatto, cortesia, l’ironia socratica e l’umorismo; la persona ben curata
come pure la disinvoltura con cui si muove in società e le buone maniere lo rivelano come
uomo raffinato: ma, soprattutto, unisce a queste doti l’elevatezza dei sentimenti e una mirabile educazione del cuore, una benevolenza verso il prossimo che scaturisce dall’intimo, lo
spinge ad aiutare gli altri disinteressatamente”.177
Nessun altro concetto ciceroniano è forse più vitale e urgente dell’“humanitas” e poco
importa che l’uomo Cicerone non sia sempre stato all’altezza di questa sua teorizzazione.
Esso “vuol dire tolleranza e poi autocontrollo, equilibrio, cortesia intesi come riflessi esteriori
dell’armonia interiore; vuol dire rinunciare all’aggressività e alla polemica per far trionfare
una civiltà del dialogo, dell’accettazione della diversità”.
In questo senso il concetto di “humanitas” si configura come un processo di formazione
tale da proiettare un individuo verso la dimensione di un universale umano.
175
176
177
Cicerone “De officis”, Bur, Milano, 1991, vv. 40/43.
Cicerone “Laelius”, Laterza, Bari, 1996, cap. V, vv. 17; cap. VI, vv. 22; cap. XXVII, vv. 102.
M. Pohlenz, “L’uomo greco”, Bompiani, Milano, 2006, pag. 302/3.
– 94 –
Nel “De oratore” dialogo fittizio i cui interlocutori sono famosi oratori e maestri di Cicerone, egli afferma che l’eloquenza può fornire i mezzi per superare la difficile crisi politica ed istituzionale, a patto che sia basata su di una profonda cultura che si concretizza proprio nell’humanitas. Ma in quest’ultima trova un agire concreto anche la filosofia. Cicerone,
che da giovane seguì le lezioni dei filosofi più svariati, fece sempre filosofia, fino a vedere
in essa un saldo possesso spirituale. In realtà egli non pervenne alla formulazione di un proprio sistema filosofico limitandosi ad analizzare le teorie esposte da Carneade, Platone, ma
soprattutto Panezio e Posidonio conoscendo così lo stoicismo. Di esso Cicerone accettò il
principio nell’etica secondo cui il fine dell’uomo è la vita secondo natura e la virtù da sola
deve bastare per assicurare la felicità in ogni contingenza della vita.
Particolarmente interessante è la posizione di Seneca che assume caratteristiche totalmente diverse; per la prima volta il concetto di “humanitas” non si traduce in un semplice
senso di solidarietà o particolare attenzione verso tutti gli uomini ma viene presa in considerazione la condizione del singolo in rapporto al “tutti”. L’uomo deve vivere secondo non soltanto la ratio universale e collettiva, ma anche guidato da una ragione individuale, secondo
la propria coscienza, e tramite essa può rapportarsi all’altro. Gli uomini entrano in contatto
attraverso la propria individualità che entra in comunicazione tra singolo e singolo, e non più
grazie all’elemento “società-collettività” che mette in relazione singolo e massa.
“La ragione è propria dell’uomo. Per essa l’uomo precede gli animali e viene subito
dopo gli dèi. Una ragione perfetta è quindi il bene proprio dell’uomo... Ogni essere quando
ha raggiunto la perfezione di quel che è il suo bene ha raggiunto il suo fine ultimo (finem
naturae suae tetigit). E la perfezione della ragione si chiama virtù e in ciò appunto consiste
l’onestà (haec ratio perfecta virtus vocatur eademque honestum est)” in queste parole il
filosofo Seneca racchiude il suo concetto di umanità: agire secondo ragione, l’unico bene al
quale bisogna rivolgersi; in essa è felicità, libertà, gioia e ogni soddisfazione. È la ragione la
vera natura dell’uomo, e agire in modo conforme ad essa è l’unico modo che l’uomo abbia
per potersi definire tale nel senso migliore del termine, affermando il binomio umanitàragione, infatti, Seneca non può che rispolverare il classico binomio ragione-virtù, che da un
lato rimanda addietro nel tempo a Socrate e ai Presocratici e dall’altro è destinato a determinare tanta parte del pensiero umano fino al Rinascimento e oltre. E la virtù non è preclusa a
nessuno: anche gli schiavi sono uomini, anche loro infatti possiedono una ragione e possono
perseguirla, La vera schiavitù è invece quella volontaria, l’assoggettamento al vizio. Sulla
tematica della schiavitù Seneca si sofferma diffusamente nell’epistola 47 a Lucilio: pur non
arrivando a propugnare l’abbattimento della schiavitù, egli sostiene quel principio di uguaglianza fra gli uomini che spesso i filosofi avevano affermato solo teoricamente, in un’epoca in cui non di rado i rapporti con gli schiavi vengono irrigiditi e inaspriti, più volte rammenta
che lo schiavo ha piena dignità umana e che a lui è schiusa come ad ogni altro uomo la via
del bene. “Sono schiavi”. No, sono uomini. “Sono schiavi”. No, vivono nella tua stessa casa.
“Sono schiavi”. No, umili amici. “Sono schiavi”. No, compagni di schiavitù, se pensi che
la sorte ha uguale potere su noi e su loro. Chi rifiuta sdegnosamente la loro presenza, chi li
percuote in continuazione e chi impedisce loro di parlare (pena severissime punizioni) lo fa
solo in forza di una sciocca consuetudine antiquata: “così accade che costoro, che non
possono parlare in presenza del padrone, ne parlino male. Invece quei servi che potevano
parlare non solo in presenza del padrone, ma anche col padrone stesso, quelli che non
avevano la bocca cucita, erano pronti a offrire la testa per lui e a stornare su di sé un pericolo
che lo minacciasse; parlavano durante i banchetti, ma tacevano sotto tortura”. Tanto più che
la sorte – incontrastata signora delle vicende umane – può improvvisamente stravolgere la
condizione presente e far degli schiavi i padroni e dei padroni gli schiavi. Davanti ai capricci
– 95 –
della sorte l’uomo virtuoso ovvero quello che agisce secondo ragione, il saggio, riesce a distaccarsene poiché “non sempre bisogna cercare di tenere la vita, perché vivere
non è un bene, ma è un bene vivere bene. Così il saggio vivrà quanto deve, non quanto può;
esaminerà dove gli converrà vivere, con quali persone, in quali condizioni, con quali occupazioni. Egli si preoccupa sempre del tipo di vita che conduce, non della sua durata: se gli
si presentano molte avversità che turbano la sua tranquillità, esce dal carcere... Quel che
importa non è morire più presto o più tardi, ma importa morire bene o male, ma morire bene
è fuggire il pericolo di vivere male”.178 Questa riflessione maturata nello stoicismo antico è
da Seneca compendiata – nella sententia “il fato guida chi è consenziente, trascina chi si
oppone” (“ducunt fata volentem, nolentem trahunt”). Il dominio dei valori si trova così
spostato dall’esterno all’interno, nella ragione, da cui dipende la valutazione delle cose.
L’interiorità, a cui fa appello Seneca, è il luogo in cui si combatte contro gli assalti di tutto
ciò che è esterno per la salvaguardia della propria libertà.
L’humanitas classica andò in un secondo momento ad arricchire l’etica cristiana. La
lettura dell’Hortensius di Cicerone ad esempio avviò Agostino verso una filosofia concepita
come primo gradino verso il rinnovamento spirituale e la conversione; anche il pensiero di
San Paolo viene da molti accostato a quello di Seneca.
In ambito cristiano particolarmente interessante è la posizione di Paolo riguardo la tensione, tra “humana conditio” e “divina potestas”. Secondo Paolo questa tensione viene assolutamente meno attraverso il nesso di amore e carità.
Il fondamento della morale sociale paolina è l’uguaglianza degli esseri umani in Cristo
Gesù, che ha creato e redento tutti indistintamente: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più
schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”.179
Questa uguaglianza, presente già nel messaggio di Gesù, rappresenta una notevole discontinuità con la tradizione religiosa e sociale sia ebraica che pagana. Paolo riprende da Gesù anche il nucleo centrale della morale: l’agape (¢g£ph) solitamente tradotto con “carità” ma che
ha un’accezione semantica più ampia della semplice elemosina che il termine italiano solitamente indica.
Pur non essendo un rivoluzionario alcuni passi delle sue lettere portano il cristiano a
rigettare di fatto l’ingiustizia nelle relazioni sociali: Paolo predicò l’amore per i nemici, un
trattamento giusto ed umano nei confronti degli schiavi, il dovere dei mariti di amare le mogli
come loro stessi e di non essere severi coi figli, il dovere di aiutare i poveri (tema centrale della cosiddetta “colletta dei santi” ricorrente in alcune sue lettere).In questo senso si esplica il
senso di Humanitas come carità ed amore verso il prossimo a prescindere da qualsiasi eccezione o pregiudizio. Humanitas intesa quindi non solo come valore universale ma, soprattutto
come dovere dei cristiani nei confronti di tutti i figli di Dio.
Il rapporto tra la condizione umana e la potenza divina non cessa di interessare e animare
i dibattiti, anche ad altissimi livelli, fino a rappresentare uno dei temi cruciali cui l’istituzione
ecclesiastica deve dare chiarimenti. Fu Agostino a risolvere tale tensione in un viaggio verso
il “foro interiore” in cui l’uomo scopre che Dio è “più intimo a me di quanto non lo sia io
stesso”.
L’io di Agostino si costruisce in questo singolare rapporto con il “Tu” di Dio. Anche
Cleante, nel suo famoso “Inno a Zeus”, si rivolgeva così al dio stoico, ma in quella preghiera
rimaneva una distanza insuperabile tra l’uomo e la divinità, solennemente invocata da un
mortale, ma lontana nella sua trascendenza.
178
179
Cicerone, “epistole a Lucilio”, Bur, Laterza, Bari, 1992, vv. 23/27.
“La Sacra Bibbia”, Roma, 1964, Gal. 3,28.
– 96 –
L’intimità che Agostino intrattiene con Dio “più intimo del suo intimo” fa impallidire
ogni forma di comunicazione col divino dell’antichità classica.
Nonostante le indubbie debolezze umane, Agostino ritiene “in interiore homine habitat
veritas”: è in quest’ottica che si riconosce il legame indissolubile che lega l’uomo alla veritas,
ovvero a Dio.
«La storia d’amore tra Dio e l’uomo consiste appunto nel fatto che questa comunione di
volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà
di Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che
i comandamenti mi impongono dall’esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all’esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di quanto lo sia io stesso”.180
A questo punto la concezione dell’“humanitas” conosce una svolta decisiva solo con il
De Monarchia di Dante: allorché la nozione collettiva di humanitas viene resa indipendente
dalla categoria di christianitas, intesa come complemento sovrannaturale della universitas del
genus humanum.181
Francesco Petrarca è sicuramente il più noto tra i molti creatori di quella dimensione
umanizzata (umanistica) del tempo sulla quale si fonda il sentimento della modernità. A lui
si deve la celebrazione di quel «segreto conflitto delle proprie passioni» che inaugura le
tensioni della modernità, apre il cammino dell’individuo verso la sfera mondana e inaugura
la riflessione sul presente. Il tempo muta allora nella sua sostanza perché mobile e attraversato
da tempeste violente: specchio di chi lo osserva e produce. Il tempo petrarchesco riflette ed
esalta le ambiguità sulla finitudine e sul destino dell’uomo moderno.
Giunto sulla cima del Monte Ventoso dove il paesaggio dovrebbe rapire i sensi nella contemplazione della natura, Petrarca rilegge un passo delle Confessioni di Sant’Agostino: “Gli uomini giungono ad ammirare gli alti monti, i giganteschi flutti del mare, l’ampio corso dei fiumi,
il vasto cerchio dell’oceano e le vie delle stelle. Ma dimenticano se stessi e restano senza ammirazione davanti a se stessi”. E tuttavia nella riflessione della modernità umanistica la rivalutazione dell’uomo non appare come un omaggio alla magnificenza del creato: l’osservazione
interiore mostra tutta la solitudine e le difficoltà dell’Humanitas. “Ciascuno interroghi se stesso
e risponda a se stesso, per rendersi conto fino a qual punto il suo animo è combattuto internamente da passioni diverse ed avverse ed è spinto ora qua ora là da impulsi vari ed opposti.
Esso non è mai compiuto, non è mai uno, ma è interamente discorde e dilacerato”. Tutto
è tensione e turbamento, «tutto avviene attraverso il contrasto e ciò che chiamiamo evento è
in realtà lotta». Contrasto e lotta che lacerano il tempo profano tra desiderio di mondanità e
concentrazione interiore, passione per l’immortalità tra gli uomini, la gloria, e per l’immortalità dell’uomo, il sapere, gli studia Humanitatis.
Se a partire da Petrarca la riscoperta dell’Humanitas dei classici viene vista come non più
contraddittoria ma complementare al senso più genuino e profondo dell’esperienza cristiana,
la portata “secolarizzante” della svolta si dispiega nella sua pienezza con l’“umanesimo
civile” di Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni. All’origine della nozione
di umanesimo, il cui uso terminologico, occorre sottolinearlo, è entrato solo agli inizi del
XIX secolo nella terminologia storiografica, sta la distinzione operata da Cicerone tra
“humanitas” e “divinitas”, distinzione poi maturata proprio da Petrarca per cui “humanitas”
esprimeva “la restaurazione o rinascita o riabilitazione dell’uomo naturale” (come scrive W.
Ullmann) come si era rivelato nella storia, civile e sociale, e nelle forme più elevate delle
epoche classiche (greche e latine).
180
181
Agostino, “Confessiones”, Laterza, Torino, 2001, cap. III, vv. 6/11.
Dante, De Monarchia, Bompiani, Milano, 1998, cap I, vv. 3/7.
– 97 –
A Firenze Leonardo Bruni esaltò nei Dialoghi con Petrus Paulus da Istria (Dialogi ad
Petrum Paulum Histrum) la lezione civile di Salutati e la integrò sul fondamento etico delle
“humanae litterae” come promotrici di un bene comune nel quale concordano “caritas”
cristiana e “civitas” ciceroniana.
Poggio Bracciolini spinse il tema dell’operosità cittadina e terrena fino alla polemica
antiascetica e antifratesca: si vedano soprattutto L’avarizia (De avaritia) e Contro gli ipocriti
(Contra hypocritas). Mentre la convivenza tra umanesimo e devozione avveniva su nuove
basi: si veda il camaldolese Ambrogio Traversari, grecista e latinista, fautore della conciliazione tra chiesa greco-ortodossa e chiesa romano-cattolica.
Un letterato è colui che possiede l’HUMANITAS, mentre per Dante doveva possedere
la CIVITAS.
Si delinea in maniera netta, così, la definizione di “Humanitas” come un insieme di
qualità morali assai notevoli, quali la magnanimità, il coraggio, l’altruismo, la fiducia nella
legge e nella religione, l’amicizia, la lealtà, l’onestà, la pietas (ovvero il rispetto del volere
degli dei) ecc. Il letterato cercherà queste virtù studiando i classici attentamente; di per sé
costui si presenta simile a Dante, ma la novità sta nel modo nuovo in cui sono trattati i classici.
Bibliografia e sitografia:
MENANDRO, “Dyscolos”, Bompiani, Milano, 1983.
AULO GALLIO, “Noctes Atticae”, Borle, Torino, 1968.
TERENZIO, “Heautontimorumenos”, Latrerza, Bari, 1994.
CICERONE, “De officis”, Bur, Milano, 1991.
CICERONE, “Laelius”, Laterza, Bari, 1996.
M. POHLENZ, “L’uomo greco”, Bompiani, Milano, 2006.
SENECA, “epistole a Lucilio”, Bur, Laterza, Bari, 1992
“La Sacra Bibbia”, Roma, 1964.
AGOSTINO, “Confessiones”, Laterza, Torino, 2001.
DANTE, “De Monarchia”, Bompiani, Milano, 1998.
1.2 OLTREPASSARE I CONFINI:
NUOVO MONDO E NUOVE SCIENZE
Il termine umanità, quale appare nello spazio culturale dell’Occidente a partire dalla
nozione classica di humanitas, presenta sin dalle origini una duplice accezione. Per un verso
esso sta a indicare la natura umana, l’essenza dell’uomo intesa come suo tratto costitutivo e
peculiare; per l’altro la totalità del genere umano come entità non statica ma dinamica, non
meramente naturale ma storico-evolutiva.
La scoperta di un continente sconosciuto, quale l’America, abitato da razze mai viste,
ebbe sugli europei lo stesso impatto emotivo che avrebbe oggi per noi un eventuale contatto
con alieni. Si discusse se questi nativi seminudi e senza barba appartenessero o meno alla
razza umana o a quale classificazione di razze potessero essere ricondotti (come accadrebbe
appunto in caso di “incontro ravvicinato” con marziani). Messa a confronto con una realtà
culturale radicalmente diversa, la civiltà europea – malgrado i nuovi orizzonti dischiusi dalla
riscoperta dell’antico e dalla nuova indagine naturale – adottò i mezzi della colonizzazione vio– 98 –
lenta e della conversione Furono proprio i due elementi, dell’assoluta novità della situazione
e dell’atrocità della violenza esercitata nei confronti delle popolazioni indigene, a dar luogo a
una lunga disputa teologica sulla natura degli indios e sulla legittimità della conquista. Ad onta dei progressi fino ad allora registrati dal diritto naturale e dall’idea di humanitas, la questione
che allora si pose fu proprio quella della definizione dello statuto umano degli americani nativi. Occorre considerare che nel 1537 la chiesa cattolica, con la bolla Sublimis Deus di papa
Paolo III, aveva riconosciuto agli indios lo status di esseri umani razionali (veri homines), e di
conseguenza di soggetti di diritto naturale detentori pleno jure del diritto alla libertà e alla proprietà. Venivano così recepite, da parte della suprema autorità ecclesiastica, le tesi che sulla
scorta di un’interpretazione delle dottrine aristoteliche e tomiste, facevano discendere i principi del moderno diritto internazionale da un’idea universalistica di humanitas. Nella sua prospettiva il diritto delle genti (ius gentium), deducibile dal piano universale della ragione umana, doveva essere codificato in norme giuridiche positive comuni all’intera umanità (ius inter
gentes), in grado di essere rispettate da tutti gli stati. Tuttavia si manifestò nei confronti degli
indios un atteggiamento ambivalente: per un verso, riconoscendo a questi ultimi tutte le prerogative di diritto naturale, si contestò la validità dei titoli autoassegnatisi dai conquistadores
per assoggettarli con la forza e convertirli con metodi coattivi alla religione cristiana; per l’altro, affermando l’incapacità delle popolazioni indigene di autogovernarsi, si finì per legittimare
il dominio spagnolo, purché esercitato in funzione “civilizzatrice”. Una posizione decisamente
più avanzata era invece riscontrabile in Bartolomé de Las Casas: il quale, anticipando l’atteggiamento relativistico che avrebbe assunto più tardi Montaigne, non aveva esitato a contestare la stessa Politica di Aristotele (che, nel parlare dei barbari, «molte volte si sbaglia, prendendo
per errore alcuni barbari per altri») e ad affermare il dovere degli spagnoli di rispettarne usi,
costumi e tradizioni. Si oppose a Las Casas il giudizio del rettore Juan Ginès de Sepulveda, il
quale si riallacciò alla dottrina aristotelica della schiavitù naturale per giungere alla conclusione
che gli indios erano appunto schiavi per natura e, in quanto barbari dediti ai sacrifici umani,
incapaci di governarsi da sé. Le ricerche di storia dei concetti e di “semantica storica” degli
ultimi decenni hanno evidenziato come l’idea di humanitas dispiega il proprio potenziale universalizzante soltanto nell’ultimo scorcio del Settecento, allorché viene a saldarsi con la genesi della filosofia moderna. Così il soggetto della Storia viene sempre più ad identificarsi
con l’idea di “Umanità” o di “genere umano”. “Genere umano” che verrà rivisitato in un’analisi
sul piano prettamente scientifico da personaggi quali Galileo Galilei, Newton, Herbert Spencer e Charles Darwin e su quello filosofico prima dagli illuministi come Kant, Voltaire, Rousseau, poi ancora da Nietzsche, Gehelen, Freud. Tutti interventi destinati ad aprire alle grandi
sfide del futuro la questione dell’umanità, del suo significato e delle sue prospettive.
Dialogo sopra i due massimi sistemi (G. Galilei)
Il Dialogo è un’opera di trattatistica scientifica composta da Galileo Galilei negli anni
tra il 1624 e il 1630. Scritta sotto la forma di dialogo appunto, è stata un’opera di enorme successo all’epoca, tanto che la Chiesa sentendo attaccata la sua dottrina nei fondamenti principali, la inserì nell’Indice dei libri proibiti. Il Dialogo si presenta come una confutazione del
sistema tolemaico-aristotelico a favore di un sistema copernicano. Si pone quindi come un
importante scritto filosofico all’interno della rivoluzione scientifica, conciliando linguaggio
e semplicità divulgative. Il nuovo metodo scientifico (o appunto metodo galileiano) si muoverà da questa sua pubblicazione; in particolar modo verrà esplicata la teoria della conoscenza di Galileo. Oltre che un trattato scientifico-astronomico infatti si presenta come una
grande opera filosofica, che sancisce l’entrata in scena delle nuove scienze.
– 99 –
Riportiamo allora uno scambio di battute, preso dal Dialogo, tra Salviati, schierato a favore dell’autonomia scientifica e sostenitore del sistema copernicano, e Simplicio, che come
tratteggia anche il nome, è invece saldamente legato ai dogmi tradizionali e quindi fervente
sostenitore del sistema aristotelico-tolemaico:
Salviati182
Fu la conclusione e l’appuntamento di ieri, che noi dovessimo in questo giorno discorrere,
quanto più distintamente e particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni naturali e
loro efficacia, che per l’una parte e per l’altra sin qui sono state prodotte da i fautori della posizione Aristotelica e Tolemaica e da i seguaci del sistema Copernicano. E perché, collocando
il Copernico la Terra tra i corpi mobili del cielo, viene a farla essa ancora un globo simile a un
pianeta, sarà bene che il principio delle nostre considerazioni sia l’andare esaminando quale e
quanta sia la forza e l’energia de i progressi peripatetici nel dimostrare come tale assunto sia
del tutto impossibile; attesoché sia necessario introdurre in natura sustanze diverse tra di loro,
cioè la celeste e la elementare, quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca.
Il quale argomento tratta egli ne i libri del Cielo, insinuandolo prima con discorsi dependenti
da alcuni assunti generali, e confermandolo poi con esperienze e con dimostrazioni particolari.
Io, seguendo l’istesso ordine, proporrò, e poi liberamente dirò il mio parere; esponendomi alla
censura di voi, ed in particolare del signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore
della dottrina Aristotelica.
È il primo passo del progresso peripatetico quello dove Aristotile prova la integrità e
perfezione del mondo coll’additarci com’ei non è una semplice linea né una superficie
pura, ma un corpo adornato di lunghezza, di larghezza e di profondità; e perché le dimensioni non son più che queste tre, avendole egli, le ha tutte, ed avendo il tutto, è perfetto. Che
poi, venendo dalla semplice lunghezza costituita quella magnitudine che si chiama linea,
aggiunta la larghezza si costituisca la superficie, e sopragiunta l’altezza o profondità ne risulti
il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad altra, sì che in queste tre
sole si termini l’integrità e per così dire la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile
mi fusse stato dimostrato con necessità, e massime potendosi ciò esequire assai chiaro e
speditamente.
Simplicio183
Mancano le dimostrazioni bellissime nel 2°, 3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo? Non avete, primieramente, che oltre alle tre dimensioni non ve n’è altra, perché il tre
è ogni cosa, e ‘l tre è per tutte le bande? e ciò non vien egli confermato con l’autorità e
dottrina de i Pittagorici, che dicono che tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo
e fine, che è il numero del tutto? E dove lasciate voi l’altra ragione, cioè che, quasi per legge
naturale, cotal numero si usa ne’ sacrifizii degli Dei? e che, dettante pur così la natura, alle
cose che son tre, e non a meno, attribuiscono il titolo di tutte? perché di due si dice amendue,
e non si dice tutte; ma di tre, sì bene. E tutta questa dottrina l’avete nel testo 2°. Nel 3° poi,
ad pleniorem scientiam, si legge che l’ogni cosa, il tutto, e ‘l perfetto, formalmente son
l’istesso; e che però solo il corpo tra le grandezze è perfetto, perché esso solo è determinato
da 3, che è il tutto, ed essendo divisibile in tre modi, è divisibile per tutti i versi: ma dell’altre,
chi è divisibile in un modo, e chi in dua, perché secondo il numero che gli è toccato, così
hanno la divisione e la continuità; e così quella è continua per un verso, questa per due, ma
182
183
Da G. Galilei, “Diaologo sopra i due massimi sistemi del mondo” Firenze, 1632.
Da G. Galilei, “Diaologo sopra i due massimi sistemi del mondo” Firenze, 1632.
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quello, cioè il corpo, per tutti. Di più nel testo 4°, doppo alcune altre dottrine, non prov’egli
l’istesso con un’altra dimostrazione, cioè che non si facendo trapasso se non secondo qualche mancamento (e così dalla linea si passa alla superficie, perché la linea è manchevole di
larghezza), ed essendo impossibile che il perfetto manchi, essendo egli per tutte le bande, però
non si può passare dal corpo ad altra magnitudine? Or da tutti questi luoghi non vi par egli a
sufficienza provato, com’oltre alle tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità, non si
dà transito ad altra, e che però il corpo, che le ha tutte, è perfetto?
Brevissima relazione della distruzione delle Indie occidentali (B. de Las Casas)
La Brevissima relazione della distruzione delle Indie, scritta nell’ambito della lotta di
Las Casas per la difesa degli indigeni americani, si caratterizza per essere sempre relazionata
direttamente con i problemi concreti della realtà cui fa riferimento. Trattandosi di una vera e
propria arma, si distingue per la semplicità e chiarezza nell’esposizione della materia, nello
stile usato e nella struttura. Già dal titolo infatti, risalta il sostantivo distruzione che riporta
ad un concetto onnipresente nell’opera lascasiana e riscontrabile anche nei testi sacri e profani
della letteratura spagnola medioevale. Inoltre, l’epiteto Brevissima, non si riferisce al fatto che
la relazione sia poco dettagliata, ma ne sottolinea per lo più il carattere di compendio delle
esposizioni orali all’imperatore Carlo V.
Nell’Argomento del presente epitoma, l’autore ricorda le circostanze della redazione
dell’opera nel 1542 e spiega l’obbligo di “farlo stampare” per presentarla, dieci anni dopo,
al principe Filippo come “sommario” dei crimini perpetrati nelle Indie e dato il possibile
aggravarsi di questi “tradimenti e scelleratezze”. A continuazione, si trova un Prologo
dedicato al principe in cui vengono presentate le ragioni oggettive della stesura dell’opera,
quali le atrocità inflitte ai naturali del nuovo mondo, la possibilità di porvi rimedio e il
dovere morale di denunciare simili misfatti per non esserne indirettamente complici: “Io ho
deciso, per non essere reo, tacendo, [...] di mettere a stampa”. Risaltano i termini forti che
caratterizzano lo stile della Relazione vera e propria come “le ingiurie e le devastazioni,
le rovine e le distruzioni”, gli epiteti come “opere inique, tiranniche [...] condannate [...]
esecrabili e abominevoli” e le forme verbali come “spopolare”, “uccidendo” e “rubare”,
senza che manchi la nota amaramente ironica delle “imprese” realizzate dai conquistatori.
In contrasto poi con la menzione dei numerosi eccidi e crudeltà, si insinua il tema dell’innocenza naturale delle vittime “genti [...] pacifiche, umili e mansuete, che non fanno danno
a nessuno”.
Il corpo dell’opera è costituito essenzialmente da una ininterrotta successione di racconti e descrizioni di uccisioni facendo uso, in special modo, di immagini antitetiche. Si
inizia con una visione di insieme e si prosegue con una serie di relazioni che seguono l’ordine cronologico e, approssimativamente, anche quello geografico delle terre scoperte: isola
Spagnola e arcipelago antillano, “terra ferma” dal Darién fino al Nicaragua, Nuova Spagna
(Messico), Guatemala, zone settentrionali dell’America del sud da Cartagena a Venezuela,
Florida, Rio de la Plata, Perù, Nuova Granada. Il fatto che questi capitoli non presentino
la stessa estensione è dovuto al tipo di documentazione cui Las Casas fa riferimento non
tralasciando, comunque, di specificare il più delle volte le sue fonti, cosa che gli permette di
presentare sempre la materia come veritiera e incontestabile.
Oltre che dell’esperienza diretta, infatti, si avvale non solo di dati e notizie orali, relazioni
indigene, canti messicani ma anche di scritti come lettere e memoriali.
Per quanto riguarda il modo di esporre i crimini commessi, è da notare che Fra’ Bartolomé preferisce mantenere l’anonimato sui nomi degli autori forse giudicando più conve– 101 –
niente o prudente astenersi dal divulgarli. Inoltre, la struttura narrativa delle scene, segue
schemi basici quasi invariabili e caratterizzati da quella brevità annunciata nel titolo:184
“Sarebbe invero difficile riferire la quantità e valutare caso per caso la gravità delle
ingiustizie, dei danni, degli oltraggi e degli abusi che le genti di quella costa hanno subito
dagli spagnoli, a partire dall’anno 1510 fino a oggi”.
Comincia con una digressione sulla bellezza e la fertilità delle terre, sulla straordinaria
densità della sua popolazione e sulla bontà e innocenza dei suoi naturali. Un esempio ne è
la descrizione della provincia di Jalisco: “Era quella una terra popolosa come un alveare,
ricchissima e felice, una delle terre più fertili e meravigliose delle Indie”.
Tutto questo risalta grazie alla giustapposizione delle scene sanguinarie di cui i conquistatori sono protagonisti e grazie all’uso di formule superlative che contribuiscono a moltiplicare l’impatto emotivo della Brevissima relazione sul lettore.
Kant e il concetto di Humanitas
Già nel latino stesso, il termine «umanità» è decisamente ambiguo: esso significa da una
parte l’insieme di tutti gli uomini viventi, dall’altra la qualità morale che rende l’uomo degno
di esser chiamato tale, cioè senza la quale egli sembrerebbe più simile ad un animale feroce.
«Disumano» significa quindi qualcosa come «spietato», «insensibile». Una delle definizioni più soddisfacenti di questo secondo significato si trova ripetutamente in Kant, il quale per
altro non cade nell “ambiguità lessicale” perché può tranquillamente distinguere nella lingua
tedesca la Menschheit, l’«insieme degli uomini», dalla Humanität, la «qualità morale dell’uomo». Ecco come Kant si esprime nella Metafisica dei costumi:
“Congratulazione e compassione sono sentimenti sensibili di piacere o per lo stato di
benessere o dolore degli altri, per i quali già la natura ha posto negli uomini la recettività.
Tuttavia, il far uso di questi come di mezzi per promuovere la benevolenza attiva e razionale costituisce un dovere ulteriore, benché solo condizionato, che va sotto il nome di umanità
(humanitas), poiché qui l’uomo viene considerato non puramente come essere razionale, ma
anche come animale dotato di ragione. Questa può essere posta solo nella facoltà e volontà
di essere partecipi gli uni degli altri in rapporto ai propri sentimenti (humanitas practica),
oppure puramente nella recettività per il comune sentimento del benessere o del dolore
(humanitas aesthetica), che la natura stessa dà. La prima cosa è libera e viene dunque chiamata partecipativa; la seconda non è libera e può chiamarsi comunicativa (come il calore o
le malattie infettive), o anche passione comune, giacché essa si diffonde naturalmente tra
uomini che vivono gli uni accanto agli altri. Solo nei confronti della prima esiste un dovere”.
Queste osservazioni di Kant si pongono su un piano differente da quello razionale dell’etica. Qui infatti entrano in gioco anche i dati sentimentali. Essi vengono considerati da
Kant come una sorta di prerequisiti, offerti dalla natura, per rendere la vita morale accessibile, anche nella sua bellezza, ad esseri umani (dato che essi non sono solo razionali). Quella che viene in particolare qui chiamata in causa è la «recettività» per quel sentimento di partecipazione che ci fa sentire gioie e tristezze altrui come gioie e tristezze nostre, semplicemente per la comune appartenenza alla specie umana. Questo è uno dei quattro «concetti
preliminari estetici», indicato all’inizio dell’opera come «amore per il prossimo. Ecco come
stanno le cose riguardo all’amore:
184 Da B. Las Casas “Istoria o brevissima relattione della distruttione delle Indie occidentali” di Mons. Reverendissimo Don Bartolomeno Delle Case, sivigliano dell’Ordine dei Predicatori - Traduzioni di G. Castellani, Venezia,
1643.
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“L’amore è questione della sensazione, non del volere, e io non posso amare perché
voglio, tanto meno perché devo: dunque il dovere di amare è un’assurdità (Unding) [...]
Avere un dovere per l’amore, cioè dover essere costretti a provarne piacere, è una contraddizione”.
Certamente si può rimanere perplessi di fronte alla restrizione del significato di «amore». Ciononostante l’osservazione di Kant individua una parte dell’esperienza umana che,
comunque si voglia chiamare, è senza dubbio reale: quell’incredibile gioia di fronte all’esistenza, gioia che non si può comandare. Ora, è proprio questa parte emotiva che rientra direttamente nella definizione di umanità. Infatti, essa deve individuare la virtù che consiste nella naturale predisposizione a condividere gioie e dolori. Ma perché proprio questa virtù merita il nome di «umanità»? La risposta di Kant è brillante: L’umanità è la virtù dell’uomo in
quanto tale, portatore di sensibilità e razionalità, cioè in quanto animal rationale. È per questo che nell’etica l’umanità non poteva ancora comparire, perché le condizioni della moralità venivano applicate a qualsiasi ipotetico essere (così avviene nella Critica della ragione
pratica, in particolare A 48-54).
Significa questo che l’umanità è la virtù degli uomini, ma non degli esseri razionali
in generale? In un certo senso sì: angeli o Dio non possono esser dotati di «umanità». Ma è
anche vero che non ne avrebbero bisogno. Per angeli o Dio non ha senso parlare di imperativi etici, la cui forza consiste tutta e soltanto nella repressione dell’amor di sé che contrasti con essi (Kant lo specifica nella Critica della ragione pratica, A 130). La «legge
morale sopra di me» può esistere sempre per la mia dignità proprio perché io sono anche una
creatura animale, un essere vivente solo per poco, nella completa indifferenza degli astri. E
nel momento in cui non ci riconosciamo un po’ animali, non c’è più nessuna legge morale
da innalzare. Insomma: l’umanità è la virtù di tutti coloro per i quali ha senso parlare di
virtù. Questa situazione sviluppa, tra l’altro, un altro argomento sul quale bisognerebbe
riflettere. Immaginiamo un uomo perfettamente realizzato, dunque «perfettamente umano».
Dal punto di vista di Kant, si tratterebbe di un uomo la cui razionalità è totalmente compiuta,
in cui il peso della sensibilità praticamente non esiste. Ma rimarrebbe ancora lo spazio per
l’umanità? È giusto dubitarne. Infatti, in questo modo scomparirebbero le esigenze dell’umanità e il risultato sarebbe abbastanza inquietante. Nell’uomo perfetto sarebbe infatti
ancora sensato parlare di giustizia, di coraggio, di temperanza, ma non di umanità: essa,
nella sua posizione «intermedia» tra sensibilità e razionalità, sarebbe destinata ad annichilarsi completamente in una benevolenza razionale, che però probabilmente non avrebbe gli
stessi effetti.
Bibliografia e sitografia:
“Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, G. Galilei, Firenze, 1632.
B. da Las Casas “Istoria o brevissima relattione della distruttione delle Indie occidentali” di
Mons. Reverendissimo Don Bartolomeno Delle Case, sivigliano dell’Ordine dei Predicatori - Traduzioni di G. Castellani, Venezia, 1643.
www.wikipedia.it/Humanitas
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CAPITOLO II
2.1 LA RILETTURA
DEL CONCETTO DI UMANITA
ALLA LUCE DELLE NEUROSCIENZE
A. Gelhen
A.Gehlen, nato a Lipsia nel 1904, è filosofo, antropologo e soprattutto pensatore che
non trova una precisa collocazione all’interno del panorama culturale a lui contemporaneo.
Nonostante la sua carriera venga profondamente influenzata dagli eventi storici a lui contemporanei, nella fattispecie la salita al potere del Nazismo, al quale peraltro aderisce, e i disastri della II Guerra Mondiale, Gehlen porta la sua ricerca sulla strada tracciata dalle scienze antropologiche di inizio secolo rifiutando e polemizzando con le scuole filosofiche più in
voga quali Esistenzialismo e Neo-Idealismo, allontanandosi in ultima analisi anche dalla
scienza ufficiale del Reich. Questa autonomia di pensiero costerà al Nostro notevoli sofferenze nel dopoguerra quando il suo pensiero sarà tacciato di conservatorismo e la sua collusione con il regime nazista sarà motivo del suo “confino accademico” in Austria.
“Der Mensch”, “l’Uomo”, pubblicata nel 1940, è sicuramente l’opera nella quale i legami
con gli studi di Scheler e Plessner si mantengono più saldi e dove la Filosofia e l’Antropologia sono legate in maniera indissolubile: abbiamo perciò deciso approfondire l’analisi su quest’opera che può essere considerata paradigmatica del pensiero del Nostro almeno nella sua
prima fase fino a tutti gli anni ’50 quando poi la speculazione filosofica verrà definitivamente abbandonata. Gelhen costruisce fin dal suo principio “der Mensch” come unitaria sistemazione elementare, biologica, generale e quindi filosofica dell’Uomo:
“C’è un essere vivente, che tra le sue caratteristiche più rilevanti ha quella di dover
prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è necessaria un’“immagine”, una formula interpretativa”.
Facendo anche spesso riferimento a Nietzsche, Gelhen considera l’uomo come essere
manchevole, privo di adattamenti fisiologici ad un ambiente specifico, una sorta di deviazione
dal percorso evolutivo di tipo darwiniano. In virtù di questa manchevolezza l’Uomo è l’essere “ingenuo” per eccellenza, intendendo per “ingenuo” bisognoso di conoscere, sperimentare al fine di trovare il modo di regolare, assoggettare, la natura a lui ostile e verso la quale
è impreparato. D’altro canto questo “appropriarsi” del mondo è un prendere coscienza di sé,
in un processo regolato da una serie di “pulsioni”, ovvero desideri non derivanti da un bisogno fisiologico, e per questo “innaturali”, privi di scopo apparente. Questa stessa “eccedenza pulsionale” aiuta l’essere umano che riesce a “godere” dei propri movimenti di “maneggio sul mondo”, e quindi a “desiderare” letteralmente di apprendere le “possibilità esecutive” del proprio corpo in esse. Il passo successivo è quindi quello della coordinazione occhio-mano, rapporto mediato dalla “creatività” insita naturalmente nell’uomo, che produce
la Tecnica: per Gelhen è proprio questa capacità di connettere l’intelletto umano al sistema
delle percezioni che differenzia l’Uomo dagli animali. La possibilità di un padroneggiamento delle proprie azioni, in vista del “padroneggiamento” dell’ambiente circostante, deriva in
effetti dalla particolare situazione esistenziale dell’Uomo. Mentre l’animale vive il mondo a
partire ed in vista del proprio corpo, l’essere umano è in grado di situare la propria coscienza, in vista dell’azione futura, al di là dell’immediatezza del presente. L’Uomo è cioè in grado di ignorare il proprio corpo, e proprio in questa sua capacità, per così dire “ascetica”, risiede il segreto della sua “vitalità” e del suo sviluppo. Il processo grazie al quale l’Uomo ac– 104 –
quista questa visione d’insieme, diremmo “panoramica”, è definito dal Nostro “esonero”.
Attraverso processi d’esonero l’uomo, sperimentando il mondo, lo riduce e lo concentra in
simboli, così da acquistare la suddetta visione panoramica e la capacità di disporre di tutto a
suo piacimento; in questi processi ottiene il dominio su una molteplicità non limitata di
movimenti. Il mondo è per l’uomo, diversamente dall’animale, un campo di sorprese infinite
in cui deve in primo luogo sapersi orientare.
“Gli atti con i quali l’uomo assolve al compito di render possibile la sua vita vanno
quindi considerati sempre da due versanti: da un lato si tratta di atti produttivi, grazie a cui
egli ovvia agli svantaggi rappresentati dalle sue carenze – cioè di esoneri, di agevolazioni –,
dall’altro di strumenti che l’uomo attinge in se stesso per dirigere la sua vita, e che rispetto
all’animale sono interamente di nuovo genere”.185
Uno sguardo generale nella cultura europea di fine ottocento e inizio novecento
“... Io dico addio / a tutte le vostre cazzate infinite, / a riflettori e “paillettes” delle televisioni,
/ alle urla scomposte di politicanti professionisti, / a quelle vostre glorie vuote da coglioni / ...”.186
Probabilmente sarebbero state queste le parole di chi, nell’Ottocento, stanco della sua vita, del suo mondo, della società che lo circondava, avesse voluto criticare e allontanarsi sbattendo la porta da quel mondo borghese tanto odiato. Infatti la società attuale è il figlio primogenito di quella società ottocentesca che, dopo la vittoria della borghesia sull’aristocrazia,
del modo di produzione capitalistico su quello agricolo, ha visto una vittoria incontrastata di
quella classe media che chiunque, contesterebbe e combatterebbe.
La letteratura di fine Ottocento e inizio del Novecento tende, sopratutto in Europa, a criticare la classe media, le sue abitudini, la sua morale benpensante, il suo immobilismo. Infatti,
poeti, ed autori criticano aspramente i costumi della società che si veniva a formare e ne rifiutano il modo di vivere e gli ideali frivoli che la distinguono dalla classe lavoratrice, che alienata deve subire le prepotenze del padronato.
Baudelaire187 riesce a far trasparire il suo disgusto verso se stesso, la sua condizione di “esiliato” di “angelo caduto”, la sua estraneità al mondo in cui vive e il suo disgusto per il modello
borghese che la società gli propone in continuazione. Si ricordano sia “L’albatro”,188 che, riprendendo il modello del frammento della lirica greca identificabile con “Il Cérilo”,189 esprime il
distacco da questa vita da parte del poeta e la sua situazione psicologica, poiché Baudeleire
ritiene ormai che la figura del poeta non abbia alcun valore in questa società che tende soltanto
A. Gelhen, cit. pag. 63 da “Der Mensch” ed. “Il Mulino”, Bologna 2005.
Addio, di Francesco Guccini, album Stagioni, anno 2000, ed. EMI Music Publishing Italia/L’Alternativa,
Milano - Bologna.
187 Charles Pierre Baudelaire (Parigi 9/4/1821 - 31/8/1867) è stato un poeta, scrittore, critico letterario e traduttore
francese.
188 “Il poeta è come il principe delle nuvole
Che abituato alla tempesta ride dell’arciere;
esiliato sulla terra fra gli scherni,
non riesce a camminare per le sue ali di gigante”.
Traduzione da Les Fleurs du Mal Éditions Garnier Frère 1961, a cura di Silvia Pala
189 “Non mi reggon più le membra,
dolci fanciulle dal canto soave.
Cérilo, cérilo fossi,
sacro uccello che colle ancioni
sopra all’onde vola, sereno. “
Il testo è di Alcmane, che nacque attorno alla metà del VII secolo a.C., probabilmente a Sardi, nell’Asia Minore.
185
186
– 105 –
al profitto. Nel “Mon Coeur Mis à Nu”190 il poeta paragona i borghesi ben pensanti ad una
donna dai facili costumi che si vende per cinque franchi, perché gli uni e l’altra hanno in comune il fatto di non capire il vero significato delle cose ma anzi di fermarsi alle apparenze. Infatti
Baudeleire aspira ad una bellezza ormai lontana, non più raggiungibile, dato che questo mondo
che critica apertamente, è ormai lontano dall’identificare il poeta come figura emblematica e
significativa nella stessa società. Seppure il poeta francese, oltre ad avere un atteggiamento critico, abbia un atteggiamento di rivolta verso la stessa società in cui vive, non riesce a scappare
dai costumi, così critica soltanto i suoi contemporanei senza però proporre alternative a questa
situazione, infatti si rifugia nell’aspirazione di paradisi artificiali, dovuti all’uso di droghe.
Simile è il caso di Flaubert191 che adopera come ambientazione alle sue opere la società
della piccolo-media borghesia, mettendo in risalto i vizi, le contraddizioni, l’incapacità degli
uomini di fermarsi a capire la vera natura delle cose, poiché Madame Bovary, il personaggio
della sua opera maggiore, è specchio di questa società che non accetta ciò che ha e anzi vuole
maggiori beni materiali seppur non se li possa permettere.
Anche in Italia, come in Francia, gli autori si vogliono distaccare dal mondo dei loro
padri, dalle loro consuetudini, e dalle loro convenzioni. Riportiamo gli esempi degli Scapigliati,192 e dei Crepuscolari,193 che a loro volta criticano la società borghese e l’immobilità della società stessa. Infatti si può ben concordare con C. Segre e C. Martignoni, che affermano
che “La scapigliatura si inserisce in una diffusa situazione di insofferenza culturale e politica:
nei confronti del governo, delle strutture sociali, della mentalità dell’Italia post unitaria”.194
Infatti se noi pensiamo a “Preludio”195 di Emilio Praga196 in cui l’autore si definisce “figlio di
190 “Tutti gli imbecilli borghesi che pronunciano, continuamente le parole immoralità, immoralità, moralità dell’arte,
mi fanno venire in mente Louise Villedieu, prostituta da cinque franchi, che accompagnandomi una volta al Louvre (...)
domandava, dinnanzi a quelle statue e a quel quadri immortali, come si potevano esporre pubblicamente simili indecenze”.
191 Gustave Flaubert (Rouen 12/12/1821 - Canteleu 8/5/1880) è considerato l’iniziatore del realismo nella letteratura francese ed è conosciuto soprattutto per essere l’autore del romanzo Madame Bovary e per l’accusa di immoralità che
questa opera gli procurò.
192 La Scapigliatura fu un movimento artistico e letterario sviluppatosi nell’Italia settentrionale nella seconda metà dell’Ottocento; ebbe il suo epicentro a Milano e si andò poi affermando in tutta la penisola.
193 Il crepuscolarismo è una corrente letteraria sviluppatasi in Italia all’inizio del XX secolo. Nel settembre del
1910 apparve su “La Stampa” una recensione del critico Giuseppe Antonio Borghese alle liriche di Marino Moretti, Fausto Maria Martini e Carlo Chiaves, dal titolo “Poesia crepuscolare”, e così venne usato per la prima volta il termine “crepuscolare” per indicare una categoria letteraria.
194 C. Segre - C. Martignoni, Leggere il mondo, ed. Scolastiche Bruno Mondadori, 205, p. 109.
195 Preludio, di Emilio Praga.
Noi siamo i figli dei padri ammalati: aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati, sull’agonia di un nume.
Nebbia remota è lo splendor dell’arca, e già all’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca s’attende invano;
s’attende invano dalla musa bianca che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca ai lembi del Sudario...
Casto poeta che l ‘Italia adora, vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!... Degli antecristi è l’ora! Cristo è rimorto!
O nemico lettor, canto la Noia, l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia, il tuo cielo, e il tuo loto!
Canto litane di martire e d’empio; canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio, inginocchiati.
Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro, e l’Ideale che annega nel fango...
Non irrider, fratello, al mio sussurro, se qualche volta piango:
giacché più del mio pallido demone, odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone, ma canto il vero!
196 Emilio Praga (Gorla 18/12/1839 - Milano 26/12/1875) è stato uno scrittore, poeta e pittore italiano.
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padri ammalati”, possiamo ben identificare i modi e i motivi con cui esprimono la loro insofferenza culturale verso un paese e una società stretta nella morsa del costume borghese. Questi giovani poeti sono delusi dalla tradizione letteraria della borghesia italiana, infatti si disgustano del fatto che a questa società piaccia ancora Manzoni e il sentimentalismo di Prati e
Aleardi, e si ribellano alla stessa società che li ha generati, ai suoi modi di vivere, e alle false
ipocrisie della società.197 Stessi sentimenti per i crepuscolari che, scettici nei confronti del modo piccolo borghese di cui fanno parte, si sentono estranei, dato che “non hanno armi per combattere poiché la parola poetica non può nulla contro i suoi falsi valori, contro la mediocrità
degli eventi che lo attraversano, contro la scomparsa della natura dietro l’artificio”198 Perciò
il poeta si autoemargina, ed escludendosi osserva la società stessa, criticandola con distacco e
ironia. Si pensi a Corazzini o a Gozzano che non si definiscono poeti ma “un piccolo fanciullo che piange”199 e “un coso con due gambe / detto guidogozzano”,200 poiché loro lontani dalla tradizione letteraria che vedeva in D’Annunzio il gran poeta italiano, il poeta vate, preferiscono non essere accomunati, da quella società che ripudiano, ad un uomo che tenta di gloriarsi
di cose alquanto spregevoli. Perciò questi autori seppur criticando questa società non riescono a trovare un modo per superarla anzi rimangono legati ad essa e alle sue istituzioni.
A differenza dei poeti prima trattati, che seppur vedendo che la società ha perso i suoi valori non trovano modo di superarla, la filosofia tenta di trovare una soluzione e superare questa
società grigio borghese. Si pensi al concetto di lotta di classe e allo strumento della rivoluzione
che Marx prospetta per liberare la classe operaia dallo sfruttamento della classe borghese che
detiene il potere e forgia la società a sua immagine e somiglianza propinando modelli di vita
che esaltano l’accumulazione del capitale e il rispetto di regolo formali. Le teorie del socialismo
scientifico201 propongono l’abbattimento della società stessa e non la sua riforma, in quanto
Marx è convinto che l’organizzazione sociale in classi dipenda dalla distribuzione e dal possesso dei mezzi di produzione.202 Come il socialismo anche Nietzsche propone un cambiamento radicale della società borghese. Infatti il filosofo crede che con l’avvento di Socrate e
Platone si sia persa quell’originalità, e quel modo di vivere che era tipico della natura umana.
Nell’opera “la Nascita della Tragedia”203 egli mette in evidenza che la vita è una forza espansiva infinita, in cui ogni forma di concetto blocca la vita stessa perché la rende meccanica, e
di conseguenza l’unico modo di rendere la vita fluida è il mondo tragico, che rende possibile
la comprensione dell’essere e di conseguenza fa capire i suoi enigmi. La tragedia è per Nietzsche la massima espressione artistica e culturale della società greca, perché si incontrano e
scontrano le forze apollinee e dionisiache. L’apollineo simboleggia la tensione alla forma perfetta, invece Dioniso è il dio del caos, dell’ebbrezza, del godimento. “Nella tragedia... apollineo e dionisiaco si fondono nella perfetta sintesi costituita dal canto e dalla danza del coro e
dall’azione drammatica”.204 E la morte stessa della tragedia dovuta al dominio della ragione
Arrigo Boito, Lezione d’anatomia (1865), in “Libro dei versi”, edito nel 1877.
C. Segre - C. Martignoni, opera già citata, p. 110.
199 Sergio Corazzini, Piccolo Libro inutile, v. 3.
200 Guido Gozzano, La via del rifugio, vv. 29-36.
201 Il socialismo scientifico è una forma di socialismo che si distingue dal socialismo utopico per un’analisi e una
comprensione scientifica delle leggi della storia e della società: su questo studio basa argomenti, obiettivi e principi, non
più sull’elaborazione di un modello sociale utopico. I primi teorici del socialismo scientifico furono Karl Marx e Friederich
Engels, che definirono la distinzione tra le due forme di socialismo.
202 Per approfondire la teoria di Marx ed Engels sulle conseguenze del possesso da parte della borghesia dei mezzi
di produzione si veda: il “Manifesto del Partito Comunista” (1848) e il Primo libro de “Il Capitale” (1867).
203 F. Nietzsche, La nascita della tragedia greca, 1872, in cui l’autore definisce la tragedia come la perfetta sintesi
di due impulsi antitetici: l’apollineo e il dionisiaco.
