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J. MOLTMANN,
ETICA DELLA
SPERANZA,
Queriniana,
Brescia 2011,
pp. 316, € 29,00.
9788839904560
F
ormidabili quegli anni! I Sessanta del Novecento rappresentano nell’immaginario
collettivo il decennio delle speranze:
Giovanni XXIII con l’evento epocale del concilio Vaticano II, Kruscev guida la destalinizzazione, Kennedy, primo cattolico alla Casa
Bianca, dà un volto alla giovane America che
anela a venire fuori dai conformisti anni Cinquanta.
Tre figure che aprono un clima culturale
che investe anche la Germania del dopoguerra, una nazione divisa in due da un Muro,
la cui parte occidentale aveva scelto la sicurezza rimuovendo il passato criminale e avvalorando nei fatti l’indifferenza verso il futuro. Il «miracolo economico tedesco» fu,
dunque, l’atteggiamento disincantato contro
ogni utopia, il suo realismo degli anni Cinquanta lo status quo generalizzato. Tale «palude» permeò persino la teologia e l’azione
delle Chiese evangeliche tedesche, che diedero prova di un’evidente perdita della dimensione escatologica della fede.
Con la Teologia della speranza, edita nel
1964, Jürgen Moltmann gettò un sasso nell’acqua stagnante del mondo evangelico. In
dialogo serrato con Il principio speranza di
Ernst Bloch, il teologo riformato tedesco mediò da quest’ultimo un coagulo costante di
concetti per esprimere che il cristianesimo
nella sua essenza è in tutto e per tutto escatologia, vale a dire speranza in grado di trasformare e superare il dato sensibile, il mondo
degli occhi chiusi.
Dio, per Moltmann, è innanzitutto il Dio
dell’esodo e della risurrezione, un Dio che
non si pone sopra o in noi, bensì «davanti a
noi» e «in-avanti a noi». Per il tramite delle sue
promesse Dio suscita nei credenti la speranza
in un altro e nuovo futuro della vita contro la
morte: Gesù con la sua sequela e risurrezione
è l’anticipatore di questo futuro di Dio che ci
avvinghia e ci guida «in-avanti» nel vasto spazio della terra della libertà. Perché egli, con la
sua venuta, ci ha chiamati alla libertà. Necessariamente l’etica fa parte di questo in-avanti.
Opera che doveva essere pubblicata nel
corso degli anni Sessanta, l’Etica della speranza di Moltmann ha, invece, visto la luce
quasi mezzo secolo più tardi: due epoche di-
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verse, due secoli diversi, due millenni diversi.
Indubbiamente la lunga gestazione ha giovato a questo saggio che pone l’autore in
quella schiera dei maître pour penser piuttosto che in quella dei maître à penser. Posizione difficile, per via dei molti interrogativi
posti anziché delle più ovvie risposte certe
elargite, che Moltmann in modo rigorosamente coerente e straordinariamente potente ricopre. Un’etica, la sua, che non procede per assiomi, ma come un lavoro
continuamente in fieri che ha come stella
polare una vera e propria escatologia trasformativa il cui centro è la Parola vivente.
Le originarie traiettorie, che si sedimentarono nel corso degli anni Sessanta, furono
quelle che ebbero come interlocutore il Civil
rights movement degli Stati Uniti e il «sogno» annunciato dal pastore battista Martin
Luther King nell’agosto del 1963 a Washington. Sempre sul finire del medesimo decennio, nel 1968, Moltmann fu colpito dal messaggio dell’Assemblea del movimento ecumenico, svoltasi a Uppsala, che faceva propria
la categoria del nuovo da lui utilizzata in Teologia della speranza, pubblicata quattro anni
prima, ed espressa con le parole «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Muovendo, infatti, dalla cristologia di Karl
Barth, Moltmann si discosta dall’escatologia
cristologica di quest’ultimo affermando una
propria cristologia escatologica. Pur condividendo con Barth l’affermazione secondo la
quale l’etica cristiana è pur sempre condizionata dalla cristologia presupposta, tuttavia
critica la prospettiva barthiana in quanto innesta l’escatologia nella cristologia: «Nella
morte e risurrezione di Cristo la salvezza è già
“compiuta” (Gv 19,30). Perciò il futuro di Cristo
porterà solo la manifestazione universale
della salvezza già compiuta in Cristo» (55). La
cristologia di Moltmann si fonda, invece, su
dimensioni radicalmente messianiche. La sua
cristologia escatologica, tutta tesa verso il
futuro, può quindi dichiarare: «Cristo è il vincitore!» quando la battaglia contro il peccato,
contro la morte è ancora in pieno svolgimento, perché con la venuta di Cristo ha
avuto inizio il compimento futuro della salvezza.
