Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 7
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Laboratorio intermedio Le parole e la forma - 7
Lezione 7 Dove si scopre che i racconti hanno molte forme ma l'autore ha sempre l'ultima parola Oltre alla divisione in tre atti, per cominciare a inventare una storia, comunque, si può tenere conto di alcune strutture narrative tradizionali. La più diffusa è probabilmente quella che si svolge attraverso un intreccio che si può dividere in quattro parti successive. E' un po' come la divisione in tre atti di cui abbiamo parlato finora, ma prevede un momento in più. Situazione iniziale o esordio: è il modo in cui si presentano i fatti e i personaggi prima dell'inizio della storia. Complicazione o rottura dell'equilibrio iniziale: la vicenda prende il via con un fatto che inserisce un conflitto, un problema, nella situazione iniziale (può trattarsi di un avvenimento ma anche di una particolare riflessione interiore di un personaggio). Svolgimento della vicenda: la vicenda si sviluppa attraverso eventi, che possono portare ad un miglioramento o a un peggioramento della situazione iniziale. Conclusione o epilogo - la vicenda termina. Dall'incipit al climax Una forma più complessa può prevedere innumerevoli passaggi, se vogliamo però prendere a esempio quella di una struttura drammaturgica di base potremmo definirla in alcuni momenti abbastanza ben delineati (che amplificano e complicano le strutture precedenti): Momento d'inizio - un racconto comincia spesso quando la storia da raccontare è già molto avanzata. Scegliere bene l'inizio rende interessante il resto dell'intreccio. Esposizione - cos'è accaduto finora. Solitamente uno dei personaggi pensa o racconta a un altro gli antecedenti della storia, oppure l'autore ci racconta gli avvenimenti passati per chiarirci a che punto ci troviamo. L'equilibrio tra quanto viene detto e quanto viene taciuto è un punto essenziale per rendere la vicenda interessante. Elementi di prefigurazione - una storia contiene, durante il suo svolgersi, indizi e potenzialità di quello che accadrà durante il suo futuro sviluppo. Più il racconto avanza, più le possibilità di conclusione dovrebbero restringersi, in modo che le conclusioni risultino possibilmente sorprendenti ma non inattese. L'avvenimento inaspettato - è quello che di solito dà il via alla parte centrale della storia. Può trattarsi di un'azione fisica oppure di un pensiero o di una semplice battuta di dialogo. In ogni caso si tratta di qualcosa che cambia la direzione della vicenda in un modo che il lettore trova sorprendente. Il doppio intreccio - sarà Amleto a uccidere il re, o sarà il re a uccidere Amleto? Jago spingerà Otello all'uxoricidio oppure Otello scoprirà il tranello di Jago? La forza di una storia dipende spesso dal fatto che si sviluppa un doppio intreccio, attraverso il protagonista e un antagonista, che hanno scopi contrastanti ma uguale (o quasi) forza narrativa. In questo senso è importante che l'antagonista (o i diversi antagonisti) del protagonista siano potenti e ben descritti, così da far pensare al lettore che possano (e magari lo faranno) sovrastare il nostro eroe. Il momento topico - è quello in cui la storia fa un decisivo avanzamento in una scena di forte tensione, che prefigura il climax. Il climax e l'anticlimax - il climax è in genere una figura retorica per la quale il discorso aumenta gradatamente di forza e di intensità, in una gradazione composta da parole dal significato crescente (per esempio, in un verso del Petrarca: vegghio, penso, ardo, piango). Ma in una struttura drammaturgica il climax indica anche il punto più alto, l'apice di una storia. In pratica si può dire che è il momento dopo il quale la vita di uno o più d'uno dei personaggi principali e la storia stessa non saranno più come prima. Sia in una storiella comica che in un dramma, è il climax a produrre grande impatto. Il