204 AA:VV, Il testo filosofico, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, volume 3, tomo 1, p. 639.
197
198
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sulla vita, in seguito all’affermarsi delle teorie platoniche e del cristianesimo sostituisce all’uomo tragico l’uomo teoretico che ha un costante bisogno di rassicurazioni e non vive più
sotto l’ebbrezza che provava grazie allo spirito dionisiaco.
Perciò la formazione di questa società è proprio dovuta alla morte della tragedia libera
dal ragionamento e ciò in opposizione alle opere di Euripide, dove l’uomo si è già chiuso in
un mondo in cui c’è un bisogno costante di rassicurazione.
Nietzsche di conseguenza è saturo di questo mondo che critica aspramente, poiché la morale cristiana ha messo le catene all’essere umano, impedendogli la possibilità di vivere liberi,
infatti la morale del peccato, rende l’uomo sempre legato alla questione di un NON POTER
FARE per non precludersi una vita nell’al di là.
Nell’aforisma 125 della “Gaia scienza”,205 Nietzsche annuncia la morte di Dio, ovvero
il rifiuto di una spiegazione ultraterrena della vita dell’uomo, attaccando la società borghese
di fine Ottocento, e in particolare quelle religioni e le filosofie che propongono all’uomo di
accettare una vita fatta di rinunce in attesa di una possibile ricompensa dopo la morte.
Mentre in Marx la soluzione è l’abbattimento della società di classe, attraverso la rivoluzione proletaria, la risposta di Nietzsche è individuale, come poi sarà per i futuristi. Infatti Nietzsche
propone come soluzione la dottrina del Superuomo, che sta al di là dell’uomo presente,206 infatti
il filosofo afferma che “l’essere umano è per me cosa troppo imperfetta (quindi)... io vi insegno
il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato”.207 Nella sua concezione il superuomo non è un supereroe da fumetto, ma “è il senso della terra... restate fedeli alla terra e non
credete a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene”.208 L’invito di Nietzsche è superare le
regole borghesi affinché si ricostituisca una società non preoccupata per la vita ultraterrena ma
che viva il presente senza paura di una punizione. Il superuomo è senza morale, perché Nietzsche critica la morale piccolo borghese fatta di apparenza, specchi, menzogne, incapace di
stringere relazioni più vere e legata al tumulto delle passioni che animano ogni essere umano.
Mentre Nietzsche confida in un uomo capace di riscoprire la sua vera natura, il Futurismo, propone il superamento dell’ideologia borghese confidando sulla capacità della tecnologia di cambiare la vita dell’essere umano. Infatti F. T. Marinetti col manifesto futurista209
denuncia criticamente il “passatismo” della società borghese fatta di ciceroni, biblioteche
stantie e musei impolverati, in cui vi è spazio solo per tutti quei professori che limitano la cultura ad un’élite, tenendo lontano dalla bellezza dell’arte, della storia, e di tutte le altre arti ogni
individuo che non rispecchia l’immagine proposta dalla classe dominante. Attraverso lo
“scandalo” delle serate futuriste e del processo farsa a Marinetti, i futuristi riescono a colpire l’immaginazione del pubblico, per poi poter proporre un modello di Uomo Futurista che
con le sue tecniche e tecnologie, ambizioni, e il suo ingegno riesca a produrre una nuova società che grazie all’ausilio della macchina possa superare il “passatismo” e l’arretratezza della società italiana dell’inizio del secolo. Nel manifesto dell’Architettura futurista210 traspare
F. Nietzsche, La gaia scienza (1882, l’autore sostiene che “Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso” (fr. 125).
Gianni Vattimo traduce Uebermensch non con superuomo ma con “oltreuomo”.
207 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, ed. Acquarelli, pagg. 15 e 16.
208 Idem, pag. 17.
209 “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie e combattere contro il moralismo,
il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria”, dal Manifesto del Futurismo, pubblicato sul quotidiano “Le
Figarò” il 20 febbraio 1909.
210 Il Manifesto dell’Architettura futurista fu pubblicato nel 1916 ad opera di Antonio Sant’Elia (1888-1916), il testo
infatti affermava che “l problema dell’architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento lineare[...]. Non si tratta
di trovare nuove marginature di finestre e di porte, ma di creare di sana pianta la casa futurista [...] con ogni risorsa della
tecnica, determinando nuove forme, nuove linee. L’architettura futurista deve essere nuova come è nuovo il nostro stato
d’animo”.
205
206
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l’idea che ogni generazione debba rinnovare il proprio modo di vivere e di conseguenza anche i beni di prima necessità, come case, vestiti, ecc, dovranno essere aggiornati alle nuove
condizioni.
In Nietzsche e nel Futurismo c’è la convinzione della necessità che l’uomo prenda coscienza dell’inadeguatezza delle regole sociali e si impegni a costruire una nuova società:
l’uno ritornando al legame profondo con la Terra e l’altro affidandosi alla capacità della
Tecnologia di gestire il movimento e perciò il cambiamento.
H. Plessner
H. Plessner è, con Scheler il fondatore dell’antropologia filosofica contemporanea.
Il sistema di pensiero di questo antropologo si fonda sul concetto base secondo cui l’uomo è
unità indissolubile di spirito e corpo, ed è inevitabilmente legato alla natura e all’ambiente
che lo circonda, cosicché lo stesso studio dell’uomo avviene considerando soprattutto quest’ultimo nel suo legame con l’ambiente in cui vive, libero da qualunque interesse che vada al
di là della concretezza dell’esperienza. Plessner, dunque, rifiuta l’opposizione tra spirito e vita proposta da Scheler, e sostiene che con l’uomo la sfera della vita raggiunge il più alto grado
di consapevolezza possibile, concetto che si fonda sul presunto legame tra l’uomo e gli esseri che occupano i gradi precedenti dell’evoluzione. Secondo Plessner, quindi, l’identità umana si riconosce non solo nel suo essere corpo, ma anche nel suo essere-nel-corpo, tant’è vero
che l’uomo, grazie alla sua posizionalità eccentrica, può rapportarsi tanto alla dimensione corporea quanto a quella spirituale, tanto alla sfera fisica quanto a quella psichica. Di conseguenza,
a differenza dell’animale, afferma Plessner, l’uomo non “è” solo un corpo, ma “ha” anche un
corpo, cosicché egli si può “distanziare”da sé ed assumere un punto di vista oggettivo su se
stesso e sul cosmo.211 Ed è proprio questo distacco, questo essere all’interno e allo stesso tempo
al di fuori di se stesso, questa non perfetta coincidenza del proprio io con il proprio corpo e
quindi con la propria manifestazione terrena che costituisce la “coscienza”, la quale non è altro che il tramite e lo stadio intermedio, si potrebbe dire, tra le due dimensioni, l’una corporea
e l’altra extra corporea, in cui l’uomo vive. Da tale dicotomia deriva l’incessante inquietudine ed incertezza umana, che forse è causata dalla non comprensione di questa natura da parte
degli uomini, inquietudine provocata anche dall’impossibilità di opporsi alla propria condizione antropologica fondamentale, in base alla quale l’individuo è incessante processualità.
Nell’opera “I gradi dell’organico e l’uomo” Plessner espone la teoria dei modali organici, la quale espone le categorie e i principi a priori su cui si fonda la vita.212 Il concetto fondamentale di questa teoria è il principio della posizionalità, che definisce la differenziazione
tra realtà organica e inorganica da un lato, e, dall’altro, tra stato animale e stato umano. Plessner descrive una differenza posizionale fra i tre stadi evolutivi più generici: quello vegetale, quello animale, e quello umano. Il primo gradino di questa scala posizionale è occupato,
appunto, dallo stato vegetale, il quale rappresenta una “forma aperta”. L’organismo vegetale
si trova inglobato nell’ambiente a cui appartiene, senza poter operare quel distacco da esso
di cui è capace l’uomo per fare affiorare la propria individualità e riconoscere, così, il proprio sé come soggetto. Dunque l’organismo vegetale è in grado di compiere solo azioni impercettibili ed involontarie quali ad esempio tendere all’acqua, e “vive” il proprio istinto di
sopravvivenza in connessione con quello dell’intero habitat cui appartiene non pervenendo,
211 Plessner introduce la categoria di posizionalità eccentrica nel cap. 7 del suo libro I gradi del mondo organico e
l’uomo (1928).
212 I gradi dell’organico e l’uomo, Plessner (1928).
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inoltre, mai ad uno stadio di completezza fisica, ma si trova in una condizione di mutamento incessante. Nel grado evolutivo in cui si trova l’animale, la forma aperta diviene forma
chiusa e l’ambiente esterno viene “oggettivato” dall’animale, il quale diviene un individuo
autonomo rispetto al mondo esterno, essendo, così, in grado di distinguersi e di opporsi ad esso. Tuttavia, l’animale ha coscienza limitata, poiché non è consapevole delle proprie azioni,
in quanto governate dall’istinto. Quello che distingue l’animale dalla pianta è il fatto che il
primo possiede un organismo centrale che lo separa dall’ambiente, mentre ciò che distingue
l’uomo dall’animale è il fatto che quest’ultimo non possiede un proprio “io”. L’uomo, dunque, è anch’egli una forma chiusa ma a differenza dell’animale, dice Plessner, “si pone alle
proprie spalle”, ossia è in grado di distaccarsi da sé e raggiungere così il più elevato grado di
riflessività, che è l’autocoscienza, ponendosi in una prospettiva eccentrica.213 L’uomo è così
individuum, persona, definizione che si costruisce in base alla sua pluralità di forme, al suo
essere corpo, nel corpo e fuori dal corpo.
Lo stato dell’essere umano è regolato, inoltre, da tre leggi fondamentali: la legge dell’artificialità naturale, la quale sostiene che l’uomo non vive in contatto immediato con l’ambiente, ma ha bisogno di ricorrere alle cose artificiali per vivere nella natura e per sopravvivere; questa legge è riconducibile al concetto dell’uomo come animale carente. La seconda
legge è quella dell’immediatezza mediata: tale legge stabilisce che l’uomo vive sia come un
essere animale nell’immediatezza della natura, sia come essere eccentrico nella mediazione
culturale, cosicché il comportamento umano è costituito da una unione di concetti a priori e
concetti a posteriori. Infine vi è la legge del luogo utopico, per la quale l’uomo risulta proiettato al di là di ciò che si trova dinnanzi a lui. L’uomo, infatti, si trova oltre che a vivere la
propria vita, anche a vederla dal di fuori, e, in questo modo, sperimenta la propria nullità e
contingenza; tale esperienza provoca nell’uomo quel senso di inquietudine, di precarietà, di
incertezza precedentemente descritto.
In una seconda fase del proprio pensiero Plessner sposta la riflessione sulla differenza tra
l’uomo e gli altri gradi evolutivi della realtà per analizzare nello specifico i comportamenti
umani. In primo luogo, afferma Plessner, l’uomo mantiene un rapporto con l’organicità naturale anche se tale rapporto è mediato dagli oggetti artificiali, anche se egli ricostruisce un
ambiente artificiale, attraverso strumenti “culturali” con cui esprimersi e relazionarsi all’ambiente e agli altri individui.
Proprio in questo suo esprimersi l’uomo manifesta che i propri comportamenti non sono dovuti e regolati da qualcosa di corporeo che vi è in sé, ma piuttosto da una complessa interiorità
psichico-mentale. I comportamenti primari dell’uomo, quali il riso, il pianto, il linguaggio e la
gestualità, sono dovuti all’interazione tra uomo e l’ambiente, e vengono letti dall’antropologo
in questione come processi meccanici. Di conseguenza, Plessner rifiuta le teoria darwiniana secondo cui ogni espressione deriverebbe da un’eccitazione del sistema nervoso e sarebbe dipendente dall’istinto di sopravvivenza, in base al quale l’individuo rende abituale un atto sperimentato come utile alla propria sopravvivenza e lo trasmette per via ereditaria alla propria progenie.
Secondo Plessner, infatti, il comportamento è lo specchio dell’essenza dell’uomo, e i
principali mezzi espressivi dell’essere umano sono il linguaggio e la gestualità.
Tramite essi, infatti, l’uomo trasmette i propri stati d’animo, le proprie emozioni e i concetti che fanno sì che egli non sia riconducibile unicamente alla sfera fisica, anche se poi
questa è l’unico punto di contatto che egli ha con l’alterità. Il linguaggio è importante, infatti,
anche perché dimostra che l’uomo è proprio in grado di operare delle astrazioni concettuali
e quindi si eleva al di sopra del grado animale e del piano unicamente fisico e materiale.
213
Citazione tratta dall’opera I gradi dell’organico e l’uomo, Plessner (1928).
– 110 –
Infine, secondo Plessner, costitutivi dell’uomo sono anche il pianto ed il riso, i quali non
sono solo manifestazioni affettive ed espressioni di emozioni, altrimenti sarebbero presenti
anche negli animali, ma esprimono un momento di frattura tra piano psichico e piano fisico,
costituendo quasi dei momenti di crisi, e ciò provoca la perdita dell’autocontrollo, il quale
viene poi recuperato gradualmente.
In conclusione si può dedurre da quanto analizzato che, secondo Plessner, il principio
costitutivo dell’uomo è la sua forse insanabile dualità, il suo essere allo stesso tempo al di
sopra della natura e parte di essa, il suo vivere un po’ in terra e un po’ in una dimensione
superiore a quella comune alle altre creature della natura, dimensione tuttavia a lui stesso
quasi del tutto ignota.
Bibliografia e sitografia:
Metafisica dei Costumi, I. KANT, trad. C. Vidari, Laterza, Bari 1970.
Der Mensch, A. GHELEN, Milano, Feltrinelli 1990.
I gradi dell’organico e l’uomo, Plessner (1928).
Helmuth Plessner. Corporeità, natura e storia nell’antropologia filosofica, a cura di Andrea
Borsari e Marco Russo, Rubettino Editore 2005.
www.wikipedia.it
2.2 IL PUNTO SUL DIBATTITO ATTUALE:
RISCHIO E PROSPETTIVA SULLE “NUOVA UMANITÀ”
Edgar Morin, una delle figure più prestigiose della cultura contemporanea, noto per la
sua definizione di natura umana come “paradigma perduto”, sostiene con forza che “oggi
serve un nuovo umanesimo. Nuovo perché il primo umanesimo fu virtuale, non c’erano problemi che riguardavano tutta l’umanità, mentre oggi nel mondo globalizzato i problemi del
fanatismo razziale e religioso e quello dell’inquinamento della biosfera accomunano tutta
l’umanità: un umanesimo concreto.
Le coordinate storiche del periodo contemporaneo sono radicalmente cambiate rispetto
all’Umanesimo quattrocentesco; e come sottolinea il sociologo, sono cambiate anche le
problematiche economiche, sociali, relazionali, ecologiche cui l’uomo è portato ad accostarsi.
La globalizzazione, il progresso, le tecno-scienze, le scoperte scientifiche hanno spostato le colonne d’Ercole dello scibile sempre più in là. Mutamenti straordinari hanno interessato recentemente anche la fisicità, il corpo dell’uomo.
Secondo Craig Venter, scienziato americano, nel XXII secolo sarà possibile creare in
laboratorio un essere umano totalmente sintetico. Sempre a detta di Venter sarebbe possibile
già in questo secolo la creazione di un intero genoma umano in provetta.
Questa scoperta non prescinde da una considerazione etica: probabilmente tale esperimento non verrà portato avanti, perché, afferma sempre il Venter, “tutti noi scienziati siamo
contrari ad esperimenti di questo tipo sugli uomini. Questo non esclude però che nel prossimo
secolo qualcuno lo faccia, o cerchi di cambiare singole parti del DNA per migliorare alcune
caratteristiche fisiche”.214
214
Craig Venter, intervista alla BBC, 24 ottobre 2007.
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Per scongiurare i rischi di prospettive eugenetiste, l’uso della scienza deve essere consapevole e responsabile. L’educazione assume in questo equilibrio scienza-etica un ruolo
indispensabile.
“I sette saperi necessari all’educazione del futuro”, scritto da Morin su commissione
dell’UNESCO, nell’ambito del “Programma internazionale dell’educazione”, parte proprio
dal concetto di “riforma del pensiero”.
Per considerare il mondo che ci travolge, per comprendere il futuro è necessario in primo
luogo chiarire cos’è, o meglio, chi è l’essere umano, l’oggetto fondamentale di tutto l’insegnamento, a cui il sociologo indirizza la sua opera.
L’essere umano è nel contempo fisico, biologico, psichico, culturale, sociale, storico.
Oggi è difficile comprendere la natura intima dell’essere umano, mentre sarebbe necessario
che ognuno prendesse coscienza e acquisisse conoscenza sia del carattere complesso dell’identità personale sia dell’identità che lo accomuna agli altri uomini.
Morin afferma “si aggrava l’ignoranza del tutto, mentre progredisce la conoscenza delle parti”215 a sottolineare che l’uomo è naturalmente portato a concentrarsi sulla propria identità, rispetto alla relazione con chi lo circonda.
Il destino del genere umano è planetario e ciò si è oltremodo accentuato con l’avvento
dell’era globalizzata. L’uomo deve così pensare ed agire in una nuova prospettiva, che sia meno portata alla chiusura autoreferenziale e individualistica, e più improntata al confronto e all’incontro con l’altro.
L’insegnamento dovrà portare alla costruzione di un’“antropo-etica”, che faccia riferimento alla triplice condizione umana, all’uomo come individuo, all’uomo come società
e all’uomo come specie. Il legame dell’individuo singolo con la specie umana è stato affermato fin dall’antichità; già l’autore latino Terenzio faceva dire ad uno dei personaggi
de “Il punitore di se stesso”: “Homo sum, nihil humani a me alienum puto”216 (Sono uomo.
Nulla di ciò che è umano mi è estraneo). L’Umanità, come è già stato sottolineato in questa
ricerca, non è dunque solo una nozione astratta: è realtà vitale, concreta, è comunità di
destino.
È necessario dunque educare al rispetto per l’umanità in se stessi e nell’altro. La prospettiva in cui questo nuovo processo educativo va ad inserirsi va al di là di quella puramente
evoluzionistica, darwiniana: è un’ottica già coevolutiva, di sviluppo coevolutivo dell’uomo
con l’animale e la macchina. Un processo che ha subito una recente accelerazione, tale da
espletarsi nel passaggio dal corpo biologico a quello tecnologico, dall’uomo naturale all’uomo bionico che, per stare all’attualità, potrebbe chiamarsi Oscar Pistorius, giovane atleta
sudafricano che corre con protesi tecnologiche.
Pistorius rappresenta, più o meno manifestamente, il trionfo del cyborg, dell’uomo tecnologicamente modificato, del “simbionte”, intendendo con questo termine la simbiosi, tra la
componente animale e quella tecnologica. Tale “vita in comune” di queste due componenti
si può riscontrare anche nei batteri, negli antibiotici, negli Ogm, nelle protesi, nei bypass, nei
microchip, nelle attuali nano biotecnologie che fanno dell’uomo un essere sempre più artificiale e meno naturale.
In tale contesto del tutto sbilanciato a favore della tecnica, ciò che è organico, biologico,
corporeo, naturale sembra ormai destinato – secondo una visione radicale dei transumanisti –
al declino, mentre tutto ciò che è meccanico, tecnologico, informatico, inorganico e artificiale
appare destinato a trionfare.
215
216
Edgar Morin, “I sette saperi necessari all’educazione”, ed. Raffaello, Firenze, 2001, p. 34.
Terenzio, “Il punitore di se stesso”, a cura di G. Guzzola, ed. Bur, Roma, 1990, v. 77.
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Aldo Schiavone, in “Storia e destino”, scrive “Siamo sul punto di staccare completamente
l’uomo dalla naturalità della specie. Questo è il significato autentico del nostro presente: la
totalizzazione tecnica della natura”.217 E i prodigi della tecno scienza, come l’inserimento di
un microchip nel corpo di un neonato, la produzione di cellule staminali in vitro, le clonazioni
sembrano avvalorare tale enunciato.
Da queste testimonianze intellettuali e concrete evince la complessità che sottende il
concetto di natura umana.
Prendendo in esame il testo “Vita liquida” del sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, ci
addentriamo nel concetto di umanità alla luce della società moderna. Scrive l’autore “Una
società è liquido-moderna se le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che
i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure”.218
È davvero questo il nostro presente e il nostro futuro? Una società liquida in cui lo stesso
concetto di umanità perde valore? L’individuo moderno, scrive Bauman, si trova di fronte a
due problemi fondamentali: lo smaltimento dei rifiuti, e il rischio di finire fra i rifiuti stessi.
Tutto si muove veloce, viene consumato in fretta. Così le persone.
Una volta terminata la sua funzione l’essere umano deve sapersi riciclare, o finirà nella
discarica della società. Il crescente consumismo ha conferito a cose e persone un valore meramente strumentale, un valore d’uso. L’altro è mezzo per il nostro fine. La società diventa
autoreferenziale. “La vita liquida si alimenta dell’insoddisfazione dell’io rispetto a se stesso”,219 di qui l’autocritica e l’autocensura. Il concetto di umanità cede il posto al concetto di
individuo.
Eppure è impossibile analizzarlo, l’individuo, unicamente nella sua singolarità, prescindendo da considerazioni più ampie, di tipo sociologico. Riesce difficile nell’età a noi contemporanea parlare del “concetto di umanità” senza parlare del rapporto uomo-società. In
questo senso Bauman conia una definizione illuminante, riferita all’uomo d’oggi: egli è un
“sottoproletario dello spirito”.
Il “sottoproletariato dello spirito” vive nel presente e per il presente. Ciò che conta è
la velocità, non la durata. “Andando alla giusta velocità si può consumare tutta l’eternità nell’ambito del presente continuo della vita terrena”.220 Tutto e subito, questo è il motto. Ed è proprio qui che si pone il problema dell’identità. Cosa significa essere uomo, in questo vorticoso meccanismo d’uso e consumo? Uomo è soltanto colui che sa dove vuole arrivare, e vi
arriva, con qualsiasi mezzo? La vita liquida è una successione di nuovi inizi, ma anche di
fini rapide e dolorose. Sapersi “sbarazzare” di cose e persone risulta più importante dell’acquisirle. “Accelerare ha senso solo come preparazione al rallentare, che ne è il principale
scopo”. L’individuo è pervaso dal terrore della “scadenza”, come un bene di consumo, egli
avverte pressante il tic-tac del tempo che scorre. La vita liquida è un perpetuum mobile, il
concetto di umanità è distorto e svuotato di significato.
Lo smarrimento antropologico è così avanzato che non si riesce più a dare una definizione condivisa su chi è l’uomo.
Secondo la professoressa Pansera,221 il rapporto fra natura e natura umana può essere
compreso meglio in virtù del rapporto tra natura e cultura, in quanto la cultura è lo specchio
dell’uomo, nel suo aspetto più intellettuale e vitale. Nell’essere umano sussistono un patriAldo Schiavone, “Storia e destino”, ed. Einaudi, Milano, 2007, p. 36.
Zygmunt Bauman, “La vita liquida”, ed. Laterza, Milano, 2006, p. 12.
219 Zygmunt Bauman, op. cit. p. 14.
220 Zygmunt Bauman, op. cit. p. 89.
221 Maria Teresa Pansera, conferenza “Natura e Cultura: Roma assorbe, metabolizza, trasforma” presso l’Università di Roma 3, il giorno 18 febbraio 2009.
217
218
– 113 –
monio genetico innato e uno acquisito. Qualcosa rimane dunque nell’essenza umana, qualcosa cambia, si aggiunge, si evolve, si elimina. L’essere umano è creatura dinamica.
Il patrimonio acquisito dipende da tre fattori fondamentali: educazione, società ed ambiente.. L’uomo, capace di determinare la propria vita,in quanto dotato di cervello e di neuroni la cui plasticità permette di astrarre, riesce – secondo la concezione dell’antropologia
filosofica – a suffragare la carenza istintiva propria degli animali, con la cultura, effetto immediato del rapporto esistente fra stimolo e risposta.
Anche la Pansera dunque riflette, come Morin, sull’importanza della cultura, dell’educazione in una prospettiva sempre più globale e più avvincente della storia dell’uomo, che ci
porterà inevitabilmente a confrontarci con categorie successive all’umano, come il postumano e il transumano.
Tuttavia chi si sofferma a pensare al grande progresso tecnologico dell’ultimo secolo non
può non riconoscere l’evidente dissonanza fra una tale evoluzione e l’istintiva contrarietà alla tecnologia di gran parte della cultura contemporanea. È quasi un paradosso: mentre da un
lato l’uomo d’oggi vive in completa dipendenza dalla tecnologia, che ha permeato ogni ambito della sua vita tanto profondamente che a volte non se ne rende nemmeno conto finché
qualcosa non si “rompe” e gli viene a mancare, dall’altro crede che questa sia antiumana o
disumana, una realtà da cui difendersi. Sono anche scese in campo forze culturali di primo
piano e numerosi sono stati gli apporti del cinema e dell’arte del XX secolo, per cercare di
mettere in guardia sull’importanza di controllare e limitare la tecnologia emergente, per non
disumanizzare la società. Se, infatti, l’evoluzione della tecnica non si è mai fermata da quando l’uomo ha imparato ad utilizzare il fuoco e la ruota, i problemi che la tecnoscienza ha
creato come la crisi ecologica o una disuguale distribuzione delle risorse, sembrano ormai sufficienti per mettere in dubbio se valga la pena mantenere i suoi vantaggi. Anche in ambito medico l’evoluzione tecnologica sembra si sia quasi frapposta fra l’ammalato e il suo medico,
creando una difficoltà nel dialogo, nella comunicazione che rappresentava il cardine del rapporto umano medico-paziente.
Tutto questo ha fatto sì che si sviluppasse un utile dibattito su vantaggi e svantaggi, su bene e male dello sviluppo tecnologico, che oggi, all’inizio del terzo millennio, verte in particolare su quelli che sono stati, negli ultimi decenni, i doni più importanti che il progresso tecnologici ci ha fornito, ovvero l’intelligenza artificiale, le reti neurali artificiali, la robotica. Queste branche della tecnica e della scienza per la loro particolare natura, hanno poi fornito un ulteriore elemento al dibattito: quanto gli strumenti creati dall’uomo per cambiare il mondo e
modificare l’ambiente hanno, invece, modificato la vita e la natura stessa dell’uomo?
Il termine intelligenza artificiale è stato proposto nel 1956 da un giovane matematico,
John McCarthy, per un incontro finanziato dalla fondazione Rockfeller, nel quale fu redatto
un documento in cui si descriveva il progetto di poter creare l’intelligenza in una struttura
artificiale. Lo studio partiva dall’ipotesi che, come molti scienziati ritenevano, il pensiero
umano funzionasse come un processo di calcolo e quindi, in linea di principio, ogni aspetto
dell’apprendimento o dell’intelligenza potesse essere descritto in modo così preciso da mettere una macchina, un computer, in grado di simularlo.
In base a tale ipotesi, l’intelligenza artificiale si proponeva di indagare i meccanismi che
sono alla base della cognizione umana: il ragionamento logico-matematico, la capacità di
risolvere problemi e la comprensione del linguaggio naturale, con il fine di riprodurli, per
mezzo di elaboratori elettronici sufficientemente potenti e, nell’arco di 10 anni, realizzare
sistemi informatici in grado di funzionare come un cervello umano.
In questa ottica, i computer di oggi riescono a memorizzare, a schedare, a scrivere sotto dettatura, a leggere un testo scritto, a fare operazioni senza errori e in tempi rapidissimi, a
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manovrare strutture che eseguono operazioni con notevole precisione e autonomia. Appare
pertanto evidente che la tecnologia non solo contribuisce ai mutamenti della vita quotidiana,
ma incide nell’essenza dell’uomo, trasformandone le caratteristiche e le capacità.
Per difendersi dai possibili rischi di tali sviluppi tecnologici, spesso tanto temuti, è nata
la “tecnoetica” che rappresenta il riferimento morale della tecnologia come elemento positivo dell’essere umano, quello che la “bioetica” rappresenta ad esempio in campo di ingegneria genetica.
Riguardo alla robotica è d’obbligo menzionare come essa sia riuscita a dare origine a quei
robot, dotati di intelligenza artificiale e di un corpo a nostra immagine e somiglianza in grado di interagire con l’ambiente esterno.
Quindi, il robot, termine coniato nei primi anni venti del Novecento, è impiegato in varie situazioni in cui è necessario estrarre informazioni dall’ambiente, elaborarle e poi agire
sull’ambiente stesso.
In un futuro prossimo potrebbero inoltre essere impiegati come vigili del fuoco o poliziotti e, in ambito medico-assistenziale.
Se per il progresso tecnologico, il ’900 è diventato il secolo della macchina, quello attuale sarà il secolo dei robot dei quali però l’uomo si deve sentire responsabile in modo che,
come più volte è stato prospettato in letteratura, alla fine non diventino troppo “intelligenti”
e si ribellino al predominio dispotico ed arrogante dell’uomo.
Per questi motivi, anche nella robotica il dibattito etico ha condotto alla nascita di una
nuova disciplina, la roboetica, volta a mantenere il delicato equilibrio nei rapporti tra robot e
uomo. Per concludere, è senza dubbio evidente che la tecnologia si avvia a vincere contro i
suoi oppositori ed è importante perseverare nel suo continuo sviluppo per i vantaggi che offre all’uomo e per le conquiste a cui lo può condurre, ma è indispensabile che questo progresso sia sempre affiancato da sensibilità, attenzione e costante riflessione perché il rapporto tra uomo e macchina sia equilibrato e vissuto nel rispetto della vita e della natura che lo
circonda.
Bibliografia e sitografia:
EDGAR MORIN, “Paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?”, ed. Feltrinelli, Milano,
1998, p. 25.
EDGAR MORIN, “I sette saperi necessari all’educazione”, ed. Raffaello Cortina, Firenze,
2001, p. 34.
TERENZIO, “Il punitore di se stesso”, a cura di G. Guzzola, ed. Bur, Roma, 1990, v. 77.
ALDO SCHIAVONE, “Storia e destino”, ed. Einaudi, Milano, 2007, p. 36.
ZYGMUNT BAUMAN, “La vita liquida”, ed. Laterza, Milano, 2006, p. 12.
www.wikipedia.it/Morin
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MARIA PAOLA MAIONE - STEFANIA SORRENTI
Progetto speciale
“La scuola adotta un monumento”
nel cinquantesimo anniversario del Liceo Classico Orazio
(anno scolastico 2008-2009)
Passeggiando per la Via Sacra nel Foro Romano in compagnia di Orazio
Il nostro Liceo anche quest’anno ha partecipato alla prosecuzione del progetto “La
scuola adotta un monumento” promosso dal Comune di Roma, progetto che si è confermato
come un’esperienza educativa e culturale fruttuosa sia per lo sviluppo di un atteggiamento
più consapevole e sensibile verso il patrimonio artistico nella sua dimensione di memoria
storica, sia per la promozione di un rapporto diretto e interattivo fra le giovani generazioni
e la loro città (la cui conoscenza è spesso rinviata all’età adulta per mancanza di spazi didattici adeguati), sia per un approccio di studio personalizzato, interdisciplinare e integrato.
La fase del progetto relativa all’anno scolastico 2008-2009 ha previsto lo studio della Via
Sacra nel Foro Romano, del colle Palatino con la Domus Flavia, e della mostra “Divus
Vespasianus, il bimillenario dei Flavi” allestita nel Colosseo con appendice nella Curia e
nel Criptoportico neroniano sul Palatino.
L’impostazione del progetto si è fondata su un’idea di didattica interdisciplinare coinvolgente la storia romana, la letteratura latina e greca, l’epigrafia, l’archeologia e la storia dell’arte. Nella fase finale del progetto gli studenti, suddivisi in quattro gruppi di lavoro, hanno
prodotto alcuni saggi e tesine, dvd e pannelli espositivi che sono stati presentati alla manifestazione “La scuola in festa. La mia città si chiama Roma” organizzata dall’Assessorato alle
Politiche Scolastiche ed Educative del Comune di Roma, nei giardini Nicola Calipari nel
mese di maggio 2009; tali lavori sono oggi disponibili nella biblioteca del Liceo Orazio per
la consultazione.
Il gruppo di lavoro è stato coordinato da due insegnanti: la prof.ssa Maria Paola Maione,
docente di Materie letterarie, latino e greco, referente del progetto e la prof.ssa Stefania
Sorrenti, docente di Storia dell’Arte. Gli esperti che hanno seguito le varie fasi degli studi sono
archeologi e storici dell’arte della Cooperativa Zetema, in collaborazione con il Comune di
Roma.
Gli studenti partecipanti al progetto sono 35 di diverse classi del triennio, il cui elenco
è allegato al presente testo.
Fra questi, due studentesse della classe II C, Giulia Perrozzi e Adele Tuozzi, hanno preso
l’iniziativa di sintetizzare una breve parte del più ampio lavoro, relativa al percorso della
Via Sacra nel Foro Romano compiuto leggendo la satira IX (del I libro delle Satire di Orazio)
per indirizzarla alla Miscellanea dell’Istituto.
Tale saggio ha soprattutto lo scopo di rendere omaggio al nostro Liceo e al poeta Quinto
Orazio Flacco, cui esso è intitolato, nell’occasione del suo cinquantesimo anniversario, celebrato con diverse iniziative nella giornata del 19 dicembre 2009 nella sede di via Savinio e
nelle succursali.
Ai partecipanti tutti del progetto per l’entusiasmo e l’impegno con cui si attivano e collaborano in orario extrascolastico e a tutti coloro che sono cresciuti in questo liceo imparando
ad amare l’arte, la poesia e la cultura va il nostro ringraziamento.
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Elenco degli studenti partecipanti (relativo all’anno scolastico 2008-2009):
Classe III C: Eleonora Ottaviani, Valentina Schettini, Francesca Tucci, Valeria Oliva.
* * *
Classe II C: Giorgia Bufi, Marco Bruno, Alessandro Di Mele, Paolo Massimo Campogrande, Erica Bucciarelli, Davide De Candia, Chiara Cirelli, Giulia Emily Cetera, Rosaria
Pasqualucci, Antonella Marafini, Eleonora Amicosante, Martina Diglio, Irene Mastrantonio,
Simone Di Cerbo.
* * *
Classe I C: Carolina Salomoni, Adele Tuozzi, Giulia Perrozzi, Barbara Marchetti, Giulia
Moretti Cursi, Fabiana Luca, Domizia Sgammini, Andrea Cecchini, Paolo Colagiovanni,
Davide Galioto, Eleonora Lauricella, Giorgia Lauri, Enrica Mazzuca, Brigitte Budani,
Valentina Tanga, Alessandra Venditti.
Percorso letterario e archeologico: leggendo la Satira I, 9 di Orazio
vengono analizzati alcuni dei monumenti situati lungo la Via Sacra
Breve introduzione alla Satira I, 9 di Orazio.
Alla maniera di un vero e proprio “mimo” realistico la satira in forma dialogica presenta
un intrigante serrato dibattito fra un “seccatore”, sedicente poeta individuato da Orazio con
il pronome “quidam” e il poeta stesso, che è presentato attraverso un ironico autoritratto
come un mendicante che passeggia senza meta per la Via Sacra, tallonato dell’arrivista fino
a che, dopo un tentativo di scappatoie e l’altro, non è salvato da Apollo stesso, protettore dei
poeti.
I versi individuano con maliziosa ironia una tipologia umana abbastanza diffusa nell’età augustea, l’arrampicatore sociale che intende sfruttare quelle che ritiene essere le sue
potenzialità artistiche per farsi introdurre in un circolo potente e privilegiato quale quello di
Mecenate.
Nei suoi confronti Orazio mantiene un atteggiamento distaccato, difendendo il circolo
di Mecenate, incentrato sui rapporti solidi e sulla trasparenza e non certo sull’arrivismo e
sull’invidia. All’interlocutore che non è in grado di comprendere questo modus vivendi è
riservata solo la pungente ma bonaria ironia oraziana.
Il componimento può essere datato intorno al 35 a.C., il poeta che già da qualche anno
ha successo, è entrato in stretta amicizia con Mecenate, che nel 33 gli ha fatto dono di una
villetta in Sabina.
Ecco perché Orazio, seppure di modeste origini, è oggetto di invidia da parte del seccatore.
Questa satira è certamente una delle più famose di Orazio e nello stesso tempo quella in
cui poco si notano i discorsi a sfondo morale e le linee filosofiche dell’epicureismo, mentre
emerge la capacità ritrattistica e lo spiccato senso umoristico del poeta.
Sballottato per la Via Sacra dall’irriducibile seccatore, Orazio fornisce al lettore riferimenti precisi ai luoghi più importanti situati lungo l’itinerario che si snoda fra l’arco di
Settimio Severo e l’arco di Tito, fra i quali la Curia e il Tempio di Vesta.
Tale itinerario è stato ripercorso da noi studenti nella passeggiata di studio nel Foro
Romano ed è qui di seguito riportato.
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La Via Sacra
«Ibam forte via sacra, sicut est meus mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in in illis».
(vv. 1-2)
La Via Sacra è l’antichissima strada di collegamento tra il Palatino, il Foro Romano e
l’Arce Capitolina. Secondo gli antichi la sacralità della strada deriverebbe dal leggendario
patto di pace tra Romolo e Tito Tazio o dall’uso che i sacerdoti ne facevano durante le cerimonie sacre mensili delle idi e delle nonae.
La strada, che collegava il Palatino con il Campidoglio, era di grande monumentalità.
Lungo questa via sfilavano infatti i carri del trionfo, dall’area dell’arco di Tito, dove la via
ha tutt’oggi inizio, sino al tempio di Giove Ottimo Massimo. Queste sfilate venivano concesse
dal Senato a quei generali che si erano distinti durante le campagne militari. Veniva inoltre
utilizzata durante le festività religiose.
Il tracciato della via Sacra solca interamente la valle su cui successivamente andò a
costituirsi il Foro Romano.
Lungo questo tracciato già nel VI sec a.C., in età etrusca, sì costruì il complesso del
Comizio, che con la Curia Hostilia costituiva il luogo di riunione dei cittadini, dei senatori e
dei magistrati romani; qui si pose la sede dei più antichi culti della città. In età medio-repubblicana si avviò la monumentalizzazione della valle con la costruzione di grandi edifici destinati alle attività economiche e giudiziarie. Fino all’inizio dell’età imperiale, la Via Sacra
conduceva, con un primo tratto pianeggiante, dal Foro Romano alle pendici della Velia, nei
pressi della Basilica di Massenzio, passando a fianco della Basilica Emilia; un secondo tratto in salita, denominato summa Sacra Via, si spingeva fino al Sacello di Strenia alle Carinae
(sella che univa la Velia all’Oppio, zona retrostante la Basilica di Massenzio e in gran parte
tagliata da Via dell’Impero). Dopo l’incendio neroniano, questo secondo tratto venne deviato
in direzione della Domus Aurea, dove sorse il Tempio di Venere e Roma.
Il tempio di Vesta
«Ventum erat ad Vestae, quarta iam parte diei»
(v. 35)
Vesta, dea del focolare domestico, è una delle più caratteristiche divinità della Roma
arcaica; tuttavia, mentre il culto domestico in età posteriore (soprattutto in età imperiale)
sparì per far posto a quello dei Penati, il culto invece del focolare pubblico, sacro a Vesta,
si mantenne sino agli ultimi tempi dell’impero occidentale e sopravvisse finanche alle prime
vittorie del cristianesimo.
Situato nell’estremità orientale del Foro Romano, il Tempio di Vesta è un’antica struttura di costruzione circolare, collocata vicino al corso della via Sacra. Formava, assieme
alla Casa delle Vestali, un unico complesso religioso: l’Atrium Vestae. La costruzione del
Tempio risale probabilmente ad un’epoca precedente alla costruzione del Foro, in cui la
città, composta da un modesto raggruppamento di villaggi, si limitava al Palatino. I resti
attualmente visibili appartengono ad una ristrutturazione in età severiana. Esso è, inoltre, il
più antico edificio marmoreo giunto pressoché intatto ai giorni nostri.
Il Tempio rappresentava il focolare domestico più importante, simbolo di tutti i focolari
dello Stato; quello regio. Le figlie del rex avevano il compito di sorvegliare il fuoco: ogni
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primo di marzo, giorno iniziale del cosiddetto “anno di Numa”, questo veniva riacceso con
particolari cerimonie. In seguito si sostituì loro un gruppo di sacerdotesse, le Vestali. Questa
istituzione costituiva l’unico esempio di sacerdozio femminile in Roma.
Le sacerdotesse di Vesta erano sei, scelte tra le fanciulle più nobili della città che fossero
di età compresa tra i sei e i dieci anni. Ignoti sono i criteri secondo i quali avvenisse la scelta.
La designazione costituiva un grande onore per la fanciulla e per la sua famiglia. Al momento della consacrazione, durante la cerimonia detta “della cattura”, il Pontefice Massimo
pronunciava le parole rituali: «Ego te, amata, capio» a seguito delle quali la fanciulla veniva
posta sotto il suo potere, uscendo per sempre dalla potestà paterna.
Le Vestali erano tenute ad assolvere essenzialmente tre compiti fondamentali, primo tra
tutti era quello di tener vivo il fuoco di Vesta. Il secondo era quello di pulire il tempio della
dea, includendo anche il rito della stercoratio che si celebrava ogni 15 giugno, durante il
quale le sacerdotesse, dopo aver spazzato il tempio, portavano l’immondizia sul colle Capitolino in un luogo chiuso. Il nome della cerimonia rivela chiaramente la sua antichità perché
riconduce al momento in cui, in una società di pastori, il fuoco di Vesta non bruciava in un
tempio, ma in uno spazio aperto che doveva esser liberato dagli escrementi animali. Come
terzo compito le Vestali dovevano preparare la Mola Salsa, una specie di farina salata che, in
occasione dei sacrifici animali, si spargeva sulle vittime, sull’altare e sul coltello del sacrificante, da cui il verbo immolare.
Per assolvere degnamente a questi compiti, le Vestali dovevano essere pure; per questa
ragione erano tenute a prestare un voto di castità trentennale e, qualora lo avessero infranto,
venivano punite in modo terribile. Se una Vestale commetteva atti impuri, il suo comportamento poteva essere denunciato da dei prodigi che rivelavano l’ira divina: per esempio con
lo spegnimento del fuoco della dea. Se Vesta non interveniva a salvare l’accusata compiendo
un miracolo che ne dimostrasse l’innocenza, la Vestale veniva condannata a morte, al termine
di un solenne rituale al quale assisteva tutta la città. Nel giorno dell’esecuzione la colpevole
veniva condotta fino a un luogo detto Campo Scellerato presso la porta Collina, sul Quirinale,
portata su una lettiga coperta. Lì si trovava una stanza sotterranea nella quale erano
stati precedentemente collocati un letto, del pane, dell’acqua, dell’olio e una fiaccola. Qui
giunta, coperta di veli perché nessuno vedesse il suo volto, la Vestale veniva fatta scendere
in quella che sarebbe diventata la sua tomba e quindi murata viva.
All’interno della cella non era presente alcuna statua o rappresentazione della dea Vesta,
ma si può ipotizzare che tale scultura fosse conservata all’interno di un edificio posto in prossimità dell’entrata della Casa delle Vestali.
Il tempio era formato da una costruzione circolare in opera cementizia, rivestita da lastre
di marmo, del diametro di circa 15 metri, circondata originariamente da un anello di 20
colonne di marmo scanalate, d’ordine corinzio, l’ordine preferito dai romani per l’architettura
templare. L’edificio doveva essere coperto da un tetto conico, con buco centrale per i fumi
del fuoco acceso all’interno. Purtroppo sono andate perdute la trabeazione e la copertura.
All’interno si trovava un vano a forma trapezoidale che si apriva sul podio accessibile solo
dalla cella che ipoteticamente rappresentava il Penus Vestae. Esso, che solo le sacerdotesse
avevano il permesso di raggiungere, aveva la funzione di conservare i pignora civitatis, alcuni
oggetti sacri legati a Roma e “pegno” della fortuna della città che, secondo quanto narrato da
un’antica leggenda, Enea avrebbe condotto a Roma dalla città di Troia. Tra gli oggetti più
importanti contenuti all’interno del Penus Vestae vi era sicuramente il Palladio, un’antica
rappresentazione della dea Minerva.
Probabilmente il tempio fu ricostruito più volte, conservando sempre la medesima pianta
ed aumentando in altezza, poiché fu distrutto svariate volte da incendi.
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Il tempio fu realizzato in origine per la necessità di una struttura apposita adibita esclusivamente alla conservazione del fuoco. Secondo le fonti antiche, il fuoco era ottenuto grazie
allo sfregamento delle selci. La struttura divenne poi un simbolo di aggregazione della comunità con la trasformazione in tempio e la nomina di un sacerdote. Quando, da Servio Tullio
in poi, il processo di urbanizzazione coinvolse anche le tribù stanziate sui colli vicini, il
simbolo stesso dell’aggregazione assunse una forte connotazione politica e, non essendo più
possibile mantenerlo limitato al nucleo Palatino, venne trasferito nell’area che sarebbe poi
diventata il Foro e che stava assumendo la caratteristica di luogo d’incontro e di scambio
commerciale, sul modello dell’agorà greca.
Il tempio fu interessato dagli incendi del 241 a.C. e del 210 a.C., in seguito al quale si
ebbe un esteso rimaneggiamento anche della casa delle Vestali. Durante questa ricostruzione fu realizzata una profonda fondazione circolare in cementizio, dotata di una cavità centrale:
la fossa per le ceneri del fuoco sacro, appartiene a quel momento anche la costruzione del
Penus Vestae. Si ipotizza inoltre una ricostruzione dopo il grande incendio del 64 d.C.,
contemporaneamente allo spostamento e ingrandimento della casa delle Vestali: il tempio
venne infatti rappresentato in monete dell’epoca di Nerone e dei successivi imperatori Flavi.
La struttura fu poi nuovamente danneggiata nell’incendio del 191 d.C, sotto il regno di
Commodo. Settimio Severo lo restaurò: i resti venuti alla luce negli ultimi scavi risalgono
esattamente a questo periodo.
Teodosio I nel 391 abolì i culti pagani, dunque anche il culto di Vesta, con una serie di
decreti: il sacro fuoco venne spento e l’ordine delle Vestali venne sciolto. Secondo alcune
testimonianze di eruditi, il tempio era ancora in piedi dopo la caduta dell’impero romano
d’Occidente, ma cadde in rovina successivamente nell’VIII e IX secolo. In epoca rinascimentale non si sapeva più nulla sul vero sito del tempio, quindi il nome “tempio di Vesta” fu
attribuito o alla chiesa di San Teodoro al Palatino, oppure al piccolo tempio rotondo presso
il Ponte Rotto. Si scoprì la collocazione precisa del luogo della costruzione del santuario soltanto grazie agli scavi archeologici del 1872, 1882 e 1901.
La Curia Iulia
«[...] Et casu tunc respondere vadato
debebat; quod ni fecisset, perdere litem »
(vv. 36-37)
«[...] Casu venit obvius illi
adversarius et “Quo tu, turpissime?” magna
inclamat voce et “licet antestari?” Ego vero
oppono auricolam. Rapit in ius: clamor utrimque,
undique concursus. Sic me servavit Apollo»
(vv. 74-78)
La Curia Iulia era l’antica sede del Senato Romano, posta al culmine del lato breve del
Foro. Si tratta di un grande edificio in mattoni posto all’angolo tra l’Argileto (la strada che
lo separa dalla Basilica Emilia) e il Comizio.
Quest’ultimo deve il suo nome alle assemblee dei “curiati”, cioè dei cittadini valutati in
base al censo, che si svolgevano nel Comizio. La Curia, fondata da Cesare dittatore in sostituzione dell’antica Curia Hostilia (edificata secondo la leggenda da Tullo Ostilio, terzo re
di Roma), occupava buona parte del Comizio repubblicano. Infatti, dopo essere stata
danneggiata da un incendio nel 52 a.C. l’antica Curia Hostilia venne restaurata, ma poco
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dopo Giulio Cesare iniziò i lavori di realizzazione del Foro di Cesare che interessarono tutta
quest’area del Foro: sia i Rostra che la Curia vennero ricostruiti in posizione più scenografica, con impianto più monumentale. La Curia Iulia comprendeva la grande aula per le sedute,
chiamata propriamente Curia, e un’altra più piccola, il Secretarium Senatus.
Giulio Cesare non vide compiuto l’edificio da lui cominciato; i lavori furono ultimati
sotto il principato di Augusto nel 29 a.C. L’imperatore elesse come divinità protettrice del
Senato la dea Vittoria, il cui altare venne collocato nella sala principale. Domiziano restaurò
la Curia e dedicò una cappella a Minerva, per la quale egli nutriva una particolare devozione; questa cappella, forse situata nel Chalcidicum (il portico colonnato della Curia, rappresentato peraltro su una moneta di età augustea), era detta anche Atrium Minervae. Gli anaglifi
di Traiano rappresentano la Curia con portico a gradinata, simile ad un tempio.
Dopo aver riportato gravi danni in seguito ad un incendio scoppiato sotto il regno di
Carino (283 d.C.), Diocleziano restaurò l’edificio, forse nel 303, in occasione delle feste dei
Vicennalia che si sarebbero celebrate l’anno successivo. Probabilmente nella medesima
occasione dinanzi la fronte della Curia furono erette due colonne colossali e, nel 311, il
prefetto della città Flaviano rinnovò il Secretarium. Verso la fine del IV secolo, l’altare della
Vittoria divenne argomento nel Senato di una vivace polemica tra la parte pagana e quella
cristiana.
Nel 410, in seguito al saccheggio di Alarico, tutto il lato settentrionale del Foro fu
distrutto dalle fiamme; nel 412 Flavio Annio Eucario Epifanio, prefetto della città, restaurò
il Secretarium, come attestava una iscrizione ancora esistente nel secolo XVII nel muro dell’abside dell’antica chiesa di Santa Martina. Al tempo del re Teodorico nella Curia si tenevano ancora le adunanze del Senato, sopravvissuto alla caduta dell’Impero occidentale, ma
ridotto allora ad un’ombra: l’edificio in quel tempo non si chiamava più col suo nome classico di Curia, bensì Atrium Libertatis. Caduto il regno gotico, la Curia rimase abbandonata.
Verso la metà del VII secolo, sulle sue rovine fu fondata la chiesa di Sant’Adriano, mentre
quella di Santa Martina sorse sui resti della Curia Hostilia; alla loro trasformazione in chiese si deve la conservazione di ciò che rimane dell’antico Senato. Nel principio del secolo
XVI Antonio da Sangallo il Vecchio e Baldassarre Peruzzi studiarono i resti allora esistenti
per costruire un monastero annesso alle chiese, ma questo progetto non venne attuato. Alcune parti della Curia furono distrutte al tempo di Sisto V, altre, quando Pietro da Cortona rimodernò la chiesa di Santa Martina (1640), che allora venne rialzata di un piano intero sul
livello primitivo, e la vecchia chiesa diventò così cripta della moderna.
Tra il 1930 e il 1936 l’area venne interessata dalla campagna di scavi del Foro e in quell’occasione si decise di riportare l’importante edificio al suo aspetto profano: la chiesa venne sconsacrata, privandola di tutte le aggiunte successive all’epoca dioclezianea. Infatti l’aspetto attuale dell’edificio è dovuto proprio al rifacimento voluto da Diocleziano per sistemare
i danni causati dall’incendio del 283 d.C. Come costruzione è uno degli edifici tardo antichi
meglio conservati in tutta Roma.
L’ottima condizione del monumento è dovuta alla sua trasformazione in chiesa. I muri
perimetrali in mattoni, alleggeriti da archi di scarico e interrotti da grandi finestroni sulla
facciata erano coperti da lastre di marmo di cui rimane ben poco: sulla sinistra dell’ingresso
ne sono visibili ancora dei resti. Salendo una rampa di scale di età moderna, si entra all’interno della Curia; il portale d’ingresso in bronzo è solo una copia dell’originale, trasferito a
San Giovanni in Laterano nel XVII secolo.
Il grande vano interno rispetta le proporzioni consigliate da Vitruvio per le curie, secondo le quali l’altezza doveva essere circa la metà della somma tra lunghezza e larghezza
(le misure attuali sono 21 metri di altezza con una base di 18 per 27 metri). La notevole al– 121 –
tezza è da riconoscere come un probabile accorgimento per l’acustica. La copertura lignea è
ovviamente moderna e in antico era a travi piane.