Sconvolgendo le nostre rassicuranti esistenze Moltmann ammette che «il futuro
escatologico diventa presente senza cessare di
essere futuro e fa così del presente il futuro già
presente» (55). Superando la diatriba fratricida
del nuovo Israele in sostituzione di quello precedente, sostiene che le promesse messianiche d’Israele sono attuate su scala universale e,
pertanto, rinviano al di là della venuta di Cristo, al regno della gloria, a motivo del quale
Cristo stesso è stato inviato nel mondo offrendosi, immeritatamente, immotivatamente
e gratuitamente in olocausto per noi.
La Chiesa non sta sopra, ma accanto a
Israele, poiché solo una è la speranza che unisce le due comunità, i due popoli. Concepire
escatologicamente la vita e la predicazione di
Cristo significa dare un’interpretazione messianica della Torah e vedere nella sua crocifissione, morte e risurrezione ciò che è scritto
in 1Cor 15,28: «E quando tutto gli sarà sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a
colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché
Dio sia tutto in tutti».
L’etica del regno di Dio si pone, quindi,
come etica della sequela di Gesù, che significa
essenzialmente etica dell’anticipazione del
suo futuro: «Il regno della gloria di Dio, che
porta a compimento tutta la storia umana e
tutta la creazione aperta, non arriva senza
essere preparato, inizia con la venuta di Cristo,
si annuncia già nel regno dello Spirito e conquista in esso il presente» (56).
Il presente, di conseguenza, conquistato
palmo per palmo a sua volta comporta una
rivelazione del regno dello Spirito, vale a
dire che lo Spirito è effuso su «ogni carne»,
cioè sui deboli, sugli ultimi, su coloro che pur
possedendo l’essenziale sono senza speranza, spezzando a tutti costoro le catene
con cui sono legati. Sono nate, nel corso dei
secoli, grazie all’azione dello Spirito comunità carismatiche, come quelle degli anabattisti nel secolo XVI, che hanno avuto il merito di testimoniare con la sola propria
esistenza la pretesa di un’apertura verso il futuro. Pretesa che, inconsapevolmente, è anche la nostra quando, partecipando alla
messa o al culto domenicale, pronunciamo
le parole «In nome del Padre, del Figlio e
dello Spirito Santo»: con questa formula ci
aspettiamo che Dio adempia tutte le sue
promesse e parli a ognuno di noi tramite la
semplice parola umana.
Forte di questo assunto l’etica cristiana,
etica trasformativa per eccellenza, proposta da Moltmann è quella che si fa carico del
mondo affrancandosi dalla mentalità imperante, gettando le basi di una solidarietà cristiana che si emancipi dalle patrie nazionali
o culturali, collegando l’ethos del cambiamento con il pathos del nuovo tempo che
avanza. Teologo protestante, Moltmann si
dichiara figlio dell’etica luterana, di quella
calvinista e di quella anabattista, oltrepassando i limiti d’ognuna di esse: dalla prima si
distingue perché opera la riconoscibilità,
sotto segni apocalittici, dell’agire cristiano
portatore di vita, ma ne adotta il principio
della «responsabilità verso il mondo».