suo opposto è l'anticlimax, la figura retorica che mette insieme una serie di concetti o parole posti in ordine d'intensità decrescente (a questo proposito si parla anche di climax discendente). Un classico caso di anticlimax è presente nel finale della più famosa poesia di Giacomo Leopardi, L'infinito. Dopo una descrizione tutta concentrata verso il cielo e verso l'alto, i versi si concludono con una discesa malinconica che ne accresce la forza: «Così tra questa / Immensità s'annega il pensier mio: / E il naufragar m'è dolce in questo mare». In una struttura narrativa l'anticlimax è quel momento nel quale la storia sembra andare in una direzione opposta a quella del suo sviluppo come è andato progredendo fino allora. Momenti di climax e anticlimax vanno dosati attentamente nella scrittura di una storia. La scena madre - il climax spesso arriva a coronamento della scena madre, quella nella quale i personaggi principali si scontrano, l'intrigo viene rivelato, il dramma si compie. Il finale - è la conseguenza ultima degli eventi che hanno dato l'avvio al conflitto, anche se il climax è passato, quest'ultima sezione della storia sarà quella che gli ascoltatori ricorderanno con più chiarezza. Qualche volta il finale è brevissimo (nel film Arrivederci ragazzi di Louise Malle un effetto incredibilmente intenso viene raggiunto solo con questa battuta: «Arrivederci ragazzi!», rivolta agli studenti rimasti liberi da un insegnante catturato dai nazisti e deportato insieme con gli allievi ebrei di un collegio francese). Naturalmente i finali possono essere chiusi o aperti e lieti o infelici. Sta a chi scrive scegliere il suo. Come pare evidente, questa successione di norme sembra adatta soprattutto a un testo teatrale o cinematografico, ma il narratore, che può scegliere di utilizzare queste abitudini «retoriche» anche in un racconto intimistico o esistenziale, non dovrebbe in assoluto disinteressarsene. Dal cerchio al montaggio alternato: alcune forme di storie Naturalmente è possibile provare a dare qualche idea pure sulle forme più originali, o perfino stravaganti, che le narrazioni possono prendere, anche se non è possibile raccogliere tutte le strutture che gli autori hanno inventato o potranno inventare in futuro. E se tutti conosciamo il racconto epistolare o il racconto in forma di dialogo, forse non sempre ci ricordiamo di altre forme narrative meno utilizzate, come quelle che seguono. Il racconto brevissimo. Si tratta di una narrazione concentrata in poche righe, spesso in poche parole. Deve presupporre una forte sorpresa finale e un tema capace di avvincere subito il lettore o di divertirlo (se ci si pensa, è proprio la struttura delle barzellette). La storia circolare. E' un racconto che parte da un'immagine o da un pensiero, per tornare poi alla fine su quella stessa immagine o su quello stesso pensiero. Di solito nel finale il tutto è osservato da un altro punto di vista rispetto all'inizio, oppure il ritorno all'incipit serve a spiegare ciò che è avvenuto. La storia a flash back. Se un personaggio viene descritto alla fine di una storia, la vicenda può essere ricostruita con un lungo flashback o con dei flashback successivi che ci rivelano lo sviluppo della trama. Cominciare dalla fine. Partendo dall'ultimo avvenimento (tipo la morte o il trionfo del protagonista) la storia viene raccontata risalendo all'indietro e rivelando i misteri e le sorprese della narrazione momento dopo momento, man mano che ci si avvicina al punto da cui tutto ha tratto inizio. Questa è una struttura che presuppone una grande abilità da parte dell'autore, nel tenere insieme tutti i capi di una vicenda. Le versioni multiple. Una storia può anche essere costruita a partire dalle testimonianze diverse che più personaggi danno della stessa vicenda. Se si immagina una scena e un certo numero di testimoni, si può provare a descrivere l'accaduto dal punto di vista di ognuno di