La pavimentazione è stata in parte ricostruita con marmi antichi secondo la disposizione
di epoca dioclezianea, come pure la decorazione architettonica delle pareti, scandita da nicchie
che ospitavano statue, inquadrate da colonnine su mensole. Le pitture bizantine invece, visibili
soprattutto sulla controfacciata, risalgono alla trasformazione in chiesa del VII secolo.
L’aula è divisa in tre settori, con a destra e sinistra tre gradini larghi e bassi, dove erano
collocati i circa trecento seggi per i senatori.
Sulla parete di fondo, tra due porte, si trova il basamento per la presidenza, dove è collocata anche la base della Vittoria. Questa statua, sulla quale i senatori giuravano fedeltà alla Repubblica, era stata portata a Roma da Ottaviano ed era oggetto di particolare devozione
simbolica per le istituzioni romane. Fu causa di un’aspra polemica tra cristiani e pagani alla
fine del IV secolo, con protagonisti Ambrogio da Milano e Quinto Aurelio Simmaco, uno
degli ultimi senatori pagani. Venne rimossa nel 357 su ordine di Sant’Ambrogio. Al posto della statua ne è stata messa attualmente un’altra in porfido che rappresenta un togato, rinvenuta alle spalle della Curia.
Oggi all’interno della Curia sono esposti due grandi rilievi, trovati al centro del Foro e
chiamati plutei o anaglifi di Traiano. Si tratta forse di balaustre di una tribuna, probabilmente
eretta nel Foro al posto della statua equestre di Domiziano, mentre appare meno probabile,
seppure secondo convinzioni piuttosto persistenti, che i rilievi facessero parte dei Rostri. In
essi sono rappresentati due episodi salienti dell’attività di Traiano nel Foro:
• Il rilievo di sinistra raffigura un gruppo di inservienti che, alla presenza dello stesso
imperatore, si prepara a distruggere i registri dove erano scritti i debiti contratti dai cittadini romani nei confronti del fisco, cancellati dopo la conquista della Dacia.
• Il rilievo di destra rappresenta Traiano nel momento dell’istituzione degli alimenta, gli
aiuti economici destinati a sostenere i bambini e le famiglie romane bisognose.
Le scene sono particolarmente interessanti perché si svolgono nel Foro, del quale danno
una rara raffigurazione antica: vi si riconosce in entrambe la statua di Marsia accanto alla
Ficus navia, già centro della piazza, e il lato meridionale di questa. Nel rilievo di sinistra
si vedono (da destra) i Rostri, il tempio di Vespasiano (con l’ordine corinzio), un arco, forse
del Tabularium, il Tempio di Saturno (ionico), il vuoto del Vicus Iugarius e le arcate della
basilica Giulia. Nel rilievo di destra si vedono invece la continuazione della basilica Giulia,
l’arco di Augusto, i Rostri del tempio del Divo Giulio; l’imperatore è raffigurato davanti
alla basilica Giulia seduto su un podio, forse lo stesso dal quale provengono i rilievi. Sul
rovescio di entrambi sono raffigurati gli animali sacrificali delle solennità romane: maiale,
pecora e toro.
L’arco di Tito
Dopo appena due anni di regno, Tito morì per una forte febbre. Secondo Svetonio,
potrebbe essere stato colpito dalla malaria assistendo i malati, oppure avvelenato su ordine
del fratello.
Inter haec morte praeventus est, maiore hominum damno quam suo. Spectaculis absolutis, in quorum fine populo coram ubertim fleverat, Sabinos petiit aliquanto tristior, quod
sacrificanti hostia aufugerat quodque tempestate serena tonuerat. Deinde ad primam statim
mansionem febrim nactus, cum inde lectica transferretur, suspexisse dicitur dimotis plagulis
caelum, multumque conquestus eripi sibi vitam immerenti; neque enim exstare ullum suum
factum paenitendum, excepto dum taxat uno (Svetonio, Vita Divi Titi X).
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Alla sua morte fu divinizzato dal Senato, e un arco onorario fu eretto tra l’81 e il 96 d.C.
nella parte orientale del Foro Romano dal fratello allo scopo di commemorare il trionfo di
Vespasiano e Tito sui Giudei, avvenuto nel 71 d.C. L’importanza assunta dal programma
iconografico in età imperiale spiega, infatti, la trasformazione dell’arco da semplice punto di
passaggio a monumento commemorativo in onore di un defunto eroizzato.
Si tratta di un arco a fornice unico con colonne scanalate di ordine composito, rivestito
di marmo pentelico. È decorato nel fregio esterno dalla pompa trionfale, a figure tozze in
altissimo rilievo; nell’arcata da due grandi rilievi e nel mezzo della volta a cassettoni dall’apoteosi di Tito. Mentre il piccolo fregio riprende la tradizione dell’altare dell’Ara Pacis
Augustae, nei due pannelli laterali si realizza una spazialità che dà risalto al rilievo e che
anima le figure che sembrano seguire l’evolversi della scena.
Sul pannello del lato nord, all’interno dell’arco, si può ammirare Tito su una quadriga
coronato da una Vittoria: egli è preceduto da littori e dalla dea Roma e seguito dal Genio del
popolo romano e dal Genio del Senato. Sul lato opposto (sud) è raffigurato l’ingresso del
corteo nella Porta Triumphalis: si osservi la ritmica rappresentazione dei cavalli, scolpiti
di profilo, ed il gruppo degli inservienti che avanzano con i fercula, trasportando oggetti
trafugati nel tempio di Gerusalemme, tra cui spicca la menorah: il candelabro a sette bracci.
Si possono infine notare in questi due rilievi alcune fondamentali innovazioni stilistiche:
un maggiore affollamento delle scene, ma soprattutto la straordinaria spazialità data dalla
variazione del rilievo secondo una precisa disposizione delle figure nel piano, con il conseguente superamento dell’andamento rettilineo del corteo.
Sulla chiave di volta l’imperatore Tito è rappresentato sulle ali di un’aquila, uccello sacro
a Giove, e definito divus; ciò sta ad indicare, infatti, che non si tratta dell’arco di trionfo, avente la sua collocazione nel Circo Massimo e purtroppo perduto, ma di un arco onorario, probabilmente situato all’ingresso della residenza imperiale: la leggera curvatura dei rilievi all’interno del fornice sembra suggerire la curva del percorso che portava infatti a sinistra sul
Palatino.
Bibliografia:
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F. COARELLI, Il Foro Romano - Periodo arcaico, Roma 1983, pp. 11-26.
G. PONTIGGIA - M. C. GRANDI, Letteratura latina, Milano 2007, p. 608.
GUIDA D’IITALIA - ROMA (Touring Club Italiano), Roma 1993, pp. 431-432.
G. DE BERNARDIS - A. SORCI - E. TORTORICI, I classici di Roma antica, vol. II, Firenze 2007,
pp. 265-266.
E. CANTARELLA - G. GUIDORIZZI, L’eredità antica e medievale, vol. I, Milano 2007, p. 265.
M. CADARIO, L’arte tra noi, vol. I, Roma 2008, p. 211.
GUIDA DI ROMA (Mondadori), Milano 2003, pp. 82-85.
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STEFANO DE STEFANO
Il Liceo Orazio alla XV edizione
delle Olimpiadi di Filosofia
Il nostro Liceo ha partecipato alla XV edizione delle “Olimpiadi di Filosofia”, organizzate dalla Società Filosofica Italiana (SFI) d’intesa con il Ministero della Pubblica Istruzione. La manifestazione è riservata agli studenti e alle studentesse frequentanti i due
ultimi anni delle scuole secondarie di secondo grado. La prova consiste nella redazione di
un saggio di argomento filosofico. Quest’anno l’orizzonte tematico di riferimento per la
redazione del saggio è stato: Filosofia , scienza e società.
La competizione è particolarmente importante poiché sollecita gli studenti a cimentarsi
con l’esposizione scritta del proprio pensiero e, dunque, ad organizzare le idee in maniera
razionale, coerente e fruibile da parte di interlocutori. Sappiamo che nelle scuole italiane
l’insegnamento della filosofia non prevede lo scritto e, perciò, questa iniziativa si potrebbe
configurare come l’unica opportunità seria che consenta agli studenti di poter mettere alla prova le proprie capacità argomentative, in ambito filosofico: si sa che la pagina scritta impone
una metodologia più serrata rispetto all’esposizione orale.
Nella nostra scuola, una commissione composta dai proff. Dappio, De Stefano e Palesati,
d’intesa con tutto il Dipartimento di filosofia dell’Orazio, ha provveduto ad organizzare la
prova scritta per la selezione regionale, quindi alla correzione degli elaborati e all’individuazione dei candidati dell’Orazio che avrebbero partecipato alla selezione regionale per
accedere alla gara nazionale.
La prova si è tenuta il 10 marzo 2009, in orario pomeridiano, per non gravare sulle attività didattiche del mattino. Sono state proposte ai candidati due tracce (riportate più avanti);
i tre elaborati selezionati sono stati, nell’ordine: il saggio di Francesco Orlando della 3ª liceo
classico N, il saggio di Giulia Omodei della 2ª liceo classico O e il saggio di Marina Amadori della 2ª liceo classico B.
All’Università di RomaTre si è svolta la gara regionale per accedere alla fase nazionale.
In rappresentanza dell’Orazio erano presenti: Orlando ed Omodei che hanno ottenuto, rispettivamente, un ottavo e un terzo posto su ventotto studenti in rappresentanza di quattordici
istituti superiori del Lazio. Ultima notazione: i saggi composti da Orlando e Omodei per la
fase nazionale sono stati redatti in lingua inglese.
Giulia Omodei classe 2ª liceo classico sez. O – a.s. 2008/2009
Traccia: “Come è possibile che le matematiche, le quali in fondo sono un prodotto del
pensiero umano, dipendente dall’esperienza, siano così mirabilmente adatte agli oggetti della
realtà? È forse la ragione umana, al di fuori dell’esperienza, e solo col pensiero, in grado di
toccare a fondo le proprietà del reale?”. – A. Einstein, Conferenza all’Accademia Prussiana
delle Scienze nel 1921.
Svolgimento:
Nella conferenza all’Accademia prussiana del 1921, Albert Einstein ci fornisce implicitamente una definizione di scienza matematica: egli la intende come un prodotto della ragione
– 124 –
dell’uomo, necessitato dall’esperienza, che riesce, però, paradossalmente ad aderire perfettamente agli oggetti della realtà. Einstein si domanda a questo punto se è ragionevole immaginare che la mente umana possa con il solo pensiero, separatamente dall’esperienza, arrivare
a indagare la base di ciò che realmente esiste. Personalmente ritengo la questione sollevata
da Einstein avvincente ed ammirevole, ma allo stesso tempo opinabile.
E se la matematica non fosse soltanto il frutto del pensiero dell’uomo? Prendendo spunto
da quanto, ad esempio, si racconta di Socrate che riuscì a dimostrare come un semplice
schiavo possedesse insite in lui delle conoscenze matematiche e geometriche assolutamente
insospettabili, che egli riuscì a far venir fuori attraverso il ragionamento ed il riscontro
effettivo con la realtà, così anch’io ritengo più logico credere che alcuni aspetti della nostra
esistenza in quanto esseri umani dotati di ragione e di un “background” generazionale, siano
insiti in noi e si possano far riemergere attraverso l’esperienza della realtà.
Dati questi presupposti, non sarebbe errato affermare che la mente umana con il solo
ragionamento, può arrivare a formulare infinite ipotesi sulle proprietà del reale, compresa
quella giusta (ammesso che esista e sia una soltanto) successivamente verificabili con
l’esperienza. Dovendo riportare tutto ciò, come dovuto, ad un’esperienza reale verificabile,
mi viene in aiuto la mia esperienza di studentessa: quando studiamo qualcosa di matematica
o fisica o scienze, non siamo certo noi a creare delle nuove formule o delle nuove regole che
poi casualmente calzano alla perfezione alla realtà del mondo, ma ci occupiamo piuttosto di
verificare con l’esperienza quanto colto con la sola ragione da chi c’è stato prima di noi e che
noi stessi conserviamo inconsciamente dentro di noi.
È strano come il pensiero di uno dei più grandi matematici e fisici di tutti i tempi
riguardante proprio il concetto di matematica e realtà possa essere messo in discussione da
un banale gioco di parole. Eppure il dilemma non è stato risolto. Forse aveva ragione chi
affermava che “la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale il mondo rimane tale
e quale”?
Marina Amadori classe 2a liceo classico sez. B – a.s. 2008/2009
Traccia: Lo stato di pace fra gli uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di
natura. Questo è piuttosto uno stato di guerra, nel senso che, anche se non vi sono sempre
ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi. Dunque lo stato
di pace dev’essere istituito, perché la mancanza di ostilità non significa ancora sicurezza.
Svolgimento:
L’idea che gli uomini non siano spinti alla pace e alla solidarietà dalla loro natura ma
dall’interesse e dalla convenienza, affonda le sue radici nel pensiero di Hobbes ed è stata
ampiamente condivisa dai pensatori successivi. Fu infatti proprio questo filosofo, sconvolgendo i suoi contemporanei, a dichiarare impossibile la predisposizione al bene. La storia e
il mondo che ci circonda sembrerebbe confermarlo: se guardiamo al percorso dell’uomo dall’antichità fino ad oggi, non vediamo altro che violenza, guerre, ostilità. L’unico impulsoguida dell’uomo sarebbe dunque la ricerca del proprio utile, e la ragione, secondo Hobbes,
avrebbe semplicemente suggerito all’uomo (homini lupus) che era più conveniente sottomettersi al potere assoluto di un sovrano, piuttosto che continuare a fare la guerra ai propri
simili. Lo stesso Locke, che non solo non condivideva le idee di Hobbes, ma che era ad esse
contrario, si è comunque trovato costretto ad ammettere che l’uomo, guidato solo dalla
ragione-legge naturale dello Stato di natura, avrebbe potuto trasformare quest’ultimo in uno
stato di guerra perenne. La ragione, dunque, inesistente per Hobbes in uno stato privo di
– 125 –
leggi, non è sufficiente per Locke a garantire la pace, a meno che non sia istituito uno stato
di pace che assicuri sicurezza e stabilità. A questo punto sorge una domanda: ammesso che
si riesca a trovare il “come” istituire questo fantomatico stato di pace, a “chi” spetterebbe il
compito di farlo? A una nazione, ad un’organizzazione internazionale, ad una Chiesa? Non
sono forse queste tutte istituzioni “umane”? E quale sicurezza potrebbe derivare da uno stato
di pace istituito da uomini che, come tutti gli altri, non sono in grado di guardare ai propri
simili con sincero interessamento? Negare all’uomo ogni possibilità di amore verso il prossimo e la capacità di mantenere uno stato di pace senza celare implicite ostilità equivale,
secondo me, a negare la ragione. Hobbes credeva che nello Stato di natura prevalesse il diritto
di tutti su tutto, espressione di quella “cupiditas naturalis” che è postulato certissimo della
natura umana: quale differenza c’è, dunque, tra lo Stato di natura degli uomini e quello
abituale degli animali? Per non parlare poi della “ratio naturalis”, che i più potrebbero
banalmente leggere come istinto di sopravvivenza che, fino a prova contraria, hanno anche
gli animali. Sarebbe dunque, come dice Hobbes, soltanto la ragione calcolatrice e capace
di previsioni a colmare l’abisso tra l’uomo e l’animale? Dopo anni e anni di evoluzione, l’umanità si sarebbe auto-annientata, se l’uomo non avesse trovato, per una qualche fortunata
coincidenza, il modo di controllare i propri impulsi attraverso la legge? È vero, se guardiamo alla nostra storia con lucidità, non possiamo non accorgerci che ci sono state più guerre
che periodi di pace, e che anche oggi, nel mondo che noi altezzosamente chiamiamo “civilizzato”, non si riesce a trovare un equilibrio, un’armonia. Tuttavia credo che spiegare tutto
questo con la semplice “incapacità” dell’uomo a comportarsi diversamente, sia un modo
subdolo di giustificarlo. Non facciamo come i Manichei, che riconducevano tutti gli sbagli
umani alla natura intrinsecamente malvagia dell’uomo! Sant’Agostino non ci ha messo molto
a rendersi conto che si trattava di idee giustificatrici e inconcludenti.
Veniamo dunque ad una conclusione: il fatto che l’uomo sia sempre in guerra non vuol
dire che non sia in grado di stabilire la pace. Non si tratta di incapacità, ma di “debolezza”.
Ci sono state persone straordinarie, che per la pace e la fratellanza universali sono morte:
non erano forse questi, uomini e donne, come tutti gli altri? Lo stato di natura, per dirla
con Chabod, è un’ipotesi: l’uomo si è sempre trovato a dover interagire con il suo simile, e
la storia e la scienza ci dicono che anche gli uomini preistorici erano vissuti in comunità.
Certo, è innegabile che una delle ragioni che li ha spinti a raggrupparsi è stata la necessità,
tuttavia non è stata l’unica: la curiosità per i propri simili, il desiderio di dialogo sono scritti
nella nostra natura, ed hanno svolto la loro parte. Né lo stato di pace, né lo stato di guerra, sono
stati di natura, perché questo tanto discusso stato di natura non esiste. Esiste l’uomo, con la
sua razionalità e le sue passioni: egli può scegliere quale delle due seguire, e da questa scelta
dipenderanno i suoi rapporti con gli altri. Nella storia le passioni hanno prevalso, ma questo
non vuol dire che gli uomini non sapessero cosa stessero facendo: tra bene e male gli uomini
hanno scelto il male, perché l’hanno trovato più conveniente, e non perché non siano riusciti
a riconoscerlo come tale. Non si tratta che di questo, del “non voler” seguire la via giusta in
luogo di quella più conveniente: ogni volta che l’uomo sceglie il male piuttosto che il bene,
l’odio invece dell’amore, egli fallisce miseramente, e la sconfitta che da solo si infligge lacera
la sua anima più profondamente di qualsiasi ferita provocata da un nemico al suo corpo.
Francesco Orlando classe 3a liceo classico sez. N – a.s. 2008/2009
Traccia: “Come è possibile che le matematiche, le quali in fondo sono un prodotto del
pensiero umano, dipendente dall’esperienza, siano così mirabilmente adatte agli oggetti della
realtà? È forse la ragione umana, al di fuori dell’esperienza, e solo col pensiero, in grado di
– 126 –
toccare a fondo le proprietà del reale?”. – A. Einstein, Conferenza all’Accademia Prussiana
delle Scienze nel 1921.
Svolgimento:
“Toccare a fondo le proprietà del reale” significa propriamente sapere dell’Essere in sé,
ambito dell’epistemologia affidato, da Aristotele, alla Metafisica e poi, a seguito della
rivoluzione scientifica, conquistato progressivamente dal sapere scientifico, distinto dalla
speculazione filosofica essenzialmente per la diversità qualitativa dei quesiti che programmaticamente si propone di risolvere: com’è possibile che...?, anziché: perché ciò è come è,
e non può essere altrimenti? Qualitativamente è anche diverso il metodo operativo: mentre
la metafisica parte da princìpi logici a priori assunti per veri, onde evitare di scadere in un
inutile scetticismo assoluto, dei quali è convenzione accertarne la veridicità (cfr. il “principio
di non contraddizione”, logicamente vero per il nostro intelletto, ma non per la realtà esterna),
la scienza, grazie al metodo scientifico, sicuramente muove da postulati analitici, ma indaga
sulla realtà avanzando ipotesi, che sono empiricamente confermate da esperimenti che
condividono almeno una medesima caratteristica: dunque, lo scibile non è sostenuto da
una struttura convenzionale, ma da un confronto con l’esperienza, che ridimensiona la
razionalità umana.
La matematica è la funzione che meglio sintetizza in sé la necessità di disporre, in
un ordine spazio-temporale (Kant), i fenomeni percepiti dall’intelletto e l’indefinita contingenza del molteplice, di per sé disorganizzato, se nessuno ne coglie l’ordine. L’ordine,
infatti, sottintende delle relazioni alle quali la matematica sembra essere il linguaggio più
affine. Il risultato è la fisica moderna, la geometria non euclidea e tutto il sapere che si
esprime in un linguaggio che va di pari passo con la ragione, kantianamente intesa, per lidi
dove si parla di “cosa in sé” e non di dati sensibili. Pertanto, come la razionalità filosofica
manifesta il criticismo per ciò che è oltre lo scibile, la matematica è la funzione-interfaccia
tra il nostro intelletto, ricercatore di relazioni universali, e l’indefinito campo dell’infinito.
– 127 –
Attività di ricerca
sull’equazione dell’iperbole
riferita agli asintoti
Il lavoro di ricerca che segue ha come argomento una dimostrazione che, utilizzando
la geometria sintetica e tecniche di calcolo elementari, permette di ricavare in
modo semplice e rapido l’equazione dell’iperbole equilatera riferita agli asintoti in
alternativa ad altri procedimenti tradizionali.
Prof.ssa Elisa Valcavi
INTRODUZIONE
Tema principale dello studio della matematica nel II liceo classico è la geometria
analitica. Con la geometria analitica si mettono in relazione le proprietà algebriche di
un’equazione con le corrispondenti proprietà geometriche delle curve che le rappresentano sul piano cartesiano. Le coniche sono appunto delle curve che vengono analizzate
utilizzando le tecniche della geometria analitica. Queste curve si chiamano così perché
si formano dall’intersezione nello spazio di una superficie conica con una superficie
piana e una di queste curve è appunto l’iperbole. Esse vengono introdotte come luoghi
geometrici cioè come insieme di punti del piano che gode di una determinata proprietà.
Da qui la definizione geometrica dell’iperbole: assegnati nel piano due punti F1 ed F2,
detti fuochi, si chiama iperbole la curva piana luogo geometrico dei punti P che
hanno costante la differenza delle distanze da F1 e da F2. In base a questa definizione
appaiono chiari gli assi di simmetria della figura: il primo corrisponde alla retta passante
per i fuochi ed il secondo alla sua perpendicolare passante per il punto medio tra i due
fuochi (centro di simmetria dell’iperbole). A questo punto, per studiare l’equazione che
rappresenta questa curva, dobbiamo introdurre un sistema di riferimento cartesiano e, se
vogliamo scegliere il più congeniale, faremo in modo che gli assi cartesiani coincidano
con gli assi di simmetria. Pertanto se i fuochi si trovano sull’asse delle ascisse, detta 2c
la distanza tra i fuochi, le loro coordinate saranno F1(-c;0) ed F2(+c;0) e, detta 2a la
differenza delle distanze dai fuochi del punto P(x;y), l’equazione dell’iperbole con
gli assi cartesiani coincidenti con gli assi di simmetria (equazione canonica) sarà:
y2 l, con b2 c2 -a2.
x__2 - __
=
=
2
a b2
La simmetria dell’iperbole
rispetto agli assi cartesiani
si ritrova nell’equazione che
la rappresenta in quanto la variabile x e la variabile y compaiono solo elevate al quadrato
e quindi, se P(x;y) è un punto
dell’iperbole, anche P’(-x;y),
P’’(x;-y) e P’’’(-x;-y) saranno
punti dell’iperbole.
– 128 –
Tutte le caratteristiche della figura geometrica sono in relazione con le proprietà
dell’equazione ed in particolare, solo nel caso dell’iperbole, noi possiamo introdurre un
nuovo concetto matematico: gli
asintoti dell’iperbole. Se si considerano le rette di equazione:
-b x
y = _b x e y = __
a
a
Tutti i punti dell’iperbole
sono interni alle porzioni di piano delimitate dagli asintoti ed
inoltre “la curva, allontanandosi
dall’origine, si avvicina sempre
di più a queste rette senza mai
intersecarle”.
Nel caso particolare in cui a = b, l’equazione dell’iperbole diventa: x2 - y2 = a2 e gli asintoti
coincidono con le bisettrici del I e III
quadrante e del II e IV quadrante con
equazione y = x e y = -x. La cosa interessante è che, essendo queste bisettrici perpendicolari tra loro, si può
studiare come cambi l’equazione
dell’iperbole se si cambia sistema di
riferimento scegliendo come assi
cartesiani gli asintoti della curva. Se
chiamiamo OX’Y’ il sistema di riferimento che ha per assi gli asintoti,
le proiezioni ortogonali del punto P
sugli assi saranno per definizione le
sue coordinate x’ e y’.
Nel nuovo sistema di riferimento l’equazione
è x’y’ = k dove k è una costante, pertanto l’iperbole equilatera in questo nuovo sistema di riferimento è la rappresentazione grafica di due grandezze
inversamente proporzionali tra loro.
– 129 –
EQUAZIONE DELL’IPERBOLE EQUILATERA
RIFERITA AGLI ASINTOTI
HP: P appartenente all’iperbole equilatera di equazione
x2 - y2 = a2 nel sistema di
riferimento OXY, con gli
assi cartesiani coincidenti
con gli assi di simmetria.
TH: Nel sistema di riferimento
OX’Y’, con gli assi cartesiani coincidenti con
gli asintoti, le coordinate
del punto P soddisfano
l’equazione x’y’ = k, con
a2
k = __
2
DIMOSTRAZIONE
Considero il triangolo rettangolo isoscele OEF
___ ___ _
OF = OE √ 2 per il teorema di Pitagora.
Essendo, α = PÂF perché angoli corrispondenti rispetto alle parallele EO e PB e alla trasversale OF, anche il triangolo APF è un triangolo rettangolo isoscele e pertanto l’altezza
PH, relativa all’ipotenusa, lo dividerà in due triangoli rettangoli isosceli.
~ PH.
Considero il triangolo rettangolo isoscele PHF con HF =
Essendo
___
___
OE = y’ e OB = x’
___
___
PH = y e OH = x
si avrà
___ ___ ___
+
x+
___
________
_ = OH
_ HF = ____
_y
y’ = OF
√2
√2
√2
Considero il triangolo rettangolo isoscele OAB
___ ___ _
OA = OB √ 2 per il teorema di Pitagora.
– 130 –
Essendo PH altezza del triangolo isoscele APF, poiché l’altezza è anche mediana, si
avrà:
___ ___ __
- _AH ___
x-y
___ OH
_______
x’ = OA
=
= _ .
√2
√2
√2
Scomponendo in fattori: x2-y2 = (x-y)(x+y).
_
_
Essendo: x-y = x’√ 2 e x+y = y’√ 2,
sostituendo si avrà: x2-y2 = 2x’ y’.
Ma poiché x2-y2 = a2 per ipotesi, sarà 2x’ y’ = a2.
2
a c.v.d.
Pertanto x’ y’ = __
2
Francesco Lancellotti III C
– 131 –
MAURIZIO CASTELLAN
Miscellanea di matematica
INTRODUZIONE
Il primo contributo è un argomento di goniometria: si offre una trattazione generale della
risoluzione delle equazioni goniometriche omogenee di primo e di secondo grado.
Il secondo contributo è una variante di un classico problema di Matematica ricreativa
noto come il problema della “scacchiera mutilata”.
Il terzo contributo tratta alcune proprietà delle operazioni nell’insieme dei numeri
naturali.
Il quarto contributo si occupa di un teorema che utilizza solo i primi assiomi della
Geometria Euclidea (Geometria Assoluta).
ATTIVITÀ DI RICERCA N° 1
Premessa
•
Si dice equazione omogenea di primo grado in seno e coseno ogni equazione della
forma:
a sin x+b cos x = 0
•
Si dice equazione omogenea di secondo grado in seno e coseno ogni equazione della
forma:
a sin2 x+b sin x cos x+c cos2 x = 0
Il procedimento ordinario per la loro risoluzione è il passaggio alle equazioni che si
ottengono dividendo membro a membro per cos x per le equazioni di 1° grado e cos2 x per
___x ) le equazioni in tgx seguenti:
quelle di 2° grado, ottenendo così (essendo tgx = sen
cos x
atgx+b = 0
atg2x+btg+c = 0
Queste due equazioni sono equivalenti a quelle di partenze nel dominio
D = R-{x|x = (2k+1)900, con k ∈ Z}
notiamo infatti che per i valori x = (2k+1)900, con k ∈ Z il primo membro delle equazioni in
tgx perdono di significato (tgx non è definita in tali valori) mentre non perdono significato
le equazioni di partenza. Se si vogliono conoscere le soluzioni delle equazioni di partenza in
tutto R alle soluzioni delle equazioni in tg occorre aggiungere le eventuali soluzioni del tipo
x = (2k+1)900, con k ∈ Z.
– 132 –
Le note che seguono stabiliscono in quali casi le equazioni di partenza hanno soluzioni
di questo tipo.
Equazioni omogenee di 1° grado.
Proposizione 1
Una equazione omogenea di primo grado in seno e coseno: a sin x+b cos x = 0
ha soluzioni del tipo x = (2k+1)900, con k ∈ Z sse a = 0
Dim.
a sin ((2k+1)900)+b cos ((2k+1)900) = 0
± a+0 = 0
quindi ci sono soluzioni del tipo x = (2k+1)900, con k ∈ Z se e soltanto se a = 0.
Proposizione 2
Data una equazione omogenea di secondo grado in seno e coseno:
a sin2 x+b sin x cos x+c cos2 x = 0
(i) se a = 0 l’equazione in tg(x) associata è lineare: btgx+c = 0,
i valori del tipo x = (2k+1)900, con k ∈ Z sono soluzioni;
(ii) se a ≠ 0 l’equazione in tg(x) associata è di secondo grado: atg2x+btg+c = 0,
i valori del tipo x = (2k+1)900, con k ∈ Z non sono soluzioni
Dim.(i) a = 0
b________________
sin x cos x+c cos2 x ____
0
= 2
2
cos x
cos x
btgx+c = 0
e
b sin ((2k+1)900) cos ((2k+1)900)+b cos2 ((2k+1)900) = 0
Dim.(ii) a ≠ 0
a sin2 x+b sin x cos x+c cos2 x ____
0
______________________
= 2
2
cos x
cos x
atg2 x btg+c = 0
– 133 –
e
a sin2 x+b sin x cos x+c cos2 x = 0
a sin2 ((2k+1)900)+b sin ((2k+1)900) cos ((2k+1)900)+c cos2 ((2k+1)900) = 0
a=0
Silvia Fedi
classe 2ª H (P.N.I.), a.s. 2008-2009
ATTIVITÀ DI RICERCA N° 2
Introduzione
Come è noto il problema di matematica ricreativa soprannominato “il problema della
scacchiera mutilata” [1] nasce dalla domanda: “se si eliminano le due caselle bianche poste
ai vertici di una scacchiera 8×8 è possibile ricoprire esattamente senza sovrapposizioni la
superficie restante con 31 tesserine rettangolari di dimensioni 1 e 2 volte il lato di una
casella?”
La risposta è no e lo si può provare con il seguente semplice ragionamento [1].
Si parte dalla considerazione ovvia che ogni tesserina posta sulla scacchiera copre sempre
una casella nera e una casella bianca; ne segue che dopo aver utilizzato le prime 30 tesserine
sono state coperte 30 caselle nere e 30 caselle bianche: restano scoperte solo due caselle
entrambe di colore nero che l’ultima tesserina non potrà mai ricoprire!
Con il medesimo ragionamento si prova che il problema non ha soluzione anche nel
caso le due caselle asportate, purché dello stesso colore, non siano ai vertici della scacchiera.
Si può inoltre provare che se le tessere sono di colore differente il problema ha sempre
soluzione.
Tutto ciò può essere espresso nel seguente modo:
Proposizione 1
Condizione necessaria e sufficiente affinché la scacchiera
mutilata sia ricoperta dalle tesserine è che le due caselle tolte siano
di colore differente.
Proviamo ora a generalizzare il problema con una scacchiera
6×6 che si vuole ricoprire con tasselli di dimensioni 1 e 3 volte il lato
di una casella, dopo aver eliminato tre caselle in alto a sinistra come
in figura:
– 134 –
Proposizione 2
Non è possibile tassellare la superficie in figura con tasselli 1×3
Dimostrazione
Si può utilizzare il ragionamento fatto all’inizio per la scacchiera mutilata, utilizzando però 3 colori.
Si parte dalla considerazione ovvia che ogni tesserina posta sulla scacchiera copre sempre una casella nera, una casella bianca e
una grigia; ne segue che dopo aver utilizzato le prime 10 tesserine
sono state coperte 10 caselle nere, 10 caselle bianche e 10 caselle
grigie: restano scoperte due caselle grigie e una nera che l’ultima
tesserina non potrà mai ricoprire!
Con il medesimo ragionamento si prova che il problema non ha
soluzione anche nel caso le tre caselle asportate, purché due dello stesso colore, non siano
quelle in alto a destra..
Osserviamo infine che in questa variante, a differenza del caso classico, se si tolgono
tre caselle di colore differenti, la soluzione del problema non è garantita, come risulta nel
seguente esempio:
La casella A non può essere tassellata.
Bibliografia:
[1] M. GARDNER, Enigmi e giochi matematici, Vol. 1, Sansoni, Firenze 1972.
Fabio Moricca
classe 4ª H (P.N.I.), a.s. 2008-2009
ATTIVITÀ DI RICERCA N° 3
Premessa
Elenchiamo alcune definizioni ed assiomi dei numeri naturali.
– 135 –
Definizione di differenza
a-b = c se b+c = a
Assioma (proprietà distributiva del prodotto rispetto alla somma)
a (b+c) = ab+ac
Siamo ora in grado di dimostrare il seguente teorema
Teorema (proprietà distributiva del prodotto rispetto alla differenza)
a (b-c) = ab-ac
Dimostrazione
Proviamo a sommare ac e a(b-c):
ac+a(b-c) per l’assioma si ha: ac+a(b-c) = a(c+(b-c)) e per la definizione di differenza:
ac+a(b-c) = a(c+(b-c)) = ab; ma allora ancora per la definizione di differenza applicata a
ac e ab si ha: ab-ac = a(b-c).
Q.E.D.
Simone Moretti
classe 4ª H (P.N.I.), a.s. 2008-2009
ATTIVITÀ DI RICERCA N° 4
Premessa
Elenchiamo gli assiomi della geometria Euclidea che verranno utilizzati.
Assiomi di appartenenza
0)
1)
2)
3)
Esistono almeno due punti distinti.
Ogni coppia di punti A e B distinti appartiene ad una e una sola retta.
Data una retta r, esiste almeno un punto che non appartiene ad r.
Data una retta r esistono almeno due punti distinti che appartengono ad r.
Assiomi di ordinamento
4) Data una retta r e due suoi punti P e Q esiste un punto della retta S compreso tra P e Q.
– 136 –
Teorema
Per ogni punto P esistono due rette che non lo contengono.
Dimostrazione
Considerato il punto P, per l’assioma (0) esiste almeno un altro punto Q distinto da P, e
per l’assioma (1) esiste la retta r che passa per P e per Q.
Per l’assioma (4) esiste sulla retta r un punto Z compreso tra P e Q, e per l’assioma (2),
un punto B esterno alla retta r.
Ancora per l’assioma (1) esistono la retta s passante per B e Q e la retta t passante per B
e Z.
Ora la retta s non può passare per P, altrimenti le rette s e r per l’assioma (1) (passando
ambedue per P e Q) dovrebbero coincidere, con la conseguenza che anche B apparterrebbe
alla retta r, ma questo è assurdo perché B è esterno alla retta r. Analogamente si dimostra che
P non appartiene alla retta t.
Q.E.D.
Ludovica Gallo
Violetta Tulelli
GiorgioPiccinini
Valerio Vitali
Giulia Scalia
classe 4ª H (P.N.I.), a.s. 2008-2009
– 137 –
MARCO PESCETELLI
Lezione sul genere poetico
Ho letto le vostre definizioni di poesia (una ventina di foglietti in tutto). Quello che
ne viene fuori, giustamente, è un quadro molto variegato, composto di corrispondenze, ma
anche di contrasti. Si oscilla tra un’idea di poesia come espressione immediata di sentimenti
a un’idea di poesia come espressione mediata di pensieri, si oscilla tra un’idea di poesia come
attività facile, naturale a un’idea di poesia come tormento. E ci sono tante altre polarità:
• poesia come regno della soggettività, oppure
• poesia come regno dell’assoluta oggettività.
Qualcuno ha scritto: «La poesia è quel mezzo che permette di esprimere ciò che è veramente importante agli occhi del poeta e su cui, sempre a suo parere, è opportuno riflettere».
Dunque assoluta soggettività. Qualcun altro invece ha scritto: «La poesia è un insieme di
immagini che colpiscono il poeta senza che sia lui a cercarle. Non è sostitutiva della vita, ma
è una dimensione diversa, un altro modo di vedere il mondo, senza fare scelte, ma fotografando la realtà nel suo insieme». Qui la poesia è paragonata alla fotografia. E coerentemente
viene descritta come «un insieme di immagini che colpiscono il poeta senza che sia lui a
cercarle», dunque un movimento dall’esterno verso l’interno, come se queste immagini
fossero la luce che s’imprime su una pellicola fotografica. Assoluta oggettività. Ho poi trovato
definizioni di poesia come evasione, da una parte, e di poesia come azione, dall’altra. «La
poesia è evasione, è un mondo incantato» ho letto su un foglietto, «è un viaggio intellettuale
che ti fa evadere dalla Realtà». Su un altro foglio invece ho letto: «poesia è fare, creare qualcosa di nuovo e di vivo». E credo che questa affermazione non si riferisca soltanto all’ambito
letterario, cioè «creare qualcosa di nuovo e di vivo» nella tradizione letteraria, ma forse si
riferisce anche all’impatto che una poesia può avere sulla realtà.
David Maria Turoldo ha scritto:
[...] un solo verso,
fessura sull’infinito come
il costato aperto di Cristo -, anche
un solo verso può fare
«più grande l’universo».
(ST, In ricordo di Pessoa 9-13).
Dunque un verso può allargare, può espandere l’universo, e non solo quello letterario.
Altrove Turoldo ha scritto che
Poesia
è rifare il mondo, dopo
il discorso devastatore
del mercadante
(ST, Poesia).
Quindi la poesia sarebbe una riformulazione più umana del mondo. Turoldo, come il
suo amico Pasolini, era un poeta civile. Entrambi credevano seriamente nella possibilità di
cambiare le cose attraverso le parole, ed entrambi, seppur in modo diverso, hanno pagato
il prezzo di questa convinzione. Credo però che gran parte della poesia – per non dire tutta –
sia, in ultima analisi, poesia civile, in quanto alternativa appunto al discorso del mercadante,
alternativa al vuoto di senso di altri linguaggi, come quello mediatico, ad esempio.
– 138 –
Continuiamo la rassegna delle vostre definizioni. Alcune pongono problemi interpretativi, ermeneutici. Uno di voi ha fatto precedere alla definizione di poesia tre domande retoriche: «Si può definire la poesia? Si può pretendere di capire l’espressione più irrazionale d’un
uomo? Si può essere certi nel trovare un significato?». La risposta implicita, ovviamente, è
“no”, infatti conclude: «La poesia è una frase ambigua che ognuno capisce in modo diverso...»
(e quest’affermazione termina con tre puntini di sospensione, come a rappresentare l’ambiguità della poesia e tutte le sue possibili interpretazioni). E qualcuno ha addirittura usato i tre
puntini di sospensione come definizione di poesia: «Poesia è...». Poesia sarebbe ambiguità,
e di qui il relativismo che investe ogni possibile interpretazione. Mi viene in mente quel che
diceva Calvino a proposito della fiaba: chi comanda al racconto non è la voce, è l’orecchio.
E quindi è chi ascolta, o chi legge ad avere un ruolo determinante in quello scambio di produzione e ricezione che è la letteratura.
Ora vorrei che foste voi a leggere quello che avete scritto. Vorrei provare a fare dialogare le varie definizioni di poesia:
(definizioni dei ragazzi)
sentimento, emozione, immediatezza, soggettività
•
È la capacità di esprimere le proprie emozioni più profonde.
Espressione del sentimento interiore (Ungaretti, Montale, Neruda, Brecht).
•
La poesia per me è l’espressione immediata di sentimenti vissuti dall’autore che quasi
spontaneamente, per necessità, vengono fuori e vanno trasposti. È questa quindi un’esperienza personale (Montale, Ungaretti, Pascoli, D’Annunzio).
•
La poesia è una forma di espressione nella quale l’artista cerca di esprimere la sua forma
più intima di pensiero.
...specchio dell’anima... (Ungaretti, Primo Levi, Quasimodo, Brecht).
•
La poesia è l’espressione di sentimenti, situazioni, stati d’animo (Montale, Ungaretti,
D’Annunzio, Pascoli).
•
Forse è l’espressione dei movimenti dell’anima di una persona, anche se propriamente
non so cosa intendo (Ungaretti, Whitman, D’Annunzio, Cechov, Brecht).
•
La poesia è una sensazione che nasce dal di dentro, è la descrizione di un’emozione. Lega la scrittura, le parole, con i sentimenti.
•
È un modo abbastanza libero per esprimere direttamente le proprie sensazioni, emozioni,
problemi, etc... senza dover per forza razionalizzare il tutto.
Cosa accomuna queste definizioni? Qui l’essenza della poesia è colta nel sentimento, nell’emozione. Poesia sarebbe l’espressione della propria intimità. Sarebbe un’effusione sentimentale, quasi un travaso su carta della propria interiorità, senza filtri, senza sovrastrutture,
senza mediazioni di carattere razionale... È una visione, credo, un po’ limitante dell’attività
poetica. Poesia diventerebbe sinonimo di confessione, se non addirittura di seduta psicanalitica. Qualcuno di voi ha accennato a un valore terapeutico della poesia: «La poesia è una
– 139 –
forma di espressione artistica che permette di esprimere i sentimenti, anche quelli più viscerali, e può aiutare il poeta in dissidio con il mondo». Sottoscrivo, la poesia è una valvola di
sfogo per chi scrive, ma non esiste soltanto una poesia egocentrica, incentrata sull’io.
Credo che questo pregiudizio - cioè l’abbinamento automatico tra poesia e diario, tra poesia
e lirismo - derivi dal peso che ha avuto nel nostro immaginario l’ermetismo di Ungaretti.
Soprattutto l’Ungaretti dell’Allegria. E forse anche il petrarchismo.
Ma la poesia è anche altro.
1. La rottura di una tradizione intesa come discorso lirico incentrato sul soggetto può essere
individuata nell’opera di Aldo Palazzeschi. Egli esce dalle convenzioni seriose del discorso
lirico e propone un tipo di poesia decisamente anti-lirica. L’io non è più in primo piano,
il discorso diventa impersonale. Spesso vengono messi in parodia i temi lirici tradizionali.
Vedi l’esempio (1) qui riportato:
Lasciatemi divertire. Canzonetta:
Tri tri tri
fru fru fru,
uhi uhi uhi
ihu ihu ihu.
Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente.
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.
Cucù rurù,
rurù cucù,
cùccu ccurucù!
Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche.
Sono la mia passione.
Fàrafàra farafà,
tàratàra taratà,
pàrapàra parapà,
làralàra laralà!
Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la... spazzatura
delle altre poesie.
[...]
– 140 –
Insomma, Palazzeschi rompe con la tradizione. Appartiene alla cosiddetta avanguardia
futurista. E nella storia della poesia italiana assistiamo ad un altro momento di rottura con la
tradizione, col passato: la neoavanguardia degli anni Sessanta, il famoso Gruppo 63, che ha
avuto tra gli esponenti di punta Edoardo Sanguineti. Sanguineti ha scritto recentemente: «Ho
appartenuto a una generazione che aveva la possibilità – una possibilità in cui credevo –
di farla finita con il lirismo, con la metafisica della poesia, con tutti i modi del “poetese”, con
la separatezza della poesia». La sua era una guerra contro la poesia intesa come dominio del
sublime, come codice separato e superiore. Ma non voglio farvi adesso una storia della poesia,
volevo semplicemente ricordare che esistono poesie anti-liriche.
Esempio (2): prendiamo Toti Scialoja (un autore contemporaneo, morto pochi anni fa –
1998). Toti Scialoja ha pubblicato un libro di versi intitolato Poesie con animali. Sono brevi
testi, quasi filastrocche: «Vive a Zara / anzi vi langue / la zanzara senza zeta / non s’azzarda a
succhiar sangue / ma nient’altro la disseta». È un esempio tra i tanti che si potrebbero fare di
poesia senza un io in primo piano e senza nessun tipo di effusione sentimentale o afflato
lirico. Definire la poesia unicamente come espressione di un sentimento significa anche
spogliarla del potenziale ironico che potrebbe avere. E l’ironia, l’anti-lirismo hanno caratterizzato la poesia di tutti tempi, non sono una novità novecentesca.
2.
Poesia comica e dialettale
Esempio (3): pensate ai poeti comico-realistici del Duecento o a Vincenzo Gioacchino
Belli, il poeta dialettale romano. Belli viveva e scriveva nella Roma papalina del primo
Ottocento e le sue poesie ci restituiscono con grande ironia l’ambiente popolare dell’epoca,
intriso di una religiosità superficiale, di facciata:
Er giorno der giudizzio
Quattro angioloni co’ le tromme ‘n bocca
Se metteranno uno pe’ cantone
A ssonà: poi co’ tanto de vocione
Cominceranno a dì: “Fôra a chi ttocca”.
Allora vierà ssù ‘na filastrocca
De schertri da la terra a pecorone,
Pe’ ripijà ffigura de perzone,
Come purcini attorno de la bbiocca [la biocca è la ‘chioccia’, la gallina che alleva i pulcini]
E ‘sta bbiocca sarà Dio bbenedetto,
Che ne farà ddu’ parte, bianca, e nera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.
All’urtimo uscirà ‘na sonaijera
D’angioli e, come si ss’annassi a letto,
Smorzeranno li lumi, e bbona sera.
Torniamo alle nostre definizioni. Poco fa abbiamo accennato al concetto di tradizione letteraria in rapporto a due momenti di frattura: l’avanguardia e la neoavanguardia. Quello che
manca nel gruppo di foglietti che abbiamo letto finora è proprio l’ipotesi della profondità storica dell’attività poetica, del fatto che se si scrive è perché c’è una tradizione letteraria alle
spalle, e la poesia è innanzitutto un dialogo tra poeti, contemporanei o appartenenti a epoche
diverse. Se no appiattiamo tutto sul presente, o ancora peggio, sulla dimensione individuale.
– 141 –
Se diciamo che «la poesia è l’espressione immediata di sentimenti vissuti dall’autore
che quasi spontaneamente, per necessità, vengono fuori» escludiamo una comunicazione col
passato e col presente letterario. Promuoviamo un mito di verginità creativa, di verginità
artistica che non esiste. Calvino diceva che la letteratura è un lavoro in comune. C’è un
canone, insomma, a cui possiamo aderire, o a cui possiamo reagire – come hanno fatto le
avanguardie – ma quello che ci precede e quello che ci sta intorno non lo possiamo ignorare.
Un esempio: nella raccolta Canti ultimi (1991) David Maria Turoldo scrive:
Parole, e segni, e immagini,
ringhiere alle nostre solitudini
(CU, In muta attesa 1-2).
Il senso di questi due versi è che le parole, i segni e le immagini possono alleviare il
nostro senso di solitudine, sono come ringhiere cui possiamo appoggiarci. Ma soffermiamoci
sull’immagine «ringhiere alle nostre solitudini». Le solitudini si appoggiano alle ringhiere,
l’immateriale si appoggia al materiale. Questa metafora, se noi andiamo a scavare, non è una
pura invenzione di Turoldo, non è una genuina espressione del suo mondo interiore, ma è un
vero e proprio topos letterario inaugurato da Corrado Govoni. Govoni all’inizio del Novecento
scrive «La tristezza s’appoggia a una spalliera»1 (anche qui l’immateriale s’appoggia al
materiale), e pochi anni dopo Giuseppe Ungaretti scriverà i famosi versi della poesia Stasera2
Balaustrata di brezza
per appoggiare stasera
la mia malinconia.
Dunque Govoni, Ungaretti e Turoldo rappresentano tre momenti di una tradizione letteraria. Tra i loro testi c’è un rapporto di parentela. Questo è un esempio di come la parola poetica non sia mai isolata, irrelata. No. La parola poetica è parola plurale (vedi AA.VV., Parola
plurale. Sessantaquattro poeti fra due secoli, Sossella, Roma 2005; E. Testa, Dopo la lirica.
Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005). La parola poetica non è parola singolare,
è parola plurale. È parola – potremmo dire – ‘abitata’. Abitata dalla tradizione letteraria,
abitata dalla storia (anche contemporanea, ovviamente). Nel caso di un poeta religioso come
Turoldo, abitata dalla Bibbia e dalla tradizione mistica. Direi che la parola ‘abitata’ della
poesia è l’esatto contrario della parola ‘disabitata’ di certo linguaggio politico attuale in cui
la parola è leggera, senza spessore, detta e contraddetta.
Non vorrei però essere frainteso sostenendo che la poesia è un dialogo tra poeti. Non
vorrei che pensaste che la partita si gioca solo su un campo letterario. Mi ha colpito una frase
che è stata letta prima, in cui uno di voi ha scritto che la poesia «non è sostitutiva della vita».
Io concordo. La poesia si nutre di poesia, ma si nutre anche di vissuto. Prima accennavamo
all’impatto della poesia sulla realtà. Ma vale la legge della reversibilità. Non dimentichiamo
l’impatto della realtà sulla poesia. [Editore: «continua a leggere»... «io devo continuare a vivere». Londra-L’infinità decrescente di Piermario Giovannone]. Insomma, vedrei il binomio
vita-poesia in termini di compenetrazione più che di contrapposizione.
Ora vorrei che leggessimo altre definizioni, perché ciò che abbiamo letto finora è troppo
generico, potrebbe valere anche per altre forme di espressione artistica, come la musica,
o l’arte figurativa. Possiamo fare una prova. Proviamo a sostituire a “poesia” la parola
“canzone” e a rileggere alcune definizioni: «la canzone è la capacità di esprimere le proprie
1
C. Govoni, Crepuscolo ferrarese 23, in Id., Poesie (1903-1959), a c. di G. Ravegnani, Milano, Mondadori, 1961,
p. 103.
2
G. Ungaretti, L’Allegria, a c. di C. Maggi Romano, Milano, Mondadori, 1982, p. 114.
– 142 –
emozioni più profonde», «la canzone è l’espressione del sentimento interiore». Direi che
funziona. Proviamo a sostituire a “poesia” “pittura” (leggo altre definizioni): «la pittura è
l’espressione di sentimenti, situazioni, stati d’animo» (non fa una grinza), «la pittura è un
modo abbastanza libero per esprimere direttamente le proprie sensazioni, emozioni, problemi, etc... senza dover per forza razionalizzare il tutto». Funziona anche in questo caso. Proviamo a sostituire a “poesia” la parola – scusate il termine – “incazzatura”: «l’incazzatura è
un modo abbastanza libero per esprimere direttamente le proprie sensazioni, emozioni, problemi, etc... senza dover per forza razionalizzare il tutto». Purtroppo funziona anche in questo
caso.
Dunque dobbiamo spingerci oltre, dobbiamo cercare altrove lo specifico della poesia, non
perché quello che è stato detto finora sia sbagliato, ma perché non è sufficiente. Sarebbe
riduttivo definire la poesia come personale sfogo emotivo.
Raziocinio
•
La poesia è espressione di un particolare stato d’animo, di un sentimento e della propria
visione del mondo: la poesia è espressione di se stessi.
•
La poesia è l’espressione della propria visione della vita. La poesia è influenzata dagli
avvenimenti personali dell’artista. Con la poesia egli esprime le sue sensazioni.
•
La poesia è un tormentato tentativo di mettere per iscritto un determinato pensiero
scaturito da un sentimento più o meno forte, più o meno vano (cfr. Ungaretti).
Siamo ancora nell’ambito del sentimento, della poesia confessionale, ma si affaccia un
nuovo elemento: quello della razionalità, della riflessione raziocinante (compaiono espressioni come «visione del mondo», «visione della vita»: Weltangshaung...). L’affacciarsi della
componente razionale porta addirittura all’ipotesi del tormento («la poesia è un tormentato
tentativo di mettere per iscritto un determinato pensiero»). Direi che siamo arrivati a bilanciare la componente irrazionale, emotiva delle precedenti definizioni. Poesia è sentimento,
ma non solo: è anche pensiero. Ma è sufficiente? Proviamo a aggiungere ancora qualche elemento.