Dalla seconda si distingue, sotto segni
cristocratici, tramite l’anticipazione trasformatrice in seno al processo della venuta di
Cristo, ma fa proprio il principio della «resistenza». Rispetto all’ultima, quella anabattista, supera l’intrinseco quietismo per get-
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tarsi nella mischia del mondo, ma ne adotta
il «principio della vita alternativa».
Con quest’etica trasformatrice Molt mann si volge a riflettere sulle problematiche
poste dalla bioetica, dalla terra, dalla pace
giusta: sempre in ogni singolo tratto si percepisce il semplice cristiano che pur nell’età
ormai avanzata vede questo mondo già
nello «splendore del mattino» della sua
eterna bellezza, perché «Cristo è il vincitore!».
Domenico Segna
J.-D.CAUSSE,
É.CUVILLIER,
A. WÉNIN,
VIOLENZA DIVINA.
UN PROBLEMA
ESEGETICO E
ANTROPOLOGICO,
EDB, Bologna 2012,
pp. 182, € 17,50.
9788810402429
I
tre autori di questo volume sono animati da
una convinzione. Riguardo alla parte ermeneutica del suo lavoro, l’esegesi biblica ha
tutto l’interesse a nutrirsi di un dialogo con le
scienze umane, specialmente con la psicanalisi. Infatti la sua conoscenza delle basi e del funzionamento dello psichismo umano, la sua perspicacia
nella diagnosi di ciò che possono mascherare le
buone intenzioni, le scelte deliberate e anche il
desiderio di perfezione, la sua continua preoccupazione di chiarire il ruolo fondamentale del linguaggio per la nascita del soggetto ne fanno uno
strumento di prim’ordine, quando si tratta di accostarsi a un discorso che pretende di esprimere
la verità dell’umano in relazione con ciò che lo
fonda. D’altra parte, la riflessione su ciò che significa essere umano ha tutto da guadagnare a interrogare con la massima serietà le Scritture ebraiche e cristiane, perché esse dimostrano una
profonda saggezza nel loro modo particolare di
non nascondere la complessità del reale umano,
ma di assumerlo in tutte le sue dimensioni,
quando cercano di dire come Dio interviene in
essa per fecondarla e portarla a compimento.
Quando la domanda riguarda la violenza e,
in particolare, la violenza che queste Scritture –
o le tradizioni cristiane che ne sono scaturite –
attribuiscono a Dio con maggiore o minore reticenza, l’unione dei punti di vista biblici e antropologici non può che stimolare. È comunque
questa la sfida che abbiamo accettato, quando
abbiamo deciso di scrivere questo libro a più
mani e ci siamo messi al lavoro, ognuno a partire
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dal proprio campo specifico, su questa questione lancinante, che non può schivare chiunque apra la Bibbia, una questione con effetti a
volte allarmanti nella vita reale delle nostre società.
Eravamo convinti che, oltre a fornire un materiale sufficientemente ricco e vario, l’esplorazione esegetica e antropologica avrebbe aperto
piste di riflessione convergenti, che il lettore
avrebbe potuto percorrere, ma evidenziato anche delle differenze che gli avrebbero permesso
di percorrerle con libertà, facendo posto ai suoi
interrogativi, alle sue intuizioni e alle sue convinzioni. Infatti lasciamo volutamente aperta la
riflessione proposta in questo libro.
Non solo perché la questione della violenza
è uno di quegli enigmi ai quali è illusorio voler
dare una risposta definitiva, tanto essa è tentacolare, ma anche perché pensiamo che faremmo
una certa violenza al lettore, lasciandogli credere che è possibile rispondere alla domanda
sulla relazione fra la violenza e Dio e che la vera
risposta può essere teorica.
Tanto è vero che tutto si gioca nel modo
concreto di pensare la nostra propria violenza
nella sua relazione, cosciente o meno, con la realtà religiosa e soprattutto nelle scelte di vita che
ne derivano. Il fatto che Dio dica la sua ultima parola «biblica» sulla violenza nella morte e risurrezione di Gesù significa che, in definitiva, alla domanda si può rispondere solo nel reale
dell’esistenza (…).