loro. La loro posizione sociale, il loro interesse nella vicenda, le relazioni che li legano agli altri protagonisti, saranno il motore stesso della narrazione. Il montaggio alternato. In questo tipo di narrazione seguiamo di solito gli avvenimenti che capitano a due protagonisti, che sembrano distanti tra loro e forse destinati a non incontrarsi mai. L'autore ci rivela qualcosa dell'uno e qualcosa dell'altro fino al momento in cui un evento finisce per unire le due vicende (sia l'incontro dei protagonisti che il mancato incontro o qualcosa che capita separatamente a entrambi). Il racconto picaresco. Questa forma di narrazione si è sviluppata soprattutto in Spagna e prende le mosse da un personaggio popolare, il Picaro per l'appunto, che racconta le sue vicende, passando di avventura in avventura, sentimentale, eroica, cialtronesca, o di qualunque tipo vi venga in mente. Poiché le sue vicissitudini non si esauriscono mai è una strutturà chiaramente aperta che si può arricchire in ogni momento di nuove scene. Quando è il personaggio a trascinare la storia Una volta il «New York Times» ha chiesto a Damon Lindelof, quale fosse il motivo dell'enorme successo del serial televisivo Lost, Lindelof, che è uno degli autori, ha risposto: «It's all about character, character, character. Everything has to be in service of the people. That is the secret ingredient of the show». Secondo lui, quindi, l'ingrediente segreto del successo è solo il personaggio, personaggio, personaggio e ogni cosa deve essere al servizio della gente. In effetti senza grandi personaggi non ci possono essere grandi storie, mentre una storia debole può essere salvata da un grande personaggio. Se torniamo al racconto di Keret, qualcuno potrebbe ribattere che il protagonista appare piuttosto scialbo e questo è vero. Ma in Colla pazza di grandioso c'è l'antagonista, lei, la moglie, che è il vero motore di tutta la storia. È lei a comprare la colla e a credere nel suo strepitoso potere adesivo, è lei a scoprire che lui frequenta un'altra e poi è sempre lei a fare la cosa che la rende finalmente «così bella e insensata». Insomma, se la vostra storia zoppica, lasciate che sia un personaggio a correre, da qualche parte vi porterà. Vivere in un racconto Come ormai abbiamo ampiamente compreso, narrare significa sostanzialmente tracciare un percorso all'interno del quale il lettore si incammina senza sapere bene dove si troverà a capitare. Un percorso che è composto da innumerevoli fattori: la forza dei personaggi descritti, la ricchezza della lingua, il ritmo e il movimento della narrazione, la struttura creata dallo scrittore, le sorprese che ci aspettano durante la lettura. Proprio la sorpresa per il lettore è l'effetto che l'autore cerca di ottenere, sia quando inserisce dei colpi di scena che avvengono intorno al protagonista, sia quando si limita (si fa per dire) a far riflettere in un modo improvvisamente nuovo e rivelatore il suo personaggio. Insomma, lo scrittore vuole avere l'ultima parola. Per il bene del lettore ovviamente. Quindi è ingenuo pensare che esistano delle forme definite di racconto che possano adattarsi con successo alle storie che si vogliono narrare. Anzi probabilmente si può dire senza timore di sbagliare che ogni scrittore trova la sua consistenza di vero autore proprio nella forma originale data alla vicenda che narra. Una semplice intervista televisiva A questo proposito leggiamo alcuni brani tratti da La mia apparizione in tv, un racconto di David Foster Wallace sorprendente per quanto riguarda la struttura. Tutto il racconto ruota fin dall'incipit intorno all'intervista televisiva che viene fatta alla protagonista, Edylin, un'attrice di telefilm. Sono una che il 22 marzo 1989 è apparsa in pubblico al David Letterman Show. Una, per dirla con mio marito Rudy, che ha una faccia e delle opinioni note, grosso modo, alla stragrande maggioranza della popolazione degli Stati Uniti, e