Versi, valori ritmico-musicali
•
La poesia è un’espressione letteraria in versi in cui il poeta cerca di esprimere i suoi
sentimenti più intimi.
•
La poesia per me è il tentativo di mettere in parole le sensazioni e i sentimenti di chi
scrive in una forma letteraria il più possibile armoniosa. Riesce difficile pensare come
essa possa essere spontanea dal momento che il più delle volte le parole vogliono essere
incastrate in rime e metri che richiedono un ragionamento più elaborato del semplice
esprimere pensieri che scaturiscono dall’ispirazione (D’Annunzio, Pascoli, Hardy).
•
La poesia è un misto di intuizione e tecnica. Il poeta è colui che sa esprimere con
la parola più giusta sistemata nel posto giusto nel verso ciò che intuitivamente viene
provocato in lui da un’esperienza.
•
La poesia è una forma di espressione che mira alla musicalità e al rendimento dell’aspetto intimo della personalità del poeta.
– 143 –
In queste definizioni compaiono parole come verso, metro, rima, musicalità, ecc. Siamo
arrivati a una definizione più tecnica di poesia, una definizione che contempla i valori ritmicofonici che caratterizzano da sempre il linguaggio poetico. Gian Luigi Beccaria ha scritto un importante saggio negli anni Settanta, in piena epoca strutturalista: L’autonomia del significante.
Il significante, come sapete, è la sostanza fonica, la sostanza fonico-acustica
di una lingua (se ad esempio voglio nominare quest’oggetto, in italiano mi servirò dei suoni
“foglio”, in inglese dei suoni “sheet”: foglio e sheet sono due significanti). In poesia il significante assume un’importanza che non ha nel linguaggio parlato e non ha nella prosa. Beccaria
cita un passo di un saggio di Roland Barthes, che sostiene che tra prosa e poesia ci sia una differenza quantitativa e non qualitativa, una differenza sintetizzabile in una doppia equazione.
Se a, b, e c sono il metro, la rima e le figure di suono – es. allitterazione, assonanza, consonanza, ecc.
Poesia = Prosa +a+b+c
Prosa = Poesia -a-b-c
Un esempio dell’importanza del significante in poesia è il fenomeno del fonosimbolismo.
Sapete cos’è? Il fonosimbolismo è la corrispondenza analogica tra significante e significato.
Il significante asseconda il significato. Il fonosimbolismo è stato definito anche ‘metafora
acustica’. L’esempio più lampante è l’onomatopea: splash. Ma il fonosimbolismo può manifestarsi anche in altri modi, in modo più discreto rispetto all’evidenza sonora dell’onomatopea.
Attraverso l’allitterazione e l’assonanza.
Esempio: può serpeggiare tra le parole di interi versi: «Tra l’erba e’ fior venìa la mala
striscia, / volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso / leccando come bestia che si liscia».3 Le
sibilanti di testa, dosso, bestia rappresenterebbero i sibili della serpe, mentre i suoni di striscia
e liscia suggerirebbero i suoi fruscii. Una simile testura di sibilanti ritorna nei versi di Diego
Valeri, un poeta del Novecento, ancora una volta collegata allo strisciare di una serpe:
«scivolano lungo muri lisci, / dileguavano via, serpenti, / con fischi lunghi e lenti strisci...».4
Il fonosimbolismo è un fenomeno antichissimo, presente già in epoca classica. Si cita
normalmente l’esametro virgiliano «Quàdrupedànte putrèm sonitù quatit ùngula càmpum» (lo
zoccolo percuote il campo polveroso con quadrupede rimbombo), dove il rimbombo degli
zoccoli del cavallo è reso attraverso l’allitterazione di dentali (d, t) e velari (k). «Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum»: sembra di sentire il galoppo del cavallo, reso anche dalla successione dei piedi dattilici. Beccaria, però, avanza l’ipotesi che il significante
in poesia non si limiti ad assecondare il significato, ma assuma una propria indipendenza,
una propria autonomia, fondata sul gioco delle rime, delle assonanze, delle consonanze: una
sorta di orchestrazione, di sinfonia
Discendi all’orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d’essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; [...]
(E. Montale, «Ossi di seppia», Arsenio 13-17)
DiscENDI all’orizzONTE che sovrasta
una trOMBA di piOMBO, alta sui gorghi,
più d’essi vagabONDA: salso nEMBO
vorticANTE, soffiato dal rib[elle]
[ele]mento [alle] nubi; [...].
3
4
Pg VIII 100-102 (valletta dei principi negligenti, Sordello indica la biscia).
D. Valeri, Scherzo e finale, Dicembre 11-13.
– 144 –
È un testo accordato (I-III verso: consonanza endi, onda; I-IV: onte, ante; II-III verso: omba, ombo, embo; IV-V verso: consonanza-assonanza elle, ele, alle). In questo caso il significante assume un’autonomia dal significato, e diventa eventualmente portatore di propri significati, evoca dei significati che appartengono ad una sfera irrazionale, non definibile.
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
sorgenti, sorgenti che sanno
sorgenti che sanno che spiriti stanno
che spiriti stanno a ascoltare...
Ascolta: [...]
(D. Campana, «Canti orfici», Il canto della tenebra 4-8).
Sembra una formula magica. Questo ritmo regolare e tutte queste iterazioni lessicali
(sorgenti-sorgenti, sanno-sanno, stanno-stanno, ascoltare-ascolta) creano una sorta d’incantesimo sonoro, di «gorgo canoro», come ha scritto De Robertis. E credo che fare luce in questo gorgo sia pressoché impossibile. Il significante qui sprigiona la sua magia, la sua forza
evocativa.
E leggiamo il terzo testo che ho riportato, di Edoardo Sanguineti. La poesia di Sanguineti è una lunga elencazione, costruita su analogie foniche. Un suono genera un altro suono, un significante origina un altro significante:
nella mia vita ho già visto le giacche, i coleotteri, un inferno stravolto da un Doré5
il colera, i colori, il mare, i marmi: e una piazza di Oslo, e il Grand Hôtel
des Palmes, le buste, i busti:
ho già visto il settemezzo, gli anagrammi, gli ettogrammi, i panettoni, i corsari, i casini, i monumenti a Mazzini, i pulcini, i bambini,
Ridolini:
ho già visto i fucilati del 3 maggio (ma riprodotti appena in bianco
e nero), i torturati di giugno, i massacrati di settembre, gli impiccati di marzo,
di dicembre: e il sesso di mia madre e di mio padre: e il vuoto, e il vero, e il verme
inerme, e le terme:
ho già visto il neutrino, il neutrone, con il fotone, con l’elettrone
(in rappresentazione grafica, schematica): con il pentamerone, con l’esamerone: e il sole,
e il sale, e il cancro, e Patty Pravo: e Venere, e la cenere: con il mascarpone (o
mascherpone), con il mascherone, con il mezzocannone: e il mascarpio (lat.), a *manus
carpere:
ma adesso che ti ho vista, vita mia, spegnimi gli occhi con due dita, e basta:
(E. Sanguineti, «Cataletto», 13).6
Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dagro e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo ingrangelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzìllano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
5
6
Gustave Doré era un incisore francese dell’Ottocento che aveva illustrato la Commedia.
E. Sanguineti, Cataletto, 1981 (cataletto è la barella per trasportare i feriti, o la bara).
– 145 –
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.
(F. Maraini, «Gnosi delle Fanfole», Il giorno ad urlapicchio).7
3. Immagino che non abbiate capito l’80% delle parole. Infatti sono parole inventate. Fosco
Maraini ha definito la propria poesia ‘metasemantica’, nel senso di ‘superamento della
semantica’, ‘superamento del significato’. Nei suoi testi si rompe, si scioglie il legame
arbitrario che normalmente lega significante e significato e le parole sono grumi fonici completamente inediti, sono suoni puramente evocativi.
E a questo punto voglio citare due definizioni di poesia scritte da voi che si ricollegano
a quello che abbiamo appena esemplificato: «Poesia è evocazione», «La poesia si affida al
potere evocativo e di analogia di parole e suoni».
E a proposito di vostre definizioni, su un altro foglietto ho letto che la poesia è la
«massima forma di libertà espressiva». Non abbiamo il tempo di approfondire questo concetto. Voglio darvi semplicemente due stimoli ‘visivi’. Abbiamo appena esaminato tre stimoli,
per così dire, ‘sonori’, ora aggiungerei due stimoli ‘visivi’. Il primo è Il Palombaro di Corrado
Govoni, dalla raccolta Rarefazioni e parole in libertà (1915). Il secondo è Un niente di Giorgio
Caproni, dalla raccolta Il conte di Kevenhüller (1986).
Il palombaro. Se vi procurate il testo, le parole sono scritte a mano in caratteri diversi,
in direzioni diverse (in orizzontale, in verticale), sono accompagnate a disegni, non ci sono
segni d’interpunzione. Govoni in questo periodo aveva aderito alla poetica futurista, il cui
motto era “parole in libertà”.
Un niente. Dalla saturazione grafica della poesia di Govoni, passiamo ad un’estrema
rarefazione dei segni. Notate gli spazi bianchi, i puntini di sospensione, le dislocazioni a
destra (ad esempio arrivano al II verso, non parlano al V verso: sono parole dislocate a
destra, che creano un vuoto nella parte sinistra del foglio, e questo vuoto rappresenta il nondetto, rappresenta il silenzio che sta dietro le parole e tra le parole). Quello che lega le due
poesie, di Govoni e di Caproni, è un’attenzione all’aspetto visivo, cioè all’aspetto tipografico del testo, che nel Novecento assume una grande accentuazione rispetto al passato.
Poesia-canzone
Qualcuno di voi inserirebbe tra i poeti del Novecento Jim Morrison e Cristiano Godano
[Marlene Kunz]. Questi due nomi pongono il problema della dignità letteraria della lingua
delle canzoni d’autore. I cantautori sono poeti? Quando a Fabrizio De André i giornalisti
chiedevano: «ma lei si considera un poeta o un cantautore?», De André di solito rispondeva
citando Benedetto Croce e diceva: «Secondo Benedetto Croce chi scrive poesie dopo i diciotto
anni o è un poeta o è un cretino. A scopo precauzionale preferisco considerarmi un cantautore». I cantautori sono stati oggetto di studi, di tesi di laurea. Io però non credo che il testo
di una canzone possa essere considerato poesia. Io credo che la canzone abbia una dignità
pari a quella della poesia, ma in quanto costituita di due parti inscindibili e magicamente
fuse: il testo e la musica. Questo è lo specifico della canzone. E nella canzone ha anche una
fondamentale importanza il timbro di voce di chi canta. La canzone è un genere che attinge
alla storia della letteratura – letteratura popolare anche – e alla storia della musica. Ma il
7
F. Maraini, Gnosi delle Fanfole, Baldini & Castoldi, Milano 1994.
– 146 –
testo di una canzone non ha mai la concetrazione di significati semantici e fonici che può
avere una poesia. Una poesia contiene in sé la musica, il testo di una canzone no.
Inoltre, non mi sembra che il testo di una canzone o la musica di una canzone abbiano
mai fatto progredire i rispettivi settori a cui appartengono. La canzone non innova, conserva
(es. Capossela, Paolo Conte)].
Credo sia interessante riflettere sulla funzione sociale della canzone. La canzone è ascoltata, la poesia no. Ci si identifica in una canzone, non ci si identifica in una poesia. Mi riferisco a canzoni e poesie contemporanee. I numeri parlano chiaro. Un disco di canzoni in
Italia raggiunge normalmente 100.000 persone, un libro di poesie circa 3000 a dir tanto.
Qualcuno ha pensato di ovviare a questo problema mettendo in musica le poesie [Paco Ibanez:
«è come mettere delle ruote sotto le poesie»].
ambiguità, non detto
L’uomo, la parola e se stesso:
poesia come liaison di indefiniti
poesia come musica e preghiera
La poesia è musica e preghiera. Credo tuttavia sia un’arte e un privilegio di pochi (Ungaretti,
Alda Merini).
– 147 –
Clessidra
Il racconto di seguito presentato è stato scritto, durante lo scorso A.S. 2008-2009, da
Violetta Tulelli, attualmente alunna della classe V H del nostro Liceo, per partecipare
alla 2ª edizione del concorso La scienza narrata – Esperimenti di scrittura creativa.
Il concorso, al quale hanno aderito alunni di alcuni Licei Classici e Scientifici di
Milano e di Roma, ha l’obiettivo di stimolare nei nostri studenti la capacità di
elaborare racconti che ruotino attorno a temi scientifici di varia natura. Nella fase di
stesura dei loro testi gli alunni sono stati seguiti dai membri della Giuria del concorso,
coordinata da Giovanni Nucci, attraverso una serie incontri, tenuti nelle scuole
partecipanti e strutturati in forma di laboratorio. Referente del progetto per il nostro
Liceo è stata la Prof.ssa Anna Paola Bottoni, che in questa sede si ringrazia per
l’impegno profuso nell’iniziativa. Nel mese di Luglio 2009, a Roma, a Villa Miani,
si è svolta la cerimonia di premiazione sia degli studenti che hanno scritto i tre racconti
vincitori del concorso sia degli alunni che hanno elaborato le sei storie a cui la giuria
ha deciso di attribuire una menzione di merito; tra questi ultimi è compresa Violetta
Tulelli con il suo racconto intitolato Clessidra.
Prof.ssa Maria Marchei
Un’altra notte in bianco, la quarta. E quelle che erano venute prima non erano state
migliori, spezzate da suoni, risvegli, immagini, ricordi.
Guardava la luce che l’orologio digitale sul comodino proiettava sul soffitto.
03:20
Ogni minuto si accendevano e poi, per un interminabile minuto, rimanevano accesi,
segmenti diversi in quel piccolo universo digitale. Gli altri, quelli che si spegnevano, non
scomparivano del tutto; di loro restava un’ombra, un tratto privo di colore, impresso in un
luogo indefinito.
Pensò che le metafore ormai lo venivano a cercare dappertutto, lo accerchiavano con le loro
allusioni. Il mondo era una metafora di se stesso, pensò, e per un attimo se ne compiacque. I
numeri che vedeva svanire sul soffitto erano tempo, pezzi di vita, che se ne andava per sempre.
S.C., anestesista rianimatore, pensò che tutti abbiamo un tempo che si consuma e che per
il paziente della stanza 206, anni 23, quel tempo sarebbe presumibilmente finito nei minuti
successivi alle 10:30 di quella mattina di ottobre.
Come gli succedeva spesso in questi ultimi tempi, i pensieri lo attraversavano come raggi
di luce, senza lasciargli il tempo di capire. Per fermarli provò ad afferrare la prima immagine
che gli fosse apparsa nel buio. Era un cerchio.
Si addormentò per qualche secondo e lo vide scomporsi, dilatarsi, fondersi fino a prendere
la forma di una goccia trasparente, dentro la quale precipitavano scintille senza spessore. Aprì
gli occhi: l’immagine rubata al sogno era quella di una clessidra. Ce n’era una sulla scrivania
nello studio di suo padre, tra il fermacarte in bronzo, comprato in una stamperia di Venezia, e
le statuine dei rematori nubiani. Spesso la capovolgeva prima che tutti i granelli fossero scesi
come un filo di seta.
Gli dava una sottile felicità pensare che un suo piccolo gesto poteva cambiare il corso di
un equilibrio così perfetto.
La clessidra. Era soltanto una convenzione, un modo di rappresentare il tempo, proprio
come lo erano i numeri digitali proiettati sul soffitto. Più fedele però all’idea di qualcosa che
si consuma, più facile da capire.
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Poteva essere per il fatto che la clessidra era una cosa concreta, un’ampolla, uno spazio
fatto di sabbia e di vuoti e le combinazioni geometriche dei numeri, invece, solo una presenza
virtuale, che scompariva anche solo posando un dito sul piccolo cono luminoso del proiettore;
oppure staccando una spina. Metafore, ancora metafore.
S.C. si era laureato in medicina con il massimo dei voti, si era specializzato in anestesia
e rianimazione, partecipava a convegni internazionali e il mese prossimo avrebbe fatto parte
del Comitato scientifico al Seminario di aggiornamento sull’Anestesia in neurochirurgia.
Eppure c’erano infinite cose che non sapeva. Invece il portatile che in quelle notti gli faceva
compagnia sembrava conoscere sempre tutte le risposte.
Digitò: clessidra.
Apparvero nell’ordine: Clessidra a sabbia, Wikipedia.
“Clessidra Capital Partners”, fondi d’investimento.
“Clessidra”, nebulosa planetaria della costellazione della Mosca, 8000 anni luce dalla
Terra.
“Clessidra”, primo videogame in italiano apparso su Internet nel 1996.
“Clessidra”, rivista di orologeria.
“Clessidra”, oggetti di antiquariato.
Tornò con il mouse sul primo sito. Clessidre nell’antichità, nel Medioevo, la clessidra con
un anno di scorrimento custodita nel Museo della Sabbia a Nima, in Giappone, la clessidra
più grande del mondo, quasi 12 metri, sulla Piazza Rossa di Mosca e la più piccola, 2 centimetri e mezzo, custodita ad Amburgo.
Bene, per questa volta il computer non ne sapeva molto più di lui sulle questioni davvero
importanti.
Il tempo, per esempio, cos’era il tempo? Nel momento preciso in cui attraversava la
strettoia, il granello di sabbia era il presente e lo stesso granello di sabbia, appena caduto,
diventava il passato.
Era un granello di sabbia il tempo? E nella sua vita, nel suo tempo cosa c’era stato?
Lunghi anni di studio, una storia con una ragazza dagli occhi orientali, tre anni di
pianoforte, Oni, il suo labrador dagli occhi gialli, un libro di racconti mai completato e oggi
il paziente della stanza 206, in stato vegetativo persistente da circa cinque anni. Da qualche
tempo il fatto di chiamarlo con un numero lo rassicurava, lo faceva sentire più protetto e
meno vulnerabile. Invece all’inizio pensava a lui chiamandolo per nome; del resto conosceva
il giorno del suo compleanno, le malattie che aveva avuto da piccolo, le facce dei suoi genitori
e tutte le cose che aveva soltanto immaginato della sua vita, di come doveva essere fino al
giorno di quell’incidente. In fondo le vite della gente si assomigliano più di quanto non
sembri.
S.C. faceva parte dell’equipe neurologica che aveva seguito il caso fin dall’inizio, quando
lui stesso aveva comunicato ai familiari che in quella struttura clinica “non avrebbero dovuto
cercare un miracolo o un risveglio, ma una diagnosi”. Già, ricordava di aver usato proprio
questa espressione e allora gli era sembrata molto efficace. Oggi, cinque anni dopo, si trovava
a chiedersi quanto la diagnosi coincidesse con la realtà. Provò a ripetersela in mente quella
diagnosi, come se disegnandone la mappa sentisse di poter assumere decisioni logiche e
coerenti.
Il danno agli assoni della sostanza bianca cerebrale, che impediva la connessione delle
aree corticali tra loro e con il talamo, non era reversibile. L’ultima TAC dinamica aveva
rilevato 16 ml. al minuto di flusso ematico per 100 grammi di massa cerebrale, contro i 55
ml in condizioni normali. L’attività elettrica del cervello raggiungeva al massimo 10 micro– 149 –
volt. Tutto questo era la diagnosi, più alcune formule: compromissione della reattività pupillare, assenza di consapevolezza e coscienza, danno dei riflessi encefalici.
Ma in quelle notti insonni S.C. cercava qualcosa di diverso dalla diagnosi, cercava un
frammento senza il quale il puzzle, che per cinque anni lo aveva inchiodato alla vita di uno
sconosciuto, rischiava di non potersi ricomporre mai. Cercava di capire se quella che aveva
davanti, e che clinicamente non poteva essere dichiarata morte, fosse ancora vita.
Cosa c’era in quel gruppo di neuroni gravemente danneggiati? Una vita artificiale, una
morte trattenuta, una morte interminabile?
Aveva bisogno di capire se esistesse un punto preciso di passaggio, un limite che potesse
definire la vita e la morte senza categorie intermedie. Come la strettoia nella clessidra nel
momento in cui l’ultimo granello di sabbia cadeva. Il paziente della 206 era ancora,
nonostante il suo stato di assenza, oggetto degli stessi sentimenti di amore, pietà, disagio, che
si provano verso chi vive.
Ma chi è tenuto in vita in un presente senza tempo, bloccato nella strettoia della clessidra,
non è veramente vivo eppure non è morto.
Chi è allora?
Perché la Scienza non riusciva a rispondere a questa domanda e l’Etica era così imprecisa?
Per un attimo provò a immaginare che il punto di passaggio tra i due bulbi della clessidra,
quel punto così minimo e perfetto da lasciare scorrere un solo granello alla volta, diventasse
un luogo infinito da percorrere, una galleria trasparente nella quale scivolare eternamente,
senza cadere mai. Ripensò alle vacanze di Natale nella casa di Dorsoduro dove abitavano i
nonni materni e al giorno in cui suo nonno aveva voluto portarlo a Murano per fargli vedere
come si soffia il vetro. In una mattina fredda di fine dicembre, con l’aria grigia e opaca tra
i colori pastello delle case, era rimasto incantato a guardare il vetro nella fornace, liquido come
lava, raccolto in una bolla sulla canna del vetraio, soffiato fino a diventare sottile come un
raggio trasparente.
Era quello il sogno? Una clessidra in cui un punto, semplice e certo, potesse diventare
una linea infinita? Un luogo senza meta, in un tempo eternamente sospeso?
Ogni volta che si era posto domande come questa aveva finito per rispondersi con delle
astrazioni: il Futuro, la Scienza, il Progresso, quello che fino a ieri sembrava irrealizzabile,
quello che oggi non riusciamo a vedere, ma domani, forse, potrebbe avere un senso.
Rimaneva però il mistero dell’oggi. Degli strumenti che l’uomo si era costruito e che lo
tenevano appeso tra una vita e una morte ugualmente inaccettabili e incomprensibili.
S.C. si alzò dal letto. Per un attimo pensò che i suoi movimenti fossero le uniche certezze
che gli rimanevano della sua vita. Era indiscutibilmente vivo, lui, dalla parte dei vivi, il suo
tempo scorreva nella sua clessidra, senza interruzioni, fino al giorno in cui la sabbia sarebbe
finita.
Si augurò, sperò, pregò che andasse davvero così per lui.
La doccia, il caffè, la camicia pulita, non gli tolsero neanche un po’ della stanchezza e
del peso che si sentiva addosso. Aprì la finestra e guardò il cielo inquadrato tra i profili grigi
dei palazzi in un’alba di un giorno che avrebbe ricordato.
Respirò, era ottobre e c’era aria di pioggia.
Violetta Tulelli
(4° ginnasio - sezione H) Liceo Ginnasio ORAZIO - Roma
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L’inferno bianco di mio nonno
(UNA TESTIMONIANZA DI GUERRA DI UMBERTO TADIELLO)
“La battaglia di Nikolajewka e la ritirata di Russia vissuta tra fame e freddo,
tra nostalgia e paura.
Un ritorno tanto atteso attraverso l’Europa e un viaggio dentro etnie e culture diverse.
Una forte esperienza che ha segnato un’intera esistenza”.
a cura di Susanna Tadiello1
PREFAZIONE
Questa è una grande storia, come mille altre storie sono già state scritte in passato. Ma
c’è una particolarità, che può rendere il racconto entusiasmante ed interessante sia per me
che per il lettore. Il mio personaggio non è una persona qualunque, anche se devo ammettere
che nessuna delle persone che ha affrontato la Seconda Guerra Mondiale deve essere considerata una “persona qualunque”. Il protagonista di questo umile racconto è mio nonno.
Mi risulta difficoltoso, se non impossibile, descrivere il mio stato d’animo quando, di
solito durante il fine settimana, provavo a racimolare una quantità spropositata di particolari
della sua storia, mentre lui, confuso, cercava invano di farmi capire, tentava ancora di essere
ordinato e di ripassare tutto in mente per non fare disordine; una confusione che sarebbe
costata cara. Si intravede nei suoi occhi chiari, color azzurro, infiniti e malinconici, quell’aria
di chi ha vissuto intensamente, ed è un’aria riconoscibile al primo impatto, al primo contatto;
non è difficile farlo parlare, strappargli qualche confidenza. Ha una voglia immensa, dentro
di sé, di fare spazio ai ricordi, di tentare ancora di capire, di rispondersi, di riflettere e di
raccontare. Ripete volentieri ciò che magari ha già spiegato e che io, forse, non ho ancora
colto come avrei dovuto. Il suo fardello è pesante, il suo carico è turpe, veemente e tuttora
acceso. Comunica con naturalezza, con simpatia, a volte a gesti, picchiettando sul tavolo e
facendo sobbalzare quaderni, registratori e me compresa.
C’è voluto un po’ di tempo, un po’ di riflessione prima che iniziassi l’ardua impresa di
trascrivere l’esperienza vissuta da mio nonno. Devo, però, confidare che è sempre stato un
mio desiderio quello di saperne di più. Capitava spesso che durante le cene importanti egli
raccontasse dei suoi viaggi, dei fronti sui quali aveva combattuto coraggiosamente, sfidando
la morte, la fame, la miseria, l’angoscia e la paura, per sessantatre mesi. Mesi duri, di guerra,
di disperazione e desolazione, ai quali era incredibilmente sopravvissuto grazie ad una
scatoletta di “ovomaltina” speditagli da casa. Storie assurde, alle quali noi, ormai stufi di
sentirle, nemmeno ci crediamo; si fermano fuori della nostra portata, lontano dai nostri
orizzonti, dai nostri tempi, dalle nostre preoccupazioni. È capitato anche a me di non voler
sentirne parlare, di non voler leggere nessun libro a riguardo, di non volere assistere ad
1 La Dott.ssa Susanna Tadiello ha presentato questo memoriale come tesina nell’ambito disciplinare di storia, in
occasione dell’Esame di Stato sostenuto presso il Liceo della Comunicazione Istituto “Maria Ausiliatrice” di Varese, nell’anno scolastico 2004-2005. Ispirandosi al memoriale la Dott.ssa Tadiello ha poi realizzato un documentario, L’inferno bianco di mio nonno, che è stato oggetto della sua dissertazione di laurea in Scienze e Tecnologie delle Arti e dello
Spettacolo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Brescia. Ringraziamo
la Dott.ssa Tadiello per aver gentilmente acconsentito alla pubblicazione del memoriale di suo nonno Umberto sulle pagine della “Miscellanea di Saggi e Ricerche”.
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alcun programma televisivo che documentasse gli avvenimenti dei lager o della guerra;
pensieri atroci, da non farmi dormire la notte. Ma mio nonno mi ha dato la forza di affrontarli, di comprendere cosa fosse per lui la fame, la lontananza da casa, la paura della morte.
Sono riuscita a non sentire più il peso struggente che mi affliggeva quando provavo a capire,
a far rinvenire in me il grande problema di quella assurda guerra. Mi ha aiutato a capire che
si può e si deve ricordare; bisogna saper affrontare il passato, perché esso è comunque parte
della propria storia, del proprio vissuto.
Mi fissa negli occhi e prosegue, elenca avvenimenti bizzarri, alterna ad un italiano poco
curato un dialetto veneto passionale, carico di intenzioni e di emozioni. Alle volte non conclude le frasi, si perde, e a me tocca, a malincuore, lasciare una frase a metà; devo evitare
di interromperlo, non gli piace, mi guarda con la coda dell’occhio e capisco che forse è
meglio lasciare le mie domande alla fine. Si entusiasma, ride persino e prende in giro qualche
tedesco, commisera qualche russo, rimpiange qualche compagno. Non rammenta bene i nomi
dei suoi compari, ma cerca comunque di fare qualche piccolo sforzo, inutilmente. I ricordi
lo travolgono, lo investono, lo avvinghiano e lui, dolcemente, si lascia andare.
Vorrei che questa storia venisse letta con amore, perché è questo che ha salvato mio
nonno: l’amore per la vita, il desiderio di riconciliazione, la voglia di ricominciare in pace,
la tenacia di chi affronta tutte le intemperie che il destino pone sulla sua strada, senza perdere
il coraggio e la forza di rialzarsi.
E per tutto questo è un racconto da amare.
Susanna Tadiello
I primi mesi
Fronte greco albanese
Classe 1919. Correva l’anno 1940, avevo appena ventuno anni quando, un pomeriggio
di Marzo, venivo chiamato alle armi. Destinazione Vipiteno. Dopo aver trascorso, come
recluta, più di tre mesi d’addestramento, il radio discorso del Duce annunciava la nostra
entrata in guerra contro Francia e Gran Bretagna, il 10 giugno. Io ero arruolato nel secondo
Reggimento Artiglieria Alpina, gruppo di Vicenza, ventesima batteria, divisione Tridentina.
L’esercito italiano era assolutamente impreparato ad affrontare una guerra di livello
europeo, ma l’Italia, in virtù del Patto d’acciaio, sottoscritto nel 1930, sarebbe stata obbligata
ad intervenire al fianco della Germania fin dall’inizio del conflitto. E noi alpini ne fummo la
prova.
Il primo viaggio, compiuto fortunatamente in treno, venne fissato per l’inizio di maggio
con lo scopo di raggiungere Chivasso, per poi ripartire nuovamente verso il Gran S. Bernardo,
traversata che, quella volta, dovemmo fare interamente a piedi. Durante i giorni d’accampamento, Umberto di Savoia venne a farci visita e, dopo il rancio serale, sollecitò tutti i soldati
che avevano familiari in Francia di far evacuare gli stessi per evitare di ucciderli con le nostre
stesse mani. Arrivammo pressappoco il 24 giugno, ma la guerra era già finita, Hitler aveva
attaccato la Francia e noi, giunti per coprire e bloccare il fronte ci trovavamo a 2300 metri
senza neppure esserci accorti della fine. Non sparammo nemmeno un colpo. Ma la guerra
cominciava ad estendersi come una macchia d’olio.
Alla fine di giugno del 1940, avendo intuito che non c’era più nulla che potessimo fare,
fummo rimandati indietro dai nostri Generali. Tutti si auguravano un ritorno a casa, anche se
privo di gloria, ma non fummo accontentati. Ci indirizzarono in Piemonte, ma nell’agosto del
’40 Mussolini decise di spedire noi alpini in Grecia. Partimmo increduli per Brindisi, convinti
però che la spedizione era adatta a forze militari quali gli alpini, poiché la Grecia era ricoperta
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in parte di montagne ed altipiani; era certo il nostro compito. Riempimmo il treno con tutto
l’equipaggiamento di cui disponevamo: artiglieria, armi di vario genere e muli carichi di bagagli e provviste. Dopo quindici giorni trascorsi ancora sulla penisola italica, ricoperti da
piante per non essere scorti da truppe nemiche, ad ottobre c’imbarcarono in un porto distante circa sei chilometri da Brindisi, raggiunto dopo uno scomodo viaggio in treno, per paura
che gli aerei militari inglesi, provenienti dalle coste libiche, ci colpissero durante la traversata. Saremmo dovuti arrivare a Durazzo in pochi giorni, il trasporto fu effettuato durante la
notte; vennero caricate ben venti navi, sulle quali i muli erano deposti in coperta e noi depositati nella cabina sotto di loro. Il silenzio assordante e penetrante fu rotto all’improvviso da
un rumore stridulo e minaccioso. Comparvero gli aerei inglesi che, dall’Africa, erano venuti a bombardare Brindisi. Per fortuna il porto disponeva di una contraerea, di mitragliatrici che
facevano paura solo a guardarle, le quali riuscirono a respingere l’offensiva britannica e ad
evitare cadute di bombe sulle nostre navi. La notte, durante il viaggio, per timore d’ulteriori
attacchi, riuscimmo a disporre d’alcune navi vedette che avrebbero dovuto localizzare i sottomarini nemici. Ma il cammino verso l’inferno non era ancora finito. Un sottomarino, non
individuato, improvvisamente colpì una barca, una delle tante messe in fila e distanti l’una
dall’altra pressappoco un chilometro. Il mare aveva cominciato ad agitarsi, la burrasca aveva segnato in me l’inizio di una nuova e inaspettata paura; per la prima volta provavo quell’amaro sentimento che per nulla al mondo non avrei mai potuto e voluto rimpiangere. Ci munirono di un salvagente a fasce verticali che non sarebbe riuscito, in nessun modo, a sostenere i nostri corpi ancora in carne, poiché ignari della fame che ci aspettava al di là di quell’oscuro e infame mare che aveva appena annientato un’intera imbarcazione di uomini; 1500
uomini come noi, compagni, amici, conoscenti, soldati. Approdammo la mattina seguente,
scaricammo le navi e i muli e, dopo una ventina di chilometri percorsi a piedi, ci accampammo lontano dal porto e dal pericolo.
Nel frattempo Mussolini aveva mobilitato tutto il Paese, donne e uomini, per far in modo
che le truppe arrivassero in meno di due mesi ad Atene. Alcuni soldati ci raggiunsero in aereo
per la mancanza di ponti e corsi d’acqua che, prontamente, i greci avevano fatto saltare in aria.
Intanto la fredda stagione avanzava, ma diversamente dall’invernata russa che pietrifica,
congela e uccide senza pietà, quello era un inverno sopportabile, un inverno simile a quello
di casa nostra; l’autunno era passato in fretta e il sole d’inverno, privo di forza, splendeva
smunto senza tentar nemmeno di scaldare la terra fredda.
Ci disponemmo in accampamento a 2200 metri d’altezza, in trincee costruite su misura;
la mia batteria riuscì ad accaparrarsi una casa abbandonata che era difficilmente visibile agli
occhi del nemico. Quell’abitazione era circondata all’esterno di fascine di legna secca che
usammo prontamente per scaldarci e cucinare. Non c’era acqua, l’unico modo per procurarsela era di scendere per tre o quattro chilometri a valle, con sacchi ermetici caricati sui muli, dove inoltre era collocata la nostra sussistenza, e riempire i sacchi alle fontane che si
trovavano sulla via; i viveri necessari per sopravvivere dovevamo andare a procurarceli a
valle. Passammo un inverno quieto, con la presenza di pochissimi attacchi, alle volte era solo
qualche granata a preoccuparci e a svegliare l’intero reggimento.
Il nostro passatempo preferito era la caccia ai pidocchi, quelle bestie maledette! Bisognava lasciar bollire i vestiti in acqua, di solito approfittando della neve facendola sciogliere
in grossi recipienti, per essere sicuri che gli animaletti sfollassero i nostri abiti. Non era
un’operazione semplice, non solo perché le divise facevano fatica ad asciugare, ma principalmente perché non ci era possibile accendere fuochi per nessun motivo.
Una delle tante sere, ero di guardia con un mio compagno; durante la notte ci avviammo
a sorvegliare il campo e a fare da sentinelle. Ogni giorno la parola d’ordine cambiava, per im– 153 –
pedire ad estranei di intrufolarsi nel nostro campo; poteva essere un nome di donna, Maria o
Giovanna, di città o qualsiasi cosa venisse in mente al Generale. Si imponeva quindi l’“Alto
là” a qualsiasi figuro che si avvicinasse al campo. Dopo essere montati di guardia scorgemmo
nell’oscurità un’ombra, bassa, acquattata, sembrava strisciare, mentre china su se stessa si
avvicinava sempre di più. Gridammo spauriti l’Alto là di consuetudine, ma non ricevemmo
alcuna risposta. Pronti a far fuoco, sparammo un colpo che risuonò improvviso nelle orecchie
dell’intero accampamento, accorsero in molti a vedere che cosa fosse successo; spiegammo
di fretta l’accaduto, mentre il Capitano ci trascinava vicino al corpo abbattuto. Intravedemmo
immediatamente il sangue correre caldo sulla neve e ci accorgemmo ben presto che non si
trattava fortunatamente di un corpo umano, bensì di un grosso cinghiale. Fummo festeggiati
a dovere, ed il Capitano, spaventato e atterrito, si complimentava con noi per la prontezza di
spirito esemplare data da noi soldati che, ancora increduli, accennavano un sorrisino misto a
paura e soddisfazione.
Per andare a prendere l’acqua giù a valle io e Trettene, un mio compagno veronese, eravamo sempre disponibili. La mattina di Natale del ’40 ci dirigemmo con i muli fino ad arrivare alla fonte. Caricate le bestie e ripreso il cammino per tornare all’accampamento percepimmo per la prima volta la fame che si faceva sentire sempre più rabbiosa; arrivati ad
un grande serraglio ci accorgemmo che era abitato da un gregge di pecore molto in carne.
«Andiamo a domandare da mangiare», mi suggeriva sovente Trettene che non resisteva più
ai dolori di stomaco. Il recinto era costruito interamente da fasce di legna e, dietro di esse, due
o tre cani abbaiavano minacciosi; cominciarono persino a ringhiare, ma noi non vedevamo
nessun uomo, sembrava che il padrone se ne fosse andato o fosse scappato. Invece, ad un certo
punto, un individuo mal messo, un vecchietto con la pelle ruvida e scura, ci venne incontro
facendo segno di porre le armi a terra, di non sparare. A lui si aggiunsero altri tre uomini
piccoli, bassi e increduli; sapevano sillabare solo poche parole nella nostra lingua, poiché
alcuni soldati italiani erano già stati da quelle parti. Ci ringraziavano continuamente per non
aver sparato e noi, approfittando della situazione, abbiamo chiesto un poco da mangiare.
Erano ben felici di accoglierci e iniziarono a portare sul tavolo fette di polenta e un cocomero
appoggiato sopra a del riso cotto. Divorammo tutto con gran foga, ringraziammo e poi
ripartimmo per il campo dove saremmo di sicuro arrivati in ritardo.
Impiegammo metà pomeriggio e, sotto la neve ed il freddo, arrivammo ancora vivi al
nostro bivacco. Il Generale, appena scorte le nostre teste uscire dal velo bianco di neve, si mise
a correre e gridando chiese spiegazioni per quel nostro inaspettato ritardo. Raccontammo di
aver mangiato la polenta e tra risa e schiamazzi tutto tornò ad acquietarsi.
Nella primavera del 1941 Hitler aveva spedito una corazzata di carri armati in Jugoslavia,
senza nemmeno avvisare, e ci volle poco prima che i tedeschi arrivassero ad occupare Atene.
Avevano conquistato la Grecia, come previsto da Mussolini. I greci si rivolgevano spesso
a noi soldati italiani chiedendoci se eravamo impazziti dando retta a Mussolini, ma d’altra
parte a noi toccava solo ubbidire, non avevamo alcun potere di decisione. La simpatia dei
greci verso noi italiani si spense precocemente. Dopo aver ritirato le truppe, c’imbarcarono a
Durazzo per fare ritorno, verso luglio, a Bari. Sbarcati sulla penisola, Mussolini ci dichiarò eroi
di guerra mentre passava in rassegna le truppe alle due e mezzo di notte: “Voi, grandi alpini
che avete vinto la guerra”, senza sapere che avevamo solo mangiato polenta per tutto l’inverno.
Non ci furono molti caduti, il clima favorì parecchio il nostro soggiorno giacché era simile al
clima italiano. Eravamo vestiti come se avessimo dovuto affrontare l’inverno in patria; ci
furono però affidate coperte e tende, gavette e cucchiai, ma la sera, appena il buio calava, una
sentinella montava di guardia e tutte le truppe si coricavano, evitando di accendere fuochi e di
illuminare il circondario. Il mio compito era di fare il telefonista, me lo avevano insegnato in
– 154 –
caserma; adoperavo ancora gli stessi strumenti adottati dalle truppe che nella Prima Guerra
Mondiale erano scese fino in Africa. Era un apparecchio mal ridotto, che trasmetteva l’alfabeto Morse, linea e punto. Era stato usato anche durante la guerra del 1937 dove era più adatto,
ma nel nostro caso era facilmente visibile e intercettabile dal nemico. Reggevamo su una
barella il rotolo di filo, dovunque il Capitano ci portasse per accamparsi, e la notte stendevamo
il filo lungo un chilometro in mezzo ai boschi, fino a farlo arrivare alla trincea degli alpini che
erano sempre distanti almeno 500 metri. Noi avevamo l’artiglieria ed eravamo fondamentali,
ma capitava che i fili venissero tagliati e che la comunicazione si rompesse.
Era ottobre, un caldo ottobre del 1941, quando ci rispedirono al nord, eravamo ormai
persuasi che la guerra fosse finita, ci auguravamo con ansia che saremmo tornati a casa, dalle
nostre famiglie, invece il treno ci destinò in un paesino piemontese chiamato Montanaro,
vicino a Chivasso. Rimanemmo lì per sette od otto mesi, dormendo nei granai o nelle case
vuote; io e i miei compagni ci sistemammo nei pressi di un asilo abbandonato per evitare di
dormire nelle tende. Ma l’imminente guerra con la Russia faceva poco sperare ad un ritorno
ai nostri paesi natali.
Nel luglio del 1942 Hitler aveva attaccato la nazione russa.
Il fronte sul Don
Dopo quindici giorni di treno raggiungemmo la Russia. Il viaggio era stato particolarmente difficoltoso. Il freddo, la paura, la fame e la nostalgia ci facevano compagnia sui vagoni
merci, caricati come meglio potevamo con muli, provviste e indumenti. La nostra batteria era
circondata da otto muli disposti alle due estremità del carro. Un vagone poteva ospitare quasi
settanta uomini; noi invece eravamo appena in quattro. Il cibo riuscivamo a procurarlo quando
il treno si fermava durante la notte per rifornirsi o per aspettare che un altro treno transitasse
prima del nostro poiché il binario era unico; alle volte trovavamo un blocco di sussistenza
lungo la via che ci sfamava per almeno due o tre giorni. Ci offrivano una pagnotta di pane,
una scatoletta di carne per un giorno e, quando potevano, un piatto di pastasciutta, ma era sempre poco. L’acqua la prendevamo in giro, di solito alle fontane dei paesi stranieri. Per fare i
bisogni saltavamo giù dal mezzo, che delle volte sostava per ore, in altre occasioni pisciavamo
intanto che il treno si muoveva, aprivamo la porta e guai se il vagone dietro al nostro aveva
il portone spalancato! Se invece non c’era la possibilità di aprire la carrozza usavamo gli
elmetti che poi pulivamo a dovere.
Attraversammo l’Ucraina, smontammo dal treno e percorremmo duecento chilometri a
piedi per raggiungere il fronte. Il treno non poteva proseguire poiché le rotaie russe erano più
grosse di quelle usate nel resto d’Europa. I soldati tedeschi avevano però trovato il modo di
penetrare in Russia tramite la ferrovia spostando le rotaie e sistemandole per chilometri e
chilometri secondo la larghezza dei loro convogli. Arrivavano persino a formare reggimenti
addetti a quel tipo di mansione. Eravamo 70.000 alpini giunti al fronte dopo aver viaggiato
di notte e ci accorgemmo che tutto intorno a noi era deserto, pianura, ed eravamo totalmente
allo scoperto. Fu deciso perciò che 25.000 uomini avrebbero dovuto spostarsi per raggiungere
un altro fronte sicché, viaggiando di notte, ci avviammo per raggiungere la nuova meta.
Il fiume Don, largo circa un chilometro, ci presentò i nemici russi che erano appostati al
di là del corso d’acqua. Nel frattempo era arrivato l’inverno; il clima era peggiorato, la temperatura sfiorava i quaranta gradi sotto lo zero durante la notte e dieci gradi sopra lo zero di
giorno; nevicava, tempestava e gli alberi incorniciavano un paesaggio bianco e glaciale che
apriva nei nostri cuori un vortice di nostalgia che cominciava a perdere sapore. I Russi non
possedevano un grande esercito, tuttavia la loro forza consisteva nell’aspettare l’inverno e nel
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costringere il nemico a dover sopportare il freddo. Loro erano ben equipaggiati rispetto a
noi, portavano giacche imbottite, pantaloni grossi e le scarpe non erano di cuoio, come le
nostre, che erano state usate anche nella guerra contro la Francia e sul fronte greco-albanese, le stesse scarpe utilizzate in Russia e in Africa settentrionale, era questa la formula standard
dell’esercito italiano; indossavano inoltre sul capo caldi colbacchi.
I tedeschi invece portavano i “valenchi”, la calzatura del contadino russo, un rozzo stivale
di feltro ampio e caldo.
Sull’intero fronte dell’ARMIR c’erano solo una trentina di carri “L”, scatolette da una
tonnellata, più leggeri di un camion, che non servivano a nulla: temevano persino i faciloni
anticarro russi. E non solo non esistevano carri armati, ma neppure armi controcarro. I nostri
cannoni di piccolo calibro non riuscivano a perforare le pesanti corazze dei carri sovietici. La
nostra artiglieria era per lo più vecchia e superata: mancava quella semovente ed era scarsa
la contraerea. Un confronto tra il nostro armamento e quello sovietico non aveva senso. Lo
stesso discorso delle armi valeva per le comunicazioni. Le poche radio erano antiquate e
scadenti. Il parco automobilistico, scarso, logoro, inadatto, a malapena serviva le truppe di
linea. Grave era anche la disorganizzazione logistica. Non pochi reparti vivevano sottraendo
grano e patate ai tedeschi per sfamarsi. Disponevamo di scarso carburante, i nostri autoreparti
vivevano alla giornata. Nelle retrovie c’erano pochi magazzini di materiale e vestiario, ma la
disorganizzazione era tale che i materiali non raggiungevano mai il fronte. Le truppe in linea
erano costrette a contare i colpi, a fare economia delle munizioni.
In linea non soffrivamo solo il freddo, ma anche la fame. Nelle migliaia di pacchi partiti
dall’Italia, che le famiglie inviavano ai congiunti sul fronte russo, i soldati non trovavano
soltanto vestiario, ma castagne e fichi secchi, farina e pane. Occorrevano tuttavia generi di
conforto, viveri ricchi di grassi e proteine, invece eravamo nutriti con pane e patate bollite.
Malgrado questa situazione, il morale delle truppe reggeva bene anche se la rassegnazione
prevaleva. Il lavoro in linea non mancava. Chi non era di vedetta o in posizione lavorava a
scavare camminamenti e trincee, a imbastire ostacoli e fossi anticarro. Nell’immediato
retrofronte le truppe vivevano nelle isbe, coabitavano con la popolazione civile. Il contadino
siciliano, il montanaro piemontese scoprivano comuni valori umani, si sgelavano e si specchiavano nella realtà contadina sovietica. I dialoghi erano semplici, essenziali: ci si comprendeva magari parlando a gesti. Qualche volta le discussioni si facevano anche vivaci e si
concludevano con battute polemiche ma bonarie, botta e risposta, «Mussolini Kaputt», «Stalin
Kaputt»; nonostante la guerra, l’odio non avvelenava gli animi.
Il problema sorgeva quando bisognava montare di guardia; in Grecia si poteva stare all’aperto per anche un’ora, in Russia se sostavi fuori per più di cinque minuti ti congelavi gli
arti e le estremità come le dita e il naso. Una sera, uscito per fare da vedetta, scorsi vicino alla
strada, che agevolava il trasporto delle macchine per la sussistenza, due sciatori che attraversavano la via ad una velocità esorbitante. Non feci in tempo a lanciare l’allarme, perché
ero sicuro si trattasse di spie russe che passavano di notte a controllare il nostro campo. Poco
lontano da noi alloggiava in una baraccopoli l’esercito tedesco nostro alleato che Hitler aveva
munito di carri armati e armi pesanti. L’invidia per il loro equipaggiamento era evidente e la
sensazione di sicurezza che l’esercito tedesco rifletteva era palpabile nel respiro di ogni
soldato italiano.
La ritirata
Da alcuni giorni ‘Radio Scarpa’ trasmetteva: «I russi cominciano ad attaccare. La Julia
sta sostenendo forti attacchi», ma come al solito tutto era molto vago ed impreciso.
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In breve tempo però i russi sfondarono il fronte ed entrarono con carri armati formando
un cerchio intorno a noi e, in due giorni, bloccarono la nostra sussistenza, eliminando tutti gli
uomini che lavoravano per fornirci gli alimenti, che si diceva fossero circa cinque per ogni
soldato. Le colonne di camion furono bloccate, vennero uccisi tutti gli uomini e i tedeschi si
trovarono circondati dai russi come noi italiani. Scoprimmo poco dopo che l’esercito russo
era rifornito dagli americani, i quali portavano loro armi, facendolo diventare sempre più
forte e organizzato. Ma in quel momento l’unica cosa che ci preoccupava, oltre alla vita, era
come procurarci il cibo. Andavamo, allora, nelle case russe ancora abitate e rubavamo quanto
più potevamo; una situazione che ci rendeva sempre più simili alle bestie e sempre più carichi
d’odio per chi ci aveva ridotto a comportarci in quel modo così disumano. Era una condizione
ignobile e che noi, stanchi di sopportare, avevamo imparato ad ignorare. Attaccavamo i muli
ai pagliai dei nostri nemici e mangiavamo dalle loro mani, ma non potevamo farne a meno.
Verso le sei e mezzo, dopo il rancio serale, i nostri Ufficiali ci dissero: «Verso sera,
quando tutto sarà buio, dovremo ritirare i pezzi dalla linea nel massimo ordine e perfetto
silenzio». Venne la notte. Raccogliemmo i pezzi e le munizioni dalla linea e tornammo
indietro; passammo davanti ad una sussistenza che conteneva ancora tanti viveri. Ci dissero
di entrare, di rifornirci e di distruggere tutto. Io, quasi in preda alla gioia o forse solo alla
fame, presi un pezzo di formaggio grana e del cognac senza dimenticare tutto quello di cui
disponevamo, effetti personali in genere: due passamontagna, tre magliette, tre paia di calze
e gli scarponi. Uscii dal capannone e vidi passare una compagnia del Battaglione Verona.
Quando gli alpini si mischiavano con gli artiglieri significava che la situazione era grave.
All’alba del 17 gennaio 1943 il corpo d’armata alpini era irrimediabilmente accerchiato.
La Vicenza e la Tridentina dovevano staccarsi dal Don puntando verso Podgornoje. Il Capitano sostò impaziente davanti a me, fissandomi negli occhi e con molta convinzione ripeté
tra sé: “Non so come andrà a finire, ma non vorrei che facessimo la stessa fine di Napoleone”,
e a me venne in mente una breve frase che avevo imparato a memoria in quinta elementare:
“Nel 1812 Napoleone, con un formidabile esercito, mosse contro la Russia, ma l’audace
impresa gli riuscì fatale che segnò il termine della sua fortuna. Dopo lunghi mesi di marcia
senza riposi, arrivò a Mosca e la trovò abbandonata. Per Bonaparte fu la fine, costretto alla
ritirata, venne bloccato dall’esercito russo sul fiume Beresina, dove i nemici annientarono
la Grande armata francese”.
Ironicamente il Capitano mi rimproverò per non aver informato Hitler e Mussolini di
quella inesorabile sconfitta di Napoleone; avrei voluto fare qualcosa, anche una piccola cosa
in modo da cambiare la nostra triste situazione, ma rimasi impotente e l’esserne consapevole
rendeva tutto più amaro. L’armata tedesca ricevette nel frattempo un comunicato di Hitler il
quale ordinava al Generale von Paulus di resistere fino all’ultimo uomo. Friedrich von Paulus,
uno dei pochi uomini astuti e intelligenti, accusò Hitler di essere diventato pazzo, e lo ammonì
pesantemente ricordandogli quando lui stesso declinò l’ordine di raggiungere Stalingrado, che
si trovava più a sud del fiume Don. Paulus sosteneva che se fossero andati avanti si sarebbero
scontrati inevitabilmente con la morte e di sicuro non con una vittoria; decise allora di arrendersi. Per noi non fu certo una bella notizia, le armi più potenti erano in mano ai tedeschi,
eravamo perduti senza di loro; i nostri Generali non sapevano più cosa fare.
Si dispose, dopo una breve consulta, che avremmo dovuto incamminarci fino a Podgornoje passando per Opyt, una località distante circa quaranta chilometri dal nostro campo base,
dove ci saremmo concentrati e accampati aspettando notizie e ordini. In quei momenti sentivo
di essermi smarrito, non afferravo più il significato della mia missione, eravamo diventati tutti
quanti dei burattini, esuli pezze da combattimento pronte ad eseguire qualsiasi comando,
incoscienti della nostra ignota fine; esanimi camminavamo nel freddo che ormai non disturbava
– 157 –
nient’altro se non la mente incapace di ragionare, di immaginare, di riflettere. La vita si spegneva e, a poco a poco, anche il corpo si associava, calava come un’ombra sulle anime che,
scialbe e traballanti, effettuavano per inerzia ogni decreto. La stanchezza che ci opprimeva non
era tanto quella fisica, bensì quella mentale che ci riduceva inetti a comunicare e a socializzare.