Così, tesa fra un’apertura, che racconta un
Dio alla ricerca di una soluzione per la violenza
che distrugge la terra, e la figura del Servo di Dio,
che combatte la violenza diabolica al punto da
rifiutare di adottarne le armi quando egli stesso
ne è vittima, la Scrittura è suggellata dall’annuncio della risurrezione, che spezza il silenzio dell’Agnello immolato in una parola che invita
ognuno a liberarsi dalla sua violenza.
Perciò, considerata globalmente, la Bibbia
invita il lettore a un attraversamento: attraversamento delle immagini di Dio suscettibili – a
volte subdolamente – di alimentare la violenza,
pur pretendendo di combatterla; attraversamento delle violenze umane dai molteplici volti,
certamente ripugnanti, ma, a volte, anche affascinanti e tentanti; attraversamento delle deformazioni del volto di Dio e degli esseri umani,
quando la morte ha il sopravvento, ma anche
delle loro trasfigurazioni, quando la violenza si
trasforma in forza di vita e di vita condivisa. Infatti, se la Bibbia parla delle violenze, comprese
quelle di Dio, forse lo fa perché è animata dalla
speranza che i lettori apriranno gli occhi su ciò
che semina la morte e sceglieranno risolutamente ciò che fa vivere la vita (…).
J.-D. Causse, É. Cuvillier, A. Wénin*
* Il testo è tratto dalla Prefazione a firma dei
tre autori al volume pubblicato dalle EDB.
P. LOMBARDINI,
LE DONNE NEL
CRISTIANESIMO
DELLE ORIGINI,
Edizioni
San Lorenzo,
Reggio Emilia 2011,
pp. 183, € 13,00.
9788880712015
E
sce postumo il bel volume di Pietro Lombardini sulle donne nel cristianesimo
delle origini – come lo era il testo pubblicato nel 2009 su Figure femminili nella Bibbia (sempre per i tipi di San Lorenzo) –. Vi
sono ben presenti temi come la disuguaglianza
di statuto fra uomo e donna, l’impronta patriarcale che segna la Bibbia, le legittime
istanze di una rilettura meno unilaterale dei testi che possa farne sprigionare inedite ricchezze e riparare, per quanto possibile, a secolari amnesie o sfasature interpretative.
Ma, oserei dire, tutto questo è alleggerito
– anche per il fatto che Lombardini è stato
uomo amabile e sincero – dal più malevolo sospetto che talora inquina la recezione della
teologia femminista: quello della rivendicazione. Benché raccolga testi pronunciati in
tempi e occasioni differenti (1987-1996) e conservi molto dell’esposizione orale, il volume
trasmette un’impressione di coerenza che in
certa misura discende dall’asse tematico (ripercorrere nomi e volti femminili dell’Antico e
del Nuovo Testamento, senza rinunciare anche
a «leggere i silenzi» del testo biblico: cf. p. 30);
ma forse ancor più dallo stile, dalla tensione
comunicativa, dalla grande capacità dell’autore d’«entrare» nei testi quasi passeggiandoci
e godendone, e poi d’uscirne con accostamenti sempre azzeccati ad altri testi, della tradizione rabbinica, patristica, della filosofia,
della poesia.
E comprendiamo che non è tanto il tema
della donna o del «femminile» (cf. 109-113) a
premere all’autore, quanto piuttosto «un rinnovato ascolto del testo biblico» (28) anche a
partire dalla prospettiva femminista, oppure
dai vuoti lasciati inesplorati a causa della visione parziale degli esploratori.
Una delle domande che Lombardini lanciava a rimorchio di Catherine Chalier: «In che
misura l’esclusione, o meglio, l’esenzione, delle
donne dallo studio delle Scritture ebraico-cristiane ha condizionato negativamente una
comprensione più piena e più vera del messaggio biblico?», è tenuta viva e pressante e
l’autore cerca di darle risposta, in dialogo con
altri autori e autrici che prima di lui le hanno
affrontate, misurandosi puntualmente con casi
critici nella storia della trasmissione, tradu-
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zione, interpretazione di testi biblici (cf. ad
esempio pp. 31-33 che riportano alcuni noti
passi, specie Co1 4,15 e Rm 16,7, dove nomi di
donne con ruoli importanti nella comunità si
sono trasformati, per intervento dei copisti, in
nomi maschili).