un nome sulle copertine, sugli schermi e sulla bocca di tutti. E che ha il cuore invisibile, celato in recessi inaccessibili. Cosa che, secondo Rudy, avrebbe dovuto salvarmi dalle conseguenze della mia apparizione in TV. La settimana intorno al 22 marzo 1989 è stata anche la settimana in cui, nello show di David Letterman, hanno mostrato una serie di servizi che curiosavano nella vita privata e nei passatempi dei dirigenti della NBC. Mio marito, che ha un nome più conosciuto nell'ambiente dello spettacolo che fuori, stava sulle spine: conosceva Letterman, e lo temeva; a sentire lui, sapeva bene quanto Letterman amasse bistrattare le sue ospiti, quanto fosse misogino. Era domenica quando mi ha comunicato che era il caso, assieme a Ron e Charmian, la moglie di Ron, di prepararmi ad affrontare Letterman. Il 22 marzo 1989 sarebbe stato il mercoledì successivo. Abbiamo fin da subito la presentazione del fatto che si narrerà (e che è anticipato in modo quasi didascalico dal titolo): un'intervista televisiva con un giornalista satirico e graffiante, una moglie nota al pubblico e un marito che sembra quasi più preoccupato di lei e che cerca di aiutarla come sa per farle affrontare al meglio l'impegno. Il racconto continua facendo rivivere con grande abilità al lettore le atmosfere spettacolari del David Letterman Show, mentre i coniugi si preparano all'incontro e il marito continua a mettere in guardia la moglie sulla pericolosità dello showman. - Perché insisti a dipingerlo così squallido? Non ne ha l'aria. Rudy ha provato a rilassarsi mentre entravamo nella Manhattan che conta. - Questo è lo stesso uomo, Edylin, che ha chiesto pubblicamente a Christie Brinkley in quale stato si corre il Kentucky Derby. Mi sono ricordata di quello che Charmian aveva detto al telefono e ho sorriso. - Ma è vero o no che lei non ha saputo rispondergli? Anche mio marito ha sorriso. - Béh, lei era stravolta, - ha detto. Mi ha accarezzato la guancia, e io la sua mano. Cominciavo a sentirmi meno nervosa. Ha usato la sua mano e la mia guancia per farmi girare verso di lui. - Edylin, - ha detto, - il problema non è il suo squallore. Il problema è il ridicolo. Quel bastardo dispensa ridicolo come un'enorme parassita stile Howdy-Doody. L'intero show se ne pasce; si gonfia e cresce quando le cose diventano assurde. Con Letterman che mette su un'aria satolla, sinistra, raggiante. Chiedi a Teri il fatto del velcro. Chiedi a Lindsay di quel filmato manipolato di lui e del papa. Chiedi a Nigel, a Chairman o a Ron. Li hai sentiti, no? Ron potrebbe raccontarti delle storie da far rizzare i capelli. Nella borsetta avevo un portacipria. Dopo due giorni filati di trucco televisivo, avevo la pelle infiammata e bollente. - Però è simpatico, - ho ricominciato. - Letterman, dico. Quando l'abbiamo visto, mi è sembrato che gli piacesse mettere in ridicolo se stesso almeno quanto gli ospiti. Insomma, non è un'ipocrita. Malgrado le preoccupazioni del marito, comunque, l'intervista a Edylin va davvero bene, e qui bisogna dire che Wallace riesce a scriverla in maniera tanto convincente da farla sembrare davvero una puntata dello spettacolo trasmessa dalla TV. E subito dopo il terribile Letterman si rivela un anfitrione simpatico e cortese. In quel preciso istante ho sentito dal profondo del cuore che tutta l'angoscia, le elucubrazioni, la paura di Rudy erano state inutili. Perché, quando è partita la pubblicità, David Letterman era lo stesso di prima. Il regista, col suo cardigan, si è passato il dito sul collo come per tagliare la gola, la fotografia originale di un paraurti occupava tutti i monitor della 6A, la band diretta da Shaffer si è scatenata, le luci delle telecamere si sono spente. A Letterman sono crollate le spalle; si è accasciato sulla scrivania volutamente da poco, asciugandosi la fronte con un pezzo di stoffa spiegazzato estratto dal taschino della giacca da yachtsman. Ha sfoderato un caldo