La ritirata fu drammatica. Si camminava, si correva, si combatteva, si scappava. Le piste
erano segnate dai morti, dagli sfiniti che sarebbero morti assiderati. Le nostre colonne erano
pesanti, sconvolte, indifese. Neanche la notte concedeva respiro: pattuglie volanti e nuclei
partigiani rastrellavano gli abitati, sorprendevano le truppe che sostavano, catturavano i gruppi
di sbandati. In quell’atmosfera allucinante solo la popolazione contadina era umana: soccorreva i nostri feriti e li sfamava. Il Don era gelato e transitabile anche dai carri armati sovietici.
Ogni alpino nel frattempo ricevette un cappotto con pelliccia, un indumento cortissimo e
ingombrante, ma abbastanza caldo.
Attraversammo un campo di sussistenza, apparentemente abbandonato e distrutto, quando i tenenti ci inviarono a perlustrare la zona. Rovistammo fugacemente nei camion rovesciati
e nelle baracche e quando ormai perdemmo quel barlume di speranza che ci restava, scorgemmo sotto delle assi di legno una fila di bottiglie contenenti vino e olio, tutte completamente ghiacciate e una forma di formaggio da venti chili circa che spaccammo a furia di
colpi con la baionetta. Io, nel mentre, ripassai con gli occhi tutta l’area cercando di non farmi
sfuggire niente. Notai che appeso alla parete dietro le mie spalle c’era un canestro abbastanza
grande che conteneva di sicuro vino. Mi avvicinai, lo sganciai dalla parete e lo posai a terra.
Si strinsero a me i miei compagni, curiosi di conoscere il vero contenuto della damigiana:
anice. Rimproverati per il troppo tempo perduto, ci rimettemmo in cammino, ma la fame ci
chiamava continuamente. Cominciammo a mangiucchiare quel poco di formaggio che
eravamo riusciti a spaccare e, successivamente, bevemmo dalla botte dell’anice. Siccome il
liquido era gelato il suo tasso alcolico era salito notevolmente, ci ritrovammo così uno più
ubriaco dell’altro, spossati e ancor più intontiti. Si dice spesso che l’alcol, se bevuto in gran
quantità, scalda le viscere e rianima il corpo. Nel nostro caso fu il contrario, il freddo aveva
paralizzato le gambe, non riuscimmo più a camminare. «Monta a cavallo del mulo!», m’incitò
il mio compagno, ma a noi non era consentito salire su quelle bestie per farci trasportare,
solo agli alti ufficiali era permesso. Nello stato in cui mi trovavo però ero ormai in grado di
fare qualsiasi cosa senza pensare troppo alle conseguenze. Salii, con un balzo di cui ancora
non mi capacito, e mi aggrappai forte per non cadere. Qualche soldato prese a salutarmi e a
mettersi sull’attenti credendo che fossi un ufficiale. La temperatura scendette sotto i trenta
gradi e, oltre alle gambe, tutto il corpo perse velocemente sensibilità; decisi di saltare giù dal
mulo e di cominciare a camminare per riacquistare un po’ di calore.
Camminammo tutta la notte, sino a mattina, per arrivare a Podgornoje. Tutti i reparti,
come la raggiungevano, si sfasciavano, si disperdevano nelle isbe. Confluivano lì colonne
tedesche e italiane, colonne di automezzi, muli, slitte.
Faceva molto freddo, tirava un vento che ci agghiacciava. Ed ecco l’ordine: «In colonna
pezzi a traino». Quella notte camminammo per circa 40 chilometri. Spesso il buio della notte
era rischiarato da forti lampi accompagnati da boati. «Cosa sarà questo?» dicevamo tra noi.
Correva voce che i lampi ed i boati fossero i depositi di munizioni fatti saltare per non lasciarli
cadere in mano nemica. «Ma allora,» pensammo un po’ dubbiosi «ci stiamo ritirando?».
Verso mattina ci trovammo in un grande paese.
Era il 18 gennaio e la situazione si stava aggravando. Era ancora buio, nonostante fosse
già mattino. Una nebbia mattutina impediva di distinguere con chiarezza qualsiasi contorno
di figure o cose. Entrai con dei miei compagni in un’isba e, stanco morto, mi buttai su un po’
di fieno e mi addormentai. Dopo circa un’ora entrò il Tenente Tranquillini. «Ma chì se
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dorme!», gridò in dialetto trentino. Ci alzammo tutti in piedi, il più velocemente possibile,
come se niente fosse successo; vestiti lo eravamo già, ma svegli un po’ meno, così gli chiesi:
«Cosa ghe se sior tenente?». Si avvicinò e ci disse: «Si apprende per radio che siamo
circondati per un raggio di circa 150-200 chilometri». «Ma sior Tenente, da dove xei passà
i russi?», «Non lo sappiamo ancora di preciso, caso è che siamo circondati». La notizia
fu come una martellata in testa, tanto ci lasciò sbigottiti e sconvolti. Il Tenente proseguì
raccomandandoci di coprirci bene per ripararci dal freddo intenso, di tenere armi, munizioni,
viveri e una coperta, il resto via tutto in modo da essere alleggeriti in previsione della molta
strada da percorrere e dei combattimenti da sostenere. Passai in rassegna lo zaino e mi preparai
a partire.
Era l’alba. Fuori dall’isba sembrava la fine del mondo.
L’abitato era avvolto in una pesante coltre di fumo, erano molti gli incendi. Tutte le isbe
erano strapiene di uomini. Magazzini in fiamme, depositi di munizioni che saltavano in aria,
sparatorie disordinate. Una puntata corazzata sovietica su Podgornoje avrebbe significato la
fine di 30.000 uomini.
Un po’ più tardi la colonna cominciò a muoversi. La Tridentina procedeva su due
colonne: i cosiddetti reparti organici aprivano la marcia e la grande massa degli sbandati li
seguiva. Si sentivano colpi di artiglieria, la nostra mitragliatrice Breda ogni tanto faceva
sentire il suo crepitio, la colonna davanti a noi era lunghissima. In coda qualche compagnia
di alpini e noi artiglieri, i russi non li vedevamo ma sapevamo che erano poco lontano. La sera
ci accampammo, accendemmo dei fuochi e provammo a riposare, ma gli orrori veduti quel
giorno ci vietavano di dormire, di riflettere, di ricordare la nostra Patria, ormai lontana, ormai
perduta. Chi poteva sapere meglio di noi come la guerra portasse alla fine, al crollo, alla
distruzione; n’eravamo testimoni, tutti i giorni, ininterrottamente consapevoli del nostro
destino che ci avvicinava alla morte. Uomini smarriti, ormai ombre. Non riuscivamo a scaldarci di fronte ad un fuoco acceso perché incapaci di provare emozioni che avessero potuto
animarci il corpo e risanare la mente oppressa ed abbattuta.
Verso mattina noi eravamo ancora fermi, ci stavamo riposando quando vedemmo dei
soldati con la divisa color kaki: erano ungheresi. Cavalcavano dei bellissimi cavalli e stavano
scappando molto velocemente. Chiedemmo loro il perché di una fuga così veloce e ci dissero
che i russi stavano arrivando. Nessuno di noi si mosse. A mattina già inoltrata ci attaccarono.
Riuscimmo a respingerli nonostante si presentarono con carri armati. Noi non avevamo
armi adatte ad affrontare i carri armati in quanto la nostra artiglieria da montagna aveva in
dotazione un obice da 75/13 adatto per la montagna e non per le immense steppe russe.
Quegli attacchi si fecero sempre più duri e aspri. I russi non si limitavano ad attaccare
un punto ben preciso della colonna, ma attaccavano in vari punti e questo rendeva molto più
difficile la difesa. C’erano feriti, congelati, morti, mancavano i muli e scarseggiavano i viveri.
Ad un tratto il silenzio apparente venne rotto da rumori di macchine, precisamente di
carri armati. Il Capitano si rallegrò pensando che fossero i tedeschi venuti in nostro aiuto.
Sfilarono davanti a noi, incuranti, quattro carri giganteschi; tutti si alzarono per vederli, chi
era stremato e stanco rimase seduto a terra indifferente, troppo concentrato sull’agonia che
lo affliggeva, disinteressato a quello spettacolo. Poco dopo la foga si placò e iniziò a diffondersi nell’aria gelida angoscia e paura. Non erano carri tedeschi, infatti non avevano sulla fiancata il simbolo tipico dell’armata sassone, bensì compariva ben visibile una stella, emblema
dell’esercito russo. Inquietante fu come i russi attraversarono tranquillamente il nostro campo; noi per lo sfinimento e la scarsa prontezza di riflessi non reagimmo nemmeno, non
attaccammo il nemico che, per quella volta, non ci degnò neanche di uno sguardo e neppure
di un colpo di mortaio.
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Verso il 20 gennaio provato dalla fatica e dalla sofferenza di una vita così dura persi
le nozioni del tempo, non rammentavo più il mese, il giorno e l’anno. Il Tenente Tranquillini
doveva avere qualcosa che lo preoccupava, ma non diceva niente. Stavo mangiando delle
verze trovate in un’isba; si avvicinò a me, gliene offrii un po’, in silenzio accettò e mangiò.
Colsi l’occasione per chiedergli come andavano le cose. «Male» mi rispose. «Abbiamo appreso che l’armata di Von Paulus è circondata e sembra che i tedeschi vogliano arrendersi».
Confessò che quell’armata era molto forte e contava circa 350.000 uomini. Cosa potevamo
noi alpini che eravamo in 60.000 e già mezzi fatti fuori? «Caro Tadiello» mi disse «in alto i
cuori e sempre coraggio, altrimenti faremo la fine di Napoleone».
Riprendemmo la marcia il giorno dopo, verso le prime ore del mattino, sempre in coda
alla grande colonna. Il nostro Capitano però ci fece imboccare una deviazione inaspettata. Ci
ritrovammo isolati dal resto del reggimento e in preda al panico quando sentimmo dei rumori
di carri armati che proseguivano verso di noi. Decidemmo di tendere loro un’imboscata, piazzando a terra due mine anticarro. Aspettammo che si avvicinassero: il primo si bloccò proprio
davanti a noi, nascosti tra le piante, il secondo tentò di fuggire, si girò, ma la bomba scoppiò
proprio sotto di esso, distruggendolo e uccidendo tutti gli uomini al suo interno. Davanti
ai nostri occhi uno spettacolo pirotecnico colorava il cielo e il fuoco generato dalle bombe
scaldava un poco le nostre membra infreddolite. Ma non era tuttavia un intrattenimento
allietante, mai la morte è divertimento.
In quel momento attraversammo un piccolo villaggio e ci dissero che dovevamo raggiungere la testa della colonna con la nostra batteria. Strada facendo vidi sulla mia sinistra una
colonna di macchine italiane mezze distrutte e per terra dei soldati morti. Doveva trattarsi di
un comando di qualche divisione di fanteria. Trovai un piccolo bidoncino di vino tutto ghiacciato. Lo attraccai al mio mulo e invitai i miei compagni a prenderne ogni tanto un sorso. Si
fece notte, una notte d’inferno. Ci fermammo, scaricammo le munizioni e le ponemmo vicino ad un’isba la quale dopo poco prese fuoco. Il mio Tenente si disperò: bisognava togliere
le munizioni per evitare lo scoppio. Fu un lavoro particolarmente faticoso a causa della stanchezza e perché a malapena riuscivamo a stare in piedi. Poco dopo trovammo delle pecore
vive, le uccidemmo per sfamarci cocendo la carne sul fuoco della casa che bruciava. Poi
ripartimmo, ma fummo tempestati da molti ordini e contrordini e non capivamo più niente.
Ci ritrovammo ben presto in testa alla colonna. Sentimmo dire che nelle retrovie i russi
attaccavano con i carri armati, facendo molti prigionieri.
Arrivammo vicino ad un villaggio e la nostra batteria si fermò e sparò alcuni colpi. Vidi
una persona che ci faceva dei cenni. Era il Tenente Milesi. Lo riconobbi perché era molto alto
di statura. Voleva che gli portavamo le munizioni. Gli alpini occuparono il villaggio, ma si
riprese subito a camminare.
Notai sul fianco della strada un gruppo di alpini morti, ci fermammo a guardarli e tra noi
pensammo: «Oggi a voi, domani a noi». Sembrava quasi che una mano pietosa li avesse
ricomposti. La tormenta li aveva già ricoperti, non riconoscemmo nessuno.
A sera ci fermammo in un altro villaggio. Entrai in un’isba sperando ardentemente che
i russi non avrebbero attaccato e che ci avrebbero lasciato dormire in pace. Accesi il fuoco
per scaldarmi, mi tolsi le scarpe e con le calze venne via anche la pelle delle dita. Un Ufficiale
mi disse «Ti fa male graffiare?». «Si, signor Tenente». «Allora non sei congelato».
Presi un po’ di paglia, mi sdraiai e mi misi a canterellare. Un mio compagno mi domandò: «Ehi, ti, ciò, sito drio a deventare mato? Cosa stai cantando?». «Canta», gli dissi «che la
te passa» e, mentre agitavo le mani con gran foga, intonai due note del Nabucco di Verdi
“Oh mia patria, sì bella e perduta” che avevo imparato a quindici anni nella corale del mio
paese e che cantavo di solito in trincea, suscitando l’ira del mio Capitano, preoccupato giu– 160 –
stamente che il nemico mi sentisse. Poi tra una confusione indescrivibile, presi miracolosamente sonno. Mi svegliai verso mattina e mi ritrovai addirittura sommerso da tre alpini che
si erano buttati sopra di me per dormire. Tentai di venire a galla, mi drizzai in piedi e mezzo
ubriaco uscii dall’isba. Scorsi il mio Capitano, mi gridò qualcosa, capii solo che dovevamo
essere già partiti da due ore. Dopo poco la batteria era pronta e ripartimmo.
Dopo un po’ ci ritrovammo di fronte ai russi. Colonna alt! Il nostro Capitano fece disporre in posizione i pezzi, diede gli ordini e fece partire alcuni colpi. Una compagnia di alpini
era davanti a noi, ci fecero segno che non avevano più bisogno. Togliemmo i pezzi per poi
ripartire. Appena ci rimettemmo in moto arrivarono dei colpi di artiglieria che colpirono il
posto dove eravamo noi.
Il paese era così libero. Al nostro arrivo trovammo dei pezzi di artiglieria abbandonati
con vicino dei morti. Ci fermammo per riposare un poco in attesa che i nostri altri reparti ci
raggiungessero. Venne velocemente sera. Come sarebbe stata la notte? Eravamo sempre in
attesa di ordini. Provai a ficcarmi in un’isba, ma non mi lasciarono entrare. C’era dentro un
nostro Comando Generale. Dalla finestra vidi che gli Ufficiali discutevano tra di loro e sul
tavolo avevano delle carte geografiche. Dopo una notte passata all’addiaccio, al mattino
ripartimmo. Ad un certo punto adocchiai gli alpini sciatori ritornare da una perlustrazione e
parlare con un gruppo di ufficiali.
Sentii che la 19ª Batteria sparava già, la nostra non ancora. Arrivavano dei colpi di artiglieria e uno colpì un pezzo della batteria già in azione. C’erano parecchi feriti, tra i quali il
Capitano. Mi venne in mente di mio cugino Ferdinando, andai a controllare, non lo trovai, ma
mi dissero che non era tra i feriti. Ritornai al mio posto e vidi un Colonnello degli alpini
chiamare un Maggiore. Gli disse di prendere i suoi uomini e di muovere in una data direzione.
Il Maggiore richiamò i suoi soldati, li fece osservare al Colonnello. Saranno stati circa
una trentina. «Questi», disse il Maggiore con le lacrime agli occhi «sono il resto di tutto il mio
battaglione». Il Colonnello gli si avvicinò, gli batté una mano sulla spalla e gli sussurrò qualcosa che non capii. Il Maggiore gli diede la mano, se le strinsero molto forte, sembrava più
rasserenato. Si girò, prese con sé i suoi uomini e scomparve nella tormenta. Non so cosa si
siano detti quei due uomini, ma penso che certe parole si dicano una sola volta nella vita.
Gli alpini riuscirono a respingere i russi e ad entrare in paese, dopo poco arrivammo
anche noi e non trovammo più niente da mangiare. Ci sbrigammo a ripartire e nel pomeriggio
arrivammo in un altro villaggio, occupando anche quello. Ad un tratto mi accorsi che da una
casa uscivano degli alpini che tenevano in mano del miele. Entrai anch’io e vi scoprii un
allevamento di api. Presi due o tre cassette di api e di miele, le portai fuori e con i miei compagni mangiammo api e miele tutto assieme.
Ad un certo punto sentii urlare il mio nome, era mio cugino Michele Ferrari, attendente
del Generale della Divisione Julia. Ci abbracciammo e poi cominciammo a raccontarci le
nostre avventure, o meglio disavventure. Mi parlò dei furibondi combattimenti sostenuti dalla
sua divisione. Mi chiese qualcosa da mangiare perché da più giorni non trovava niente. «Sì,
caro cusin, adesso tin dò mi». Mi avvicinai al mulo per prendere un barattolo di marmellata
trovato in una piccola sussistenza, invece delusione: durante la notte me l’avevano portato via;
ne provai un grande dolore.
Al mattino riprendemmo a camminare; entrammo in un paese e quella volta non ci fu
bisogno di sparare. Camminando tra le vie del paese trovammo, ad un certo momento, un
ospedale. Niente di straordinario in ciò, ma mi fermai ugualmente e con me tanti altri alpini,
a guardare una scena che ora mi sconvolge a pensarci, ma allora mi lasciò quasi indifferente.
Con noi si trovavano dei tedeschi, si diceva fossero SS. Camminavano con noi; praticamente
si ritiravano anche loro con noi. Arrivati in quel paese erano entrati nell’ospedale. Non so cosa
– 161 –
stessero facendo, ma vedevo ammalati saltare dalle finestre e fuggire come disperati. Come
ho detto la scena mi ha lasciato praticamente indifferente, la guerra mi aveva fatto perdere il
senso della sofferenza e del male. Anche quando il male lo provi di persona.
Ripartimmo nuovamente, mentre un grido ci accompagnava: «Avanti! Avanti!». La fame
mi aveva tolto le forze, ma come un lampo nella mente mi ricordai di avere nello zaino una
scatola di Ovomaltina, me l’aveva spedita mia madre dall’Italia quando ero sul Don e l’avevo
conservata nei viveri di riserva. Ne mangiai mezza scatola e l’altra metà la diedi al mio compagno Vinco. Quella scatola di Ovomaltina fu per me la manna in mezzo a quel mare di neve.
La marcia si fece sempre più dura, si sprofondava nella neve, i muli non riuscivano a tirare i
pezzi. Ci dicevano continuamente: «Bisogna passare questa piccola valle, al di là andremo
meglio». Dopo molti sforzi riuscimmo ad attraversare la valle. Trovammo due lunghe
baracche piene di fieno. Ne demmo ai muli e noi accendemmo dei fuochi per scaldarci, ma
il Capitano Bavosa ci gridò: «Spegnete i fuochi, il nemico ci può vedere!». Mi avvicinai
allora ai muli e ai pezzi, ma era ancora troppo freddo, perciò entrai nel capannone, mi misi
sotto un po’ di fieno e presi sonno. Ad un tratto mi svegliai di soprassalto, dei soldati mi
stavano calpestando. Sentii un grido dall’esterno. Saltai fuori mezzo attonito e intontito: il
capannone aveva preso fuoco; ci scaldammo con quell’incendio fino a mattina, nessuno sparò
verso di noi fortunatamente. Prima che venisse l’alba eravamo già in movimento.
Intanto erano tornati indietro gli alpini: il Battaglione Verona e Edolo, ci avvisarono che
non riuscivano a passare perché c’erano i carri armati russi. Ma a fronteggiare i russi erano
rimasti sul posto altre batterie ed altri alpini. Dai colpi che si sentivano si capiva che la
battaglia era intensa.
Capitava spesso di dover chiamare dei battaglioni che si trovavano in coda alla colonna.
Allora, dalla testa della coda, un Ufficiale gridava «Avanti il Battaglione Vestone» e nella
notte l’eco sembrava arrivare fino alle stelle, per poi rimbalzare contro di esse e tornare
indietro, sbattendo addosso ai nostri corpi che per il trambusto facevano quasi fatica a rimanere in piedi. Quando la voce raggiungeva il Battaglione, passavano ancora delle ore prima
che gli uomini arrivassero in cima alla colonna. Giungevano avvolti dalla tormenta, quasi
fossero fantasmi e si mettevano a parlare con l’Ufficiale che li aveva chiamati in causa.
Vidi un gruppo di Ufficiali, c’erano anche Generali e Colonnelli: stavano discutendo. A
guardarli in faccia sembravano pieni di coraggio e a questo proposito devo dire una cosa
che non posso tacere. Durante tutto il periodo della guerra e specialmente quando i pericoli
erano maggiori, non ho mai visto Ufficiali alpini venire meno ai propri doveri. Hanno sempre saputo essere all’altezza del loro compito sia come capacità che come coraggio.
I russi per il momento se n’erano andati, ma le nostre condizioni si facevano sempre
più penose. Il freddo era terribile: si parlava di 40-45° sotto zero. Un soldato si attaccò al mio
mulo, si faceva trascinare. Gli chiesi che cosa aveva, ma non rispondeva. Lo caricai sul mulo,
ma dopo un po’ lo dovetti scaricare a terra, altrimenti sarebbe congelato; non era ferito, ma
non aveva più forze. Mi accorsi solo allora che non era un semplice soldato, ma un Maggiore
medico di fanteria. Lasciai che si trascinasse ma in seguito non lo vedetti più.
Sopra di noi passò nel frattempo una “Cicogna”: era russa, stava andando ad atterrare su
una collina vicina. Il mio Capitano fermò un pezzo, lo posizionò, diede le coordinate di tiro
e fece partire un colpo. Ne seguì subito un altro e l’aereo venne colpito, vedemmo due uomini
fuggire. Ripartimmo. Un Ufficiale tedesco vicino a noi gridò: «Gut fanteria». Il Capitano,
sorridendo, sussurrò con quella sua voce baritonale «Abbiamo ancora le navi da affondare,
poi le abbiamo fatte tutte».
Cominciava a fare un po’ meno freddo. Si continuava a camminare. Erano passati quasi
otto giorni dall’inizio della ritirata. Presto saremmo arrivati alle porte di Nikolajewka. Io
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facevo parte del gruppo che era in testa alla colonna. Arrivavano dei colpi di mortaio e il mio
Capitano ci fece fermare perché voleva rendersi conto personalmente di quanto stava succedendo. Decise poi di fare staccare la mia sezione e con il Tenente Tranquillini prendemmo
un’altra strada. Chiedemmo al Tenente dove stavamo andando noi soli con due pezzi e ci
rispose che dovevamo far cessare quegli attacchi che provenivano da destra. Ma ritornammo
sui nostri passi senza dover sparare un colpo. Approfittai della situazione per sgattaiolare in
un’isba. Quando entrai trovai sopra il camino un tipico cibo russo. Erano delle mele tagliate
a fettine, infilzate con ago e filo e messe ad essiccare come una collana di fiori sopra al
focolare. Ne portai fuori quel che riuscii a recuperare e invitai i miei compagni a servirsene.
Intanto la Tridentina continuava i suoi combattimenti presso Sceliakino. Erano migliaia
gli sfiniti in ginocchio lungo le piste e piangevano stendendo le mani come se chiedessero l’elemosina. Ma le colonne passavano, correvano, scappavano. Dopo aver raggiunto Nikitovka,
come da ordine dell’ARMIR, dovevamo superare due sbarramenti, ad Arnauto e Nikolajewka.
Ci unimmo quindi al resto della colonna che era sempre ferma su una collina alla porte
di Nikolajewka. Venne verso di noi un Colonnello a cavallo e ci comunicò che dovevamo
avanzare perché davanti avevano bisogno di noi. Gli alpini tentarono di entrare in città, ma i
russi li respinsero. C’era una ferrovia che ci divideva da loro. Non riuscimmo ad attraversarla.
Piazzammo i pezzi, avevamo i colpi contati e come se non bastasse c’erano pure gli aerei che
ci attaccavano. I morti e i feriti erano molti. Insieme ai soldati combattevano anche Generali,
Ufficiali e di tutti i gradi. Cominciammo a scendere verso Nikolajewka. Era il 26 gennaio.
Riuscimmo a passare la ferrovia, ma fummo ricacciati indietro. Fu una battaglia dura, ma alla
fine gli alpini riuscirono ad entrare in città e allora noi artiglieri fummo costretti a cessare il
fuoco. Verso sera arrivò l’ordine del Generale Riverberi: «Tridentina avanti!». Partimmo
tutti, era l’ultimo disperato tentativo. Quando i russi si accorsero che il grosso stava scendendo
verso di loro misero in azione tutte le artiglierie. «Ostrega ghe semo!», pensai.
Non me la sono mai vista brutta come in quel momento. «Mio Dio rimetto nelle Tue mani
la mia vita», pregai come mai avevo pregato. Arrivavano colpi da tutte le parti; morti, feriti,
urla, muli squarciati, sembrava impossibile vivere ancora. In mezzo a quell’inferno sentii
una voce disperata: «Mamma, mamma aiuto!». Non mi fu possibile soccorrere questo soldato,
avrei saputo più tardi che era della mia batteria.
Verso notte cominciammo ad entrare in città. Si sparava ancora, non capivo più niente.
Sentii chiamare il mio cognome. Era la voce di un mio caro amico del Battaglione Verona:
Luigi Lunardi. Ci identificammo dalla voce perché dall’aspetto eravamo irriconoscibili. Ci
stringemmo in un grande abbraccio, cercando di farci coraggio: «Forza che forse ghe semo,
e se troveremo ancora a Gambellara a magnare polenta e osei». «Ciao, ciao!». Ci saremmo
ritrovati poi in Italia.
Non riesco a descrivere quello che ho visto in quella città: confusione, soldati morti,
feriti, congelati. Io non riuscivo a stare in piedi e mi meravigliavo di essere ancora vivo.
C’era ancora il pericolo di trovare i russi.
Ci fermammo in un piazzale dove c’era una chiesa; entrammo, eravamo i primi. In un
attimo si riempì di persone. Accendemmo dei fuochi per scaldarci, mangiai qualcosa e cercai
di riposarmi in piedi, proprio come le bestie. Ma la chiesa prese fuoco. «Fuori, fuori!» si
urlava. Aiutammo gli alpini feriti ad uscire e ci ritrovammo tutti in mezzo al piazzale. Arrivavano degli spari, erano partigiani russi, un nostro ufficiale li volle andare a prendere. Erano
riparati dietro un pagliaio. Non so se ci riuscì, non ne seppi più nulla. La notte passata all’aperto in quelle pietose condizioni fu triste e desolante. Ci prodigammo come meglio
potevamo per aiutare i feriti e i congelati, ma non avevamo niente. Da dieci giorni ci mancavano tutti i rifornimenti.
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Al mattino riprendemmo a camminare, non sapevamo ancora che con quella battaglia
si era aperta la porta verso la liberazione. Seppi più tardi che, mentre eravamo circondati,
Radio Mosca trasmetteva che la sacca del Don sarebbe stata la tomba degli alpini d’Italia,
ma poi la stessa emittente avrebbe riconosciuto che solo gli alpini riuscirono ad uscire dall’accerchiamento.
Camminammo per alcuni giorni e notti senza fermarci e questo per evitare di essere
accerchiati ancora.
Avevamo perduto tutto, ci restavano solo i muli. A quelle bestie devo il mio grazie
più caro perché sono state la nostra salvezza. A loro attaccavamo le slitte per portare feriti e
congelati.
Ci dissero che dovevamo raggiungere un caposaldo tedesco, ma non riuscivamo a
trovarlo. Una loro “Cicogna” guidò la nostra colonna. Non arrivavano rifornimenti, né viveri;
eravamo sfiniti, passando dai villaggi portavamo via tutto quello che trovavamo. Se trovavamo una bestia la uccidevamo e la mangiavamo cruda.
Un pomeriggio vedemmo delle autoblindo tedesche ferme con impianti radio funzionanti, ma poco dopo se ne andarono. C’era ancora pericolo di accerchiamento. Allora la
marcia invece di cessare continuò. Marciammo per tutta la notte. Al mattino ci fermammo un
momento. Vidi vicino a me un Ufficiale che si stava lavando le mani con la neve. Mi guardò
e sorridendo mi disse: «Di dove sei tu?», «Di Verona» gli risposi. «Coraggio allora, che a
Verona ti riporterò ancora!». Solo dopo mi accorsi che era il mio Generale Reverberi. Quelle
parole mi risuscitarono, lo ringraziai e dentro di me piansi di gioia. Mi girai e lo dissi ai miei
compagni e se avessi potuto l’avrei gridato a tutta la colonna.
Continuammo a camminare.
Passammo vicino al Comando tedesco che cercavamo. Avevano un grande allevamento
di polli. Sfondammo la porta, nonostante una guardia armata ce lo impedisse. Io presi una
decina di galline, le buttai sulla slitta e poi le coprii con degli stracci. I tedeschi imprecavano,
ma noi non ci curavamo nemmeno di loro. Alla sera ci fermammo in un altro villaggio.
Ci concessero di riposare tutta la notte. Entrammo in un’isba. C’erano solo tre donne. Consegnammo loro le galline incaricandole di cuocerle; lo fecero subito. Dopo tre ore il brodo
caldo insipido era pronto accompagnato da una gallina a testa (e una penna sul cappello).
Io non mangiai. Mi venne inoltre una forte febbre. Mi buttai giù e cercai di dormire.
Verso mezzanotte la padrona di casa mi svegliò e mi diede un po’ di brodo caldo. Rimasi stupito per la sua gentilezza e bontà. Bevvi il brodo, la ringraziai e ripresi a dormire. A questo
punto tengo ad affermare, avendo avuto ancora modo di constatarlo, la grande cordialità del
popolo ucraino. Lasciavano capire di volerci bene nonostante in guerra fossimo nemici.
Al mattino avevo ancora la febbre. Un mio amico mi caricò sulla slitta. Così ripartii con
gli altri. Ma un camion tedesco investì la slitta: fui buttato nel fosso e rotolai per qualche
metro. Saltai in piedi perché dovevo per forza camminare. Iniziai a sentirmi meglio, mi parve
di non avere più la febbre. Ci voleva quello spintone per farmi guarire. Strada facendo
incontrammo una colonna tedesca, chiedemmo da dove venivano: «Dalla Francia», ci risposero. Erano ben vestiti e ridevano a vederci in quelle condizioni. «Poveretti» pensammo noi,
«ve ne accorgerete!».
Dopo qualche giorno ci fermammo ancora e il nostro capitano comunicò che forse
eravamo fuori pericolo di accerchiamento. Sostammo qualche giorno per riprendere un po’
le forze. Eravamo pieni di pidocchi e non riuscivamo a lavarci i panni. Lì venni a sapere che
i Comandi Tedeschi avevano fatto una proposta ai nostri Comandi: raccogliere tutti gli uomini
usciti dalla sacca e rifare un altro esercito. I nostri superiori avevano risposto con un secco
rifiuto.
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D’improvviso una voce corse da un’isba all’altra, echeggiando nel cielo limpido, la coda
stava ripartendo. La Tridentina guidava una colonna ininterrotta di sbandati che si allungava
nella steppa con una profondità di trenta chilometri. Il 27 gennaio i resti della Cuneense,
irrimediabilmente accerchiati, con il generale Battisti, caddero prigionieri a Valuijki. Il 31 gennaio la Tridentina raggiunse finalmente gli avamposti tedeschi. Le truppe sfilarono così sotto
gli occhi del generale Gariboldi. I feriti più gravi furono i più fortunati: venivano caricati sui
pochi autocarri italiani e sgombrati verso Charkov. Si calcolava che fossero usciti dalla sacca
circa 20.000 italiani e circa 16.000 tedeschi ed ungheresi.
La ritirata era finita, ma il calvario continuava. Le colonne della Tridentina dovettero
riprendere una lunga marcia, interminabile, verso ovest. Il fronte era in movimento e i
superstiti dell’ARMIR rischiavano di restare di nuovo insaccati. Settecento chilometri, poi i
resti della Tridentina finalmente raggiunsero il punto di radunata, a Slobin. Con i giorni del
disgelo si ricostruirono sulla carta i reparti, si contarono i morti e i dispersi della ritirata.
Se nel 1942 erano occorse 200 tradotte per portare il corpo d’armata italiano sul fronte russo
allora ne bastarono 17 per ricondurre in Italia i superstiti.
Il ritorno
Dal giorno della nostra partenza, datata 17 gennaio, giorno dell’inizio della grande ritirata, camminammo per più di un mese, giorno e notte, in condizioni estreme, disumane e inconcepibili.
Il 25 febbraio ci misero su un treno che sarebbe dovuto entrare in Italia di lì a poco.
Le terre fredde della Polonia, dell’Ucraina e della Cecoslovacchia ci accolsero inermi, polari
e quasi disabitate. Fu un viaggio di ritorno, e per quanto fosse difficile affrontarlo, visto che
la mente non faceva altro che pensare ai giorni terribili passati in Russia, fu pur sempre un
viaggio verso casa, verso la serenità.
Attraversato il Tarvisio, giungemmo a Dobbiaco verso aprile, dove ci aspettavano
quaranta giorni di contumacia. Fummo rintanati per evitare di contagiare la popolazione con
malattie contratte in Paesi stranieri; queste si sarebbero sviluppate entro quaranta giorni, ma
per fortuna nessuno di noi era grave. Ci pulirono, rivestirono e nutrirono a dovere.
Con poca nostalgia nel cuore tornammo subito a Vipiteno, luogo delle nostre esercitazioni
e del nostro servizio. Ci accampammo in mezzo ai boschi, in tenda, del resto era estate e
il freddo russo era ormai un ricordo, anche se un ricordo amaro, difficile da debellare. Dopo
la disfatta in Russia, dopo la distruzione dell’esercito italiano in Africa, ci godemmo un po’
di pace. Il cielo stellato italiano, pressappoco uguale, se non del tutto, a quello russo, era
comunque più piacevole e più luminoso sopra ai nostri occhi e tentava invano di far sparire
le orribili memorie dei compagni trucidati, congelati o morti. Verso il 24-25 luglio il capitano
radunò la batteria d’urgenza, tra lo scompiglio generale, annunciò: «Se vedete di notte o di
giorno dei paracadutisti, non sparate! Questo è l’ordine!». Il dubbio avvolse l’intero battaglione che ipotizzava sintomi di crisi tra la potenza tedesca e il governo italiano, fatto sta che
nemmeno gli Ufficiali erano consapevoli di quello che succedeva a livello internazionale e
persino nazionale. Di che razza erano poi i paracadutisti?
Venne l’8 settembre. Nessuno ancora capiva bene cosa stesse succedendo, non si sentiva
dire niente. Verso le 20.00 la batteria tedesca contraerea, appostata nei pressi di un monte,
cominciò a sparare nella nostra direzione. La confusione fu notevole; perché mai i tedeschi,
nostri alleati, ci sparavano contro? Sarebbe stata una totale pazzia. Noi oltretutto eravamo
sprovvisti di armi e di muli, persi tutti in Russia. Il Tenente allora si avvicinò a me, disse di
prendere con me altri artiglieri, le bombe a mano che ci restavano e di seguirlo fin su al
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caposaldo tedesco; era intenzionato a fermare l’offensiva appena ricevuta. Il Tenente però
precisò che dalle alte sfere non erano arrivati ordini, lui voleva partire da solo, facendo tutto
di testa sua. Respingemmo così la frettolosa offerta e tornammo ai ripari. Dopo poco gli
attacchi cessarono, ma i tedeschi presero ad attaccare un’altra batteria alpina che si trovava
in una diversa postazione. Anche loro, stupiti e inermi, assistettero all’attacco. Il provvedimento di uno dei loro capitani però fu decisivo. Egli non ammetteva che i tedeschi, ospitati
in casa nostra, potessero permettersi di attaccare senza ragione. Prese le uniche munizioni che
gli restavano e, impegnando la sua batteria nel contrattacco, distrusse completamente
l’accampamento tedesco.
La mattina del 9 settembre una camionetta tedesca arrivò al nostro caposaldo.
I tedeschi, abbandonati dai loro Comandi, ordinarono ai nostri Ufficiali di seguirli.
Destinazione Germania. Pensavamo fosse questione di un mese, di un conflitto lampo; i
tedeschi d’altra parte non sarebbero riusciti a reggere da soli la guerra che avevano loro stessi
generato. Ci fecero abbandonare le poche bombe a mano che avevamo e ci incolonnarono per
bene. Percorremmo 50 chilometri a piedi, da Vipiteno ad Innsbruck , un viaggio percorso nel
dubbio e nello sconforto. L’Italia (i Comandi Generali) aveva deposto le armi, resasi conto
della guerra atroce che stava combattendo, noi però ci trovavamo in Germania ignari di quello
che i tedeschi avrebbero fatto di noi. Lo scoprimmo ben presto, quando per dormire fummo
posti in bunker umidi e tetri, quando per stare in piedi non bastava quel pezzo di pane insipido e cartoccioso: eravamo stati rinchiusi in un campo di concentramento, chiamato Stalag
ib, come “prede di guerra non dichiarata” e io come matricola numero 11771. Per fortuna
(e questo non è un modo di dire) ci trasferirono in un campo di lavoro dove ci fecero costruire
le trincee verso la Polonia, per quattro mesi consecutivi. Gli Ufficiali li allontanarono da noi,
non sapevo bene se ricevessero dei trattamenti speciali, ma sicuramente era così. Eravamo più
di 600.000 prigionieri italiani, uno più spaurito dell’altro, pronti però a fare onore alla Patria
quando mai questo fosse stato richiesto.
La situazione internazionale era misteriosa, nessuno capiva o sapeva dove la Germania
sarebbe andata a parare, da chi avrebbe ricevuto aiuto e chi glielo avrebbe offerto. L’Italia era
attraversata da un’ondata di crisi e contraddizioni, ed era quasi vicina a scatenare uno scontro in opposizione alla sua alleata tedesca. Questi stessi Comandi Tedeschi vennero a chiedere soccorso a noi prigionieri italiani. Avremmo dovuto scegliere se combattere a fianco
della Germania, in questo caso ci avrebbero rivestito e fornito di armi, o rimanere nelle condizioni in cui ci trovavamo. La nostra richiesta, ed allora pretendevamo anche noi qualche
cosa, avendo capito che i tedeschi senza gli italiani non ce l’avrebbero fatta, era di restituirci
i nostri Ufficiali, da tempo separati da noi soldati e con i quali avremmo volentieri combattuto. Ma i nostri ufficiali rifiutarono di combattere a fianco della potenza tedesca. E noi aderimmo alla loro decisione. Fino a novembre fummo costretti a lavorare come forsennati per
costruire le loro trincee, che a poco sarebbero servite senza dei soldati da far combattere.
Verso l’inizio di gennaio fui trasferito nel campo di lavoro a Oels-Breslau, per lavorare
in fabbrica. Con me c’era anche Ferdinando, mio cugino. La fabbrica si occupava di riparazioni alle locomotive a vapore, un lavoro non molto pesante, se non fosse stato per gli orari:
dodici ore di giorno una settimana e dodici ore di notte la settimana successiva. Venivamo
ripagati con il minimo indispensabile per vivere, così per tredici mesi, in condizione da
olocausto; da ottantacinque chili arrivai a pesarne quarantotto. Passai lì due volte il Natale,
nel 1943 e nel 1944, in quelle condizioni di miseria.
La mattina del 25 dicembre del 1944, uscii di nascosto per raccattare nel letamaio un
cestino di bucce di patate. Corsi nella baracca, le pulii, le cucinai in un po’ di acqua insieme
ad un pezzetto di burro, che ogni tanto ci davano insieme ad un pezzo di cioccolato, e le
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mangiai, ma subito dopo mi colpì un mal di stomaco tremendo. Potevo dire di aver passato
il Natale con la pancia piena, anche se questa ululava dal dolore dei crampi.
Venivamo continuamente sorvegliati dalle SS e non potevamo assolutamente comunicare
con l’esterno. In caso di svenimenti o malori (come mi è personalmente capitato) venivamo
picchiati e bastonati dalle SS. Chi si ammalava e non poteva continuare il lavoro veniva
portato via e di questi si perdeva ogni traccia.
Intanto il fronte russo avanzava, noi eravamo in una zona in cui i russi non avrebbero
faticato ad arrivare. In quel periodo, per fortuna, l’America entrò nel conflitto. Con le sue
armate era sbarcata in Italia, non trovando però vittoria contro le armate tedesche provenienti
dall’Africa. Noi invece ci trovavamo in mezzo tra russi e americani (provenienti dalla Francia
e dalla Normandia), ma nessuno sapeva cosa sarebbe successo. O almeno cosa avremmo
dovuto fare noi prigionieri.
Dove lavoravo io rischiavamo tutti i giorni di morire. Il freddo e la fame si divertivano
a logorare i nostri corpi smunti. Nella fabbrica eravamo circa in 3.000 uomini e io lavoravo
in un reparto dove c’era un francese prigioniero di guerra. Era trattato meglio di noi, veniva
sfamato dalla Croce Rossa Internazionale, noi non eravamo considerati prigionieri di guerra
e quindi la Croce Rossa non poteva avere contatti di nessun tipo con l’Esercito Italiano catturato dai tedeschi. Lui viveva in una baracca nella quale aveva messo in piedi una radio, da
essa riceveva notizie particolari che noi non potevamo avere da nessuno e che nessuno ci
avrebbe mai comunicato: “i francesi sarebbero stati liberati dai russi e non dagli americani”.
Era nata così una situazione di paura, se i russi avessero liberato i francesi avrebbero preso
noi come prigionieri, avendo combattuto contro di loro sul fronte del Don. Con noi lavorava
anche un ragazzo cecoslovacco e con lui ci divertivamo a parlare di calcio; qualche anno prima infatti l’Italia aveva battuto due a uno la nazionale cecoslovacca ai campionati mondiali,
e noi scherzavamo con lui sapendo che era comunque molto affezionato a noi italiani.
Insieme a lui e a tutti i prigionieri, finito il lavoro, ci incamminavamo verso la baracca che
si trovava in periferia, vicino ad un’immensa distesa di campi coltivati di patate, spinaci e
barbabietole. Capitava che alle volte ci dessero il permesso di uscire, dopo il rancio serale, nel
cortile della baracca. Una di quelle volte ci avventurammo nelle coltivazioni; raccogliemmo
delle barbabietole e le pulimmo come meglio potevamo, con le mani e con gli stracci che
avevamo addosso. Le assaggiai, ma erano talmente fredde che mi gelarono tutto lo stomaco e
le budella. Un’altra volta, da quanto eravamo affamati, strappammo delle patate, lasciando le
piante fuori dal terreno. I contadini si accorsero subito, presentarono denuncia al Comando del
campo di concentramento e qualche giorno dopo venimmo tutti radunati nel grande cortile. Un
Ufficiale tedesco, con quattro soldati, si mise davanti ai prigionieri, zittiti e impauriti come mai
era successo. Negli occhi di tutti noi scorreva lentamente una fifa atroce, la paura per l’ira che
i tedeschi ci avrebbero scatenato contro, e noi come sempre rimanevamo inermi, incapaci di
contestare. Un interprete, che allora era uno di noi, si accostò all’Ufficiale; questi cominciò a
parlare, ad urlare e noi, che capivamo qualcosa della lingua tedesca, intuimmo che non erano
di certo delle belle notizie e che si trattava certamente delle patate che avevamo rubate e mangiate crude. Quando l’Ufficiale finì di imprecare e di inveire, indicando sovente le corde per
l’impiccagione, il nostro interprete si fece avanti e, sicuro che i tedeschi non capivano niente
di italiano e figuriamoci di dialetto, ci disse queste parole: “Adesso vi dico una cosa, ma che
nessuno di voi si azzardi a ridere, altrimenti lo uccido! Perché avete strappato così malamente
le piante delle patate? Non potevate prendere una patata da ogni pianta? Bisognerà che venga
io ad insegnarvi! Loro vi hanno detto che se trovano ancora qualcuno che fa una cosa del
genere lo impiccano! State quieti, abbiate pazienza che ormai la nostra liberazione è vicina e
quindi la sorte che loro hanno pensato per noi, non si avvererà, saremo noi a portarli sulla
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forca!”. Ed additava insistentemente verso la corda per impiccare i disertori e, siccome i
tedeschi proprio non capivano niente della nostra lingua e credevano che l’interprete traducesse
alla lettera il loro discorso, annuivano con la testa e ripetevano “sì sì” nella loro lingua. Noi
imparammo la lezione, ancora sconcertati dal coraggio dell’interprete, che aveva avuto la
prontezza di spirito di dire quelle cose di fronte all’ufficiale che, se solo avesse conosciuto un
po’ di italiano, lo avrebbe fatto fucilare all’istante. Non saremmo più andati a rubar patate,
anche perché quando erano crude, non erano per niente buone!
Alla sera, quando rientravamo nella catapecchia un nostro compagno, come tanti altri di
noi, ci raccontava di aver imparato un canto che usavano intonare durante la Prima Guerra
Mondiale i nostri padri; faceva più o meno così: “Noi prigionieri, noi prigionieri di guerra,
là sull’ingrata terra, sul suolo slesian, è grata, è grata e non si può dormir, la pelle è traforata,
oh che crudel destin. Giunti in baracca, sul duro letto di legno, dove che pulci regno, pidocchi in quantità, è grata, è grata e non si può dormir, la pelle è traforata, oh che crudel destin”.
A fine gennaio il francese mi fece notare dei rumori di cannone. Erano le truppe russe
poco lontane da noi. Il francese però mi rassicurò che non sarebbero passati dal luogo in cui
ci trovavamo, che sarebbero stati più a nord. Una mattina successe una cosa strabiliante.
Usciti dal dormitorio non vedemmo nessun tedesco che sorvegliava il campo. Eravamo
uomini di tutte le nazionalità e i tedeschi erano scappati, lasciando prigionieri russi, cecoslovacchi, italiani, francesi, polacchi, tedeschi in balia dell’ignoto.
Insieme al ragazzo cecoslovacco decidemmo di partire per recarci al suo paese, convinti
che i russi per di là non sarebbero passati. Camminammo per giorni e notti quando una mattina
ci fermammo vicino ad una casa molto grande. Nella nebbia il padrone capì che eravamo
italiani, ci fece aspettare sotto ad un portico e portò da mangiare. Gli chiedemmo poi delle
informazioni sulla strada da percorrere, ricordandogli che non volevamo cadere in mano dei
russi. Arrivammo quindi al confine con la Cecoslovacchia. Il nostro compagno cecoslovacco, esaminata la situazione e avendo visto che il confine pullulava di gendarmi tedeschi, decise di proseguire da solo. Ci diede l’indirizzo di casa sua, per poi scomparire nella nebbia.
I tedeschi ci fecero passare e il giorno dopo entrammo in una cittadina cecoslovacca invasa
dai russi; lì regnava la confusione, tra soldati e prigionieri nessuno capiva più niente. Cercammo di farci intendere da un cecoslovacco, per poter trovare il nostro amico, lasciato il
giorno prima. Scoprimmo poi che eravamo a soli cento metri da casa sua. Trovatolo, ci indicò
una strada da seguire. Arrivati alla frontiera tra Cecoslovacchia e Polonia il blocco tedesco,
oltre a fermarci, ci rinchiuse in una stanza per un paio di giorni. Una mattina due uomini
armati ci caricarono su un treno. Da lì i russi non sarebbero passati ma, saliti sul treno, dopo
30 chilometri, ci trovammo in un paese di collina. Fui il primo a scendere dal treno. Appena
poggiai i piedi per terra un uomo, che di primo acchito pareva essere un contadino, fece segno
di seguirlo. E così tanti altri miei compagni furono scelti dalla gente del posto. Insomma,
finimmo a lavorare a domicilio per i contadini. L’uomo mi chiese se avevo qualche amico da
portare con me ed io prontamente scelsi mio cugino Ferdinando.
Il contadino ci portò a casa sua, ci fece conoscere sua moglie e sua figlia e avendo capito
che eravamo pieni di pidocchi e sporchi come porci, ci fece fare il bagno e ci diede i suoi
vestiti. Ci confidò inoltre di essere il sindaco del paese e di non essere cecoslovacco, ma
tedesco. Nella guerra del ’15-’18 fu preso prigioniero dagli italiani che lo portarono vicino a
Mantova a lavorare in un’azienda agricola. Fortunatamente il popolo italiano lo aveva ospitato benevolmente, tanto che con noi si cimentava a parlare un po’ di italiano e giurava che
ci avrebbe trattato molto bene, in onore degli italiani che lo avevano aiutato. Aveva inoltre due
figli sul fronte russo che sarebbero dovuti essere ancora in vita, ma se quei ragazzi non fossero
tornati a casa egli ci avrebbe tenuti come suoi figli.
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Da febbraio fino ad aprile fummo trattati familiarmente, ci ristabilimmo con la salute e
con il fisico, ridotti fino a poco prima a pelle ed ossa. La sera del 25 aprile il sindaco ci
chiamò in una stanza. Non era un uomo di molte parole, aveva paura a parlare con noi
prigionieri perché rischiava la fucilazione. Nella stanza, sopra ad un tavolino, borbottava
insistente una vecchia radio. La voce che ne usciva pareva avere un accento inglese, o forse
americano, ma parlava in italiano. Il contadino ci chiese di ascoltare quali notizie sulla guerra
stesse comunicando mentre lui, ancora spaurito e incerto, sarebbe uscito per strada a controllare che nessuno potesse vedere me e mio cugino. La radio parlava del fronte in Italia, non
del fronte in Normandia, e diceva che gli americani si trovavano a Verona, dove avevano
fatto saltare il ponte sull’Adige, che però era già stato ricostruito. Gli americani si erano poi
spinti nella zona di S. Bonifacio-Soave. Io e Ferdinando sobbalzammo, sentimmo un brivido
correre giù per la schiena e il sangue fermarsi all’inizio della spina dorsale. Gli americani
erano a casa nostra.
Dopo due giorni, una mattina fredda e buia come le altre, ci alzammo con uno strano
presentimento. Uscimmo in strada e nella nebbia scorgemmo un soldato russo, ubriaco, che
avanzava lentamente. Feci segno a Ferdinando di nascondersi. Dopo due o tre ore, arrivò un
blocco di soldati russi, in bicicletta, a cavallo e con i carri armati. Quando questi ci videro, ci
puntarono subito le armi contro, pensando che fossimo tedeschi. Per fortuna in paese avevamo conosciuto dei prigionieri russi che si trovavano in quel momento per strada come noi.
Intervennero cercando di placare l’ira dei soldati, questi capirono allora che eravamo italiani
e abbassarono subito le armi. Si misero poi a cercare il mio padrone che prontamente si era
nascosto in cantina sotto ai mucchi di patate con la moglie e la figlia.
Il giorno successivo decidemmo di partire. Io, Ferdinando e altri dieci compagni ci incamminammo. In quel periodo ormai tutti combattevano contro tutti, partigiani, soldati, prigionieri, una gran confusione, e noi a piedi, dalla Cecoslovacchia, volevamo tornare a casa.
Fummo fermati subito dai partigiani cecoslovacchi che ci portarono davanti alla corte di
un tribunale, convinti che fossimo tedeschi. Chiamarono successivamente un interprete che
parlava italiano il quale ci comunicò che i cecoslovacchi volevano che noi italiani andassimo a togliere le mine da un campo. Era come mandarci a morire, tanto che, con spavalda prontezza, risposi: «Quelle sono mine tedesche, mandateci i tedeschi a toglierle!». I partigiani
allora si resero conto della situazione e, con molta disponibilità, compilarono un permesso per
passare le frontiere in modo d’arrivare in Italia senza ulteriori problemi.