L’opera è suddivisa in tre parti: «Sara», «Maria di Nazaret», «Le donne nel cristianesimo
delle origini» – il contributo più sistematico,
comprensivo anche di un’ampia sezione su
«Paolo e le donne» –; qui si riprendono i materiali di un seminario di studio tenuto nell’anno 1995-1996 presso l’Istituto per le scienze
religiose di Reggio Emilia, riassemblati dal curatore, offrendo un percorso di per sé non
nuovo, ma di singolare chiarezza e acribia, intorno alla rapida normalizzazione dello statuto delle donne nella Chiesa primitiva, via via
che le esigenze d’adattamento sociale depotenziavano, senza spegnerla interamente, la
prassi innovativa introdotta da Gesù accogliendo le donne a pieno titolo nella comunità
dei discepoli (cf. 122-129).
La forza liberante ed emancipante del cristianesimo scende a patti con il tempo della
storia che s’allunga nel ritardo della parusia;
con il costume patriarcale condiviso da giudei
e pagani (certo, con i doverosi «distinguo»; sull’apprezzamento positivo della donna nell’ebraismo, cf. 100-109); con l’esigenza di salvaguardare l’ordinamento comunitario, sia
all’interno sia ai fini della missione verso l’oikumene greco-romana, per non oscurare i diversi ruoli sessuali (cf. la disamina sul «velo» relativa a 1Cor 11,2-16; 154-160) e non dare
scandalo ai gentili, ingenerando confusione fra
la Chiesa e i culti estatici delle divinità orientali.
In questo tracciato, si consuma già nelle
prime generazioni cristiane un progressivo arretramento dell’uguaglianza di uomini e donne;
per meglio dire, essa arretra dal piano della
Chiesa come realtà sociale, dove le donne
hanno talora ricoperto funzioni di responsabilità (per il noto caso di Febe e Junia cf. 142-143)
al piano interiore e spirituale, dove viene conservato l’annuncio originario della salvezza significata dall’immersione battesimale (cf. Ga1
3,25-29) e offerta a ogni carne senza discriminazione.
E l’autore non omette di segnalare che la
riduzione delle donne entro gli schemi sociali
del patriarcato e della subordinazione, tipici
dell’ethos della famiglia tradizionale (cf. 100),
avviene nondimeno in rapporto con il passaggio dalle comunità domestiche alle comunità
«locali», cioè raggruppamenti di più comunità
domestiche, dove emerge la figura degli episkopoi e dei presbiteri, finché «la concezione
della “grande Chiesa” segnerà anche l’emarginazione della donna dai ruoli pubblici della
vita ecclesiale» (142).
C’è dunque una contraddizione macro-
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scopica nel duplice statuto delle donne fra la
novità dell’annuncio del Regno che le raggiunge e le coinvolge al pari degli uomini, suscitando comunità virtualmente «alternative»
alla prassi del mondo, e lo stemperarsi di quella
novità «nell’accoglienza massiccia dei modelli
proposti dalla cultura dell’ambiente» (174), in
forme per esse assai penalizzanti.
Alieno da soluzioni massimaliste, realisticamente didatta della «pesantezza della storia» (158) della quale sarebbe illusorio volersi
sbarazzare con scorciatoie, Lombardini si allinea però con quanti e quante prendono in
carico il disagio delle donne nella Chiesa (cf.
23ss) e auspicano non soltanto piccoli correttivi, ma una conversione ecclesiale, un’inversione di rotta: ignoro se si debba all’autore o al
curatore del volume la citazione di Paolo Ricca
posta in chiusa, ma è una chiusa alta e giusta
che condensa lo spirito dell’opera: «Se la
Chiesa vorrà ritrovare la “memoria di lei” nei
suoi contenuti evangelici dovrà invertire la sua
rotta: restituire cioè alla donna reale quello
che Gesù le aveva affidato ma che la Chiesa ha
requisito per farne proprietà privata ed esclusiva dell’uomo, relegando in cielo il protagonismo della donna» (177).