sorriso e ha detto che era stato mostruosamente bello avermi come ospite, che quella sera il pubblico aveva senz'altro speso bene il suo tempo, che sperava mia figlia Lynette avesse, nel suo stesso interesse, anche solo la metà della mia presenza scenica, e che se avesse saputo quale ospite strepitosa ero, avrebbe personalmente mosso mari e monti per avermi in studio già da molto. Ma è nel finale che si rivela il vero centro della narrazione, quel nucleo caldo tenuto nascosto, o appena affiorante, fino ad allora. E si svela proprio nei paragrafi alla fine del racconto, che si aprono con un'immagine farsesca e si chiudono con la domanda che fin dal principio reggeva, inespressa, tutta la storia: - Oddio, - ecco cosa ha detto David Letterman quando gli esplosivi sono esplosi e Reese, il direttore, è venuto fuori dal cerchio perfetto con quella sua faccia fuori del comune cerchiata di fuliggine. Mesi dopo, una volta uscita da una situazione che mi vedeva al centro, sopravvissuta nella quiete prodotta dal grande tumulto dal quale io, in quanto causa, perfettamente circondata, ero esente, sono rimasta di nuovo stupita da quanto fosse in fin dei conti la cosa più giusta da dire per una persona in quel frangente. E me lo sono ricordato e ho faticato molto per far capire che, se non altro, io sono una donna che dice quello che pensa. E' così che devo vedermi, se voglio vivere. E per questo, mentre la limousine messa a nostra disposizione ci portava all'appuntamento con Ron e Charmian e forse anche Lindsay, per bere e mangiare dall'altra parte del fiume a spese della NBC, ho chiesto a mio marito chi pensava che fossimo allora realmente, io e lui. Domanda che non avrei mai dovuto fare. Con questa battuta finale: «Domanda che non avrei mai dovuto fare», sembra cominciare un'altra vicenda, proprio mentre invece la narrazione si conclude. In questo modo Wallace esprime finalmente quello che il lettore più attento intuiva forse fin dal principio e riveste di una luce diversa e più intensa le pagine precedenti, quelle che descrivevano l'ansia di Edylin e la preoccupazione del marito di fronte a una semplice intervista televisiva. La narrazione in effetti, e il lettore se ne rende pienamente conto solo ora, era tutta incentrata sulla verità e sulla finzione, sul fatto che Letterman cercava di far passare per ridicolo chi non lo era, sulla stessa falsità di ogni trasmissione televisiva, sui rapporti non autentici tra i personaggi in gioco. Si trattava quasi solo di un lungo prologo a quell'altra vicenda, quella davvero più importante per i personaggi, tutta racchiusa nell'ultima riga del racconto. E infatti, la falsità, il rapporto non autentico, la crisi, sono proprio all'interno del matrimonio di Lindsay. Testi, ipertesti e blog Tutti i discorsi sulla forma del narrare fatti finora non tengono conto di una nuova realtà, quella dei racconti e dei testi che ormai hanno riempito il mondo virtuale (se si può ancora chiamare così) di internet. Qualche anno fa c'è stata la moda, diciamo così, degli ipertesti, cioè delle narrazioni - di solito sistemate su un supporto digitale (un cd-rom o un sito internet) - che invece di avere una forma definita in partenza dall'autore, interagiscono con le scelte del lettore, che può spostarsi da un punto all'altro del testo per leggere una storia diversa o completarla in modo originale rispetto a quello che era stato pensato all'inizio dallo scrittore. Insomma un ipertesto è un testo composto di spezzoni chiamati lexias, uniti da collegamenti elettronici. Nel leggerlo non si va dall'inizio alla fine come in un testo lineare, ma si procede scegliendo e cambiando brani da leggere: si tratta di un testo multi-lineare. Finora, comunque, le opere scritte in questo modo sono state rivolte soprattutto a ricercatori e studenti universitari e non è completamente chiaro quale effetto avrà l'ipertesto sulla narrativa. Alcuni pensano che l'ipertesto sia