Dopo qualche giorno entrammo in territorio austriaco. Lì un tedesco ci caricò su una
corriera convincendoci che era diretto in Italia. Io e gli altri intuimmo che quel tedesco non
doveva essere molto a posto, si comportava quasi come un pazzo e, nel giro di pochi giorni,
ci ritrovammo in Serbia. Ci scaricò vicino ad una stazione deserta e, in un momento di panico,
svanì nel nulla. Fummo costretti a dormire all’addiaccio, come meglio potevamo.
La mattina seguente incontrammo un altro tedesco che ci caricò su una corriera più
piccola di quella del giorno prima. Gli chiedemmo se poteva portarci in Italia ma questo,
dopo averci fatto salire, finì per condurci in mano ai russi. Insieme ad un gruppo di prigionieri ci rinchiusero in uno stanzone sotto terra; eravamo talmente sfiniti che non riusciamo a
reggerci in piedi. Con noi c’erano anche dei cecoslovacchi che, bene o male, riuscivano a
capire e a parlare il russo. Ad un tratto l’aria cominciò a mancare, l’ossigeno presente ormai
era consumato, pesante e nauseabondo. I cecoslovacchi allora decisero di parlare con i russi,
arrivarono persino a sfondare la porta pur di respirare un po’ di aria pura. I russi permisero
così di tenere l’uscio aperto a patto di non scappare. Riusciti ad ottenere quello che volevamo,
ci addormentammo in piedi (eravamo un centinaio di persone) e tentammo di non pensare a
quello che questi russi avrebbero potuto farci. Alle prime luci dell’alba ci accorgemmo che
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fuori era tutto muto, nessuno fiatava e non si sentiva nessun tipo di rumore. Usciti, scoprimmo
che tutto era deserto, i russi erano scappati.
Dovevamo metterci di nuovo in cammino. Dovevamo a tutti i costi rientrare in Italia.
Poco distante da lì scorgemmo il fiume Danubio. Al di là di esso, gli americani. Ci avvicinammo e, nella confusione, una donna si accostò a me. «Siete italiani?», mi domandò e
io, titubante e impaurito, risposi di sì. Dovevo correre il rischio di fidarmi di lei. Non avevo
altra scelta, né io, né gli altri che erano con me. La donna allora entrò in un palazzo e quando ne uscì ci accompagnò sul ponte che segnava il confine. Fummo fermati dalle guardie
americane. Lei presentò dei documenti e parlò insieme alle guardie senza che noi capissimo
parola. Infine ci indicò la via più giusta da seguire per arrivare in Italia e ci raccomandò di
non tornare più indietro, di continuare a cercare la nostra terra, senza voltarci. Avrei voluto
ritrovare quella donna per poterla abbracciare e poterle dire grazie mille e più volte, fu lei a
salvarci e a darci la possibilità di vivere ancora. Se fossimo stati catturati di nuovo dai russi,
ci avrebbero messo su un treno e mandati nel loro Paese, a morire nei loro campi di concentramento.
Attraversato il Danubio però finimmo in un campo di concentramento americano. Più che
di concentramento era un campo di raccoglimento di tutti i prigionieri che erano in mano
agli americani. Fummo trattati abbastanza bene, ci diedero da mangiare e ci assicurarono che
ci avrebbero riportati in Italia.
Dopo qualche giorno, il primo di giugno, si formò un colonna di camion e camionette,
ci caricarono su una di queste e, passati dal Tarvisio, raggiungemmo Mestre, dove ci aspettavano in un campo di raccolta. Eravamo in diecimila prigionieri di nazionalità tutte diverse.
Tirava un venticello tiepido e, sembra strano a dirlo, ma la brezza di quella sera odorava di
un profumo tutto italiano, tutto di casa, tutto di libertà. E anche se ci aspettavamo di essere
riportati in Germania, anche se la paura di cadere ancora in mano ai russi era tanta, anche se
gli americani ci controllavano a vista noi eravamo sicuri di essere in Patria, eravamo contenti
di dormire al chiaror di luna, sotto una luna tutta italiana.
La mattina dopo, il 2 giugno, venimmo svegliati da un Comandante americano. Ancora
intontiti ci alzammo e cercammo di capire quale fosse il messaggio che doveva comunicarci:
avrebbero riaccompagnato a casa, a piccoli gruppi, tutti i prigionieri, ma se volevamo eravamo
liberi di tornare a piedi. Non c’era notizia più bella ed entusiasmante per noi. Finalmente, dopo
tanti anni, qualcuno ci lasciava liberi di scegliere, e sicuramente quella era la scelta meno
meditata di tutta la mia vita.
Non eravamo tanto lontani da casa, Mestre non distava molto da Verona, solo 70 km.
Così, ci incamminammo. Lungo la strada erano molte le persone che ci fermavano chiedendoci se avevamo visto i loro figli, i loro fratelli, i loro mariti, se erano dispersi o caduti in battaglia. Noi non sapevamo cosa rispondere. Come potevamo sapere dove fossero finiti tutti
quegli uomini? Eravamo insicuri persino del nostro futuro.
A metà cammino una camionetta carica di patate si fermò vicino a noi. Chiedemmo un
passaggio all’autista che ci accompagnò fino a S. Bonifacio. Arrivati alle porte del nostro
paese, una ragazza in bicicletta, Luciana, appena ci vide, corse a casa ad annunciare il nostro
arrivo. L’intero paese era in subbuglio, tutti si affacciavano per vedere me e Ferdinando che,
quasi come due eroi, tornavamo da un calvario durato troppi anni. Da casa, dalla contrada
Perasolo, correvano attraverso i campi per abbracciarci.
Una donna allora si avvicinò. La riconobbi subito: era Angelina, la madre di un mio
compagno incontrato sul fronte russo. A piccoli passi si portò di fronte a me e sussurrò: «Hai
notizie di mio figlio? Ti prego dimmi che cosa il destino ha deciso per lui?». Pareva molto
triste, angosciata e per lo più ansiosa di sapere qualcosa di suo figlio, avrei potuto raccontarle
– 170 –
qualsiasi cosa e lei mi avrebbe creduto comunque. Decisi di dirle la verità: «Ho incontrato tuo
figlio durante i furibondi combattimenti alle porte di Nikolajewka. L’ho riconosciuto e gli ho
chiesto di unirsi al nostro reggimento, visto che del suo non c’erano più tracce. Lui ha rifiutato
e ha continuato a cercare i suoi compagni. Da quel giorno non l’ho più visto e non ho avuto
più sue notizie. Mi dispiace». La donna allora abbassò gli occhi, esitò un po’ e mi disse una
frase che ricorderò per tutta la vita: «Preferisco che mio figlio sia morto piuttosto che non
sapere dove si trovi e che cosa stia facendo».
In questo diario non ho raccontato dettagliatamente tutto quello che mi è successo in
63 mesi che ho sofferto lontano da casa. Tante cose che mi sono capitate le ricordo ancora
bene, altre vagamente, altre ancora le sogno di notte e quando mi sveglio scompaiono all’improvviso. Se fossi stato uno scrittore o un giornalista avrei sicuramente scritto un libro
appena tornato dalla Russia, ma credo che il lettore, accorto e intelligente, riesca a capire
quello che ho provato anche grazie all’immaginazione e all’intuizione. La guerra che ho combattuto è stata una criminalità unica; non sono partito per servire la patria ma per servire dei
criminali. Per fortuna gli americani sono venuti in nostro aiuto. Non abbiamo perso una guerra, abbiamo invece conquistato la libertà. Io auguro a tutta l’umanità, ai nostri figli e a tutte
le generazioni future di non conoscere più tragedie di questo genere fino alla fine dei tempi.
Bibliografia:
GIULIO BEDESCHI, Nikolajewka c’ero anch’io, Mursia, Milano 1972
MARIO RIGONI STERN, Il sergente nella neve, Einaudi, Torino 1953
GIULIO DE GIORGI, Con la divisione Ravenna, Longanesi & C., Milano 1973
GIULIO BEDESCHI, La mia erba è sul Don, CDE, Cuneo 1985
ARRIGO PETACCO, La nostra guerra 1940-1945: l’avventura bellica tra bugie e verità, Mondadori, Milano 1995
GUIDO BALDI - SILVIA GIUSTO - MARIO MAZZETTI - GIUSEPPE ZACCARIA, Dal testo alla storia
dalla storia al testo. Il primo Novecento e il periodo tra le due guerre, Paravia, Torino 2000
BIOGRAFIA DI UMBERTO TADIELLO
Tadiello Umberto, classe 1919, si arruola nel 1940 nel secondo reggimento artiglieria
alpina, gruppo Vicenza, ventesima batteria, divisione Tridentina. Il 10 giugno 1940, dopo solo tre mesi di addestramento, Benito Mussolini annuncia l’entrata in guerra contro la Francia
e la Gran Bretagna.
Il corpo alpino viene condotto sul fronte francese, dove però la guerra finisce subito.
Nell’agosto dello stesso anno, il Duce decide di spedire gli alpini in Grecia. La traversata, per via marittima, da Brindisi a Durazzo segna in Umberto l’inizio di una nuova e inaspettata paura quando un sottomarino nemico colpisce una delle imbarcazioni italiane.
L’accampamento è a duemila metri d’altezza ed è costituito da trincee e case diroccate.
Umberto passa l’inverno a procurare acqua per il reggimento e si impegna nel ruolo di telefonista e alla famosa caccia ai pidocchi.
Nell’ottobre del 1941 viene rimpatriato in Italia, al nord, in un paese chiamato Montanaro, vicino a Chivasso.
L’imminente guerra contro la Russia però faceva poco sperare ad un ritorno al paese
natale: nel luglio del 1942 Hitler attacca la nazione russa.
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Il viaggio sul fronte russo è percorso in treno dove soldati, muli, armi, angosce, freddo
e paura sono ammassati l’un l’altro negli stretti vagoni.
Il fiume Don separa l’ARMIR dall’armata sovietica. Il corpo italiano è sprovvisto di
mezzi adeguati, quali il vestiario, le armi e un’adeguata preparazione militare. Il clima è
insopportabile: quaranta gradi sotto lo zero quando cala il sole e dieci gradi sotto lo zero
verso mezzogiorno. Il paesaggio è bianco, glaciale; tempesta, nevica e lentamente nel cuore
degli alpini si apre un vortice di nostalgia che piano piano perde persino sapore.
In linea non si soffre solo il freddo ma anche la fame. Nelle migliaia di pacchi, partiti
dall’Italia, inviati dalle famiglie dei combattenti ci sono castagne, fichi secchi, farina e pane;
occorrono tuttavia generi di conforto, viveri ricchi di proteine e grassi; invece i soldati sono
nutriti a pane a patate. Umberto riceve da casa una scatoletta di Ovomaltina che contribuirà
a salvargli la vita durante la ritirata.
I russi cominciano ad attaccare; la Julia riesce a sostenere dei forti attacchi, ma ben
presto i russi sfondano il fronte e riescono ad accerchiare l’esercito italiano. Anche i tedeschi
sono accerchiati e si arrendono, contro le decisioni del Führer. I soldati incapaci ormai di
ragionare e ridotti ad agire per inerzia ad ogni comando vengono indirizzati su Podgornoje.
Ma la ritirata è ormai una corsa contro il tempo. Si cammina, si scappa, si combatte per
sfuggire al nemico.
L’ultimo e decisivo scontro avviene alle porte di Nikolajewka, dopo otto giorni dall’inizio della ritirata. È il 26 gennaio, e l’ordine degli ufficiali è di entrare in città ed affiancarsi
agli altri reggimenti alpini. La Tridentina è ancora ferma alle soglie della città e attacca solo
verso sera in un ultimo e disperato tentativo. Quando i russi si accorgono che il grosso dell’esercito sta scendendo azionano tutti i loro reparti artiglieria. Umberto pensa tra sé «Ostrega ghe semo. Dio, rimetto nelle tue mani tutta la mia vita» e prega come non ha mai fatto
prima. Arrivano colpi da ogni parte; morti, feriti, muli squarciati, voci che urlano «Mamma,
mamma aiuto!». In questo inferno sembra impossibile sopravvivere ancora. E ancora più
impossibile sembra la tregua, che ora è giunta.
Radio Mosca trasmette che la sacca del Don è la tomba degli alpini; ma sarà la stessa radio a riconoscere agli alpini il merito di essere usciti dall’accerchiamento.
Si cammina ancora per qualche giorno per evitare di essere nuovamente accerchiati;
l’esercito ha perso tutto, non ha più rifornimenti, rimane solo qualche mulo. Si fa razzia da
ogni villaggio in cui si passa. Da un’isba all’altra le voci echeggiano: la cosa riparte. La Tridentina guida la lunga colonna di sbandati che si protende per trenta chilometri nella steppa.
Il 27 gennaio i resti della Cuneense, irrimediabilmente accerchiati, cadono prigionieri a
Valuijki. Il 31 gennaio la Tridentina raggiunge gli avamposti tedeschi e successivamente il
punto dell’adunata, a Slobin.
Dalla sacca sono usciti 20.000 uomini su 70.000. Se nel 1942 erano occorse 200 tradotte
per portare l’ARMIR sul fronte russo, ora ne bastano 17 per ricondurre in Italia i superstiti.
Umberto rientra in Italia ma, dopo l’8 settembre, viene fatto prigioniero dai tedeschi e
condotto a piedi fino ad Innsbruck in un campo di lavoro nazista, con il cugino Ferdinando.
Umberto passa due volte il Natale in una fabbrica addetta alla riparazione di locomotive a vapore, in condizioni da olocausto. In caso di svenimenti o malumori si viene picchiati dalle SS.
Chi si ammala viene portato via e di lui non hanno più notizie.
Dopo la disfatta tedesca i russi liberano il campo e Umberto e compagni hanno la
possibilità di fuggire. Ma il blocco tedesco di frontiera li scopre e li manda a lavorare per i
contadini tedeschi. Umberto viene scelto dal sindaco di un piccolo paesino e con lui porta
Ferdinando. Il sindaco li accoglie come figli, e dopo l’arrivo delle armate russe, li lascia liberi
di tornare a casa.
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I russi però riescono a catturarlo e a condurlo in un grande capannone. Il giorno dopo,
al risveglio, si scopre che il capannone è stato abbandonato e si ripresenta l’occasione di
fuggire. Deve a tutti i costi tornare in Italia.
Attraversato il Danubio, dopo tanta strada a piedi, viene rinchiuso in un campo americano che raccoglie soldati di tutte le nazionalità. Verso il 2 giugno gli americani si offrono di
riaccompagnare a casa i superstiti e li lascia liberi anche di incamminarsi a piedi. È la prima
volta che Umberto e i suoi sono liberi di fare una scelta.
Umberto s’incammina verso Verona; per strada la gente lo ferma e chiede notizie dei
propri cari e lui non sa cosa rispondere. Una camionetta carica lui e Ferdinando e li conduce
fino a S. Bonifacio, il loro paese natale. Appena arrivati, Luciana, una ragazza del paese,
corre ad avvisare i parenti che, dai campi e dalle case si riversano in strada per abbracciarli
e accoglierli con grande gioia.
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ANNA PAOLA BOTTONI
L’utilizzazione in classe delle fonti memorialistiche:
un lavoro di gruppo
La memoria è spesso ingannevole e la dimensione storica degli eventi si acquisisce non
solo con la conoscenza dei fatti ma con l’esperienza del tempo che distingue un passato
recente da uno remoto. Per i nostri studenti spesso, invece, ciò che non ricade nella sfera del
quotidiano finisce immancabilmente per appartenere al passato: eventi storici riconducibili a
qualche decennio fa, vissuti magari dai propri nonni, finiscono così per essere assimilati a fatti
risalenti a qualche secolo fa.
L’asse temporale assume la connotazione di un contenitore che raccogliere informazioni
relative a ciò che è avvenuto e si ritiene sia importante studiare, possibilmente in un giusta
successione dei fatti. Esso non è tuttavia sempre in grado di fornire agli studenti l’esatta
percezione di quanto tali fatti siano distanti dal proprio vissuto. Gli alunni non sempre si
rendono conto di essere privilegiati osservatori della storia, di quella storia che, in modo così
considerevole, ha contribuito alla fisionomia della nostra società attuale, potendo disporre di
uno strumento di indagine preziosissima e insostituibile quale la testimonianza diretta.
Negli ultimi anni, purtroppo, si è affievolito il desiderio di sentir raccontare, essendo
venuta meno la capacità di restare in ascolto. È scomparsa la curiosità di conoscere direttamente cronache, fatti, avvenimenti, di lasciarsi coinvolgere dalla storia, intesa come l’espressione di una memoria collettiva che si innesta nel tessuto dei ricordi e delle esperienze
di famiglia, raccontate dai suoi testimoni.
La letteratura memorialistica, intesa come il recupero di una documentazione diaristica,
epistolare o anche semplicemente come raccolta diretta di informazioni, ha il duplice scopo
di avvicinare gli alunni alla storia, comprendendo l’importanza della testimonianza diretta,
quella che Erodoto definisce “autoptica” nell’indagine storiografica, e di ingenerare in loro
il desiderio di salvaguardare il ricordo di un passato recente. Non meno importante è il
significato di raccordo, attraverso il racconto di episodi vissuti, fra generazioni che si avvicendano in una stessa famiglia, che cercano di leggere, da diverse prospettive, eventi che
hanno fatto la storia di un’epoca. La testimonianza diretta, soprattutto se di un famigliare, ha
un forte impatto emotivo: comunica ricordi e sentimenti. È nella soggettività del racconto che
ci si interroga sulla parzialità e sull’attendibilità, ma anche sulla stessa capacità di leggere gli
avvenimenti che si sono vissuti personalmente o sull’apporto di quelle aggiunte postume,
nate dai tradimenti della memoria o dai condizionamenti di interpretazioni successive. È per
questo che la forma diaristica, siano riflessioni, osservazioni o narrazioni estese, quando non
è sottoposta a successivi riaggiustamenti, mantiene intatta tutta l’intensità espressiva e trascinante, capace di trasfondere nel lettore, anche in quello distratto, quale un nostro alunno,
il clima storico, quelle impressioni che si percepiscono da vicino quando gli eventi importanti
ci vivono accanto o noi viviamo accanto a loro, prima di capire che saranno ricordati per
sempre e faranno parte della memoria di un popolo.
Si è pertanto pensato che una riflessione sull’importanza della letteratura memorialistica, al fine di comprendere il valore della testimonianza diretta, potesse essere oggetto di
un’attività laboratoriale da proporre agli studenti di una classe iniziale. Alcune alunne della
mia classe, la IV L (Irene, Ludovica, Melissa e Margherita), hanno letto il memoriale di
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Umberto Tadiello, L’inferno bianco di mio nonno, trascritto dalla nipote Susanna. Le alunne
hanno analizzato la struttura narrativa del memoriale, individuandone alcune caratteristiche
(narratore, focalizzazione, spazio, tempo, descrizioni soggettive e oggettive), e hanno elaborato un commento al riguardo. Si riporta di seguito il commento svolto dalle alunne e rivisto
dalla docente.
Prof.ssa Anna Paola Bottoni
Commento a “L’inferno bianco di mio nonno,
una testimonianza di guerra di Umberto Tadiello”
(A CURA DEL GRUPPO DI LAVORO DELLA CLASSE IV L)
“Lui che ha lottato con tutte le sue forze;
per non dimenticare, per viverlo ogni giorno,
senza che mai nessuno dimenticasse”
Primo Levi
Sì, lui ha lottato, e anche con tutte le sue forze. Ed è anche grazie a lui che noi, oggi, in
una realtà così diversa, non dimentichiamo. Umberto Tadiello, attraverso la mano di sua
nipote, ha rivissuto il suo passato, e ce ne ha reso partecipi, insegnandoci che non si deve
dimenticare. Anzi, si deve fare del passato un motivo in più per costruirsi il presente, e
progettare il futuro.
Susanna Tadiello presenta nella sua tesina le memorie del nonno, che a ventuno anni, nel
1940, fu chiamato alle armi nell’esercito del Duce, a combattere contro Gran Bretagna e
Francia. Dunque il testo appartiene al genere memorialistico.
Cosa leggiamo in queste pagine? “Storie assurde, alle quali noi, ormai stufi di sentirle,
nemmeno ci crediamo; si fermano fuori dalla nostra portata, lontano dai nostri orizzonti, dai
nostri tempi, dalle nostre preoccupazioni. Sono pensieri atroci, da non farmi dormire la
notte...”.
Così ci riporta l’autrice; di sicuro attraverso la soggettività che troviamo tra le righe del
testo, ci avviciniamo alla mentalità della guerra, una cosa così tremenda, così sofferta, che a
noi “giovani d’oggi” non va neanche più di ricordare, anche perché tra i banchi di scuola la
seconda guerra mondiale è un argomento del programma d’obbligo. Un luogo comune
abbastanza diffuso vuol far credere che nelle nuove generazioni, e in generale, andando avanti
con gli anni, vada via via affievolendosi, se non scomparendo del tutto, l’interesse per il
passato. Noi però pensiamo che le vicende del passato riescano a rivivere solamente grazie
a questo tipo di narrazione.
Il testo de L’inferno bianco di mio nonno mescola in sé l’elemento dell’emotività che colpisce l’animo del lettore, e quello dell’oggettività con cui l’autore rappresenta realisticamente
le esperienze che dovette affrontare sul fronte di guerra. È per questo aspetto che la narrazione
si può definire anche un brano di carattere storico. Nonostante ciò, la lettura non si dimostra
pesante e noiosa, ma anzi, si rivela fluida e scorrevole. Questo avviene poiché la scrittrice,
Susanna, narra i fatti secondo il punto di vista del nonno: utilizza la prima persona per
rappresentare gli eventi del passato, ossia come realmente li visse suo nonno Umberto. La
storia soggettiva, rievocata dall’io narrante, è di sicuro più avvincente, ci sembra quasi di
percepire le emozioni, le lacrime e i sorrisi di orgoglio per aver difeso la patria a costo della
vita, versando il sangue altrui per non perdere il proprio.
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Ormai, oggi, nella mente del nonno i ricordi sono confusi, sormontati dal presente, così
lontano da un mondo e da un’epoca che, tra paura e soddisfazione, l’avevano di volta in volta
reso felice o triste, ma comunque lo avevano visto da protagonista di una guerra mondiale,
che era diventata soprattutto la sua guerra personale.
“Mesi duri, di guerra, di disperazione e desolazione, ai quali era incredibilmente
sopravvissuto grazie ad una scatoletta di “ovomaltina” speditagli da casa...”. Leggendo frasi
come questa, i lettori si trovano di fronte a situazioni irreali, assurde, quasi inimmaginabili.
Anche perché vicende come quelle narrate nel memoriale, se le leggiamo tra le pagine dei libri
scolastici non riescono ad appassionarci quanto un romanzo vissuto in prima persona, un
romanzo vero come quello vissuto da Umberto Tadiello. È questa la storia che ci coinvolge
e ci affascina di più, quella che più incontra il nostro modo di essere e di voler conoscere la
realtà. La mentalità moderna ha offuscato i nostri pensieri, frastornando il nostro spirito con
le cose materiali e gli ultimi ritrovati della tecnologia, ma non ha guastato il piacere di stupirci
e di incuriosirci quando ci troviamo davanti a una storia vera, narrata con passione e sincerità.
Sono passati così tanti anni da quei tristi eventi, ma la soggettività serve proprio a questo:
a ritrovare noi stessi in una storia, in un passato che è anche il nostro, una parte di noi.
Si deve sicuramente rispettare l’intenzione dell’autrice, che ha raccolto le memorie del
nonno reduce dal fronte di guerra russo e dal campo di prigionia tedesco: ella chiede ai
lettori di leggere il brano con amore. Difatti, in esso vi sono sentimenti, qualità, avventura,
REALTA’. Una realtà, anche se dura, da affrontare, confrontandoci con un mondo che, se
proprio non è il nostro, ha contribuito a formare il presente, la nostra verità.
Dobbiamo quindi dire che grazie agli occhi ormai stanchi e confusi dei nostri nonni,
alle braccia che hanno portato tanti pesi, fucili, armi, che magari noi non toccheremo mai, noi
possiamo prendere coscienza del nostro passato, di ciò che hanno vissuto le generazioni che
sono state prima di noi. Neanche ci possiamo immaginare quello che “i vecchi” hanno subito,
hanno affrontato, hanno visto con i loro occhi, quei vecchi che spesso sono il bersaglio delle
nostre critiche quando il tempo logora le loro menti.
“Si intravede nei suoi occhi chiari, color azzurro, infelici e melanconici, quell’aria di chi
ha vissuto, ed è un’aria riconoscibile a primo impatto...”. Sono proprio quegli occhi melanconici che hanno toccato il cuore di Susanna, e le hanno fatto capire che doveva raccontare
una storia, la storia di suo nonno, per farla conoscere al mondo, per farlo commuovere come
s’era commossa lei. L’animo del protagonista è uno specchio, un po’ appannato dal tempo ma
sempre limpido. Ricordi incancellabili, e la fatica di esprimerli... la fatica, che ha sopportato
Umberto Tadiello.
“La seconda guerra mondiale ha colpito in particolar modo il territorio italiano. Dovevano essere riparate le case, i ponti, le strade, e città intere, ma soprattutto andavano ricostruiti
gli animi dei soldati, delle persone che avevano annullato la propria individualità per servire
lo Stato Fascista”. Così Susanna ci raffigura al meglio i paesaggi, i sentimenti, le emozioni
vissute dal nonno, attraverso i suoi ricordi confusi, ma ancora pieni di passione. E ci capita
in questo modo di trovarci tra la fitta neve delle montagne valicate dagli uomini del Duce, o
in mezzo a un bosco ombroso della Russia, o sullo sfondo del paesaggio del Don, che preoccupava e insieme meravigliava i soldati, catapultati in questa disperata avventura. Sentiamo
quasi il forte odore penetrante di polenta fumante, offerta da un contadino premuroso nella
sua casa... quel profumo che fece risvegliare i sensi dell’uomo, e diede una speranza in più,
un appiglio più forte alla vita fuggevole.
Loro, Umberto e il suo compagno, sapevano dall’inizio che andavano incontro a un
destino incerto... “Chi poteva sapere meglio di noi come la guerra portasse alla fine, al crollo,
alla distruzione; n’eravamo testimoni, tutti i giorni, ininterrottamente consapevoli del nostro
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destino che ci avvicinava alla morte. Uomini smarriti, ormai ombre...”. E ancora un’ultima
citazione: “La vita si spegneva e, a poco, a poco, anche il corpo si associava, calava come
un’ombra sulle anime che, scialbe e traballanti, effettuavano per inerzia ogni decreto. La
stanchezza che ci opprimeva non era tanto quella fisica, bensì quella mentale che ci riduceva
inetti a comunicare ed a socializzare...”.
L’esperienza vissuta dal nonno, grazie alla nipote, è entrata a far parte del patrimonio
delle memorie storiche del nostro Paese, e non andrà dimenticata. Ma essa è ancor più preziosa perché, insegnandoci il passato, ci indica i valori con i quali costruire il nostro futuro:
la volontà, lo spirito di sacrificio, la dedizione alla patria, la solidarietà verso gli altri, la
comprensione verso tutti, perché tutti, in fondo, sono nostri fratelli, anche i nostri nemici.
Un consiglio? Questo, è un racconto da amare.
Irene, Ludovica, Margherita e Melissa
(gruppo di lavoro della classe IV L)
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MARIO CARINI
Esercizi di scrittura creativa
per una classe del biennio
Sommario: 1. Omaggio a Jorge Luis Borges: conclusioni alternative del racconto There are more things.
- 2. Omaggio a Edgar Allan Poe: elaborazioni sul tema del seppellimento prematuro. - 3. C’era una
volta... in IV A.
Il presente lavoro nasce da esperienze di scrittura creativa proposte agli alunni della classe ginnasiale IV A, nel corso dell’anno scolastico 2008-2009 e nell’ambito del percorso di lettura di testi tratti dall’antologia in uso (Luisa Brunero - Stefania Collina - Mauro Masera - Silvia Vignale, Il mondo dei testi, vol. A [Temi per iniziare, Testi della narrativa, Attraverso le
culture], Paravia, Torino 2003) e relativi al programma di italiano per il biennio, più precisamente per il quarto ginnasio.
1. OMAGGIO A JORGE LUIS BORGES:
CONCLUSIONI ALTERNATIVE DEL RACCONTO
THERE ARE MORE THINGS
Uno dei testi letti nell’ambito del percorso di letture di narrativa, previsto per il quarto
ginnasio, è stato il noto racconto di Jorge Luis Borges, There are more things, peraltro antologizzato in più testi scolastici. Il racconto di Borges è stato preso ad esempio dagli autori dell’antologia in uso, Il mondo dei testi, vol. A, per illustrare lo schema tipo della narrazione, che,
com’è noto, comprende le seguenti fasi: una situazione iniziale di equilibrio, la rottura dell’equilibrio, peripezie attraverso cui la vicenda giunge fino al massimo punto di tensione
narrativa (la Spannung, che coincide con la massima tensione psicologica del lettore), la
ricomposizione dell’equilibrio, con lo scioglimento della tensione, la situazione finale che
conclude la vicenda narrata. Esaminato nel susseguirsi delle fasi, la struttura del racconto
There are more things presenta una evidente particolarità. Ma ricordiamone, anzitutto, la
trama.
La storia, narrata in prima persona, si apre con la morte dello zio del protagonista
narratore, uno studente dell’università di Austin, in Texas. Lo zio, Edwin Arnett, un ingegnere
delle ferrovie cultore di esoterismo e discipline misteriosofiche, risiedeva in Argentina, a
Turdera, presso Buenos Aires. Qui fa ritorno il protagonista, per venire a sapere che la residenza del defunto, la Casa Rossa, è stata venduta a un misterioso acquirente, di nome Max
Preetorius. L’uomo ha apportato radicali cambiamenti alla casa, ristrutturandola completamente e rendendola, al contempo, pressoché inaccessibile. Strani episodi nel frattempo accadono: il cane del defunto zio viene trovato decapitato e mutilato, le araucarie che ornavano
il giardino della villa vengono abbattute, le finestre, da cui filtrano fessure di luce, rimangono
perennemente chiuse. Finché un giorno il nuovo proprietario, Preetorius, non scompare
anch’egli. Incuriosito da questi strani episodi, lo studente decide di parlare con l’architetto che
aveva costruito la casa, Alexander Muir, vecchio amico di suo zio. Muir gli rivela di essersi
rifiutato di eseguire le trasformazioni degli ambienti che gli aveva chiesto Preetorius, e ne dà
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una motivazione sconcertante (“Quell’ebreuccio di Preetorius voleva che io distruggessi la
mia opera e che mettessi al suo posto una mostruosità. L’ignominia prende diverse forme”).1
Poi incontra il guardaspalle di un capobanda locale, che gli dice di aver visto qualcosa di
spaventoso nei dintorni della villa. Quindi va a trovare il falegname che ha costruito il mobilio per Preetorius, il quale ricorda con disgusto il suo cliente e pensa che sia certamente pazzo. Una notte d’estate, durante un violento temporale, il giovane studente, che nel frattempo
è perseguitato da inquietanti sogni, decide di entrare nella villa apparentemente disabitata.
Il racconto si chiude con l’ingresso e l’esplorazione, da parte del narratore protagonista, dell’enigmatica Casa Rossa. Penetrato all’interno, il nostro vede con sua grande meraviglia spazi e arredi non concepiti per l’uso di normali individui, ma per adattarsi a forme dissimili da
quelle umane. Così descrive quello che deve essere il letto dell’abitatore di quella casa:
“Adesso recupero una specie di lungo tavolo operatorio, molto alto, a forma di U, con buchi
circolari alle estremità. Pensai che poteva essere il letto dell’abitante, la cui mostruosa
anatomia si rivelava così, obliquamente, come quella di un animale o un dio, mediante la sua
ombra”.2 All’improvviso egli intravede nell’oscurità qualcuno o qualcosa salire per le scale
all’interno della casa: sente che il rumore si fa più vicino, fino a trovarsi faccia a faccia con
l’essere che abita la casa del defunto zio (“I miei piedi toccavano il penultimo scalino, quando sentii che qualcosa saliva per la rampa, opprimente e lento e plurale. La curiosità fu più
forte della paura e non chiusi gli occhi”).3 Qui il racconto si interrompe bruscamente, anche
se Borges, per dare al lettore un qualche indizio sulla forma dell’essere mostruoso, cita,
ricordando Lucano, l’anfisbena (o anfesibena),4 un mitico rettile che aveva il capo uguale alla
coda.
E’, come ognun vede, un racconto di genere fantastico, con qualche venatura orrorifica,
soprattutto nelle allusioni alla misteriosa e mostruosa creatura che abita la Casa Rossa. La
quale creatura non viene descritta compiutamente, ma soltanto intravista dal narratore (e dal
lettore, la cui curiosità rimane alla fine inappagata). Il testo suggerisce che l’essere serpentiforme sia alieno, giacché la casa in cui abita presenta un arredamento dalle forme non adatte
o non consuete a esseri umani, come quella sorta di letto fatto a U. Forse l’essere ha divorato Preetorius, l’acquirente della casa misteriosamente scomparso? O, piuttosto, è il risultato
di una mostruosa trasformazione fisica che avrebbe coinvolto lo stesso Preetorius? Spetta al
lettore escogitare, ricollegando gli indizi disseminati nel testo, la risposta a quello che è un
vero e proprio enigma, con cui Borges conclude la sua storia, una vicenda dal finale aperto.
Il finale aperto è tipico delle narrazioni che si concludono con un enigma che non viene
svelato di proposito al lettore: storie di questo genere, senza un catartico scioglimento ma con
l’enigma adottato come soluzione del racconto, sono quelle che risultano essere più intriganti, più avvincenti per il lettore, perché non risolvono la Spannung, la tensione narrativa che
permane suggestivamente invariata.5 Il lettore resta con la sua curiosità inappagata ed è
indotto a rileggere la storia più attentamente, nella speranza di scovare un indizio che gli
permetta di chiarire quanto del testo sia rimasto oscuro. Ma invano. Anche un’operazione di
rilettura può essere insufficiente a decifrare il mistero di una storia lasciata volutamente ed
enigmaticamente incompiuta dall’autore.
1 Jorge Luis Borges, There are more things, in Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, vol.II, Mondadori,
Milano 2005, p. 599.
2 Jorge Luis Borges, There are more things, cit., p. 602.
3 Jorge Luis Borges, There are more things, cit., p. 603.
4 In Lucano 9,719. Borges descrive questo mostro mitologico nel suo Manuale di zoologia fantastica (scritto con
Margarita Guerrero), trad. di Franco Lucentini, Einaudi, Torino 1998, p. 8.
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Una delle modalità di presentare l’enigma è nella mancata spiegazione di qualcosa che
appare di basilare importanza per comprendere pienamente la storia: si pensi, ad esempio, alla
famosa scena finale del romanzo Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe (1838), ove
appare il gigantesco essere dalla pelle più bianca della neve, nelle acque del mare antartico,
di fronte agli stupiti e terrorizzati Gordon Pym e Dirk Peters. Com’è noto, il romanzo si
interrompe proprio a questo punto, e al lettore resta l’inappagata curiosità di sapere chi o che
cosa sia la gigantesca figura bianca a cui il protagonista sembra esser stato condotto nelle
peripezie del suo lungo viaggio.6 Anche l’ellissi della descrizione di creature strane, dissimili
o mostruose, nel corso della narrazione, provvede a mantenere la Spannung per la mancata
spiegazione dell’autore.
Va peraltro ricordato che la presenza di esseri mostruosi non ricorre spesso nella narrativa di Borges. Nel caso di There are more things l’elemento teratologico è giustificato dall’essere il testo stesso un omaggio a uno dei maestri di Borges, Howard Phillips Lovecraft,
il celebre “solitario di Providence”, come recita l’epigrafe iniziale (Alla memoria di Howard
P. Lovecraft). In effetti si possono rinvenire chiare analogie tra There are more things e uno
dei racconti più noti della narrativa lovecraftiana, Il richiamo di Cthulhu.7 Entrambi i
racconti si aprono con l’improvvisa e misteriosa morte dello zio del protagonista narratore
(nel testo di Borges è Edwin Arnett, ingegnere delle ferrovie cultore di discipline e filosofie
esoteriche, in quello di Lovecraft è il professor Angell, docente di lingue semitiche all’università di Providence). Un secondo motivo comune ai due racconti è il sogno: ne Il richiamo
di Cthulhu in un manoscritto dello zio, il protagonista trova uno studio sull’opera di uno strano scultore, Wilcox, che ha scolpito un idolo mostruoso dopo aver visto, in sogno, un’antichissima città dalle colossali architetture di muri e colonne coperte di geroglifici. In There
are more things il protagonista, all’alba, sogna, rappresentato come un’incisione di Piranesi,
un anfiteatro labirintico che contiene il mostruoso Minotauro. Il terzo motivo è quello delle
costruzioni difformi, delle architetture che celano illusioni prospettiche e angoli impossibili:
ne Il richiamo di Cthulhu la misteriosa città di R’lyeh, che si erge dall’oceano di fronte
all’equipaggio dell’Alert ed composta da ciclopiche costruzioni, fatte di piani, intersezioni
e angoli di una geometria non concepita da menti umane, trova il suo riecheggiamento nella Casa Rossa del racconto di Borges, trasformata, per volontà di Preetorius, in una dimora
più adatta a esseri evidentemente non umani e forse neppure di questo mondo. Ancora: in
Lovecraft l’orribile epifania del demoniaco e immane Cthulhu, dalle forme di drago e di
piovra, avviene quando i marinai dell’Alert penetrano nel gigantesco sacrario che funge da
dimora del mostro. L’essere misterioso del racconto di Borges, dall’aspetto di anfisbena,
appare dopo l’ingresso del protagonista nella apparentemente disabitata Casa Rossa. Poco
altro, però, al di là di queste superficiali somiglianze, apparenta il grande scrittore argentino
a Lovecraft, come ha posto in chiaro Guido Armellini nel commento al racconto di Borges,
5 Sulle narrazioni con enigma finale rimandiamo al nostro lavoro L’enigma irrisolto nelle strutture della narrativa, in “Annuario” del Liceo ginnasio statale Orazio, n. 1, anno scolastico 2007-2008, Roma 2008, pp. 101-117.
6 La misteriosa conclusione ha eccitato la fantasia di critici e romanzieri, che hanno cercato di spiegare razionalmente il mistero dell’apparizione anche in continuazioni narrative (o sequel). Rimandiamo per le continuazioni del romanzo di Poe scritte da Verne e Lovecraft al nostro articolo Fantastica Antartide, in “Abstracta”, n. 48, 1990, pp. 7077. Vd. anche L’enigma irrisolto nelle strutture della narrativa, cit., pp. 104-106.
7 Com’è noto, in questo racconto, vero testo cardine della narrativa lovecraftiana, lo scrittore americano espone
la sua orrorifica cosmogonia: generazioni di colossali esseri mostruosi e semidivini, gli abominevoli Grandi Antichi,
avrebbero abitato la Terra, finendo per ritirarsi poi, in un millenario esilio, negli abissi marini, ma pronti ad affiorare alla
superficie grazie ai riti evocatori di sette segrete, come quella del dio Cthulhu. Su Lovecraft vd. la fondamentale raccolta
di saggi di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco, L’ultimo demiurgo e altri saggi lovecraftiani, Solfanelli, Chieti 1989.
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in un’antologia scolastica: “Se mettiamo a confronto questo racconto con Il richiamo di
Cthulhu di Lovecraft, possiamo subito notare importanti somiglianze sia per quanto
riguarda gli ingredienti (i personaggi, la natura degli indizi e delle premonizioni, le caratteristiche sinistre del mistero a cui alludono) sia per quanto riguarda le tecniche (uso della
voce e del punto di vista narrativo, struttura dell’intreccio) (...). Ma la differenza dal
racconto di Lovecraft è netta; Borges infatti ha manipolato il mondo dello scrittore preso
come modello, eliminandone alcuni caratteri propri della narrativa dell’orrore e modificando radicalmente gli effetti prodotti sul lettore. a) Lo stile di Lovecraft è sovrabbondante,
ricco di espressioni truculente; quello di Borges è essenziale, secco, a volte distaccato e
ironico (...). b) Il racconto di Borges esibisce in vari punti riferimenti dotti, rivolti a un
pubblico colto, molto diverso da quello a cui si rivolgeva Lovecraft (...). c) Compaiono
nel testo accenni alla complessità del reale e all’incapacità dell’uomo di capire il mondo
che lo circonda (...). d) La parte che più differenzia questo racconto da quello di Lovecraft
è la conclusione (...)”.8 Sono autori, Borges e Lovecraft, che praticano generi narrativi
differenti, il racconto fantastico il primo (che predilige le tematiche dell’assurdo, come le
distorsioni temporali, i paradossi e le incongruenze del quotidiano, elaborandole mediante
una complessa rete di motivi simbolici: si pensi alla ricorrenza del sogno e del labirinto),
il racconto dell’orrore il secondo (con le anatomicamente dettagliate descrizioni di esseri
mostruosi, i Grandi Antichi, protagonisti di una abominevole mitologia che si sviluppò all’alba dell’umanità). Laddove Lovecraft abbonda nelle descrizioni di corpi viscidi e squamosi, di appendici tentacolari, di pelose gibbosità, di orrori innominabili, scadendo spesso
in un eccesso di maniera,9 Borges, invece, sorprende il lettore per la sottile allusività con cui
suggerisce al lettore una presenza extraumana, ben più minacciosa e terrificante, a nostro
giudizio, delle mostruosità di Lovecraft.
Proprio la mancata descrizione, il non detto, l’ellissi o omissione di una parte essenziale della narrazione che lascia alla fine inspiegato il mistero, mantiene e accresce la tensione
narrativa nel lettore, aumentando l’effetto di turbamento e sottile disagio. È un espediente che
ricorre in numerosi altri racconti fantastici e del terrore, soprattutto allorché gli scrittori
introducono nelle loro storie esseri enigmatici, misteriosi e minacciosi, astenendosi dall’offrire al lettore una chiara e compiuta descrizione. Sono gli scrittori che esaltano la dimensione
dell’invisibile, un mondo altro, parallelo alla realtà, animato da oscure presenze non percepibili dai comuni sensi umani, perché troppo deboli e imperfetti. Pensiamo a un famoso racconto come L’Horlà di Guy de Maupassant (1887),10 nel quale il narratore protagonista scopre
8 Il piacere di avere paura, racconti dell’orrore e dell’assurdo, a cura di Guido Armellini, La Nuova Italia, Firenze
1990, p. 216. Dalla citazione abbiamo tolto tutte le indicazioni relative agli esercizi che accompagnano il testo.
9 Una rappresentazione grafica, ad opera di Yak Rivais, dei vari Cthulhu, Dagon, Shoggoth, etc., le mostruose creature partorite dalla fantasia allucinata dello scrittore di Providence, si può vedere tra le illustrazioni del discusso volume Howard Phillips Lovecraft, Opere complete, nota biografia di August Derleth, presentazione di Giuseppe Lippi,
Mursia, Milano 19833. Sugli artisti che hanno tradotto graficamente gli incubi di Lovecraft: Gianfranco de Turris e
Sebastiano Fusco, Gli illustratori di Lovecraft, in L’ultimo demiurgo e altri saggi lovecraftiani, cit., pp. 87-91.
10 Emblematico, in proposito, Maupassant nel racconto L’Horlà: “Com’è profondo, questo mistero dell’invisibile!
Non possiamo scandagliarlo coi nostri miseri sensi, con gli occhi che non sanno scorgere né il troppo piccolo né il troppo
grande, né il troppo vicino né il troppo lontano, né gli abitanti d’una stella né gli abitanti d’una goccia d’acqua... con
le orecchie che c’ingannano, poiché ci trasmettono le vibrazioni dell’aria in note sonore. Sono le fate che compiono il
miracolo di cambiare in rumore quel movimento, e con questa metamorfosi danno vita alla musica che rende canora
l’agitazione della natura... col nostro odorato, più debole di quello dei cani... col nostro gusto, che riesce appena a
discernere l’età d’un vino! Ah, se avessimo altri organi che compissero in nostro favore altri miracoli, quante cose
potremmo ancora scoprire intorno a noi!” (Guy de Maupassant, L’Horlà, in Racconti fantastici, trad. di Egidio
Bianchetti, Mondadori, Milano 1989, rist., p. 171)
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la presenza, nella sua stessa casa, di un essere invisibile e immateriale, che può spostare gli
oggetti e si nutre di acqua e latte. Il gambo di un fiore che si piega, la pagina di un libro che
si sposta senza che vi sia un filo d’aria, una massa opaca che si interpone fra lui e lo specchio, rivelano al protagonista che qualcuno è dentro casa sua e lo sta osservando. Ma egli non
riesce a vedere nulla. Angosciato dalla presenza dell’essere, l’uomo, in un crescendo di follia
ossessiva, finisce per incendiare la sua stessa casa, facendo bruciare vivi i suoi domestici. Chi
è il misterioso, invisibile essere? Maupassant non lo rivela, ma sembra indicare al lettore che
si tratti di un ulteriore stadio dell’evoluzione umana, una creatura superiore, lo Horlà,11
destinata a prendere il posto dell’uomo sulla Terra.12 Un altro impressionante racconto,
che presenta non poche analogie con quello di Maupassant, è La cosa maledetta dell’americano Ambrose Bierce (1842-1913),13 che si apre con la lugubre scena di nove uomini attorno
al cadavere, steso su un tavolo, di un altro uomo. L’uomo è stato orribilmente massacrato
durante una battuta di caccia. Interrogando l’unico testimone dell’omicidio e leggendo alcune
pagine del diario della vittima, i nove uomini, ossia il Coroner e i giurati del tribunale di San
Francisco (e assieme a loro il lettore), giungono alla conclusione che l’assassino è un misterioso essere invisibile. Bierce non rappresenta l’essere, ma lascia intuire al lettore la sua forma, allorché descrive le spighe di avena che si piegano e vengono schiacciate dalla creatura
che avanza minacciosa o il corpo della vittima, Hugh Morgan, che nella disperata lotta contro il mostro, appare e scompare, agitandosi nella stretta di qualcosa di solido ma non percepibile dalla vista. L’impossibilità di vedere chiaramente l’invisibile massacratore, la cui forma
resta nel racconto inspiegata, ma del quale viene abbondantemente descritta la terribile
devastazione operata sul corpo di Morgan, crea nel lettore un forte effetto di tensione.14 Un’altra paurosa creatura invisibile è quella escogitata da Robert S. Hichens (1864-1950) nel racconto Come scoprì l’amore il professor Guildea:15 un vecchio e cinico professore, completamente disincantato sui sentimenti umani e sull’amore, è costretto a subire il corteggiamento
implacabile di una misteriosa creatura invisibile, che si è insinuata a casa sua. L’uomo prima
è incuriosito da questa stranissima esperienza, poi, vista l’impossibilità di liberarsi dell’intruso, ne viene terrorizzato fino a morire letteralmente di paura. Nel racconto lo strano essere
che atterrisce Guildea in casa sua non viene mai descritto, e l’autore ricorre all’ingegnoso
espediente del pappagallo di Guildea, che si agita e arruffa le penne nello sforzo di imitare
qualcuno percepito solo dall’animale, per dare al lettore l’idea della presenza, nella casa, dell’invisibile fantasma. A cosa possa assomigliare l’essere che perseguita fino alla morte Guildea con il suo ossessivo “amore”, non viene affatto spiegato dall’autore. È il lettore che deve immaginarlo, attraverso gli indizi, in verità scarsi, disseminati nel testo. La rassicurante
Preferiamo evitare l’elisione dell’articolo, per conservare l’h aspirata in francese.
Alberto Savinio, in una sua originalissima analisi, attribuisce alla compresenza di un “altro” Maupassant, enigmatico e tenebroso, demoniaco doppio, la produzione narrativa fantastica, che coesiste assieme a quella d’impronta
naturalistica: vd. Alberto Savinio, Maupassant e “l’altro”, Adelphi edizioni, Milano 19822, pp. 69-70.
13 Ambrose Bierce, La cosa maledetta, in Tutti i racconti dell’orrore, a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco,
Newton Compton editori, Roma 1994, pp. 39-45. Il tema della cosa invisibile è sfruttato da Bierce per rappresentare un
mondo naturale dominato dal mistero e dall’orrore, come ha osservato Carlo Pagetti, I racconti di Ambrose Bierce, in
Cittadini di un assurdo universo, Editrice Nord, Milano 1989, p. 63.
14 Tensione che risulta alquanto stemperata, con un esito banalizzante, nella versione a fumetti del racconto di
Ambrose Bierce, realizzata da Gray Morrow (disegno) e Archie Goodwin (testo) e pubblicata sulla rivista americana
“Creepy” (in italiano, col titolo Quella cosa maledetta!, è apparsa in Le spiacevoli notti di zio Tibia, a cura di Renata
Pfeiffer, Mondadori, Milano 1973, rist., pp. 59-66). Nell’ultima vignetta la creatura viene svelata, mentre sta per aggredire la sua vittima: un mostruoso scimmione dal corpo color rosso sangue.
15 Robert S. Hichens, Come scoprì l’amore il professor Guildea, trad. di Luciano Bianciardi, Sellerio editore,
Palermo 1994.
11
12
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spiegazione di un sacerdote, testimone della penosa vicenda, che attribuisce l’esperienza
paranormale del professor Guildea e la sua fine a una malattia cardiaca e paradossalmente
recita il ruolo di un ostinato e scettico razionalista, non dirime affatto né la tensione né il
mistero della vicenda.
Anche nel cinema, in modo analogo alla letteratura, l’espediente dell’ellissi descrittiva
ha per effetto di accrescere la tensione dello spettatore. Uno dei migliori film di fantascienza mai girati, La cosa da un altro mondo (1951) di Christian Nyby (ma il vero regista fu il
grande Howard Hawks), deve il suo eccellente risultato al fatto che la feroce creatura aliena
che attacca i militari americani nella base del Polo Nord, non viene mai pienamente mostrata.
Questa singolare omissione descrittiva, che riteniamo sia l’unico caso nella cinematografia
di fantascienza, conserva ancora oggi un notevole effetto perturbante nello spettatore e dà al
film un’impronta suggestiva di misterioso fascino.16
Le considerazioni che abbiamo svolto ci hanno indotto a proporre agli studenti un esercizio di scrittura creativa: il completamento del racconto There are more things, ripreso dal punto in cui Borges lo ha lasciato interrotto. Che cosa avviene dopo che il narratore protagonista
si trova faccia a faccia con il misterioso e mostruoso abitatore della Casa Rossa? L’esercizio
assegnato è stato, perciò, il seguente: “Prova a scrivere la conclusione del racconto di Jorge
Luis Borges”. Già in un nostro precedente lavoro, trattando dell’enigma irrisolto nelle
strutture della narrativa, abbiamo indicato alcune motivazioni, che riteniamo didatticamente
valide, per lo svolgimento di questo esercizio di scrittura creativa, e ad esse qui vogliamo richiamarci: gli studenti possono esercitare le loro capacità analitiche e migliorare le competenze espressive; inoltre, terminata la lettura di una storia con finale aperto, continuano a essere emotivamente coinvolti, immaginando la sua possibile continuazione, e cominciano ad
abituarsi a una lettura scaltrita che permetta di decifrare gli immancabili indizi disseminati nel
testo per giungere a una più piena e consapevole interpretazione, purché la rielaborazione sia
coerente con la logica interna della trama.17 Ciò significa che se si vuole scrivere una continuazione in chiave razionalistica di un romanzo come, ad esempio, il Gordon Pym di Edgar
Allan Poe (come, peraltro, ha fatto Verne con La Sfinge dei Ghiacci), bisognerà escludere ogni
elemento soprannaturale.
Peraltro, la continuazione di storie già concluse, il completamento o la riscrittura dei
finali, anche come modalità di messa in discussione dei meccanismi della storia stessa, sono esercizi previsti nel Ricettario di scrittura creativa di Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi
(Zanichelli, Bologna 2003², rist., pp. 170-172) e si prestano molto bene all’approccio degli
studenti con il testo narrativo, nelle classi del biennio. Segnaliamo al riguardo che il concorso
internazionale «Scrivi con me», organizzato dal Ministero degli Affari Esteri in collaborazione con l’Accademia della Crusca nell’ambito delle manifestazioni per la Settimana della
lingua italiana nel mondo, propone annualmente agli studenti delle scuole italiane un racconto di uno scrittore italiano, del quale essi devono scrivere il finale. I dodici migliori scritti
vengono poi pubblicati, assieme al racconto nella sua versione completa (ossia con il finale
scritto dall’autore), in una apposita collana di volumetti, per cura dell’editore Gremese.