Alessandra Deoriti
QUADERNI
DI DIRITTO
E POLITICA
ECCLESIASTICA,
20(2012) 1, pp. 293,
€ 41,00.
ISSN 11220392
È
di prossima uscita un fascicolo della rivista pubblicata da Il Mulino interamente
dedicato al burqa nello spazio europeo.
La questione del burqa, come la rivista
mette bene in luce, rimette in discussione vecchi schemi culturali e giuridici e, in quest’ottica,
costituisce un banco di prova per ripensare al
pluralismo religioso in una società multiculturale (cf. Regno-doc. 3,2012,115).
Il punto sembra essere soprattutto il concetto di laicità dello stato, che chiede di essere
ripensato. Si confrontano modelli diversi di
stato laico: da una parte abbiamo la versione
francese che, in nome della neutralità, tende a
evitare l’espressione pubblica delle appartenenze religiose; dall’altro abbiamo modelli
maggiormente inclusivi – si parla di «nuova laicità» – che provano a integrare e a promuovere
le differenze religiose, assicurandone la visibilità nello spazio pubblico.
In quest’ottica la questione della presenza
dei simboli religiosi nello spazio pubblico assume un’importanza centrale: i simboli, infatti,
vanno maneggiati con cura poiché la loro
espulsione impoverisce ogni forma di convivenza civile ma, al tempo stesso, il loro utilizzo
non sempre la favorisce.
Nel nostro paese grande eco ha avuto la
sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla presenza nelle aule scolastiche
italiane del crocifisso (cf. i testi in Regno-doc.
7,2011,233; 13,2010,442). La Corte ha concluso,
con una decisione cha ha suscitato molte polemiche, che l’apposizione del simbolo non
viola nessun diritto garantito dalla Convenzione europea. La ragione per la quale si è
giunti a questo esito non dovrebbe, peraltro,
far troppo piacere anche ai difensori dell’identità cristiana.
Il crocifisso, ha decretato la Corte, non è
un simbolo che «indottrina», ovvero è poco
più di un soprammobile: in caso contrario non
sarebbe auspicabile in uno spazio istituzionale. La questione non è affatto chiusa.
Nel caso del divieto del burqa nello spazio pubblico, le cose sono più complicate perché entra in gioco anche la libertà dei singoli
d’indossare un capo d’abbigliamento religiosamente orientato. Sul punto ci sono almeno
tre precisazioni da fare.
In primo luogo occorre distinguere tra le
diverse forme di velo: si va dalla semplice velazione che non oscura il volto (hijab) alle
forme di velazione totale di cui il burqa è solo
una versione. Se la scelta francese va anche
nella linea di vietare ogni velo negli spazi pubblici – in particolare la questione ha interessato
le scuole – in altri paesi ci si concentra soprattutto sul divieto del velo integrale.
Una seconda distinzione riguarda la definizione di che cosa sia lo «spazio pubblico». La
piazza è uno spazio pubblico ma in modo diverso da una scuola o un tribunale. Esiste uno
«spazio comune» dove è importante garantire al massimo grado i diritti dei singoli, tra cui
quello d’abbigliarsi come ciascuno ritiene opportuno. Diversa è la condizione di uno «spazio politico», quello in cui matura il discorso
pubblico. Anche in questo caso è necessario
garantire il massimo di libertà d’espressione,
ma si coglie la differenza tra indossare un simbolo religioso per strada o in un talk-show. Infine abbiamo uno «spazio istituzionale», dove
sono prese decisioni vincolanti che devono
essere rispettate da tutti (il Parlamento, il tribunale, la pubblica amministrazione ecc.) o
dove lo stato esercita alcune delle sue funzioni
(ad esempio la scuola).