forse più adatto alla poesia piuttosto che ai racconti o ai romanzi. Altri dicono che dare più scelte al lettore possa consentire allo scrittore di sviluppare tecniche narrative multiple, che possano rilanciarsi a vicenda o essere costruite l'una sull'altra diventando più ricche. Un'altra possibilità ancora è lo sviluppo di un'idea di romanzo in cui siano presenti molti centri narrativi e che possa essere iniziato e terminato in qualsiasi punto. Anche se l'assenza di un punto di avvio determinato potrebbe ingenerare qualche confusione nel lettore. Ma è probabile che avvicinarsi a un ipertesto significherà cambiare il modo stesso di intendere la lettura. Se e quando questo avverrà, e con quali risultati, è ancora presto per dirlo. Per ora ci sono stati diversi tentativi più o meno fortunati di scrivere un romanzo come un ipertesto e forse il più significativo è quello creato da Robert Coover, per i suoi studenti di scrittura creativa della Brown University di Providence. Questo testo (anzi ipertesto) si chiama significativamente Hypertext Hotel e descrive un albergo con diverse stanze, ognuna delle quali può contenere una storia, o un frammento di storie. Ma la scrittura digitale che ha più influenzato il mondo editoriale negli ultimi tempi è decisamente quella del blog. Tutti sappiamo cos'è, un diario on line che giorno dopo giorno presenta opinioni, avventure, riflessioni di un individuo che dà al blog il suo nomignolo (che in inglese si chiama nickname) e con il quale si confonde. Insomma, alla fine, non sappiamo nemmeno più se Pulsatilla - tanto per fare il nome di uno di questi diari on line che nel 2006 è diventato libro (edito da Castelvecchi con il titolo La ballata delle prugne secche) - è il nome del blog, il nome della persona che lo scrive o solo un personaggio più o meno inventato. Se apriamo questo blog (indirizzo internet: http://www.pulsatilla.splinder.com/), infatti, troviamo scritto: Pulsatilla diario verde e acido Cos'è la pulsatilla Una pianta. Ha le foglie divise in lacinie lineari, pelose. Cresce nei luoghi erbosi o fra le rocce. Mi è stata prescritta una volta. Quando ho chiesto al mio terapista perché, lui mi ha risposto "Perché sei cattiva". Questo è un blog cattivo per combattere la cattiveria, come da precetto omeopatico. E pulsatilla è una parola che mi somiglia molto. Piccola, saltellante. Chi è la pulsatilla La pulsatilla in 33 punti. 1. Qualsiasi cosa, persona, canzone sulla quale mi soffermo mi provoca disgusto o empatia, e raramente qualcos'altro. 2. I Jefferson Airplane mi commuovono fino alle lacrime, perché testimoniano l'esistenza di un mondo bruciato e lontano dal quale sono destinata a rimanere esclusa per stupide ragioni anagrafiche. 3. Ritengo di avere la verità in pugno (il coro greco risponde: "e la cambio mensilmente"). 4. Non so cantare benissimo ma canto sempre, e desidero essere ascoltata perché quando canto dico. 5. Un qualsiasi individuo che imbracci una chitarra con padronanza acquista ai miei occhi cento punti. 6. Ho quella che Freud chiamerebbe una regressione alla fase orale. Fosse per me leccherei anche i semafori. Per sublimarla mi dedico a hobby socialmente più tollerati, i.e. onicofagia, tabagismo e bulimia. 7. Ho una specie di laurea in pubblicità e una specie di disgusto per il mondo della pubblicità e per il mondo in generale. 8. Ho una grossa ametista sul comodino che sono convinta influisca positivamente sulla mia vita. 9. Adoro l'estate, adoro stare mezza nuda, adoro portare le gonne, adoro legare i capelli con una pinza, adoro camminare scalza. 10. Mal tollero gli errori di ortografia. Talvolta porto degli occhiali da professoretta frigida che tuttavia mi donano molto. 11. La mia salvezza è, è sempre stata, e sempre sarà, scrivere. 12. Leggo meno di quanto vorrei, meno di quanto dovrei e meno di quanto sembri. 13. Ho un cattivo rapporto con i miei sbagli. Li affronto con senso di colpa piuttosto che con responsabilità. Di conseguenza li ripeto. 