Ricordiamo, fra i testi usciti nella serie “Un racconto con dodici finali”: Dacia Maraini,
16 Citiamo in proposito Giovanni Mongini: “La «cosa», il mostro, era un specie di creatura di Frankenstein con
il cranio calvo e delle spine sulle nocche; fu Hawks, su richiesta dei produttori, che decise di tagliare tutte le scene dove
esso appariva chiaramente (all’inizio la pellicola durava due ore e mezzo) e l’iniziativa del produttore fu ottima: soltanto
intravista, la «cosa», interpretata da James Arness (il futuro Grahams di Assalto alla Terra) è estremamente convincente”
(Giovanni Mongini, Storia del cinema di fantascienza, vol.I, Fanucci editore, Roma 1976, p. 70).
17 Cfr. il nostro articolo L’enigma irrisolto nelle strutture della narrativa, cit., p. 116.
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Berah di Kibawa, Gremese Editore, Roma 2003; Alberto Bevilacqua, Il segreto della moglie
scomparsa, Gremese Editore, Roma 2004; Carlo Sgorlon, La fuga a Verona, Gremese Editore, Roma 2005. Un’altra curiosità: la casa editrice americana Bantam Books, Inc., ha pubblicato una collana di libri per ragazzi in cui le storie presentano finali multipli, che possono essere scelti dagli stessi lettori. In pratica ogni storia è un insieme di sequenze ciascuna
delle quali rimanda alternativamente a due altre sequenze: la struttura “a grappolo” delle vicende presenta così ventotto finali diversi, che il giovane lettore può scegliere. La collana è
Choose Your Own Adventure ed è stata tradotta dall’editore Mondadori con l’accattivante
titolo Scegli la tua avventura. Citiamo, come esempio, il vol. n.13, L’abominevole uomo
delle nevi (The Abominable Snowman) di R. A. Montgomery, trad. di Alessandra Padoan,
Mondadori, Milano 1987: è lo stesso lettore ad essere coinvolto nella storia e a vivere
l’emozionante avventura, come protagonista, di una spedizione nell’Himalaya alla ricerca del
leggendario Yeti. Attraverso le pagine si diramano differenti percorsi di avventura, terminanti
ciascuno con un finale diverso, talvolta sconcertante ma mai scontato (ad esempio, in un
finale il lettore protagonista viene sbranato da una tigre, in un altro viene ucciso dai cacciatori di frodo, in un altro ancora si trova di fronte due Yeti che gli puntano contro un vecchio
cannone di bronzo, e così via).
Presentiamo ora i testi che hanno elaborato gli studenti, continuando il racconto There
are more things. Le conclusioni sono state scritte dagli alunni Pasquale Ascione, Davide
Cuccurugnani, Massimiliano De Pascalis, Federica Gobbi, Giorgia Gravina, Luca Lazzari,
Simone Lazzari, Aurora Luciani, Andrea Lijoi, Emanuela Piu, Valentina Scanzani, Valentina
Sebastiani, Giulia Simeone, della classe IV A. Il lettore non potrà non scorgere difetti formali,
ingenuità e approssimazioni. Va però tenuto presente che si tratta di alunni di una quarta
ginnasiale, all’inizio del loro percorso di studio dei testi letterari. Avvertiamo doverosamente
che ai racconti sono state apportate lievi correzioni formali, ma sempre nel rispetto di un’assoluta fedeltà ai testi scritti dai giovani autori.
There are more things
concluso da Pasquale Ascione
Un lungo brivido mi percorse la spina dorsale. Paura, terrore, erano le sensazioni che
provavo. Il mio corpo rimaneva immobile, voleva scappare, non sarebbe mai voluto entrare
in quella tetra casa. Però una morbosa curiosità me lo impediva, volevo vedere in faccia la
misteriosa creatura che abitava quella casa.
Tanti pensieri mi annebbiavano la mente, quand’ecco che vidi un’ombra sulla parete.
Essa si ingigantiva sempre più. Non distinguevo bene l’ombra, però riuscii a concentrarmi e
a notare la forma del corpo: un corpo magrissimo, con la testa enorme, sproporzionata al
corpo.
L’ombra si stava avvicinando sempre più. Non ebbi il coraggio di girarmi: la paura sconfisse la curiosità e scappai. Non mi voltai, difficilmente sarei ritornato sui miei passi. Una
volta uscito dalla casa, corsi senza sosta. Tornato a casa, cominciai a riflettere: dentro di me
ero dispiaciuto di non aver visto la creatura, ma credo che avrei avuto una reazione esagerata. Più tardi mi calmai.
La mattina seguente pensai ancora a come avevo trascorso la sera prima. Ero rimasto
scioccato da quella sera. Tutto a un tratto non avevo più voglia di chiarire questo mistero, non
sarei mai voluto rientrare nella Casa Rossa di mio zio. Io stesso non mi riconoscevo più, la
curiosità che avevo fino a pochi giorni fa era totalmente scomparsa. Allora non volli preoccuparmi più della Casa Rossa.
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There are more things
concluso da Davide Cuccurugnani
Fui colpito da una luce abbagliante, che mi impediva di tenere gli occhi aperti, nonostante la vacua curiosità mi spingesse avanti.
Da una luce così forte potevo aspettarmi un calore pari solo a quello del sole, e invece
freddo, un freddo gelido e pungente.
Avevo paura. Paura di andare avanti, verso l’ignoto, verso l’inizio o la fine di qualcosa.
Ben presto sentii sotto i miei piedi il vuoto, ma nonostante questa inquietante situazione
avanzai, continuando a salire verso la luce. Arrivai a sentire qualcosa, a sentirmi toccare da
qualcosa, o forse da qualcuno!
Non sentivo il peso di quel tocco, ma lo percepivo, e percepivo dentro di me una forte
angoscia. Fu un attimo, e poi... buio!
È difficile spiegare come da una luce così abbagliante si possa passare al buio più oscuro.
A spezzare il buio c’erano solo raggi di luce viola.
Ero immobile. Steso o in piedi non era chiaro, ma ero immobile. Non c’era niente a
trattenermi, ma era come se avessi il corpo paralizzato, pur non essendo legato. Intorno a me
voci e bisbigli incomprensibili. Sibili nel buio, dove solo la luce violacea mi rassicurava.
Il panico mi invadeva, il mio corpo lottava contro le impercettibili barriere che lo bloccavano. Qualcosa nell’oscurità si accorse del mio disagio. I bisbigli tacquero e un raggio di
luce viola mi illuminò in pieno il volto. Sentii il solito tocco, ma questa volta più intenso. Lo
sentii sul mio viso, quel tocco che mi dava una tenue, rassicurante sensazione. L’angoscia era
ancora viva in me, ma non volevo più liberarmi. E mentre pensavo, un dolore fulminante mi
attraversò il cranio.
Smisi di pensare, gli occhi immobili verso il buio, mentre sentivo la mia testa aprirsi
come una noce. Ma quel tocco, che sempre percepivo, continuava a rassicurarmi e ad allontanare sia la paura sia il dolore.
Ad un tratto mi sentii leggero, sentii che le braccia e le gambe fluttuavano nel nero vuoto
attraversato dai raggi violacei.
Non sentivo più dolore, non sentivo nulla. Mi agitavo nel vuoto, mi sembrava di volare.
Nemmeno sentivo di respirare, ma mi accorgevo comunque che ero vivo. Non respiravo, ma
vivevo. Non chiudevo gli occhi, ma continuavo a vedere. E mentre fluttuavo... caddi.
Mi svegliai, come se la notte prima fossi stato ubriaco. Avevo un grosso mal di testa, ma
sulla mia testa non c’erano ferite né aperte né rimarginate.
Tornai nella casa dello zio, entrando dalla finestra come la notte prima. Come era
possibile che mi trovassi esattamente fuori dalla casa? Ripensandoci, era possibile che fossi
salito sul tetto e vi avessi camminato sopra, in uno stato di alienazione totale, e poi fossi
caduto. Ma non era possibile, era troppo alto, e mi sarei dovuto aggrappare ad un albero. Ma
anche così, avrei sbattuto quanto meno la testa.
Uscii immediatamente da quella casa disabitata e maleodorante, per dirigermi nel mio
albergo. Entrato nella mia camera, mi sdraiai sul letto guardando il soffitto, concentrandomi
nei miei pensieri, per evitare che quel comodo letto mi facesse assopire.
Ora tutto mi era chiaro. Lo zio Edwin grazie a Muir aveva scoperto qualcosa di inimmaginabile e indescrivibile. La quarta dimensione, la dimensione del tempo!
Ecco dove ero stato, in una dimensione di tempo contrario, diverso o addirittura inesistente. Quelle cose la cui presenza avevo sentito vicino a me quella sera, dovevano essere
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alieni. Alieni? Discorsi folli nella mia testa si ripetevano ossessivamente. Perché sentivo
ancora quel dolore nella testa? Gli alieni mi avevano fatto qualcosa? O ero io che deliravo ed
ero sconvolto da un incubo?
Una cosa era sicura: mio zio non era un pazzo né tanto meno un imbroglione che volesse
vendere le sue idee al primo credulone.
Quello che diceva era vero, e chissà in quale modo aveva pagato la sua verità. E io sarei morto con questa certezza, che non avrei potuto comunicare a nessuno, perché nessuno poteva capire ciò che io avevo provato.
Ma cosa era realmente successo, chi fossero i miei torturatori e dove mi ero trovato, non
l’avrei mai scoperto. E non avrei mai capito se tutto ciò era un avvertimento o non piuttosto
una condanna da cui non mi sarei mai liberato.
There are more things
concluso da Massimiliano De Pascalis
Ero talmente curioso che non sentivo più il tremore che mi aveva invaso il corpo. Come
sarebbe apparsa la creatura? Quali dimensioni avrebbe avuto? Oramai stavo per scoprirlo, tirarsi indietro non era più possibile. Come io avevo percepito la sua presenza, anche lui aveva percepito la mia. Arrivato a questo punto, la paura si intrecciava con la curiosità e non riuscivo a distinguere l’una dall’altra.
Nel frattempo, per non farmi vedere, tornai con passo felpato al piano di sopra e mi nascosi in un angolo, favorito dalla mancanza di luce. Trascorsi pochi minuti, sentii uno strano
rumore, simile allo strisciare di qualcosa, o piuttosto a un sibilo. Rimasto da solo e al buio,
ero attanagliato dalla paura.
Ecco che nuovamente sentivo quel sibilo fastidioso e inquietante, solo che questa volta
sembrava più acuto.
Mi sembrava tutto come un film dell’orrore, in cui la preda, cioè io, aspetta impaurita di
essere catturata e uccisa. Di colpo sentii un brivido dietro la schiena, come se mi si avvertisse che la creatura era entrata nella stanza in cui mi trovavo. Impaurito, riuscii a farmi un po’
di coraggio e cercai di scrutare nel buio in cerca di una qualche sagoma, il mio predatore. Dopo qualche attimo ecco che i miei occhi, tra le fitte tenebre, riuscirono a catturare un’immagine confusa di un essere dalle grandi dimensioni, simile a un serpente, dai grandi occhi luminosi. La cosa strana era che riuscivo a contare ben quattro occhi, divisi a coppie, che spuntavano da una forma possente e apparentemente viscida, tanto che rifletteva la poca luce anche nel buio più intenso.
L’essere per qualche minuto si agitò piegandosi su se stesso prima di sdraiarsi su quella
specie di letto a forma di U. Impaurito e allo stesso tempo curioso, lentamente mi alzai in piedi
e lo andai ad osservare più vicino. Mi avvicinai talmente che potei sentire il suo respiro sul
mio corpo, notai anche le due grandi teste, una anteriore e l’altra posteriore. La mia impressione nel vederlo fu talmente intensa che incautamente lo colpii ad un fianco. L’essere aprì
subito i suoi quattro occhi e si sollevò, come per volermi respingere. Preso dal panico, cominciai a correre, inseguito dal grande e goffo mostro. Per la paura non riuscivo a voltarmi;
trovata finalmente la porta d’ingresso, uscii in strada e continuai a correre per un lungo tratto, fino a che, stremato, crollai a terra privo di sensi.
Questa fu l’ultima cosa che ricordai, prima di svegliarmi sul letto della clinica del mio
paese.
– 186 –
There are more things
concluso da Federica Gobbi
La figura che mi si parò davanti aveva fattezze talmente mostruose che, nonostante il
terrore, non riuscii ad urlare. Rimasi a boccheggiare con gli occhi spalancati, fissando quell’essere mostruoso. Era una specie di enorme lucertola, con tante zampe e due teste, con
occhi grandi e gialli che mi fissavano vitrei. Sulla coda, simile a quella degli scorpioni,
luccicava una goccia di veleno. Ancora incapace di muovermi e parlare, continuai a fissare
inorridito quel mostro che saliva lentamente per le scale, convinto che la mia vita sarebbe
finita in pochi attimi. Tutto intorno c’era silenzio. L’unico suono che mi arrivava era il
martellante battere del mio cuore e il sordo rumore di tutte quelle zampe sugli scalini.
Mentre quella “cosa” continuava minacciosa a salire, finalmente, ritrovando un po’ di
lucidità, mi resi conto che anche se quei quattro occhi stavano fissando me, era come se non
riuscissero a vedermi. In silenzio mi appiattii contro il muro, in una specie di buco che un
tempo doveva essere stato un ripostiglio, e avvolto dalle tenebre guardai quel mostro che
ormai era arrivato nel punto in cui mi ero fermato. Trattenni il respiro. Ad un tratto la piccola
finestrella che avevo di fronte si spalancò a causa del vento. Il mostro, colto di sorpresa,
chiuse gli occhi e, riaprendoli, li spalancò in un modo incredibile, voltandosi verso la finestra. Per un po’ si guardò intorno, poi chiuse nuovamente gli occhi. Quando li riaprì avevano
di nuovo quello sguardo vitreo, come assente. Come in preda al sonnambulismo riprese la sua
salita lenta e opprimente.
Aspettai, respirando a fatica, che arrivasse in cima. Dopo alcuni minuti, che a me sembrarono ore, iniziai a scendere lentamente e in modo silenzioso, fino ad arrivare alla porta.
Cautamente aprii la porta e uscii. La pioggia mi fustigò il volto. Appena fuori da quella casa
iniziai a correre. Il cuore mi batteva fortissimo, al punto tale che temetti che mi sarebbe uscito fuori dal petto. Finalmente arrivai a casa, entrai e mi accasciai sul pavimento, preso da un
irrefrenabile tremore. Non riuscivo a togliermi dalla testa quella “cosa” e tutti quegli occhi
perfidi e gialli che mi fissavano ma non mi vedevano.
Non so per quanto tempo rimasi così, forse minuti, forse ore, poi ritornai in me e iniziai
a chiedermi da dove venisse e che cosa volesse quella specie di lucertolone.
Ci pensai e ci ripensai, ma l’unica conclusione a cui arrivai era che in tutto quello c’entrava Preetorius.
Avevo bisogno di parlare con qualcuno e decisi di andare da Muir, anche perché sapevo
che la polizia non mi avrebbe creduto. Presi un bel respiro, uscii e mi incamminai. Arrivai a
casa di Muir e bussai impaziente. Muir mi venne ad aprire. Entrai. Sul tavolo c’erano dei
biscotti. “Accomodati”, mi disse indicando una sedia. Mi sedetti e, dopo un paio di biscotti,
iniziai a raccontargli tutto, nei minimi particolari. “...per questo credo che la chiave di tutto
sia Preetorius!”, dissi concludendo il mio racconto. Aspettai paziente una risposta, ma Muir
stette in silenzio. Alzai lo sguardo verso lo specchio e sobbalzai. Dietro di me c’era l’inquietante Preetorius che stringeva qualcosa in mano. Feci per alzarmi, quando sentii un dolore
lancinante alla testa che mi fece svenire. Quando rinvenni mi trovai nella Casa Rossa, con le
braccia e le gambe legate. Accanto a me c’era Preetorius, in un angolo Muir, con gli occhi
bassi, seminascosto dalle tenebre, e avanti a me c’era quel mostro.
Preetorius mi disse: “Complimenti, ragazzino, sei sveglio... ma troppo curioso per i miei
gusti. Adesso vedrai cosa succede ai ficcanaso”. Il mostro venne minaccioso verso di me, con
gli occhi spalancati. Questa volta la paura fu più forte della curiosità, e chiusi gli occhi.
– 187 –
There are more things
concluso da Giorgia Gravina
Aprii gli occhi e riuscii a scorgere una figura strana: sembrava un serpente con due teste,
ma non feci in tempo a guardare bene. Lo strano essere mi prese, e mentre mi stringeva a sé,
sentii un pizzico all’altezza del collo. In quel momento provai una strana sensazione, come
di smarrimento. Mi sentivo la testa vuota ed ero come paralizzato. Persi i sensi.
Mi risvegliai in uno strano luogo. Ero certo di trovarmi nella Casa Rossa, ma in quale
stanza? Riuscii ad aprire meglio gli occhi e capii finalmente dove mi trovavo: era la stanza
da letto del mostro. In quel momento mi ricordai che quando ero piccolo e giocavo a nascondino, scappavo sempre da una porta posteriore situata proprio nella camera da letto. La
prima cosa che mi venne in mente, fu quella di scappare da lì. Non era proprio una cattiva
idea, ma c’era un piccolo intoppo: ero legato mani e piedi al letto del mostro. Ero disperato,
non sapevo cosa fare. Fuori pioveva e tirava un forte vento freddo. Mentre pensavo a come
portare in salvo la pelle, mi venne in mente che nella tasca destra del mio cappotto c’era un
coltellino canadese, che mi serviva per le emergenze e che portavo sempre con me. Il cappotto
era abbastanza vicino a dove mi trovavo e riuscii a tirar fuori dalla tasca il coltellino. Lo aprii
dalla parte della lama e inizia a tagliare la corda che mi teneva legato al letto. Proprio sul più
bello, quando la corda stava per cedere, sentii la porta cigolare e dei passi d’uomo risuonare
sul pavimento di legno. Era Preetorius che veniva a “farmi visita”.
Non capivo più niente. Prima la mostruosa anfisbena, ora lo strano compratore: ma che
legame c’era tra questi due esseri? Alla mia domanda rispose subito Preetorius: “Vedi figliolo,
la vita è assai crudele con alcuni. Il destino, ahimè, ti ha riservato una brutta fine. Sono venuto
su questo pianeta perché mi serve un po’ di sangue umano da portare sul mio, e il saggio dei
saggi ha scelto proprio te. Non devi, però, essere triste, è una fine dignitosa, in fondo!” Da
queste parole riuscii a ricollegare tutto: il cane morto, lo strano letto, la luce biancastra. “Ora
è tutto chiaro!”, esclamai ad alta voce. Preetorius sentendo la mia esclamazione, rise e disse
con tono severo: “Vedo che sei un ragazzo sveglio. Ma non abbastanza da capire che è stato
un errore venire a “trovarci” a casa nostra, ci hai reso le cose molto più facili...” E con una
risatina maligna sgusciò via.
Quando calò il silenzio nella stanza e sentivo solo il battito del mio cuore, a quel punto
presi una decisione, pensando che era troppo presto per morire. Allora ripresi a tagliare e
visto che lo spietato alieno non si era accorto che la corda era lacerata, non fu difficile riuscire
a liberarmi. Quando fui finalmente libero, con passi leggeri andai verso la porta, la aprii e me
ne andai in fretta e furia. La prima cosa che pensai e feci fu di andare dallo sceriffo. Gli raccontai tutto e mi credette. Preetorius alla fine fu imprigionato e lo strano essere alieno fatto
a pezzi e bruciato.
There are more things
concluso da Luca Lazzari
La paura pervase il mio corpo. Rimasi immobile, come pietrificato. Benché volessi chiudere gli occhi, non ci riuscivo. La curiosità era troppa, avrei finalmente svelato il mistero.
Sarei stato il primo e forse l’ultimo a vedere ciò che nessuno aveva mai visto e mai avrebbe
– 188 –
veduto. Qualcosa fuori da ogni immaginazione, che mi avrebbe paralizzato, ma che al tempo
stesso mi avrebbe stupito. Mille domande e mille pensieri offuscarono la mia mente. Sarei
riuscito a sopravvivere, oppure tra breve sarei morto? E poi, chi era quell’essere e che cosa
poteva volere dagli umani? Ma il suo aspetto era davvero così terrificante? Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovare delle risposte alle mie domande. Mentre riflettevo e mi ponevo
questi quesiti, il tempo e tutto ciò che si trovava intorno a me sembrava essersi fermato.
Venni riportato alla realtà da qualcosa di freddo e viscido che si avvolse intorno alla mia
gamba. Sentii il cuore battermi in gola. Ero terrorizzato. Cercai di svincolarmi da quella
presa. Ci riuscii e corsi di nuovo al piano superiore. Sentii che la misteriosa creatura si stava
avvicinando. Mano a mano che saliva le scale, riuscivo ad intravedere qualcosa. Quando lo
vidi completamente, rabbrividii.
Era simile a una piovra. Aveva lunghi tentacoli e un grosso occhio al centro della testa.
L’essere iniziò a emettere versi, qualcosa che non riuscii a capire. Ad un certo punto prese uno
strano strumento da un mobile e iniziò a digitare dei tasti. Capii che era un traduttore tarato
sulla mia lingua, quando prese a parlarmi in modo comprensibile. Mi spiegò che era un detenuto sfuggito alla giustizia del suo pianeta con una navicella spaziale, atterrato sul nostro pianeta in attesa che si fossero calmate le acque. Per potersi meglio nascondere aveva assunto le
sembianze umane e comprato la casa. Mi disse che ormai era stato scoperto e, non avendo altre soluzioni, mi avrebbe ucciso. In questo modo non avrei potuto raccontare niente.
Vidi i suoi tentacoli avvicinarsi verso di me. Ma prima che potesse afferrarmi, presi un
vecchio ombrello gettato in un angolo e con uno sforzo gli conficcai la punta nell’occhio.
L’orribile alieno emise un urlo agghiacciante. Approfittando della sua cecità, lo attirai con la
mia voce alla finestra e lo spinsi di sotto. Cadde giù al suolo violentemente, rimanendo tramortito. Mentre guardavo giù, ancora impaurito, vidi comparire all’improvviso due strani
esseri che immobilizzarono il mostro e scomparvero assieme a lui.
Ritornai a casa frastornato. In tutta questa vicenda di una cosa sola ero sicuro: non avrei
mai dimenticato un’esperienza simile.
There are more things
concluso da Simone Lazzari
Avevo una grande tensione addosso. Non sapevo cosa si stesse avvicinando, ma sentivo
che non era un essere umano, bensì una misteriosa creatura che, sotto false sembianze, aveva comprato quella casa. Mi chiedevo cosa facesse tutto il giorno chiuso nella sua abitazione e se ci fossero altri esseri uguali a lui. In quel momento molte di queste domande vagavano nei miei pensieri, ma capii che ben presto ne avrei avuto la risposta. Mi sembrava di
essere in un film giallo, nel momento in cui si scopriva il colpevole. Già me lo immaginavo
brutto, magari con alcune parti del corpo particolari e strane. Quello di cui ero certo era che
avrei scoperto qualcosa di veramente incredibile, che avrebbe svelato molti misteri sulla
presenza di altre forme di vita, oltre quella umana, nell’universo.
Intanto i passi si facevano sempre più vicini. A ogni gradino salito, cresceva anche la mia
ansia, la mia agitazione. Per un attimo avrei voluto scappare, nascondermi sotto il tavolo o
dietro qualcosa, ma le mie gambe erano ferme, immobili, come pietrificate. Ormai non potevo
più pensare, già si cominciava a scorgere l’ombra di quella creatura. Rimasi sorpreso nel
vedere che in realtà davanti a me c’era Alexander Muir, l’architetto che aveva progettato questa casa. Gli chiesi cosa facesse qui e lui mi rispose che aveva sentito strani rumori e, trovando
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la porta aperta, era venuto a controllare. Allora, pensando che ne potesse sapere qualcosa, gli
domandai qualche informazione sullo strano personaggio che vi abitava. Lui, spaventato,
si guardò attorno, poi con voce tremante disse che secondo lui non era un uomo normale perché non usciva mai e alcuni oggetti dell’arredamento, come d’altronde avevo notato anch’io,
erano di proporzioni maggiori rispetto a quelle consuete. Inoltre in questa costruzione ci
doveva essere qualcosa che mio zio aveva trovato involontariamente e di cui si era ritenuto
il legittimo proprietario. Stranamente, trascorsi alcuni mesi, mio zio era morto e subito dopo
si era presentato un signore interessato a comprare la casa anche al doppio della cifra proposta
dal miglior offerente. Tutto questo era sospetto.
Mentre riflettevamo su questi strani fatti, avanzando a vicenda le nostre “teorie”,
sentimmo dei passi lenti, pesanti. Ci spaventammo e cercammo un posto dove nasconderci,
per non farci scoprire. Vedemmo un armadio grande abbastanza per contenere due persone e
ci rifugiammo lì. Per la curiosità non chiusi del tutto l’anta, ma lasciai un piccolo spiraglio
per vedere. Sentivo i passi avvicinarsi. Alla fine, ecco apparire la figura di cui avevo tanto
cercato di capire l’aspetto. Davanti a me c’era una buffa creatura, come quelle che si vedono
nei film di fantascienza, con una testa ovale, lunghe dita, senza capelli e con due occhi alquanto sporgenti. Pareva infuriato, forse perché non riusciva a trovare l’oggetto che era stato nascosto da mio zio dentro la casa. Ascoltai attentamente. Sentii che l’essere parlava nella nostra lingua, ma capii soltanto una frase, nella quale specificava l’inutilità dell’uccisione
di mio zio. A quelle parole l’ira si impadronì di me: uscii dall’armadio all’improvviso e lo colpii violentemente alla testa, facendolo cadere a terra. Subito Alexander mi chiamò e insieme
andammo via di corsa da quella casa.
Cosa sia successo dopo non lo so, ma la cosa di cui sono certo è che non ho ucciso quel
mostro: è vivo e probabilmente sta ancora cercando, in quella casa, il misterioso oggetto.
There are more things
concluso da Andrea Lijoi
A un certo punto vidi un essere dall’aspetto terrificante, che aveva tutta l’aria di essere
un vampiro. Era vestito di nero, con un mantello lungo fino ai piedi. I suoi occhi giallastri
cambiavano colore emettendo bagliori rossastri e il suo viso, solcato da profonde rughe, era
pallidissimo. Egli avanzava senza parlare, con passi lenti. Con voce tremante gli chiesi: “È
lei Max Preetorius?” Ed egli con voce profonda e tetra mi disse: “Va’ via!” Io, preso dal
panico, scappai, decidendo di non tornare più in quella casa.
Quando mi sentii abbastanza lontano e al sicuro, mi accorsi di aprire gli occhi e mi trovai
nella mia stanza, sdraiato sul mio letto. Dalla finestra socchiusa filtrava la luce del sole e
fuori, tra il verde degli alberi, si sentivano gli uccelli cinguettare. Ero calmo e tranquillo.
Capii allora che tutto era stato un terribile incubo.
There are more things
concluso da Aurora Luciani
Quando si accese la luce mi trovai davanti esattamente lo stesso essere il cui nome avevo
pronunciato pochi secondi prima: l’anfisbena.
– 190 –
Avevo letto molti documenti che lo descrivevano, da Plinio a Lucano, da Brunetto Latini a sir Thomas Brown.
Sapevo perfettamente che non era un essere reale, ma ciò che mi trovai davanti agli occhi in quel momento tradì tutte le mie conoscenze.
Era esattamente come me lo ero immaginato leggendo i racconti e le testimonianze, esattamente come mi aspettavo che fosse l’essere che poteva abitare quella casa, la Casa Rossa,
la casa di mio zio.
Nonostante me lo aspettassi, provai, però, stupore, disgusto, e al tempo stesso fui affascinato nel vedere il lungo corpo verde acido e nero, le due spaventosissime teste che corrispondevano alle estremità del mostro e quei terribili denti con i quali, se solo avesse voluto,
avrebbe potuto uccidermi, senza che io mi potessi minimamente opporre.
Non mi uccise. Anzi, mentre già pensavo alla mia morte, alle persone che erano a me care e che da quel momento non avrei più rivisto, il mostro, la terribile anfisbena, cominciò a
parlarmi. Aveva una voce aspra, sibilante, non umana. Mi stupii: non avrei mai pensato che
un essere simile a un serpente potesse parlare, potesse ascoltare, potesse avere pietà.
Mi raccontò della casa e di Preetorius: “Quando arrivai, questa casa era piena di mobili, molte pareti, tanti libri, carte ancora fresche d’inchiostro e un bellissimo cane. Ma di queste cose non me ne facevo niente, così me ne sbarazzai. Misi ordine alla casa: buttai i mobili e i libri in una buca, demolii le pareti, uccisi il cane. Mi feci fare i mobili di cui avevo bisogno, trasformai la casa nella mia reggia. In verità queste cose le fece Preetorius, ma che differenza fa? Preetorius non aveva certo un bell’aspetto e molti lo reputavano un uomo strano.
In effetti i suoi comportamenti non erano molto umani. Non aveva né amici né parenti in
questo mondo; l’unico che aveva era se stesso, ossia me”.
A quell’affermazione capii tutto. Preetorius e l’essere che mi trovavo davanti erano la
stessa cosa, la stessa mente. Ma come era possibile essere uomo e al tempo stesso anfisbena? Stavo per chiederglielo, ma questi mi precedette spiegandomi ogni cosa: “Io sono e
sono sempre stato un’anfisbena. Anche quando la mia mente era nel corpo di Preetorius sono sempre rimasto tale. Sono, però, l’ultima anfisbena e se tuo zio non mi avesse protetto
probabilmente non sarei qui. Tuo zio mi trovò nei deserti d’Africa, gli stessi in cui i soldati di Catone affrontarono i miei avi secoli or sono. Mi prese con sé e mi portò in questa casa.
Fece di me quel che sono adesso: imparai a parlare, a capire, a ragionare. Riuscii a comprendere così bene la mente umana che finii, giorno dopo giorno, anno dopo anno, per
assomigliare sempre più a quell’essere ripugnante che era Preetorius: né uomo né anfisbena. Quando tuo zio morì decisi così di fare un passo indietro. Predisposi la casa in modo tale
che un’anfisbena ci avrebbe potuto vivere. Buttai i libri, con amarezza, ma consapevole che
se fossi tornato come ora sono mai sarei stato capace di sfogliarli. Preferii ridiventare quel
che ero dato che da solo non sarei mai stato in grado di diventare un uomo a tutti gli effetti.
Ora che ti ho raccontato la mia storia, la storia della casa e di tuo zio, vattene. Preferisco star
solo”.
Me ne andai, sorpreso di come quell’essere poteva essere docile e avere sentimenti così nobili.
Fuori non pioveva più, era già mattino e il sole splendeva regalando un gradito tepore.
Mi affrettai lungo il Sentiero delle Mandrie, trovai la buca dove erano seppelliti i mobili, i
libri di mio zio e insieme con essi tutte le carte. Vidi taccuini interi con disegni e studi sulle
anfisbene, li presi.
Mi recai poi nel pomeriggio al cimitero da mio zio. Allora capii cosa lui avrebbe voluto. La notte stessa tornai alla Casa Rossa. Entrai, non c’era nessuno. Avevo deciso di continuare ciò che mio zio, Edwin Arnett, aveva cominciato. Aspettai.
– 191 –
There are more things
concluso da Emanuela Piu
In quell’istante un brivido percorse il mio corpo. Il mio viso ruotò lentamente verso il
basso e vidi l’essere.
Non sapevo cosa fare, se urlare, scappare o rimanere lì, inerme. Lo scorrere del tempo
era lento, quasi impossibile.
Quella specie di serpente a doppia testa salì i gradini con grande abilità e, inevitabilmente, si accorse della mia presenza. Le teste del serpente si trovavano alle due estremità
del corpo. Quella che era più vicina ai miei piedi si alzò lentamente, scrutandomi dal basso
verso l’alto. A quel punto i suoi occhi raggiunsero i miei: gli occhi grandi e rossi, pieni di
rabbia, posti al centro della piccola testa, rendevano l’essere ancor più mostruoso. Con un
movimento inaspettato il serpente eresse metà del suo corpo, spalancando le enormi fauci ed
emettendo un suono quasi assordante. In un istante addentò la mia caviglia. Il sangue
cominciò a scorrere, mentre urlavo di dolore. Scalciando nell’aria cercai di liberarmi della
bestia, ma essa, addentandomi profondamente nella carne, si attorcigliò alla gamba, mordendo con l’altra bocca il mio petto. Il dolore era atroce. Gridavo più che potevo ma le mie
urla erano inutili.
In pochi secondi l’essere era riuscito a immobilizzarmi. Capii che ormai la mia ora era
giunta.
There are more things
concluso da Valentina Scanzani
Sentii qualcosa di caldo e di viscido strisciare lungo le scale, contro le mie gambe... Era
buio, non riuscivo a capire cosa mi trovassi davanti.
Non avevo paura, ero curioso, curioso di scoprire cosa c’era a pochi centimetri di distanza
da me... Mi poteva fare del male? Forse mi poteva uccidere? Dovevo avere paura? O forse
era semplice e innocuo...
Era rimasto fermo, immobile su quella scala verticale. Forse anche lui mi stava osservando e formulava ipotesi e teorie su di me, forse anche lui pensava cosa ero, se ero pericoloso...
Non mi muovevo, ero fermo, appoggiato alla balaustra di legno, il più possibile attaccato
alla ringhiera per tenermi un po’ più lontano dalla creatura. Ripensavo a cosa avevo visto al
piano superiore della casa, un tavolo a forma di U e degli specchi montati come una grande
V. Non ero in grado di formulare ipotesi sulla mostruosa anatomia di questo essere. Continuavo a non muovermi, respiravo in silenzio. Il suo respiro non lo sentivo, anche se c’era
un’incredibile pace. Forse aveva ragione Lucano... Poteva essere un’anfisbena o forse una
creatura simile a quella descritta nella “Metamorfosi” di Franz Kafka? No, no! Stavo vaneggiando! La paura e l’ansia mi stavano facendo delirare. Erano solo creature fantastiche, uscite
da racconti di fantasia...
Ma lo sentivo muovere, lo sentivo strisciare. Ero quasi sicuro che non aveva gli arti inferiori e le mie precedenti riflessioni mi portavano a credere che non avesse neppure quelli
superiori. Ma allora che razza di essere mi trovavo davanti?
– 192 –
Sentivo che si stava avvicinando a me. Dovevo rimanere immobile? Scappare? Mi mossi
anch’io, piano piano, un passo per volta. Mi sembrava di essere su una scacchiera, un passo
per volta, un passo a testa. Decisi di fare la prima mossa: presi un lungo respiri e corsi su in
cima alla scalinata. Arrivato di sopra, la mia mano timorosa fece girare per la terza volta
l’interruttore della luce.
Non sempre la fantasia è solo un sogno, a volte c’è un legame con la realtà. Quello che
è stato di me quella notte, in quella casa, non lo so... So solo che oggi sono ancora vivo e in
quella casa non ci metterò mai più piede. Forse non sono stato l’unico a vedere quella creatura o forse quelle di Lucano non erano solo fantasie... Ma quel che ho visto io era qualcosa
chiamato anfisbena.
There are more things
concluso da Valentina Sebastiani
Ero emozionato ma anche impaurito, allo stesso tempo. Sentivo che l’essere si avvicinava a me sempre più. Mi mise la mano sulla spalla. Era l’essere che mi stavo aspettando di
vedere? Mi conosceva? Io lo conoscevo? Queste mie perplessità restavano senza risposta, ma,
finalmente, scorsi il viso dell’individuo che, sino a quel momento, era rimasto nella penombra.
Fui molto sorpreso di vedere Muir che mi sorrideva.
Senza dubbio, eravamo venuti per lo stesso motivo, entrambi lo sapevamo; per questo
gli sorrisi di rimando.
Fui lui per primo a parlare: “Da quanto tempo ti trovi qui?” “Da circa tre ore. Non ho
scoperto nulla riguardo all’abitante. Ma dimmi, come sapevi che fossi qua?” “Credo che una
raffica di vento ti abbia portato via il cappello. Ovviamente, ho capito da questo che eri nei
paraggi: lo porti sempre con te. L’ho trovato in prossimità della porta, tieni”. “Grazie, non mi
sono neanche accorto di averlo perso, talmente ero ansioso di entrare”.
La comparsa di Muir mi diede un motivo per rimanere a dare un’ultima occhiata alla casa. Accendemmo la luce. A sinistra si trovava l’enorme sala da pranzo. Una cosa che prima
mi era sfuggita, era l’enorme pianoforte a coda al centro della stanza. Per possederlo, l’essere che abitava la casa doveva per forza avere delle mani... se almeno a quello gli serviva lo
strumento. Il resto della casa era semivuoto, com’ero riuscito a vedere all’inizio.
Prima che potesse rientrare l’abitante, ci dirigemmo verso la porta per andare via. Muir
allora mi fermò: si era accorto di qualcosa, probabilmente. Infatti, con la luce accesa,
potemmo osservare una grande impronta di piede, se così si poteva chiamare, sull’uscio. Era
deforme, aveva solo tre dita. L’unica conclusione che potei fare, fu quella a cui avevo pensato
fin dall’inizio: quell’individuo non era umano.
I giorni passarono. La casa rimase incustodita, senza segni di vita al suo interno. Nessuno
vide più il “signor Pretorius”, il quale, con il passare del tempo, fu dimenticato.
There are more things
concluso da Giulia Simeone
Cercai di scrutare nell’oscurità l’essere che in quel momento mi veniva incontro. Era gigantesco, sembrava un’enorme anfesibena. Ora non avevo più dubbi: l’essere non era umano.
– 193 –
In quel momento non sapevo cosa fare, una parte di me voleva fuggire da quel luogo
funesto, un’altra, invece, voleva capire meglio cos’era quell’essere. Nella mia testa si aggirava una parola mentre il mostro veniva verso di me, ma non riuscivo a ricollegarla con
l’anfesibena che avevo di fronte. La parola era “Preetorius”, il misterioso forestiero che era
scomparso improvvisamente dalla casa.
Avevo troppi dubbi e in quel momento la paura stava prendendo il sopravvento, non
riuscivo più a pensare e...
Non seppi più nulla di ciò che era accaduto in quell’istante di paura: capii ciò che era
successo solo quando mi svegliai e vidi Preetorius seduto accanto a me, su una poltrona di
pelle scura. Parlammo per un’ora intera e quello che egli mi disse mi sembrava impossibile.
Preetorius era uno scienziato che studiava il comportamento di animali particolari e rari.
Aveva scelto la Casa Rossa per compiere i suoi esperimenti su una anfesibena, che però gli
aveva arrecato gravi problemi. Preetorius, durante uno dei suoi esperimenti, aveva cercato di
immobilizzare con un sedativo l’anfesibena su un tavolo operatorio, ma la situazione gli era
sfuggita di mano. L’anfesibena era scappata senza lasciare traccia.
A quel punto Preetorius andò a cercarla e rimase fuori per molto tempo, fino a quando
non decise di tornare nella Casa Rossa: allora trovò l’anfesibena che era di fronte a me e
stava per inghiottirmi.
Ora l’anfesibena si trovava chiusa in una gabbia. E era stato iniettato un sedativo, per evitare che scappasse di nuovo. Dopo lo scampato pericolo mi profusi a ringraziare Preetorius
per avermi salvato la vita e me ne andai. Mentre camminavo nella notte mi tornarono in
mente le congetture terrificanti che mi ero fatto su Preetorius. La prossima volta avrei dovuto
riflettere prima di agire e non lasciarmi trasportare dalla mia irrefrenabile curiosità.
2. OMAGGIO A EDGAR ALLAN POE:
ELABORAZIONI SUL TEMA
DEL SEPPELLIMENTO PREMATURO
Uno dei testi predisposti nel percorso di narrativa seguito dagli alunni della classe IV A,
è stato il racconto di Edgar Allan Poe (1809-1849) Il seppellimento prematuro, celebre testo
del maestro della narrativa del terrore. Il protagonista narratore vive nella costante, ossessiva paura di essere sepolto vivo e di risvegliarsi nella tomba, giacché è vittima di periodici
attacchi di catalessi che lo lasciano in una condizione di morte apparente. Perciò scongiura
gli amici di non lasciarlo mai solo e di accertare la sua effettiva morte, se dovesse mai avvenire, e fa costruire nella tomba di famiglia una serie di marchingegni che dovranno permettergli di dare tempestivamente l’allarme, nel caso sia sepolto ancora vivo. Ma questo è proprio
ciò che gli accade, stando al suo racconto: una volta, infatti, gli avviene di ridestarsi entro
quella che crede una buia e stretta cassa, una bara. Ma non ricorda quando né perché sia
finito nella tomba. Il terrore gli paralizza le membra, vorrebbe gridare e non può, si sente
soffocare, prova momenti di indescrivibile panico, cerca invano i marchingegni che ha fatto
disporre entro la bara e non li trova. Raccoglie allora tutte le sue forze ed emette un ultimo,
disperato grido. Inaspettatamente una, due, tre voci gli rispondono: sono i suoi amici che lo
afferrano e lo scuotono fortemente. Allora gli ritorna la memoria: si trova, infatti, nella cuccetta di uno sloop (una piccola imbarcazione a vela), ancorato alla riva di un fiume vicino
Richmond, in Virginia. Qui egli aveva cercato rifugio per la notte, sorpreso da un temporale
mentre stava andando a caccia con un amico. Nella stretta cuccetta si era addormentato, per
risvegliarsi nel cuore della notte, senza però ricordare quanto era successo prima.
– 194 –
È un racconto del terrore a lieto fine, cosa abbastanza rara nella narrativa di Poe. Oltre
al protagonista narratore della storia, personaggio raffigurato con un carattere ipersensibile e
nevrotico, e malato di ipocondria (come molti personaggi creati dallo scrittore di Boston), v’è
da notare il tema del seppellimento o inghiottimento, peraltro anch’esso ricorrente in molti
altri testi di Poe (e simbolicamente interpretato come una chiave di lettura della sua travagliata
esperienza umana, nella quale affiora più volte una sorta di pulsione autodistruttiva: si pensi
alla precoce perdita dei genitori, ai difficili rapporti con il patrigno John Allan, alla dolorosa
e prematura scomparsa della giovanissima moglie Virginia Clemm, alla tara dell’alcolismo
che lo portò a una terribile e misteriosa fine in una locanda di Baltimora).18 Un’analoga esperienza di claustrofobia vive, ad esempio, Gordon Pym nell’omonimo romanzo, allorché viene
nascosto dall’amico Augustus entro una cassa nel fondo della stiva del brigantino Grampus
(cap.II). Alla conclusione del racconto La rovina della casa degli Usher, il suo proprietario,
il vecchio e ipocondriaco Roderick, muore travolto dalla sorella, venuta dalla cripta a rimproverargli di averla sepolta ancora viva. E altri esempi si potrebbero citare.
Anche per questo autore, abbiamo voluto proporre ai nostri studenti un esercizio di scrittura creativa: “Prova a immaginare un racconto in cui, come in quello di Poe, i personaggi
siano bloccati in un luogo da cui non possono uscire e rappresenta le loro emozioni”. Partendo
dal testo di Poe, gli studenti hanno elaborato racconti imperniati sulla situazione descritta
nel Seppellimento prematuro, cambiando ovviamente il contesto, ossia attualizzandolo,19 ma
cercando di riecheggiarne, per quanto possibile, la soffocante atmosfera claustrofobica e le
sensazioni di disperato terrore provate dal protagonista. Attraverso la decostruzione e la personale ricostruzione del testo, mediante la rappresentazione di situazioni analoghe di imprigionamento, gli studenti hanno potuto meglio comprendere i modi di creazione di un racconto
in cui l’orrore è basato sull’atmosfera, sulla parossistica tensione psicologica e non esteriorizzato in forme teratologiche più o meno impressionanti.
Presentiamo di seguito i racconti elaborati dagli studenti che, lungi dal porsi in confronto
con il testo del grande scrittore americano, vogliono essere tentativi di rielaborazione personale di temi e motivi che hanno poi avuto una loro fortuna nella tradizione letteraria. Naturalmente non mancano ingenuità e approssimazioni, compensate però, per quanto possibile,
dalla fantasia e dalla creatività dei giovani autori.
Racconto di Lorenzo Botteghelli
Senza esitazione si può affermare che non c’è niente di più terribile che rimanere chiusi per lungo tempo in un ascensore, soprattutto per chi soffre di claustrofobia. L’oppressione
dei polmoni, il respiro affannato, l’angoscia che ti tormenta...
Era una fresca sera di agosto, mi trovavo a Bologna. Ero appena uscito dallo studio dove lavoravo come medico da cinque anni. Avevo avvisato la segretaria che quel giorno sarei
uscito un’ora prima. Ero molto stanco, stressato dal lavoro e dalla mia vita infelice. Abitavo
in un grande palazzo di quindici piani, in periferia.
18 Sulla valenza simbolica del motivo tradizionale dell’inghiottimento o discesa, rimandiamo a Jean Brun Dominique Zahan - David L. Miller, Il vertice e l’abisso, la simbologia dell’ascesa e della discesa, trad. di Anna Chiara
Peduzzi e Rolando Galluppi, Edizioni di Red, Como 1994.
19 La riscrittura di storie, con trasposizioni modernizzanti di personaggi e situazioni, è prevista tra le attività nel
manuale di Stefano Brugnolo e Giulio Mozzi, Ricettario di scrittura creativa, Zanichelli, Bologna 2003², rist., pp. 152-153.
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Anche se vi risiedevo da ben venti anni, quel palazzo mi incuteva comunque una certa
inquietudine. L’idea di poter rimanere chiuso nell’ascensore mi angosciava molto e ogni volta
che lo prendevo ero terrorizzato.
Aprii lentamente il grande portone del palazzo, poi spingendo il pulsante chiamai l’ascensore: era una specie di rito che facevo ogni volta, per augurarmi di non rimanere chiuso
in quel brutto luogo. Ma quella volta fu inutile.
Prendendo l’ascensore incontrai altre due persone. Uno si chiamava Giovanni: sulla
quarantina, al riparo di una vita ordinata (moglie, figlio, pranzo domenicale con i suoceri), era
dedito in realtà a loschi affari. Mostrava una grande fretta. L’altro era un ragazzo, un sedicenne
di nome Marco, intenzionato proprio quella sera a fuggire via con la sua ragazza.
Proprio quando eravamo all’altezza tra il nono e il decimo piano, l’ascensore si arrestò
di colpo. Rimasi immobile, all’istante un senso di angoscia mi attraversò tutto il corpo. Gli
altri due, al contrario, non mostravano molta paura, piuttosto apparivano irritati. Premettero
il pulsante di allarme e aspettammo. Purtroppo quella sera, dato che era molto tardi, il portiere
era andato via da un pezzo. Provai una strana sensazione, mi sentii abbandonato al destino,
incapace di ragionare e tanto meno di parlare, oppresso da un profondo, penoso senso di paura.
Passarono due ore. Anche Marco e Giovanni, quando videro che non arrivava nessuno,
cominciarono a farsi prendere dal panico: avevano perso la loro calma e si agitavano come
vespe dentro un bicchiere rovesciato. Si fece notte tarda. Io mi ero rannicchiato in un angolo:
piangevo silenziosamente, provando un sentimento che mai avevo provato prima, come se
qualcosa mi stesse risucchiando l’anima, lasciandomi senza fiato. Quella fu la notte più lunga
della mia vita. A poco a poco sentivo che me ne stavo andando da questo mondo.
Ci ritrovò il mattino seguente il portiere che, vedendo l’ascensore fermo, diede subito
l’allarme. Quando ci portarono fuori io ero quasi morto, ormai svenuto da vari minuti, praticamente non respiravo più. Mi salvai per un pelo. Venni poi a sapere che Marco e Giovanni,
invece, erano morti asfissiati.
Mi parve di essere rimasto vivo per miracolo. Quando tornai di nuovo a respirare l’aria
fresca, all’aperto, fu come rinascere. Da quel giorno non ho più preso l’ascensore, anche se
fare a piedi molte rampe di scale non è uno scherzo, alla mia età.
Racconto di Davide Cuccurugnani
A distanza di tutti questi anni lo ricordo ancora, anche se quello che ricordo meglio è
solamente la paura provata in quegli istanti. In verità non so neanche se è giusto definirli
istanti, visto che a me sembrarono giorni.
Molti anni fa, quando ero a metà tra il bambino e l’adolescente, mi capitava spesso di
andare in campagna da mia nonna. La poverina viveva sola e forse l’unica cosa che la rallegrava era la mia presenza e quella dei miei genitori. Mentre mia madre cucinava il pranzo
domenicale e mio padre studiava le sue scartoffie in giardino, io rimanevo a discutere con mia
nonna. Mi ricordo che mi raccontava sempre della guerra e di come questa apparisse agli occhi
di una donna. Mi parlava della fame, della paura, ma soprattutto dei bombardamenti. Di questi, infatti, aveva un orrendo ricordo: ogni volta che lei e le persone che vivevano nel grande
casale si nascondevano nel rifugio, c’era la costante paura di non uscirne più o di tornare fuori e di trovare il casale distrutto. Mi parlava anche del rifugio, descrivendolo come una grotta
sotterranea molto umida, molto buia, ma tanto grande da contenere anche venti persone. Una
volta mi disse anche che la grotta non era distante dal casale, ma mai e poi mai avrei dovuto
– 196 –
entrarci, perché, lasciata per anni in stato di abbandono, ormai era pericolante. Avrei dovuto
darle ragione. Mai come oggi capisco, che spesso l’eccessiva curiosità porta solo guai.
Il mio fu un errore imperdonabile. Non fu una cosa programmata, visto che camminavo
tranquillamente per la campagna. Era una così bella giornata autunnale che pensai di fare
una passeggiata più lunga del solito. Finii così per addentarmi nel bosco e continuai a camminare senza pensare a quanto mi allontanavo da casa. Il bosco era veramente un luogo piacevole; non seguivo un sentiero, mi facevo semplicemente strada tra i cespugli e le erbacce.
Continuai a camminare guardandomi intorno e notando che gli alberi sembravano ancora più
alti con quei nudi rami sui quali spiccava qualche foglia rossiccia. A un certo punto mi fermai davanti a una grotta. Non era una grotta come le altre. Aveva una porta di legno!
Avevo trovato il rifugio. Non ci pensai neanche un momento. Subito cercai di aprire la
porta, ma era bloccata da un intreccio di radici e così iniziai a buttarmi di peso contro di essa. Dopo numerosi tentativi la porta si aprì e io entrai. Subito dopo, con un rumore fragoroso, crollò una parte della volta della grotta. Evidentemente avevo in qualche modo spezzato
delle radici che tenevano il terreno compatto e avevo così causato una frana. L’entrata si
chiuse, sommersa da tonnellate di terra. Il buio mi avvolse. Urlai come una bestia agonizzante,
poi mi alzai di scatto. Sbattei la testa sul soffitto di roccia, e iniziai a barcollare dal dolore.
Non avevo la più pallida idea della grandezza della grotta. La esplorai a fatica non solo per
il buio, ma anche perché ero costretto a stare in ginocchio per il fatto che la volta era bassa.
Non smisi mai di piangere e di gridare. Il tempo passava senza che io ne avessi una precisa percezione. Fu così che dopo aver girato carponi per lungo tempo, sbattei la testa alla parete. Sentii sul mio viso la nuda roccia e quel tremendo odore di muffa. Ci rimasi un bel po’, continuando a piangere e a gridare. Iniziò a fare freddo. Era più che normale, era ottobre inoltrato,
il fatto che facesse freddo poteva solo significare che era scesa la notte. Iniziai a tremare come
una foglia. Mi sentivo morire. Volevo morire. Non potete neanche immaginare cosa voglia dire
non vedere e non sentire altro che la propria voce riecheggiare nella caverna. Non sapevo dove
ero e non sapevo cosa fare. Ma cosa avrei potuto fare? Iniziai a muovermi per riscaldarmi, ma
non ebbe alcun effetto. Allora caddi a terra, lasciandomi torturare dal freddo della notte. Dormii?