Una terza distinzione riguarda lo status
dei soggetti che frequentano gli spazi pubblici. Un conto è il semplice cittadino, a cui non
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deve essere limitato il godimento dei diritti garantiti; un conto è colui che riveste un ruolo
istituzionale e che, entro certi limiti, «rappresenta» lo stato. Una cosa è lo studente che frequenta una scuola, un’altra l’insegnante o il
giudice.
Le ragioni per cui oggi si è aperto un dibattito sul velo e più precisamente sul burqa
sono di natura complessa. I sostenitori del divieto – più ampio o più ristretto a seconda dei
casi – s’appellano a ragioni diverse e spesso
confuse: si va da quelle d’«ordine pubblico», a
una presunta difesa della dignità della donna,
al principio di neutralità dello stato. La confusione regna soprattutto là dove il dibattito è
intriso di pregiudizi di natura ideologica e di
preoccupazioni identitarie di varia natura.
Il lavoro che stiamo recensendo, con un
linguaggio accessibile anche ai non addetti ai
lavori e con un approccio non ideologico ma
pragmatico, affronta il tema del burqa nelle diverse aree geografiche europee e propone alcuni approfondimenti di natura sia culturale –
il significato del velo nella cultura islamica – sia
legislativa.
Un approccio pragmatico e non ideologico
permette di non sovraccaricare indebitamente
il significato simbolico di un abito ma di evidenziare che esso esprime un’intenzionalità
che chiede d’essere decifrata e ascoltata. Il
velo, nella storia dell’islam e in quella dell’islam
europeo, è stato sia segno d’identità di natura
fondamentalista sia segno di trasgressione
contro un potere – quello dittatoriale nei paesi
mediorientali e quello capitalista in quelli occidentali – che proprio le donne hanno issato
per esprimere liberamente la propria identità.
Antonio Torresin
GIORGIO DE CHIRICO,
CATALOGO
RAGIONATO
DELL’OPERA
SACRA,
a cura
di G. Gazzaneo
ed E. Pontiggia,
Crocevia Fondazione Alfredo e Teresita Paglione,
Silvana editoriale,
Cinisello Balsamo (MI) 2012, pp. 280,
€ 45,00. 9788836623600
A
ncor oggi, sul cavalletto del suo studio
è collocata la copia incompiuta del celebre Tondo Doni di Michelangelo custodito agli Uffizi. Già nel 1921 De Chirico, con
grande rispetto, si era confrontato con questa
«Sacra Famiglia», «il quadro più difficile a in-
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terpretarsi e copiarsi», come egli confessava.
Giunto al crepuscolo della sua esistenza (morirà a Roma nel 1978), il Pictor optimus aveva
compiuto questo estremo tentativo di venerazione per un soggetto religioso e per un artista così eccelso, e idealmente la sua mano si
era fermata dopo aver colmato di colore solo
il volto della Vergine madre. Era questo il suggello simbolico a un lungo itinerario artistico
che non aveva certo ignorato il sacro, inoltrandosi «oltre la metafisica», lungo i sentieri
d’altura dello spirito, tra i panorami delle
grandi narrazioni bibliche.
Non per nulla De Chirico s’era confrontato
anche a livello teorico col «discorso sull’arte
sacra»: tale è, infatti, il titolo di un testo autografo che egli aveva appuntato per una conferenza attorno alla metà degli anni Cinquanta,
così come si era interrogato sull’Arte moderna
e la Chiesa in uno scritto francese datato 18
novembre 1952. Inoltre, aveva rilasciato le sue
opinioni sull’arte sacra durante un’intervista in
cui ribadiva la necessità di un incontro tra la
Chiesa e le nuove espressioni contemporanee
dell’arte. È quindi significativo – soprattutto
dopo il dialogo aperto il 21 novembre 2009 da
Benedetto XVI con gli artisti nella Cappella
Sistina – riproporre la ricerca che questo
grande protagonista del Novecento artistico
condusse attorno ai temi religiosi, attingendo
a quel «grande codice» che è la Bibbia.