14. Boicotterei consapevolmente la televisione se mi ricordassi di averla. 15. Mi sono sempre tenuta a debita distanza dalle droghe pesanti perché mi ritengo una potenziale tossica. 16. Sono freddolosa, la mia temperatura ideale sono trenta gradi. 17. Se ci fossero trenta gradi a Berlino, Berlino sarebbe la mia città ideale. 18. Un uomo per attrarre la mia attenzione deve somigliarmi. 19. Credo che la patria sia un finto valore, e segnatamente l'ultima campagna affissioni di Alleanza Nazionale mi tocca i nervi. 20. Il protagonista di Apocalypse Now diventa più debole ogni ora che passa in albergo. Ogni ora che charlie passa in mezzo alla foresta con una palla di riso in mano diventa più forte. Nella mia ottica, io sono charlie. 21. La mia religione è un sincretismo caotico nel quale però credo molto. 22. Parlo bene del sud con quelli del nord e parlo bene del nord con quelli del sud perché credo che nord e sud si sottovalutino molto l'un l'altro. 23. L'impulsività è mia nemica e la combatto quotidianamente. 24. Quando sto psicologicamente male divento goffa, vado a sbattere da tutte le parti e mi riempio di lividi. 25. Odio i giapponesi moderni, credo che Mishima abbia fatto molto bene a suicidarsi. 26. Alcune fotografie mi ipnotizzano. 27. Non saprei dire se sto più volentieri sola o in compagnia. 28. Devo essere molto disciplinata con i miei effetti personali poiché tendo a perderli. Il mio portafogli e le mie chiavi sono ancorati alla borsa con una catena, la mia borsa la porto sempre a tracolla e i miei documenti sono imprigionati dentro una tasca chiusa con la zip, a sua volta incatenata alla borsa. 29. Ho passato gran parte della mia vita a sbattere a destra e a manca come una pallina da flipper e, quel che è peggio, ho segnato ben pochi punti. 30. Di cellulite ne ho poca e soprattutto è tutta cellulite di alta qualità. 31. Sono insensibile al fascino dei gioielli. 32. Non ho pudore. 33. Il mio ritmo interiore è scandito dal poh poh tp-tt-tp che fa da controcanto in Surfin' dei Beach Boys. Ecco, a molte di queste sentenze, espresse con un tono a metà strada tra il pretenzioso e l'ingenuo, il lettore può anche avere la voglia di rispondere e chi se ne frega... Ma sbaglierebbe perché la cifra di ogni blog è proprio quella di mescolare l'autenticità con la messa in scena, l'offrirsi con orgoglio e il nascondersi con pudore dietro un nickname. Quello che ne viene fuori è onesto come il diaro di un adolescente, quello che finora è sempre stato gelosamente custodito in un cassetto chiuso a chiave. E nello stesso tempo è falso come una recita, che ora è fatta davanti a tutti ma non coinvolge l'identità totale dell'autore. L'importante è che l'esibizionismo e la ritrosia si trasformino una volta su carta in una buona storia di narrativa, che trovi i suoi lettori appassionati, com'è capitato alla Ballata delle prugne secche. Il mondo di quelli che non esistono Insomma, sono partito da Carver e ho finito con Pulsatilla. Ma non l'ho fatto per snobismo, né per indicare la via di una serena leggerezza. È solo che ognuno degli scrittori che ho citato ha saputo creare ogni volta un mondo originale in cui è stato bello perdersi (e fortunatamente, anche molti altri che qui non sono citati). E gìà, scrivere un racconto o un romanzo significa inventare un mondo che non c'è. Significa creare un universo capace di coinvolgere e appassionare il lettore di narrativa, un tipo così particolare da decidere di impiegare il tempo limitato, che ognuno di noi ha a disposizione nella vita, per leggere avventure che non sono mai capitate a qualcuno che non è mai esistito. E inventare un universo significa ovviamente immaginarne la forma e trovare le parole per raccontarlo. Ammazzare un cane E se malgrado tutto questo, uno non ci riesce? Beh, voglio lasciarvi con un apologo giapponese, ambiguo e - forse - rivelatore. Lo scrive Murakami