Non lo so, e non lo capirò mai. In quel buio tutto era incerto. Avevo fame, freddo, paura.
Piangevo e gridavo, con la voce che diveniva sempre più flebile. Mi accasciai a terra. Urlavo
di quando in quando, perché stanco e disilluso dalla possibilità che qualcuno mi trovasse.
Poi sentii un cane abbaiare. Mi alzai sulle ginocchia e cominciai a urlare. Urlavo con tutto il fiato che mi rimaneva. Non chiedevo aiuto, urlavo e basta. Qualcuno allora sentii il cane e me. Ero sicuro che ci fosse il padrone. Dopo di questo svenni.
Quando mi risvegliai, mia madre mi teneva abbracciato e mio padre mi accarezzava la
fronte. Ero nel mio letto, sano e salvo. Mi spiegarono che ero scomparso per un giorno e che
ero stato ritrovato da un cercatore di funghi. A dirla così sembra un lieto fine. Ma in verità
ancora oggi risento di questa esperienza. Sono diventato claustrofobico, ma quello è il minimo.
Il vero problema è che spesso nella notte fatico ad addormentarmi. Lo stare al buio, sdraiato,
mi fa riprovare la stessa angoscia e la stessa paura della grotta. Prego Dio solo che diminuiscano queste notti insonni e che mi conservi quel poco di sanità mentale che mi resta.
Racconto di Mirco Di Simone
Ci sono luoghi che non dovrebbero mai essere scoperti e visitati, luoghi da cui è impossibile uscirne vivi, e uno di questi luoghi si trova proprio in quel tranquillo sito di villeg– 197 –
gianti chiamato “Il Paradiso in Terra”.
Un giorno, una comune coppia di innamorati, Karl e Jusy, decisero di passare la loro
prima vacanza insieme in quel residence, che era piaciuto molto ad entrambi dall’opuscolo
che avevano trovato su Internet: un luogo a pochi metri dal mare, immerso nel verde e lontano
dalla città inquinata e chiassosa, dalle strade intasate al minimo incidente.
Secondo il loro piano vacanza, avrebbero trascorso, in quel paradiso terrestre, sette giorni
e sei notti, con pensione completa e uso gratuito di palestra e centro benessere, con tutti gli strumenti e i trattamenti che avrebbero di certo fatto diventare quella vacanza indimenticabile.
Inoltre avevano la possibilità di fare immersioni nell’oceano, visto che a poche decine di metri dalla costa c’era una barriera corallina che ospitava una grande varietà di pesci e coralli di
ogni colore.
Karl e Jusy erano emozionatissimi all’idea di poter fare tutto ciò che volevano senza
pensare alle preoccupazioni della città e del lavoro.
Il primo giorno decisero di andare in palestra, per vedere l’ambiente e per tonificare un
po’ il corpo in vista della spiaggia. Jusy voleva andare al centro benessere perché la palestra non le piaceva ma, come aveva promesso Karl la sera prima, ci sarebbero andati il giorno
dopo. Scesi al piano di sotto, i due si divisero ed entrarono ognuno nel rispettivo spogliatoio.
Mentre Jusy si spogliava fece amicizia con un’altra ragazza, venuta, anche lei, con il suo
ragazzo per una settimana. In palestra parlarono tra di loro e decisero di incontrarsi nuovamente, con i loro partner, il giorno seguente al centro benessere.
Quando tornarono nella loro camera, Karl chiese alla sua ragazza come fosse andata la
giornata. Lei rispose vivacemente, raccontandogli di aver conosciuto una ragazza, di nome
Jasmine, che era in villeggiatura col suo ragazzo. L’indomani si sarebbero riviste al centro
benessere con i rispettivi compagni. A Karl piaceva l’idea e acconsentì a vedere i due.
Il giorno seguente si incontrarono, come stabilito, al centro benessere e lì Jusy e Karl conobbero Jasmine e Alex. Lei era piccola e minuta, indossava un vestito di lino bianco che le
stava un incanto, mentre lui era alto e possente, con degli addominali scolpiti, muscoli possenti che impressionarono la coppia: aveva indosso solo un costume a pantaloncino arancione, in modo da lasciare in bella mostra il suo fisico, costatogli molta fatica e sudore.
Le coppie stettero insieme tutto il tempo e decisero che, mentre le donne sarebbero andate
in spiaggia, gli uomini sarebbero andati a fare un’immersione nella barriera corallina.
Arrivati al molo, Karl e Alex presero una barca e l’attrezzatura da sub e si diressero verso
la barriera dove si sarebbero immersi, come esperti sub. Una volta immersi, lo spettacolo che
si presentò intorno a loro era incredibile: c’erano ovunque pesci di ogni specie, comprese delle tartarughe marine, per non parlare della varietà di flora marina che andava dai coralli alle
anemoni. Fecero un giro intorno per osservare meglio, quando l’attenzione di Alex cadde su
una cavità poco profonda, dove si vedeva l’entrata di una grotta. Tornati in superficie, Alex
raccontò all’amico ciò che aveva visto e propose di andarla ad esplorare il giorno dopo con
Jasmine e Jusy.
I due raccontarono l’accaduto alle due ragazze che risposero all’unisono accettando
l’invito. Quella notte Jusy non riusciva a prendere sonno, tale era l’eccitazione per la mattina seguente.
Verso le dieci, il giorno dopo, le due coppie si ritrovarono al molo, affittarono l’imbarcazione e l’attrezzatura, e partirono verso la barriera corallina alla ricerca della grotta. Quando
arrivarono sul posto si immersero e trovarono subito la cavità, che lasciava passare solo una
persona alla volta. Il primo ad andare fu Karl, seguito da Alex, Jusy e Jasmine.
L’antro della grotta era ricoperto di rocce acuminate, taglienti come rasoi e nascoste per
alcuni tratti da ammassi di alghe. Jusy pensò che sarebbe stato più sicuro andarsene e provò
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a comunicarlo agli altri, che invece proseguirono spediti verso l’interno di cui non si vedeva
altro che nero.
Improvvisamente ci fu una breve scossa che fece crollare l’entrata della grotta, condannandoli a rimanere lì dentro. Tutti si fecero prendere dal panico, ormai avevano poco ossigeno
nelle bombole, ma Alex riuscì a calmarli spronandoli ad andare avanti. Forse avrebbero trovato l’uscita e si sarebbero salvati.
Dopo un po’ che stavano nuotando, cominciarono a intravedere una luce che li guidò verso una grande cavità naturale, ov’erano alcuni scogli, che fuoriuscivano dall’acqua, su cui arrampicarsi e sostare. Rincuorati da questa scoperta, si calmarono e si posero la domanda di
come sarebbero potuti uscire da quella grotta. Karl esaminò il luogo: era una cavità rocciosa
al di sopra del livello del mare, ecco perché c’erano gli scogli. Ma stranamente le pareti rocciose, invece di essere spigolose e sporgenti, erano straordinariamente levigate e ricoperte di
una sostanza oleosa. Sulla volta c’erano delle rocce appuntite che Karl riconobbe essere stalattiti. Gli scogli su cui erano seduti Jasmine e Alex erano, invece, stalagmiti.
Le uniche possibilità erano tornare indietro con il poco ossigeno rimasto nelle bombole,
cercando di spostare le rocce franate, o continuare a esplorare nella speranza di trovare una via
d’uscita.
Jusy e Jasmine erano terrorizzate e si misero a piangere. Karl e Alex, invece, rimasero
calmi, convinti di potercela fare.
La terra tremò nuovamente, ma stavolta i quattro sfortunati udirono uno strano suono
provenire dall’altra parte della cavità rocciosa. Sembrava un suono inumano, come doveva essere la creatura che l’aveva emesso. Mentre Alex stringeva convulsamente Jasmine tra le braccia, improvvisamente un tentacolo affiorò dall’acqua e avvolse la coppia, che incominciò a urlare disperata e a divincolarsi dalla stretta. Fu tutto inutile. Karl e Jusy assistettero alla scena
impotenti e paralizzati dalla paura, mentre vedevano i loro amici scomparire nell’acqua.
Al posto delle sagome urlanti e scalcianti della coppia affiorò un’enorme macchia di
sangue. Poi vennero su due tute vuote, che forse la bestia non aveva gradito.
Karl spinse Jusy, scioccata da quello che aveva visto, dietro uno scoglio. I due aspettarono che la bestia se ne andasse. Karl propose a Jusy di immergersi di nuovo, per arrivare nuotando fino all’ingresso della grotta, che forse era stato liberato dai detriti della frana, dalla seconda scossa. Così, i due si immersero nuovamente, facendo attenzione a non fare il minimo
rumore per non attirare il mostro. Con il poco ossigeno che era rimasto nelle bombole,
riuscirono ad arrivare all’entrata della grotta, e la videro sgombra dai detriti e dai massi. Ma,
mentre stavano per uscire, Jusy vide che Karl veniva tirato verso l’interno da un grosso
tentacolo, che gli si era avvolto alla caviglia. L’ultima cosa che Jusy vide di Karl fu il suo
sguardo pieno di terrore e di morte, poi cominciò a nuotare il più velocemente possibile.
Arrivata in superficie notò che era già notte.
Non lontano da lei scorse un battello della guardia costiera che stava pattugliando le
acque. Jusy cominciò a gridare per farsi sentire da quelli della nave, ma prima che la guardia
costiera potesse puntarle il faro addosso per vederla, si sentì trascinare verso il fondo e tutto
ciò che vide fu solo un buio paragonabile a quello della morte.
Racconto di Giorgia Gravina
Alex e Max erano andati a fare una verifica di contratto in una miniera per accertarsi che
tutto fosse in regola e per controllare che nessun operaio lavorasse in nero. La miniera non era
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molto lontano dal loro campo e, per di più, disponevano di una potente jeep. Arrivati alla
miniera, dapprima andarono a parlare col direttore, che gli propose di entrare nella galleria
per dare un’occhiata. I due giovani accettarono e tutti e tre si incamminarono verso l’entrata
della miniera.
Appena entrati Alex sentì un rumore decisamente inquietante, ma non ci fece molto
caso. Dopo qualche minuto risentì questo rumore. A questo punto Alex iniziò a preoccuparsi.
Mentre si stava voltando, in pochi secondi vide alzarsi una nuvola di polvere nera e subito
dopo fu sommerso, come i suoi compagni, da una valanga di terra e detriti. Un pilone aveva
ceduto e i tre erano rimasti intrappolati lì sotto. Dovevano trovare il modo di uscire al più presto perché l’ossigeno stava finendo. Max era svenuto, mentre il direttore della miniera era
morto schiacciato da un pesante masso. Alex era disperato, non sapeva cosa fare: l’uscita era
bloccata e lui disponeva soltanto di un piccolo martello.
Quando Max riprese i sensi, i due erano ancora sotto cumuli di terra, e ci sarebbero rimasti chissà quanto se ad Alex non fosse venuta in mente un’idea. Gli operai erano andati a
mangiare e sarebbero tornati di lì a poco, lui si sarebbe messo a battere le pietre per farsi sentire, e così li avrebbero liberati.
Il tempo passava, e Alex e Max sentivano che le forze li stavano abbandonando. Tutto
si faceva oscuro intorno a loro, era come se un buco nero stesse per inghiottirli, tutto prendeva strane forme. I ricordi del passato si affollavano nella loro mente.
Ad un tratto Alex vide una luce fioca. Allora penso: “Ecco, sono arrivato in paradiso”.
E in quel momento chiuse gli occhi. Intanto gli operai avevano sentito i colpi e avevano iniziato a scavare per salvare i superstiti.
Al risveglio Alex e il suo amico si ritrovarono in un ospedale. Max aveva un gran mal
di testa e non riusciva a ricordare molto bene cosa era successo. Alex ricordava quella luce
dal colore così strano, ricordava i colpi di piccone degli operai, ma dopo più nulla. In quel
momento si aprì la porta della camera ed entrò il medico, che raccontò tutto. Da quel giorno
Alex non si avventurò più per le miniere ma scelse il più gratificante e meno rischioso lavoro
d’ufficio.
Racconto di Valentina Scanzani
7 giugno 1944
Mi chiamo Lidia, ho 17 anni, vivo a Reggio Emilia con i miei genitori, i miei nonni e
Gianfranco, mio cugino. Lui ha la mia stessa età, abbiamo qualche mese di differenza e siamo sempre stati uniti fin da bambini. Purtroppo i suoi genitori sono stati vittime dei tedeschi.
Poco tempo fa sono stati uccisi due tedeschi, e la conosciamo tutti la matematica: per ogni
tedesco ucciso, dieci dei nostri. Purtroppo loro non sono riusciti a scappare.
Viviamo tutti insieme nella casa dei nonni, dove da bambini abitavano anche la
mamma e lo zio. Dopo i rispettivi matrimoni avevano cambiato casa, ma con l’inizio della
guerra e la morte degli zii abbiamo deciso di trasferirci tutti nella casa dei nonni. Non
era molto lontana dalla nostra vecchia casa, ma era in campagna e i tedeschi ci passavano
di rado...
Ora ci sentiamo più sicuri, ma nulla è sicuro in tempo di guerra. Il nonno, il babbo e Gianfranco hanno cominciato a costruire un rifugio sotterraneo nella parte posteriore del cortile di
casa nostra. Il nonno dice che quella è l’unica salvezza se i tedeschi decidono di venire a farci
visita.
– 200 –
È difficile costruire un rifugio di queste dimensioni in cemento armato, con pareti e
soffitto molto spessi, senza farsi vedere da nessuno. Per nostra fortuna non abbiamo molti
vicini, solo sei o sette abitazioni e una vecchia locanda: anche loro si stanno affrettando a
costruire rifugi per mettere in salvo le loro vite.
22 giugno 1944
Anche il nostro rifugio è finalmente terminato, non ci hanno messo molto, e io non ho
più paura che i tedeschi mi possano uccidere, perché il babbo e il nonno hanno trovato il
modo di salvare le nostre vite.
Oggi pomeriggio stavo passeggiando nel campo vicino casa nostra con Gianfranco per
raccogliere delle more. La nonna ci aveva incaricato di riempire il cestino di vimini, lo facevamo tutte le volte che germogliavano. Ma quest’oggi tornando a casa abbiamo sentito delle
urla e poi un susseguirsi di spari. Allora ci siamo fermati e abbiamo aspettato accovacciati
dietro un grosso cespuglio che i tedeschi andassero via. È passata almeno un’ora. Ormai non
c’era nessuno fuori dalle case e le strade erano completamente vuote, o quasi... Davanti alla
vecchia locanda c’erano cinque cadaveri: tre erano dei nostri e due erano tedeschi.
Siamo rientrati a casa. La nonna e la mamma avevano avuto paura per noi due, ma
eravamo tornati a casa sani e salvi. Il nonno e la nonna ci hanno spiegato che i tedeschi avrebbero sospettato qualcosa se fossero venuti e avessero trovato la casa vuota. Ormai siamo
sicuri che passeranno questa stessa notte a rubare la vita a venti poveri innocenti.
Il nonno e la nonna decidono che aspetteranno i tedeschi in piedi, così quelli non si
insospettiranno e non scopriranno il nostro rifugio. Saranno il nonno e la nonna a decidere la
sorte dei miei genitori.
22 giugno 1944 notte
Tra lamenti e pianti salutiamo i nostri cari, forse non li rivedremo mai più...
Scendiamo e chiudiamo la porta: è una pesante porta di cemento armato con la blindatura protettiva, si chiude di scatto dietro le nostre spalle.
Certo che qui sotto fa davvero freddo, e c’è così poca aria per quattro persone. Ho sempre avuto paura degli spazi piccoli e chiusi. Ho sempre sofferto di claustrofobia, è la mia
paura più grande. A farci luce c’è qualche candela, la nonna dice che basteranno per la notte.
Mi prende un senso di panico e di sconforto, ormai è passata più di un’ora. La nonna dice
che dobbiamo aspettare. Si respira a fatica e con la mia ansia è ancora più difficile riuscire a
farsi forza. Anche la mamma si sente poco bene e riposa su una brandina. Mio cugino invece
è l’unico che sta benissimo, senza un minimo dolore. Io continuo a pensare a quando potrò
uscire.
Sono passate cinque ore, ma ancora sentiamo urla provenire da fuori casa nostra. Gianfranco dice che sarebbe inutile uscire ora. Beh, forse ha ragione, ma io non respiro quasi più
e ora penso realmente che non ce la potrò fare. Il nonno ed il babbo non hanno pensato molto
alla grandezza di questo rifugio sotterraneo e nello sbrigarsi a portarlo a termine non hanno
avuto modo di pensare che non c’era abbastanza aria...
Nel frattempo, oltre alla terribile ansia, mi prende anche un sonno mostruoso: provo a non
addormentarmi, ma ho un forte mal di testa e un nauseante mal di stomaco, e perdo i sensi.
24 giugno 1944
Apro gli occhi dopo quasi due giorni, mi trovo in una casa sconosciuta, distesa sul letto
di una cameretta di un bambino. Non capisco cosa ci faccio qui e chi mi ci ha portato, però
so che sono riuscita ad uscire dal rifugio sotto la mia casa e soprattutto sono sopravvissuta
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alla strage dei tedeschi... Sento una voce familiare, mi alzo dal letto e mi affaccio alla finestra aperta. Vedo mio cugino che gioca con la palla con un altro ragazzo, anche lui è vivo ed
è qui con me. Mi vede e mi fa un saluto con la mano, ed io ricambio con un leggero sorriso.
Finalmente posso respirare, in quelle ore chiusa lì dentro, lottando per rimanere in vita,
ho davvero temuto la morte.
Intanto da dietro arriva mia madre che mi dice, con estrema tristezza, che il babbo e il
nonno hanno perso la vita e che l’hanno sacrificata per noi. Scoppio in un pianto infantile, lei
mi consola con un abbraccio e mi dice che la nonna e Gianfranco sono ancora vivi.
Ora siamo a casa di un’amica della nonna, vicino Roma. La nostra ospite dice che possiamo passare qui tutto il tempo che vogliamo, ma abbiamo già deciso che, appena la guerra
finirà, torneremo ad abitare dove vivevamo prima di andare dai nonni, tutti e quattro insieme, cercando di rimarginare il dolore nel cuore per la perdita dei nostri cari.
Racconto di Giulia Simeone
Sara e Lisa sono due ragazze italiane di diciotto anni. La prima è impulsiva, coraggiosa,
ha una forte personalità, la seconda è riflessiva, timida e sensibile. Sono molto amiche dall’età di sei anni e hanno terminato gli studi insieme superando l’esame di maturità.
Così decidono di fare un viaggio e realizzare il loro più grande sogno: andare in America. Con i loro risparmi e con l’aiuto dei genitori, riescono ad arrivare a Manhattan e ad alloggiare in un bellissimo albergo, il Grand Hotel Astoria, in una stanza al trentesimo piano
di un maestoso grattacielo.
Appena entrate, per loro è uno spettacolo vedere quelle luci, quello sfarzo e un atrio così
grande. Dopo un giro nella gigantesca hall dell’albergo, Sara e Lisa entrano nella loro
bellissima camera, arredata con mobili di lusso e molto confortevole. Sara ha già disfatto le
valigie ed è pronta ad uscire per vedere la città, tanto sa che l’orario della cena è alle 20,00 e
sono appena le 16,00. La ragazza non ha problemi di fuso orario, è abituata a viaggiare.
Al contrario, Lisa è stanca e preferisce rimanere in camera a riposare un po’, visiterà la città
l’indomani.
A quel punto Sara, vedendo che Lisa non vuole uscire, decide di fare solo un breve giro
per continuare insieme il giorno dopo. Quindi saluta l’amica ed esce. Lisa intanto ha messo
a posto le sue cose e sta per andare a riposare, ma spinta dalla curiosità decide di esplorare
le stanze del piano. Mentre sta girando per il piano, una stanza colpisce la sua attenzione e vi
entra. Si guarda intorno e vede che è un semplice ripostiglio. Fa per uscire ma si accorge che
la porta si è chiusa alle sue spalle. È una porta automatica, con apertura solo dall’esterno.
Lisa a questo punto capisce di non poter più uscire. Il panico l’assale. Cerca di chiudere gli occhi pensando che sia solo un brutto sogno e che non sia successo niente, ma quando li riapre si accorge che non è un brutto sogno, ma che è davvero bloccata in un ripostiglio, che non ha finestre ma soltanto una piccola presa d’aria. Lisa comincia a tremare e a
battere i pugni sulla porta, urlando e chiedendo disperatamente aiuto. Nessuno però la sente, e neppure lei sa per quanto tempo dovrà rimanere lì dentro... L’unica cosa di cui Lisa è
certa è che sarà morta prima che Sara torni e possa aiutarla. Come in un film, le vengono in
mente tutti i momenti belli della sua vita. Si ricorda della sua famiglia, di suo fratello Giorgio che è sposato e ha messo su famiglia, delle scuole elementari e della prima volta che ha
conosciuto Sara: immagini confuse si affollano nella sua mente e passano veloci come treni
in corsa.
– 202 –
Sono trascorse ormai quasi due ore e Lisa è stupita di essere ancora viva e di riuscire ad
avere ancora un po’ di aria nei polmoni. Si sente svenire ma proprio quando sta per crollare
sente il rumore della porta della sua camera che si chiude: Sara è tornata e la sta chiamando!
In quel momento Lisa si sente rinascere: trova la forza di urlare e chiama Sara, che subito si
accorge delle urla, accorre e apre la porta del ripostiglio, facendola finalmente uscire. Appena uscita Lisa si lancia tra le braccia di Sara, lasciandosi andare ad un lungo pianto liberatorio.
Il giorno dopo Sara e Lisa escono insieme per visitare finalmente la città. Quando arriva il giorno della partenza ridendo si rendono conto che avranno più di un semplice viaggio
da raccontare alle loro amiche.
3. C’ERA UNA VOLTA... IN IV A
Il percorso di letture programmate ci ha portato ad affrontare anche il genere della fiaba, che notoriamente si distingue dalla favola per la più spiccata tendenza alla dimensione fantastica e la mancanza di un vero e proprio insegnamento morale. È stato merito, com’è noto,
del Propp (del quale vanno ricordati i due fondamentali saggi Morfologia della fiaba e Le radici storiche dei racconti di magia), aver posto in luce, dall’analisi dell’enorme patrimonio
folkloristico russo, le strutture narrative delle fiabe e i ruoli dei personaggi, definiti secondo
le sfere di comportamento (eroe, antagonista, aiutante, mandante, principessa e suo padre, donatore, falso eroe). La fiaba presenta una struttura analoga a quella dei testi narrativi, con una
fase iniziale (presentazione dei protagonisti e preparazione dell’inganno da parte dell’antagonista), una fase ascendente della narrazione (con i danneggiamento preparato dall’antagonista e l’inizio della ricerca da parte dell’eroe), il momento culminante (l’eroe riesce a trovare l’oggetto della sua ricerca), la fase discendente della narrazione (con il ritorno a casa dell’eroe e l’affrontamento di ulteriori prove), la conclusione (con l’inevitabile matrimonio dell’eroe della principessa).
L’esercizio assegnato agli studenti, dopo la lettura di fiabe, appartenenti a diverse aree
culturali, come Storia di Khalid ibn Abdallàh al-Qasri e del giovane ladro (da Le mille e una
notte) e L’acqua della vita dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm (comprese nell’antologia in
uso, Il mondo dei testi, vol. A, cit., alle pp. 161-163 e 167-170), è stata l’elaborazione originale di una fiaba (esercizio, peraltro, già previsto nel manuale, a p. 172), con l’aggiunta di una
morale: “Prova a immaginare una breve fiaba con una morale tratta dalla nostra realtà quotidiana”. Si è tentato, dunque, di elaborare un testo ibrido, che avesse le caratteristiche della fiaba e anche, in parte, della favola (il tipico insegnamento morale). Le competenze poste
come prerequisiti dell’esercizio sono state le seguenti: a) saper raccontare un insieme di eventi in maniera sintetica; b) saper rispettare le regole linguistiche essenziali; c) saper individuare
il messaggio del racconto. Gli obiettivi formativi sono stati: a) educare all’analisi e alla sintesi;
b) educare all’espressione scritta e orale; c) educare alla comunicazione; d) educare allo
spirito critico.
I testi elaborati dagli studenti mostrano che essi hanno ben appreso i meccanismi della
trama e sono stati in grado di conservare quel tono ingenuo tipico della narrativa fiabesca, ove
l’elemento fantastico dei personaggi e degli ambienti si connette spesso alla crudeltà delle
situazioni, che tanto colpiscono l’immaginario dell’infanzia (come ha ben osservato Giorgio
Manganelli).20
20 Giorgio Manganelli, Enigma e violenza della fiaba, in UFO e altri oggetti non identificati 1972-1990, a cura
di Graziella Pulce, Quiritta, Roma 2003, pp. 133-135.
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Fiaba di Lorenzo Cognetti
C’era una volta un ragazzo di nome Glaus che lavorava in una bottega di un artigiano in
un paesino medievale dell’Occidente.
I suoi genitori erano stati uccisi durante l’invasione di un popolo ostile proveniente dall’Oriente.
Egli viveva con il suo padrino, il quale, non potendosi permettere le spese scolastiche,
gli fece imparare un mestiere da un artigiano con cui avrebbe lavorato fino alla morte per mantenersi. Glaus era un ragazzo dotato di grande forza fisica e morale, ma soprattutto possedeva una grande bontà d’animo.
Ogni giorno Glaus si recava al mattino dall’artigiano ad aiutarlo per costruire armi. Egli
era molto affezionato all’artigiano e il sentimento provato da Glaus per lui era reciproco.
L’artigiano rappresentava una figura paterna più di quanto lo fosse stato il padrino.
Una sera, mentre il giovane ragazzo passeggiava per i vicoli del villaggio, vide all’improvviso due balordi che maltrattavano un povero vecchio. Glaus subito accorse e scacciò via
i malviventi aiutando il povero anziano che, senza tanti ringraziamenti, si avviò per la sua
strada. Un po’ colpito dall’atteggiamento del vecchio, Glaus tornò a casa.
La mattina seguente, mentre lavorava a una spada che gli aveva affidato una guardia del
villaggio, uno strano uomo entrò nella piccola bottega e si avvicinò a Glaus dicendogli che
il vecchio che aveva aiutato la sera precedente era lui e che quell’accaduto era una prova per
capire se Glaus fosse l’eletto. Detto questo gli raccontò di un potente mago che era venuto
in possesso di una polvere magica che, odorata da qualsiasi essere vivente, ne avrebbe determinato il controllo. Gli spiegò anche che lui era l’unico essere sulla terra capace di sconfiggere il mago e distruggere la polvere. Infine donò a Glaus una mappa dove era disegnata la strada per giungere al castello dello stregone e una spada con poteri magici. Poi scomparve nel nulla. Glaus un po’ scosso disse tutto all’artigiano, il quale, consapevole di tutto
ciò, poiché gli era stato detto già in precedenza, gli confermò il suo compito. Inoltre l’artigiano si offrì volontariamente di accompagnarlo in quella dura avventura e naturalmente
Glaus accettò.
La mattina seguente partirono. Il loro viaggio si fece subito difficile poiché gli scagnozzi
dello stregone, che era venuto a conoscenza del fatto che Glaus voleva distruggere la polvere, attaccarono la coppia di viaggiatori. Questi però riuscirono a respingerli.
Il loro viaggio continuò fino ad arrivare al castello. Qui però trovarono in una delle
torri, chiusa in una cella, una giovane principessa che era stata rapita dallo stregone. Glaus,
colpito dall’incredibile bellezza di quella fanciulla e soprattutto grazie al suo buon animo,
promise alla giovane ragazza che l’avrebbe salvata dopo aver concluso il suo compito principale.
L’eroe e il suo aiutante giunsero finalmente nella stanza principale dove vennero attaccati dallo stregone e da altri guerrieri.
L’artigiano si occupò degli scagnozzi mentre Glaus fece un terribile duello con lo stregone. Il giovane, nonostante la magia del nemico, riuscì a sconfiggerlo trapassandolo con la
spada. Dopo di che prese la boccetta dove si trovava la polvere magica e la gettò nel fuoco
distruggendola. Naturalmente non si scordò della giovane ragazza rinchiusa nella torre: corse subito da lei, dopo aver compiuto la sua missione, e la liberò. Infine, felici e contenti, i due
si sposarono e Glaus, alla morte dell’artigiano, che per lui era stato un padre, ereditò la bottega e continuò a lavorare da artigiano.
– 204 –
Fiaba di Federica Gobbi
C’era una volta, in un tempo lontano e in un luogo sconosciuto, un re buono e giusto che
governava in modo assolutamente imparziale ed equo ed era amato da tutti i suoi sudditi. Non
si poteva però dire altrettanto di sua figlia, la principessa Suri. La fanciulla era capricciosa e
viziata e non era benvista dal popolo, che d’altra parte proprio non riusciva a capire come una
ragazza tanto odiosa potesse essere figlia di una persona perbene come il loro re. L’unica dote
di Suri era la sua incredibile bellezza. Era una ragazza alta e slanciata, con i capelli di un caldo
color miele che le ricadevano lisci sulle spalle e gli occhi di un castano molto chiaro. Ma si sa,
spesso l’apparenza inganna, e nonostante la sua bellezza Suri non riusciva proprio ad avere la
simpatia del popolo. Non che ci tenesse, ovvio, ma il re soffriva molto per i sentimenti che i
suoi sudditi provavano verso la figlia. Lei, che nutriva un immenso affetto nei confronti del
padre, avrebbe voluto farlo felice, ma non si sforzava mai di essere gentile con qualcuno o di
aiutare chi ne avesse bisogno e per questo il popolo la disprezzava.
Un triste giorno la principessa sparì. I servi la cercarono proprio dappertutto: nel castello,
nel giardino, nella torre... Il re mandò addirittura le guardie a setacciare tutto il regno, ma la
principessa sembrava essere sparita nel nulla. Il povero re era distrutto per la scomparsa della
figlia e il popolo, che d’altra parte amava il suo re, era triste assieme a lui, così l’intero regno
divenne spaventosamente infelice. Alcuni mercanti che passarono per quel regno lo paragonarono addirittura al regno dei morti.
Passarono le settimane e il re, che non si era dato per vinto, diede l’ordine di appendere
manifesti per tutto il regno: chiunque avesse riportato la principessa Suri sana e salva da suo
padre sarebbe stato nominato cavaliere e avrebbe ricevuto così tanto oro che gli sarebbe
bastato per il resto della vita.
Incitati da queste promesse molti uomini valorosi si misero alla ricerca dell’odiosa principessa, senza ottenere, purtroppo, alcun risultato.
Qualche giorno dopo, in una decadente locanda, si formò una compagnia davvero insolita che aveva tutta l’intenzione di riportare quella vipera della principessa al re. Di questa
compagnia facevano parte il vecchio ex re Arthur, mandato in esilio molto tempo prima,
un ubriacone chiamato Achille e il giovane orfano Tonio, che non poteva avere più di tredici anni. Secondo loro erano i più adatti per quella missione, per un unico e semplice motivo:
non avevano più niente da perdere.
“Ma come faremo senza armature né armi ad affrontare i mille pericoli a cui potremmo
andare incontro?”, chiese il sempre prudente Tonio.
“A noi non servono armi! Siamo uomini coraggiosi e valorosi e non abbiamo bisogno di
coltelli o fucili per difenderci!”
“Forse potremmo chiedere al re di fornirci il necessario per il viaggio”, continuò il giovane orfano ignorando la risposta di re Arthur.
Achille si staccò per un momento dalla bottiglia.
“Potremmo provare,” disse, “male che vada ci saremo fatti una bella passeggiata”.
Così tutti, convinti, si recarono a palazzo.
Dopo essere stati ricevuti nella sala del trono i nostri tre eroi fecero al re, che era in compagnia del suo fidato consigliere, le loro richieste. Quando finirono il consigliere di corte
proruppe in una sonora risata.
“Ma sire,” disse, “non vorrete certo incoraggiare questi tre rozzi individui. Insomma,
tutti i più valorosi uomini del regno sono alla ricerca di vostra figlia e se non ci sono ancora
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riusciti loro, credo, anzi, sono più che sicuro che non ci riusciranno questi qui!”
“Suvvia, mio fido consigliere,” lo ammonì il re in tono blando, “dobbiamo essere cortesi con i nostri ospiti”.
Si alzò in piedi e avanzò verso di loro.
“Bene, se esiste anche solo una remota possibilità di far tornare mia figlia accetto. Darò
ordine che i miei servi vi procurino tutto il necessario”.
Così dopo una buona mezz’ora i tre compagni uscirono dal castello su tre bellissimi
cavalli e armati di tutto punto.
“Bene, abbiamo armi e armature... e ora che facciamo?”, chiese quel povero diavolo di
Achille.
“Iniziamo le ricerche, naturalmente!”, rispose fiero re Arthur.
“Già molti uomini sono alla ricerca della principessa, quindi se vogliamo trovarla per
primi dovremo giocare d’astuzia”, spiegò Tonio ai suoi compagni. “Per prima cosa evitiamo
di cercarla nel regno: ci hanno già provato i soldati del re e ci stanno tuttora provando decine
di altre persone. Credo sia meglio uscire dai confini”.
“Ma potrebbe essere pericoloso!”, osservò Achille.
“Pericoloso?! Accidenti, che uomo codardo! Ma come si fa a dare il nome di un guerriero epico come Achillea una vecchia spugna come te?”, gridò il vecchio re. “Il nostro compito è quello di riportare a casa la principessa e ce la faremo, costi quel che costi. E adesso
smettila di frignare come una femminuccia e preparati a fare una lunga cavalcata, vecchio
ubriacone”.
Detto questo spronò il suo cavallo e superò gli altri due.
Una volta fuori dai confini del regno cercarono la principessa per giorni e giorni, fornendo minuziose descrizioni ai contadini del luogo e seguendo le più improbabili piste, ma
della principessa neanche l’ombra.
“Accidenti, quell’odiosa ragazza sembra essersi volatilizzata!”, disse un giorno re Arthur
agitando i pugni.
“Dobbiamo giocare d’astuzia”, ripeté Tonio. “Cercarla così alla cieca non ci porterà a
nulla. Dobbiamo fermarci un attimo e riflettere”.
Camminarono per una decina di metri e poi si fermarono in una vecchia locanda.
“Allora”, iniziò Tonio, “cerchiamo di andare per esclusione. La principessa non può
essere ancora nel regno, o sarebbe stata trovata già da un pezzo, quindi dobbiamo capire ch
direzione ha preso il rapitore. Iniziamo escludendo il deserto e i villaggi che si trovano al di
là di questo: se il rapitore fosse entrato nel villaggio su un cammello le guardie lo avrebbero
trovato quantomeno sospetto”.
“Ma potrebbe aver attirato la principessa da qualche parte, aspettandola con il suo cammello e magari un complice”, puntualizzò re Arthur.
“Alquanto improbabile”, rispose Achille, che quando era lucido sapeva essere molto
furbo. “Anche in quel caso un cammello non sarebbe passato inosservato”.
“Allora escludiamo anche tutti i villaggi che si trovano ad est. Nessuno può passare a
causa di quel terribile drago”, aggiunse il vecchio re.
“Potrebbe essere una specie di alleato”, disse Tonio riflettendo ad alta voce.
“Fidati, ragazzo, io quel drago l’ho visto e l’ho anche affrontato: quella bestiaccia non
accetta amici o alleati”.
“Ed escludiamo il nord perché abbiamo già visitato tutti i villaggi che si trovano al
confine: il popolo conosce la principessa e si sarebbe sicuramente accorto se fosse passata di
là”, concluse Achille.
“Bene”, disse Tonio soddisfatto. “Allora non rimane che proseguire in questa direzione”.
– 206 –
E così fecero. Camminarono per ore e ore, fermandosi ad ogni villaggio.
“Accidenti a quest’uccellaccio!”, disse Arthur agitando il braccio verso un piccolo
uccellino. “È da quando abbiamo lasciato la locanda che ci segue”.
“Curioso...”, sussurrò Achille.
A un certo punto si trovarono a un bivio.
“Proviamo ad andare a destra”, suggerì Achille. Ma nell’attimo stesso in cui ebbe pronunciato quelle parole l’uccellino volò in picchiata verso di loro, cinguettando come un matto. Con il suo piccolo becco afferrò una manica della camicia di Tonio e prese a tirare come
un forsennato verso sinistra.
“Davvero molto, molto curioso...”, riprese a sussurrare Achille. Poi aggiunse a voce più
alta: “Credo che faremmo meglio a seguirlo”.
L’uccellino sembrò rilassarsi e volò cinguettando verso sinistra, seguito da quella strana compagnia. Non passarono neanche cinque minuti che l’uccellino si fermò e si posò sulla riva di un piccolo laghetto.
Tonio, incuriosito, si sporse.
“E adesso? Perché ci hai portato qui, mio piccolo amico?”, disse rivolgendosi all’uccellino, che tutto concentrato stava immobile a fissare l’acqua.
“Lo so io perché!”, esclamò Achille tutto contento. “Era una vecchia leggenda del mio
villaggio, non credevo che esistesse davvero, eppure è così! Ascoltate bene, amici, l’acqua
contenuta in questo laghetto è magica, la leggenda dice che sono lacrime di fata. Ha il potere di mostrarti la via per qualsiasi luogo, basta fargli una domanda”.
Tonio e Arthur si guardarono interdetti.
“Beh”, disse Arthur, “tentar non nuoce”.
Allora Tonio si avvicinò al laghetto e chiese un po’ dubbioso: “Dov’è, o magico lago, che
si trova la principessa che andiamo cercando?”
L’acqua brillò e, tra lo stupore generale, mostrò la strada ai tre compagni.
“Bene”, disse Achille tutto sorridente, “allora andiamo!”
Più fiduciosi si incamminarono verso il luogo che avevano visto nel laghetto.
Camminarono e camminarono fino ad arrivare a una capanna, la stessa capanna che
l’acqua magica aveva mostrato loro.
Tonio si avvicinò e bussò alla porta.
Venne ad aprire una ragazza bellissima che indossava un vecchio vestito logoro.
I tre compagni spalancarono la bocca e gridarono all’unisono: “Pincipessa Suri?!”
La ragazza sorrise e disse: “Prego, accomodatevi pure”.
Stupiti entrarono nella capanna, dove un vecchio dagli occhi celesti sedeva accanto al
fuoco.
“Siamo venuti a salvare la principessa”, disse fiero re Arthur, “quindi arrenditi o prendi
una spada, vecchia canaglia. Ti assicuro che la pagherai per aver rapito la principessa”.
“O cari”, disse sorridente la principessa, “non c’è alcun bisogno che facciate del male a
questo caro vecchietto. Sì, è stato lui a portarmi via, ma non per farmi del male, voleva solo
insegnarmi una cosa. Vedete, in queste settimane ho vissuto come una contadina e mi sono
resa finalmente conto di quanto sia dura questa vita e di quanto sia stata ingiusta nei confronti
del popolo. Vedrete, cari, non appena mi avrete riportato da mio padre vi renderete conto che
la principessa capricciosa e presuntuosa che conoscevate voi non esiste più”.
Superò i tre compagni, che continuavano a fissarla a bocca aperta, e andò vicino al
vecchio.
“Grazie mille, amico mio, per la lezione che mi hai insegnato. Spero che tu voglia
scusarmi, ma credo proprio che adesso sia ora di tornare”.
– 207 –
“Ma certo, piccola Suri, vai pure”, rispose il vecchio con la sua voce cristallina.
Sorrise un’ultima volta e, trasformatosi in un uccellino, volò via.
Suri rise e poi incitò i suoi salvatori, troppo stupiti per poter parlare, ad andare.
Quando tornarono il regno era in festa: la notizia del salvataggio della principessa li
aveva preceduti.
Da quel giorno tutto andò per il meglio. I tre compagni, diventati amici inseparabili,
vissero per sempre nella ricchezza e sia la principessa che il consigliere di corte impararono
delle grandi verità: la prima imparò a non trattare gli altri come non avrebbe voluto essere
trattata e il secondo, che riguardo a quei tre si era proprio sbagliato, a non giudicare un libro
dalla copertina.
Fiaba di Aurora Luciani
Era il 12 marzo 2059 e le tensioni tra i due Stati si facevano sempre più forti. Da anni
continuavano gli attentati, le minacce e i telegiornali parlavano solo di questo.
Poi quel giorno scoppiò la guerra: la notizia fu annunciata dal presidente in carica in
quegli anni. Fu trasmessa su tutti i canali televisivi e pubblicata su tutti i giornali. Ormai non
c’era persona in tutta la città che non ne fosse a conoscenza, compresi i due amici Ettore e
Filippo. Avevano diciannove anni, compiuti lo stesso giorno, il 12 marzo.
Due giorni dopo si arruolarono nell’esercito e il giorno seguente partirono. Nonostante
la stagione primaverile, faceva molto caldo, sembrava agosto. Ad arruolarsi erano centinaia
di migliaia di ragazzi e ormai la città dalla quale stavano partendo, la loro città natale, pareva già una città fantasma: vi rimanevano solo gli anziani nonni, le donne e i bambini urlanti
che interrompevano ogni tanto quel silenzio tombale e le cui grida risuonavano nel vuoto.
Nella notte in cielo si vedevano i bagliori delle bombe che, lanciate sugli edifici, causavano
immani distruzioni e la morte di innumerevoli persone innocenti.
Intanto Ettore e Filippo insieme ad altri soldati, alcuni dei quali più giovani di loro – cosa
difficile a credersi – e altri di quasi venticinque anni più grandi, si preparavano a passare la
notte in trincea. Da piccoli avevano visto numerosi documentari sulle guerre del passato, ma
sentivano quelle testimonianze talmente lontane che talvolta gli sembravano frutto della fantasia di un bambino.
Ora invece si trovavano lì e vedevano con i propri occhi la dura realtà della guerra.
Nella trincea c’erano molti soldati, ma con uno di questi in particolare strinsero un forte legame.
Si chiamava Sergio e veniva da una famiglia proveniente dalle campagne. Sergio era un
tipo strano che credeva a streghe e maghi, a draghi e vampiri o altre cose del genere. Era un
amico stravagante, ma in guerra era il migliore che avrebbero mai potuto trovare.
Poi c’era il loro peggior nemico o, meglio, il nemico di tutti: il generale. Era un omuncolo basso e cicciotto, che aveva all’incirca quarantasette anni, dava ordini a destra e a manca, con prepotenza e imponendo la sua autorità con la violenza e la minaccia.
Era oramai quasi un mese che combattevano e non ne potevano più. Vedevano i loro
amici cadergli tra le braccia o tornare dalla trincea mutilati o moribondi, vedevano le case che
un giorno avevano ospitato feste, sorrisi, musica, risate di bambini o il suono di un carillon,
invase da una nube grigia che, tetra come la morte, avvolgeva gli edifici.
Un giorno Filippo fu costretto a lasciare la trincea per compiere un’impresa molto rischiosa, che però sarebbe stata decisiva per la vittoria del suo Paese. Si doveva recare nel pa– 208 –
lazzo del capo dello Stato nemico e tentare di ucciderlo, così la guerra si sarebbe ipoteticamente conclusa e lui, il suo amico Ettore, Sergio e le altre centinaia di migliaia di ragazzi
sarebbero potuti tornare a casa.
Infatti era previsto che dopo la morte del presidente il Paese nemico sarebbe stato
governato da un alleato e così, finalmente sottomesso, sarebbe stato sconfitto e annientato.
Filippo era partito ed Ettore era molto in pensiero per lui. Le su preoccupazioni aumentarono quando sentì che l’amico era in grande difficoltà.
Forse sarebbe morto o forse no, ma Ettore doveva comunque andare a salvarlo. Quindi
andò dal generale a chiedergli il permesso di partire alla ricerca dell’amico, ma il generale
glielo negò, affermando che la sua attività in trincea era essenziale per la riuscita del piano e
dal quel giorno cominciò perseguitarlo tenendolo sotto strettissimo controllo. Ma Ettore non
voleva sentire ragioni: sarebbe andato a salvare Filippo.
Un giorno finalmente decise di partire. Ma come sarebbe arrivato in tempo?
Non ce l’avrebbe mai fatta, ma Sergio lo aiutò. Il suo amico di trincea aveva una soluzione: diede a Ettore il suo preziosissimo anello che gli consentiva di spostarsi molto velocemente. Così in qualche secondo Ettore avrebbe potuto raggiungere l’amico e portarlo in
salvo. Bastava pensare intensamente alla persona che si voleva raggiungere e l’anello ti
portava direttamente da lei. Ora Ettore capiva tutte le stranezze di Sergio e ora credeva anche
lui alla magia.
Quando arrivò trovò Filippo ed altri compagni, imprigionati nelle carceri del palazzo
presidenziale. Erano chiusi a chiave dentro una stanza che diventava più piccola ogni secondo
che passava. Ettore però riuscì ad entrare grazie all’anello e portò tutti in salvo. Li condusse
al cospetto del capo dello Stato, ma questi era circondato da un intero esercito e, con voce
acuta e aspra, ordinò di uccidere gli invasori. Ettore cercò invano di portare via Filippo, ma
l’amico era già stato colpito da una pallottola, e così Ettore si ritrovò solo sconfitto nella sua
trincea, mentre le lacrime gli rigavano le guance. Non si sentiva più un eroe, ma un vigliacco
che aveva fallito. Era forse il generale l’eroe, che gli aveva consigliato di non fare cose troppo
affrettate?
Ma, come dice un proverbio, le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni.
E di cosa sono lastricate le strade del paradiso?
LA COLLANA RARA
Fiaba di Giulia Simeone
C’erano una volta, in un grande regno, un re e una regina che avevano due figli, un principe e una principessa. Il principe si chiamava Leonor e la principessa Giselle. Il principe, come da tradizione, doveva diventare l’erede al trono ma il re riteneva il figlio maschio inadatto
al ruolo che gli spettava, sia per il suo carattere debole sia per il suo aspetto gracile.
La figlia, infatti, pur essendo ancora una bambina, era, secondo il padre, più adatta al ruolo di regnante, per il suo carattere forte e astuto.
Un giorno, però, la regina cercò di convincere il marito a mettere alla prova il figlio
per vedere se davvero era inadatto al suo ruolo di regnante. La principessa, però, sentendoli
parlare, capì che questo poteva essere un problema per la sua ascesa al potere e pensò di
intervenire, qualora il fratello fosse riuscito nell’impresa.
L’indomani, alla vigilia della prova, la principessa si informò tramite una spia su ciò che
il fratello doveva fare.
– 209 –
Ella aveva scoperto che la prova consisteva nel cercare una collana molto rara, che era
sorvegliata da due draghi alati che si trovavano nella misteriosa Terra del Fuoco. Questo
luogo si trovava all’estremità del loro regno, nella sua parte più remota. Il principe, quindi,
avrebbe dovuto attraversare tutto il regno fino ad arrivare al castello dov’era contenuto lo
scrigno nero con la collana.
La principessa era sicura che il fratello non potesse riuscire a superare una prova così
pericolosa e difficile, perciò decise di aspettare e vedere cosa sarebbe successo, poi in seguito
sarebbe intervenuta.
Così alla vigilia della partenza augurò buona fortuna al fratello che, intanto, aveva preparato il cavallo. Dopo che il fratello fu partito, la principessa disse ad una spia di seguirlo
durante il suo viaggio e di tornare indietro il prima possibile, qualora ci fossero state notizie
importanti. La spia, allora, dopo essere stata abbondantemente pagata, se ne andò.
Passarono i giorni e il principe era ancora in viaggio verso la Terra del Fuoco, ma era affamato, così decise di fermarsi in un villaggio vicino. Sceso da cavallo, si fermò in una osteria
e chiese da mangiare. Mentre mangiava, gli si avvicinò un ragazzo che gli disse: “Sei in cerca
della famosa collana, per caso?” Il principe allora educatamente gli rispose di sì e il ragazzo
gli fece segno di seguirlo fuori. Il principe a quel punto lo seguì e il giovane gli disse che poco
distante da lì abitava suo padre che faceva il fabbro ed era l’unico in grado di forgiare una spada
capace di infondere coraggio a chi la portava e di riuscire a sconfiggere i due draghi. Il giovane
continuò dicendo che solo i ragazzi umili e di buon cuore sarebbero riusciti a maneggiarla.
Il principe allora accettò l’aiuto ringraziandolo e si fece accompagnare a casa dal padre.
Una volta arrivati, il figlio chiamò il padre e gli chiese di forgiare per il principe la famosa spada, poiché sentiva in lui un animo buono. Così, dopo qualche ora il fabbro porse al
principe la spada e quello subito si sentì coraggioso e sicuro di sé, pronto ad affrontare i due
draghi e a recuperare la collana.
Così il principe abbassò una leva e alzò il ponte levatoio, che lo fece passare ed entrare
in una piazza, al centro del castello. Proprio lì c’era un piedistallo su cui poggiava il famoso
scrigno contenente la collana. Il principe si stava per avvicinare quando gli apparvero davanti
due draghi che gli sbarrarono la strada. Il principe però non aveva più paura poiché sapeva
che la sua spada e la sua voglia di dimostrare al padre che non era un buono a nulla, l’avrebbero aiutato a sconfiggere i due draghi.
Così si scagliò contro di loro con tutte le sue forze e dopo un sanguinoso scontro riuscì
a trafiggerli con la sua spada magica. I due draghi caddero a terra. Allora il principe prese lo
scrigno dal piedistallo e riuscì ad uscire in tempo prima che crollasse tutto. Una volta uscito
prese il cavallo e ripartì per ritornare a casa.
Intanto la spia della principessa, dopo aver visto il principe sconfiggere i draghi e prendere lo scrigno, partì anche lui con il suo cavallo per riferire tutto alla principessa stessa.
Anche il viaggio di ritorno durò molti giorni, ma ormai il principe era felice perché era
ritornato a casa e aveva superato la prova brillantemente. Contemporaneamente, però, anche
la spia della principessa arrivò a palazzo e andò ad avvertirla della vittoria del fratello. Allora
la principessa, dopo aver sentito il racconto della spia, si infuriò e decise di intervenire. Così
andò a congratularsi con il fratello dicendogli: “Fratello mio, sono molto contenta che sei
tornato sano e salvo, e per giunta con lo scrigno! Ma ora vai a riposare e dàllo a me, così che
possa custodirlo fino a domani per darlo a nostro padre”.
Il principe allora ringraziò la sorella e accettò consegnandole lo scrigno. A quel punto la
principessa, felice del risultato da lei ottenuto, prese lo scrigno e lo portò in camera sua. Una
volta riposta la collana in un altro scrigno, mise nel primo un’altra collana, così da far credere
al padre che il fratello fosse un imbroglione.
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Il giorno dopo la principessa consegnò al fratello lo scrigno con dentro la collana falsa
e gli disse di portarlo subito al padre. Così il principe andò dal padre consegnandogli lo scrigno e una volta che il re lo aprì riconobbe che la collana all’interno era falsa. Il re si infuriò
e disse al figlio che era solo un imbroglione e un incapace.
La principessa intanto pregustava la vittoria e immaginava già come sarebbe stato essere regina, quando, ad un certo punto, un uomo si avvicinò dicendo al re che il principe non
era un truffatore, ma che la collana era stata scambiata dalla principessa per avere il trono.
L’uomo era la spia che aveva svolto prima il suo compito per la principessa, ma poi, spinto
dai sensi di colpa, voleva rimediare.
A quel punto il re punì la figlia, dicendole che il regno sarebbe passato al figlio e lei sarebbe rimasta chiusa in una torre finché non avesse riconosciuto i suoi sbagli.
La principessa però era talmente orgogliosa che non volle mai riconoscere di aver sbagliato, così rimase chiusa nella torre per sempre.
Il principe, invece, divenne l’erede al trono e ricevette le scuse del padre, che si rese
conto di non averlo giudicato per quello che era veramente. Perciò non bisogna mai giudicare nessuno dalle apparenze.
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