Già tra il novembre 2004 e il gennaio
2005, Achille Bonito Oliva, nella chiesa romana di San Francesco a Ripa, aveva proposto una mostra suggestiva sulla Passione secondo De Chirico, nella convinzione che
«l’arte è sempre sacra, anche quando tratta
un soggetto profano», come dichiarava il pittore stesso, e questa «sororità» tra arte e
fede per lui si faceva esplicita quando era la
Scrittura sacra a essere sorgente di ispirazione e di creazione. Il percorso che la nuova
mostra milanese vuole tracciare insieme al
presente catalogo ragionato dell’opera sacra
di De Chirico, il cui corpus è ben più ampio
di quanto comunemente si pensi, diventa
così un’ulteriore occasione per essere pellegrini all’interno di un orizzonte straordinario
di spiritualità e di creatività. In esso si incroceranno soggetti cari all’artista come la Passione di Cristo, la sua infanzia, i suoi miracoli,
le sue parabole oppure l’Apocalisse, con la cui
effervescenza simbolica si misurò attraverso
una sequenza di venti litografie, sulla scia di
Dürer.
Sarà compito dell’esegesi critica, presente
in questo volume, accompagnarci in un così
intenso ed emozionante viaggio di fede e arte.
Noi ora vorremmo solo evocare l’approdo –
reale e simbolico al tempo stesso – della vicenda biografica di De Chirico. Come è noto,
dopo una sosta di 14 anni nel cimitero del Verano accanto alle spoglie del fratello Alberto
Savinio, la salma del pittore fu traslata nel 1992
nella chiesa di San Francesco a Ripa, nel cui antico convento aveva soggiornato proprio il
santo di Assisi. La devozione che l’artista, con
sua moglie Isabella Far, nutriva per Francesco
fu tale da celebrare il suo matrimonio proprio
ad Assisi, nel 1952, e da convalidare la leggenda
secondo la quale egli fosse divenuto anche
terziario francescano. Fu un frate, p. Elia Germano Cerafogli, col confratello Felice Rossetti,
a perfezionare tutti i passaggi burocratici per
la traslazione.
Così ora De Chirico riposa in una piccola
cappella adiacente e comunicante con quella
chiesa e sulla sua spoglia vegliano tre tele particolarmente suggestive del pittore: un Autoritratto, il Ritratto della moglie Isa (noto
come La dama velata) e la mirabile e grandiosa (185x160 cm) Salita al Calvario, sconosciuta fino ad allora perché custodita nel suo
studio privato. In quella tela si presenta anche
la figura di Francesco d’Assisi che, a occhi
chiusi, medita e sente nelle sue stimmate riprodursi il grande mistero salvifico cristiano. È
proprio sostando idealmente davanti a quella
scena e alla tomba di De Chirico che possiamo
far risuonare la sua nota Preghiera del mattino
del vero pittore, un’orazione intensa e appassionata, venata anche di pacata ironia. Riascoltiamola:
«Mio Dio fate che il mio mestiere di pittore
sempre più si perfezioni.
Fate mio Dio che per mezzo
della materia pittorica
io progredisca fino all’ultimo giorno
della mia vita.
Datemi, mio Dio, intelligenza,
forza e volontà,
per sempre migliorare le mie emulsioni.
Che possano esse diventare sempre
più aiutanti.
Che possano esse dare alla materia
della mia pittura
sempre maggior trasparenza e densità,
sempre maggior splendore e fluidità.
Fate mio Dio che io possa ridare
alla pittura il lustro
che da quasi un secolo essa ha perduto
e pertanto mio Dio aiutatemi sopra
ed anzitutto
a risolvere i problemi pittorici
della mia arte,
ché ai problemi metafisici e spirituali
ci pensan oggi critici ed intellettuali!
Amen».
Gianfranco Ravasi*
* Cardinale, presidente del Pontificio consiglio per la cultura. Il testo che pubblichiamo, per
gentile concessione dell’editore, costituisce l’introduzione al volume (pp. 17s).
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