nel suo La ragazza dello Sputnik e parla di Sumire, che «stava lottando con tutte le sue forze per diventare una scrittrice di professione» e sognava successo, onori e gloria. «Ma purtroppo niente di tutto questo si realizzò. In realtà Sumire non riuscì mai a portare a termine un solo romanzo compiuto, che avesse un inizio e una fine». Ma perché? Perché? La risposta forse è nel raccontino che segue questa sconfortante rivelazione. - Ho la testa piena di cose che vorrei scrivere. È come un assurdo magazzino tutto stipato di roba, - disse Sumire. - Immagini, scene, frammenti di discorsi, figure di persone... A volte queste cose sono così scintillanti, piene di vita, e sento che mi urlano: Scrivici! In quei momenti mi sembra che stia per nascere un romanzo meraviglioso. È come se stessi per andare in un posto completamente nuovo. Ma appena mi siedo al tavolo e provo a scrivere, mi rendo conto che qualcosa di essenziale è andato perduto. L'esperimento è fallito: non ho prodotto nessun cristallo, e mi ritrovo in mano dei sassi. E non sono andata proprio da nessuna parte -. Sumire, la fronte corrugata, raccolse il duecentocinquantesimo sassolino e lo gettò nel laghetto. - Forse mi manca qualcosa. Qualcosa di assolutamente essenziale per diventare uno scrittore. Per qualche attimo scese un profondo silenzio. Sentii che aveva bisogno di una delle mie banali osservazioni. - Nell'antica Cina, intorno alle città si erigevano delle alte muraglie, nelle quali venivano costruite delle grandiose e splendide porte, - dissi, dopo aver riflettuto qualche istante. - A queste porte era attribuito un significato molto importante. Il loro scopo non era solo quello di permettere alla gente di entrare e uscire, ma si credeva che in esse abitassero gli spiriti della città. O che avrebbero dovuto abitarvi. Un po' come nell'Europa del Medioevo si riteneva che chiese e piazze fossero il cuore delle città. Per questo ancora oggi in Cina restano molte di quelle magnifiche porte. Sai come facevano gli antichi cinesi a costruirle? - Non ne ho idea, - disse Sumire. - Andavano nei luoghi dove in passato si erano svolte delle battaglie, e lì raccoglievano tutte le ossa, sparse per terra o sepolte, che riuscivano a trovare. In un paese ricco di storia come la Cina, i campi di battaglia non mancavano certo. Poi all'ingresso della città costruivano delle enormi porte in cui venivano incastonate le ossa. Gli abitanti speravano che, grazie a questo tributo in loro onore, i soldati defunti avrebbero protetto le loro città. Ma non era ancora abbastanza. Finito di costruire le porte, radunavano un certo numero di cani vivi e con il pugnale gli tagliavano la gola. Quindi versavano il loro sangue ancora caldo sulle porte. Mischiando le ossa consumate e il sangue fresco, gli antichi spiriti avrebbero acquistato un potere magico. O almeno questo è ciò che credevano. Sumire aspettava in silenzio il seguito della storia. - Scrivere romanzi è un po' la stessa cosa. Puoi raccogliere tutte le ossa che vuoi, costruire la porta più splendida del mondo, ma ciò non basta a produrre un romanzo che sia vivo. Una storia, in un certo senso, non appartiene a questo mondo. Per creare una storia è necessario un battesimo magico, che riesca a mettere in contatto questo mondo con quell'altro. - Cioè vorresti dire che anch'io devo trovarmi il mio cane. Annuii. - E che devo far scorrere il suo sangue caldo. - Può darsi. Sumire si morse le labbra e restò per un po' pensare, lanciando ancora molti di quei poveri sassolini nel laghetto. - Se possibile, vorrei evitare di uccidere animali, - disse infine. - Naturalmente intendevo solo in senso metaforico. - spiegai. - Non voglio mica farti uccidere davvero un cane. E invece, anche se spiegare un apologo è una cosa che non andrebbe mai fatta, forse proprio di uccidere un cane si tratta. Solo che ognuno di voi lettori ha il suo e nessun manuale potrà mai aiutarvi a scovarlo.